giovedì 12 ottobre 2006

il Riformista editoriale 12.10.06
POSTCOMUNISMI. Se Fausto trovasse il coraggio di dichiararsi socialista


Fausto Bertinotti ha concluso ieri la sua visita a Budapest per il cinquantenario dell’insurrezione ungherese deponendo una corona di fiori sulla tomba di Imre Nagy. È stata per il presidente della Camera una nuova occasione per ribadire la propria «incondizionata» adesione alle ragioni degli insorti antisovietici e per sottolineare «l’indelebile colpa del repressore» e di chi nel movimento comunista internazionale ne difese l’operato. Fin qui nessuna novità. Il ripudio del comunismo novecentesco è ormai patrimonio acquisito di Bertinotti e del partito che ha guidato fino a qualche mese fa. Ciò che è sempre più difficile da comprendere è cosa leghi ancora Rifondazione all’uso della parola “comunista”. Bertinotti ha provato a spiegarlo ai cronisti che lo hanno seguito a Budapest. Prima quasi schernendosi: «Sono comunista per tigna». Poi dando del comunismo una visione a-marxista e destoricizzata: «C’è qualcosa che lega Spartaco, i Ciompi, la Comune. Il Novecento non è che una piccola parentesi in una storia molto più grande». Infine, nascondendo quasi tra le righe l’affermazione più importante: «Non è nella conservazione dei simboli l’aspetto più rilevante, ma nel mantenere vivo un orizzonte in cui gli oppressi possano liberarsi dal lavoro salariato e dall’alienazione capitalistica».
Qui sta il punto: una volta trasformato il comunismo in puro orizzonte teleologico, una volta dismessa in blocco l’ideologia comunista con tutto il suo corollario di tattiche e tappe intermedie, a che pro fregiarsene nel nome e nel simbolo, con quale utilità servirsene nella vita politica di tutti i giorni, quella delle finanziarie, delle riforme di sistema, delle mediazioni con Clemente Mastella e delle beghe di coalizione? La risposta è chiara: a nulla. E Bertinotti ne è cosciente al punto da aver lanciato una seconda fase della sua revisione, riallacciando l’agire di Rifondazione e la propria cultura politica a uno spezzone della tradizione socialista italiana individuato nella sinistra Psi di Riccardo Lombardi e nell’autonomismo di Raniero Panzieri (padre di buona parte delle eresie movimentiste e neocomuniste degli anni Settanta). L’operazione è indispensabile, per il semplice motivo che Rifondazione è già un un partito socialista e molte delle contraddizioni che si trova ad affrontare in questa fase sono le stesse che hanno a più riprese travagliato il Psi, proprio a partire dai fatti d’Ungheria. La verità è che Bertinotti è atteso al guado. Il Partito della sinistra europea, operazione internazionale lanciata per allargare il respiro culturale e la base di consenso del Prc, è già una prima trasfigurazione socialdemocratica. Ma su base nazionale non basta, perché assomiglia troppo a un semplice allargamento di Rifondazione tramite cooptazione di ceto politico altrui. Il passo che occorre è ben più impegnativo e, inutile girarci intorno, passa per il superamento di nome e simbolo. Bertinotti ci pensa da tempo e l’impressione è che, passo dopo passo, si stia avvicinando il momento di affrontare apertamente la questione.
Rifondazione non è il Pdci. Non può bastarle restare dov’è, per campare di rendita su un logo vintage, culto di un pugno di nostalgici e di qualche malinteso duro e puro. Ora che la nascita del Partito democratico si avvia a ridisegnare il volto della sinistra italiana, Rifondazione non può restare ferma. Non foss’altro per non cristallizzare uno stato dell’arte che è forse il punto di massimo incancrenimento dell’anomalia italiana: un partito dichiaratamente socialista, i Ds, che con la fondazione del Pd prende atto di non poter dirsi tale; un partito di fatto socialista, Rifondazione, di cui non si sa ancora se troverà mai il coraggio di rivendicare la nuova identità. Una sinistra ds, nelle cui file l’anti-socialismo (nel senso di ex Psi) è tutt’ora un tratto distintivo non secondario, che pare avviarsi a fondare un partito socialista più per preservare la propria specificità post-comunista che per imbracciare la nuova bandiera.

Aprileonline.info 12.10.06
Se scompare il copyleft
Dallo scorso 3 ottobre non è più possibile - senza corrispondere il dovuto compenso all'editore, e le sanzioni sono decuplicate - riportare il testo di un qualsiasi articolo di un qualsiasi giornale pur citando la fonte
di Stefano Olivieri


