lunedì 4 marzo 2019

Repubblica 4.3.19
Tullio Gregory
L’uomo che insegnava a pensare bene (anche a tavola)
di Antonio Gnoli


Lo storico della filosofia, autore di manuali su cui si sono formate intere generazioni, è morto a Roma all’età di novant’anni Accademico dei Lincei, fu attivo tutta la vita nell’Enciclopedia italiana

Certe volte si divertiva all’idea che al severo studioso di testi medievali e secenteschi si sovrapponesse l’intenditore di cibi, l’esperto gourmet in grado di discettare di roast beef, carbonare e amatriciane.
Intendiamoci. Tullio Gregory, morto sabato a Roma a 90 anni, non mescolava i codici di due saperi così diversi. Non si sarebbe mai permesso di accostare il Discorso sul metodo di Cartesio alla Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Artusi. Eppure nutrì un rispetto assoluto per entrambi.
Ho avuto modo di conoscere abbastanza bene quest’uomo, il cui sguardo conservava qualcosa di rapace.
All’università di Roma, dove a lungo ha insegnato, Gregory era considerato un temuto barone.
Ne era, oltretutto, perfettamente consapevole. Alla domanda se considerasse etico il comportamento con cui decideva chi mandare in cattedra, rispondeva che era molto etico aver appoggiato candidati come Emilio Garroni e Lucio Colletti. Aveva una cattedra anche a Parigi. Le sue lezioni su Montaigne, Gassendi o Descartes furono uno scavo filologico sorretto da erudizione e intuito. Tutto quello che gli piaceva era leggere testi: manoscritti e prime edizioni. In quel territorio si muoveva con una velocità straordinaria. Più che un interprete penso che Gregory sia stato un glossatore di stampo medievale. Un "giurista" della filosofia capace di rivelare le oscure note di un sapere sempre in procinto di perdersi. Per questo amava quei pensatori ritenuti secondari o scarsamente presenti nel dibattito filosofico: sconosciuti libertini o atei pericolosi. E li amava anche per una ragione che può sembrare stravagante: erano il segno che la tradizione ha bisogno di figure marginali perché i grandi risplendano nel loro nucleo più segreto.
Gregory aveva studiato con Bruno Nardi, specialista di filosofia medioevale e in particolare di Dante. Anche Nardi apparteneva alla famiglia dei glossatori, cioè a coloro che ritenevano che l’ordine di un testo fosse di gran lunga più importante dell’interpretazione. Decenni di ermeneutica ci hanno fatto perdere di vista questa verità elementare. Di cui Gregory fu in qualche modo il sostenitore. C’era niente di più medievale in lui del non volere ambire ad alcuna originalità?
Gregory era del 1929, venne al mondo pochi mesi prima che nascesse Emanuele Severino.
Una coincidenza. Ma a volte le coincidenze svelano cose sorprendenti. Tanto il primo fu refrattario a qualunque personalizzazione della filosofia, quanto il secondo ha saputo offrirne una lettura originalissima. Non chiederei mai con quale parte schierarsi.
Però una domanda ce la possiamo porre: perché, in un’epoca in cui tutti i grandi filosofi aspirano ad essere originali, Gregory scelse di non esserlo? Nonostante gli importanti studi sul platonismo e aristotelismo, per lui non esisteva una filosofia in senso stretto. Non aveva senso ai suoi occhi definirsi platonici o kantiani, hegeliani o heideggeriani, crociani o gentiliani. Gli piaceva la filosofia come manifestazione di un sapere in un sapere più grande che è la storia della cultura.
Aveva con un colpo di spugna abolito le gerarchie. Il che non significa aver abolito i codici e le competenze. Questo è il motivo per cui, con altrettanta serietà e convinzione, affrontò il vasto e pittoresco mondo della cucina.
In uno dei nostri incontri, mi pare avvenisse alla taverna Flavia, a Roma, dove a volte amava invitare gli amici, progettammo un piccolo libro in cui un filosofo si spoglia dei suoi panni usuali e indossa quelli del gastronomo. Non se ne fece nulla. Aggiungo per colpa mia.
Però quella sera, oltre a parlare di ricette e dei modi migliori per cucinarle, gli chiesi perché si era lasciato incantare dal Medioevo e dalla prima modernità. Mi rispose che la cosa che lo attraeva di più erano i momenti di passaggio della cultura. Per esempio, precisò, un grande momento di passaggio nella storia della cultura europea fu tra dodicesimo e tredicesimo secolo, quando nel giro di pochi decenni, grazie alla grande enciclopedia della scienza greca e araba, muta radicalmente il quadro mentale. Un altro momento straordinario fu il passaggio dal Rinascimento al Seicento, anche qui con la riscoperta dei classici antichi.
Gli obiettai che così si correva il rischio di perdere il senso della periodizzazione di un’epoca. Al contrario, rispose. E portò a esempio quello che gli aveva insegnato Delio Cantimori per il quale era molto più semplice periodizzare un’epoca in base alle biblioteche, che non con i grandi fatti della storia. Ci sono epoche omogenee in cui per secoli si legge solo Aristotele, poi improvvisamente si cambia autore. Arriva Platone e il platonismo. Non cambia solo la lettura, cambia il mondo. Dal Rinascimento a tutto il Settecento si lesse soprattutto Plutarco. I filosofi che prepareranno la rivoluzione francese leggevano i grandi uomini descritti nelle Vite parallele. Anche qui, sono i libri a riflettere una mutazione. In questo piccolo racconto era evidente che Gregory mostrasse la sua grande passione per i libri. Nella casa romana, posta proprio davanti al Palazzaccio, ne aveva più di trentamila.
Erano ovunque. Capitava che ne estraesse uno dalla libreria e nella miopia estrema avvicinasse la pagina fino quasi a sfiorarla con l’occhio. Quel gesto esagerato, minato dallo sguardo, mi piace immaginarlo come l’ultima testimonianza di una vita di carta.
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