il Manifesto, 07.12.05
Legge 194, l'aborto torna in piazza
«Indagine conoscitiva» Sit-in a Roma contro la commissione di Casini. D'Alema: «Nessun fanatico nei consultori»
IAIA VANTAGGIATO
Gli striscioni sventolano di fronte al ministero della salute e l'effetto è estraniante: «L'utero è mio e lo gestisco io». Sembra di essere tornati indietro di anni. E in realtà si è tornati indietro di anni, costretti e costrette, come siamo, a difendere una legge che pareva ormai conquista acquisita. La manifestazione - promossa dal Coordinamento e dall'Assemblea donne per i consultori, dalla Casa internazionale delle donne di Roma e dalla Cgil funzione pubblica e alla quale hanno preso parte associazioni, collettivi, rappresentanti politici e sindacali - è stata presieduta da centinaia di donne di tutte le età. A nessuna delle quali deve essere andata giù la proposta balsana di costiture una «indagine conoscitiva» sullo stato di attuazione della normativa che regola l'interruzione di gravidanza nonché quella - che va grata al ministro Storace - di inserire nei consultori i volontari del «Movimento per la vita».
Puntuali e quasi ragionieristiche le critiche: «Dovrebbe esserci un consultorio ogni 20mila abitanti - ha spiegato Silvana Pisa dei Ds - mentre attualmente siamo a 0,80 su 20mila. In pratica ne mancano almeno 900. Dove sono andati a finire i 200 miliardi messi a disposizione delle Regioni con la legge 34/96?». «Una iniziativa totalmente inutile - precisa Daniela Livi della Cgil - visto che la legge prevede una relazione annuale sullo stato di attuazione». Un tentativo elettorale con obiettivi ben più ampi, taglia corto la Verde Loredana De Petris. E di ragioni per affermarlo deve averne non poche.
Perché mai, altrimenti, persino l'algido presidente dei Ds Massimo D'Alema avrebbe scelto proprio la giornata di ieri per far visita al reparto maternità e al consultorio dell'ospedale San Camillo di Roma per poi affermare: «Il parlamento è alla vigilia della sua chiusura e quindi siamo alla viglia di una campagna elettorale: non si fanno indagini in campagna elettorale. E' del tutto evidente che si tratta di una iniziativa di carattere elettoralistico». Ma la cosa più grave - precisa D'Alema - è «che si usi strumentalmente una questione delicata come quella dell'interruzione della gravidanza». Quindi il presidente diessino dà il suo via libera al contributo dei volontari «purché non esercitino nessuna attività ideologica: è aberrante che dei fanatici controllino i consultori».
E intanto parte il cosiddetto «ruolino di marcia»: le prime audizione dell'«indagine conoscitiva» sulla 194 sono previste per il prossimo fine settimana e non è detto che - vista l'importanza del tema - i politici della destra decidano di rinunciare alla loro meritata pausa natalizia per continuare a discuterne in un clima festoso e familistico che di certo porterà loro migliori consigli.
il Manifesto, 07.12.05
Storia ingrata dell'uno e del molteplice
Il confronto tra il pensiero di Martin Heidegger e Friederich Nietzsche come momento fondante di una filosofia della storia dove l'autore di «Essere e tempo» considera il movimento dal passato al futuro come riproposizione sistematica dell'origine. «La passione del ritardo», un saggio dello studioso Ferdinando Menga
ULDERICO POMARICI
In un'annotazione del 1953, Hannah Arendt paragonava Heidegger a una volpe e la sua filosofia a una trappola scambiata per tana: «C'era una volta una volpe, ma così priva di scaltrezza che non solo cadeva continuamente nelle trappole, ma non era in grado di percepire la differenza tra una trappola e ciò che non lo è [...] . Nella sua raccapricciante ignoranza su cos'è una trappola e cosa non lo è, e con la sua incredibile perizia in trappole, pervenne a un'idea nuovissima, e tra le volpi inaudita: si costruì come tana una trappola, vi prese dimora, la diede a intendere come una normale tana». Questa annotazione della Arendt sembra calzare per l'interpretazione che Heidegger ci ha lasciato della filosofia di Nietzsche. Nell'affrontare la questione, infatti, sembra che il primo, nel criticare il secondo, abbia voluto edificare una vera e propria filosofia della storia. Una «storia» che parta dal semplice e vi si arresti: l'origine come semplice. L'origine come verità, inattingibile al molteplice, a ciò che viene dopo .