E' in vigore dal 3 ottobre il decreto legge 3 ottobre 2006 n. 262, recante "Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria", con cui vengono anticipate alcune delle misure previste dal disegno di legge finanziaria 2007. Fra le varie misure l'articolo 32 che così recita :
Art. 32.
Riproduzione di articoli di riviste o giornali
1. All'articolo 65 della legge 22 aprile 1941, n. 633, dopo il
comma 1, e' inserito il seguente:
«1-bis. I soggetti che realizzano, con qualsiasi mezzo, la
riproduzione totale o parziale di articoli di riviste o giornali,
devono corrispondere un compenso agli editori per le opere da cui i
suddetti articoli sono tratti. La misura di tale compenso e le
modalita' di riscossione sono determinate sulla base di accordi tra i
soggetti di cui al periodo precedente e le associazioni delle
categorie interessate. Sono escluse dalla corresponsione del compenso
le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165.».
Chi scrive è uno dei numerosi - tantissimi davvero - inserzionisti sul web che malgrado pubblichino ormai da diversi anni i loro articoli su questa o quella testata, non hanno mai ricevuto un euro di compenso, e spesso non lo hanno nemmeno richiesto. Pura passione politica, forse anche un pizzico di civetteria e di esibizionismo, resta il fatto che senza questo imponente esercito di giornalisti a costo zero o quasi il 90 % dei portali di informazione e controinformazione non sarebbe mai nato e nemmeno cresciuto.
Fino al giorno prima del decreto il copyleft era ammesso sul web con la sola restrizione di citare rigorosamente la fonte editoriale e l'autore del pezzo. E' il motivo per cui i miei stessi articoli, dopo qualche giorno che vengono pubblicati su Aprileonline, compaiono anche altrove. E' una cosa che fa piacere, ma a parte la soddisfazione dell'ego personale si realizza in quel modo qualcosa di molto più grande e importante per la democrazia, cioè la libera diffusione di notizie, di opinioni e quant'altro. Se il bavaglio imposto da Berlusconi sui network tv fosse passato anche nella rete, probabilmente non ci sarebbe stato nessun palavobis, non ci sarebbero stati movimenti e girotondi e staremmo ancora oggi in pieno regime.
Ma l'articolo 32 non riguarda soltanto l'aspetto appena descritto. Dal 3 ottobre non è più possibile - senza corrispondere il dovuto compenso all'editore, e le sanzioni sono decuplicate - riportare il testo di un qualsiasi articolo di un qualsiasi giornale pur citando la fonte. Non sarà possibile nemmeno discutere nei forum, proprio un bel problema.
La reazione del web libero per ora è abbastanza blanda. Per ora si registra soltanto una iniziativa di Peacelink, ma la notizia del resto è immersa in un decreto che si occupa d'altro, e l'attenzione politica generale è rivolta al Partito democratico, al TFR, alla Corea etc. etc. Ma io credo sia necessario far salire nella agenda delle emergenze l'immediato approfondimento di questo problema che potrebbe segnare il futuro della libera informazione sul web, a cominciare dalle rassegne stampa.
E' tempo insomma che si apra un dibattito serio, che non riguarda soltanto le penne dorate della stampa nazionale ma il mondo dell'informazione nel suo complesso. Se scompare il copyleft anche il dibattito - apertissimo - su dove si vuole che vada la sinistra italiana potrebbe subire un arresto mortale. Facciamoci sentire.

Repubblica 12.10.06
L’INTERVISTA
Angius, vice presidente del Senato, promette battaglia nei Ds contro la fusione con la Margherita
"Il nuovo partito sembra Forza Italia riducono il socialismo a una corrente"
di Goffredo De Marchis


Molti hanno dubbi. Ci sono molti compagni che hanno i miei stessi dubbi. E credo che possano trasformarsi in una iniziativa politica
Mai con Rifondazione. La nascita del partito democratico lascia un grande vuoto a sinistra ma non è possibile andare col Prc
"Anche D´Alema è preoccupato, ma queste voci trovano difficoltà a farsi sentire"
"Non so cosa faranno Cuperlo e Caldarola, ma io al congresso porterò la mia idea"

ROMA - In quello di Orvieto «non ci starò». Le primarie, il principio enunciato dal prodiano Salvatore Vassallo "una testa, un voto", i gazebo: così il Partito democratico non va. «Le identità storico-politiche più rilevanti della democrazia italiana sono quella cattolica popolare e quella socialista democratica, che sono anche le componenti essenziali, piaccia o no, del nuovo partito. Perchè dunque non chiamarlo partito dei democratici e dei socialisti?», si chiede Gavino Angius, vicepresidente del Senato, ex capogruppo dei Ds al Senato, esponente di punta della maggioranza congressuale. Ma dopo il seminario dello scorso week-end Angius teme che la strada del nuovo soggetto sia segnata.
Basta l´aggettivo socialista per convincerla della bontà del progetto?
«Non basta, ci vuole una correzione di rotta. La nascita del Partito democratico, così come è emerso in Umbria, lascia a sinistra un grande vuoto, il vuoto prodotto dall´assenza solo in Italia di una forza di ispirazione riformista socialista. Altro che novità. Saremmo l´unico paese europeo in cui non è presente un partito che si richiama a quella storia».
Con Caldarola e Cuperlo presenterete una mozione alternativa a quella di Fassino e D´Alema al prossimo congresso della Quercia?
«Non so cosa faranno questi amici e compagni. Io mi impegnerò nel congresso e in tutte le sedi per affermare quello che dovrebbe essere secondo me il profilo di un nuovo partito: collocazione europea molto chiara nell´alveo del partito socialista, memoria condivisa della storia democratica del nostro Paese e difesa del principio di laicità che vedo invece messo continuamente in discussione. In più penso a un partito di massa, radicato nella società italiana, nel mondo del lavoro dei mestieri, delle professioni. E questo significa essere innovatori non conservatori, significa guardare al rinnovamento della politica non al suo passato».
Potreste presentare una mozione con la sinistra ds per andare uniti contro il PD?
«Vedremo. Però so di non essere solo. La mia preoccupazione è quella di tanti. E, ripeto, non deriva dalla paura del nuovo. Semmai a Orvieto è nato qualcosa che assomiglia a un contenitore di correnti, gruppi e componenti. Cioè il vecchio. E non si può ridurre il socialismo a una corrente».
Insomma, mozione sì o mozione no?
«Non sono mica il capo di uno schieramento. Il dibattito è appena cominciato. Ma ci sono molti compagni che hanno i miei stessi dubbi, le mie stesse incertezze. E hanno difficoltà a trovare risposte. Credo quindi che tutto questo possa avere uno sbocco, possa trasformarsi in una iniziativa politica. Non basta dire che il Partito democratico c´è già, è in noi, è nato tanti anni fa. Sappiamo bene che non è così. E non so neanche dove e da chi sia stato deciso».
C´è un deficit di democrazia nei Ds?
«Non c´è dubbio. Ma anche di analisi della società italiana di oggi. Stiamo parlando dello scioglimento dei Ds, perché questo è il termine giusto. E per un evento simile ci vuole un percorso democratico, che viva di un pluralismo interno e reale. Non si può dire un giorno che nasce un partito nuovo e un altro che in fondo tutto proseguirà come prima».
D´Alema a Orvieto ha criticato un partito che pensa di nascere nei gazebo. Può essere lui il garante anche per chi è scettico?
«Le parole di D´Alema dimostrano una certa preoccupazione. Credo sia la stessa di Fassino. Ma ci sono difficoltà a far sentire queste voci nel percorso del nuovo partito che, se è quello di Orvieto, assomiglia tanto a Forza Italia, con un supervertice e con una base che ogni tanto è chiamata a pronunciarsi. Sono abituato a concepire la politica in un altro modo».
Lei quindi non aderirà al PD?
«Beh, ho seri dubbi a starci dentro, a parteciparvi senza un mutamento di linea. Dirò la mia nel congresso e ogni volta che mi verrà chiesto di pronunciarmi. Del resto, non siamo una chiesa, non c´è da abbracciare una fede».
E se le strade si divideranno, lei pensa a una forza di sinistra che raggruppi gli anti Partito democratico dei Ds e Rifondazione comunista?
«No. Siamo molto lontani dalla cultura propria della sinistra radicale. Ciò a cui io tengo è il patrimonio ideale culturale e politico del socialismo più avanzato e moderno, quello capace di dare risposte alle contraddizioni delle società contemporanee».

