mercoledì 11 ottobre 2006

LaStampaweb 11.10.06
Violenza contro le donne, un flagello mondiale
Così l'Onu: una donna su tre la subisce almeno una volta nella vita


NEW YORK. «Un flagello mondiale»: così l'Onu definisce la violenza contro le donne, che una su tre subisce almeno una volta nella vita, e in 192 stati tra quelli che fanno parte delle Nazioni Unite non esistono leggi che puniscano gli uomini protagonisti di tali violenze.
Questo il tema del rapporto dell'Onu che si è occupato in prevalenza di violenze fisiche, sessuali, psicologiche ma anche di mutilazioni genitali e di ciò che accade alle donne durante le guerre. In una conferenza stampa l'assistente del segretario generale Kofi Annan, Rachel Mayanja, ha detto: «Finalmente il velo sulle violenze contro le donne è stato squarciato; la realtà è diventata di pubblico dominio e ciò ci obbliga ad agire». Il rapporto, di 139 pagine, afferma che solo 89 paesi hanno una legislazione sulle violenze familiari e che tra il 40 e il 70 per cento delle donne assassinate lo sono dal marito o dall'amante.
Il rapporto parla anche di mutilazioni genitali subite da 130 milioni di ragazze nel mondo, soprattutto in Africa, in alcuni paesi del Medio Oriente e nelle comunità di immigrati.
Anche nei conflitti armati la violenza contro le donne ha spesso carattere sessuale. L'Onu stima che durante il genocidio del Ruanda del 1994, tra le 250 e le 500 mila donne siano state violentate e che tra le 20 e le 50 mila abbiano subito la stessa sorte durante il conflitto in Bosnia, negli anni Novanta.
Secondo il rapporto Onu allora il modo migliore per combattere tale flagello è quello di fare conoscere publicamente il fenomeno, parlarne, prendere impegni politici davanti all'opinione pubblica, coinvolgere la società civile e le organizzazioni, in particolare quelle delle donne, nell'elaborazione di leggi dedicate.

Corriere.it 10.10.06
Un libro svela i lati oscuri del controverso rapporto con il dottor Greenson
Marilyn, diario segreto di una schizofrenica
«Un'orfana a caccia d'amore». E il suo analista violò ogni regola
di Ranieri Polese