Tra scolastica e misticismo
Sembrano esserci, oggi, proprio in questi nostri anni, tutti gli elementi per ritornare criticamente su questo assunto. Su questa contrapposizione insanabile fra «Uno» e «Molteplice». Forse oggi, avendo guadagnato una giusta distanza, è possibile guardare con altri occhi una filosofia spesso sfociata, nei suoi epigoni, in «scolastica» o in misticismo. Heidegger e Nietzsche: due modi di essere tedeschi o, semplicemente, due modi di essere, due possibilità. Una traccia critica molto fertile in questo senso ci è data dal bel saggio di Ferdinando Menga (La passione del ritardo. Dentro il confronto di Heidegger con Nietzsche, Franco Angeli, pp. 272, € 23) che sfugge alle sirene della filosofia accademica, riuscendo a porre il problema, politico, che nell'interpretazione heideggeriana sembra celarsi. Ma in cosa consiste dunque la questione filosofica, nel confronto fra i due «titani» del pensiero tedesco? Per Heidegger ne va dell'origine come fondamento: tutto è già da sempre in quest'istanza fondativa, anche se pensato in termini di sottrazione. Del darsi della verità nella sottrazione. Ciò che accade è comunque, sempre e solo l'essere, ciò che è. Dunque: in questa filosofia ciò che sembrerebbe venir meno è il senso del futuro.
Tutta l'attenzione heideggeriana - nell'accezione agostiniana della parola - è volta al disastro della dimenticanza di questa discendenza dell'ente dall'essere. Disastro, per l'appunto, che sarebbe secondo Heidegger culminato con Nietzsche. L'esito ultimo del nichilismo occidentale. La differenza fra questi due pensieri è proprio sul senso dell'origine, sul suo valore: alla filosofia di Nietzsche, volta al futuro in ogni sua riga, che guarda a un congedo ormai avvenuto da ogni pensare originario come la cifra stessa dell'Occidente, avversando ogni nostalgia di quell'essere originario nel più fiero dei modi («Fratelli miei, spezzate, spezzate, ve ne prego, le antiche tavole!»), Heidegger contrappone un pensiero religioso: quello della domanda sull'essere. Che egli pone come la prima e l'ultima domanda, insieme. Dunque una domanda che ha la sola necessità di esser posta, di essere fondamento e origine, ma non ha alcun bisogno di risposta, di un'alterità che risponda, perché la risposta equivarrebbe a una ricaduta nella molteplicità dell'ente.
Un pensiero, quindi, che non mostra alcuna necessità dell'altro, di polis. Un pensiero che nell'arrestarsi alla domanda sembra in effetti «chiudere» e non aprire, sembra voler religare, conservare l'essere come fondamento, così da renderlo immune rispetto al possibile, al qualsivoglia che l'esistenza dell'ente «innanzitutto e per lo più» attesta. E in tal senso la folgorante notazione arendtiana sembra proprio cogliere nel segno. Un pensiero, infine, che sembra chiudersi - nell'esaltazione del semplice - alla comprensione del possibile.