l’Unità Roma 12.10.06
Sinistra Ds fra modello Roma e scissione
Labucci: a che serve ora un congresso?
Tocci: bisogna guardare ai contenuti del Pd
di Mariagrazia Gerina


QUELLI CHE lo conoscono bene raccontano che alla vigilia del seminario di Orvieto Vincenzo Vita, pur persuaso delle ragioni aventiniane del Correntone, fosse molto dispiaciuto di non partire. Una certa voglia di partecipare al costituendo partito democratico
da parte dell’assessore alla Cultura della Provincia di Roma era trapelata l’ultima sera della Festa de l’Unità, a Pesaro, quando, tra i primi, Vita aveva dettato alle agenzie di stampa una entusiasta reazione al discorso conclusivo del segretario Piero Fassino. «Mi ero candidamente augurato che quel suo riferimento al socialismo europeo potesse rappresentare uno spunto per riaprire il dialogo - racconta Vita -. Poi il seminario di Orvieto, a cui ad altre condizioni mi avrebbe fatto piacere partecipare, ha rappresentato invece una forzatura». E quindi la decisione, «sofferta ma necessaria», di non andare: «Anche se avrei avuto la mia da dire». All’interno dell’ala romana della Sinistra Ds, Vita è di quelli che ora invoca il confronto e un «congresso chiarificatore». Dall’estremo opposto, il presidente della Provincia Adriano Labucci: «Non siamo andati ad Orvieto e adesso la segreteria nazionale dice che si faranno cento Orvieto in cento città diverse, Roma compresa, per decidere del Partito democratico. A questo punto però si rende inutile il congresso. A che pro partecipare?», si domanda Labucci con un piede già fuori: «Ma non sono io che esco, è il luogo dove sto che non c’è più».
Prove di dibattito pre-congressuale all’interno della sinistra Ds, che, a livello regionale, si è data appuntamento sabato all’Hotel Palatino di via Cavour. Tema: «Cambiare la sinistra, cambiare da sinistra». Introduce Angelo Fredda e conclude Carlo Leoni. «Discuteremo come prepararci al congresso - spiega il vice-presidente della Camera -. La fase è complessa, soprattutto perché mancano le sedi per discutere all’interno del partito, ma il nostro obiettivo condiviso è contrastare la nascita del partito democratico e difendere l’esistenza dei Ds».
Eppure oggi, un’altra parte della sinistra Ds si ritroverà a discutere proprio di partito democratico. Alle 17.30, a Palazzo Marini, prove tecniche di confronto aperto tra Pasqualina Napoletano, Marina Sereni, Cesare Damiano. Un’iniziativa che sa di appuntamento alternativo. A promuoverlo Francesco Simoni, nella segreteria regionale fino a poco tempo fa. Ufficialmente ancora iscritto alla sinistra Ds, anche se, insieme ad altri esponenti locali, ha già scelto per lo strappo, andando ad Orvieto «per non chiudere la porta al confronto sul partito democratico». Accanto a lui, a introdurre i lavori, ci sarà Walter Tocci, sperimentatore del «modello romano» ai tempi di Rutelli, in questo momento ben contento di definirsi «una delle poche persone che all’interno dei Ds ha scelto di non aderire a nessuna mozione». Eppure a luglio, durante un’affollata assemblea della sinistra Ds al Teatro Quirino, il suo era stato uno degli interventi più applauditi. «Penso - osserva Tocci, reduce da Orvieto e attento a tenersi fuori dal dibattito tra correnti - che in questo momento dovremmo tutti ragionare a mente libera, fuori dai vecchi schemi di schieramento interni, e preoccuparci di cosa può fare la sinistra per il futuro dell’Italia. Poi vedremo anche le scelte di ognuno». Tra gli ospiti attesi anche Pasqualina Napoletano, trattenuta da una riunione del Partito socialista europeo: «Mi sembra che il confronto sul partito democratico sia tutt’altro che concluso. Voglio vivere laicamente questo passaggio - osserva l’europarlamentare da Bruxelles -, senza avere ruoli di interdizioni. Ma dico anche che rinviare nodi importanti come il legame con il socialismo europeo è segno che ci sono troppe contraddizioni».

il manifesto 12.10.06
Bertinotti ricorda il '56, in piazza gli oppositori di oggi
Il presidente a Budapest: «Gli ideali di allora nell'Europa unita». Davanti al parlamento le proteste contro il premier Gyurcsány
di Massimo Congiu


