martedì 24 ottobre 2006

il manifesto 24.10.06
novecento
Gracile, amaro, aspro, le tre note di un'autobiografia
«Volevo la luna» di Pietro Ingrao. Il ritratto privato di un uomo pubblico. Dalla clandestinità antifascista alla lunga militanza nel gruppo dirigente comunista. Dai ricordi dell'amata Laura alle domande sul fallimento del Pci
di Rossana Rossanda


Quando Pietro Ingrao pubblicò, nel 1986, il suo primo volume di versi (Il dubbio dei vincitori, Mondadori) qualcuno si offuscò: ma come, era il dirigente comunista più amato, fermo, il sicuro punto di riferimento nella crisi del partito, ed ecco che rivelava una sua dimensione personale, tumultuosa e inquietante, che cercava un raggiungimento nella forma, era come se dicesse: non appartengo tutto a voi, mia comunità politica.
Oggi, riandando sulla sua vita (Volevo la luna, Einaudi, pp.376, euro 18,75) egli scosta da sé di nuovo l'icona di leader del popolo e padre della patria, infrangibile, quello che nella copertina parla alla folla, il volto asseverativo e la mano alzata in esortazione. L'icona - dicono le sue pagine - è la cristallizzazione forzosa d'un percorso, interiore e pubblico, nel quale, al momento dei bilanci le priorità e i pesi si ridistribuiscono, e molto rischia di apparire vanità. Ingrao sa di essere un uomo pubblico, e ci tiene, anche se gli pare un poco cedere alla lusinga, ma quel che ha raggiunto va soppesato e gli errori vanno ammessi. E' una vita autentica.
Il titolo stesso pone un interrogativo. Voleva l'irraggiungibile o che quel che voleva è rimasto distante? La risposta è sospesa. Penso ai versi di Eluard: «Et s'il était à refaire, je referais ce chemin». Sì, se si trattasse di rifarla, rifarebbe quella strada. Con qualche illusione o protervia comunista di meno. E quale ne è l'esito? Il suo attuale compagno di partito, Fausto Bertinotti, non cessa di citare i versi di Kavafis in Itaca: importante non è l'approdo, è il viaggio. Ma l'approdo dà senso al viaggio. L'approdo di Ingrao è che la rivoluzione degli oppressi contro l'oppressione, che resta da compiere, sarà diversa dall'immaginato dalla sua passata milizia e il suo soggetto sarà plurimo. Per strada rimane, con le sue macerie, il leninismo-stalinismo, coppia di sostantivi che non aveva incontrato ancora. E la violenza.

