giovedì 26 ottobre 2006

il Riformista 26.10.06
Caino. I dati del ministero smentiscono molti luoghi comuni
L'indulto è stato davvero il disastro che si dice in giro?
di Tommaso Labate


Dopo l'approvazione dell'indulto, c'è un clima da allarme rosso. Anche tra gli elettori del centrosinistra. Siamo sicuri che sia un allarme del tutto giustificato?
Prima che l'indulto venisse approvato, associazioni come “Detenuto ignoto” si vedevano recapitare lettere come quella che un giorno arrivò direttamente dal carcere di Pordenone. «Qui siamo in sei persone in cella, mentre dovremmo essere in tre. La cella è molto piccola, a noi manca veramente il respiro. Sulle finestre ci sono le “plastiche” che tolgono ogni visuale e non fanno entrare nemmeno un filo d'aria». Dopo l'approvazione dell'indulto, il detenuto sanremese Carlo B, anni 35, finito in prigione per detenzione e spaccio di droga e scarcerato grazie al provvedimento di clemenza, si è recato ai giardini pubblici e ha rapito il figlio di un anno e mezzo, affidato per alcune ore a una baby sitter amica della moglie.
Prima che l'indulto venisse approvato, dalla II sezione del carcere di S. il detenuto L. scriveva: «Siamo chiusi in cella 21 ore al giorno, senza neanche lo spazio fisico per stare in piedi, senza corsi professionali, né scuole superiori e inferiori dell'obbligo. Siamo ostacolati in qualsiasi iniziativa, e buttati volontariamente in istituti lontani dalle nostre famiglie. Ora vi chiedo: dov'è la volontà di recuperarci?, perché non prendono forma le belle idee, che alcuni dicono di voler attuare solo nei periodi pre-elettorali?» Dopo l'approvazione dell'indulto, a Napoli, Domenico D'Andrea detto Pippotto - insieme ai fratelli Pasquale, Antonio e D. Palma (quest'ultimo minorenne) - durante un tentativo di rapina ha accoltellato a morte Salvatore Buglione, edicolante. Pippotto e uno dei tre fratelli Palma giravano tranquillamente per Napoli dopo essere stati scarcerati grazie all'indulto.
Piero Fassino, anche per la sua esperienza da Guardasigilli, conosceva benissimo la drammatica situazione delle carceri italiane prima dell'indulto. Per questo, come deputato e segretario dei Ds, è stato tra i più strenui difensori del provvedimento di clemenza. La stragrande maggioranza degli elettori e dei militanti del suo partito, invece, hanno maturato le loro convinzioni (negative) sull'indulto con quello che è successo dopo. I «compagni» che hanno contestato il «compagno segretario» alla festa dell'Unità di Roma e gli elettori che - stando alle rilevazioni demoscopiche - non voterebbero più l'Ulivo «a causa» dell'indulto, hanno ragionato, riflettuto e si sono «fatti un'idea» pensando non al respiro che manca ai detenuti di Pordenone. Né alla drammatica situazione in cui versava la seconda sezione del carcere di S. L'opinione pubblica, anche quella diessina, contesta, fischia, boccia i protagonisti dell'accordo che dato il disco verde all'indulto per il sequestro di cui si è reso responsabile Carlo B. e la morte dell'edicolante napoletano per mano di Pippotto.
Al Botteghino avvertono un allarme che Fassino ha declinato in questo modo. «I cittadini non apprezzano quei provvedimenti che appaiono espressione di un vecchio modo di governare. Così è stato per l'indulto, percepito come un provvedimento di sola emergenza, rischioso per la sicurezza dei cittadini e capace di rimuovere le cause della stessa emergenza carceraria».
Vecchio o nuovo che sia, il modo di governare (e di scegliere) di chi siede in Parlamento ha prodotto risultati. Con ricadute, almeno stando ai dossier del ministero della Giustizia, anche virtuose. La proiezione nel lungo periodo del dato provvisorio relativo ai «rientrati in carcere dopo aver beneficiato dell'indulto» (fino ad oggi il 3,5%) è non solo rassicurante, ma addirittura molto al di sotto della percentuale fisiologica. Non solo: il numero di arresti nell'ultimo trimestre del 2006 (quello dell'indulto) è diminuito rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. «Nessuno pensa che sia merito dell'indulto. Ma certo non si può dire che il provvedimento di clemenza abbia peggiorato la situazione», commenta il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi.
Sulla strada di Piero Fassino - e con lui di tutti i rappresentanti del governo, della maggioranza e dell'opposizione che hanno raggiunto l'accordo sulla clemenza - c'è un dilemma: guardarsi indietro o guardare avanti? Indietro c'era la necessaria approvazione di un provvedimento urgente ormai da anni. Davanti ci sono altri interventi legislativi che faranno fare all'Italia un passo in avanti. Sul fronte dei diritti civili (e quindi sull'emergenza carceri) e anche su quello della sicurezza dei cittadini. Tanto per fare un esempio, gli sgravi fiscali per chi fa lavorare gli ex detenuti - previsti dalla legge 193 del 2001 (nota come “legge Smuraglia”) - al momento non hanno copertura finanziaria. È solo una delle tante questioni che andrebbero prese di petto. Perché l'indulto, senza provvedimenti di sostegno, non risolve il problema. Per non tornare in una situazione di emergenza potrebbe servire un passo in avanti. Non uno indietro.

il manifesto 26.10.06
Intervista
«O noi o le avventure di Confindustria»
Franco Giordano avverte Prodi: «Se continua a dare ascolto a Montezemolo il Prc non può più starci»
Il segretario di Rifondazione: la nostra presenza nel governo è servita a limitare i danni e ad ottenere qualcosa, la Finanziaria è meglio del Dpef. Ma adesso la «fase due» vogliamo dettarla noi
Il principale fattore di instabilità per il governo è il Partito democratico. Un'avventura centrista sarebbe deflagrante per i Ds e anche per la Margherita. Adesso chiediamo risorse certe per scuola, università, pubblico impiego e abolizione dei ticket