Budapest. Una mattinata di sole ha accolto l'arrivo delle delegazioni straniere all'assemblea nazionale ungherese per rendere omaggio alle vittime dell'insurrezione del 1956 di cui, questo ottobre, il paese celebra il cinquantesimo anniversario. Brevi i discorsi dei vari ambasciatori e presidenti di parlamento, unanime il ringraziamento ai protagonisti di quei fatti che sono stati rievocati da un documentario. In bianco e nero le immagini delle manifestazioni di quel 23 ottobre di cinquant'anni fa, che segnarono l'inizio della sollevazione, e quelle dei combattimenti per le strade della capitale. All'inizio del suo intervento - subito dopo quello dell'ambasciatrice americana, enfatico e pieno di commozione a stelle e strisce - Fausto Bertinotti si è soffermato sui volti degli insorti visti in fotografia, il giorno prima, all'Istituto italiano di cultura che ospita fino al 24 una mostra fotografica dedicata alla ricorrenza. «Basterebbero le immagini e i volti degli insorti, la loro intensità e la loro voglia di futuro - ha detto il presidente della camera dei deputati - per convincersi che tutte le ragioni stavano dalla loro parte».
Una verità, secondo Bertinotti, che «fa parte del patrimonio di quell'Europa che oggi ci stiamo impegnando a costruire». L'emozione è l'altro denominatore comune dell'incontro svoltosi sulle rive del Danubio, emozione e solennità nel ricordare la sollevazione schiacciata dai carri armati sovietici. Bertinotti fa sua la definizione data da Imre Nagy, primo ministro nel 1956, giustiziato due anni dopo, a questa pagina di storia: un'insurrezione nazionale e democratica. «La definizione più convincente - ha aggiunto il presidente della camera - per un grande moto di popolo e di libertà». L'ex segretario di Rifondazione ha poi fatto riferimento al ruolo dei giovani, degli intellettuali ungheresi nel 1956 e ai discorsi sulla libertà e sulla democrazia che gli stessi facevano al circolo intitolato al poeta patriottico Sándor Petofi, diventato, nel 1848, uno degli ispiratori del movimento rivoluzionario per l'indipendenza magiara e morto l'anno dopo nel corso della repressione. Riferimenti anche al contributo degli operai che all'epoca si organizzarono in consigli che miravano all'autogestione. Su tutto, fa notare Bertinotti, la domanda di democrazia e di partecipazione di un intero paese che cercava di guadagnarsi un futuro libero. Poi la repressione, l'aggressione delle truppe inviate dall'Unione Sovietica che, per Bertinotti costituiscono una «colpa indelebile» che «ha segnato in modo irreversibile i regimi dell'Est». E ancora il '56 visto come la premonizione del crollo dell'impero sovietico e del muro di Berlino, «quelli che sembravano essere gli sconfitti si sono rivelati vincitori e coloro che, invece, hanno represso con le armi questa insurrezione hanno palesato la loro debolezza storica».
Per Bertinotti il modo migliore di ricordare i fatti di cinquant'anni fa è farli diventare memoria dell'Europa futura, l'Europa della convivenza e della pace; «mai più carri armati, la ragione è sempre dalla parte del popolo». E un po' di popolo era radunato, come ogni giorno, di fronte al parlamento. Il popolo dei manifestanti, ieri mattina non numerosi, che vuole le dimissioni del premier Gyurcsány. Le sue bandiere, le tende che ha piazzato, i suoi vessilli, compresi quelli che si ispirano alle tristemente famose croci frecciate, sono ancora lì. Diversi dimostranti, forse la maggior parte di loro, forse tutti, si sentono gli eredi degli insorti del '56, ma gli storici negano ogni legame tra i fatti di tanto tempo fa e quelli che si svolgono oggi. Fischietti e musica all'uscita dal parlamento, prima di andare al cimitero di Rákoskeresztúr, dove erano attese le delegazioni ufficiali per le solennità e i fiori da deporre sulle tombe di Nagy e degli altri protagonisti del '56 ungherese. i giornalisti italiani hanno chiesto a Bertinotti come conciliasse le celebrazioni in corso con il suo essere comunista, «qui oggi rappresento lo stato italiano - ha risposto - delle mie idee ho parlato ieri».

Repubblica 12.10.06
I tribunali della storia
Grazia e giustizia tra Medioevo e attualità: intervista ad Adriano Prosperi


La pratica della tortura. L'uso della confessione e l'abuso delle coscienze Cosa rimane della cultura inquisitoriale
Lo studioso terrà la lectio magistralis al FestivalStoria di Savigliano Tema, i processi che hanno mutato il costume
Nella condanna di Gesù ha radice l'intreccio tra la civiltà giuridica romana e la rivelazione divina
La storiografia fondata sugli atti processuali Il complicato rapporto tra giudice e storico