Un ritiro senza clamori
Diversamente dal suo ultimo lavoro di indagine, Appuntamenti di fine secolo (manifestolibri), che si interrogava prima di altri sulla precarizzazione del lavoro, Volevo la luna scandisce sulla esperienza personale cinquanta anni di storia del Novecento. Dall'infanzia in una famiglia meridionale di signori poveri, contraddizione significativa, alla formazione intellettuale e politica ormai giovane nella (gracile) resistenza romana, alla lunga militanza al vertice del Pci, che diventa nel dopoguerra scontro (aspro) con l'arroganza del ceto dominante e fra i campi in cui il mondo è diviso. Poi sarà la (amara) divisione nel partito, preludio di una più vasta sconfitta, fino alla uccisione di Moro. Perché la morte di Moro? Ingrao non era stato un fervente del compromesso storico, conosceva abbastanza la Democrazia cristiana per dubitarne, lo aveva detto a Berlinguer, non era stato ascoltato e si era fatto da parte. La ragione è interiore: da quell'anno non accetterà più alcun incarico dal Pci, a cominciare dalla presidenza della Camera che il partito gli vorrebbe imporre una seconda volta, dopo avervelo mandato anche per toglierselo dattorno alle Botteghe Oscure. Sente «il bisogno di riflettere sul fallimento della strategia del Pci in Italia», sull'Europa, sul mondo che cambia. C'è da studiare, cercare, capire. E' politica, ma non più un «fare politico». Ingrao, se ha dubitato della «alta febbre del fare», non si è mai illuso su che cosa sia o non sia il fare politico. Si ritira senza clamori. Nel libro sono poche righe asciutte, prima di chiudersi sulla figura solitaria e emblematica del disperso di Marburg nel racconto di Nuto Revelli.
Non è a causa dell'età che chiude con la milizia attiva; ha sì e no sessant'anni e del resto ancora un paio d'anni fa raggiungeva una manifestazione traversando Roma intasata sul sellino posteriore di una motocicletta. Lasciava per il dubbio, lungamente maturato, sulla capacità del partito di intendere il volgere degli eventi e di farvi fronte. Allora non ne ha parlato, né oggi getta la responsabilità su questo o quello. E non perché sia arrivato alla conclusione, credo, che fin dall'origine il tentativo comunista era destinato a fallire, che c'era il verme nel frutto. Nel tramonto della sinistra che è stata anche sua è sempre attento al sorgere di quelli che per primo ha chiamato «i nuovi soggetti». Ma da un pezzo deve aver cessato di credere che il Pci li intendesse, e non crede che qualcuno altro li abbia intesi meglio. Vano, quando non pericoloso, dev'essergli sembrato il tormentarsi degli anni '70. L'aggettivo che gli viene sotto la penna più spesso è ormai «amaro». Ma non ha risentimenti. Anch'egli ha mancato, sbagliato.
Dove? Nella «soggezione» al modo di essere del partito. Essa gli pesa di più che gli errori di analisi e previsione, dei quali esso è una causa. Se oggi non propone una lettura diversa del mutare dei rapporti di forza, dagli anni sessanta in poi, è perché la partita è complessa, non gliene sfugge la dimensione ed è sua ferma convinzione che soltanto un grande partito - non un coacervo di opinione, ma un «intellettuale collettivo» - avrebbe potuto farvi fronte. E neppure sottolinea di aver personalmente affacciato interrogativi e risposte. E' troppo severo con se stesso: molti di noi lo sanno più attento di ogni altro dirigente al mutare delle cose, su cui ha molto ragionato e scritto. Se mai è irresoluto nel trarne le conseguenze quando il partito non le trae. Ingrao è sempre un poco oltre e fuori dalla linea, ma è convinto che non si fa politica da soli. Come se gli parlasse dentro il brechtiano: «Compagno, non avere ragione senza di noi».
Tanto più che c'è una consonanza fra la sua formazione e quella del vertice comunista italiano, in particolare della sua generazione: l'impronta morale, antifascista, nazional-popolare più che marxista, l'acuta sensibilità per gli oppressi più che per gli sfruttati, più per le vessazione dei padroni o dell'apparato repressivo dello stato più che per il meccanismo capitalistico di produzione, che gli appare astratto, dunque pressoché inumano. Umanesimo contro «economicismo» è la «via italiana», e di economicismo mi ha sempre rimproverato. Questo accento, cui è stato piegato (perché piegabile) anche Gramsci e nella discussione interna è malamente tradotto nella contesa fra meridionalisti nazional-popolari e settentrional-cosmopoliti, è stato determinante nel Pci assai più della ubbidienza alla vulgata marxista-leninista dell'Urss. In Ingrao è rafforzato da quello «storicismo assoluto», che è il contrario del determinismo (i popperiani nulla ne hanno capito) e viene dal post-hegelismo filtrato da Labriola e Gramsci. La calorosa scoperta del nonno garibaldino incontra una Weltanschaung segnata dall'intreccio fra risorgimento, antifascismo, democrazia e oppressioni del presente.