Qui emerge, secondo Ferdinando Menga, il significato politico della riflessione heideggeriana: qual è infatti il senso che Heidegger attribuisce all'occidentale dimenticanza dell'essere? Che il pensiero sia rappresentativo, che abbia bisogno di determinazioni, di mediazioni per poter esprimersi, così come testimonia tutta la filosofia di Nietzsche, lungi dal costituire una deminutio mette in primo piano la cifra dell'umano. Questa è la condizione dell'uomo - ci dice Nietzsche -, il suo essere sempre e solo rappresentante, propriamente irredimibile nella relazionalità necessaria che ne delimita l'esistenza. Già Kant, del resto, ancora in pieno Illuminismo, affermava che «da un legno così storto come quello di cui è fatto l'uomo non si può fare nulla di completamente diritto». E quando Nietzsche afferma «che l'uomo è un ponte e non uno scopo» non dice, mutatis mutandis, qualcosa di molto diverso.
Attraverso la contaminazione del pensiero della responsività di Bernhard Waldenfels, ma partendo anche da suggestioni del primo Derrida e dell'ultimo Merleau-Ponty, Ferdinando Menga ci mostra in un'analisi serrata come ogni domanda che non attende risposta non possa dirsi tale. Non solo. Ma che essa, implicando necessariamente una risposta, mostra una struttura del domandare che capovolge l'impostazione heideggeriana. La domanda come «ri-chiesta» vuol dire non solo che la risposta è necessaria, ma che è posta prima della domanda. Che ne è all'origine. Così che all'origine non c'è un semplice, ma una mediazione. Così che non è mai possibile riguadagnare un al di qua dell'origine. Che l'origine ci è estranea. Noi saremmo già da sempre, dunque, nella risposta che ci attende, ovvero nell'alterità che tende e provoca - e in cui è posto - ogni nostro domandare. Quell'alterità che è il nostro unico e più proprio essere. Segnata, come nota acutamente Menga, dal fatto che non solo «Dio è morto», ma «resta morto», nelle parole di Nietzsche . Dunque non un evento, ma una condizione di esistenza. Quella che ha abbandonato la terra una volta per tutte e si è messa alla ricerca forse di un'India, «oppure fratelli miei, oppure?». L'esistenza è un indecidibile senza ritorno.
L'ente smarrito
Menga esplicita così l'elemento politico del discorso filosofico: il «legno storto» che rifiuta di rappresentarsi come tale - ignorando non già la domanda, come vorrebbe Heidegger nella sua critica alla metafisica, ma il fatto che noi siamo nella nostra finitezza sempre e solo risposta, risposta che esprime il nostro essere infinitamente, possibilità futura di apertura all'altro, e progetta invece un orizzonte di senso in cui pretende di poter padroneggiare il proprio destino, ponendosi alla sua origine, dis-ponendone - è quello che finisce per costruire la propria dimora dove diventare inafferrabile per gli altri e, assieme, tragicamente, preda di se stesso. L'ente che vuole padroneggiare l'origine come ciò che gli è proprio, arrestandosi in essa, è l'ente che smarrisce il senso del suo possibile, il suo senso futuro avvolgendosi in un gioco filosofico nel quale letteralmente si perde. E' un orizzonte di senso, infatti, in cui gli individui perderebbero la propria perfettibilità, il proprio «poter-essere», a favore del compimento impossibile che deve essere riguadagnato all'indietro, restando «alla guardia della verità dell'essere», sacerdoti dell'origine senza avvenire.
Liberazione, 07.12.05
Perchè i ragazzi di Lanciano dovrebbero pentirsi?