Dal processo a Socrate a quello contro Galileo, dai processi dell´Inquisizione ai riti contemporanei per mafia e scandali finanziari, la storia appare come punteggiata da differenti liturgie giudiziarie, che seppure con modalità diversissime hanno prodotto rilevanti cambiamenti nella coscienza pubblica e individuale. «Imputato, alzatevi! Il processo nei secoli» è il tema dell´attuale edizione del FestivalStoria - dal 19 al 22 ottobre tra Saluzzo e Savigliano - una rassegna internazionale di public history ideata lo scorso anno da Angelo D´Orsi. La lectio magistralis è stata affidata ad Adriano Prosperi, eminente modernista della Scuola Normale Superiore di Pisa, autore delle pagine più dense e illuminanti sui "tribunali della coscienza", che è poi anche il titolo d´un suo celebre lavoro sull´egemonia cattolica costruita attraverso l´Inquisizione, la predicazione dei missionari e la pratica della confessione. Questi argomenti figurano anche nella relazione su Grazia e Giustizia nella storia del lungo Medioevo, una riflessione che si ferma al mutamento di sensibilità prodotto dalle idee illuministe. Se l´excursus dello studioso - tra storia, teologia, carte processuali - è quanto di più distante dall´attualità, forse non sorprenderà che alcune idee di quel vetusto e terrifico modello medioevale siano tornate inopinatamente in auge.
Ancora oggi nel linguaggio ricorre una terminologia che ci riporta al significato religioso delle categorie di grazia e giustizia.
«È come se sopravvivesse una sacralità del processo, dalla quale si sviluppa una liturgia. Non a caso diciamo che si celebra un processo, così come si celebra un sacrificio religioso».
Centrale in questo retaggio religioso è la nozione di colpa.
«La colpa, certo, alla quale s´accompagnano specularmente le idee dell´espiazione e del perdono. Il funzionamento della giustizia, nel corso del lungo Medioevo europeo, si gioca proprio sul rapporto tra l´uomo per sua natura impastato di male e l´ampiezza del perdono di Dio, di cui i magistrati sono strumento. Il problema della giustizia moderna è la mancata reintegrazione del colpevole, oggi oggetto di riflessione sia da parte cattolica che laica».
Ciò che distingue - o dovrebbe distinguere - la sensibilità contemporanea è un´idea di pena tesa alla rieducazione del condannato.
«Un principio rivendicato anche dalla Costituzione italiana. Il compito della punizione è reintegrare nella società colui che è stato ritenuto colpevole. Ma a volte sembrano prevalere pratiche sancite dai tribunali dell´Inquisizione. Pensi al trattamento riservato ai terroristi negli Usa: non è molto diverso dalla tortura inflitta dai giudici dell´età inquisitoriale per il reato politico, il crimen lesae maiestatis. La ricerca della verità giustificava qualsiasi violenza: sia per salvare la potestà ecclesiastica dal suo mortale nemico, l´eretico; sia per preservare l´autorità temporale insidiata dal ribelle».
Lei insiste molto sulla sovrapposizione tra giustizia celeste e giustizia terrena, tra magistrato ecclesiastico e magistrato laico, un tratto che caratterizza tutto il sistema giudiziario medioevale. All´origine di questa "confusione" - se si può chiamare così - c´è il processo più importante della storia degli uomini, ossia il processo a Gesù.
«L´intera storia del mondo cristiano ha trovato in quel processo - con la condanna di un giusto, il Giusto per definizione - un´inesauribile fonte di significati. Lì ha radice l´intreccio tra la civiltà giuridica della tradizione romana e il tema misterico della rivelazione d´un messaggio divino. Da quel momento la verità che ogni tribunale produce è sempre in rapporto con una superiore verità divina. Rapporto che si può presentare di volta in volta come di omogeneità o di opposizione».
I giudici come strumenti di Dio o strumenti del diavolo.
«Il giudice può essere schierato con le forze del bene o con le forze del male, e in questo caso produce dei martiri, testimoni di una verità superiore».
L´accostamento è assai azzardato, ma non le pare che questa pratica della demonizzazione del giudice segni anche il costume contemporaneo?
«Intendiamoci, si tratta di due figure - il magistrato medioevale e quello contemporaneo - quanto mai diverse. Ciò che le distingue è proprio il distacco dalla matrice religiosa, che vedeva il giudice terreno come un semplice e fallibile strumento di Dio, criticabile e criticato. Oggi il potere di giudicare non rinvia più al livello superiore del giudizio divino: il risultato è che si erige a potenza autonoma, con la conseguenza dell´insopportabile giaculatoria sulla "fiducia nella magistratura" ribadita da tutti gli incriminati. Però riconosco che, intorno a questo ruolo sociale, è rimasta inalterata oggi l´attitudine a una drammatizzazione molto forte, con un´intensa carica simbolica».
Lo stesso emblema della croce, nelle aule di giustizia, evocava la possibilità di una giustizia ingiusta.
«Gli avvocati difensori ne fecero un argomento obbligato nella loro contestazione degli errori giudiziari. È rimasta celebre la frase pronunciata dall´avvocato di Zola, il dottor Clemenceau, per l´affaire Dreyfuss: "Il primo errore giudiziario della storia, ecco qua"».
Il processo può divenire il luogo della verità conculcata. I suoi materiali, lei scrive, possono consentire allo storico di rovesciare le sentenze ingiuste. È così che si sviluppa il rapporto tra storico e giudice?
«Molta storiografia è fatta oggi di atti processuali, con possibile rovesciamento delle sentenze. Alcuni capitoli centrali della storia europea sono segnati da processi celebri come quelli contro i Templari o papa Bonifacio VIII, voluti da Filippo il Bello al principio del Trecento. O i processi per stregoneria o eresia. O i processi rivoluzionari che portarono all´esecuzione di Carlo I re di Inghilterra nel 1641 e all´uccisione di Luigi XVI e Maria Antonietta nel 1792. O anche i processi staliniani. Ed ancora, il processo di Norimberga, e moltissimi altri».
Nel rapporto tra storia e giustizia lei indica due figure di riferimento: Piero Calamandrei e Carlo Ginzburg. Perché?
«Entrambi insistono su un punto: la ricerca della verità accomuna sia il giudice che lo storico, ma le loro strade si diversificano nel rapporto con il potere e con la stessa verità. Nel suo libro sul caso Sofri, Ginzburg ha dimostrato che nella lettura di un processo lo storico non è prigioniero delle carte, ma cerca di capire la vita che c´è dietro le carte. Ha scoperto una parte non verbalizzata, ma non meno vera del processo. Credo che proprio la vicenda di Sofri, che considero allucinante anche per la protratta umiliazione inflitta al condannato, contenga elementi che ci risospingono a un´idea medioevale di giustizia».
Dove oggi vede riaffacciarsi pericolosamente i segni d´una mentalità inquisitoriale?
«Nel modo in cui talvolta si discute di giustizia. Prenda ad esempio l´idea di sospendere tutti i diritti civili quando si ritiene vi sia una minaccia per l´assetto sociale. In fondo non è molto diverso dal controllo inquisitoriale che - a partire dalla fine del XV secolo - si esercitava sulla minoranza degli ebrei nella penisola iberica. Mi sembra che avanzi ovunque l´idea dell´eliminazione - non fisica certo, ma sociale - e del controllo stretto sulla parte che si ritiene più pericolosa. Penso alla recente proposta di Tony Blair di inserire microchip elettronici sotto la pelle delle persone sospette. Il fine è sempre quello di espungerle dal contesto civile: un po´ come fece il domenicano fra Venturino da Bergamo quando nel terzo decennio del Trecento organizzò una crociata fatta solo di ladri e assassini».
Nella costruzione del sistema coercitivo, pur fondato da un´ispirazione religiosa, lei attribuisce un ruolo chiave a Sant´Agostino.
«Mi sembra che la madre delle disgrazie successive abbia radice proprio nel vescovo di Ippona, quando autorizza la pratica della violenza contro gli eretici. Sant´Agostino stabilisce una sorta di gioco delle parti tra uomini di chiesa e amministratori di giustizia: a questi ultimi spetta punire, anche se ai primi è permesso esercitare il perdono delle anime».
La collaborazione tra potere ecclesiastico e potere della corona a un tratto si infrange sull´istituto della confessione.
«È in realtà una contesa intorno al controllo delle anime: la volontà di potenza che si insinua dentro la coscienza. A chi spettava amministrare il sacramento? La confessione come racconto delle colpe a un sacerdote o come confessione dei crimini al giudice? Ciascuno difendeva la propria giurisdizione».
Nella sua lezione, lei si sofferma sull´esercizio della grazia come pratica assai diffusa tra i monarchi europei d´età medievale. Un atto da cui il sovrano traeva legittimità e consenso, con una finalità dichiarata di coesione sociale. Anche qui l´accostamento può apparire vertiginoso, ma oggi l´indulto viene annoverato tra gli atti più impopolari dell´attuale governo.
«Mi verrebbe da risponderle che la diffusa protesta contro l´apertura delle carceri conferma l´anima forcaiola del popolo italiano, ma sarebbe un po´ affrettato. Certamente alla base del malumore c´è il carattere pasticciato del provvedimento, che comporta una soluzione superficiale del problema del sovraffollamento, senza misure autentiche per la prevenzione e il reinserimento. Ma in fondo agisce anche questo desiderio di eliminare il criminale non con la pena di morte - siamo pur sempre il paese di Beccaria - ma con l´annientamento civile. Un bisogno di sicurezza che può far regredire a un´idea arcaica di giustizia».

