sabato 26 gennaio 2008

l’Unità 26.1.08
Shoah: la «normale» cronaca di un orrore
di Furio Colombo


Esce in Italia «Album Auschwitz» reportage finora inedito che venne realizzato dagli aguzzini del lager
Qualcuno ha detto che non ci sarà mai più nessuno tanto innocente quanto le vittime sulla soglia della camera a gas

NAZISTI FOTOGRAFI SS scrupolosi hanno scattato migliaia di immagini semplici, quotidiane - insopportabili - delle varie fasi del «viaggio» della morte dei deportati. Ma siamo davvero certi di essere usciti da questo incubo freddo?

Quando sfoglierete con disorientamento e disagio le pagine di Album Auschwitz (pp. 255, euro 35,00, Einaudi) e vedrete le migliaia di fotografie scrupolosamente eseguite e raccolte all’arrivo dei deportati al binario finale di Auschwitz-Birkenau, ricorderete la terribile e semplice definizione di Anna Arendt per tutto questo orrore e questa immensa e bene organizzata quantità di dolore: La banalità del male.Temo che persino le parole di Anna Arendt siano insufficienti o addirittura inadatte. Ciò che si vede in queste immagini intollerabili e indimenticabili è la normalità.
Non la normalità delle immagini che testimoniano di una immensa e scrupolosa e implacabile rete organizzativa, di una perfetta macchina burocratica capace di portare sistematicamente alla morte lungo un percorso di umiliazione, spogliazione, separazione, offesa, dolore.
No, «la normalità» la constatate con agghiacciante chiarezza, fotografia dopo fotografia. Manca ogni sentimento umano ma anche ogni vibrazione emotiva di qualunque tipo (persino l’odio è assente) dalla parte di chi ha scattato accuratamente, professionalmente, con scrupolosa qualità, le fotografie.
È da questa parte dell’obiettivo, quello del funzionario o del soldato fotografo, che si sente, si vive la vera portata della tragedia. Noi diciamo «comportamento mostruoso». Ma, in realtà, parliamo della pacata e bene organizzata «normalità» di un tempo che è troppo vicino a noi per non sconvolgerci.
«Sconvolgimento» (nel senso di repulsione ma anche di radicale incapacità di comprendere, al modo in cui si «comprendono» anche le peggiori pagine della storia) vuol dire rendersi conto che tutto ciò è avvenuto qui, in Europa, nel cuore caldo di una cultura alta e unica generata da tutti, patrimonio di tutti, che all’improvviso si è spaccata mostrando una spietata e tranquilla lama di morte. Con essa una parte della cultura del mondo si è messa di buona lena a organizzare lo sterminio di un’altra parte di se stessa.
Il fremito di disorientamento, disagi e - diciamo pure - con il tipo di ansia che ha in se il seme nero dell’angoscia, scatta con questa domanda che non ti fai ad alta voce, non la formuli neppure ma ti porti dentro: se le radici del male non sono bestialità o sussulto disumano, ma accurato progetto disegnato «fra noi», dentro la nostra cultura comune, che cosa ci dice che guerra, sconfitta e chiusura dei due ripugnanti regimi - nazista e fascista - abbia estirpato la radice del male, e ripulito (garantito) il futuro? Più guardi queste foto più le vedi «normali», scattate da persone normali, buoni professionisti con un occhio attento anche ai piccoli cenni e gesti e modi quotidiani di vita, tanto che alcune immagini hanno un che di intimo e le persone fotografate mentre arrivano, ancora con i loro vestiti e i loro bambini, al binario della morte, erano certo vicini di vita e vicini di casa, di diploma, di scuola.
Ecco la domanda che pulsa sgradevole e contro ogni desiderio di guardare soltanto il passato.
Dove, come, quando, sono state tagliate le radici del male, se chi ha scattato le migliaia di immagini semplici, quotidiane, insopportabili dell’Album Auschwitz non era che un cittadino come noi, una persona al lavoro, medio- colta, con una buona coscienza civica e delle leggi, buona condotta, famiglia regolare, probabilmente amata, e quasi sempre una chiesa da frequentare?
C’è un punto di appoggio o di certezza che ci aiuti a uscire da questo incubo freddo, che non è l’attesa ossessiva di un ritorno ma una nuova spaccatura omicida, in un tempo che potrebbe essere questo o il prossimo tempo? C’è stato un confine-barriera, un confine-muro, e, se si, dove passa, in che modo ci protegge?
***
Le fotografie di Album Auschwitz sono state organizzate lungo un percorso che forse era lo stesso scrupolosamente seguito dalla efficiente burocrazia al lavoro. Al principio, se non fosse così evidente la presenza di militari armati (ma non speciali unità assassine, solo regolari soldati di un grande paese civile), se non fosse così sorprendente la presenza sui binari di vagoni bestiame e carri merce, le scene potrebbero essere quelle di una folla ordinata di uomini, donne, bambini nel corso di un trasferimento che è eccezionale solo per la quantità di persone, soprattutto famiglie.
Le persone sono intatte negli abiti, nei volti, nei gesti, nello stare accanto o nello scostarsi, più con incertezza che con paura. Certo, c’è qualcosa di strano, sui cappotti o le giacche degli uomini, o i vestiti delle signore o gli abiti dei bambini: la stella che - noi sappiamo - era gialla, ma in queste foto in bianco e nero è soltanto molto visibile. Si capisce che indossarla e mostrarla è già da tempo un fatto quotidiano.
Più avanti si nota che soldati e ufficiali devono avere un progetto, ma alcune immagini li ritraggono in conversazione con i viaggiatori. Improvvisamente, fra i gruppi di «viaggiatori» e le fila di militari, compare, di schiena, l’immagine incongrua, sul momento inspiegabile, di un uomo con la divisa a righe dei prigionieri. Da quel momento accade qualcosa che trasforma in una sorta di misteriosa emergenza che prima sembrava una strana, indecifrabile attesa. La folla viene messa in movimento. E se osserviamo bene le foto notiamo, dopo alcune immagini in cui tutto appare mischiato (soldati e civili, adulti e bambini, uomini e donne) ma nell’atto di seguire istruzioni, che le fotografie, sempre nitide, sempre scrupolosamente eseguite, ci mostrano solo uomini e ragazzi, solo donne e bambini, in gruppi separati. Intanto i volti si fanno segnati, gli abiti logori, le teste rasate, i bambini da soli. E poi, sempre attentamente osservate dagli obiettivi di fotografi bravi e professionali, le figure di uomini con le divise a righe, di donne con la camicia da prigioniere, di bambini con i loro fagotti. I fotografi non chiudono gli occhi, non hanno secondi pensieri, fanno il loro lavoro e basta. La testimonianza terribile di Album Auschwitz è questa.
I mandanti sono stati dichiarati dal mondo criminali, il loro regime di morte e di sterminio è stato rovesciato, i loro bunker espugnati, il mondo liberato.
Ci sono i nostalgici, ci sono i negazionisti, ci sono gli infatuati del «dimenticare per riprendere la strada insieme». Ci sono coloro che sono preoccupati di inondarci di storie e notizie su come, a volte, sono stati trattati male i pochi carnefici identificati.
Eppure non è in quella direzione che punta l’ansia. Negazionisti, nostalgici e rivisitatori del passato sono tenuti a bada da documenti come questi e dalla intelligenza del mondo.
L’ansia punta sugli scrupolosi fotografi, sugli operosi impiegati, sugli attivi esecutori di ordini nel calmo svolgimento di una non controversa osservanza di impegni, attenti a non crearsi problemi, attenti a non irritare il potere comunque si manifesti, sapendo che, nel compiacerlo senza irritanti domande, c’è sempre un premio.
I più sono ancora in giro. Sono un mondo intatto che serve con attenzione il bene o il male senza mettersi di traverso e non fanno caso al segno disturbante e provocatorio della stella gialla su tutti quegli esseri umani, vicini di casa, di lavoro, di vita. È un’ansia fastidiosa, ma è meglio tenerla viva. Ci aiuterà a distinguere il momento in cui non si può e non si deve tacere, proprio mentre tutti taceranno.

l’Unità 26.1.08
Nel Giorno della Memoria: da David Grossman a Firenze ai «giusti» di Fossa
Per ricordare l’Olocausto ed evitarne di nuovi
di Davide Vannucci


«Vedi alla voce amore». Così, nel 1988, David Grossman chiamò il proprio romanzo più intenso, quello in cui cercava di spiegare l’Olocausto alle giovani generazioni, attraverso gli occhi e le parole del piccolo Momik, figlio di deportati sopravvissuti all’orrore. Adesso Grossman non è solo un grande scrittore, ma una delle voci più ascoltate di Israele, uno che non fugge dalla realtà, la interpreta, cerca di modificarla. E la realtà di Israele, oggi, è fatta di un equilibrio fragile, perennemente in bilico tra la guerra e la pace.
Ecco perché nel giorno in cui l’Italia celebra la Giornata della Memoria, ricordando che cosa fu la Shoah, Grossman viene chiamato a parlare dell’orrore che fu e di quelli che bisogna evitare. L’Università di Firenze ha deciso di conferire al romanziere israeliano una laurea honoris causa, in Studi Letterari e Culturali Internazionali, e la cerimonia avverrà proprio domani, il 27 gennaio, quando, sessantré anni fa, l’Armata Rossa mise i sigilli sul campo di concentramento simbolo, quello di Auschwitz. Grossman terrà una lectio magistralis nell’Aula Magna dell’università e parteciperà a un dibattito il giorno successivo, al Mandela Forum. Forse parlerà del figlio Uri, morto nella guerra col Libano dell’estate 2006. Sicuramente cercherà di spiegare perché «lo sterminio è successo» e perché «può succedere di nuovo».
L’incontro di Firenze è solo una delle tante iniziative con cui l’Italia invita «a non dimenticare». A Roma, nel marzo 2006, è nata la Casa della Memoria, dove la storia cerca di essere maestra di vita per i contemporanei. A Trastevere domani si ricorderà Primo Levi, lo scrittore che in Italia seppe raccontare più di altri l’Olocausto e la sua capacità di calpestare la dignità umana. In programma film e documentari, tra i quali La strada di Levi, in cui Davide Ferrario e Marco Belpoliti ripercorrono il viaggio di ritorno compiuto da Levi nel 1945, seimila chilometri da Auschwitz fino alla natia Torino. A rendere omaggio allo scrittore piemontese ci sarà anche uno degli attori italiani più in voga del momento, Toni Servillo,che a Bari leggerà alcuni brani tratti da Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati.
Sempre a Roma, nelle stanze restaurate di Palazzo Barberini, si terrà una conferenza su «Anti-semitismo e negazione dell’Olocausto». A chiedersi se «il mondo ha imparato la lezione» o meno, saranno in tanti, un vero e proprio parterre de roi. Rappresentanti del governo dimissionario, da Romano Prodi a Giuliano Amato passando per Francesco Rutelli. Ma anche membri del centro destra, come il vicepresidente della Commissione Ue, Franco Frattini. O autorevoli esponenti dell’ebraismo, come il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna.
La giornata della Memoria si celebrerà in tutto il Paese, da Trento a Siracusa. A Milano si onoreranno le vittime dell’Olocausto con le musiche di Ernest Bloch, Max Bruch e Dimitri Shostakovich. A Genova le porte di Palazzo Ducale saranno aperte agli studenti vincitori del concorso «I giovani ricordano la Shoah». Le commemorazioni più imponenti avverranno nell’unico lager italiano, quello di Risiera di San Sabba, a Trieste, con la marcia silenziosa dei deportati sopravvissuti, le visite guidate per le scolaresche, i concerti.
A Siracusa sarà il giorno della «Testimonianza dei giusti». Interverrà, tra gli altri, Franco Perlasca, figlio di Giorgio, lo Schindler italiano che salvò oltre cinquemila ebrei ungheresi fingendosi un diplomatico spagnolo. Personaggio che ha ispirato una fiction televisiva di successo, interpretata da Luca Zingaretti.
In provincia de L’Aquila, invece, a Fossa, Ottaviano del Turco, presidente della Regione Abruzzo, e Marco Pannella prenderanno spunto dalla commemorazione dell’Olocausto per dibattere di diritti umani, e della loro continua violazione in gran parte del pianeta.
Si parlerà della moratoria sulla pena di morte votata a dicembre dall’assemblea generale dell’Onu, vecchio cavallo di battaglia dei radicali.
Se la moratoria si dovesse estendere a tutti gli Olocausti, e a tutti i diritti calpestati ogni giorno, ad ogni latitudine, allora sì che si tratterebbe di una vittoria epocale.