di Gabriele Polo


«Questa è una brutta botta». L'intervista a Franco Giordano è appena finita, quando arriva la notizia della bocciatura parlamentare del decreto che avrebbe dovuto bloccare gli sfratti. Il governo è andato sotto al senato e il segretario di Rifondazione comunista incassa il colpo proprio su un tema che sta a cuore al suo partito. Notizia negativa in sé, ma anche per il quadro politico in cui si inserisce. Il governo fibrilla sulla Finanziaria, all'orizzonte si riaffaccia prepotentemente, sulle ali dell'asse Confindustria-Corriere della Sera, il fantasma centrista. E Rifondazione rischia grosso, perché ha giocato tutto sul binomio Prodi-piazza: stare nel governo per dare una svolta istituzionale all'era liberista-berlusconiana e, contemporaneamente, stare nei «movimenti» per premere sul Palazzo. Ma nonostante le cattive notizie e una quadro politico preoccupante Giordano è convinto di non essere stato messo all'angolo. Anzi.
Rifondazione è sotto tiro: Confindustria chiede che il governo tagli i ponti a sinistra e nell'Unione sono in molti ad ascoltarla. Eppure, paradossalmente, siete stati più che comprensivi per la Finanziaria, che non è propriamente un proclama dei Soviet e che alle imprese «qualcosina» ha dato. Come spieghi questa situazione?
Perché dal passaggio dal Dpef alla Finanziaria un ruolo noi lo abbiamo svolto, contenendo i danni e ottenendo cose visibili. Anche se non tutto ciò che vorremmo. L'attacco di Confindustria punta ad aprire una linea di credito per gli appuntamenti successivi: la partita sulle pensioni che è nel loro interesse diretto per i fondi pensione, e quella sulla cosiddetta competitività dove chiedono la flessibilità degli orari, cioè più precarietà del lavoro.
Sull'annunciata nuova riforma delle pensioni che farete?
Saremo netti. Nel programma dell'Unione c'è scritto che non bisognerebbe più parlare di riforma delle pensioni. Di qui una promessa: se qualcuno pensa di chiedere un aumento generalizzato dell'età pensionabile diremo no. Come siamo contrari all'abbassamento dei coefficienti che servono a determinare i rendimenti delle pensioni. Al contrario, bisognerebbe partire dall'aumento dei minimi, visto che la metà delle pensioni Inps sono di 337 euro.
Se questo è il merito, è chiaro che su di esso c'è un gioco politico che tende a escludervi. Non è che mentre nel '98 ve ne siete andati voi dal governo, oggi vi cacceranno?
Mi sembra che una prospettiva centrista sia un po' avventurista, difficile pensare che sia realizzabile, sarebbe deflagrante, soprattutto per Ds e anche per la Margherita. Ciò che è assurdo è il fatto che per la prima volta nella storia la Confindustria presenti una proposta politica chiara, centrata sul punto di vista dell'impresa, chiedendone una traduzione istituzionale. Questo è uno scenario avventuristico e ancora immaturo, ma viene usato come frusta per condizionare le politiche sociali, mettendo da parte il programma dell'Unione. Per difenderci serve una ripresa della conflittualità sociale: l'appuntamento del 4 novembre contro la precarietà è decisivo nel merito ma anche per il quadro politico e per far valere al suo interno le richieste del movimento. In questo caso quello contro la precarietà.
Eppure i partiti sembrano più attenti ai loro riassetti, dal Partito democratico a ciò che accade anche a casa vostra, con la Sinistra europea. Non è che questo autismo sociale e la centralità politicista finiranno per far implodere un governo sostenuto da una coalizione così eterogenea?
Il principale fattore di instabilità per il governo è la costituzione del Partito democratico, perché la sua natura è oggetto di tensione permanente. Quell'ipotesi trascina con sé un modello americano di società che riduce la soggettività politica delle organizzazioni sociali - in primo luogo i sindacati - cosa che costituisce la peculiarità del caso italiano. Un'operazione di questo tipo - che schiaccia l'ipotesi del Pd sul governo - rompe lo schema che ha costruito l'Unione e il suo programma. E la prima a soffrirne sarebbe proprio la base sociale, culturale e politica dei Ds. Il discorso non vale per la Sinistra europea perché la sua costruzione non è schiacciata sulla pratica del governo. Anzi, ne è completamente autonoma.
Ma per riprendere il programma dell'Unione che sta alla base della vostra presenza nel governo, che intendete fare da subito? Qual è la vostra fase due, dalla Finanziaria in poi?
Mettere in discussione la logica del cuneo fiscale, che a noi non piace nel merito, premere per ottenere più fondi per la scuola e l'università, risorse certe per il contratto del pubblico impiego, abolire i ticket, stabilizzare il lavoro precario. Se invece si continua a dare ascolto alla Confindustria, noi non possiamo più starci. Semmai ridistribuiamo il reddito facendo sì che, attraverso nuove aliquote fiscali i lavoratori dipendenti sotto i 45mila euro ci guadagnino qualcosa.
E sull'Afghanistan, l'altro nodo del dopo Finanziaria?
Sul piano internazionale questo governo ha offerto alcuni segni di discontinuità con quello precedente, a partire dalla missione in Libano. Bisogna tirarne le fila puntando a dare uno stato ai palestinesi e trainando l'Europa su questo obiettivo. Per quanto riguarda l'Afghanistan, dove c'è una guerra, dobbiamo ritirare le truppe. So che le opinioni nel governo sono diverse e allora non voglio porre la questione in termini di principio, ma pragmaticamente: restiamo in Afghanistan con la cooperazione civile, sorretta da maggiori risorse economiche e ritiriamo le truppe che servono solo a partecipare a una guerra.
Torniamo alla politica interna. Sembri più preoccupato per le pressioni di Confindustria nel merito che per la loro traduzione in una nuova maggioranza, come se il neocentrismo fosse molto lontano. Sbaglio?
No, non sbagli. Mi preoccupa la pressione esterna perché temo che in assenza di un programma moderato, qualcuno - la Confindustria in economia e la Chiesa sui diritti civili - lo fornisca dall'esterno ai moderati della coalizione. Perché da sole le forze neocentriste oggi non ce la fanno e sono sempre alla ricerca di forme di legittimazione.
Veniamo a Rifondazione: stando al governo rischiate di pagare dei costi. Vedi segnali di scollamento nel partito e di consenso nell'elettorato?
A me sembra che la nostra presenza nel governo sia servita, insisto, a limitare i danni possibili, a partire da ciò che sarebbe stato il Dpef tradotto pari pari in Finanziaria. Ora per noi si tratta di dare un profilo e un'identità sociale a questo governo e i primi mesi del prossimo anno saranno decisivi. Questa è la nostra sfida, ma non ci faremo mettere nell'angolo né dalla sindrome del «governo amico», né da quella del «governo nemico». Per noi il governo è un mezzo, non un fine. Dopodiché stiamo tentando una rivoluzione culturale per dar vita a una nuova forma della politica, a partire dal radicamento nel territorio e dalle pratiche concrete della sinistra di alternativa. E' l'opposto, anche nel metodo, di come si sta costruendo il Partito democratico.
Ma dentro questa costruzione, cosa significa partito comunista, pur rifondato?
La centralità della conquista del potere è stata superata, l'accento va sulle trasformazioni sociali, l'anticapitalismo ne deve essere l'asse. Il grande valore dell'uguaglianza va integrato con il tema della differenza e non va mai disgiunto dal valore della libertà, dalla liberazione dagli asservimenti. Ci diciamo comunisti a partire dalla critica dell'esperienza del socialismo reale e nella verifica della trasformazione anticapitalista.
Più facile farlo dall'opposizione che dal governo...
Cerchiamo di fuoriuscire dall'ossessione del governo, che ci si stia dentro o fuori.

l'Unità 26.10.06
Umano, poco umano
è la natura a vincere
di Giovanni Jervis


SCIENZE UMANE Non ci sono più l’antropologia e la psicologia di una volta: oggi sono la biologia, la zoologia e persino l’economia ci spiegano il comportamento dell’uomo. Lo psichiatra Giovanni Jervis lancia l’allarme ai colleghi

Se prendiamo in considerazione, in via del tutto generale, il panorama internazionale delle scienze umane, ci rendiamo conto di un profondo cambiamento sopravvenuto negli ultimi decenni.
Si può ben dire che sia cambiata l’antropologia di base: l’immagine della natura umana si è modificata perché ha dovuto fare i conti con un nuovo naturalismo. Sul terreno scientifico, gli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo hanno visto il progressivo consolidarsi delle prospettive neo-darwiniane; su un terreno più genericamente culturale, la media cultura ha registrato il sentimento pervasivo di una maggiore vicinanza, di un maggiore coinvolgimento reciproco, fra il destino storico dell’uomo e le vicende della natura. Sul terreno filosofico, infine, la crisi dell’idealismo si è accentuata col vanificarsi dell’antropocentrismo metodologico.
Una profonda ristrutturazione di temi e di categorie ha caratterizzato le discipline psicologiche, cioè la psicologia scientifica e applicativa, la psicoanalisi, la psichiatria. Le tematiche psicoanalitiche sono scomparse dal dibattito scientifico internazionale, pur persistendo all’interno di alcune zone culturali nazionali; la psichiatria è stata riassorbita nelle scienze mediche; infine, sono stati soprattutto i fondamenti di ricerca e di metodo della psicologia a perdere una fisionomia classicamente riconoscibile. Da un lato la psicologia, vista nel suo insieme, sembra scomparire, riassorbita in varie zone all’interno di due grandi raggruppamenti disciplinari, cioè le scienze cognitive e le scienze del comportamento. Da un altro lato, non ha precedenti lo straordinario incremento di conoscenze proprio sui temi classici della psicologia: la costruzione del comportamento (animale e umano), lo strutturarsi primario di conoscenze e ricordi, le vicende della soggettività. Tutte le carte sono state rimescolate, e lo prova il fatto che alcune fra le più importanti acquisizioni degli ultimi decenni non sono merito di psicologi ma di zoologi, biologi e genetisti, studiosi del cervello, linguisti, sociologi, economisti.
Fino agli anni ’80 i problemi più complessi e difficili della psicologia non erano ancora stati affrontati a fondo e meno che mai chiariti da parte della ricerca sistematica: per esempio e tipicamente, la struttura della coscienza, le emozioni e gli stati disposizionali (come le aspettative e le credenze), i meccanismi di inganno e di autoinganno, gli errori della memoria, la nascita e lo strutturarsi dei sentimenti di obbligazione e degli obblighi morali, la natura dell’ altruismo. A lungo era stato dato per scontato che temi del genere non potessero essere investigati in modo soddisfacente dalle scienze sperimentali: era stato quindi lasciato un ampio spazio a ricerche empiriche non sistematiche, come quelle degli psicoanalisti, nonchè a rielaborazioni più astrattamente intellettuali, come quelle classiche del lavoro «di biblioteca e di poltrona» dei filosofi.
Da alcuni anni, però, tutto è cambiato: la ricerca scientifica si è impadronita di campi che in precedenza sembrava che non fossero di sua competenza e ha prodotto non solo risultati ma anche, e soprattutto, nuove prospettive.
Esiste certamente in questa rivoluzione epistemologica il rischio di un nuovo più sofisticato riduzionismo: con questo si rafforzano i dubbi e le inquietudini di coloro che temono il trionfo di una razionalità tutta strumentale, orientata verso un futuro dominato dai tecnocrati. Il concreto timore che il trionfo della specie umana su questa terra conduca verso la distruzione delle risorse ambientali e verso rischi crescenti di immani stragi di guerra si lega alla sensazione che la nuova antropologia scientifica, perdendo ogni contatto con i valori che hanno caratterizzato la cultura umanistica, prepari scenari di universale cinismo. È probabile che esista questo pericolo, ed è bene che se ne discuta: occorre però che questa discussione avvenga fra persone che posseggono un minimo di informata consapevolezza circa le caratteristiche delle nuove ricerche.
Che ci piaccia o no le scienze umane, e dunque in primo luogo la psicologia, la sociologia e in qualche misura anche la scienza economica, non sono più quelle di vent’anni or sono. Il mutamento principale rispetto all’impostazione tradizionale consiste probabilmente in questo: è giunto oggi al suo più radicale compimento il processo di decentramento della soggettività che aveva avuto le sue tappe storiche in Copernico e Galileo, in Darwin, in Freud. Un presupposto metodologico che era stato dato per autoevidente, quello dell’ assoluta diversità della natura umana rispetto a quella animale, e che in quanto postulato indiscusso aveva costituito uno dei pilastri della filosofia occidentale da Aristotele a Heidegger, è andato definitivamente in frantumi.
A questo proposito credo occorra convenire sull’ ipotesi che la cultura italiana, presa nel suo insieme, accusi un ritardo rispetto al dibattito internazionale. Nel nostro Paese scontiamo l’assenza di una diffusa cultura scientifica, la marginalizzazione delle nostre università nel panorama mondiale, una tradizione filosofica poco attenta ai problemi epistemologici e ancora oggi pesantemente segnata dall’idealismo, una saggistica non priva di compiacimenti retorici, un dibattito etico dominato dallo spiritualismo cattolico.
Persiste il disinteresse di molte persone intelligenti e istruite per le conoscenze scientifiche. Ci si potrebbe chiedere se si tratti solo di una competizione fra grandi tradizioni di pensiero (umanisti contro scienziati) ma non pare che sia esattamente così: il problema consiste, almeno in parte, in una questione pura e semplice di aggiornamento. I grandi classici del Novecento hanno sempre qualcosa da insegnarci ma sono rapidamente divenuti più remoti: ormai né Freud né Jung o i loro allievi, né Husserl né Piaget, nè i primi etologi, come Lorenz, e neppure i pionieri della sociobiologia, come il Wilson degli anni ’70, ci forniscono tutte le idee di cui abbiamo bisogno, gli stimoli critici più attenti e utili a capire noi stessi e il procedere attuale delle scienze umane. Negli ultimi decenni nuove generazioni di ricercatori hanno imposto i loro temi e la loro intelligenza.
Il problema ha, peraltro, un aspetto più generale. Riguarda infatti il rapporto fra le culture specialistiche (soprattutto in ambito scientifico) e i discorsi comuni, a carattere non specialistico e a sfondo intuitivo o «di buon senso». La psicologia scientifica giunge talora a risultati anti-intuitivi e perfino apparentemente paradossali. Molti umanisti non realizzano che la psicologia intuitiva è come l’astronomia intuitiva: così come siamo inclini a credere che il sole giri intorno alla terra e che la terra stia al centro dell’ universo, anche l’autocoscienza umana viene presa intuitivamente come un dato primario, e ormai non è più sufficiente a correggere questa ingenuità il ricorso all’inconscio di Freud. Esistono ancora, da noi, umanisti più affezionati alle idee del Seicento (quelle di Descartes beninteso, non quelle di La Fontaine) di quanto siano interessati ad aggiornarsi, così come esistono persone dalle molte letture che credono ancora che la differenza fra l’uomo e gli animali stia nel fatto che il primo ha l’esclusività assoluta della coscienza, della morale e delle previsioni razionali.
Per discutere in modo tale da poter imparare gli uni dagli altri occorre liberarsi di alcuni pregiudizi.
Anziché svalutare la società e l’ambiente storico a favore del tradizionale determinismo biologistico, i nuovi indirizzi scientifici dimostrano che il comportamento umano e le vicende della soggettività emergono come un mondo complesso, non linearmente deterministico ma legato a fattori fluidamente probabilistici, dove le stesse predisposizioni genetiche, anziché essere segnali di meccanica fatalità, manifestano i loro effetti sulla vita concreta in via strettamente subordinata a variabili ambientali.
Anche fra chi è immerso ogni giorno nelle indagini di laboratorio non vi è chi dubiti che, in quanto esseri umani, noi tutti siamo impregnati di cultura e plasmati dalla storia dei secoli. E peraltro, ogni giorno la ricerca ci mette di fronte a scoperte straordinarie sui meccanismi della vita e nuovi dati confermano la verità di quel che pensava Darwin, e cioè che anche noi siamo fondamentalmente una specie animale. Questo non significa però che le nostre disposizioni di base siano egoisticamente ferine: come hanno dimostrato una serie di ricerche affascinanti, noi siamo naturalmente predisposti alla cooperazione, e in taluni casi anche all’altruismo; e se è vero che siamo una specie sociale, l’evoluzione della socialità umana ha dato luogo a fenomeni nuovi nella storia del mondo e nel panorama della natura.
Si tratta però a questo punto di capire meglio i rapporti che intercorrono fra socialità e naturalità, ed è ovvio che molto rimanga ancora da indagare e da chiarire.
Nei prossimi anni le scienze umane dovranno tenere conto della sfida che proviene dal nuovo naturalismo, e intervenire con rinnovata vigilanza sui più evidenti punti di pericolo: scientismo acritico, tendenza alla manipolazione incontrollata della natura umana, perdita di contatto con la grande tradizione umanistica. Ma la prima condizione è che si conoscano gli aspetti principali delle attuali acquisizioni sul terreno della ricerca sperimentale.