il manifesto 12.10.06
Quando serve punire
di Franco Carlini


Gli altruisti saranno sempre sconfitti dai predatori egoisti, più cinici e spregiudicati. Ma si può reagire, con un castigo sociale, ai comportamenti ingiusti, ristabilendo un equilibrio e incoraggiando l'agire solidale e cooperativo

Cooperazione e condivisione (sharing) di questi tempi sono le parola d'ordine del web, grazie al movimento Open Source, a tal punto robusto da presentarsi come seria alternativa, anche commerciale, ai software proprietari. E' anche per questa tendenza praticata socialmente che gli studiosi del comportamento umano e della sua evoluzione, hanno accelerato le loro ricerche, nel tentativo di spiegare il «mistero dell'altruismo». Tra gli psicologi e i sociologi il termine «altruismo» non ha alcun particolare valore morale, ma viene usato per indicare quei comportamenti degli umani, ma anche degli animali, in cui qualcuno compie delle azioni a favore di altri, azioni che a lui costano un prezzo (di denaro, di tempo, di fatica e, nei casi estremi, di sacrificio della vita).
L'altruismo è relativamente facile da spiegare verso i parenti: più stretti sono i rapporti di consanguineità, più ci si dona senza calcolo alcuno. In altri casi, all'interno di un gruppo o di una organizzazione, prenderà la forma di «reciprocità», venata da un sottinteso utilitarismo: si dona agli altri scommettendo, magari inconsciamente, che quel dono o favore ci verrà restituito. La difficoltà vera, in una cultura come la nostra, dominata dalla supposta razionalità utilitaristica, viene da quei comportamenti in cui si agisce altruisticamente verso degli sconosciuti, che magari non si incontreranno più.
E allora perché lo facciamo? Una delle spiegazioni avanzate dice così: la specie umana, e anche diverse specie animali, trae vantaggio dal vivere in comunità, dove fatiche e benefici possano essere suddivisi; perciò i gruppi sociali in grado di agire in maniera cooperante e solidale al proprio interno hanno un vantaggio sugli altri gruppi che non ne sono capaci. Dunque nella competizione per le risorse tra diversi gruppi, i più coesi vinceranno. Come si vede questa teoria non fa ricorso a nessuna ipotesi sulla bontà d'animo degli umani e non si addentra nella discussione filosofica sulla natura dell'uomo, se si sia di per sé buono o invece selvaggiamente proteso a sopravanzare gli altri, costi quel che costi. Laicamente, e senza addentrarsi in giudizi di valore, registra, anche storicamente, la forza dei popoli coesi, per esempio capaci di andare in guerra, anche se la guerra costerà la vita di molti appartenenti al gruppo. Cooperazione e altruismo interno diventano armi competitive per difendere un territorio o un mercato. Anche i tentativi delle aziende di ottenere spirito di squadra e creatività dai dipendenti rientrano in questa descrizione.
Ma come si forma la solidarietà interna alle popolazioni e la propensione a collaborare (almeno un po') altruisticamente? Sia i modelli matematici che gli esperimenti sul campo ci dicono che gli altruisti all'interno di un gruppo, anche quando siano abbastanza numerosi, possono venire sconfitti e mutarsi in menefreghisti a causa dalla presenza di un numero pur piccolo di «predatori» che approfittano della bontà altrui, raccogliendone in frutti sotto forma di aiuti diretti o di beni comuni di cui disporre senza cooperare al sistema sociale.
Per restare nell'attualità politica di questi giorni, è ben evidente che chi paga tutte le tasse, per senso civico o per obbligo, sarà fortemente spinto invece a evaderle se altri non lo fanno e tuttavia godono come lui dei beni che lo stato mette a disposizione grazie alle entrate fiscali. Si genera un ciclo di retroazione negativo: i comportamenti predatori spingono anche i virtuosi a lasciar perdere e l'esito può essere la disgregazione sociale.
Gli studiosi della politica ci spiegano da tempo che la disgregazione sociale individualistica prodotta da pochi predatori può essere evitata se esiste un sistema di sanzioni. E fin qua niente di nuovo, dato che tutti gli stati, a seconda dei loro valori, puniscono con multe o carcere i comportamenti antisociali. Tuttavia spesso ciò non basta perché non è sempre facile far rispettare le leggi (c'è un costo in apparati polizieschi e giudiziari) e perché certi comportamenti egoistici non sono catalogati come reati e tuttavia, nel loro piccolo, ma moltiplicato per milioni di volte, nuocciono al gruppo sociale: dalle cartacce buttate per terra, al posteggio in seconda fila, allo scavalcare la coda facendo i furbi. In questi casi diventa importante che i singoli, in presenza di tali egoismi, reagiscano. Nei nostri paesi civilizzati non si tratta di farsi giustizia da soli, ma di esprimere pubblica riprovazione, la quale comporta una sanzione sociale, un discredito. In molti villaggi o piccole comunità, la riprovazione sociale, arrivando fino alla emarginazione di chi non si adegua ai valori comuni, può essere più efficace di un sistema formale di norme e punizioni codificate.
Ovviamente è facile reagire agli atteggiamenti predatori quando se ne è vittime, per esempio quando uno ci passa davanti in coda, procurandoci un danno diretto. Ma più interessante è il comportamento di quelli che gli studiosi chiamano «punitori altruistici». Sono quelle persone che, pur non essendo coinvolte, intervengono attribuendo una punizione ai predatori e magari lo fanno pagando esse stesso un prezzo. Un esempio banale: di fronte a una macchina posteggiata in doppia fila che blocca il traffico un punitore altruista potrebbe aspettare l'arrivo del conducente e fargli una ramanzina davanti a tutti; così facendo dovrà usare del proprio tempo e caricarsi del rischio di essere mandato a quel paese con male parole.
Esistono diversi modelli matematici che descrivono il comportamento di popolazioni costituite da un mix di agenti egoisti e altruisti e che studiano la loro evoluzione nel tempo; per esempio è stato verificato che la presenza nella popolazione di un certo numero di punitori altruisti frena la disgregazione e impedisce che l'egoismo diventi il comportamento dominante. Infatti gli altruisti, vedendo che qualcuno interviene disinteressatamente per punire gli atteggiamenti predatori, si sentono incoraggiati e non passano nella schiera dei delusi. I predatori, stupiti di incontrare una reazione sociale al loro agire, adatteranno le proprie scelte future quantomeno limitando il proprio egoismo. Tutto questo viene simulato con matrici di vincita (punteggi) e facendo girare i programmi al computer molte volte finché la situazione non si stabilizza. Ma come vanno le cose con gli umani in carne e ossa? Quei modelli matematici hanno qualche rapporto con i comportamenti reali nelle nostre civiltà d'oggi?
Un gruppo di ricercatori, guidato da Joseph Henrich, del dipartimento di antropologia della Emory University di Atlanta, ha voluto verificarlo non già, come si fa di solito, usando gli studenti universitari, popolazione troppo culturalmente omogenea, ma andando a fare tre esperimenti di teoria dei giochi in mezzo a 15 popolazioni diverse, dagli Isanga della Tanzania agli Tsimane della Bolivia, dagli abitanti delle isole Yasawa nelle Fiji ai Gusii del Kenya. Una vera ricerca antropologica multiculturale. Il test centrale di questa ricerca viene sinteticamente spiegato in questa stessa pagina.
I risultati, pubblicati nel mese di giugno sulla rivista Science (vol. 312, pag. 1767- 1770) ci dicono tre cose: (1) Intanto che il comportamento punitivo ma disinteressato esiste in ogni cultura, indipendentemente dalla struttura sociale ed economica delle popolazioni; un po' come se un certo senso della giustizia e dell'ingiustizia fosse patrimonio comune di tutti gli abitanti il pianeta. (2) Tuttavia l'intensità di questi comportamenti, ovvero la percentuale di individui che agisce da castigatori altruisti, varia da situazione a situazione; in certi casi, addirittura si è notato una certa tendenza a punire anche i comportamenti troppo generosi, e non solo quelli troppo egoistici, quasi che un eccesso di generosità fosse disdicevole perché segno di una esibizione di potere. (3) Infine, questa tendenza a punire per tutelare un senso di giustizia pubblico, va di pari passo, ovvero è matematicamente correlato, con i risultati del terzo test che misurava l'altruismo, in altre parole sono proprio quelli più pronti a donare che più facilmente sono anche pronti a sanzionare l'egoismo degli altri. Insomma comunità che si autoregolano, sia nel promuovere comportamenti cooperativi, sia nel criticare e disincentivare quelli predatori.