Non vi stupite degli stupri sono il conformismo maschile
di Maria Rosa Cutrufelli
«Tanto, in fondo, le donne ci stanno tutte». Questa è la stupefacente ‘giustificazione’ che i ragazzinistupratori di Lanciano hanno offerto ai poliziotti al momento dell’arresto. Una frase che esemplifica alla perfezione lo stato di profonda inciviltà che ancora caratterizza il rapporto fra i sessi. Un rapporto basato sulla paura, sull’ignoranza, sul sospetto. Come dimostrano le due notizie rimbalzate ieri sulle agenzie: lo stupro di gruppo contro una giovane disabile a Bologna e soprattutto la seconda violenza “di branco” contro un’altra ragazzina di Lanciano scoperta dagli inquirenti. Come dimostra con drammatica evidenza l’altro recente episodio di stupro avvenuto a La Spezia, dove acca- de che una giovane infermiera venga violentata per non aver prestato fede all’avvertimento di un automobilista. «C’è un individuo che ti segue», le aveva detto l’uomo, offrendole un passaggio. Un’avance fantasiosa, avrebbe pensato qualsiasi ragazza. E così ha pensato anche l’infermiera spezzina. Ma purtroppo quell’individuo esisteva davvero e l’automobilista aveva capito giusto. Lanciano, La Spezia: casi fra i tanti riportati dai quotidiani in queste ultime settimane. Stupri avvenuti per strada. Di giorno. Addirittura in pieno centro cittadino. Un’emergenza, hanno scritto in molti. Senza dubbio un impressionante elenco d’insopportabili violenze, spesso accadute nel silenzio complice dei passanti. O degli amici e delle amiche, come nel caso di Lanciano. Amiche (e amici) che quando le ragazzine sono state rapite non hanno nemmeno fatto un numero di telefono per chiedere aiuto ai genitori, se non alla polizia. E dunque: l’emergenza è soltanto lo stupro o non anche questo silenzio agghiacciante? E’ qualcosa che riguarda soltanto dei devianti, degli psicopatici, dei ‘mostri’ (magari immigrati e clandestini), o non è invece qualcosa che ci riguarda tutti, che riguarda il nostro modello di società, le regole della convivenza e in primo luogo del rapporto fra i sessi? Molti anni fa (venti, per la precisione) una sociologa scriveva: «Lo stupro non è esclusivamente l’atto di qualche psicopatico sadico: esso è assai più diffuso di quanto si creda. Anzi, si sta addirittura scoprendo che lo stupro non è un atto tanto deviante, quanto, al contrario, essenzialmente conformista». Perché “conformista”? Proprio perché sarebbe la conferma, per così dire, dell’atteggiamento sessista comune alla stragrande maggioranza degli uomini. Perché, in sostanza, non sarebbe che la riprova violenta di un ordine e di un sistema patriarcale. Questo si diceva venti anni fa. Poi il femminismo ha restituito la responsabilità dello stupro agli uomini, affinché, come ebbe a dichiarare un analista, «se ne facessero carico quelli sufficientemente coraggiosi da guardare dentro di sé». Questo coraggio purtroppo è rimasto prerogativa di pochi. Non è diventato cultura diffusa. Soprattutto, non si è trasformato in gesto politico. A chi è mai venuto in mente che ‘guardare dentro di sé’ potrebbe essere una priorità politica? Ma allora perché stupirsi se i ragazzini-stupratori di Lanciano, come scrivono i giornalisti, non hanno dato segno di pentirsi? Perché dovrebbero? La loro impresa ha una logica sociale. E’ l’attuazione pratica, per quanto estrema, delle idee correnti sul sesso e sulle donne che, dacché mondo è mondo, “devono stare al loro posto”. D’altronde, se le statistiche dicono la verità, la vera emergenza non è quella delle strade. Se tre volte su quattro la violenza non viene commessa in strada ma al riparo delle mura domestiche, allora è lì che si annida il cancro. E’ lì che cresce giorno dopo giorno. E se le cose stanno così, allora è chiaro che le tanto invocate castrazioni chimiche o la chiusura dei confini agli immigrati (sospetti proprio perché immigrati) non sono “rimedi” ma grottesche assurdità. Ciniche, quando gli stupri diventano pretesto per porta- re avanti una linea politica. Fa bene Stefania Giorgi sul “Manifesto” a sottolineare come le parole stupro e aborto «tornino a marciare in sincrono, nell’agenda politica e nel palinsesto dei media». Forse non a caso. Sicuramente non in modo innocente. Perché aborto e stupro sono parole che bruciano come marchi sulla pelle delle donne. Parole che suscitano un dibattito non proprio limpido, che tende sempre e di nuovo a vittimizzare le donne, a espropriarle della coscienza di sé, a spingerle in un’area di marginalità politica e psicologica. A fin di bene, s’intende. “Che occhi grandi hai, nonna”, diceva Cappuccetto Rosso al lupo nascosto sotto le coperte. “Per vederti meglio, bambina mia. ” Tranquille, è per proteggervi meglio, ci dicono i tanti “paladini” delle donne che vogliono leggi che introducano pene corporali ma non vogliono leggi che garantiscano una piena partecipazione delle donne alla politica istituzionale (“tanto a loro non interessa…”). E allora forse è il caso di ricordare a tutte (e a tutti) quello che sosteneva Simone Weil, e cioè che il vero nemico è colui «che dice d’essere il nostro difensore e fa di noi degli schiavi». O delle eterne vittime. Bisognose di perenne tutela. Incapaci di autodeterminarci. Nella procreazione. Nella sessualità. Nella vita.