l'Unità 26.10.06
Giovani, non perdetevi in un bicchiere
di Giovanni Bollea


L’adolescenza dagli 11 ai 18 anni è l’età più problematica di tutta l’età evolutiva e attualmente la più disturbata. È il momento del distacco dal nucleo familiare, dei nuovi amici, della maggiore difficoltà scolastica. Delicato il primo distacco dalla famiglia, le prime amicizie, i nuovi compagni, gli amici del cuore, le prime esperienze amorose, le prime delusioni: è il periodo classico dei vari tipi di depressione.
A 18/19 anni c’è la paura del distacco, per l’entrata nella vita adulta. L’adolescente deve essere perciò aiutato, guidato, indirizzato.
Anche se abitualmente si dedica a interessi positivi come lo sport e la musica, bisogna capire e indagare se rincorre anche la droga sia come divertimento e curiosità iniziali, sia come «medicina» alle sue frustrazioni. Ma in Italia l'adolescente, dopo i 15/16 anni usa già l'alcool nelle sue varie forme.
Invano abbiamo gridato per anni che l'alcool è un distruttore delle cellule cerebrali: ricordando che nell'individuo normale ogni giorno vengono distrutte 50.000 cellule mentre nell'alcolista ne vengono distrutte più di 100.000. Ma purtroppo l'alcool è comunque entrato nelle abitudini dell'adolescente, che ne prova un finto e rapido sollievo, ne blocca la depressione e i pensieri negativi, dando gioia, allegria, speranza, coraggio e voglia di comunicare. Così l'alcolismo adolescenziale è fortemente aumentato negli ultimi 3-4 anni ed è salito alla ribalta in forma imponente sia come sostituto delle droghe o anche in seconda battuta dopo averle usate o contemporaneamente ad esse; e questo per tre ragioni principali: è a portata di mano, costa meno e ahimé non è illegale.
Non giunge all'etéreo della marijuana o al flash euforico dell'eroina ma dà ugualmente un senso di disinibizione sessuale, di liberazione dall'ansia e dalla depressione.
La lieve dissoluzione dell'io che ne procede aiuta a dimenticare le «cose brutte» e a prendere coraggio.
Oggi l'alcolismo adolescenziale è già un fenomeno grave. Secondo statistiche francesi il 20% degli adolescenti fa uso di alcolici in quantità nettamente superiore alla media. In passato si trattava di ubriachezza isolata, parossistica, prevalentemente individuale o a coppie; era un fenomeno della tarda adolescenza e della prima gioventù. Ora il fenomeno è più esteso, in alcuni paesi ha guadagnato generazioni più giovani, da individuale diventa di gruppo continuando nel tempo e quindi ci troviamo di colpo di fronte a gravi forme di lenta intossicazione data l'estrema vulnerabilità all'alcool delle cellule sia nervose che epatiche.
I ragazzi bevono in gruppo, il quale si forma spontaneamente: composto da adolescenti ora comprende anche molte presenze femminili. L'ambiente di provenienza è prevalentemente la media borghesia, mentre alcuni studi segnalano l'importanza del gruppo nel determinismo di questi fenomeni e le motivazioni che ne sottendono l'attività non hanno quelle forti implicazioni socioculturali o di rivolta che caratterizzavano un tempo il gruppo dei drogati i quali sono quasi sempre fortemente disturbati sul piano della personalità con un'intelligenza medio-normale nel quadro di forti disarmonie evolutive e immaturità dell'io la loro caratteristica è una mancanza di impegno nelle relazioni sociali, familiari e scolastiche e sembra contenere un'identità e una operatività dell'io che si esplicano, sotto l'effetto dell'alcool, in varie forme stimolando le competizioni del bere perché l'alcool stimola calore affettivo, spirito di corpo ed eventuale antisocialità.
Si ha così un mutuo rafforzamento tra gli effetti dell'ubriachezza e le intenzioni della banda; si aggiunga che in molti di questi giovani la sessualità affiora solo in un primo momento sotto l'effetto dell'alcool e ciò è un incentivo a continuare sino a raggiungere un'inevitabile dipendenza alcolica.
Tale dipendenza non è stata fin ora adeguatamente studiata come vorrei. Perché l'alcool come apparente sostituto della classica droga è una pericolosissima rincorsa verso quei 40.000 morti all'anno che le statistiche stanno ampiamente già superando.
E ricordiamoci che inizialmente sembra privo di grandi conseguenze ma rappresenta invece un pericolo che vede crescere esponenzialmente la sua nocività nel momento in cui sta diventando una moda patologica, soprattutto perché in molte subculture è ipoteticamente utilizzato come un antidroga.
Cosa aspettiamo a studiare una legge che possa anche solo per il 50% diminuirne le conseguenze letali? Proibirne la vendita ai ragazzi fino ai 21 anni eviterebbe un'enorme quantità di reazioni delinquenziali.

Liberazione 26.10.06
La repressione sovietica in Ungheria e il dibattito nostrano
1956-2006, quelli che cinquant’anni non bastano
di Anubi D’Avossa Lussurgiu


Anno 1956. Anno 2006. Una distanza di mezzo secolo, o dieci lustri, o cinquant’anni. Un lasso temporale tra i più densi di differenze, nel senso di mutamenti intervenuti tra la scena di allora e quella di oggi. E’ pensabile che sia una distanza discretamente storica, cioè sufficiente ad un certo distacco critico. Persino ad una qualche condivisione di verità retrospettiva.

Non che sia finita l’era delle guerre, anzi. Non che siano estinte le forme di oppressione e dominio, anzi. Non che, di converso, nel mondo si sia più uguali. E nemmeno tanto più liberi, globalmente. Anzi. Ma c’è che sono accadute alcune altre cose, in questo frattempo. Ossia da quel 1956 segnato, fra un’Olimpiade e una guerra-lampo anglofrancese a Suez contro l’Egitto di Nasser, a febbraio dal “rapporto Kruscev” sullo stalinismo e a novembre dall’invasione sovietica dell’Ungheria in rivolta.

Adesso nel 2006 non c’è più, ad esempio, quel che si chiamava «il campo socialista» oppure «il blocco del socialismo reale». E pare non sia finito sotto i colpi di aggressioni in armi. Né che sia morto di raffreddore.

Dopo è successo qualcosa di più, addirittura. Si dice infatti sia entrata in crisi la politica. E le promesse di sicurezza e appagamento che tra i venti e i quindici anni fa erano pronunciate dalla voce sovrastante tutte le altre, quella del mercato e della sua globalizzazione, sono diventate altro. Spesso il contrario. Mentre la politica, appunto, di quella voce s’è fatta semplice tono: o ancor meno, un’eco.

Per non dire di altri fatti intervenuti intanto. Come l’insorgere sul campo delle relazioni e dei rapporti sociali, dunque del conflitto e del potere, dunque della politica, di un’interferenza tutt’affatto nuova e dirompente. Quella della consapevolezza delle donne. Quindi dei generi. Dando un altro senso alla libertà, togliendo di mezzo la mediazione degli aggettivi, sostantivandola: e così portando ad un salto di qualità un problema già aperto, quello del rapporto tra libertà e uguaglianza.

E ancora, in questo frattempo non solo il partito-stato del comunismo sovietico e i suoi satelliti, ma l’intero movimento operaio con le sue interne barricate ha conosciuto la contestazione. E un’erosione di senso. Fino ai salti mortali di chi tra sé e il comunista che era, invece di rendiconti storici e personali, ha messo un “post”. E fino al riformismo finito all’incanto dei listini di Borsa, stressato fra terze vie anglosassoni, nuovi centri renani e boreali tramonti scandinavi. Si dice, pensate, che la stessa forma-partito abbia mostrato le corde, in questo frattempo.

Uno pensa, dunque: tanto, ma ancor meno, può bastare a rendere piuttosto scontato il senso delle commemorazioni, delle celebrazioni, dei ritorni di dibattito storico. Di quel 1956, dopo questi cinquant’anni. Uno può azzardare pure un certo impulso al disinteresse. Considerato che del presente mondiale si occupano intanto due soli “pensieri forti” apparentemente dominanti: quello di chi con George W. Bush ha riscoperto la ferrigna categoria di «Nazione-guida» per gestire il disordine globale; e quello di chi i rapporti di potere vuole sovvertirli, sì, ma in nome del “Regno dei Credenti”. Considerato che il 1956 a prima vista può servire ben poco ad affrontare problemi come stato d’eccezione contro terrorismo, polizia globale contro assedio delle migrazioni, scontro di civiltà contro fondamentalismo. Considerato che sembrerebbe altrettanto per proprietà intellettuale, beni comuni, crescita o decrescita. E anche per i più prosaici problemi delle pensioni, della leva fiscale, dei parametri di Maastricht, della precarietà e del reddito non garantito. O degli sfratti. Considerato pure che oggi di nuovo la Cina è vicina, con il Partito comunista tuttora al potere: ma si tratta del maggior serbatoio di mercato e sviluppo industriale del pianeta, tra qualche milione di morti - soprattutto di fame - intercorsi con “Grandi Balzi in Avanti” e “Rivoluzioni Culturali” e gli altri dei quali oggi non è dato sapere.

Ma, armati di queste pessime intenzioni a distarsi dai cigolii degli armadi della Storia e lasciarli alla passione delle pagine culturali del Corsera di Mieli, si finisce infallibilmente per essere smentiti. In Italia, nella “sinistra italiana”, s’intende. Così uno si sveglia la mattina e legge - con dovizia di notizie, ovviamente, sul Corriere - che un discorso ufficiale anzi che no del presidente della Camera dei deputati Fausto Bertinotti alla seduta solenne dell’Aula per il cinquantenario della rivolta ungherese di quel 1956, è stato contraddetto. Non tanto dal rimprovero di Stefania Craxi di non aver proclamato che Pietro Nenni e (soprattutto) il padre Bettino erano quelli che avevano ragione. Non tanto dal deputato forzista irrefrenabilmente prorotto nel grido «Nagy l’avete ucciso voi!». Ma da altri comunisti, quelli “italiani”, quelli del Pdci: che per bocca del capogruppo Pino Sgobio hanno seccamente opposto alla riflessione bertinottiana sugli «insorti d’Ungheria protagonisti di una rivoluzione democratica repressa dall’Urss con l’inganno», sui «vinti di ieri vincitori di oggi» e sul «potere mai difendibile con le armi contro il volere popolare», che no: anzi, che invece «il giudizio definitivo sui fatti d’Ungheria sarà la storia a darlo». Addirittura. E allora uno, che aveva pensato questi cinquant’anni fossero storia, eccome, si dice: evidentemente c’è un problema.

E proprio per questo uno è portato anche a non liquidare con una semplice risata un’altra notizia che gli salta all’occhio, sulla stessa pagina del giornale di Mieli, ça va sans dire: che lo spiritoso organo del Pdci la Rinascita ha dedicato un titolo a tutta pagina ad altri cinquant’anni, quelli compiuti dal segretario Oliviero Diliberto (auguri, per inciso). E il titolo era questo: «Auguri Diliberia». Dove il Beria sta per Lavrentij: il ministro degli Interni e capo della polizia segreta dell’Urss di Stalin, per intenderci. L’organizzatore ed esecutore di migliaia di processi collettivi, purghe, deportazioni, internamenti, liquidazioni fisiche. Con un’altissima responsabilità in quell’ecatombe. Uno per cui, oltrettutto anche nel profilo personale, difficilmente si può trovare una definizione più efficace di quella adottata da Massimo Bordin, che commentava ieri a Radio Radicale: «un autentico criminale». Liquidato subito dai suoi compagni del vertice del Pcus all’indomani della morte di Stalin, nel 1953, tre anni prima che Kruscev presentasse al congresso del partito il suo rapporto “segreto” sul culto della personalità e i crimini dello stesso Stalin, per poi lanciare a sua volta mesi dopo i carri armati su Budapest. La direttora de la Rinascita, Manuela Palermi, trova che sia un’evidente prova d’ironia l’uso di quell’appellativo, richiamantesi a un simile personaggio. Il punto è che invoca quest’ironia rivendicando una prova d’affetto. Non che il riflesso condizionato della piaggeria al leader sia perfettamente sconosciuto al resto della sinistra nostrana, e nemmeno a Viale del Policlinico. Ma uno si dice: vorrei vedere se su Liberazione fosse mai uscito «auguri Fausto Stalinotti», affettuosamente...

Per capire come ciò sia possibile, però, non serve il sarcasmo. E nemmeno concentrarsi sul singolo fenomeno del partito di Diliberto. Soprattutto per non finire a ignorare del tutto il significato retrostante ad episodi che sono quel che sono. Il significato è che i conti con la storia, c’è poco da dire, bisogna farli tuttora. Almeno in politica, nella sinistra, in quest’ambito così provato.

Tant’è che ben altro luogo e ben altre storie, come le pagine de il manifesto e le vite di chi l’ha fondato e lo anima, si sono ben diversamente occupati del 1956, di quella rivolta e di quella repressione in Ungheria. Anche qui con un dibattito, che aiuta a svincolarsi dalla dimensione delle battute. Perché anche qui, nello “speciale” di domenica scorsa, ci sono state a stridere due voci, anzi due penne. Quella di Rossana Rossanda, tornata a proporre «un “Se” che è utile porsi» e cioè cosa sarebbe successo del campo comunista e della sinistra se Togliatti avesse condannato l’invasione sovietica di quell’anno e poi anche se Enrico Berlinguer avesse “strappato” con l’Urss ben prima del 1980, all’indomani dell’altra invasione, quella del 1968 nella Cecoslovacchia del “socialismo dal volto umano” di Dubcek. E la penna di Valentino Parlato, proteso a polemizzare che è «troppo comodo pentirsi, 50 anni dopo»; ma anche ad argomentare, com’è tornato a fare ieri pungolato da Rossanda in una prosecuzione del dibattito, che sia stata «realistica» cinquant’anni fa «la scelta del Pci e di Togliatti di non condannare e di non rompere con l’Unione Sovietica perché sarebbe stata disastrosa per il Pci, per l’Italia e per quello che, allora, chiamavamo il mondo socialista». Insomma che quella avanzata di Rossanda «era un’ipotesi dell’impossibilità».

E’ uno spunto, questo, per poter dire che il problema è (per fortuna) di ben altro spessore rispetto a quello suggerito dalle “sortite” del Pdci: ma c’è, il problema. E riguarda proprio la concezione della «possibilità» della politica, delle sue scelte, di fronte alle sue responsabilità. E anche la qualificazione delle responsabilità stesse, il loro orizzonte: di fronte, ad esempio, all’evidenza di una contraddizione e di un disastro storico, come quello che il 1956 squadernò. Riguarda il perché quei «se» di Rossanda non ci furono, punto non risolvibile certo con i disegni politici dell’Amendola ricordato da D’Alema a Ingrao. Riguarda, insomma e al fondo, la concezione della politica, proprio quella intesa in senso “rivoluzionario”, che si dia il compito della trasformazione generale e si nutra di quest’aspirazione.

Tanto per stare al merito di quel 1956, sarebbe allora utile dibattere degli ulteriori spunti, storici e fattuali stavolta, offerti da un libro che quell’anno lo ricostruisce: il nuovo volume di Gyorgy Dalos, che lo visse da ragazzino ma ebbe poi modo di soffrire la dissidenza e l’emigrazione, “Ungheria, 1956”, edito da Donzelli. Dove si mostra tutto il tragico spessore dell’eversione dei fini del “socialismo” che quella rivolta, costata 3mila morti e centinaia di migliaia di esuli nella repressione, precedette e fondò, fin dal processo e dall’esecuzione di Lazslo Rajk nel 1949 in frettolosa imitazione della purga a sfondo «anti-sionista» (di mira i dirigenti d’origine ebraica) scatenata nell’ultimo tratto dell’era di Stalin. Fin dall’insostenibile vita quotidiana sotto l’imperio del partito-Stato. Pagine che suggeriscono un binomio, per volgersi a rileggere quel problema di concezione della politica. Tra un insorto quale Itsvan Angyal, 27 anni, reduce bambino di Auschwitz, operaio capocantiere e intellettuale, comunista fino all’ultimo, fino al patibolo riservatogli dal partito malgrado avesse salvato decine di agenti della polizia politica dal linciaggio, e che il 7 novembre innalzò la bandiera rossa accanto al tricolore della democrazia ungherese mentre resisteva ai thank dell’Urss. E quei dirigenti che cofirmarono anche la sua condanna scrivendo a Mosca, come Togliatti, che il governo Nagy rivelava «una deriva controrivoluzionaria». Magari nemmeno Angyal, oggi, ha vinto: ma si può ben dire una volta per tutte chi e cosa partecipò, e come, a produrre una sconfitta rovinosa. Per l’umanità.

Liberazione 26.10.06
L’altro ieri al Residence Ripetta a Roma, D’Alema, Bertinotti e Castellina alla presentazione del nuovo libro di Ingrao “Volevo la luna”. La polemica con Napolitano sulla Resistenza
Una sera a raccontare gli anni del Pci con Pietro, Fausto, Massimo e Luciana
di Stefano Bocconetti


La storia di un “tarlo”. Scritta in prima persona da quello strano tarlo che si fa anche un po’ cronista. La storia di un secolo, allora, quello breve. Qui reso ancora più breve: dal 1915 al 1978. Sessantatrè anni. La guerra, la Resistenza, il primo dopo guerra, la “guerra fredda”, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, la guerra infinita. Tutto scritto da quell’insetto piccolo, piccolissimo che scava e arriva in profondità. O forse no, le cose sono più complesse: perché il “tarlo”, a ben vedere, non è il vero protagonista. Chi scrive, chi fa, chi detta i tempi della storia è una persona. Un dirigente comunista. Che con quel “tarlo” si misurerà tutta la vita. Spesso assecondandolo, qualche volta bloccandolo. Ma rimpiangendo di non averlo lasciato libero. E soprattutto quell’uomo ancora continua a farlo, ancora continua a misurarsi con quell’animaletto che scava.

Come definire, allora quel tarlo? Ida Dominjanni, che l’altra sera al Residence Ripetta ha introdotto il dibattito sul libro di Pietro Ingrao, “Volevo la luna” - perché è lui il dirigente comunista di cui si parla - ha usato una formula efficace: quell’insetto è il contrasto fra lui, Ingrao, che sognava un futuro da regista e che invece scelse la via dell’impegno militante mosso dall’ansia di libertà e “la gabbia d’acciaio della politica novecentesca”. Il tarlo che ha scavato dentro chi, a metà del secolo scorso come pochi anni fa, ha saputo cogliere la “molteplicità” delle forme in cui si esprime il bisogno di liberazione. E invece la riduzione ad uno, ad un unicum della politica. Della Politica, quella che per troppo tempo è stata incaricata di scrivere la storia.

Con quel “tarlo”, con quelle obiezioni di fondo al modo stesso di concepire le lotte, Ingrao ha dovuto sempre fare i conti. Lo dice, lo racconta, in questo suo ultimo lavoro. Trecentosettanta pagine così lontane dai suoi ultimi libri. Dai suoi ultimi saggi. Massimo D’Alema - c’era anche lui alla presentazione - dirà che è «un’autobiografia del vissuto». Non un libro politico. Non un libro politico tout court. O almeno non nel senso abituale. Perché “Volevo la luna” ha un incedere narrativo lento, accorto ai dettagli, «quasi minimalista», dirà ancora Ida Dominjanni. Come può farlo chi ha sempre teorizzato la lentezza, il diritto alla lentezza, contrapposta ai ritmi imposti dalla società capitalista. Un racconto personale, allora, che parte dai suoi avi, da suo nonno. Garibaldino. Un racconto di Lenola, quel piccolo centro dei Monti Lepini dove si affaccia alla vita. Un racconto della sua vicenda personale che s’intreccia, che accompagna la vicenda sociale di un secolo. Sempre seguito dallo stesso “tarlo”. Che si muove e scava anche quando Ingrao è alle prese con le cose minute, con la vita di tutti i giorni. Anche nel rapporto con sua moglie Laura - la compagna di una vita - con i suoi figli. Tarlo che sta sempre lì, a domandargli, a fargli domandare se quel che fa sia giusto, se anche le emozioni, l’amore debbano entrare dentro la coerenza di una vita.

Storia personale e sociale, insomma, di un «comunista della libertà», stavolta la definizione è di Fausto Bertinotti, presidente della Camera, anche lui l’altro giorno al residence Ripetta. Un “comunista della libertà” che è riuscito a non farsi omologare - allora da un’ortodossia totalizzante, oggi da un revisionismo interessato - grazie ad un metodo. Semplice eppure straordinario: «In lui ha, e ha sempre avuto, un ruolo essenziale il dubbio. Dubbio che non depotenzia l’agire umano ma ti immunizza dal fondamentalismo».

Dubbi, il metodo del dubbio, che ancora si porta appresso. Che lo fanno ancora riflettere, criticamente, sul perché non abbia portato a fondo il suo contrasto con Togliatti, nel ’56, nei giorni successivi all’invasione dell’Ungheria. Che lo fanno riflettere, criticamente e amaramente, sul perché, nel ’68, abbia votato, nel comitato centrale del Pci, per l’espulsione del gruppo del Manifesto. Del perché quel “tarlo” per tanto tempo si sia infranto davanti ad una parola: disciplina. Che comunque per lui - è raccontato nel libro; raccontato comunque non scritto, come fosse la narrazione di un particolare fra tanti - comunque per lui, si diceva, disciplina non voleva dire solo regole, rispetto delle regole. Era qualcosa di più. Era il senso di appartenenza, era la scelta di un vincolo. Stretto volontariamente, rinnovato sempre, ma che già di per sé, già nell’atto stesso del contrarlo, definiva una risposta alle barbarie del secolo scorso.

Il voto a favore dell’espulsione del Manifesto, allora, di quel gruppo di “ingraiani”. L’espulsione di quel gruppo di militanti che rivendicava quella definizione. Definizione che comunque a lui, al protagonista, non piace del tutto. Tanto che in alcune pagine si mostra ancora titubante, addirittura dubbioso, come se qualcuno potesse anche oggi accusarlo d’aver organizzato una frazione. Voto per l’espulsione che in ogni modo neanche i protagonisti di quella stagione gli rimproverano. Luciana Castellina - «Vedi Pietro, magari fossimo stati una frazione. E non lo siamo stati proprio perché te ti ritraevi sempre» - alla presentazione del libro dice che nessuno del Manifesto si aspettava che Ingrao uscisse dal Pci e li seguisse. No, non è al ’68 che bisogna guardare, se di rimproveri si vuole parlare. Piuttosto, e lo dice esplicitamente, occorre guardare al ’91, al ’92. Quando il Pci sceglie di sciogliersi. «E’ lì che non ci sei stato». E’ lì che forse Ingrao è mancato, quando tutti - tanti - si aspettavano di cominciare, di ricominciare. Una ricerca, una difficile ricerca, guidati da quel “tarlo”. Da quei dubbi. Ma invece la storia prese un’altra strada.

Già, la storia. Anche questa con la maiuscola. Quella che ha segnato il secolo drammatico che abbiamo alle spalle. Sarebbe potuta essere diversa? Sarebbe potuta andare in un altro modo? Una delle parti più dettagliate del libro (se ha senso dire così, in un volume dove l’incedere è assai diverso dai modelli tradizionali, dove si torna indietro o si va avanti nella cronologia, seguendo un altro ordine, quello personale) riguarda il ’56, i carri armati sovietici a Budapest. Che Ingrao difese su l’Unità. Umiliando, annullando, all’epoca, il suo tarlo. Ma si dilunga soprattutto sugli anni successivi. Il libro ricorda come Ingrao, direttore de l’Unità, provò a sollecitare qualche riflessione nel gruppo dirigente del partito. Trovando un muro, un muro sempre più spesso in Togliatti. Un Togliatti ondivago - e perché non dirlo? qui antipatico come mai è stato raccontato - ma che alla fine sceglie sempre da che parte stare. Con la polizia polacca, coi regimi. E dopo, un po’ dopo viene l’XI° congresso, dieci anni dopo l’Ungheria. Quello in cui il dissenso di Ingrao - accolto con un boato dalla platea, «per me minuti indimenticabili», ma con malcelato fastidio da chi sedeva alla Presidenza, «che restò con le mani visibilmente ferme sui tavoli» - si rese evidente. Con quella lunga perifrasi, ormai celebre: «Non sarei sincero con me stesso se dicessi d’essere stato persuaso…». Il tutto per chiedere che fosse reso pubblico almeno il dibattito, lo scontro di posizioni che portava all’elaborazione di una linea. Fermo restando l’accettazione del principio del “centralismo democratico”, quello per cui anche se non si è d’accordo, una volta decisa una linea, la si difende in ogni caso. Ingrao chiese solo questo e fu punito.