Il corpo e il sangue del partito
Nell'esperienza soggettiva, i rapporti nel partito pesano di più delle scelte del partito. La sua è una appartenenza, calda, diretta, imponente. Con la base e con il gruppo dirigente, che non sono la stessa cosa. La base è parente del popolo, della massa, che il vertice interpreta e dirige, sollecita e frena; in essa la memoria ritaglia i singoli, uomini e donne con nome e cognome, con i quali ha condiviso giorni e speranze, allegrie o angosce, azioni e riflessioni indimenticabili. Dagli inizi con il gruppo romano, a mezzo fra generazionale, amicale e politico, e poi - nell'insensato giro della prima clandestinità - con Salvatore di Benedetto che lo nasconde a Milano o il vecchio pastore che lo copre nella Sila. Poi saranno le centinaia di persone, individui compagni, incontrati nei decenni di lavoro a l'Unità o in segreteria o alla Camera (dalla quale Ingrao s'è mosso come nessuno, ricordo un incontro di lavoro collettivo con l'assemblea della Montedison di Castellanza). La base è la pluralità del paese vivente, che si raggruma nelle istituzioni locali, nei comuni, terminali appunto plurimi di tradizione secolare e modernità. Essi sono il corpo, il sangue del partito. Altro è il gruppo dirigente, nel quale Ingrao è proiettato quasi subito. E' un vertice pervaso della propria responsabilità, al quale si è cooptati e nel quale si sperimenta la solidarietà del lavoro comune, un certo senso di missione storica e la discussione quotidiana sul fare. E questa, se spesso converge, altre volte si fa scontro, reso drammatico dalla gerarchia e da un centralismo per il quale il solo balenare di una divergenza sarebbe la catastrofe, spaccherebbe tutto.
Una sola volta Ingrao lo sfida, all'XI congresso, dove presenta un'ipotesi di modello di sviluppo e di alleanze opposta a quella amendoliana (ma nel libro la ricorda appena) e una innovazione di metodo, la legittimazione del dissenso (nel libro il ricordo è vivissimo). Che venga accolto da applausi scroscianti dai delegati poco conta di fronte al gelo del gruppo dirigente. Vuol dire che ha perso; quello è il perimetro vero del confronto. Non tenterà in alcun modo di sollevare o dividere l'assemblea e sopporterà senza reagire la grandine di punizioni che segue su di lui e sui suoi. Non protesta perché ancora oggi pensa di avere violato un interdetto: è vero che eravamo una frazione, scrive. Frazione per aver discusso con quattro o cinque di noi, e per aver confrontato con Lucio Magri il discorso da pronunciare all'XI congresso? Magari ci fossimo mossi come frazione, non lo abbiamo fatto. Non abbiamo cercato di riunire una sola volta i compagni che sentivamo più vicini. Conoscevamo tutti e ci conoscevano tutti, sarebbe stato uno scontro acerbo, ma non ci fu. Ci fu la sua solitaria sfida. Ogni «ingraiano» si mosse da solo, più o meno felicemente, per rispetto di un leader che pareva volere tutto il partito o niente.
Sarà così anche più tardi, dopo la caduta del Muro di Berlino, cui queste memorie non arrivano. Ingrao rifiuta il cambiamento del nome del partito, sa che vuol dire cambiamento di identità e collocazione. Ma quando si coagulano attorno a lui le speranze di una rottura e ricominciamento - una Rifondazione diretta da lui invece che da Armando Cossutta - non se la sente. Il compagno Ingrao non è uno scissionista. La passione urta con il metodo, introiettati tutti e due. Metterà per l'ultima volta tutto il suo peso contro la guerra del Golfo. Poi uscirà dal partito, da solo, senza consultare nessuno.

La ferrea appartenenza
Oggi sente questa immobilità come una colpa, ma più per alcune discriminanti d'ordine etico che su questa o quella analisi da cui pure dipendevano il presente e il futuro del Pci. Il suo giudizio sui compagni della direzione è generoso, fin indulgente con chi gli aveva fatto guerra, come Amendola di cui ricorda una brutta minaccia senza farne il nome. Soltanto da uno di essi si sente lontano, Togliatti, che non chiama «il compagno Togliatti». Lo chiama «quel capo». Quel capo ha mentito, tacendo o parlando, quel capo ha brindato all'invasione di Budapest, quel capo ha impedito la discussione sul 1956 definendola come un attacco contro lui medesimo e con ciò azzittendo tutti. L'Ingrao di oggi non si perdona di aver taciuto, peggio di avere scritto a favore dell'invasione dell'Ungheria - eppure non taceva per viltà, ma per patita (aspra, amara) condivisione del metodo interno, per una contraddizione fra due principi di lotta. Molti anni dopo fu il solo comunista di rilievo che intervenisse al secondo convegno de il manifesto sull'est, dove di perifrasi non se ne usava nessuna. Ma era il 1981 ed egli era fuori del gruppo dirigente.
Tale è la priorità delle relazioni. In un partito o in un gruppo essa significa appartenenza. Un tempo noi dicevamo più freddamente adesione. Appartenenza è un legame più profondo, comporta vincoli che la mera razionalità non sospetta. Ingrao si accusa di tradimento per aver votato nel 1969 la esclusione del gruppo de il manifesto dal Comitato centrale. Ma quale tradimento? Era evidente che non avrebbe partecipato alla nostra impresa. Non aveva approvato i pochi di noi che erano riusciti a parlare dalla tribuna del XII congresso. Quando gli dicemmo della rivista ci ammonì che, malgrado la rassicurazione di Berlinguer, saremmo stati sicuramente sanzionati. Ci separammo nel modo più limpido e amichevole. Se qualcuno si sentì abbandonato fu molto più tardi, dopo il 1989, ad Arco, quando con qualche ragione si attendeva da lui il lancio di un nuovo inizio.
Per questo ultimo Ingrao, che «parte da sé», la relazione con l'altro vivente, persona o gruppo, è il rapporto essenziale, attraverso il quale filtra la verità dell'esperienza pubblica e privata. E' questo che fa sbiadire nelle sue pagine i lineamenti della posta su cui volta per volta si è giocato il destino nostro, e del paese, ed oltre di esso: quale era la discriminate che si profilava dopo la morte di Togliatti, che è stato realmente il partito di Berlinguer, quale consistenza aveva, al di là dei colloqui di vertice, l'incontro fra Dc e Pci, cattolici e comunisti, come si è andata disegnando la crisi dei socialismi reali e la risposta di un neoliberismo alle insorgenze degli ultimi anni '60 e dei '70 - come matura insomma, attraverso quali passaggi, la crisi epocale del comunismo. Le sue pagine echeggiano il rombo del mondo come si sente il frastuono d'una mareggiata, disegnano i grandi motivi della umana sofferenza e del riscatto; non li analizzano più. Il tempo delle scelte è passato.
Di assoluto e dolce resta la famiglia, radice e luogo del ritorno. Laura, la compagna della vita, Laura spesso più forte e avvertita di lui (non perciò le dà retta, sempre maschio italiano è), Laura che risolve, Laura madre che se la deve sbrigare con i loro cinque rampolli, Laura che è la passione e l'occhio indulgente. E le figlie, tramite fisico del 1968 romano, conosciuto soltanto attraverso di loro, il figlio cui ha dato il suo nome nella resistenza (e neanche questo Togliatti aveva capito), la grande tribù degli Ingrao nella grande vecchia casa a Lenola. E poi gli scorci di fogliame e sole e mare che irrompono negli anni e nel ricordo, la felicità del corpo. E' il primato della persona in una esperienza che più pubblica non sarebbe potuta essere.
Questo è Pietro Ingrao visto oggi da Pietro Ingrao. Poi ce ne è un altro, simile e dissimile, quello che ha traversato dall'interno la prova politica di molti fra noi. La serie di ritratti che gli fece negli anni Ottanta Alberto Olivetti, e sono stati troppo brevemente esposti all'Auditorium di Roma in occasione dei suoi novanta anni, dicono di lui più delle migliaia di fotografie che ne accompagnano l'itinerario come una scia.

Camera dei Deputati
resoconto stenografico del discorso di Fausto Bertinotti sulla rivolta di Budapest del 1956


PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui l'intera Assemblea ed i membri del Governo). Celebriamo in questo Parlamento - in questa Camera dei deputati -, cinquant'anni dalla rivolta di Budapest, dalla rivolta del popolo ungherese e dalla drammatica repressione operata dall'Unione sovietica. Celebriamo un capitolo di una storia grande e terribile, un accadimento importante e tragico nella storia dell'Europa contemporanea.
In quest'aula siedono rappresentanti del popolo italiano: ci dividono analisi e giudizi politici sul '900, sui protagonisti politici e statuali della seconda guerra mondiale e della lotta contro il nazifascismo; ma tutto questo non deve impedirci di condividere la verità storica di quegli avvenimenti. Faremmo così un atto importante anche per noi e per le istituzioni della Repubblica. È importante perché una storia condivisa consolida le istituzioni democratiche; il ricavare dalla lezione della storia contemporanea principi comuni che vengono a costituire un patrimonio che irrobustisce la vitalità della Costituzione e della Repubblica, è un atto politicamente significativo. E tutto questo rende significativo l'omaggio alla memoria delle vittime della repressione.
Quando mi è toccato di depositare i fiori donatimi dal Presidente dell'assemblea del Parlamento ungherese sulla tomba di Imre Nagy, avevo la consapevolezza di poterlo fare a nome dell'intera Camera dei deputati. Gli insorti di Budapest e dell'Ungheria del 1956 sono stati vittime di una repressione ingiustificabile. In primo luogo, il nostro è dunque il ricordo di una immane sofferenza: le uccisioni sulle strade, i processi politici, le impiccagioni, ma anche la diaspora che ha colpito il popolo ungherese.
L'Istituto italiano di cultura a Budapest ha organizzato una mostra fotografica, spero di poterla portare qui alla Camera dei deputati, perché in molti possano vedere quei volti, di operai, di intellettuali, di donne e di giovani; i volti sui quali si legge ora la speranza, ore il dolore, ora l'indignazione per il tradimento subito. Si legge il dramma di un popolo.
Gli insorti del 1956 in Ungheria non sono solo vittime della storia, ma sono anche portatori di futuro della storia, quale che fosse la natura politica di quella rivolta. Si è detto - è una formula che è ritornata spesso -, che quella rivolta è stata per i liberali una rivolta socialista e per i socialisti una rivolta liberale. Io condivido la definizione di Imre Nagy, è stata una rivoluzione nazionale e democratica. Penso che potremmo accordarci su questa definizione.
In realtà, la definizione non è di Imre Nagy, ma di Geza Losoncsy e non lo cito per qualche inutile pignoleria storica, ma per ricordare uno dei tanti leader di quelli insorti, simbolo, attraverso la sua storia personale di una tragedia che ci aiuta a ricordare che tempi terribili erano questi. Losoncsy entra in carcere sotto il regime reazionario succeduto al crollo della Repubblica del Consiglio; comunista combattente contro il nazismo, entra in carcere sotto il comunista Rakoczy, vive l'esperienza del circolo Petofi, che alimenta le speranze che poi saranno raccolte dall'insurrezione; guida gli insorti, torna in carcere dopo la caduta legittima del Governo di Nagy e viene ucciso mentre, con un ultimo tentativo di sciopero della fame, manifesta la sua determinazione per le libertà e per la democrazia.
Non è stata solo quella la storia eccezionale di una persona o dei leader politici e intellettuali, è stata la storia che ha coinvolto un popolo; quel popolo che è diventato protagonista, nel 1956, di una rivoluzione nazionale e democratica a cui noi qui porgiamo l'omaggio più impegnato: una rivoluzione democratica e nazionale che così entra a costruire la storia dell'Europa contemporanea.
La repressione e l'occupazione da parte dell'Unione Sovietica, ordita con l'inganno nei confronti del legittimo rappresentante del popolo ungherese, si è macchiata di una grave ed indelebile colpa storica: ha distrutto la speranza di una riforma democratica, ha calpestato i diritti di un popolo ed i diritti della persona.
Ora, c'è una lezione che io credo valga per tutti, per oggi e per domani: il potere non può essere difeso, per nessuna ragione, senza e contro il consenso popolare. Nessuna civiltà, nessun ordinamento politico può essere esportato con le armi senza tradirne le sue stesse ragioni.
Noi qui celebriamo l'insurrezione del 1956 in Ungheria e credo che possiamo dire, a nome di tutti, che, così, stiamo facendo il migliore omaggio agli insorti e la più dura condanna ai repressori: i vinti di ieri sono i vincitori di oggi.
I vinti di ieri ed i vincitori di oggi sono entrati nella storia dell'Europa, e noi dovremmo prendere l'impegno, per esserne in qualche misura degni, di costruire un'Europa in cui viva il protagonismo dei popoli, la partecipazione e la democrazia, affinché sia sempre viva la lezione degli insorti di Budapest. Grazie

Liberazione 24.10.06
Che ci faceva il presidente del Consiglio (coi ministri Bindi e Fioroni) alla messa di Ratzinger?
Per quei fischi “papalini” a Prodi mi sono indignata: non coi fischiatori, con Prodi
di Imma Barbarossa


Devo confessare che lo spettacolo di Prodi fischiato dai congressisti ecclesiali di Verona non mi ha suscitato alcun moto di solidarietà, anzi una sorta di indignazione, meno contro i fischianti, più verso il primo ministro stesso.

Gazzarra orchestrata o no, seguaci di Galan o no, è certo che quel popolo di fabbrichette e partite Iva, anche devotamente accorso al richiamo cardinalizio e papale, non tollera che gli si mettano le “mani in tasca” e non brilla di cristiana solidarietà verso quel poco di riequilibrio fiscale contenuto nella finanziaria.

Ma quello che ci dovrebbe indignare è che il capo del nostro governo, cioè del governo della Repubblica Italiana democraticamente laica e due ministri del medesimo governo siano andati a genuflettersi all’autorità vaticana e a farsi dettare ancora una volta la linea sulla scuola e sulla famiglia. Non due ministri a caso, ma i due responsabili di quei dicasteri la cui produzione legislativa sta tanto a cuore alla Curia pontificia, alla Cei e al papa medesimo.

Ratzinger non si occupa dei temi “sociali”, fame nel mondo, povertà, sfruttamento delle risorse naturali, ricchezze smodate ai danni della maggior parte della popolazione del pianeta. A Ratzinger non interessano la violenza contro le donne, i preti e i cardinali pedofili che la Chiesa cattolica ha sempre cercato di coprire. No, a Ratzinger interessano squisite dispute teoriche su quale delle tre religioni monoteistiche abbia un fondamento razionale. Ovviamente quella cattolica, nella quale la ragione guidata da Dio si avventura a costruire una vera e propria antropologia umana con l’ambizione di porsi a norma di vita e di comportamento erga omnes, anche per i non credenti. Ut deus daretur, come se dio ci fosse.

La religione cattolica a questo punto si sposa col potere temporale e potere spirituale e potere temporale si fondono come ai tempi di Bonifacio VIII: Dante preferì l’esilio piuttosto che inchinarsi al potere dei papi, i nostri cattolicissimi ministri invece si fanno dettare la linea. Scuola cattolica, famiglia normale e non deviata, scienza ligia ai dettami cattolici (Icaro si bruciò le ali di cera per essersi avvicinato troppo al sole, Eva volle cogliere il pomo dall’albero della conoscenza e fu la causa dei mali dell’umanità), niente unioni civili, niente Pacs, la vita comincia dagli embrioni, e tutto l’armamentario della dottrina. I nostri governanti hanno rinfrescato la memoria e tornano al di qua del Tevere decisi ad applicare i sacri dettami, con una laicità sana e controllata.

Hanno ricevuto una sorta di tavola della legge, per «fronteggiare (sic!) il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentalmente valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano». Ecco la vera trappola: i valori cattolici diventano valori naturali e perciò validi per tutti gli esseri umani. Ma di quale natura parla Ratzinger?

Guerra, dominio, sfruttamento, colonizzazione, patriarcato: siamo sicuri che appartengono alla natura umana? Non fanno parte piuttosto, di quelle costruzioni storiche soggette ai conflitti di classe e di genere?

Io credo che dovremmo mettere al centro della nostra lotta politica anche l’analisi del patriarcato cattolico, del suo sfrontato estremismo. Devo dire che la mozione bipartisan del Senato di solidarietà al papa, inserita in questo presente, mi suscita forte imbarazzo e un senso di vergogna. Che preoccupazione abbiamo? Di sembrare maleducati, grossolani, abbarbicati al vecchio anticlericalismo? Non rischiamo invece di essere come gli altri vogliono che siamo?