Repubblica Salute 12.10.06
Schizofrenia, la solitudine delle famiglie
Al Congresso di neuropsicofarmacologia studio in 8 paesi: stessi problemi
di Silvia Baglioni


Parigi. "Nel mondo vi sono più di 50 milioni di persone che soffrono di malattie mentali gravi. Se calcoliamo tutti i familiari, si capisce immediatamente quanto è lunga l'ombra dei disturbi mentali". Con queste parole Preston Garrison, del World Federation for Mental Health (WFMH), ha introdotto la ricerca "Keeping care constant", la prima indagine internazionale condotta sui familiari che si occupano di malati affetti da disturbo mentale (schizofrenia, disturbo bipolare o schizoaffettivo), presentata a Parigi durante il congresso dell'European College of the Neuropsycopharmacology.
Lo studio, realizzato con il contributo della farmaceutica Lilly, è stato condotto in otto Paesi (Italia, Australia, Canada, Germania, Francia, Spagna, Regno Unito e USA) e ha coinvolto più di 100 familiari. Ciò che è emerso supera le frontiere e le differenze tra i diversi sistemi sanitari: queste famiglie, ovunque vivano, hanno gli stessi problemi e le stesse aspettative.
Sigrid Steffen della Federazione Europea delle Associazioni di Familiari di Persone con Disturbi Mentali (EUFAMAI) sottolinea i problemi: la gestione quotidiana della malattia, le difficoltà nel trovare la terapia adatta e personalizzata, le drammatiche conseguenze legate all'interruzione dei trattamenti, le ricadute che richiedono interventi repentini e a volte devastanti, la solitudine e, non ultimi, i pregiudizi.
Dalla ricerca emerge che circa il 50 per centodei malati vive in famiglia. Per oltre il 70% il disturbo mentale rappresenta uno stato cronico, e, nella maggioranza dei casi, sono stati necessari almeno due anni per individuare la terapia adatta. E sono proprio i farmaci la prima preoccupazione delle famiglie che, molto spesso, lamentano l'abbandono della terapia.
"Questo avviene principalmente in due casi" spiega Dieter Naber, psichiatra e psicoterapeuta dell'Università di Amburgo, "quando gli effetti collaterali sono molto pesanti, oppure quando i sintomi sembrano scamparsi e la persona si sente sicura di sé, dimenticandosi che quello stato di benessere è indotto proprio dalla terapia".
I familiari chiedono, attraverso le loro associazioni, che gli specialisti siano in grado di trattare le fasi acute con farmaci non troppo pesanti e di suggerire terapie adatta a cure croniche; un accesso facile ai servizi; sostegni economici. "In tutti i Paesi il budget destinato ai disturbi mentali è bassissimo" spiega la Steffen "e non è neppure confrontabile a quello destinato ad altre patologie".
In Italia la riforma psichiatrica del 1978 ha chiuso i manicomi spostando l'assistenza sul territorio: modello da molti imitato, ma ancora problematico. "In Paesi come quelli anglosassoni i pazienti gravi vengono ricoverati in strutture specializzate" afferma Maria Luisa Cardini, dell'Associazione ARAP, "da noi non succede. Le strutture territoriali spesso non hanno le risorse né le competenze per intervenire. Così, nei casi disperati, si arriva all'assurdo che i genitori denuncino i figli pericolosi al fine di farli internare nelle sole strutture presenti, i manicomi criminali".