Ma quell’XI° congresso segna qualcosa forse di più importante nelle vicende della sinistra. D’Alema, parlando di quegli anni, trova il modo di dire che forse all’epoca Ingrao non capì l’opportunità che una posizione come quella di Amendola offriva al Pci: la possibilità cioè di un’uscita da sinistra dallo stalinismo. Ma forse questa denuncia sull’ingenerosità verso Amendola, verso la destra del Pci, è servita a D’Alema a formulare un’altra obiezione: che riguarda gli anni dello scioglimento del Pci. Anni che il libro non affronta. Anni in cui - dice il ministro degli esteri - «sei stato ingeneroso anche verso di noi, dirigenti di una generazione dopo la tua, che pure cercavamo dopo il crollo del muro di dare ancora un senso nazionale alla sinistra in questo paese». Obiezione che resterà senza replica, come se quei trecento stipati, seduti o in piedi, al Residence Ripetta non ne avessero bisogno.

Ma resta il tema: l’uscita da sinistra dallo stalinismo. L’uscita da sinistra dalla cultura del partito omnicomprensivo, dalla cultura della disciplina. E’ su questo che Bertinotti insiste molto. E dice che l’XI° congresso, la sconfitta di Ingrao, chiude definitivamente la possibilità di un’uscita da sinistra dallo stalinismo, per quanto riguarda il Pci. Che non ha significato, però, rinunciare all’obiettivo: perché da allora, la ricerca, la ricerca di una via d’uscita dalle tragedie del secolo scorso, investirà altri soggetti. Soggetti sociali, non più solo il partito. Uno fra tutti: i metalmeccanici.

Ed è ancora su questo che Ingrao scrittore si sofferma a lungo. Il ’68 operaio, i delegati, il sindacato dei consigli. Mancano le foto nel libro ma nei suoi racconti non c’è solo la “classe”, questa nuova classe operaia. Ci sono le persone, gli individui, le donne, gli uomini costretti alla catena di montaggio ma capaci di produrre controcultura. Contropotere. In quelle pagine c’è la moltitudine, ci sono le diverse soggettività politiche, irriducibili ad un’unica forma. Ci sono, ancora, i tarli di sempre. Che qui si fanno intuizioni del futuro.

“Volevo la luna” termina nel ’78, perché dirà - lo stesso Ingrao - «lì c’è la vera cesura nella storia del paese», con l’assassinio di Aldo Moro. In realtà, dopo, c’è un altro capitolo, dove Ingrao parla del libro di Nuto Revelli, “Il disperso di Marburg”. Scrive di un soldato tedesco che ogni giorno usciva a cavallo, sempre diretto ad un prato. Dove sostava sdraiato nell’erba. Fino ad un brutto giorno, quando il cavallo tornerà da solo in caserma.

E questo capitolo, intitolato all’isola (all’isola di verde che il soldato cercava ogni mattina all’alba) finisce con una domanda: «Perché chiedere di salvarsi da soli?».

E’ l’invito, forse, a continuare a cercare. Forme comuni di emancipazione. Cercare, ripartendo da dove? Fausto Bertinotti entra nel merito. E risponde citando un’altra poesia, sempre di Nuto Revelli. Sono versi in dialetto di un contadino che si rifiuta di sparare ad un nemico che non conosce. Di un contadino che non capisce che senso abbia uccidere un altro uomo. Si riparte da qui, allora, dalla “non violenza”. E Ingrao ci sta. Chiude la serata rivendicando la sua storia. Rivendicandola e attualizzandola. Anche polemicamente. Come quando accusa «qualcuno - che siede molto più in alto di questa sala» - di aver troppo frettolosamente espresso solidarietà a chi denigra la Resistenza. Non lo cita - un retaggio del vecchio secolo, forse - ma tutti, anche i distratti capiscono che ce l’ha con Giorgio Napolitano, sceso in campo a difesa di Gianpaolo Pansa e del suo libro sui misfatti dei partigiani. Qualcuno pensa all’ennesimo round fra due dei protagonisti dell’XI° congresso. Ma Ingrao non ha tempo solo per i ricordi. E incalza la platea, meglio: chi sta fuori da questa platea, parlando di guerra. Di guerra infinita. Di guerre dimenticate. «E’ possibile che nelle stanze istituzionali non si parli come necessario di pace, di disarmo?». Lui le ha viste le barbarie, sogna un mondo dove non ci siano più. E sa che non è facile. La ricerca continua.

Repubblica 26.10.06
Storia di un genio dimenticato
Esce un volume di Vittorio Benussi che raccoglie per la prima volta i suoi scritti
di Umberto Galimberti


Rigoroso psicologo sperimentale fu anche il maestro di Cesare Musatti
Esponente della scuola di Graz divenne un interlocutore significativo della psicoanalisi
Il suo merito maggiore fu quello di aver avviato un dialogo tra Husserl e Freud

Non so se sia una specialità solo italiana, certo noi eccelliamo nel trascurare i nostri uomini di genio quando sono in vita e nel dimenticarli del tutto quando sono morti. E´ il caso di Vittorio Benussi (1878-1927), esponente di spicco della scuola psicologica di Graz e fondatore della scuola di psicologia di Padova.
Rigoroso e geniale psicologo sperimentale del suo tempo, Benussi anticipò la psicologia fenomenologica e divenne significativo interlocutore della psicoanalisi. Indirizzi di pensiero che noi in Italia conosceremo quarant´anni dopo la sua morte, grazie alle traduzioni di Husserl, Jaspers, Sartre, Merleau-Ponty, Freud e Jung, rese possibili dopo la fine del monopolio culturale dell´idealismo di Croce e Gentile che, oltre ai loro indiscussi meriti, ebbero anche il demerito di bloccare quanto di nuovo la cultura europea stava producendo prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale.
Nato a Trieste, allora austriaca, Benussi si trasferì diciottenne all´Università di Graz dove incontrò il grande psicologo sperimentale Alexius Meinong, il quale riconobbe la genialità del suo giovane allievo senza riuscire a conferirgli un insegnamento a Graz perché «italiano» e, quando si aprì una possibilità a Praga, perché considerato «di sentimenti tedeschi». A cosa si ricorre per escludere le teste pensanti dalle accademie. Allora come ora.
Senza cattedra e senza insegnamento, Benussi fu il primo a condurre per dodici anni le prime ricerche sulla «psicologia della percezione». Ottenendo ampi riconoscimenti al VI Congresso di psicologia sperimentale di Gettingen nel 1914. In quegli anni andavano affermandosi Max Wertheimer (1912), Wolfgang Kehler (1913), Kurt Koffka (1913), le cui opere sono considerate testi classici della «psicologia della forma» tuttora in circolazione grazie alle edizioni Feltrinelli e Bollati Boringhieri, mentre di quel grande anticipatore che fu Vittorio Benussi non uno scritto, non una memoria.
A colmare questa enorme lacuna culturale ha oggi provveduto Raffaello Cortina che coraggiosamente, perché con questi libri non si fa cassetta, ha assegnato a Mauro Antonelli, professore di psicologia all´Università di Milano e libero docente all´Università di Graz, il compito di raccogliere gli scritti di Benussi dal 1905 al 1927 in un grosso volume preceduto da un saggio introduttivo di 120 pagine dello stesso Antonelli, eccezionale per il rigore della ricostruzione storica e per la chiara esposizione delle teorie psicologiche di Benussi, il quale, finita la guerra, con l´annessione di Trieste all´Italia, fu dispensato dal servizio presso la Biblioteca universitaria di Graz, con cui lo psicologo triestino si guadagnava il pane.
Tornato in Italia come ricercatore sconosciuto, Benussi trovò lavoro come bibliotecario al Segretariato generale per gli affari civili di Padova, e all´Ufficio centrale per la costituzione delle nuove province. A interessarsi di Benussi fu Sante de Sanctis, titolare della cattedra di psicologia sperimentale all´Università di Roma che convinse la facoltà di Lettere e Filosofia di Padova a istituire una cattedra di psicologia sperimentale da assegnare a Benussi per «chiara fama». L´Accademia padovana non oppose resistenza, anche perché ancora si sentiva l´influenza dell´insegnamento di Roberto Ardigò la cui Psicologia come scienza positiva (1870) può essere considerata l´atto di nascita della psicologia sperimentale in Italia.
Naturalmente la psicologia sperimentale necessità di laboratori e di strumenti che Benussi fece costruire da un´officina meccanica padovana. Ce lo ricorda Cesare Musatti che, ancora in divisa militare in quanto reduce dalla guerra, assistette insieme a Silvia De Marchi, futura compagna di vita, alla prima lezione di Benussi. Ne rimase affascinato. E fu proprio in quella circostanza che maturò la sua vocazione per la psicologia contro le sue iniziali inclinazioni.
Musatti scrive che: «Benussi si presentò in quell´occasione ai suoi due uditori con uno scatolino pieno di gessetti colorati, affermando che quello costituiva per il momento il suo laboratorio». Nel 1922 Musatti divenne assistente volontario non retribuito di Benussi, intorno al quale si creò una cerchia di intellettuali tra cui il latinista Concetto Marchesi, lo slavista Giovanni Maver e i colleghi Manara Valgimigli, Giovanni Bertacchi e Diego Valeri.
Per la mancanza di un istituto di ricerca attrezzato (costituito solo da tre stanzette) e di adeguati strumenti da laboratorio, Benussi indirizzò la psicologia sperimentale verso una nuova direzione: la suggestione e l´ipnosi come mezzi di analisi psicologica. Non per scopi terapeutici come Charcot a Parigi, ma per isolare le funzioni della vita psichica: gli stati intellettivi e quelli emotivi, nonché quelli respiratori che, accuratamente osservati e analizzati, consentono di stabilire chi mente e chi dice il vero. Del resto «psiche» vuol dire «respiro», e fu proprio Benussi, nell´ambito della psicologia forense, a fornire quel lavoro pionieristico che titola: I sintomi respiratori della menzogna.
Ma il merito maggiore di Vittorio Benussi, a mio parere, è quello di aver avviato con un secolo di anticipo quel dialogo che, solo oggi e con molti sospetti e difficoltà, incomincia a instaurarsi tra fenomenologia e psicoanalisi, cioè tra Husserl e Freud, che insieme avevano ascoltato a Vienna le lezioni di Brentano (1838-1917). Grazie a Brentano Husserl supera il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, e sempre grazie a Brentano Freud attribuisce non solo alla coscienza ma anche alle pulsioni una loro intenzionalità.
Partendo da Brentano Benussi stabilisce che i fenomeni psichici sono non solo intenzionali, ma accessibili alla percezione interna e quindi «coscienti». Inoltre, sulla traccia di Husserl e anticipando la fenomenologia di Merleau-Ponty, lo psicologo padovano rifiuta la posizione empirista secondo cui la nostra percezione è «passiva» in quanto pura recezione di stimoli esterni, e ne afferma l´«attività», dovuta al fatto che, quando percepiamo, conferiamo un «senso» a ciò che percepiamo, che a sua volta dipende dai vissuti della nostra esistenza.
Il giorno che, sulla traccia delle intuizioni di Benussi, la psicoanalisi si aprirà alla fenomenologia forse tanti problemi ancora oggi irrisolti potranno trovare la loro spiegazione. Il problema infatti non è tanto quello di oltrepassare Freud per trovare un briciolo di originalità, ma di tornare con Freud e Husserl alle lezioni di Brentano che Benussi ben conosceva.
L´interesse di Benussi per la psicoanalisi fu mediato dalla sua amicizia con il triestino Edoardo Weiss (1889 - 1970) allievo di Paul Federn e Sigmund Freud, il quale scrisse la prefazione agli Elementi di psicoanalisi di Weiss che costituisce la prima opera di divulgazione in Italia del pensiero freudiano, a cui seguì Struttura e dinamica della mente umana, pubblicato a Londra nel 1960 e tradotto in Italia nel 1991 da Raffaello Cortina «quale tardivo riconoscimento ad una figura illustre con cui la cultura psicoanalitica e psicodinamica ha contratto un debito significativo solo a tratti riconosciuto».
Nel 1926 Benussi tiene il primo corso di psicoanalisi in un´università italiana che ancora oggi, nelle facoltà di psicologia cresciute come funghi, ancora non ospita un insegnamento che nomini esplicitamente la psicoanalisi preferendo annacquare questo sapere nella generica titolatura di «psicologia dinamica». Non fosse stato per l´editoria che ha pubblicato le opere di Freud, Jung, Reich, Ferenczi, Lacan, per l´università la psicoanalisi dopo cento anni di storia, ancora non esiste.
Quel che si propone Benussi col suo corso universitario: «Elementi di teoria e di tecnica della psicoanalisi» è di «dare alla psicoanalisi una base sperimentale che ancora le manca, togliendole il carattere di arte fondata sull´intuizione, e così trasformarla in un metodo scientifico basato su leggi assicurate sull´esperimento».
In questa direzione Benussi intraprende l´approccio sperimentale sui processi associativi inaugurato in Svizzera da Bleuler e da Jung, e gli studi sulla dissociazione prendendo posizione nei confronti della désagrégation di Pierre Janet e della Zerspaltung di Eugen Bleuler. Con questa operazione Benussi mette in contatto psicoanalisi e psichiatria, che Freud tendeva a tenere rigorosamente distinte, e a Greningen entra in contatto con Jaspers e Binswanger che, da psichiatri, con la psicoanalisi già interloquivano in termini ora critici ora polemici, ma sempre con grande attenzione.
Nel 1927 si sarebbe dovuto tenere il Congresso nazionale di psicologia a Padova come riconoscimento esplicito del lavoro e del magistero di Benussi che però, qualche giorno prima, come riferisce Musatti: «Per ragioni ignote, a 49 anni, si diede la morte». Cesare Musatti ne raccolse l´eredità coltivando sia la psicologia sperimentale sia la psicoanalisi, mantenendone però separati gli ambiti, che invece Benussi voleva raccordare per dare base scientifica alle intuizioni psicoanalitiche.
Non ci fu il tempo per quest´«uomo senza qualità» come lo definì Sante De Sanctis quando lo chiamò a Padova. Il riferimento a Musil non è casuale. Anche Musil infatti si era occupato di psicologia sperimentale con una tesi di dottorato (1908) che aveva suscitato l´interesse del maestro di Benussi, Meinong, il quale gli aveva offerto la carriera accademica a Graz, che però Musil rifiutò per dedicarsi alla letteratura. A differenza di Musil, Benussi proseguì con linee di ricerca che ancora oggi attendono sviluppi, soprattutto nell´ambito delle neuroscienze che, a sentire Mauro Antonelli, Benussi avrebbe anticipato in snodi cruciali.
Resta solo da ringraziare Raffaello Cortina per aver sollevato il velo dell´oblio su questo grande pioniere della psicologia in Italia, pubblicando Sperimentare l´inconscio (Scritti dal 1905 al 1927, pagg. 500, euro 39). Dopo aver fatto 15 anni fa analoga operazione con l´amico di Benussi, Edoardo Weiss, ancora troppo ignorato dalla cultura psicoanalitica italiana che, un po´ distratta e assetata di originalità, forse non si è ancora resa conto che il declino della psicoanalisi non dipende dal suo mancato sviluppo, ma nel non aver ancora risolto problemi apparsi da subito alla sua origine, e che Benussi aveva ben individuato nella carenza di scientificità, a cui le sue ricerche avevano tentato di offrire un contributo e di segnalare la direzione.