Per lui, lei era «la mia schizofrenica preferita », lui invece era l’uomo da cui lei voleva farsi adottare. Per trenta mesi, fra l’inizio del 1960 e il 4 agosto 1962, tra Marilyn Monroe e il dottor Ralph Greenson si svolse un folle corpo a corpo, devastante come una passione d’amore fatale, perversa, senza sesso. Da cui la diva sarebbe uscita cadavere lasciando il suo dottore a ripetere fino alla morte (1979) le sue giustificazioni. Marilyn dernières séances («Marilyn, le ultime sedute», pagine 533) è il romanzo di Michel Schneider uscito da poco in Francia da Grasset che racconta questa vicenda di amour fou. È stato uno dei libri caldi di Francoforte, e per l’Italia la gara è ancora aperta. Se già il taglio di questo romanzo è originale (l’ultima analisi di Marilyn come una grande storia d’amore), ancora di più è la scelta di Schneider di stare dalla parte del dottor Greenson, di voler comprendere il suo dramma.
A dispetto di biografi e fans della bionda divina che vedono in lui l’uomo da odiare. Così, questo autorevole freudiano (il suo Tecnica e pratica psicoanalitica, tradotto anche in italiano, è stato per molti anni testo di studio) che con la sua celebre paziente aveva infranto ogni regola terapeutica, è diventato un dottor Caligari vagamente satanico, l’uomo con la siringa in mano come lo mostra la biografia a fumetti Marilyn. Shooting Star uscita in Francia da Casterman. E invece «il dottor Greenson era un uomo perbene», dice nel libro uno strano personaggio, quel John Miner che non molti anni fa cercò di vendere le trascrizioni dei nastri incisi da Marilyn per il suo psicoanalista. Un tipo sospetto (lui stesso diceva di aver scritto a memoria le «libere associazioni» molti anni dopo) che proponeva un testo pieno di sesso, clisteri e un po’ di Joyce, il monologo di Molly Bloom, ovviamente. Ma il romanziere Schneider si prende la libertà di credergli, tralascia di riportare le frasi pornografiche di quei presunti nastri, e invece lo arruola come testimone a difesa del freudiano deragliato per amore. Gli spostati. Gennaio 1960. Marilyn, impegnata nelle riprese di Facciamo l’amore, sta male: il matrimonio con Arthur Miller vacilla, il rapporto con il regista George Cukor è pessimo, anche la relazione con Yves Montand crea tensione. Così ricorre al dottor Ralph Greenson, consigliatole da Marianne Kris che l’aveva avuta in cura a New York. Alla prima seduta, lei arriva in ritardo. Lui, comunque, non la fa stendere sul lettino. Dice di aver capito subito la fragilità della paziente, comincia un misto bizzarro di terapia, confidenze, familiarità. Si sentono per telefono, lei dopo un po’ resta a cena a casa di lui diventando amica dei figli e della moglie, si scambiano regali. Per fermare l’abuso di sonniferi e psicofarmaci, Greenson chiama un medico di sua fiducia e una governante. Ma intanto consiglia a Marilyn di servirsi come avvocato del proprio cognato, Milton Rudin.
Quando nel 1961 Marilyn gira Gli spostati su un soggetto scritto per lei da Miller, si verificano nuove crisi: Greenson le concede di tornare alle medicine proibite. Dopo il divorzio da Miller, il 1962 sarà un susseguirsi di cadute, che culminano nel licenziamento: per le continue assenze dal set di Something’s Got To Give, la Fox le darà il benservito. E il film resterà incompiuto. Il presidente Kennedy rompe con lei,ma gli subentra il fratello Robert. In questi mesi Marilyn e l’analista si vedono per molte ore tutti i giorni, weekend compresi. A maggio Greenson si prende una vacanza in Europa, ma dovrà tornare precipitosamente. Dal 28 giugno al fatale 4 agosto, i due non si lasceranno più. Pene d'amor perdute. Il dottor Greenson, nel romanzo, è un uomo con tante debolezze: sicuramente è lusingato di aver per paziente la donna più famosa di Hollywood, ne parla, se ne vanta. Ma intanto si fa invadere da lei, dice di amarla ma «come un’orfana bisognosa di infinito amore», crede di poter riuscire a gestire il transfert violando tutti i comandamenti del setting ortodosso. Non ha più una vita sua. Non vuole confessarsi di essere lui a dipendere dalla sua paziente. Lui, che aveva cambiato in Ralph il nome Romeo datogli dai genitori, gioca pericolosamente con eros e thanatos. Così—qui scatta l’intuizione romanzesca di Schneider, psicoanalista oltre che scrittore — farà di tutto per non perderla, a costo pure di provocare la tragedia. È Marilyn, ci dice il romanziere, che comincia a non voler più questo legame. Non vive senza Greenson, è vero, eppure confessa agli amici che vuole chiudere. Non ce la farà. Un complotto freudiano? Ma com'è morta Marilyn? Suicidio o omicidio? E nel caso sia stata uccisa, da chi e perché? Schneider, che ha letto moltissime biografie e ricerche sull’attrice (Summers, Spoto, Wolfe e naturalmente Mailer,la Oates e tanti altri), sa che non è possibile dare una risposta convalidata da prove inoppugnabili.
Così sceglie la via del romanzo: i personaggi sono veri, i fatti si possono ricostruire a piacimento. «Solo la finzione narrativa apre la via del reale» scrive. Mala verità che ci propone non ha nessun valore documentale. Certo, alcune coincidenze inquietano. Una soprattutto colpisce Schneider, la rete psicoanalitica entro cui l’attrice è finita intrappolata. Riprendendo lo studio di Luciano Mecacci (Il caso Marilyn,La terza, compare nella bibliografia di Schneider) lo scrittore ricompone questa famiglia tremenda, promiscua, «ai limiti dell’incesto». Negli anni ’30 Greenson si era fatto psicoanalizzare a Vienna da Wilhelm Stekel, un allievo di Sigmund Freud. Un altro allievo di Freud, Otto Fenichel, era stato il maestro di Rudolph Loewenstein, l’analista di Arthur Miller. Marianne Kris, discepola di Freud e analista di Marilyn, poi avrebbe avuto in cura anche Jacqueline Kennedy, moglie del presidente John, amante di Marilyn. Anton Kris, figlio di Marianne, era l’analista delmarito della governante di Marilyn. Anna Freud aveva curato Marilyn a Londra al tempo del film Il principe e la ballerina conLaurence Olivier. Fra i pazienti del dottorGreenson c’era Frank Sinatra, uno degli amanti di Marilyn. Greenson, dopo la morte dell’attrice, si fa psicoanalizzare a New York daMax Schur, ilmedico amico di Freud che nel 1939 a Londra lo aiutò a morire con lamorfina (le sue memorie escono ora, in Italia, da Bollati Boringhieri). Nei colloqui avuti con John Miner pochi giorni dopo la morte dell’attrice (veri, falsi, verosimili?, ma qual è il discrimine tra romanzo e verità?) Greenson avrebbe detto: «Non so chi abbia ucciso Marilyn. La psicoanalisi, certo, ha avuto un ruolo in tutto questo. Non è stata lei a ucciderla, come dicono gli antifreudiani e gli antisemiti. Però non l’ha aiutata a sopravvivere».

Unità.it 11.11.06
Iraq, studio Usa: «655mila morti per la guerra»


«655mila iracheni sono morti dall´inizio della guerra». Scuote gli Stati Uniti il nuovo calcolo delle vittime civili del conflitto iracheno iniziato nel 2003 realizzato da un gruppo di ricercatori statunitensi della Scuola medica Bloomberg dell'Università Johns Hopkins. Pubblicato sulla rivista britannica The Lancet lo studio arriva sulle prime pagine del Washington Post e del New York Times. E poi anche in apertura del sito internet della Cnn.

In effetti quello degli studiosi della prestigiosa università statunitense è il bilancio più alto registrato finora sul conflitto iracheno. Lo stesso sito internet Iraqbodycount che fino ad oggi era stato preso come punto di riferimento indipendente per la stima delle vittime della guerra, parlava di una cifra compresa tra i 43mila e i 48mila morti. Mentre la rivista britannica Lancet aveva pubblicato nel 2004 uno studio che riferiva di 100.000 morti nei primi 18 mesi di conflitto

Ma adesso si parla di 655.000 vittime complessive di cui 601.000 decedute in seguito ad atti di violenza e le restanti per malattie o altre cause. I ricercatori affermano di aver registrato un regolare incremento della mortalità dall'inizio del conflitto, con un forte aumento nell'ultimo anno. La ricerca è stata condotta da medici iracheni sotto il controllo degli epidemiologi della Scuola medica Bloomberg dell'Università Johns Hopkins.

Lo studio è stato condotto da otto medici iracheni dell'Università Mustansiriya di Baghdad nel periodo compreso tra il 20 maggio e il 10 giugno scorsi su un campione di 1.849 famiglie, composte in media da sette membri, sparse in 47 zone del paese. Le aree sono state scelte in base alla densità di popolazione e non al tasso di violenza. Ogni membro di ciascuna famiglia ha riferito dei lutti avuti nei 14 mesi precedenti la guerra e nel periodo successivo. Stando ai risultati dello studio, prima del conflitto si avevano 5,5 morti ogni 1.000 persone, dopo la guerra 13,3 ogni 1.000. Le ferite da arma da fuoco hanno causato il 56% delle morti violente, mentre autobombe e altre esplosioni il 14%. Un altro 31% è stato causato dai bombardamenti o dalle operazioni delle forze di coalizione.

Intanto arriva l´ennesimo allarme dell´Onu sulla drammatica situazione dei civili in Iraq. Il Sottosegretario delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Jan Egeland, ha denunciato che negli ultimi otto mesi 315.000 iracheni sono stati costretti ad abbandonare le proprie case a causa del «peggioramento molto preoccupante» delle loro condizioni di vita. Il ministro iracheno per l'Immigrazione, Abdul-Samad Sultan, aveva pochi giorni fa affermato che sono oltre 300.000 le persone sfollate nel paese dall'inizio della guerra, nel marzo 2003. Egeland, invece, ha sottolineato che la fuga è stata innescata dalle violenze seguite all'attacco contro il mausoleo sciita di Samarra, avvenuto lo scorso febbraio. «Da allora ogni settimana abbiamo una media di 9.000 sfollati», ha detto il Sottosegretario Onu alla stampa.

l’Unità 11.10.06
Bertinotti a Budapest per l’anniversario del ’56: «Il crollo del muro cominciò da qui»
Il presidente della Camera oggi sulla tomba di Nagy: «Quella rivolta spenta coi carrarmati ci dice quanto è grande il costo per la conquista della democrazia»
di Simone Collini


IL MURO «Il crollo del Muro di Berlino comincia qui, a Budapest». Fausto Bertinotti non usa mai la formula generica «fatti d'Ungheria». Quella del '56, dice ripren-
dendo una definizione veicolata dallo stesso Imre Nagy prima di essere impiccato, è stata «una insurrezione nazionale e democratica». Il presidente della Camera è in visita nella capitale ungherese per commemorare il cinquantesimo anniversario di quella che già nel recente faccia a faccia con Fini aveva definito «una tragedia, una nefandezza». Ora visita la mostra fotografica allestita per la ricorrenza all’Istituto italiano di cultura e approfondisce il discorso. «Tutta la nostra solidarietà e adesione sono per gli insorti», mette subito in chiaro, «incondizionata condanna della repressione armata da parte di un paese straniero come l'Unione sovietica». La rivolta ungherese, dice, «ha annunciato tutti i temi irrisolti che hanno portato al crollo dell’Urss e dei regimi dell'Est». La repressione nel sangue di quel "moto di popolo", aggiunge, «ha segnato gli eventi successivi, le vittime ma anche i carnefici».
Guarda le foto di quei giorni dell'autunno '56, le piazze piene di gente festante il 24 ottobre, la statua di Stalin buttata giù, la bandiera con un grande buco al centro, dove prima c'erano la falce e martello. Guarda quella stessa gente immortalata con i fucili in spalla nei giorni successivi («guarda quante donne»», dice alla moglie Lella che lo accompagna), le immagini del presidente Nagy che parla alla Kossuth Radio. Poi guarda i palazzi sventrati e le colonne di carri armati che il 4 novembre entrano nella città, i morti per le strade e quelli che con valigie e sacchi in spalla fuggono verso l'Austria.
All'epoca Bertinotti aveva 16 anni. «A quell'età stai sempre con gli insorti», sorride. «Ma direi il falso se dicessi che era frutto di una coscienza politica sostenibile». Oggi, dice concordando sul fatto che allora avesse ragione Nenni, questa coscienza è radicata. Complice anche quanto avvenuto anni dopo a Praga: «Lì si consuma l'idea dell'irriformabilità dei paesi dell'Est».
Il Pci nel '56 si piazzò «da una parte della barricata», quella dell'Armata rossa. E se Togliatti disse «oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più» a un Ingrao titubante prima di scrivere quell'editoriale su l'Unità, Bertinotti non esita a dire che «ci sono momenti in cui c'è la sospensione dell'umanità». Più tardi, parlando con l'ambasciatore dell'Italia a Budapest Paolo Guido Spinelli, aggiunge anche un'altra cosa sull'allora segretario del Pci: «In Italia il partito ottenne un buon risultato alle elezioni che seguirono l'insurrezione e la repressione. Si dice che Togliatti chiese all'Unione sovietica di rimandare a dopo il voto l'esecuzione di Nagy. Si dice», chiude con un sorriso e alzando le braccia.
Ma se si prova a chiedergli che senso abbia ancora oggi, per un uomo o per un partito, definirsi comunista, Bertinotti butta là una battuta ("per tigna"), per poi argomentare serio: «Finché ci sono oppressi ed oppressori rimane l'idea che gli oppressi possano farcela. Non fa decadere la ragione del comunismo la tragedia del suo rovesciarsi in un regime oppressivo. Per negare la possibilità di dirmi comunista mi si dovrebbe dimostrare che non esiste più il lavoro salariato né l' alienazione capitalista».
Oggi sarà al Parlamento ungherese per la sessione commemorativa del cinquantenario, e poi alla tomba di Nagy. Questa celebrazione, dice sottolineando che questa è l'unica frase pronunciata come presidente della Camera, «ci dice quanto costi la conquista della democrazia». Ma siccome essere equivocati è facile, poi aggiunge: «La democrazia non può essere esportata, può solo essere conquistata, non imposta».

il manifesto 11.10.06
A Budapest
Bertinotti: nel '56 fu rivolta di sinistra


Le ragioni della sinistra non possono mai essere dalla parte della repressione e dei carri armati. Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, era ieri a Budapest in occasione del cinquantenario della rivolta anti-sovietica: «I conti con la storia non si chiudono mai - osserva Bertinotti - certo che oggi inequivocabilmente si può dire che se esiste una ragione per il futuro della sinistra, questa nel 1956 viveva qui dalla parte degli insorti e non dalla parte dei carri armati dell'Unione Sovietica». Un mese fa il presidente della repubblica Giorgio Napolitano era stato sulla tomba del leader della rivolta Imre Nagy per rendere omaggio al leader sia come presidente della repubblica che come ex leader del partito comunista italiano disposto a un «mea culpa» formale ed esplicito. Ora è il presidente della camera a fare lo stesso con un gesto che potrebbe far discutere almeno un pezzo del partito di cui fa parte ed è stato a lungo segretario, Rifondazione comunista. «La repressione operata tragicamente nei confronti degli insorti - ha spiegato Bertinotti - l'intervento armato, l'invasione dell'esercito dell'Unione sovietica ha scritto una delle pagine più angoscianti e terribili della storia moderna. Quali che siano le nostre propensioni politiche quello che va acquisito per il futuro è che gli insorti interpretavano le ragioni nazionali e democratiche di un paese. Quando rivolte popolari accadono la politica se non sa ascoltare, diventa una forma brutale di repressione che contraddice le sue ragioni stesse di essere». Non è stata un'abiura del comunismo, ha detto subito dopo Bertinotti spiegando che continuerà a dirsi comunista fino a che ci sarà il capitalismo: «Vorrei quasi rispondervi che mi dico comunista per tigna - ha detto ai giornalisti presenti sserva - ma poi credo che perché si determini la situazione di negare la possibilità di dirsi comunista, bisognerebbe dimostrare che non esiste più il lavoro salariato e l'alienazione capitalistica. Allora la parola comunista sarebbe finita, solo allora: finito il capitalismo, saremmo entrati in un'altra società e tutto l'armamentario del comunismo non sarebbe più utilizzabile, perché si riferisce a un'altra società. Se scompare il capitalismo finisce anche il comunismo». Sull'Ungheria, però, è necessaria una riflessione: «Questa è stata una tappa, quello che è accaduto qui è stata una tragedia, che per qualcuno lo è di più che per altri, perché chiama in causa una corresponsabilità per quanto indiretta e in senso lato. Qui è venuto prima di me ad inginocchiarsi Willy Brandt. Qui è stata scritta una pagina grande della storia d'Europa, che ci avverte tutti del rischio di un potere che, restraniandosi dal popolo, diventa soltanto oppressione».

Liberazione 11.10.06
Il presidente della Camera in Ungheria per le celebrazioni del ’56

Bertinotti: «La democrazia come
la rivoluzione si conquista, non si impone»
di Anubi D’Avossa Lussurgiu


L’Istituto italiano di cultura a Budapest è un’antica sede del Parlamento: nella sala che ospitò i primi eletti dal popolo il presidente della Camera dei deputati italiana, Fausto Bertinotti, entra solo al termine di un lungo e attento pellegrinaggio tra le fotografie della mostra “il 1956 raccontato per immagini”. Nel palazzo di Bròdy Sàndor 8 sono un mare le immagini di cinquant’anni fa, trascorrendo dai momenti topici della rivoluzione iniziata il 23 ottobre e chiusa il 4 novembre dall’ingresso a tradimento di 2500 carri armati sovietici, fino all’ultima di Imre Nagy durante l’estrema difesa al processo che lo mandò al patibolo, passando per le decine di rare testimonianze visive delle migliaia di ungheresi trascinati in esodo nei campi profughi austriaci e di mezzo mondo (37mila solo in Canada). L’allestimento nell’antica aula parlamentare è un suggestivo riassunto per grandi immagini, distese cronologicamente a terra e per istantanee emblematiche alle pareti: in queste ultime, Bertinotti trova l’occasione per una prima notazione che appare quasi di sfogo, «guardate quell’ufficiale ritratto dopo la caduta di Budapest, com’è diverso dagli altri che hanno volti di persone, la sua faccia di pietra sembra l’emblema del potere».

Il Presidente della Camera è in visita nella capitale ungherese, segnata dal duro scontro politico in atto fra il governo socialista e l’opposizione che ha scelto la via della piazza, all’inizio delle celebrazioni del cinquantennale di quel ’56. Oggi parteciperà nel palazzo del Parlamento attuale, in piazza Kossuth, alla sessione commemorativa cui parteciperà l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e delegazioni istituzionali di 19 stati. Poi, andrà a deporre personalmente una corona al monumento ai martiri della rivoluzione e renderà omaggio alle tombe di Nagy e dell’eroe ignoto. Ma ieri, nella prima, breve porzione di questo viaggio in due giorni, ha voluto comunicare subito con i giornalisti italiani al seguito. Molti e per fortuna già appagati dalle dichiarazioni rese nel corso della trasmissione di “Otto e mezzo” di lunedì per quanto concerne l’attualità politica di casa nostra: così Bertinotti può concedersi una riflessione più approfondita, tutta radicata nella storia personale e collettiva di chi si sente «sia pur indirettamente» comunque «responsabile» di una rielaborazione della storia che il 1956 ha segnato. Tiene molto, l’ex Segretario di Rifondazione comunista e attuale Presidente della Sinistra europea al separare il proprio ruolo di terza carica dello Stato da quello di singolo uomo politico nelle parole che pesa attentamente. Nella prima veste dichiara subito un «omaggio senza condizioni» a quella «rivoluzione», anzi una «adesione assoluta alle ragioni dei rivoltosi» e una «condanna altrettanto totale della repressione». E ancora in questa veste riconosce la «tappa storica» di quella che con le parole di Nagy al processo chiama «rivoluzione nazionale democratica».

E’ una definizione con cui inizia anche il suo ragionamento di persona e personaggio politico, di comunista alle prese con la testimonianza di una così grande rovina del «comunismo reale».
Lo fa rispondendo alle domande, prima delle quali quella di Riccardo Barenghi che gli chiede se nella vicenda ungherese di cinquant’anni fa veda «i due volti del comunismo» oppure la contrapposizione tra il comunismo dominato dall’esperienza sovietica e un’istanza di libertà che non poteva che contrapporvisi: proprio qui torna la definizione di Nagy, che Bertinotti ricorda essere stata mutuata da due altri protagonisti della rivoluzione, Ferenc Donàth e Geza Losoncsy. Due membri, sottolinea, del comitato centrale del Partito comunista ungherese, sbattuti dal regime filosovietico restauratore di Janos Kadàr in carcere, il secondo morto in seguito all’alimentazione forzata. Comunisti fino all’ultimo e tuttavia autori loro stessi di quella definizione della rivoluzione cui avevano prendevano parte; rivoluzionari contrapposti al potere sovietico, nazionali e democratici, e tuttavia comunisti fino all’ultimo.

Dunque per Bertinotti non si tratta di rilevare due anime dell’esperienza comunista nei fatti del ’56, che in sé descrivono un processo «complesso», partecipato sì da una prevalenza operaia e segnato dai Consigli dei lavoratori, ma appunto sintetizzabile in una rivolta nazionale e democratica. Che al centro aveva e restituisce oggi alla memoria presente una questione «fondamentale»: quella «della democrazia». Quel che interessa dal punto di vista della riflessione politica di chi, come lui incalzato dai cronisti, continua ad affermare l’orizzonte di un «comunismo» anzitutto e in ultimo quale «necessità e possibilità di liberazione» almeno «finché esistono oppressi ed oppressori», fino a che «non mi si dimostri che viviamo in una società diversa da quella dello sfruttamento e dell’alienazione capitalistica», è altro: quel che interessa a chi ragiona così è la «lezione» di una rivoluzione negata dalla «concezione del potere come macchina oggettiva», dalla «superiorità delle ragioni del Partito in cui si considera inverato un destino storico», dal «ricatto psico-politico insito nella subordinazione delle persone agli obiettivi “strategici”». Cioè le «caratteristiche» di una cultura politica che ha segnato tanta parte del comunismo novecentesco e con esso dello stesso movimento operaio. Un’accumulazione di elementi sfociati in un «disastro» con cui «non si può cessare di fare i conti».

Bertinotti tiene molto anche a sottolineare che queste riflessioni non tendono ad una sorta di lavacro di coscienza, per quanto personalmente non coinvolta. Punta, invece, a rendere testimonianza di una interrogazione che è al fondo di ogni sforzo di elaborazione politica per continuare a cercare una “uscita da sinistra” da quel disastro. Quella evocata nella storia viva del 1956 ungherese consiliare e operaio, ma ancor più quella resa necessaria dalla presa di consapevolezza che il suo schiacciamento fu una «tappa irreversibile» di una storia. In questo orizzonte non c’è più «presunzione di autosufficienza del partito» che tenga, anche se rimane il riconoscimento alla «straordinaria peculiarità» dell’esperienza del partito comunista italiano nella sua «felice ambiguità tra struttura autoritaria e costituzione materiale di popolo»; non c’è più nessuna difendibilità di «ragioni superiori della Storia» di fronte alle «istanze di libertà», non c’è più nemmeno la «priorità» di una «denominazione partitica». Resta invece quella ricerca di liberazione. Ormai, e proprio in nome dell’esperienza storica, inseparabile nei suoi interrogativi da quelli che un 1956 pone alla «politica per intero»: il rapporto tra individuo e potere, tra identità e libertà, tra democrazia e liberazione sociale.