saluteeuropa.it 10.10.06
Psichiatri, giudici e criminologi a confronto sulla malattia mentale


”Come cambia l’obbligo della cura in psichiatria” è il titolo del convegno che il prossimo 14 ottobre a Bergamo, nella sala Piatti di via San Salvatore in Città Alta, riunirà psichiatri, criminologi e giudici con l’obiettivo di esplorare i rapporti fra malattia mentale, servizi psichiatrici, carcere e ospedali psichiatrici giudiziari. L’iniziativa è organizzata dalla Fondazione Emilia Bosis e dal Dipartimento Salute Mentale degli Ospedali Riuniti di Bergamo con l’obiettivo di fare il punto sul trattamento di pazienti che, nei loro comportamenti patologici, sono risultati attori di reato, dalla clamorosità minacciosa fino al delitto più grave e drammatico. Il direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’ospedale di Bergamo, dott. Massimo Biza anticipa: “A Bergamo, grazie ad un lungo lavoro di collaborazione fra servizi di psichiatria e uffici giudiziari oggi è possibile far si che i comportamenti malati, ancorché giudicabili come reato, possano dar vita ad un'iniziativa sanitaria, invece che semplicemente repressiva e ciò già a partire dalle primissime fasi del procedimento penale. In tal senso la nostra esperienza, finalizzata ad utilizzare le comunità residenziali di riabilitazione psichiatrica per curare malati che in passato, in un diverso regime o in altre esperienze italiane meno avanzate, andavano in carcere o in ospedale psichiatrico giudiziario, è considerata per molti aspetti pilota. I nostri servizi - aggiunge il dott. Biza - non si sostituiscono al carcere o al manicomio criminale. Come testimonieranno i direttori dei due principali ospedali psichiatrici giudiziari in rapporto con i servizi del Dipartimento di Bergamo, Castiglione delle Stiviere e Reggio Emilia, i servizi ospedalieri certamente consentono di evitare il ricorso a quelle istituzioni in tutti i casi in cui ciò è reputato possibile dal concorso di pareri degli psichiatri e dei giudici”. I comportamenti disturbanti, le misure e i servizi per farvi fronte saranno analizzati da psichiatri particolarmente impegnati nel settore come per esempio Gemma Brandi, direttrice della rivista nazionale "Il reo e il folle”, Vittorio Volterra, cattedratico di psichiatria a Bologna con docenze di psicopatologia forense, Isabella Merzagora Betsos, cattedratica di criminologia a Milano e Pierpaolo Martucci, docente di antropologia criminale a Trieste.

Corriere.it 12.10.06
Onu: violenza sui bambini emergenza globale
Uno studio delle Nazioni Unite denuncia: oltre 220 milioni di bambini vittime di abusi. Fenomeno spesso socialmente accettato


NEW YORK - Si potrebbe parlare dell'agghiacciante «normalità del male» leggendo i dati sulla violenza esercitata sui bambini nel mondo diffusi da uno studio commissionato dal segretario generale dell'Onu Kofi Annan, e frutto di quattro lavori di ricerche. Secondo l'indagine circa 150 milioni di bambine, il 14% della popolazione infantile del pianeta, sono vittime di abusi sessuali ogni anno, così come il 7% dei maschi, il che vuol dire 73 milioni di bambini. Inoltre tra l'80 e il 93% dei bambini subisce punizioni fisiche a casa, anche se molti di loro non ne parlano per vergogna e mancanza di fiducia nei sistemi legali. La casa può essere anche un posto pericoloso per le 82 milioni di bambine circa che si sposano prima di compiere i 18 anni e che possono subire violenze da parte dei loro partner. Infine: in 106 Paesi sono ancora permesse le punizioni fisiche nelle scuole. La violenza sui minori è, insomma, largamente accettata nel mondo come qualcosa di normale e spesso socialmente approvata, quando non addirittura legale.
EMERGENZA GLOBALE - «La protezione dalla violenza è una emergenza», scrive il professore Paulo Sergio Pinheiro, autore dello sconvolgente rapporto. Per Pinheiro - riferisce la Bbc on line - questa situazione non è accettabile e decenni di abusi silenziosi non possono rimanere incontrastati. «Molta gente, anche bambini, accetta la violenza come parte inevitabile della vita» spiega l'esperto nello studio, il primo di questo tipo, che registra i vari tipi di violenza, dalla prostituzione al bullismo a scuola, sviluppato in diversi ambienti e luoghi della vita dei bambini: a casa, nella comunità e nelle istituzioni.
SEGNI A LUNGO TERMINE - Queste violenze - sottolineano gli autori della ricerca - possono lasciare gravi segni psicologici a lungo termine. «Esorto gli stati - conclude Pinheiro - a proibire qualunque forma di violenza contro i bambini, in tutte le sue forme, includendo tutte le punizioni corporali, pratiche tradizionali dannose - come la mutilazione femminile genitale, i matrimoni prematuri e obbligati e i cosiddetti delitti d'onore - violenze sessuali e torture e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti».