martedì 13 dicembre 2005

articoli 04.12.05


Corriere della Sera, 04.12.05

Non basta il bello, ci vuole la malattia
La decadenza inventata dagli Scapigliati

«Malati!»: sarà un caso, ma è questa la definizione accusatoria con cui sono costantemente additati coloro che cercano il nuovo o che situazioni politico-sociali portano a optare per espressività ripiegate su se stesse. Era accaduto con gli anni dopo il 1830, quando, in seguito alle sanguinose conclusioni dei moti carbonari, tutta una nuova generazione poetica si era trovata a identificare quale oggetto di poesia non più la patria o l’impegno, ma il proprio Io. Ed ecco allora il virile e risorgimentale Tenca parlare di «capricci individuali» di «giovani che anneghittiscono nella sfiducia», non cogliendo che in quel ricorrere a forme metriche spigliate come a una maschera o a un’ancora di salvezza si celava una certa inquietudine. Trent’anni dopo, con la sospirata Unità, tocca al Prati di Armando (1865-68), in cui si canta il tedio, figlio dell’insoddisfazione e dell’incapacità di cogliere un senso nelle cose e nelle diverse esperienze che si attraversano, frutto anche delle disillusioni intervenute col tradimento e la sepoltura degli ideali indipendentisti da parte del nuovo Stato unitario, a ritrovarsi definito da De Sanctis «ancor più profondamente malato di Armando: perché Armando si sente malato e il Prati si crede sano». Ed è un ritornello destinato a durare a lungo, almeno ogni volta che a pronunciare giudizi è l’esponente d’un pensiero forte, sia esso risorgimentale, filosofico, politico o ideologico: come nel caso di impostazioni critiche marxiste, che vedono Petronio definire «putrefazione» tutta questa lirica riversata sull’Io; che è poi una variante di quanto si leggeva degli scrittori lirico-decadenti negli editoriali di Società nel 1945; o dell’Io sbandierato dopo i furori sessantottini nei ripiegamenti epistolari e narrativi nel 1977. Eppure è proprio in quell’Io, che subito dopo il 1830 si presenta tanto lagnoso e languoroso da cadere in una vera ipertrofia della lagrima e della sensibilità, d’un sentimentalismo vago e indeterminato, che s’annidano i germi d’una inquietudine destinata a fermentare gradualmente, di pari passo con la coscienza della situazione, dapprima nelle varie tendenze dell’arcipelago scapigliato e poi nelle poetiche del Decadentismo. Un Io che con gli Scapigliati sperimenta con pienezza esistenziale la coscienza della propria dissociazione: vissuta come dolorosamente tale in un Praga o un Tarchetti; tesa invece alla ricomposizione degli opposti nel più acculturato Boito, il cui «dualismo» poggia sulla tradizione gnostica della Y pitagorica e della «congiunzione degli opposti». Ma lì la malattia, non più solo clinica ma anche metaforicamente inclinata ad altro (come nella Fosca di Tarchetti), è nell’anima e sono gli Scapigliati stessi a dichiararlo. E a cercare di uscirne con tematiche nuove che «alle regolari leggi del Bello» prediligono «i Quasimodi» e l’«orrendo»; ma anche con modalità stilistiche nuove, che destrutturano la forma romanzo (Praga, Dossi), la forma racconto (con «schizzi a penna», «acquerelli», «figurine», «gocce d’inchiostro») e puntano su un’espressività nuova, bassa, da parlato e dialogato (il Praga poeta) o espressionista (Dossi) o baroccheggiante (Boito). Che son poi le intuizioni ponte che consentono il passaggio dal romanticismo al decadentismo (ed è significativo che il 1892 veda apparire sia Decadenza dello scapigliato Gualdo col suo inetto protagonista Paolo Renaldi sia Una vita di Svevo); così come l’affacciarsi degli Scapigliati democratici, col loro utilizzo politico del romanzo in veste di denuncia, recupera sì la forma romanzo tradizionale, ma puntando a quel realismo ben noto anche al Verga «milanese».
E Pascoli e d’Annunzio e altri minori son lì, pronti a raccogliere quelle eredità. Ma con un Io fattosi ancor più complesso, impalpabile e sfuggente, luogo d’un «torbido universo» in cui il poeta s’«affisa» per coglierlo e chiuderlo «in lucida parola e dolce verso» (Pascoli; la variante ungarettiana sarà «il porto sepolto» col poeta «che torna alla luce con i suoi canti / e li disperde»). Una nuova realtà che gli spiriti più avvertiti della generazione precedente percepiscono e colgono pure, anche magari sbattendoci contro il naso (il panismo dell’ultimo Prati; il Carducci di Nevicata ; l’Oriani di Vortice ): ma con l’ostacolo d’una formazione culturale che non consente loro d’attraversare il traguardo. Un Nuovo - quello espresso da Pascoli, d’Annunzio, Fogazzaro, ma pure Verlaine o Rimbaud - che però, ancora una volta, vien letto come stato di malattia e di rinuncia; come (ed è Croce che parla) «abbassamento verso la carne, l’animalità e la libidine». Ove invece quel Nuovo nasceva positivamente proprio da ciò che veniva additato negativamente: ossia da un’anima giudicata «frammentaria, squilibrata, disgregata, disumana», producente «mere e materialissime oscenità tutt’insieme immorali e stupide e anzi immorali perché stupide». Insomma: uomini malati produttori di una letteratura malata.
E però è sempre la letteratura - quando è vera, «sana» letteratura - a vendicarsi dei suoi giudici e fors’anche dei suoi stessi autori. Nei modi più strani, a volte. Penso ad esempio a Pinocchio (1881-83), che nasce assai meno pedagogico di quanto si dica, visto che è come lo conosciamo solo per costrizione di editore e lettori. Perché certamente ad altro pensava Collodi quando concludeva la sua Storia di un burattino al capitolo XV: con un Pinocchio che muore impiccato con le medesime movenze del Golgota evangelico (vento impetuoso, tre ore; invocazione al babbo), a specchio con analoga sua nascita cristologica; e comunque vendicandosi, dato che il prosieguo, Le avventure di Pinocchio , è ricco come non mai di corse e immagini di morte tentata o effettuata.
E che dire di quel libro insieme educativo e diseducativo coi tanti suoi mutilatini fisici, mentali, sociali e familiari che è Cuore di De Amicis (1886), «dai molti tratti decisamente immorali nonostante le baldanzose intenzioni moralistiche» e dal «contenuto così chiaramente reazionario» (così Giulio Cattaneo)? Perché poi Cuore , presto tradotto nella Russia zarista nel 1889 e 1892, si ritrova una terza versione nel 1898 intitolata Compagni di scuola. Dal diario d’uno scolaro di città , con tre «racconti mensili» sostituiti da tre altri, tra cui uno dell’italiana Cordelia. Una versione che va in molte mani e quanto mai speciali. Mani operaie. E al fine d’una educazione socialista. Il fatto è che la terza traduzione portava il nome della «rivoluzionaria di professione» Anna Ilinichna Ulianova. E a chiedergliene continuamente copie da distribuire in Siberia agli operai era suo fratello minore. Il nome? Lenin, ovviamente.



Corriere della Sera, 04.12.05
MODELLI MASCHILI
Massimo e le lacrime di Piero Duello tra uber ed emo boy


Forse D’Alema in fondo è buono (è possibile) e però quando gli viene una battuta non si tiene (è possibilissimo). Però magari i due sono più avanti di quel che si crede; tipi maschili appena lanciati dagli analisti americani di tendenze. Uno è un ubersexual, l’altro è un emo boy. O qualcosa del genere. Vale a dire: - Secondo l’Urban Dictionary (www.urbandictionary.com) un ubersexual è «un maschio simile al metrosexual ma che mostra qualità tradizionali maschili, come forza e sicurezza di sé», e fin qui ci siamo: Max D’Alema, notoriamente curato (anni fa criticò un cane che mordicchiava le sue scarpe fatte a mano) ha un’identità maschile forte, nervoso-sardonica-velistica, con rigidità rivendicate. A ragione, direbbe l’inventrice del termine, la pubblicitaria Marion Salzman: nel suo libro The Future of Men sostiene che gli uomini «attaccati agli aspetti positivi della mascolinità» creano identificazione «in un segmento demografico significativo», i maschi giovani o quasi. Dissociarsi dalle altrui lacrime avrebbe quindi un suo perché;
- Ma anche l’emo boy ha un suo perché. Lo spiega una ricerca della University of Michigan, secondo cui le donne preferiscono affidarsi a maschi «comprensivi, disponibili, capaci di piangere». In più (Urban Dictionary) gli emo boys sono «generalmente alti e sottili», come Piero Fassino, e sempre aggiornati (Fassino è attento alle mode culturali, da poco si sa che è privatamente credente). Quindi può funzionare in lacrime, l’elettorato femminile può darsi che apprezzi;
- Ovvio: l’uno-due neanche concordato tra l’uber e l’emo è solo una sotto-trama del reality show dell’Unione. C’è un candidato (Prodi) che poveruomo non è neanche metrosexual, e due riserve di complessa definizione: Walter Veltroni (l’emo boy più furbo di tutti, non ha bisogno neanche di mostrarsi pio, ma volendo è attivissimo e cattivissimo come certi santi) e Francesco Rutelli (ubersexual teocon esibito ma con nascoste fragilità-lieti narcisismi da emo boy). Come cast è gustoso; certo funzionerebbe meglio con qualche personaggio femminile - anche non ubersexy - in più, ma questa al solito è un’altra storia.
Maria Laura Rodotà



Corriere della Sera, 04.12.05
CASO UNITA’/ Parla Alessandro Dalai, ex consigliere delegato del quotidiano
«L’inciucio contro l’Unità? Fu un piano targato ds»
«Mi chiamò Veltroni, ma D’Alema era ostile al progetto»


ROMA - Racconta la sua storia coniugando i verbi al presente, come se non fossero passati già due anni da quando è stato rimosso. E si capisce che Alessandro Dalai teneva al progetto della «nuova Unità», che il suo allontanamento da consigliere delegato della società è una ferita non del tutto rimarginata, sebbene oggi - ripensandoci - ritenga sia stato «un errore aver accettato la proposta». Perché secondo l’editore di Baldini Castoldi Dalai , la guerra attorno al quotidiano che portò al dimissionamento del direttore Furio Colombo, non si scatenò dopo il ritorno del giornale in edicola, «ma prima». Sul punto non concorda con la tesi espressa da Peter Gomez e Marco Travaglio nel libro l’ Inciucio : «Il progetto - a suo dire - è minato fin dall’origine». «Quando il banchiere Massimo Ponzellini mi contatta, prospetta l’idea di una public company, e nel disegno i Ds - allora proprietari del quotidiano - cederanno la testata a una nuova società, e non avranno più alcun ruolo». Così lei decise di accettare.
«Mi pare un’idea geniale, un’operazione di mercato con un chiaro intento di aiutare comunque i Ds. L’obiettivo è dar vita a un giornale indipendente, da posizionare alla sinistra di Repubblica . Lì c’è uno spazio, e per occuparlo mi affido a due giornalisti liberal come Colombo e Antonio Padellaro. In quel momento i Ds si tengono lontani, hanno solo l’interesse a evitare il fallimento. L’ Unità è una società in liquidazione con 200 miliardi di debiti. Cosa grave è che la società del quotidiano è la stessa del partito: se fallisse, in qualche modo fallirebbe anche il partito. Il segretario della Quercia Walter Veltroni annuncia ai suoi parlamentari che "l’ Unità non è più nostra, ma di una nuova società e dei suoi nuovi azionisti". La Nie . Tutto sembra andare per il verso giusto».
Invece cambiò tutto.
«Mi accorgo che il partito sta rimettendo le mani sul giornale e già prima di arrivare in edicola il progetto è mutato. L’autonomia - garantita attraverso un solo membro del cda come rappresentante dei soci, e i restanti consiglieri espressi da intellettuali non solo italiani - viene sorpassata dall’ingresso dei soci nel Consiglio. Questo minaccia l'indipendenza di gestione. Forse dovrei lasciare, ma così l’ Unità non vedrebbe la luce. Proseguo ma intravedo un rischio forte, che a discorsi di mercato si risponda con logiche di partito».
Criticavano la linea editoriale?
«Se fossi segretario dei Ds mi potrei rabbuiare, ma la vecchia Unità è fallita, la nuova dev’essere un’altra cosa. E il partito non dovrebbe criticarne la linea».
Poteva chiedere conto a Ponzellini del cambio di programma .
«Lo chiedo più volte anche a Veltroni. Ho la netta sensazione che mi abbia passato il cerino. Il suo ruolo è particolare nella vicenda: si è adoperato per salvare il giornale ma per riuscirci ha chiamato un veltroniano come me inviso a Massimo D’Alema, che fin dall’inizio è contrario al progetto perché erroneamente lo interpreta come una minaccia».
E Veltroni non si mosse per lei?
«Ha già lasciato la segreteria del partito. Quanto ai rapporti tra lui e D’Alema, si sa, sono complicati. Ma siccome ero stato chiamato da Veltroni e Folena, mi ero adoperato, ed ero andato a illustrare il progetto anche a D’Alema, rendendomi però conto della sua ostilità. D’altronde, se penso all’ingresso dell’Unipol nell’ Unità ...».
Cosa vuol dire?
«Appena arrivato, su consiglio di Veltroni, chiedo all’Unipol di far parte della società. L’Unipol rifiuta, tranne entrarci quando esco io. E nella fase che precede la mia rimozione vengo a sapere che dirigenti della compagnia assicurativa partecipano a riunioni per coordinare l’ingresso delle coop rosse».
D’Alema non la voleva?
«Subito dopo la mia uscita, Marialina Marcucci rivela l’esistenza di un accordo tra Veltroni, D’Alema e Folena, in base al quale io sarei rimasto solo per tre anni come consigliere delegato. L’unico a smentire e ad avere verso di me parole di stima è Folena. Dunque...».
Lei era già fuori dall’ Unità quando il giornale ebbe un calo secco di cinquemila copie, su cui persino il cdr volle vederci chiaro.
«Non sono un’amante della dietrologia, ma ricordo un incontro riservato con D’Alema, durante il quale mi venne prospettata una situazione: nel caso il giornale avesse assunto una linea sgradita, il numero delle copie vendute si sarebbe ridotto drasticamente. Non credo che le copie mancanti siano copie "dalemiane", bensì di quanti avvertono che è in atto un processo di normalizzazione, che con Padellaro alla direzione sono certo - in base ai risultati - non avverrà».
Insomma, chi furono gli avversari del vostro progetto, quelli che Colombo chiamava «loro»?
«Non so a chi si riferisce Colombo. Ognuno ha i propri «loro». I miei sono quelli con cui non parlo più, cioè i maggiorenti dei Ds, un partito che ho votato, ma i cui vertici si sono rivelati ostili al progetto della nuova Unità perché lo ritenevano un’usurpazione. Se ci penso, nemmeno Prodi si è speso. Insomma, mi spiace per come sia finita, anche con Piero Fassino, perché lo conosco da sempre. Ricordo persino che pensava di collaborare in Electa, società di cui sono stato consigliere delegato».
Francesco Verderami



Corriere della Sera, 04.12.05
Liberazione : scambio Turco-Prestigiacomo. La diessina: mi deludono

Dopo aver definito il suo emendamento a favore della maternità «politica familista del periodo fascista», Liberazione va di nuovo all’attacco di Livia Turco. E lancia una provocazione: i Ds la diano a Forza Italia e si prendano in cambio Stefania Prestigiacomo «che ha proposto di distribuire gratuitamente i preservativi». Risponde la diretta interessata: «Non sapevo che i preservativi fossero di sinistra. Ad ogni modo se la Prestigiacomo fa politiche di sinistra alzi la voce in Consiglio dei ministri perché il governo istituisca il fondo per le politiche sociali che è stato cancellato nel 2005». Esprime poi la sua delusione verso Liberazione : «Pensavo che per quel giornale la distinzione fra destra e sinistra passasse per cose molto più serie. Ma evidentemente mi sbagliavo».




Corriere della Sera, 04.12.05
Romano risponde
Lei partecipò, insieme ad altri intellettuali, alla ...


Lei partecipò, insieme ad altri intellettuali, alla compilazione di una delle voci presenti nel libro «Bianco, rosso e verde» curato dal giornalista Giorgio Calcagno. In particolare si è occupato della figura del baciapile. Mi piacerebbe sapere se concorda ancora oggi con quello che scrisse in quel libro o se invece i baciapile sono tornati di nuovo alla riscossa!
m.tinti1983@libero.it
Caro Tinti,
per i lettori che non lo conoscono ricorderò che Calcagno, morto nell’agosto 2004, fu una delle persone più affabili e simpatiche in cui mi sia imbattuto negli anni in cui scrivevo per La Stampa e avevo maggiori occasioni di frequentare Torino. Possedeva una virtù, la cortesia, che i piemontesi indossano talvolta come una divisa e che era in lui, invece, una disposizione naturale, l’abito di tutti i giorni. Non era soltanto un eccellente giornalista culturale. Aveva anche spiccate doti di narratore e di poeta che esercitò con grande discrezione e con qualche successo. Dopo avere diretto per alcuni anni le pagine culturali della Stampa e Tuttolibri , divenne uno dei principali animatori della Fondazione Filippo Burzio, creata per onorare l’intellettuale che aveva diretto il giornale torinese dopo la fine della guerra, e contribuì a organizzare interessanti convegni nel vecchio Arsenale militare di Torino.
Una delle sue iniziative più intelligenti fu la pubblicazione del libro che lei ricorda nella sua lettera. Vi sono elencati e descritti da diversi autori alcuni tipi della società italiana: l’ammanigliato, il burino, il campanilista, il Cipputi, il gattopardo, il lottizzato, il mafioso.
A me toccò per l’appunto il baciapile. Scrissi che la parola, nei dizionari, è generalmente sinonimo di bigotto, ma con una importante differenza. Mentre il bigotto può essere severo, rigoroso, intransigente anche e soprattutto con se stesso (oggi diremmo fondamentalista), il baciapile esibisce una devozione untuosa, appariscente, formale. Esiste dappertutto, ma è un personaggio del cattolicesimo latino e in particolare italiano. È l’espressione di una religiosità cortigiana e sensuale che non riesce a immaginare Dio se non sotto la forma di preti, monache, abiti talari, oggetti di culto, santini e reliquie. Mentre il bigotto pensa alla vita eterna, il baciapile ha un orizzonte più ristretto (la sacrestia, l’oratorio, l’anticamera del vescovo, l’udienza papale) e pensa ai vantaggi terreni più che alle gioie celesti.
Esistono ancora i baciapile nella società italiana? Dopo le barricate studentesche, il movimento femminile, i referendum sul divorzio e sull’aborto, l’Arcigay e l’ondata dei culti New Age, ho l’impressione che il loro numero sia considerevolmente diminuito. Credo del resto che i buoni sacerdoti, spesso difficilmente distinguibili dai laici, siano i primi a scoraggiare i comportamenti baciapileschi. Eppure qualche residuo storico di questo vecchio personaggio italiano sopravvive nello stile di una parte della classe politica e nei riti delle istituzioni nazionali. Penso al deferente saluto che i presidenti della Repubblica indirizzano al Papa dagli schermi della televisione in occasione del messaggio di Capodanno. Penso al fervore con cui i leader politici corrono alla proiezione di un film su Giovanni Paolo II. Penso alla udienza semiprivata del presidente del Consiglio con il Sommo Pontefice. Penso alla solennità con cui è stato celebrato il terzo anniversario (che cosa accadrà in occasione del decimo?) della visita che Giovanni Paolo II fece a Montecitorio. E penso alla targa devotamente collocata nel palazzo in memoria dell’evento. Ecco che cosa scriverei, caro Tinti, se dovessi aggiornare la voce «baciapile» nel libro ideato da Giorgio Calcagno.




Famiglia Cristiana n 49, 04.12.05
di Simonetta Pagnotti
QUASI TRE MILIONI DI ITALIANI SONO CORSI DALLO PSICOLOGO ALMENO UNA VOLTA. UN POPOLO SUL LETTINO


Solo per un consiglio, per avere un sostegno o una vera e propria terapia. Una ricerca svela il nostro rapporto con i figli di Sigmund Freud.