Liberazione, 07.12.05
Accade a Vicenza, dove un Forum di associazioni femminili, organizza incontri e stampa i lavori
Un collettivo di suore e femministe
di Monica Lanfranco
Di per sé non sarebbe una notizia fuori dal comune, seppure sia prezioso ogni piccolo segno di attività politica in tempi di guerre, violenze e latitanza di luoghi di condivisione collettiva: a Vicenza esiste un Forum delle associazioni femminili che organizza incontri e, almeno una volta all’anno, pubblica gli atti del seminario più importante che ha svolto. A ben guardare, però, arrivano le prime sorprese. Vicenza, ricca e schiva città del problematico nord est, non ha un assessorato alla Cultura, il Comitato per le pari opportunità comunale non funziona, eppure da oltre undici anni esiste questa strana realtà eterogenea di donne che si ostina non solo a continuare a vivere, ma sembra proprio che stia crescendo. Negli ultimi anni i temi trattati, e pubblicati in libretti che hanno come logo un volto di donna asimmetrico che sembra disegnato da una mano infantile composto da due metà differenti, non sono per nulla scontati e leggeri: modelli culturali e identità di genere; dire, ridire: dialogare; la prostituzione coatta, nuova schiavitù; le donne e l’Europa; badanti: come e perché, e, prossimamente, donne, guerra e violenza, con i contributi di attiviste nonviolente, come Giannina Dal Bosco di Donne in Nero e la storica Sonia Residori. Temi forti, mica robetta da salotto. E anche qui, sebbene con sforzo, si potrebbe obiettare che nei collettivi e gruppi di donne italiane si discute di queste cose, dove e come si può. Ma ecco la sorpresa: una delle associazioni più importanti, e di certo più trainanti del Forum è composta da suore, per la precisione suore Orsoline, il cui collettivo si chiama Centro Documentazione e Studi Presenza Donna.
Certo, nel Forum ci sono anche le sindacaliste di Cgil e Cisl, le donne di Acli, del Cif, della Confartigianato, dei centri di aiuto alla vita, assieme a presenze laiche e femministe di lunga data.
Ma, per essere del tutto oneste, non si deve alle laiche la nascita del progetto; nel giugno 1994 furono proprio le Orsoline a chiedere «ai gruppi che, pur rispondendo a valori differenti e a vario titolo, si occupano di donne, di ritrovarsi insieme per riflettere su una tematica comune ed eventualmente organizzare attorno a questa un’iniziativa culturale cittadina», come si legge nel documento che racconta la genesi del Forum.
Suore, dunque, attiviste sugli stessi temi sui quali si impegnano le femministe, le sindacaliste, le laiche: suor Federica, suor Maria Grazia, suor Michela, sono proprio loro a ricordare che è stato un “superiore” del calibro di Pio decimo a stroncare ogni velleità femminile dentro la chiesa: «che la piasa, che la tasa, che la stagga in casa » (in dialetto veneto il ritratto della donna ideale secondo questo pontefice non proprio vicino alle donne: che sia bella, che sia zitta e che stia al focolare.) Giova ricordare che suore, questa volta comboniane, sono le fondatrici, nel web, del prezioso sito Femmis.org, un punto di riferimento fondamentale per chi si occupa dell’impatto della globalizzazione sul genere, in particolare nei continenti africano e latinoamericano. Che succede? Come fanno sostenitrici della legge 194 e acerrime oppositrici della legge 40 a lavorare fianco a fianco con donne dei centri di aiuto alla vita?
«Succede che a stare insieme ci uniscono tre fattori che difficilmente troviamo nei luoghi misti e in quelli della politica tradizionale – spiega Marina Bergamin, segretaria della Cgil di Vicenza- Il piacere, il rispetto e il metodo. Non possiamo nasconderci che nella sinistra è raro trovare l’attenzione e la cura delle relazioni che le nostre amiche suore praticano. Se non ci fosse il piacere di vedersi una volta al mese per lavorare, chi ce lo farebbe fare? Se non ci fosse il rispetto per le differenze come si potrebbe parlare di tutto, come facciamo noi da anni? Credo che il metodo che abbiamo, quello di “testare” prima tra noi i temi che affrontiamo, incontrandoci e discutendo approfonditamente prima di uscire in pubblico, sia la nostra forza. Prima del dibattito sulle badanti, per esempio, ci siamo riunite tutte per mesi invitando anche le “nostre” badanti, le donne straniere che ci aiutano nel quotidiano quando noi non ci siamo perché lavoriamo fuori casa. Ci spelliamo le une davanti alle altre, non facciamo solo teoria, quando proponiamo alla città un argomento».
Suor Michela, dottoranda in teologia con una appassionata ricerca su Elisa Salerno, femminista cristiana, racconta così il motivo del suo impegno nel Forum: «Ci credo, e credo che noi donne siamo una risorsa indispensabile e peculiare. E’ la genialità femminile che riesce ad ascoltare le differenze, senza farle diventare motivo né di guerra né di omologazione. Non cerchiamo di ridurre le asimmetrie all’uniformità; non cerchiamo di scansare i problemi e le distanze sui temi scottanti, cerchiamo di lavorare su quanto ci unisce. Vogliamo suscitare domande, specialmente qui nel nord est dove la cultura è gravemente assente, dove il rischio del silenzio e del disimpegno è un pericolo per la società». Ad ascoltarla viene alla mente il divertente e dissacrante motto di spirito della teologia femminista: “Dio è più madre che padre”. In questo caso è proprio così, con buona pace di Papa Ratzinger.
Liberazione, 07.12.05
Indagateci tutte
Cara “Liberazione”, commissione d’indagine subito, decisa in una domenica di pioggia da Casini, preceduta sabato da una manifestazione nazionale a Roma di 30mila cittadini stranieri, tutti clandestini, come avevamo detto a Genova, per i media tutti invisibili, e poi i dispacci vaticani nelle domeniche che di pace non hanno più niente. Si lavora alla domenica in parlamento, per annunciare che subito si deve passare all’indagine...
Dalla città del Vaticano la parola sempre più violenta dei sostenitori della “vita”, che conta sui suoi alleati moderatamente garbatamente fascisti, razzisti, riformisti che loro sì, hanno possibilità di voce, visibilità ed azione. Non c’è parola più violenta di questo atto nei confronti delle donne e la loro autodeterminazione.
Vergognosa maledetta domenica. Invito tutte dal nord al sud, in questa Italia flagellata dal maltempo e dal malgoverno, ad organizzarsi, ad uscire dal silenzio, noi donne maggioranza invisibile e silenziosa, chiamate a difenderci in questa ennesima guerra che non abbiamo mai dichiarato. Inquisite per conoscerci, bene, meglio.... Noi invisibili, noi indagate. Noi?
Doriana via e-mail
Liberazione, 07.12.05
Jacques Le Goff, in un libro un fascio di immagini
Nella sua ultima fatica, “Eroi & meraviglie del Medioevo”, l’autorevole storico usa l’arte figurativa per parlare di un immaginario eroico e favoloso che si estende temporalmente fino alla rivoluzione industriale
di Daniela Romagnoli
Alice, che non capiva come si potesse leggere un libro “senza le figure”, sarebbe entrata volentieri in questo “libro delle meraviglie”. L’ultima fatica di Jacques Le Goff, Eroi & meraviglie del Medioevo (Laterza, pp. 239, euro 35,00) è quel che si dice un libro “bello”, sia per la veste editoriale elegante (formato, carta, copertina), sia per la ricchezza e varietà delle immagini. Un fascio di immagini, appunto, offerto come uno specialissimo fascio di fiori alla memoria della donna con cui Jacques Le Goff ha condiviso la maggior parte della sua vita, fino al dolore del distacco, un anno fa.
Il libro è costruito come un dizionario, o una mini-enciclopedia, i cui lemmi sono presentati in ordine alfabetico (da Artù alla Walkiria), sicché le voci che appartengono ad entrambi i gruppi - eroi e meraviglie – sono frammischiati in modo casuale, ma non a casaccio: a significare la stretta embricazione dei due ambiti. Nell’introduzione l’autore stesso spiega quel che ha voluto fare: proporre le secolari reincarnazioni della memoria, attraverso «eclissi, risurrezioni, trasfigurazioni di una civiltà in ciò che ha di più brillante, di più brillantemente emblematico».
Immagini, immaginario. Vocabolo di difficile uso, che oltrepassa i limiti della rappresentazione e costruisce miti e leggende. Le Goff propone di definire il campo dell’immaginario come il sistema di sogni di una società, di una civiltà; un sistema che trasforma il reale in appassionate visioni dello spirito. Deve perciò essere distinto tanto dal simbolico quanto dall’ideologico. La storia dell’immaginario non può essere «una storia dell’immaginazione in senso tradizionale; è piuttosto una storia della creazione e dell’uso delle immagini che fanno agire e pensare una società, perché esse (le immagini) discendono dalla mentalità, dalla sensibilità, dalla cultura da cui sono impregnate, animate».
Il libro però non vuole presentare una visione globale dell’immaginario medievale, e nemmeno indagarne la natura, gli aspetti, le manifestazioni. Questi sono temi che Le Goff ha ampiamente affrontato. Proprio a partire da quegli studi (si veda ad esempio L’imaginaire médiéval, del 1985, tradotto in italiano nel 1988), ha potuto scegliere due grandi temi: gli eroi e le maraviglie. I nuovi eroi medievali - nuovi rispetto agli eroi della classicità - sono i santi e i re. Ma gli eroi presentati qui sono piuttosto i massimi esponenti del mito cavalleresco, i “preux”, i prodi cavalieri. Personaggi che, anche quando sono storicamente documentati, appartengono anche all’area del mito o della leggenda. Ecco allora re Artù, Carlo Magno, il Cid, il paladino Orlando - e i loro cantori: i trovieri, di lingua d’oil, e i trovatori di lingua d’oc, autori del romanzo cortese, delle chansons de geste, della grande poesia provenzale e della fin’amor - l’amor cortese, cui si collega il nostro “stil novo”.
Tra gli eroi troviamo anche Robin des Bois (Robin Hood), cantato già nelle ballate dei secoli XIII-XIV. Un personaggio senza alcuna radice storica - al contrario di grandi come Carlo Magno e lo stesso Artù, che un fondamento di realtà forse lo aveva - ma proprio come altri personaggi eroico-meravigliosi, maschi e femmine: da Merlino a Melusina, la donna-fata metà donna e metà serpente, che assume anche la funzione di simboleggiare la dolcezza materna: costretta ad abbandonare il mondo degli uomini per la curiosità del marito, è raffigurata mentre torna ogni notte ad allattare il suo ultimo nato.
Il termine e il concetto di meraviglie, “mirabilia”, hanno un posto importante e di lunghissima durata nella storia delle mentalità. Intorno al 1210 un inglese, Gervasio di Tilbury, scrive una specie di enciclopedia dedicata all’imperatore Ottone IV di Brunswick. Qui troviamo la definizione di “mirabilia”: è meraviglioso ciò che suscita meraviglia, ciò che stupisce perché eccezionale, al di fuori della nostra esperienza abituale. Le meraviglie si differenziano dunque dai miracoli, perché il miracolo appartiene al divino, al soprannaturale, mentre il meraviglioso appartiene all’umano, al naturale, anche se può sfuggire, almeno temporaneamente, alla nostra comprensione.
Accanto ai personaggi - storici, mitizzati o leggendari - incontriamo luoghi del meraviglioso, a loro volta sia reali sia fantastici. Così, accanto al paese di Cuccagna e alla fontana di giovinezza (l’immagine è quella dello straordinario affresco del Castello della Manta, recentemente restituito alla fruizione pubblica dal Fai) ecco gli spazi, ricchi di suggestione e di valenze simboliche, del castello, della cattedrale e del chiostro. Quest’ultimo è immagine della Gerusalemme celeste, incarnazione terrestre del paradiso, spazio chiuso dedicato alla meditazione, alla vita spirituale; ma richiama anche l’idea medievale del giardino come “hortus conclusus”, che nel monastero diviene luogo di coltivazione di piante orticole e soprattutto medicinali. E lo spazio del cuore, dell’uomo interiore, della preghiera individuale.
La cattedrale, in particolare la cattedrale gotica, si impone invece alla sensibilità della gente con la massa delle sue dimensioni, con lo slancio verso l’alto dei suoi pinnacoli, con il fiotto di luce sacrale che penetra dai rosoni e dalle immense vetrate. Immaginario eroico e favoloso di lunga durata, come di lunga durata è il Medioevo di Le Goff, che si estende fin oltre le soglie della modernità, fino alla rivoluzione industriale e per certi aspetti anche oltre. Affascina e incuriosisce il percorso delle immagini che raccontano e trasformano di volta in volta meraviglie ed eroi dalla miniatura antica al fotogramma cinematografico, dalla “chanson de geste” ai pupi siciliani, dalla roccaforte duecentesca ai castelli di Ludwig di Baviera. Sicché incontriamo anche il fenomeno del medievalismo, che comincia con la passione neogotica inglese del Settecento e attraversa il romanticismo, il restauro- ricostruzione alla Viollet- Le Duc, le feste medievali che negli ultimi decenni si sono moltiplicate, non sempre con valore filologico almeno accettabile, malgrado gli sforzi di piccoli gruppi di appassionati dell’archeologia del quotidiano. In uno studio pubblicato nel 2001 erano state rilevate tante feste “medievali”, nella sola regione dell’Emilia-Romagna, da poterne scaglionare una ogni tre giorni!
Un piccolo neo sarà individuato solo dagli appassionati di cinema e in particolare dei Monty Python, il gruppo inglese autore, negli anni Settanta, di uno straordinario film sulla ricerca del Graal. Film di stralunata comicità, ma anche di sicura informazione storica. Proprio per questo, sbaglia la didascalia che indica come re Artù il fotogramma del cavaliere- uomo selvatico: Artù è infatti il campione delle virtù cortesi e cavalleresche, l’assoluta antitesi dell’“homme sauvage”. E’ curioso che in altre edizioni (il libro è uscito contemporaneamente in tutte o quasi le lingue europee, greco compreso) l’errore non compaia. Non sempre un “libro bello” è anche un bel libro. Questo lo è.