A parte l’immagine, è quasi vero. Lettino escluso, richiesto solo nel caso in cui ci si sottoponga ad analisi, lo psicologo è una figura destinata a entrare sempre di più nella nostra vita. Il 6 per cento degli italiani maggiorenni, infatti, nel corso dell’ultimo anno, ha sentito la necessità di rivolgersi a uno psicologo o a una psicologa. In proiezione, sarebbero circa 2.700.000 gli italiani che hanno consultato un professionista per sé stessi o per un familiare. In media, con circa 48.000 psicologi, risulterebbero 56 contatti per professionista. La percentuale dell’utenza cresce fino al 7,3 per cento nei comuni con più di 100.000 abitanti, cala al 4,6 per cento nei centri sotto i 20.000. Inoltre, varia con l’età. Si va dallo psicologo soprattutto dai 35 ai 45 anni (l’8,1 cento), molto meno dopo i 65 (1,8 cento).
I contatti aumentano con il crescere del titolo di studio, passando dall’1,2 per cento (licenza elementare) al 7,4 per cento (diploma di scuola media superiore) e al 14,8 per cento (laurea).
Si tratta di un dato complessivamente importante, se si pensa che solo l’1,3 per cento, nello stesso periodo, ha consultato un pediatra di base e il 3,4 per cento si è rivolto a un day hospital. È un risultato che ha preso un po’ alla sprovvista gli stessi autori della ricerca, la prima indagine completa sulla professione dello psicologo, realizzata dall’Ordine degli psicologi del Lazio, in collaborazione con l’Università La Sapienza, di Roma, partner dell’Osservatorio sul mercato della psicologia. I dati sono stati raccolti a partire dall’utenza, per capire quanti hanno bisogno dello piscologo e perché. «Per noi è stato un modo di sottoporci a verifica», spiega Gianluca Ponzio, psicologo e curatore della ricerca, «siamo stati confortati non solo dal dato quantitativo, ma soprattutto dal livello qualitativo che ci riconosce la maggior parte degli intervistati».
L’indagine è stata realizzata su un campione nazionale di 4.350 persone differenziate per sesso, età, titolo di studio e collocazione geografica. Se il 6 per cento degli intervistati ha dichiarato di essersi rivolto a uno psicologo nel corso degli ultimi 12 mesi, per esempio, il 23 per cento di questi l’ha incontrato in uno studio o in un centro privato, il 16,4 per cento nella scuola e solo il 14,8 per cento in un ospedale o in una struttura pubblica. Molto al di sotto, nelle percentuali, il rapporto con questa figura professionale per formazione o orientamento al lavoro. Significa che lo psicologo, il buon Freud insegna, è percepito soprattutto come "pompiere" delle situazioni critiche, e molto meno come colui che aiuta a prevenirle. Le cure di tipo clinico superano il 90 per cento delle prestazioni registrate dalla ricerca.
Problemi familiari
Il 39,7 per cento degli intervistati si è rivolto allo psicologo per consultazione e diagnosi, il 29,1 per cento per una psicoterapia breve di sostegno, il 22 per cento ha affrontato un percorso di psicoterapia o di psicoanalisi, il 4,7 per cento ha scelto la strada della psicoterapia di gruppo. Solo un 4,3 per cento vi ha fatto ricorso per questioni legate alla mediazione familiare o a pratiche di affidamento, percentuali ancora minori per prevenzione, orientamento e counseling, psicoterapia di coppia e altre prestazioni che riguardano in genere il mondo della relazione e del lavoro.
A conferma della tendenza a considerare la professione dal punto di vista clinico, il 38 per cento degli intervistati va dallo psicologo per guarire da un disturbo specifico, e il 25 per cento per affrontare un malessere. Solo l’11 per cento ritiene sia utile come «supporto nella gestione dei problemi quotidiani», il 9 per cento per un percorso di crescita personale.
Chi si rivolge allo psicologo non lo farebbe poi in modo avventato. Il 46,1 per cento, infatti, dichiara di avere fatto la sua scelta dietro il consiglio di un medico, il 38 per cento su suggerimento di un parente, amico o collega. Solo il 6,2 per cento si è affidato alle pagine gialle e l’1,1 cento a Internet.
Venendo al livello di soddisfazione e gradimento, anche in questo caso i dati risultano incoraggianti. L’83,5 per cento delle persone che hanno avuto a che fare con lo psicologo, infatti, si dichiarano soddisfatte o molto soddisfatte.
«E questo sarebbe ancora poco», spiega Gianluca Ponzio, «perché la soddisfazione è relativa anche al sentirsi o meno a proprio agio, quasi uno stereotipo quando si ha a che fare con chi esercita la nostra professione. È importante che più del 68 per cento dichiara di avere conseguito un risultato concreto, per il 76,8 per cento sono stati identificati i punti chiave e per il 70,7 per cento l’intervento è stato efficace».
Quei professionisti stimati
Queste le valutazioni di chi effettivamente ha avuto contatti con un professionista. La ricerca ha anche cercato di verificare lo status sociale dello psicologo, confrontando la professione con altri mestieri equivalenti per titolo di studio.
Nell’immaginario collettivo, quella dello psicologo risulta ancora una professione "debole", collocandosi per impegno di studi al terz’ultimo posto, prima di Economia e Commercio e Scienze della comunicazione. Ai primi posti fanno la parte del leone, nell’ordine, i medici, gli ingegneri, i veterinari, i laureati in Giurisprudenza, e biologi e gli architetti. Le cose cambiano quando si parla di fiducia. In questo caso gli psicologi salgono infatti al quinto posto, preceduti dai medici, sempre in testa, dagli ingegneri, dai veterinari e dai magistrati.





Famiglia Cristiana n 49, 04.12.05
di Simonetta Pagnotti
SOCIETÀ
INTERVISTA AL PRESIDENTE DELL ORDINE DEGLI PSICOLOGI DEL LAZIO
SCUSI, MI PUÒ DARE UN TRANQUILLANTE?


Per Emanuele Morozzo della Rocca c è ancora molta confusione sul ruolo esercitato da medici e specialisti.
«In realtà c’è ancora molta confusione: c’è chi va dallo psicologo e chiede un tranquillante perché non riesce a dormire». Non ci sono rose senza spine. Se i dati della ricerca sono positivi, Emanuele Morozzo della Rocca, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio, non ci nasconde le ombre della professione.

• Presidente, perché la gente fa tanta confusione?
«Perché oggi c’è un grande bisogno di psicologia e un grande interesse, ma nel nostro Paese c’è ancora poca cultura psicologica autentica. E la confusione può essere pericolosa».
• Cominciamo a fare chiarezza. Come si diventa psicologi?
«Oggi il percorso è molto chiaro: è necessaria una laurea quinquennale in Psicologia seguita da un anno di tirocinio e dall’esame di Stato. Ci si può iscrivere all’albo anche con la laurea triennale, ma in questo caso non si è psicologi, ma "tecnici di psicologia". In altre parole non si può esercitare la professione di psicologo, ma lavorare nel campo della propedeutica. Le faccio un esempio: il tecnico di psicologia può preparare un test, ma non formulare una diagnosi sui risultati. Devo dire che, sui circa 12.000 iscritti all’albo nel Lazio, abbiamo solo 19 tecnici. Significa che la laurea triennale è un fallimento».
• E per diventare psicoterapeuta?
«Dopo la laurea quinquennale, bisogna frequentare una specializzazione di quattro anni, o presso la stessa università o presso una scuola di psicologia riconosciuta. Chi sceglie una scuola a indirizzo psicoanalitico diventa psicoanalista e può sottoporre il paziente ad analisi. Quella sul lettino, per intenderci. Ma ci sono anche scuole psicoterapeutiche a indirizzo diverso».
• Lo psicologo non è un medico, però voi dividete questa specializzazione psicoterapeutica con i medici...
«Infatti, anche i medici, dopo la laurea, possono diventare psicoterapeuti o psicoanalisti: o frequentando una scuola o specializzandosi in psichiatria. In questo caso diventano medici psicoterapeuti o medici psicoanalisti».
• L’offerta è vasta. Come scegliere?
«Dipende dalle esigenze. L’unico consiglio è di verificare che il professionista cui ci si rivolge sia iscritto all’albo e sia effettivamente psicoterapeuta quando la richiesta è quella della psicoterapia. Per il resto ci sono bravi psicoterapeuti, sia medici sia psicologi. È evidente che chi non è medico non può prescrivere farmaci. L’importante è evitare quanti s’improvvisano ed esercitano senza titolo».
• Perché si va dallo psicologo?
«Negli studi professionali la domanda è molto varia. Uno dei motivi più frequenti riguarda l’attacco di panico, ma in generale parlerei di problemi legati alla fatica di vivere. Chi viene da noi molto spesso non riesce ad avere legami affettivi, si blocca davanti alle decisioni. Ci sono casi di depressione e di anoressia. In generale direi che il panorama è molto più complesso e sfumato rispetto alla classica nevrosi di cui parlava Freud. Nella maggior parte dei casi prevale un senso di vuoto, di desolazione».
• Se per quanto riguarda l’aspetto più "clinico" della professione subite la concorrenza dei medici, per altri aspetti subite la pressione delle cosiddette "professioni brevi". Penso alla mediazione familiare, al counseling. In questi campi esercita anche chi non è psicologo...
«Lei ha toccato un punto dolente: questo è tema di conflitto. Noi stessi, come Ordine degli psicologi, stiamo per uscire con un documento. Abbiamo anche tante cause, in giro per l’Italia. Bisogna chiarire che, quando si tratta di una mediazione familiare o di un counseling di carattere psicologico, questo deve essere fatto da uno psicologo. Diverso è il caso in cui si tratti di altri problemi come, per esempio, di un supporto legale alla coppia. Così, la selezione del personale, quando viene fatta attraverso test che riguardino il profilo psicologico dei candidati, deve vedere presente lo psicologo. È una questione di correttezza e anche di deontologia professionale».
• E per quanto riguarda il futuro della professione?
«Siamo ottimisti, ma dobbiamo anche dire con chiarezza che bisogna porre un limite alle iscrizioni all’università. Attualmente abbiamo 70.000 studenti: una follia. Ci sono numeri programmati gonfiati e si continuano ad aprire corsi in tutte le facoltà, mentre nel nostro mestiere c’è ancora tanto precariato e tanti sono costretti a un doppio lavoro per sbarcare il lunario. Dobbiamo chiederci se vogliamo formare dei professionisti o sfornare degli infelici».
Simonetta Pagnotti




La Stampa Tuttolibri 3, 04.12.05
Pound, la formica solitaria folgorata in una calda estate
Alla riscoperta del poeta: i «Canti pisani», opera poliglotta e barbara; «Carte italiane», letture, impressioni e invettive; «Indiscrezioni», ritorno alla primissima infanzia; una biografia critica

di Massimo Bacigalupo

«LINGUE e persone di Ezra Pound» è il titolo di un convegno internazionale che si è tenuto a Rapallo lo scorso luglio. Oltre sessanta relatori hanno indagato il pluringuismo poundiano e l'abitudine del poeta di parlare attraverso «maschere»: gli innumerevoli personaggi le cui voci poliglotte costellano i Cantos (opera che è poliglotta e barbara fin dal titolo: un plurale all'inglese da un singolare italiano). «Hay aquì mucho catolicismo... y muy poco reliHion» leggiamo sulla prima pagina dello splendido canto 81, culmine dei Canti pisani (recentemente ristampati da Garzanti, pp. 316, e9,50, tradotto da Alfredo Rizzardi, con una prefazione di Giovanni Raboni, certo uno degli ultimi scritti di un poeta che ha sempre avuto una non sospetta fedeltà poundiana). La citazione spagnola, ci informa subito Pound, è dell'amico prete José Elizondo, «nel 1906 e 1917». E la dice lunga sul progetto religioso non confessionale che a suo modo Pound tenta nel poema. Naturalmente Elizondo non è solo una maschera ma una persona vera, una delle tante voci che ci parlano nella babele dei Cantos, non sempre a dire il vero altrettanto saggiamente. Ma nei Canti pisani Pound è molto vicino alla «nota giusta» che il poeta cerca tutta una vita. Randall Jarrell, il critico americano degli anni di mezzo del Novecento, disse che il grande poeta è quello che in una vita di star fuori nei temporali è colpito un paio di volte dal fulmine. E questo indubbiamente capitò alla «formica solitaria dal formicaio distrutto» in quella calda estate pisana rinfrescata d'ogni tanto da «favonus vento benigno» (così nel testo). Dietro stavano gli anni di lavoro e organizzazione culturale a Londra, Parigi, Rapallo, specialmente il ventennio fascista che corrisponde quasi esattamente al primo soggiorno italiano di Pound, e che gli parve rispondere alla sua esigenza tutta americana di impegno sociale. Donde quel notevole breviario di politica poetica che è Jefferson e/o Mussolini (1935), che come tanti instant book di Pound è un diario di letture impressioni invettive, cui manca solo la forma del verso per divenire una pagina dei Cantos. E infatti spesso li leggiamo per trovare la chiave di alcune immagini ermetiche. Gli anni del ventennio videro anche Pound sempre più impegnato a scrivere in italiano, su testate via via più autorevoli: da «L'Indice» di Genova al «Mare» di Rapallo, di cui diresse un «Supplemento Letterario» e per cui scrisse spesso di musica, al «Meridiano di Roma», versione fascistizzata della «Fiera Letteraria». Luca Cesari ha ora raccolto questa mole notevole e preziosa di scritti (ad eccezione di quelli musicali) nel volume Carte italiane 1930-1944. Pound scrive un italiano sapido e emette sentenze non di rado memorabili, racconta la sua storia di cui è sempre l'eroe principale. Eccolo sulla traduzione: «Non si deve accettare parole chiuse. Si deve schiacciare la parola per estrarre la polpa dal guscio. Scrivo interrogando, non pronunciando». E continua: «Quanto perdo io su queste colonne stesse, tentando di scriver una lingua letta invece che intesa dalle labbra della mia nera bambinaia». La poesia infatti per Pound va scritta in una lingua effettivamente parlata, radicata, colloquiale. Uno dei grandi pregi delle pagine dei Canti pisani è che vi si sentono le voci dei soldati del campo militare americano di Metato dove Pound era internato: «Non dirlo a nessuno che ti ho fatto questo tavolo», gli fa una «maschera Baluba» (parola che nel 1945 non aveva il senso deteriore che ha nell'italiano di oggi). Quanto alla «mia nera bambinaia», Pound ne parla nelle pagine autobiografiche di Indiscrezioni, operetta umoristica del 1920, ben tradotta e curata da Caterina Ricciardi. Qui torniamo addirittura nell'Idaho della primissima infanzia del poeta giramondo, nei pressi di Hailey e Ketchum, dove finì l'avventura di uno dei suoi maggiore discepoli, Hemingway. Sicché vide bene quel professore tifoso dell'Idaho che dettò questa lapide ideale del «modernismo» angloamericano: NATO A HAILEY NEL 1885 - MORTO A KETCHUM NEL 1961. Un tuffo nel primo Novecento americano e nelle origini delle avanguardie letterarie ci offre Jacob Korg con “Un amore in inverno”, una biografia critica di Ezra Pound e della sua compagna di avventure sentimentali e poetiche Hilda Doolittle, che Pound ribattezzò definitivamente «H.D.» quando nel 1912 lanciò l'Imagismo. H.D. scrisse poesie brevi in verso libero centrate su poche immagini simboliche, e come Pound passò la vita in Europa, legandosi a vari uomini, fra cui Richard Aldington (che sposò) e D.H. Lawrence, ma soprattutto a donne, ed ebbe un sodalizio stabile con la scrittrice e mecenate Bryher, che praticamente adottò sia H.D. che la figlia di lei Perdita, e si accollò tutte le spese del menage (fra l'altro offrì a H.D. due serie di sedute con Freud a Vienna). Dai brevi cammei imagisti H.D. passò a lunghi poemi a sfondo mitico (Trilogia, Sciascia 1993), sempre decantati e preziosi nella forma, tutto il contrario del coacervo dei canti poundiani, anche se entrambi si dilettavano di esoterismo e di un pantheon personale. Fin da ragazzi, come H.D. ricorda nel tardo memoriale Fine al tormento (Archinto, 1994), si scambiavano libretti di Swedenborg, la Séraphita di Balzac e idilli provenzali e stilnovisti di Morris e Rossetti. Erano «fidanzati» ventenni sotto lo sguardo preoccupato del padre di lei, professore di astronomia a Filadelfia, che in una scena memorabile li sorprese a baciarsi sul sofà di casa Doolittle e tirò le orecchie ad Ezra... Korg ricostruisce tutto ciò con chiarezza e vigore, sempre attento all'opera poetica, e forse questo libro desterà maggiore attenzione in Italia intorno alla poesia di H.D., rivalutata da tempo in America e Inghilterra, anche se forse più in ambiente accademico (femminismo, teorie di genere) che presso il pubblico dei lettori, che continua a ritenerla autrice di poche liriche esili e perfette.




La Stampa Tuttolibri, 04.12.05
DISCORSO AI VESCOVI BENEDETTO XVI SE LA PRENDE CON LA SECOLARIZZAZIONE E I SUOI PERICOLI
Il Papa all’attacco dei Pacs
«Sono un falso matrimonio»
«Se la scienza non riconosce i suoi limiti si può trasformare in una minaccia per l’umanità»
«Pillola Ru486 e aborto, crimini che aggrediscono la società»

di Marco Tosatti

CITTÀ DEL VATICANO - No all’eliminazione dell’embrione e al «crimine» dell’aborto, no a nuove forme di unione che alterano la «natura specifica» del matrimonio, sì a «una coraggiosa e leggibile testimonianza dei valori cristiani» da parte dei credenti, nel quadro di una «legittima autonomia tra stato e chiesa». Ieri Benedetto XVI in diversi momenti, e a interlocutori differenti, ha ribadito la sua «linea» sui temi caldi del momento; un intervento che pur se indirizzato ai latinoamericani e alla Polonia, è valido per tutto il mondo ed entra in pieno nel dibattito politico italiano, centrato proprio in queste ore sulla «pillola del giorno dopo, la Ru486, l’aborto e i «Pacs».
«False concezioni del matrimonio e della famiglia, che non rispettano il progetto originario di Dio»: così, ai presidenti delle commissione episcopali per la famiglia e la vita dell’America Latina Benedetto XVI ha descritto la situazione dovuta alla «secolarizzazione», lamentando la pressione di «leggi ingiuste che disconoscono i diritti fondamentali» della famiglia. Un attacco, secondo il Papa, che mette in pericolo diritti fondamentali. «Come conseguenza, ha continuato, si facilita l’eliminazione dell’embrione o il suo uso arbitrario al servizio del progresso della scienza che, non riconoscendo i suoi limiti, e non accettando i principi morali che permettono di salvaguardare la dignità della persona, si trasforma in una minaccia per l’essere umano stesso, ridotto a oggetto o a mero strumento».
Bisogna inoltre, ha suggerito Papa Ratzinger, «aiutare tutti a prendere coscienza del male intrinseco del crimine dell’aborto, che attentando alla vita umana al suo inizio, è anche un’aggressione contro la società stessa». Per questo motivo politici e legislatori, «come servitori del bene sociale hanno il dovere di difendere il diritto fondamentale alla vita». «In America Latina, come in tutte le altre parti del mondo, i bambini hanno il diritto di nascere e crescere nel seno di una famiglia fondata sul matrimonio, dove i padri siano i primi educatori dei figli e questi possano raggiungere la loro piena maturità umana e spirituale».
Sono toni anche più duri di quelli pronunciati nelle settimane passate dai vescovi italiani, quando si è discusso della pillola Ru486 e di aborto. E naturalmente presuppongono, nella visione del Papa, una presenza attiva nella vita sociale. Il come l’ha spiegato ai vescovi polacchi in visita «ad limina». La Chiesa «non si identifica con nessun partito, con nessuna comunità politica né con un sistema politico». Sono i laici che devono impegnarsi, per dare una «coraggiosa e leggibile testimonianza dei valori cristiani, che vanno affermati e difesi nel caso che siano minacciati. Lo faranno pubblicamente, sia nei dibattiti di carattere politico che nei mass media». I vescovi avranno il compito di appoggiare questo sforzo: «Il dialogo condotto dal laicato cattolico a livello di questioni politiche si dimostrerà efficace e servirà il bene comune quando alla base ci saranno: l’amore della verità, lo spirito di servizio e la solidarietà nell’impegno a favore del bene comune. Vi esorto, cari Fratelli, a sostenere questo servizio del laicato, nel rispetto per una giusta autonomia politica».
Non è un problema solo polacco, ha tenuto a precisare Benedetto XVI, perché, citando Giovanni Paolo II, ha detto che viviamo in tempi «in cui la cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse». Ma Chiesa e Stato devono operare in maniera distinta: lo ha ricordato il Papa in un messaggio a firma del Segretario di Stato Angelo Sodano. Benedetto XVI ha parlato di «legittima autonomia che deve contraddistinguere le relazioni tra Chiesa e Stato».



La Stampa Tuttolibri, 04.12.05
DOPO IL 2006 BERTINOTTI POTREBBE COSÌ TIRARSI FUORI DALLA MISCHIA POLITICA ED EVITARE NUOVI DUELLI CON PRODI
E Fausto cerca riparo sotto la poltrona di Casini
Un modo anche per portare il «suo mondo» nelle istituzioni

di Riccardo Barenghi

Se vince le elezioni, Prodi farà il presidente del Consiglio, D’Alema il ministro degli Esteri, Fassino il vicepremier restando così anche segretario del suo partito, Rutelli pure o forse sarà ministro dell’Interno, all’Economia ancora non si sa (un tecnico-politico o un politico un po’ tecnico?), seguono tutti gli altri compresi un paio di ministri di Rifondazione comunista. Bertinotti no, lui non entrerà al governo come ha sempre detto. Forse però farà il presidente della Camera. E allora la domanda è: perché Bertinotti vuole fare il presidente della Camera?
Le ragioni ovvie sono appunto ovvie: la terza carica dello Stato è un ruolo di enorme prestigio per chiunque, tanto più per un comunista rifondatore come lui, uno che ha nel sangue la cultura dell’opposizione, del movimento, della lotta aperta su qualsiasi fronte, operaio, ambientale, sociale. Sedersi su quello scranno sarebbe un riconoscimento non solo all’uomo ma direttamente alla sua politica. Sarebbe come se fisicamente quei movimenti e quelle lotte che Bertinotti vuole rappresentare si sedessero lì con lui, diventassero anch’essi la terza carica dello Stato. Aggiungiamoci pure che il primo comunista a occupare quel posto è stato Pietro Ingrao nel ’76, che di Bertinotti è un maestro, e si capisce perché la prospettiva interessi molto al segretario di Rifondazione.
Ma non basta, c’è un’altra ragione che spinge Bertinotti verso la presidenza della Camera. Più politica, o se vogliamo psico-politica. Occupando quel posto, il leader comunista riuscirebbe in un colpo solo a portare il suo mondo fin nei vertici delle istituzioni e nel medesimo istante a staccarsi da quel mondo. Separando se stesso non solo dalla gestione del suo partito ma soprattutto dai conflitti che dentro e intorno a quel partito nasceranno. Conflitti che prenderanno di mira le scelte politiche di un governo che sarà sì di centro-sinistra ma non certo di sinistra-sinistra, di sinistra radicale. Saranno anche scelte impopolari e che quindi provocheranno qualche problema alla Rifondazione di governo. Verrà contestata dalla sua sinistra, contestata - questo almeno è il rischio - proprio da quel mondo che Bertinotti avrà nel frattempo idealmente portato con sé nel cuore delle istituzioni.
E se per il suo partito non sarà un compito facile gestire un conflitto del genere, per un Bertinotti che ne fosse ancora il segretario operativo sarebbe al limite della praticabilità, una scelta dilaniante. Proprio per la sua storia e la sua cultura politica, la terza o quarta volta che si trovasse costretto a scegliere tra il (suo) governo e il suo movimento, la sua lotta, la sua opposizione, è probabile che sceglierebbe questi ultimi. La tentazione sarebbe troppo forte, irresistibile. L’unica maniera per sfuggire al dilemma allora è chiamarsi fuori, salire un gradino più in alto, mettersi in un’altra posizione. E la posizione di presidente della Camera è perfetta, ti consente di vedere e di sentire, anche di parlare ma ti tiene legato, impedisce al richiamo tentatore di trascinarti via. Proprio come Ulisse con le sirene.



La Stampa Tuttolibri, 04.12.05
LA PROVOCAZIONE IL GIORNALE DI RIFONDAZIONE COMUNISTA ALL’ATTACCO DELLA QUERCIA
«Cari Ds, scambiate Turco e Prestigiacomo»
«E potreste anche prendere una tuta blu al posto di Andrea Pininfarina»


Proposta provocatoria ma non troppo, ieri sulla prima pagina del quotidiano di Rifondazione, rivolta ai «cugini» Ds: prendetevi la Prestigiacomo e date la Turco al Polo. Anzi, già che ci siete, scambiate anche il vicepresidente di Confindustria, Andrea Pininfarina, con un metalmeccanico. Ha scelto un titolo-choc, il giornale «Liberazione», per «bacchettare» con pesante ironia quello che il partito di Bertinotti ritiene uno sfoggio eccessivo di riformismo da parte del partito di Fassino.
All’origine della polemica le ultime proposte della deputata della Quercia e dell’esponente del governo in materia di aborto, oltre all’intervento dell’industriale all’assemblea programmatica dei Ds proprio nel giorno dello sciopero dei metalmeccanici.
«Stefania Prestigiacomo, ministra ed esponente di spicco di Forza Italia - scrive il giornale del Prc - ha proposto di distribuire gratuitamente i preservativi. È una buona idea, sia per combattere l’Aids, sia contro le gravidanze non volute. Livia Turco, ex ministra, esponente di spicco dei Ds, ha proposto invece un assegno che premi la gravidanza e induca ad evitare l'aborto. Badate bene, l’assegno dura solo finchè la donna è incinta, poi, quando nasce il bambino -e il rischio di aborto è evitato- l’assegno scompare: il bambino si arrangi. Cantava De Andrè: “Poi la voglia sparisce e il figlio rimane, e tanti ne uccide la fame...”».




La Stampa, 04.12.05
CALENDARIO CON FOTO LA DENUNCIA CONTRO L’ISOLAMENTO DI COLORO CHE SOFFRONO. LO PSICHIATRA: «SONO PERSONE, NON MATTI»
Disagio mentale, i malati sono in continuo aumento

Barbara Cottavoz

«Anche quelli che appaiono diversi hanno diritto a una vita normale»: lo dice Marzo. Ovvero la didascalia alla foto che rappresenta il terzo mese nella campagna lanciata da Asl 13 e ospedale «Maggiore» in occasione della Giornata dedicata alla salute mentale in calendario lunedì. Questa volta, sarà una Giornata che dura tutto l’anno.
Ogni mese, infatti, sui muri e in alcune scuole del Novarese appariranno manifesti con le immagini scattate da dodici artisti per lanciare un messaggio contro l’isolamento di chi soffre di disturbi mentali. «Non sono matti, sono persone con una storia, un volto e loro problemi. Persone con una vita da vivere e parole da comunicare» ha detto Domenico Nano, psichiatra responsabile del Dipartimento di salute mentale di Novara e Galliate dell’Asl 13.
Di loro, però, si parla poco o se ne parla soltanto in occasione di tragici fatti di cronaca: «Contro lo stigma può l’educazione. Nelle università con i giovani futuri medici - precisa il professor Eugenio Torre, dell’università Avogadro - e fuori attraverso l’attività di collegamento con la medicina generale». E saranno proprio i dottori di base uno degli obiettivi della campagna che la Regione avvierà. Gli altri sono le scuole e i cittadini: «Si parla poco del problema mentale - commenta Michele Vanetti, responsabile del Dipartimento di salute mentale Nord dell’Asl -, nell’opinione pubblica ma anche nel mondo sanitario. Questa Giornata significa l’impegno di riportare a tutti notizie concrete su quanto facciamo».
Collaborano con i Dipartimenti alcuni gruppi di volontari. L’Alsp è l’Associazione lotta contro la sofferenza psichica: supporta le famiglie: ««Il disagio mentale è in crescita e colpisce in modo trasversale - ha commentato la presidente Valeria Neri -. Servono buone cure che si prendano in carico in modo forte e duraturo i problemi di chi sta male. L’insulto peggiore per il malato mentale è la solitudine». Il sodalizio «Aiuta pische» raggruppa familiari di malati di Borgomanero e Arona: «Nella nostra zona mancano gruppi-appartamento e comunità protette - ha denunciato Michele Ventura -. Spesso il fatto di abitare con la famiglia può rendere più difficili le cure». E il vicesindaco Mario Ferullo ha sottolineato: «La salute mentale è anche un problema sociale che crea nuove povertà».Nell’ex ospedale psichiatrico oggi ci sono comunità protette e centri diurni


RICETTE La Stampa, 04.12.05
Successo del «libro delle ricette». Già esaurito, subito si ristampa
Successo! Un successo incredibile: il libro «Le ricette di Saper spendere» in poche ore, giovedì, è andato esaurito. Lo ha avuto chi lo aveva prenotato presso l’edicolante di fiducia quando ancora non era in vendita, ma molti che hanno cercato di acquistarlo in alcuni punti di distribuzione poco dopo mezzogiorno non l’hanno più trovato: esaurito. Non preoccupatevi però: è già stato dato il via alla ristampa e tutto saranno soddisfatti prestissimo. E’ una promessa.
Un consiglio: dite al vostro edicolante di tenerlo da parte per voi. Questo è per tranquillizzare tutte le amiche e gli amici di Saper spendere, che hanno telefonato per sapere dove potevano trovarne una copia (il telefono diretto con Simonetta 011-6568226 è in funzione ogni lunedì e ogni venerdì ore 10,30-14,30). Tutti sarete avvertiti appena tornerà in edicola.
Quei lettori che, purtroppo esclusi dalla vendita in edicola (possibile solo in Piemonte, Liguria Riviera di Ponente, Valle d’Aosta), devono rivolgersi al numero verde de La Stampa 800011959 e in questi giorni lo hanno trovato sempre occupato, non si spaventino: occorre soltanto un po’ di pazienza, come ho detto al telefono a una gentile lettrice di Genova che ci segue «dall’inizio della rubrica nel ‘69», e a due simpatici lettori, uno del Veneto e uno di Milano. In questi giorni le telefonate si sono susseguite a ritmi pazzeschi. Vi assicuro che tutti sarete accontentati.
A tutti va il mio grazie di cuore: quella di Saper spendere è veramente «una grande famiglia» di amici e compagni curiosi e interessati a tanti aspetti della vita quotidiana. Una «grande famiglia» che in occasione dell’uscita del libro «Le ricette di Saper spendere» si è ritrovata compatta e ne ha decretato il successo tanto da dover subito provvedere alla seconda edizione.
Molti hanno telefonato e scritto email per sottolineare che l’iniziativa è piaciuta e per congratularsi con Simonetta; alcune lettrici addirittura sostengono di avere provato la sera stessa di giovedì una delle ricette pubblicate «e con grande soddisfazione per il successo a tavola».
L’email più divertente, tra le tante ricevute, è quella di Grazia da Ivrea (Torino): «Sono Grazia, tempo fa le avevo richiesto una ricetta che avevo perso per fare un budino di arance al moscato e non avendo saputo darle molte indicazioni lei non era riuscita a ritrovarla. Ebbene, stamane (giovedì, ndr) mio marito ha acquistato il libro delle ricette e con mia grande felicità ho trovato la ricetta: è a pagina 188 "Flan di arance al moscato"». Splendido!
A tutti voi, amici, dò appuntamento a presto con la seconda edizione del libro di ricette.
Tra tante lodi, non è mancata una nota di biasimo a Saper spendere. Un lettore ha chiesto notizie di una lettera spedita a ottobre 2004 con foto di un «quadretto» (la parola è sua) alla quale non aveva avuto riscontro. Non è stato soddisfatto della risposta, anzi si è molto irritato. Simonetta chiede scusa, ma ripete, per tutti gli interessati, alcune regole che ci siamo dovuti dare con i periti per poter gestire la marea di richieste: se l’opera per la quale si desidera la stima vale, secondo l’esperto, più di 400 euro, il proprietario che ha firmato la lettera e ha scritto anche il suo numero di telefono sarà chiamato direttamente da Simonetta, appena il perito avrà fornito la risposta. Ma se l’opera vale meno di 300 euro, non ci sarà alcuna telefonata e per valori ancora inferiori, in molti casi, la risposta eventuale non sarà nemmeno pubblicata.
Lo abbiamo riferito anche l’altro giorno a un lettore che ha una tempera, ma lui non si è offeso: «E’ naturale, ne avete troppe, quindi se non ricevo risposta entro un anno, vuol dire che la mia tempera vale poco dal punto di vista venale, anche se ha per me un grande valore affettivo». Lo ringraziamo per la comprensione.
In breve, per Tiziana D.B: purtroppo non abbiamo un esperto di monete per poter rispondere alla sua richiesta.
Per Carlo S. di Saluzzo: ha dimenticato di accludere la fotografia del suo quadro, ma attento, i nostri esperti non rispondono su opere di pittori viventi.
simonetta.conti@lastampa.it




Corriere della Sera, 04.12.05
Particolare sensibilità
Chi sa leggerci negli occhi
La tendenza al pessimismo aiuta a capire gli altri


Ci sono occhi che ridono, occhi che odiano, occhi che piangono anche senza lacrime. Gli occhi sono lo specchio dell'anima, ma non tutti sono capaci di leggere ciò che dicono.
Se riuscite a farlo con facilità, secondo uno studio pubblicato sull'ultimo numero della rivista Cognition Emotion dai ricercatori canadesi della Queen's University dell’Ontario diretti da Kate Harkness, potreste essere un po' depressi e anche un po' ansiosi.
La capacità di leggere le emozioni che trapelano dagli occhi degli altri deriverebbe, infatti, da una condizione chiamata "disforia", in cui si vede tutto nero e si è sempre in allerta, pronti a cogliere gli aspetti peggiori della vita e gli stimoli sociali o gli stati mentali con valenze negative.
Un po' il contrario di quanto avviene nell'innamoramento, che, dal punto di vista della neurochimica cerebrale, assomiglia al "disturbo maniacale" (l’opposto della disforia), in cui tutto va, patologicamente, sempre bene, tant'è che l'innamorato vede dovunque rose e fiori e si rispecchia nel cuore dell'amata attraverso i suoi occhi.
I ricercatori canadesi hanno sottoposto 124 studenti universitari di ambo i sessi a una valutazione utilizzando due questionari-test (Beck Depression Inventory e Mood-Anxiety Symptoms Questionnaire) per individuare il livello del loro umore.
Poi, hanno mostrato agli studenti una serie di facce in cui era visibile solo l'area degli occhi, chiedendo loro d'interpretare lo stato d'animo del volto ritratto nella foto, senza vedere il resto della faccia.
Gli studenti, sia i maschi sia le femmine, risultati disforici ai test, erano poi anche quelli che "leggevano" meglio gli occhi delle foto, soprattutto se si trattava di facce tristi, una interpretazione in cui risultavano enormemente più accurati rispetto agli altri.
Si potrebbe pensare che chi ha dei problemi è più attento e sensibile nel cogliere dallo sguardo degli altri quei tratti di malinconia che è pronto a cogliere in se stesso.
Cesare Peccarisi



Corriere della Sera, 04.12.05
sintomi
I disturbi in tre aspetti


I sintomi dell’autismo possono essere presenti solo in parte come numero e in forme più o meno attenuate. Come per tante malattie psichiatriche, oggi si parla di "spettro" dell'autismo, la diagnosi contempla un continuum che va dalle forme più lievi a quelle più gravi e invalidanti. I sintomi dell'autismo sono raggruppabili principalmente in tre aree

DISTURBO SOCIALE
Non essere teso a - e capace di - condividere le normali esperienze con gli altri
DISTURBIDEL LINGUAGGIO
A volte questi ragazzi non parlano affatto o parlano in modo peculiare; possono ripetere tale e quale quel che gli si dice (ecolalia); incapaci di usare il pronome io, parlano di sé in terza persona
RIPETITIVITÀDEGLI INTERESSI
In genere estremamente limitati. Un bimbo grave può far oscillare un oggetto in mano senza cercarne mai altri e senza tentare di utilizzarlo in alcun modo


Corriere della Sera, 04.12.05
definizione
Chiusi in sé, staccati dal mondo A volte geniali


La parola "autismo", creata dallo svizzero Eugen Bleulel nel 1911, voleva indicare la "fuga dalla realtà" caratteristica di una particolare forma di schizofrenia. All'origine del termine, autòs, in greco sé; dunque, "rinchiuso in se stesso". Il disturbo che intendiamo oggi con quel termine fu individuato molto tempo dopo, quasi in contemporanea ma in modo indipendente, dall'americano Leo Kanner nel 1943 e dal viennese Hans Asperger nel ’44. Il primo si accorse dei bambini con particolari caratteristiche, oggi considerate le più gravi, e scelse "autismo" come nome della nuova malattia individuata; il secondo osservò sintomi analoghi ma in ragazzi tutti padroni del linguaggio e parlò di "Psicopatia autistica nell'infanzia".
Nella comunità scientifica oggi è in uso dire "Asperger's children" - i bambini/ragazzi di Asperger - per indicare i giovani autistici meno gravi e spesso dotati di talenti particolari. Nel film "Rain Man" il bravissimo Dustin Hoffman impersona appunto uno di questi malati, staccato dal mondo, ma con tratti geniali.