l’Unità 26.1.08
Vivere la memoria
di Moni Ovadia


Il giorno della Memoria ha preso a ripetersi con cadenza regolare, uscendo da quel tratto di eccezionalità che lo caratterizzava nei primissimi anni. E ora siamo tenuti a confrontarci con alcuni problemi: i testimoni diretti, per ragioni anagrafiche, ci lasceranno ben presto e questo comporterà un incremento dell’aspetto celebrativo e la celebrazione cela sempre un’insidia, quella di trasformarsi nel ricettacolo della falsa coscienza. Per il Giorno della Liberazione, festa del 25 aprile, una parte della classe politica italiana, all’ombra di quella celebrazione rituale e stinta, si è data con furore incontrastato alla demolizione della Resistenza Antifascista, alla riabilitazione dell’infame e criminale regime fascista e ha persino tentato di demolire la Costituzione Repubblicana. Il Giorno della Memoria non troverà mai il suo senso compiuto in Italia se non verranno stigmatizzati i terribili crimini del fascismo italiano, crimini compiuti in proprio: non solo le fascistissime leggi razziali, ma anche i genocidi compiuti contro i popoli africani e la pulizia etnica e i crimini, incluso l’uso dell’infoibamento compiuti contro le popolazioni slave. Solo quando la natura criminale e genocida del nostro fascismo verrà riconosciuta da tutta la classe politica italiana, allora anche le vittime italiane delle foibe e i profughi istriani con il loro calvario troveranno giustizia e pace. Un altro problema è l’enfasi che nel giorno della memoria viene posta sulla Shoa intesa come sterminio degli Ebrei, tenendo su un piano troppo defilato gli altri obiettivi di morte del nazifascismo a partire del popolo dei Rom e dei Sinti, anch’essi destinati allo sterminio per il solo fatto di esistere come gli Ebrei. Ora, lungi da me voler mettere in ombra lo specifico antisemita del nazifascismo, l’antisemitismo in associazione con l’antibolscevismo fu da sempre il primo punto nell’agenda del progetto criminale dei nazisti, ma la domanda che ci dobbiamo porre è il perché di tanta disponibilità nei confronti della memoria dello sterminio ebraico, mentre quello dei Rom e dei Sinti non sembra ricevere attenzione. Per varie ragioni strumentali e di facciata, oggi essere “carini” con gli Ebrei costa poco. Quando si tratta però di zingari, omosessuali, oppositori politici, Testimoni di Geova, disabili, slavi, la cosa cambia molto. In quest’epoca, l’alterità ebraica è poco perturbante rispetto ad alterità più scomode. Se non ci si concentra su questi temi, il “generoso” impegno di facciata verso la memoria dello sterminio degli Ebrei, finirà per diventare una scorza vuota al cui interno potranno prosperare revisionismi, negazionismi e atteggiamenti discriminatori abilmente contrabbandati, pronti a trasformarsi anche in brodo di cultura per il futuro antisemitismo.
L’altro tema cruciale, è la necessità urgente di collegare quella memoria con i genocidi, gli orrori dei nostri tempi e le guerre criminali odierne. Ma non basta. È mia ferma opinione che nulla apparenti il contesto israelo-palestinese con la Shoa e che proporre paragoni in tal senso sia sconcio e deteriore in particolare per la causa palestinese. Tuttavia, le immagini di migliaia di profughi di quel popolo che fanno brecce in uno dei muri voluti dagli israeliani per potere provvedere alla propria sopravvivenza, non possono non riverberarsi, piaccia o non piaccia, sia giusto o sia sbagliato, sul Giorno della Memoria visto che accadono mentre in tutto il mondo cresce il ritmo delle celebrazioni e degli eventi legati al 27 Gennaio.
Lo so e lo capisco, gli israeliani continuano a ricevere lo stillicidio dei missili quassam su Sderot, sui villaggi e le cittadine del confine con Gaza, ma quarant’anni di occupazione, di colonizzazione, lustri di repressione, di omicidi mirati, di ignobili punizioni collettive, non sono riusciti a impedire l’opzione armata di Hamas. È davvero venuta ora di cambiare strada e non posso pensare che un Paese avanzato, ricco di intelligenze come Israele, non possa trovare una via alternativa a quella che produce intollerabili vessazioni contro un altro popolo, solo e abbandonato. L’attuale prassi politico-militare, quali che ne siano le ragioni, corrompe progressivamente i migliori valori e sgretola i più temprati statuti etici.

l’Unità Firenze 26.1.08
Silenzio, parla la memoria
Tra le iniziative fiorentine, lunedì 5mila studenti si riuniranno al Mandela Forum


SARÀ un piccolo esercito di ragazzi, 5mila studenti provenienti da tutta la Toscana, a rappresentare il clou delle iniziative per il Giorno della Memoria 2008. Perché i numeri, la folla, hanno il loro valore se parliamo di uno sterminio di massa come la Shoah.
Convergeranno al Mandela Forum di Firenze, dalle 9.30 di lunedì, per una giornata dedicata alle voci di altri stermini del secolo scorso: il massacro del Rwanda, il genocidio armeno, Hiroshima. All’interno di Sterminio e stermini ci sarà anche il saluto in video del regista Steven Spielberg (il suo messaggio agli studenti toscani è disponibile sul Portale della Toscana e su YouTube da ieri) e una tavola rotonda con Roberto Faenza, Paolo e Vittorio Taviani, Carlo Lizzani ed Ettore Scola. Lo scrittore David Grossman - che domani riceverà nell’Aula Magna dell’Ateneo alle 11 la Laurea honoris causa - chiuderà l’iniziativa. Sempre nell’Aula Magna da lunedì a mercoledì si terrà in parallelo un convegno a cui parteciperanno studiosi ed esperti da tutto il mondo (info su www.onlineforum.it).
Ma la Shoà riporta anche alla musica, quella che tanti compositori ebrei amarono e crearono: il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dà appuntamento con i suoi strumentisti al Goldoni alle 21 di domani per il Concerto per la Giornata della Memoria (ingresso libero ad esaurimento posti), dedicato ai compositori ebrei italiani. Rimanendo negli appuntamenti di spettacolo, mentre alla 11.15 di oggi la Biblioteca delle Oblate ospiterà le letture a tema dell’Associazione Venti Lucenti, lunedì al Teatrino del Gallo presso la Libreria Libri Liberi di via San Gallo Tomas Simcha Jelinek mostrerà a i bambini La valigia (ore 17). Segue la presentazione del libro di Giulio Levi 1940-1945: Gioele, fuga per tornare. A San Salvi Chille de la balanza propongono domani una performance sul fumetto di Art Spiegelman contro l’olocausto Maus (ore 21, ingresso libero), alla Sala Esperia stasera alle 21 la compagnia Scarpette Rosse mette in scena La rosa spezzata (ingresso libero). Infine alla Pergola martedì e mercoledì Ottavia Piccolo dà voce al testo di Stefano Massini Processo a Dio (info allo 055/22641). Apre mercoledì alla Syracuse Univercity di via Della Robbia la mostra La persecuzione degli ebrei in Italia 1938 - 1945 (vernice alle 17.30), che documenta con foto, giornali, libri, carte geografiche e prospetti la Storia e le storie di quel periodo. Un’altra mostra, 1938. La scuola ebraica di Livorno, sarà allestita domani alla Comunità Ebraica di via Farini, che come la sinagoga e il cimitero ebraico sarà straordinariemente aperta (info 055/2346654).
Lunedì il sindaco Domenici apporrà un cippo commemorativo a ricordo degli ex internati nei lager in piazzale Caduti nel lager alla Fortezza da Basso (ore 15): ci saranno anche David Grossman e il presidente dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana Ivan Tognarini

l’Unità 26.1.08
«Caso Poggioli: la Einaudi non fu “stalinista”»
di Maria Serena Palieri


LA POLEMICA Nel 1949 usciva l’antologia di poesia russa dello slavista. Repubblica ricostruisce il clima in cui maturò e accusa l’editrice di subordinazione alla censura del Pci. Vero? Parla Gian Carlo Ferretti

C’è un pezzo di cultura europea dell’Ottocento e del Novecento, un pezzo che è un caposaldo, la poesia russa, cioè, tra Puskin e Pasternak, e tra queste due sponde Blok, Achmatova, Majakovskij, Esenin, Mandelstam, Cvetaeva, che a noi italiani è stato - non tutto, ma in gran parte - svelato, tardi, da un libro uscito per la prima volta nel 1949, l’antologia Il fiore del verso russo curata da Renato Poggioli e pubblicata nei Millenni Einaudi, approdata anche, dodici anni dopo, nei popolari Oscar Mondadori. Un’antologia che tuttora è un caposaldo, per chi si addentra tra Simbolismo e Acmeismo, Futurismo e Imagismo. Poggioli, docente a Harvard fino alla morte nel ’63, e lì celebrato, a fine 2007, nel centenario della nascita, avrebbe subìto in Italia invece una damnatio memoriae a causa della «pavida osservanza dei dettami stalinisti» anche «dell’editoria più prestigiosa», negli anni in cui usciva l’antologia. Così ha scritto Mario Pirani sulla Repubblica, in due poderosi servizi ispiratigli dalla lettura della corrispondenza dello slavista con Pavese, Giulio Einaudi, Vito Laterza, Paolo Milano, Montale, Isaiah Berlin fornitagli dalla figlia dello stesso, Sylvia Poggioli.
L’impressione che si ricava è che in quel ’49 l’editrice di via Biancamano fosse sotto il tallone di ferro di Botteghe Oscure, che un’antologia dove Poggioli elencava il «martirologio» di poeti vittime dell’età staliniana (ecco la macabra lista da lui stilata nell’introduzione: «Blok morto di crepacuore, Gumilev fucilato, Esenin e Majakovskij suicidi, Pasternak perseguitato, Anna Achmatova messa al bando, Mandelstam morto al confino») fosse un anomalo fuoco d’artificio liberale fiorito chissà come in casa Einaudi e spento con la sabbia di pavide abiure successive. In effetti l’antologia uscì all’epoca con un’avvertenza dell’editore che, con linguaggio contortissimo, prendeva le distanze da «qualche giudizio» di Poggioli «sulle più recenti vicende». Con gli occhi di oggi, un monstruum, quell’avvertenza. Ma è con occhi di oggi che possiamo leggere gli anni tremendi della guerra fredda? Qual era il rapporto, all’epoca, tra l’Einaudi e il Pci? E quanto di nuovo ci dice, ora, questo «caso Poggioli»? Lo chiediamo a Gian Carlo Ferretti, studioso dell’editoria italiana del secondo Novecento, firma ben nota ai nostri lettori.
«C’è stato uno spreco di “aggettivazioni staliniste” in queste accuse alla Einaudi» osserva Ferretti. «Va detto anzitutto che il caso Poggioli è già trattato ampiamente in Pensare i libri, la storia dell’Einaudi pubblicata da Luisa Mangoni, compreso il capitolo successivo, che riguarda il prosieguo della collaborazione di Renato Poggioli con la casa editrice. È un caso serio, grave, come anche altri, ma è difficilmente generalizzabile. Luisa Mangoni scrive: “Leggere isolatamente la vicenda del libro di Poggioli, come pure si è costretti a fare per ricostruirne i passaggi, non deve far perdere di vista l’intreccio complessivo di cui essa faceva parte, senza il quale si rischierebbe davvero di non capire”. E lei stessa delinea molto bene il quadro dei rapporti tra casa Einaudi e il Pci, demolendo la rilettura revisionista sul ruolo subalterno dell’editrice. Mangoni illumina un rapporto contrastato e tortuoso, con i richiami del Pci da una parte e le repliche dell’editore dall’altro. La progressiva prevalenza di redattori e consulenti comunisti, sugli azionisti, sui cattolici, sui liberaldemocratici, fino agli anni Cinquanta, e, dall’altro, la collaborazione di fatto tra il Pci e l’Einaudi, anche in termini di promozione e distribuzione, furono sostanzialmente coerenti con l’indirizzo culturale e la tradizione della Casa, la tradizione cioè che passava attraverso Gramsci, Dorso, Gobetti, e la funzione divulgativa e formativa della Piccola Biblioteca Scientifica e Letteraria. Ma furono, del resto, molto poche le edizioni di testi sovietici e di partito, e perfino di testi marxisti, nel quadro di una sostanziale e concordata divisione di ruoli tra partito e Casa editrice. Ed era una casa editrice poi, la Einaudi, come ricorda la stessa Mangoni su Repubblica, che aveva pubblicato il “controrivoluzionario Eliade” e il “reazionario Kerényi”, com’erano definiti all’epoca».
Ma il rapporto organico c’era. Se salta quando esce l’antologia di Poggioli e Togliatti blocca la pubblicazione, per Einaudi, delle sue opere, non autorizzata ma fin lì ammessa. In effetti la Casa che linea aveva?
«È sempre stata una editrice di laboratorio, di ricerca, di apertura alla cultura europea e mondiale, col “cervello collettivo” delle riunioni del mercoledì: Pavese e Mila, Bobbio e Vittorini, Calvino e Balbo... Già tra gli anni Quaranta e il ’56 andava pubblicando le biblioteche di saggistica, la Recherche proustiana, il surrealismo di Queneau, l’esistenzialismo di Sartre, i Gettoni di Vittorini (Calvino, Sciascia, Fenoglio, Ortese, Lalla Romano), Cristo si è fermato a Eboli, Praz e Soldati, e una Collana Viola assolutamente controcorrente, di studi psicologici, etnologici, antropologici, insomma, in quegli anni di guerra fredda, e in quel clima, una collana antistoricista!».
La censura è figlia della sola guerra fredda? Oppure è un’ombra connaturata all’industria editoriale?
«L’autocensura costella la storia dell’editoria. Nel ’55 Pasolini emenda Ragazzi di vita su richiesta del suo editore, Livio Garzanti. Nel ’65 per Mondadori esce Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg in una comica doppia versione: da un lato quella americana completa delle parolacce originarie, a fronte quella italiana, di Fernanda Pivano, con sole iniziali e puntini... Negli anni Sessanta, ultimi vagiti della guerra fredda, Il comunista di Guido Morselli viene bloccato in extremis, già in bozze, da Rizzoli, a causa del titolo».
Pirani imputa alla Einaudi di tener chiusi i propri archivi, insomma di «censurare», per gli studiosi, l’informazione sulla propria discussione interna, in primis i verbali dei famosi mercoledì. A parte quello che ha già scritto e precisato Ernesto Franco su «Repubblica», Ferretti ha esperienza di questa chiusura?
«Io no. Io ho consultato liberamente, per i miei lavori su Vittorini e sulla storia dell’editoria letteraria del secondo Novecento, carteggi e verbali. E posso citare l’esempio recentissimo di una giovane studiosa, Giulia Iannuzzi, che per una tesi su Giose Romanelli e il suo romanzo Tiro al piccione, storia di un “ragazzo di Salò”, oggetto di un travagliato dibattito tra Vittorini e Pavese, poi uscito non per Einaudi ma per Mondadori, un caso spinoso insomma, ha avuto uguale accesso a verbali e carteggi».
Già, ma su Poggioli continua una «damnatio memoriae» post-stalinista? Perchè non se n’è celebrato in Italia il centenario?
«Quanti centenari cadono nel silenzio? È un male che succede di continuo. Non dipende dall’ideologia, ma dalle correnti intellettuali, di gusto, di mercato...»
Uno slavista come Renato Poggioli è una figura troppo raffinata per il mercato d’oggi?
«Appunto».

l’Unità 26.1.08
Alcuni passi della recensione che «l’Unità» dedicò nel ’49 al testo che parlava di poeti «martiri» dopo la Rivoluzione
«Un’antologia poetica “arbitraria” e “capricciosa”»
di Francesco Jovine


A pagina 3 dell’«Unità» del 23 dicembre 1949 comparve questa recensione del libro di Renato Poggioli, a firma dell’autore delle «Terre del sacramento». Jovine, autore Einaudi ma anche firma del giornale, era stato pregato dalla «diplomazia» einaudiana, per voce di Natalia Ginzburg, di occuparsi del libro, attaccandolo - come sarebbe stato ovvio avvenisse, era la premessa - ma facendolo come lui poteva, «alla luce dell’intelligenza e dell’intendimento poetico».

Questo Fiore del verso russo di Renato Poggioli (Einaudi 1949) è nato sotto il segno della reticenza del dubbio. L’editore presentatolo al pubblico, in una breve nota introduttiva in cui loda (e come poteva non farlo?) «la finezza delle versioni», «il rigore dell’apparato critico» propone alcune domande finali a carattere polemico che suonano così: - È possibile trasformare la vita di un popolo lasciandone intatta la cultura precedente? La filosofia, la morale, l’arte sopportano aggettivi? - Le lodi e le domande, come è chiaro, sono un invito alla cautela: vogliono suggerire al lettore una esplorazione prudente del libro che tenga conto della velata allusione alla tendenziosità contessuta nella nota introduttiva.
Il Poggioli da parte sua, nella chiosa finale della raccolta afferma esplicitamente: «Una antologia è una impresa arbitraria e privata per definizione, e l’autore si sente in diritto di esimersi da ogni scusa riguardo alle limitazioni e ai capricci della scelta, che in gran parte è stata determinata dalle idiosincrasie del suo temperamento di traduttore».
Questa confessione (...) è preziosa per il lettore.
Una difesa non richiesta
(...) Sono una difesa pronunziata prima che il dibattimento abbia inizio. Il Poggioli è pienamente consapevole di non aver reso un servizio alla storia della poesia russa ma di averla piegata a finalità estranee al suo compito di critico e di interprete.
L’antologia porta nell’ultima pagina la sigla U.S., è datata dall’Università di Harvard ed è dedicata a un «anonimo compagno» Francesco. Il quale leggendola e considerandola eloquente necrologio della grande arte russa, dovrebbe ravvedersi, ripudiare le sue antiche credenze, ritornare alle deliziose fonti della libertà dell’arte per l’arte, della poesia pura, alla concezione della indefettibile dignità dell’individuo. Perché, badi il compagno Francesco e badino tutti i lettori la letteratura russa per il Poggioli, ha avuto la sua età dell’oro; il periodo d’argento, ed è entrata, ora, nell’età del bronzo. Precipiterà, inevitabilmente, in quella paleolitica e poi sarà la tenebra eterna. «La profezia hegeliana della morte dell’arte sembra realizzarsi proprio nel paese che si gloria di avere creato una nuova civiltà e iniziato una nuova storia».
Questa funebre citazione hegeliana del Poggioli è accompagnata dalla cronaca dolorosa delle morti fisiche dei poeti russi, da quello che egli chiama il martirologio della poesia sovietica (Blok, Esenin, Majakovskij, Gumilev) e delle persecuzioni toccate ad altri poeti (Pasternak, Achmatova). Tutta gente scomparsa o lagrimante in un tragico tramonto che avrebbe riportato un grande paese alle barbarie dei primordi.
Questa triste decadenza dello spirito russo è narrata per inciso con affermazioni variamente sparse nel testo. Ma le affermazioni che possono, a prima vista, apparire esclusive, sono, quasi sempre contraddette non appena formulate da un baluginare intermittente dell’intelligenza e dello spirito critico.
Ed ecco Pasternak presentato come il Boezio, l’altro spirito sopravvissuto di questa ricorsa barbarie, il testimone patetico e venerabile di una età sublime per sempre scomparsa. Eppure Pasternak, si afferma in altro luogo del libro «difende il primato della lirica e dell’arte in una letteratura “inquinata” da realismo più prosaico anche nella sfera del verso».
Il silenzio dei poeti
Ed ecco la perseguitata Anna Achmatova la quale aveva taciuto per venti anni «quasi ancora più di quella poesia, fossero passate di moda anime come la sua». Questa decadenza della moda Achmatova avrebbe trovato conferma nell’accoglienza fatta di recente «dalle autorità culturali del regime sovietico alla pubblicazione da parte della poetessa di un nuovo libro di versi». L’accoglienza comportava un giudizio che suonò come un divieto, dice il Poggioli. Ma la grave affermazione è implicitamente annullata poche righe dopo: «Quel giudizio fu del resto meno severo di quello significato dal silenzio della scrittrice, l’inaridirsi della sua ispirazione nel dolore e nella sciagura... e forse anche la coscienza critica d’un artista che sapeva di aver dato quanto poteva e di non aver più nulla da dire».
Ma se l’Achmatova «non aveva più nulla da dire» perché imputare le sue sciagure letterarie alle autorità sovietiche? Ogni poeta può essere vittima dell’inaridirsi progressivo o improvviso dell’ispirazione. Ma si tratta di fatto ordinario implicito alla indole stessa del singolare lavoro che il poeta compie. (...) Il poeta è legato alla sua avventura intima ed esteriore; gli avvenimenti, il gusto del pubblico, le nuove poetiche, possono sopravanzarlo e le sue opere possono essere catalogate, lui vivo, accanto alle opere dei morti. Questo è sempre accaduto e non sarebbe stata necessaria una rivoluzione come quella russa perché il poeta simbolista Blok e Sergio Esenin, che pure avevano scritto all’esordio del grande rivolgimento opere valide e durature, vedessero poi inaridirsi l’antica vena. Del resto il simbolismo, alla morte di Blok, era finito da un pezzo in tutta l’Europa e la rivoluzione russa non poteva essere ritenuta responsabile della sua fine. Le scuole poetiche muoiono come muoiono i poeti che le hanno create; a questa fatale vicenda non potevano sottrarsi i poeti della Russia moderna (...).

l’Unità lettere 26.1.08
Boldrini-Bulow: due cose che ricordo di lui

Di Arrigo Boldrini (Bulow), che ho ben conosciuto, vorrei ricordare almeno due cose. La prima: aveva un cruccio, quello di non essere riuscito ad arrivare sino a Trieste con le truppe alleate nelle quali i suoi partigiani della Brigata «Ravenna» erano stati incorporati prima della liberazione della loro città. Uno di loro, Guerrino Ravaioli di Classe, saputo che gli Alleati intendevano bombardare Sant’Apollinare in Classe il cui rotondo campanile veniva usato dai tedeschi quale osservatorio, si era offerto di andare in avanscoperta, lui solo, rischiando la pelle: era convinto che i nazi-fascisti avessero già lasciato la basilica. Aveva ragione lui, e a Ravenna vennero risparmiate altre gravissime ferite. I partigiani di Bulow parteciparono così, facendosi onore, all’avanzata dell’esercito liberatore oltre il Po, ma vennero fermati alle porte di Venezia. L’idea di Boldrini, poi decorato di medaglia d’oro, era invece quella di arrivare sino a Trieste e, lì giunto, di costituire una sorta di cordone difensivo nei confronti dei partigiani di Tito. Non gli venne concesso e successe quel che successe.
La seconda notazione: Arrigo Boldrini entrò con lealtà in numerose polemiche interne alla Resistenza. Per esempio, in quella sul ruolo esercitato dal grande pioniere socialista delle cooperative Nullo Baldini. Questi, rientrato dall’esilio, era stato nominato commissario della Federazione delle cooperative, già allora un gigante, dal governo Badoglio. Caduto tale governo, Baldini era rimasto commissario anche con la Repubblica di Salò attirandosi critiche durissime da compagni come Sandro Pertini. Il vecchio Baldini, giocandosi tutto, cercava di difendere - e vi riuscì - quel patrimonio cooperativo dalla dissoluzione. Anzi, da quel posto divenuto scomodissimo aiutò concretamente l’esercito partigiano di pianura di Bulow con frequenti e generose forniture di generi di prima necessità. «Senza quel rifornimenti non saremmo sopravvissuti. Nullo ci chiedeva però sempre una ricevuta», testimoniò anni dopo lealmente Arrigo Boldrini. «Per dopo», spiegava il grande vecchio. Che morì senza una lira, come Massarenti, altro pioniere socialista, in una corsia di ospedale, poco dopo la Liberazione. Povero e amatissimo.
Vittorio Emiliani

Combattiamo l’indifferenza: il giorno della Memoria deve durare tutto l’anno
Bisogna sempre mantenere viva la memoria sul passato. L’apertura dei cancelli di Auschwitz rivelò definitivamente al mondo l’orrore di un progetto folle, premeditato e pianificato che non deve essere dimenticato perché sia a tutti di monito. Questo il senso più profondo della Giornata della Memoria, importante per ricordare sia l’olocausto di milioni di ebrei, sia l’eliminazione di tutto ciò che veniva considerato “diverso”, omosessuali, Testimoni di Geova, portatori di handicap, discriminazioni alle quali purtroppo ancor oggi capita di assistere.
Le vittime dell’Olocausto credo non chiedano pietà; credo invece che chiedano l’allontanamento di quell’indifferenza che, purtroppo, permette a troppi giovani, ma non solo, di guardare a quelle orribili vicende con pericoloso distacco.
Per scongiurare il rischio che il sacrificio di tanti innocenti cada nell’indifferenza e nella dimenticanza, bisogna fare in modo che non si parli e si ricordi quelle terribili atrocità soltanto il 27 gennaio. Occorre tener quelle vicende ben ferme e salde nelle menti e nei cuori di ognuno, con iniziative concrete di informazione nelle scuole, nelle associazioni, con tutti i mezzi di informazione, perché “il valore della memoria” rimane un “elemento cruciale” per la “formazione delle nuove generazioni”.
La “strategia della memoria” è impegno rivolto al presente e al futuro per far in modo che le giovani generazioni odierne conoscano e ricordino per poi tramandare, domani, la memoria ai loro figli e nipoti. Poiché senza memoria non c’è futuro, il nostro impegno a mantenere viva la memoria rappresenta il miglior antidoto contro il rischio che si ripetano quelle tragedie che hanno segnato la storia dell’Europa. Facciamo tutti veramente qualcosa in più, per costruire una società più migliore, di giustizia sociale, di libertà, in cui ci sia la pace per tutti i cittadini del mondo.
Francesco Lena, Cenate Sopra Bergamo

Repubblica 26.1.08
"Da oggi diagnosi pre-impianto per me la legge 40 è finita"
La sfida di Antinori. Pressing delle associazioni sulla Turco
di Caterina Pasolini


La prima paziente è una donna di Latina. Negli altri centri per la fecondazione assistita si preferisce attendere la Consulta

ROMA - Ha perso due figli colpiti dalla fibrosi cistica, uccisi dalla malattia genetica in pochi anni, ma non ha rinunciato al sogno di un bambino sano, di un bambino che possa vivere. Sarà lei, una signora di Latina, la prima paziente sulla quale il professor Severino Antinori farà la diagnosi pre impianto dell´embrione dopo la sentenza del Tar Lazio che ha riaperto speranze e polemiche.
«Da oggi io comincio a lavorare. Me lo consente quel verdetto che ha accolto il mio ricorso annullando le linee guida della legge 40. Non ho dubbi, la signora la ricevo stamani. Certo, tra stimolazione ovarica e fecondazione ci vorranno un paio di mesi prima della diagnosi ma almeno finiranno i viaggi della speranza all´estero, centinaia di persone costrette ad andare altrove per avere un figlio». Solo lui, racconta, ne manda più di duecento all´anno in un centro associato in Turchia per la diagnosi prima dell´impianto.
Antinori parla con foga e irruenza che spiazzano i suoi stessi avvocati, pronto a diffidare ministri e regioni accusandoli di mancato controllo della qualità dei centri di assistenza alla riproduzione e perché molti esami non sono gratuiti. Non ha dubbi né remore uno dei pionieri della fecondazione. Più cauti altri suoi colleghi che a Torino, Bologna o Roma si occupano da anni di riproduzione assistita e hanno deciso di aspettare le decisioni della consulta in materia di costituzionalità prima di agire.
Sono giorni confusi, ma una linea è comune. Da politici, medici, associazioni di aspiranti genitori viene la richiesta ufficiale al ministro Livia Turco di pubblicare al più presto le nuove linee guida della legge. «Per fare chiarezza, perché la 40 è una norma che fa ancora troppo male alle donne e al nascituro, perché dalla possibilità di fecondazione sono escluse persone considerate erroneamente fertili. Ma come si fa a considerare fertile chi per malattie virali farebbe nascere un bimbo condannato a morire in poco tempo?», dice Monica Soldano di "Madre Provetta" che ha scritto con altre associazioni una lunga lettera al ministro.
E se le associazioni chiedono chiarezza, la vogliono soprattutto i centri per la procreazione assistita. «La situazione è ancora troppo precaria trattandosi di una sentenza del Tar» dice il professor Di Gregorio del centro Artes di Torino che ha deciso di aspettare anche perché, avendo fermato la ricerca per lungo tempo, ci vorrebbero grandi investimenti. In attesa anche l´European Hospital di Roma dove il professor Greco ha chiesto lumi agli avvocati prima di muoversi preferendo attendere le decisioni sul numero degli embrioni e in materia di costituzionalità della legge.
Chi continua a lavorare, ma solo con i prelievi dall´estero o per analisi del dna, è il Centro Genoma di Roma, all´avanguardia: «Abbiamo scoperto che per alcune malattie genetiche, come l´atrofia muscolare spinale, basta esaminare l´ovocita, e non l´embrione, e questo lo facciamo sempre più spesso», dice il professor Francesco Fiorentino.

Repubblica 26.1.08
Se torna l’antisemitismo in giacca e cravatta
di Angela Merkel


Ogni anno in una forma diversa, la commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo ci riporta vivo davanti agli occhi il volto del capitolo più buio della Storia tedesca, e ci ricorda le sue conseguenze: un´ondata di guerra, odio e violenza che si abbatté sull´Europa e sul mondo, l´annientamento a sangue freddo e sistematico dell´insieme della vita ebraica. Nelle mani di noi contemporanei resta lo sconvolgimento per quanto accadde, ma anche la responsabilità che ne deriva.

Anche a nome del governo tedesco, posso dire che ci assumiamo appieno questa responsabilità. E che naturalmente affrontiamo la questione aperta: come potremo, di generazione in generazione, essere all´altezza di questa responsabilità? Come potremo esserne all´altezza, quando i testimoni di allora non saranno più tra noi?
Trovare vie e forme giuste per questo compito è una responsabilità del tutto speciale anche per chi oggi ha responsabilità politiche. Ma al tempo stesso c´è una molteplicità di iniziative di persone, voci di tutta la società civile, che a fianco del mondo politico fanno proprio questo tema. E ciò è sempre molto, molto incoraggiante.
In questi giorni, ho premiato i giovani vincitori di un concorso, la cosiddetta "Azione macchie bianche": giovani di oggi che nelle loro patrie sono andati a ricercare le più piccole tracce, memoria, ricordi storici del rogo dei libri e dei campi di concentramento, ricordi che non sono al centro dell´attenzione e anzi sono quasi dimenticati. È incoraggiante.
C´è un miracolo, di cui noi tedeschi possiamo solo essere grati: la vita e la comunità ebraica sono tornate in Germania. Sono sorte tante nuove Sinagoghe. A Berlino penso alla Sinagoga della Rykestrasse. Vita e cultura ebraica da noi hanno assunto un volto del tutto nuovo attraverso gli ebrei venuti dalla Russia a vivere da noi. È un compito incredibile, enorme, per la comunità ebraica in Germania, un compito in cui noi abbiamo il dovere di portare aiuto, dovere legato alla comune responsabilità verso la società intera. Se guardiamo a quale lavoro d´integrazione dei nuovi arrivati viene affrontato dalla comunità ebraica tedesca, sappiamo che non possiamo in nessun caso lasciarla sola.
Nell´ora del ricordo, come oggi, nel momento in cui le Vergogne della Germania sono davanti ai nostri occhi, tanto più è spaventosamente inconcepibile che antisemitismo, xenofobia e razzismo esistano oggi nel nostro Paese e si mostrino presenti nella pratica. E non serve dire che ciò accade anche in altri paesi: occorre un regolamento dei conti con questa realtà.

Certo, è lecito dire che affrontiamo questa responsabilità. Credo che lo facciamo davvero. Combattiamo contro le violenze razziste e le ideologie dell´estrema destra con gli strumenti dello Stato di diritto. A volte discutiamo, e ci dividiamo, su quali strumenti di lotta siano i migliori, se vietare un partito sia possibile o no, se ciò rafforzi o no uno Stato di diritto. Ci sono programmi d´azione e informazione contro l´estremismo di destra, e abbiamo reagito alla violenza d´estrema destra aumentando gli aiuti finanziari a questi programmi.
Ma mentre ricordo questo, non voglio nascondere che facendo ciò non abbiamo ancora, minimamente, trovato la ricetta-panacea per affrontare queste sfide. Dobbiamo guardare in faccia una realtà. Cioè il fatto che di fronte alle paure provate verso la globalizzazione, o verso un presunto eccesso di apertura delle società democratiche, l´estremismo di destra e l´antisemitismo ritrovano una possibilità di farsi strada nelle menti di persone da cui piuttosto non ci si aspetterebbe che cadano vittima di queste tendenze.
Un modello di spiegazione di questo fenomeno è a volte - e bisogna seguirlo - quello che ci dice che naturalmente il pericolo di questa seduzione è specialmente grande quando le persone stesse che vi sono coinvolte vivono in una situazione sociale difficile.
Ciò nonostante, sottolineo che io chiedo sempre di non giustificare mai certe scelte evocando quelle difficoltà sociali. Eppure, ancora, è certo che le società che vengono percepite come giuste sono difese da anticorpi più forti contro simili sfide.
Insisto, tensioni e problemi sociali non sono mai una scusa per certe derive. Ma a volte io ho anche l´esperienza diretta del fatto che negli strati sociali e ceti più istruiti della popolazione si manifestano chiaramente crudi, duri modi di pensare, e un antisemitismo molto ben mascherato, che non è facilmente riconoscibile. Ma con questa forma di antisemitismo si torna sempre a tentare di definire fenomeni sociali di gruppo, e in base a quelle definizioni dei fenomeni sociali si può dichiarare l´emarginazione in un modo o nell´altro.

Una delle realtà più insostenibili è il fatto che in Germania non esiste nessuna istituzione o sede ebraica che possa vivere senza protezione della polizia. Nessun Kindergarten ebraico, nessuna scuola ebraica è priva di agenti schierati sul posto per proteggerla. Ciò non riguarda solo le Sinagoghe.
Quello che quasi mi preoccupa di più, è il fatto che anche in vasti strati della popolazione, malgrado tutta la formazione e l´istruzione sulla Storia, e malgrado tutto quanto è accaduto, regna una certa Sprachlosigkeit, una tendenza e voglia di silenzio, a proposito della nostra propria Storia. E dove c´è voglia di silenzio, c´è sempre anche il pericolo che non si parli di temi e problemi, che si taccia o si minimizza.
Per esempio: si può criticare Israele? Criticare Israele è antisemitismo? Alcuni si spingono persino fino a dire "la cosa migliore è non parlare più degli ebrei, così almeno non fai nulla di sbagliato".
Questo è il fenomeno con cui noi dobbiamo fare i conti nel modo più urgente nell´educazione politica. Dobbiamo incoraggiare la gente a parlare. Perché quel modo di pensare che spinge al silenzio, a non discutere più, può trasformarsi e rafforzarsi con il volto dell´antisemitismo e del razzismo.
Già vediamo diversi fenomeni di questo tipo: dagli episodi di violenza, fino alle forme davvero borghesi dell´antisemitismo. Per questa ragione questa conferenza internazionale sul problema qui a Berlino è così importante. Perché ci può aiutare nello scambio di idee e testimonianze, specialmente in Germania, ci può aiutare a riflettere su cosa si possa fare al meglio e su come al meglio si possa dare una testimonianza, senza cadere nelle accuse e nei sospetti di colpa reciproci.
Per questo auspico un dialogo franco e onesto, in cui nessuno nasconda qualcosa sotto il tappeto. Ho menzionato i problemi, ma non per dare un umore depressivo. Però mi auguro che riusciremo - e con la nostra società democratica abbiamo questa possibilità, se riusciremo ad avere un po´ più coraggio e a non schivare più i confronti - se riusciremo a rendere tabù e mettere al bando l´antisemitismo e la violenza e a chiarire bene tutto ciò anche alle giovani generazioni, con la nostra azione.

Repubblica 26.1.08
Jean Cayrol
Deportato a Mauthausen dove fu marchiato col triangolo rosso dei prigionieri politici, lo scrittore, che avrebbe coniato l'aggettivo "concentrazionario", raccontò l'esperienza inumana dell'internato che sopravvive e ritorna


Non c´è niente da spiegare. I campi di concentramento sono stati subiti in forme e maniere diverse dalle vittime. Alcuni sono morti, altri muoiono più lentamente, stroncati dal ritorno e invecchiano, così, in questa forma larvale del terrore, un terrore spento solo a metà. Molti sopravvivono e cercano di aprirsi una strada attraverso quel Campo Inafferrabile che, nuovamente, li circonda, li stordisce, li disorienta. Resta lo shock emotivo, più forte che mai, con tutti gli odori di quella miseria esasperata, che entrano fino negli angoli più nascosti della pace: il concentrazionario si sente più forte che mai. E tutti quelli che hanno conosciuto i campi solo per sentito dire ora cominciano ad avere i principali tic di questo universo. Se, oggi, si sposta col piede il corpo torturato che appare sotto il vomere di un aratro, se si sta zitti per lasciare a qualcuno l´opportunità di mostrarsi uomo, non è per questo meno vero che l´influenza, la sollecitudine concentrazionaria non smettono di accrescersi, e non solo nelle loro ininterrotte realizzazioni (si immaginano nuove carte geografiche in cui i regni dei morti vengono indicati a uso dei prossimi "esploratori" di queste terre desolate), ma anche nelle coscienze, in Europa come nel resto del mondo.
La letteratura, che finisce di vivere negli ultimi sussulti di un capitalismo intellettuale rovinato e che non ha mai abbastanza risorse per tutti i suoi scrittori ignorati o rivelati che siano, non può forse conoscerne anch´essa gli effetti più edificanti, rinnovarsi attraverso questa intima filiazione, con questo fermento demoniaco, e in qualche modo tracciare il profilo di un romanzesco concentrazionario, creando così i personaggi di una nuova commedia inumana, ossia, per riprendere una parola oggi molto di moda, un realismo concentrazionario in ogni scena della nostra vita privata?
Devo immediatamente confessare una certa diffidenza, un certo disagio e malessere davanti a tale ricerca spirituale, nella quale le istanze della psicologia tradizionale finirebbero per svanire nel nulla. Ma non è possibile passare sotto silenzio l´ascendente che sulle nostre anime sembra ancora possedere il campo di concentramento, il potere ammaliante nel quale esso imprigiona numerose nazioni. Il nostro futuro, quello più prossimo, può avvertirne le prime manifestazioni e fare rinascere le sue strane coorti. Non c´è un mito concentrazionario, c´è un quotidiano concentrazionario.
Mi sembra giunto il tempo di testimoniare su questi strani impulsi del concentrationnat, sui suoi timidi ingressi nel mondo in cui viviamo, nato dalla grande paura. Noi ne portiamo le stimmate.
In questo modo, non è assurdo prendere in considerazione un´arte nata direttamente da tale convulsione umana, da una catastrofe che ha scosso i fondamenti stessi della nostra coscienza, un´arte che sarebbe poco propizia al ricatto esercitato da qualsiasi tipo di moda letteraria, un´arte che, con i suoi processi e le sue creazioni, potrebbe assumere il nome di lazzariana. Esiste già, è in fase di formazione nella storia della nostra letteratura (e sarebbe facile individuare un aspetto diurno e un aspetto notturno del suo sviluppo).
Questa arte dalla natura tanto eccezionale e spiazzante, dove l´inverosimile e il naturale potrebbero confondersi, non è, in fondo, nel suo parossismo, che uno dei tanti aspetti ordinari che, a nostra insaputa, in queste nuove opere, potrebbe prendere l´arte in genere, tanto in letteratura quanto in pittura o in musica. È possibile prevedere - e già l´abbiamo rilevato in certi giovani pittori - una certa corrente concentrazionaria o lazzariana nell´ispirazione di numerose opere presentate nelle esposizioni (continua ripetizione delle medesime formule, stato ipnotico delle forme e dei volumi, tensione del colore, mondo panico degli oggetti, e via discorrendo). Il tratto rifiuta di piegarsi alle esigenze della ferita, di assumerne la sinuosità o il tremito. Picasso è per eccellenza il pittore che avrebbe potuto piazzare il suo cavalletto nell´appelplatz, nello spazio riservato all´appello nel campo di Mauthausen o Buchenwald. Attraversiamo un periodo subdolo della pittura contemporanea in cui tutto può accadere, degenerarsi, alterarsi senza che il pittore sappia quale mano guida il pennello, quale sguardo spaventato coglie la sua visione senza riscatto.
In letteratura, la suggestione è più discreta, più misurata. Lo scrittore crede ancora ai dogmi stendhaliani o balzachiani. Sa bene che cosa troverà dietro le porte, anche dietro quelle più chiuse. Si trova a suo agio nella finzione romanzesca, malgrado ci siano alcuni che si inquietano, per il fatto che non trovano più nomi scritti sulle porte e procedono, ma con le armi in pugno. Oggigiorno, aspettiamo degli scrittori che siano anche conquistatori, che non abbiano vergogna di scavalcare i cadaveri o le carogne in putrefazione e per loro, ne sono certo, la porta si aprirà sul grande regno di Dio. Più che mai abbiamo bisogno di scrittori di salute pubblica, di coloro che non hanno paura di sporcarsi le dita, di scendere nell´animo, anche in quello più traviato e corrotto: l´illustre dimora dell´uomo.
Finora, sui campi non abbiamo letto altro che testimonianze patetiche, certo, ma che mostravano soltanto un aspetto, il più spettacolare, il più degno di fede, il più orribile, ma questo è valso solamente fino alla Liberazione; in seguito non sapevamo quale maschera avrebbe indossato. Soltanto i libri di Antelme o di Rousset si salvavano. Hanno tracciato la fisionomia generale dei campi tedeschi che entrano già nella preistoria concentrazionaria.
Molti credono si sia giunti nel periodo dei musei e delle associazioni: ci si rimprovera di pensarci, si diffida dei ricordi. Pertanto, lasciamo che i nostri più frivoli divertimenti si bagnino nella luce concentrazionaria. Un amico, a ragione, me lo faceva notare in uno di quei locali notturni del VI arrondissement, in preda al delirio di ballo che ricordava quello che accompagnava l´iniziazione dei giovani in qualche tribù australiana, o certi divertimenti dei campi (penso a quel moribondo che facevano ballare come un burattino, all´alba, in un gruppo di zingari). Quell´abbandono nell´impeto, quella speditezza della danza, quel culto forsennato del nonessere, quella mancanza di presa sul reale, quella infinita ripetizione delle figure della coreografia, il rifiuto del tempo, e via discorrendo, sono tutti segni premonitori di tempi nuovi messi alla portata di tutti gli entusiasmi della giovinezza. Non mancava altri che l´angelo in quella riunione estenuata ma frenetica, l´angelo ilare di quella comunità senza amore che, seguendo il verso di Shakespeare, non è «né signore, né proprietario delle sue smorfie».
Eppure, chi ha mai potuto pensare ai campi, anche per un solo istante, come a qualcosa di inalterabile malgrado il tempo, le stagioni, la speranza? Chi vuole ancora sentire il rumore della miseria umana? Anche coloro che ne sono stati colpiti si trovano nell´indefinibile condizione del malato quando si ignorano nome della malattia e metodi per guarirla. Coabitano con la loro malattia, le loro crisi, a tutto svantaggio della vita e degli "anni perduti", dal giorno del ritorno, impermeabili alle ragioni essenziali dell´esistere.
Viene da là questo silenzio carico di pudore che si scopre in ogni deportato, questa incapacità di pensare la propria esperienza, questo sentimento di un tempo a sua volta deportato, questo stordimento muto quando si parla loro, e molti si lasciano pervadere dalla straordinaria sonnolenza lazzariana, la stessa inerzia che si ritrova nel magistrale libro di Albert Cossery, Les fainéants dans la vallée fertile, ossia il mondo del torpore che, nel corso di una notte, ricordatelo, aveva colto persino gli Apostoli.
E se i deportati si ritrovano, è in un universo stravolto, in una comunità snaturata nel centro della quale ciascuno dei suoi membri dà adito a tanti di quegli equivoci che non si può certo fondare una confraternita dei Sette Dolori, un´associazione della Croce fuori da quella della Chiesa. Non è possibile riunirsi per scambiarsi le proprie ferite come francobolli. I ricordi sono intrasmissibili. Davanti a questa vita ai margini che aspetta i deportati, non ci si deve chiedere se non ci sia, parimenti, una particolare maniera di scrivere, di sentire, di approssimarsi alle cose? C´è uno stile, un romanzesco concentrazionario al di là, al di fuori delle vittime che non hanno più nulla da esprimere, un romanzesco nel quale tutti gli avvenimenti, anche quelli più familiari, restano per noi incomprensibili, riprovevoli, rivoltanti, irritanti e così poco rivelatori per il non iniziato, per il lettore che rifiuta di avventurarsi nel gioco infernale di questo sgretolamento dell´internato (concentrationnat) e, a qualsiasi costo, frantuma lo specchio del suo male al fine di rifugiarsi in una beata indignazione e nella pace svenevole della sua anima?
Ci sembra si possano già enunciare alcuni principi di arte lazzariana o concentrazionaria e credo che rilevarli, svelarne tutti i segni, di paura di contagio, gettare tutte le maschere è di primaria necessità. Non dobbiamo lasciare nulla nell´ombra, le tenebre sono arrivate tanto rapidamente.
In effetti, questa arte misteriosa, sottile, ancora furtiva può diventare, se continuiamo a frequentare i carnai di ogni specie, gli uomini che vengono ammazzati in Cina sulle pubbliche piazze e sotto l´occhio indifferente delle cineprese, l´unica arte inseparabile dalla nostra precaria condizione di uomini, un´arte che già, forse, ha trovato il suo primo indagatore e il suo primo storico nell´inquieto Albert Camus.
Potremmo fare una cronistoria della questione. A riprova, non prenderò altro che questo racconto lazzariano, apparso nel XVIII secolo grazie alla penna dell´abate Prévost, che ha per titolo Aventures intéressantes des mines de Suède. Eccone la presentazione. Indicativamente, la cito per un certo esempio:
Tutti hanno sentito parlare delle rinomate miniere di Svezia, nelle quali si dice vi siano villaggi simili a quelli che si trovano in superficie, composti da un gran numero di famiglie, che hanno i loro capi, i loro ministri, i loro giudici, le loro case, i loro mercati, i loro negozi, le loro chiese. Non manca nulla nemmeno di tutto ciò che forma le società più civilizzate e pacifiche. In verità, coloro che li compongono sono per la maggior parte briganti che il lavoro forzato rende utili al mondo, dopo essere stati banditi a causa dei loro crimini. Ma siccome in miniera non si rifiuta un posto a chi lo chiede spontaneamente, vi si trovano anche un gran numero di persone oneste che miseria e povertà hanno ridotto alla necessità di scendere laggiù... Trovandosi in Svezia, un viaggiatore inglese impiegato nella ricerca dei fossili decise di andare a vedere quei villaggi sotterranei con i propri occhi... Con l´aiuto di una macchina scese nella miniera più conosciuta. Come si aspettava, trovò numerosi assembramenti dell´uno e dell´altro sesso, ma in uno stato meno florido e prospero di quanto si figurasse. Ovunque gli si presentava l´immagine della miseria più spaventosa e nera. Gli abiti, i buchi ai quali si sentiva dare il nome di casa, il cibo, tutto, tutto dava l´idea dell´orrore di una prigione orrenda. Anche la tristezza e il pallore erano dipinti su tutti i volti.
Questo testo davvero impressionante potrebbe far parte di una antologia dell´esperienza concentrazionaria, accanto a certi frammenti degli antichi. Penso soprattutto a Falaride, tiranno di Sicilia, ideatore di un toro di bronzo nel quale rinchiudeva gli uomini per poi dar loro fuoco. Le grida degli sventurati, uscendo dalla bocca del toro, dovevano imitarne i gemiti. Ecco la prima immagine simbolica dei crematori.
Nel racconto di Prévost, si scoprono già alcune raffinatezze lazzariane: sottile mescolanza di criminali e gente per bene, comunità di sottouomini, indescrivibile miseria, inconsapevolezza e letargia delle vittime.

© 1950 by Éditions du Seuil per Lazare parmi nous © 1988 e 1995 by Éditions du Seuil per Poèmes de la nuit et du brouillard suivis de Larmes publiques © 2008 by Edizioni Medusa

Repubblica 26.1.08
L’Istituto Opere Religiose è la banca del Vaticano. In deposito 5 miliardi di euro Ai correntisti offre rendimenti record, impermeabilità ai controlli. E segretezza totale
Scandali, affari e misteri tutti i segreti dello Ior
di Curzio Maltese


Nessuna targa. Solo una porticina discreta e all´interno un unico bancomat
Dal crac ambrosiano a calciopoli, le ombre italiane passano da qui
Il pentito Mannoia "Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione"
Paul Marcinkus, figlio di un lavavetri lituano, Avana tra le labbra e bionde segretarie

La chiesa cattolica è l´unica religione a disporre di una dottrina sociale, fondata sulla lotta alla povertà e la demonizzazione del danaro, «sterco del diavolo». Vangelo secondo Matteo: «E´ più facile che un cammello passi nella cruna dell´ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Ma è anche l´unica religione ad avere una propria banca per maneggiare affari e investimenti, l´Istituto Opere Religiose. La sede dello Ior è uno scrigno di pietra all´interno delle mura vaticane. Una suggestiva torre del Quattrocento, fatta costruire da Niccolò V, con mura spesse nove metri alla base. Si entra attraverso una porta discreta, senza una scritta, una sigla o un simbolo. Soltanto il presidio delle guardie svizzere notte e giorno ne segnala l´importanza. All´interno si trovano una grande sala di computer, un solo sportello e un unico bancomat. Attraverso questa cruna dell´ago passano immense e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. La banca vaticana offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia «qualcuno ha avuto problemi con la giustizia», rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più riservato delle banche svizzere, l´istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto d´assegni con la sigla Ior non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici, in contanti o in lingotti d´oro. Nessuna traccia.
Da vent´anni, quando si chiuse il processo per lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo Ior è un buco nero in cui nessuno osa guardare. Per uscire dal crac che aveva rovinato decine di migliaia di famiglie, la banca vaticana versò 250 milioni di dollari ai liquidatori. Meno di un quarto rispetto ai 1.159 milioni di dollari dovuti secondo l´allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Lo scandalo fu accompagnato da infinite leggende e da una scia di cadaveri eccellenti. Michele Sindona avvelenato nel carcere di Voghera, Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, il giudice istruttore Emilio Alessandrini ucciso dai colpi di Prima Linea, l´avvocato Giorgio Ambrosoli freddato da un killer della mafia venuto dall´America al portone di casa.
Senza contare il mistero più inquietante, la morte di papa Luciani, dopo soli 33 giorni di pontificato, alla vigilia della decisione di rimuovere Paul Marcinkus e i vertici dello Ior. Sull´improvvisa fine di Giovanni Paolo I si sono alimentate macabre dicerie, aiutate dalla reticenza vaticana. Non vi sarà autopsia per accertare il presunto e fulminante infarto e non sarà mai trovato il taccuino con gli appunti sullo Ior che secondo molti testimoni il papa portò a letto l´ultima notte.
Era lo Ior di Paul Marcinkus, il figlio di un lavavetri lituano, nato a Cicero (Chicago) a due strade dal quartier generale di Al Capone, protagonista di una delle più clamorose quanto inspiegabili carriere nella storia recente della chiesa. Alto e atletico, buon giocatore di baseball e golf, era stato l´uomo che aveva salvato Paolo VI dall´attentato nelle Filippine. Ma forse non basta a spiegare la simpatia di un intellettuale come Montini, autore della più avanzata enciclica della storia, la Populorum Progressio, per questo prete americano perennemente atteggiato da avventuriero di Wall Street, con le mazze da golf nella fuoriserie, l´Avana incollato alle labbra, le stupende segreterie bionde e gli amici di poker della P2.
Con il successore di papa Luciani, Marcinkus trova subito un´intesa. A Karol Wojtyla piace molto quel figlio di immigrati dell´Est che parla bene il polacco, odia i comunisti e sembra così sensibile alle lotte di Solidarnosc. Quando i magistrati di Milano spiccano mandato d´arresto nei confronti di Marcinkus, il Vaticano si chiude come una roccaforte per proteggerlo, rifiuta ogni collaborazione con la giustizia italiana, sbandiera i passaporti esteri e l´extraterritorialità. Ci vorranno altri dieci anni a Woytjla per decidersi a rimuovere uno dei principali responsabili del crac Ambrosiano dalla presidenza dello Ior. Ma senza mai spendere una parola di condanna e neppure di velata critica: Marcinkus era e rimane per le gerarchie cattoliche «una vittima», anzi «un´ingenua vittima».
Dal 1989, con l´arrivo alla presidenza di Angelo Caloia, un galantuomo della finanza bianca, amico e collaboratore di Gianni Bazoli, molte cose dentro lo Ior cambiano. Altre no. Il ruolo di bonificatore dello Ior affidato al laico Caloia è molto vantato dalle gerarchie vaticane all´esterno quanto ostacolato all´interno, soprattutto nei primi anni. Come confida lo stesso Caloia al suo diarista, il giornalista cattolico Giancarlo Galli, autore di un libro fondamentale ma introvabile, Finanza bianca (Mondadori, 2003). «Il vero dominus dello Ior - scrive Galli - rimaneva monsignor Donato De Bonis, in rapporti con tutta la Roma che contava, politica e mondana. Francesco Cossiga lo chiamava Donatino, Giulio Andreotti lo teneva in massima considerazione. E poi aristocratici, finanzieri, artisti come Sofia Loren. Questo spiegherebbe perché fra i conti si trovassero anche quelli di personaggi che poi dovevano confrontarsi con la giustizia. Bastava un cenno del monsignore per aprire un conto segreto». A volte monsignor De Bonis accompagnava di persona i correntisti con i contanti o l´oro nel caveau, attraverso una scala, in cima alla torre, «più vicino al cielo». I contrasti fra il presidente Caloia e De Bonis, in teoria sottoposto, saranno frequenti e duri. Commenta Giancarlo Galli: «Un´aurea legge manageriale vuole che, in caso di conflitto fra un superiore e un inferiore, sia quest´ultimo a soccombere. Ma essendo lo Ior istituzione particolarissima, quando un laico entra in rotta di collisione con una tonaca non è più questione di gradi».
La glasnost finanziaria di Caloia procede in ogni caso a ritmi serrati, ma non impedisce che l´ombra dello Ior venga evocata in quasi tutti gli scandali degli ultimi vent´anni. Da Tangentopoli alle stragi del ‘93 alla scalata dei «furbetti» e perfino a Calciopoli. Ma come appare, così l´ombra si dilegua. Nessuno sa o vuole guardare oltre le mura impenetrabili della banca vaticana.
L´autunno del 1993 è la stagione più crudele di Tangentopoli. Subito dopo i suicidi veri o presunti di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mattina del 4 ottobre arriva al presidente dello Ior una telefonata del procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli: «Caro professore, ci sono dei problemi, riguardanti lo Ior, i contatti con Enimont...». Il fatto è che una parte considerevole della «madre di tutte le tangenti», per la precisione 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, è transitata dallo Ior. Sul conto di un vecchio cliente, Luigi Bisignani, piduista, giornalista, collaboratore del gruppo Ferruzzi e faccendiere in proprio, in seguito condannato a 3 anni e 4 mesi per lo scandalo Enimont e di recente rispuntato nell´inchiesta "Why Not" di Luigi De Magistris. Dopo la telefonata di Borrelli, il presidente Caloia si precipita a consulto in Vaticano da monsignor Renato Dardozzi, fiduciario del segretario di Stato Agostino Casaroli. «Monsignor Dardozzi - racconterà a Galli lo stesso Caloia - col suo fiorito linguaggio disse che ero nella merda e, per farmelo capire, ordinò una brandina da sistemare in Vaticano. Mi opposi, rispondendogli che avrei continuato ad alloggiare all´Hassler. Tuttavia accettai il suggerimento di consultare d´urgenza dei luminari di diritto. Una risposta a Borrelli bisognava pur darla!». La risposta sarà di poche ma definitive righe: «Ogni eventuale testimonianza è sottoposta a una richiesta di rogatoria internazionale». I magistrati del pool valutano l´ipotesi della rogatoria. Lo Ior non ha sportelli in terra italiana, non emette assegni e, in quanto «ente fondante della Città del Vaticano», è protetto dal Concordato: qualsiasi richiesta deve partire dal ministero degli Esteri. Le probabilità di ottenere la rogatoria in queste condizioni sono lo zero virgola. In compenso l´effetto di una richiesta da parte dei giudici milanesi sarebbe devastante sull´opinione pubblica. Il pool si ritira in buon ordine e si accontenta della spiegazione ufficiale: «Lo Ior non poteva conoscere la destinazione del danaro».
Il secondo episodio, ancora più cupo, risale alla metà degli anni Novanta, durante il processo per mafia a Marcello Dell´Utri. In video conferenza dagli Stati Uniti il pentito Francesco Marino Mannoia rivela che «Licio Gelli investiva i danari dei corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano». «Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione». Fin qui Mannoia fornisce informazioni di prima mano. Da capo delle raffinerie di eroina di tutta la Sicilia occidentale, principale fonte di profitto delle cosche. Non può non sapere dove finiscono i capitali mafiosi. Quindi va oltre, con un´ipotesi. «Quando il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) venne in Sicilia e scomunicò i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due bombe davanti a due chiese di Roma». Mannoia non è uno qualsiasi. E´ secondo Giovanni Falcone «il più attendibile dei collaboratori di giustizia», per alcuni versi più prezioso dello stesso Buscetta. Ogni sua affermazione ha trovato riscontri oggettivi. Soltanto su una non si è proceduto ad accertare i fatti, quella sullo Ior. I magistrati del caso Dell´Utri non indagano sulla pista Ior perché non riguarda Dell´Utri e il gruppo Berlusconi, ma passano le carte ai colleghi del processo Andreotti. Scarpinato e gli altri sono a conoscenza del precedente di Borrelli e non firmano la richiesta di rogatoria. Al palazzo di giustizia di Palermo qualcuno in alto osserva: «Non ci siamo fatti abbastanza nemici per metterci contro anche il Vaticano?».
Sulle trame dello Ior cala un altro sipario di dieci anni, fino alla scalata dei "furbetti del quartierino". Il 10 luglio dell´anno scorso il capo dei "furbetti", Giampiero Fiorani, racconta in carcere ai magistrati: «Alla Bsi svizzera ci sono tre conti della Santa Sede che saranno, non esagero, due o tre miliardi di euro». Al pm milanese Francesco Greco, Fiorani fa l´elenco dei versamenti in nero fatti alle casse vaticane: «I primi soldi neri li ho dati al cardinale Castillo Lara (presidente dell´Apsa, l´amministrazione del patrimonio immobiliare della chiesa, ndr), quando ho comprato la Cassa Lombarda. M´ha chiesto trenta miliardi di lire, possibilmente su un conto estero». Altri seguiranno, molti a giudicare dalle lamentele dello stesso Fiorani nell´incontro con il cardinale Giovanni Battista Re, potente prefetto della congregazione dei vescovi e braccio destro di Ruini: «Uno che vi ha sempre dato i soldi, come io ve li ho sempre dati in contanti, e andava tutto bene, ma poi quando è in disgrazia non fate neanche una telefonata a sua moglie per sapere se sta bene o male».
Il Vaticano molla presto Fiorani, ma in compenso difende Antonio Fazio fino al giorno prima delle dimissioni, quando ormai lo hanno abbandonato tutti. Avvenire e Osservatore Romano ripetono fino all´ultimo giorno di Fazio in Bankitalia la teoria del «complotto politico» contro il governatore. Del resto, la carriera di questo strano banchiere che alle riunioni dei governatori centrali non ha mai citato una volta Keynes ma almeno un centinaio di volte le encicliche, si spiega in buona parte con l´appoggio vaticano. In prima persona di Camillo Ruini, presidente della Cei, e poi di Giovanni Battista Re, amico intimo di Fazio, tanto da aver celebrato nel 2003 la messa per il venticinquesimo anniversario di matrimonio dell´ex governatore con Maria Cristina Rosati. Naturalmente neppure i racconti di Fiorani aprono lo scrigno dei segreti dello Ior e dell´Apsa, i cui rapporti con le banche svizzere e i paradisi fiscali in giro per il mondo sono quantomeno singolari. E´ difficile per esempio spiegare con esigenze pastorali la decisione del Vaticano di scorporare le Isole Cayman dalla naturale diocesi giamaicana di Kingston, per proclamarle "missio sui iuris" alle dirette dipendenze della Santa Sede e affidarle al cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio dello Ior.
Il quarto e ultimo episodio di coinvolgimento dello Ior negli scandali italiani è quasi comico rispetto ai precedenti e riguarda Calciopoli. Secondo i magistrati romani Palamara e Palaia, i fondi neri della Gea, la società di mediazione presieduta dal figlio di Moggi, sarebbero custoditi nella banca vaticana. Attraverso i buoni uffici di un altro dei banchieri di fiducia della Santa Sede dalla fedina penale non immacolata, Cesare Geronzi, padre dell´azionista di maggioranza della Gea. Nel caveau dello Ior sarebbe custodito anche il "tesoretto" personale di Luciano Moggi, stimato in 150 milioni di euro. Al solito, rogatorie e verifiche sono impossibili. Ma è certo che Moggi gode di grande considerazione in Vaticano. Difeso dalla stampa cattolica sempre, accolto nei pellegrinaggi a Lourdes dalla corte di Ruini, Moggi è da poco diventato titolare di una rubrica di "etica e sport" su Petrus, il quotidiano on-line vicino a papa Benedetto XVI, da dove l´ex dirigente juventino rinviato a giudizio ha subito cominciato a scagliare le prime pietre contro la corruzione (altrui).
Con l´immagine di Luciano Moggi maestro di morale cattolica si chiude l´ultima puntata dell´inchiesta sui soldi della Chiesa. I segreti dello Ior rimarranno custoditi forse per sempre nella torre-scrigno. L´epoca Marcinkus è archiviata ma l´opacità che circonda la banca della Santa Sede è ben lontana dallo sciogliersi in acque trasparenti. Si sa soltanto che le casse e il caveau dello Ior non sono mai state tanto pingui e i depositi continuano ad affluire, incoraggiati da interessi del 12 per cento annuo e perfino superiori. Fornire cifre precise è, come detto, impossibile. Le poche accertate sono queste. Con oltre 407 mila dollari di prodotto interno lordo pro capite, la Città del Vaticano è di gran lunga lo «stato più ricco del mondo», come si leggeva nella bella inchiesta di Marina Marinetti su Panorama Economy. Secondo le stime della Fed del 2002, frutto dell´unica inchiesta di un´autorità internazionale sulla finanza vaticana e riferita soltanto agli interessi su suolo americano, la chiesa cattolica possedeva negli Stati Uniti 298 milioni di dollari in titoli, 195 milioni in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine, più joint venture con partner Usa per 273 milioni.
Nessuna autorità italiana ha mai avviato un´inchiesta per stabilire il peso economico del Vaticano nel paese che lo ospita. Un potere enorme, diretto e indiretto. Negli ultimi decenni il mondo cattolico ha espugnato la roccaforte tradizionale delle minoranze laiche e liberali italiane, la finanza. Dal tramonto di Enrico Cuccia, il vecchio azionista gran nemico di Sindona, di Calvi e dello Ior, la «finanza bianca» ha conquistato posizioni su posizioni. La definizione è certo generica e comprende personaggi assai distanti tra loro. Ma tutti in relazione stretta con le gerarchie ecclesiastiche, con le associazioni cattoliche e con la prelatura dell´Opus Dei. In un´Italia dove la politica conta ormai meno della finanza, la chiesa cattolica ha più potere e influenza sulle banche di quanta ne avesse ai tempi della Democrazia Cristiana.

Repubblica 26.1.08
Neuroestetica. Se l'amore diventa una scienza: caccia alla formula dell’attrazione
di Elena Dusi


Un’organizzazione non profit britannica ha offerto a un laboratorio di Londra un milione di pound l´obiettivo è misurare con esattezza bellezza e sex appeal. Ecco le frontiere della neuro-estetica
Nella scelta del partner gli impulsi decisivi arrivano dall´olfatto e sono trasmessi al cervello a livello subliminale

George Harrison se lo chiedeva. Cos´è quel "qualcosa" che "attrae me come nessun altro" cantava in Something. Il punto interrogativo non è rimasto a lungo in sospeso e sotto forma non di musica, ma di letteratura scientifica, fioccano oggi le risposte. Ormoni, feromoni, rimescolamento genetico. Ingredienti ostici per assemblare buone rime, ma utili a studiare la chimica del colpo di fulmine.
Per scoprire la formula dell´amore, il Wellcome Trust britannico ha offerto un premio di un milione di sterline, e gli 1,3 miliardi di euro sono andati al laboratorio di neuroestetica dell´University College di Londra diretto da Samir Zeki. I fondi saranno spesi per studiare i meccanismi cerebrali che ci fanno giudicare "bello" un quadro o "sexy" un individuo dell´altro sesso. E si aggiungono alla mole di dati che gli scienziati hanno già ricavato scavando nel sistema endocrino o nell´olfatto di uomini e donne innamorati, alla ricerca dei trucchi che la natura usa non solo per far propagare la nostra specie, ma anche per migliorarla di generazione in generazione e addirittura rendere meno dolorose le separazioni
Allo stato dell´arte in fatto di "scienza dell´amore" Time dedica il suo servizio di copertina. A prendere per vere tutte le sue conclusioni, verrebbe da pensare che il nostro libero arbitrio è annullato da leggi naturali, chimica e selezione genetica. Ma controbilanciata da un disco dei Beatles, la scoperta del lato scientifico dell´amore offre molte sorprese e qualche consiglio utile.
Il naufragio di una relazione per esempio si rivela all´atto pratico meno devastante rispetto alle previsioni fatte quando tutto andava a gonfie vele. Lo hanno dimostrato alla Northwestern University (incrinando la credibilità di Romeo e Giulietta) e lo psicologo Eli Finkel lo spiega così: «Più una persona è innamorata, più tende a sottovalutare le proprie capacità di recupero dopo la separazione. In realtà abbiamo osservato che nelle rotture all´apparenza più drammatiche i partner abbandonati riescono a trovare sempre risorse inaspettate». E anche qui - secondo uno studio citato da Time - è l´adattamento che ci ha messo il suo zampino. Helen Fisher, antropologa della Rutgers University, ha studiato con la risonanza magnetica il cervello di uomini e donne innamorati e ha notato che le aree più attive sono quelle coinvolte anche nelle dipendenze. Quando uno dei partner decide di chiudere la relazione, l´altro reagirà con rabbia, irrazionalmente, accelerando la rottura del rapporto malandato e creando le premesse per un innamoramento fresco e più promettente.
Ma se crediamo di essere noi a scegliere liberamente il nostro partner, ci sbagliamo di grosso, secondo Time. È il naso a scegliere, sulla base di precise direttive dettate dalla selezione naturale. Una compagnia che "a pelle" ci risulta piacevole nasce dalla giusta combinazione dei feromoni del partner, trasmessa dall´olfatto e percepita dal cervello a livello subliminale. Un nuovo ingrediente al cocktail dell´attrazione è stato aggiunto a ottobre da una ricerca pubblicata sulla rivista Evolution and Human Behavior. Agli scienziati questa volta la fantasia ha suggerito di andare a studiare la scienza dell´amore in un night club, fra whisky, spogliarelliste, uomini eccitati e banconote che passano di mano in mano.
Con il taccuino nascosto dietro alla bottiglia, Geoffrey Miller dell´università del Nuovo Messico ad Albuquerque, ha calcolato quante mance ricevessero le spogliarelliste a seconda della fase del ciclo mestruale. Il loro fiuto - sembrerebbe - ha colto nel segno, perché grazie a un misterioso sesto senso, gli uomini offrivano mance più generose alle ragazze che si trovavano nella fase dell´ovulazione: 70 dollari, contro i 35 messi insieme in media dalle ballerine con le mestruazioni. Tutto merito di sottili messaggi olfattivi, sostiene Miller. Ma a veder ridotto così il suo "Something", George Harrison avrebbe probabilmente scosso la testa, preferendo restare senza risposta.

Repubblica 26.1.08
La psichiatra Donatella Marazzita: "Così sveleremo i misteri del cuore"


Ha scritto La natura dell´amore (Rizzoli, 2002) e ribadisce l´importanza di una scienza del sentimento. «Finalmente si è capito che l´amore è ciò che ci rende più felici, senza il quale non si può vivere - spiega la psichiatra Donatella Marazziti - non si ha più vergogna di mettere l´amore al centro della nostra vita e quindi anche al centro dei nostri ambiti di interesse scientifico».
Cosa ci ha detto la scienza che il cuore non capisse da solo?
«Ha fatto luce sui meccanismi biologici che regolano un lato molto importante dell´amore, quello fisico. Tuttavia i dati in questo momento sono ancora più teorici che pratici: non è esagerato dire che la scienza dell´amore è alla preistoria».
Quali sono le difficoltà della scienza dell´amore?
«Intanto, in quanto disciplina sta ancora identificando e verificando i suoi strumenti principali e le mancano modelli di riferimento animali. Da un altro lato bisogna poi tenere conto di un colpevole scetticismo degli scienziati di base, che per lungo tempo hanno considerato i sentimenti argomento di studio inferiore, non degno di attenzione. Non a caso le prime ricerche vengono dal campo della psichiatria, ma anche in questo ambito le osservazioni erano troppo focalizzate sulle malattie e non sullo studio di un sentimento così comune».
Qual è stato il momento della svolta?
«Un mutamento di approccio filosofico nelle neuroscienze, che hanno finalmente incominciato a interessarsi di una cosa "irrazionale" come l´amore, ammettendo che un essere umano, per essere completo, non può essere solo ragione».
(c. n.)

Repubblica 26.1.08
Alle radici della filosofia di Vico
di Massimo Cacciari


In un volume intitolato "Metafisica e metodo" tornano due opere giovanili con molti temi che resteranno centrali fino alla "Scienza Nuova"
Un grandioso sforzo di ripensamento del senso dell´Umanesimo
Un sapere che procede per tracce e ricorre alla forza dell´intuizione e dell´immaginazione

In un grandioso sforzo di ripensamento teoretico del senso dell´Umanesimo, Vico coglie l´accordo con la filologia come dimensione essenziale della filosofia stessa. La boria dei dotti si esprime con maggiore evidenza forse proprio nella pretesa di intendere la parola come semplice mezzo per comunicare il pensiero, strumento a sua disposizione. Ma non si dà pensiero che non sia pensato dalle sue stesse parole. Un pensiero che non riflette su tale "presupposto" non solo sarà un pensiero "sordo alla storia, ai sensi, alla vita sociale" (Gentile), ma neppure sarà in sé teoreticamente fondato. Già il dire "cogito" significa appartenere ad un linguaggio, ad una tradizione, indicare una provenienza, ek-sistere. Ed un "cogito" che non abbia coscienza di ciò non potrà mai fondare una scienza.
Nessuna scienza senza coscienza della propria origine; nessun logos che non sia fenomenologia: storia della sua "materia" e, in uno, sapere che mostra le forme della sua genesi e del suo apparire (la Krisis delle scienze europee non maturerà, per Husserl, proprio su questo stesso terreno? e cioè dall´oblio della co-scienza di sè da parte del progetto scientifico?). Autentica genealogia. Prima dei filosofi le leggi, prima delle leggi la lingua, prima della lingua la non-lingua. Prima del "sum" che risuona "vittorioso" nell´"io sono-io penso", il sum "astrattissimo", è il "sum" che dice il mangiare, che indica l´alimento che ci sostiene, la "sostanza" che sta sotto, «ne´ talloni, perocché sulle piante de´ piedi l´uomo sussiste; ond´Achille…». Lì, «ne´ talloni», occorrerà perciò pervenire, se non si vuole pensare l´"essere" senza alcun fondamento, se non si vuole fare della filosofia esattamente il contrario di ciò che deve essere: ritorno alla cosa, comprensione dell´effettuale oltre la doxa, l´opinio, il parlare in-cosciente. Il pensare si costituisce così come pensiero dell´origine e la filologia non ne esprime che l´intrinseca, rammemorante dimensione.
Ma il cerchio è lungi, a questo punto, dal chiudersi "virtuosamente"; proprio qui, anzi, viene alla luce tutta la drammatica della "nuova scienza". L´ordine delle idee procedente secondo l´ordine delle cose non giunge ad un fondamento. Il "discendere" alla coscienza dell´origine, che tanta pena comporta, non mette capo a una solida terra su cui poggiare quei nostri "talloni", ma propriamente all´opposto: a un "luogo" appena intendibile e nient´affatto immaginabile. Al toglimento di ogni fondamento. L´etymon, la radice ultima e vera delle parole, che è oggetto di una "etimologia filosofica" o di una «filologia nata in Platonia» (Warburg), sprofonda oltre ogni filologicamente-filosoficamente accertabile. Si apre un abisso della e nella parola che proprio le "nozze di filologia e filosofia" rivelano: ogni origine "certa" si affaccia all´incertissimo che ne è arché, ogni elemento noto contiene in sé costitutivamente l´ignoto, ogni dimensione definita l´ancora definiendum. Ecco, abbiamo raggiunto coscienza del significato latino di questo termine; ma quale ne è l´etymon? quale l´origine? Di nuovo, il "descensus" di Vico, a differenza di quello di Enea, non ha termine. E perciò "revocare gradus" gli sarà tanto più penoso. Entrambi, nell´itinerario, compiono straordinarie esperienze, scoprono volti e luoghi; non c´è spazio per accidiose disperazioni; ma l´antico giunge tuttavia "alle madri", mentre il nuovo, il "moderno" alla domanda, la stessa di Goethe: giù, via da ciò che appare ben definito e formato, giù al gioco eterno della metamorfosi - «ma la madre, dove è?». La parola ci inghiotte al suono, al corpo, alle immagini primordiali del suo agire (...), così come l´immagine della milizia rinviava a ferocia, mercatura a avarizia, l´eleganza del cortigiano a ambizione, la monarchia alla barbarie eroica. (...)
Piena coerenza dell´analogia: come l´uomo fa la sua storia senza tuttavia mai poter sapere gli effetti del suo agire, così egli pensa e dice senza mai poter giungere a perfetta co-scienza del "fondo" del suo dire, proprio perché cosciente che tale "fondo" non è linguaggio. L´inopia magna del nostro pre-vedere è l´altra faccia del limite costitutivo della nostra memoria - che perviene al suo ultimo soltanto quando ricorda l´immemorabile. E sulla soglia dell´immemorabile non stanno gli Zoroastri e gli Orfei, ma «ci rimangono i bestioni» nessun paradiso o età dell´oro, nessun mito edenico; provvida sventura la cacciata da Eden, ma non perché, come per Hegel o Schelling, da quel "momento" abbia inizio la disvelatrice marcia trionfale dello Spirito; solo il corso della storia umana, provvidenzialmente e non progressisticamente, come vedremo, ordinato genera la perdita di ogni paradiso in terra. La filosofia che si ostina a meditare soltanto «sulla natura umana incivilita» si ritrae atterrita dal thauma, dallo spettacolo meraviglioso-tremendo, della natura umana dalla quale provengono religioni e leggi, ma perché quella natura non sembra dotata di logos - e non è per la filosofia l´uomo quel vivente caratterizzato proprio dall´"arma" del logos? In questa natura, in questa physis, il nascimento più sorgivo, getta invece lo sguardo con cosciente ardimento la "scienza nuova", "armata" dei suoi assiomi e delle tradizioni «lacere e sparte» che la filologia permette di accertare.
Il viaggio nella memoria fino al suo stesso fondo-non-fonda va fatto valere, dunque, come co-scienza della modernità. Nessun culto antiquario dell´Antico, nessuna sedentaria erudizione, e così critica radicale della pretesa auto-referenzialità dell´Io penso, fondamento del moderno sapere. Ma scienza, comunque, avrà da essere, e ciò comporta comprensione e comunicazione della materia che essa raccoglie. Qui la nuova aporia: come potremo conoscere ciò che ci appare così essenzialmente diverso? come potremo comprendere ciò che "i bestioni" avvertono? partecipare a quella, per dirla con Hegel, «ebbrezza del sentire». Le domande centrali dell´ermeneutica sono tutte palpitanti in Vico. Come avanzare la pretesa di conoscere l´altro? Qui non può essere in gioco una forma "cartesiana" di conoscenza; anzi, orgogliosamente Cartesio inizia affermando la sua assoluta indifferenza, prima ancora che estraneità, ad ogni linguaggio che egli giudichi "straniero". Il sapere della "nuova scienza", un sapere indisgiungibile dal rammemorare (straordinaria "re-invenzione" dell´anamnesis platonica!), dovrà non solo essere indiziario, procedere per tracce, ma anche necessariamente ricorrere alla forza dell´intuizione e della immaginazione.
Che è autentica vis, e non pensiero degradato, sapere dimidiato. La vis imaginativa si sposa all´acribia filologica, all´evidenza delle idee che la metafisica contempla nella Mente divina. La facoltà dell´immaginare, Einbildungskraft, è, possiamo davvero dire, facoltà del giudizio. Non si giudica del passato, dell´altro, senza di essa. Senza con-sentire in qualche modo con la forza della sua fantasia, con la violenza delle sue passioni, sentimenti e affetti, mai potremmo intenderlo. Non si pensa non immaginando. Come si pensa-in- parole, come non c´è "cogito" se non nella sua espressione linguistica, così non v´è logos che sia astratto da pathos. Ed è per questo che possiamo, nonostante la abissale distanza, nonostante la differenza che ci divide da "ciò" che non è lingua, che non è logos, tuttavia con-sentirlo e intenderne la voce ("prima" voce, o grido o canto, che a sua volta si apre ad un silenzio insondabile: quello cui si è prima accennato, della storia davvero sacra, la generazione del proprio Verbum uni-genitum da Dio-in Dio).
La visione del passato, co-scienza della filosofia, esige filologia e immaginazione. Esso deve perciò trasmettersi anche per immagini. Senza la loro "guida" e senza un profondo con-sentire sarà impossibile condurre la nostra "visita". Ma syn-pathein è possibile, a sua volta, solo se in noi permane l´eco di ciò che andiamo "visitando". Ciò che nel "moderno" è il valore emeneutico del pathos, in quanto capacità di connessione, in quanto organo di una "logica dell´analogia", deve "ricordare" in sé, per poterci permettere di intendere il più profondo passato, l´esperienza che di esso, come del loro presente, compirono gli uomini che lo attraversarono.

Corriere della sera 26.1.08
Il Pd e la tentazione Gianni Letta
di Francesco Verderami


Due anni fa, alla vigilia della formazione del governo di centrosinistra, Francesco Rutelli confidò che «Gianni Letta è l'uomo che manca a Romano Prodi».
Sette giorni La «simpatia» dei Democratici per il braccio destro di Silvio

Possibile che ora il braccio destro del Cavaliere serva al Pd per sostituire il Professore a palazzo Chigi, ed evitare così un disastroso ritorno alle urne? Più che un'ipotesi è una suggestione. E non appartiene al Cavaliere ma alberga come un pensiero inconfessabile nella mente di molti dirigenti democratici, alla ricerca disperata di una soluzione della crisi. D'altronde il centrosinistra si rivolge sempre a Gianni Letta per le emergenze e le imprese difficili. Non fu Romano Prodi — appena diventato premier — a proporgli la guida della Federcalcio nei giorni di Calciopoli? E non fu Walter Veltroni a dire che avrebbe lanciato la candidatura di Roma per le Olimpiadi solo se Gianni Letta fosse entrato nel board del comitato promotore? Proporre all'uomo di Silvio Berlusconi la guida del governo sarebbe un modo per mettere le briglie al Cavaliere e fermarne la corsa verso le elezioni. Infatti il capo del centrodestra nega l'evenienza, e smentisce di averne mai parlato. Per una volta dice il vero: è nel campo della (ex) maggioranza che se ne parla sottovoce. Ieri Gianfranco Fini scommetteva che gli avversari non arriveranno mai a ufficializzare la proposta, «vorrebbe dire che sono alla disperazione». «Se non lo fanno — obietta il democratico Antonio Polito — è perché ai maggiorenti del centrosinistra mancano le palle per farlo. Invece, extrema ratio, qualsiasi ipotesi sarebbe preferibile al precipitare senza paracadute verso le elezioni. Sì, anche Gianni Letta».
Che poi in questa fase l'analisi dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio sulla situazione politica non sembra discostarsi da quella di tanti autorevoli dirigenti del Pd. Raccontano che ieri fosse un po' depresso, perché invece della linea scelta da Berlusconi («elezioni subito») avrebbe preferito l'altra opzione, la presa d'atto cioè che invece di una sfida immediata alle urne servisse una «fase di decantazione»: una sorta di governo di «decompressione nazionale». Giusto il tempo di dare al sistema nuove regole e mettere al riparo il Paese dal gelo dell'economia mondiale. Anche perché — questa è la sua tesi — fra sei mesi, dopo il voto, i problemi che oggi sono già in agenda si ripresenteranno magari in forma acuta, a fronte di un'opinione pubblica ancor più esasperata dalle emergenze.
Sembra di sentir parlare Veltroni, e non è un caso se durante la corsa per le primarie nel Pd il sindaco di Roma rivelò che «dal centrodestra mi prenderei Gianni Letta». Dato che la crisi ha travolto Prodi e il suo governo, non sarebbe giunta l'occasione per avere Gianni Letta quantomeno in comproprietà? Secondo il socialista Roberto Villetti «l'idea sta forse nella mente di Goffredo Bettini», potente braccio destro del leader democratico, che non passa giorno senza aver parlato con il plenipotenziario berlusconiano: «Ma il primo a non volere Letta a palazzo Chigi — prosegue Villetti — è il Cavaliere». Eppoi c'è l'ostilità delle forze dell'Unione, a partire da Rifondazione comunista: «Per noi — spiega il capogruppo del Prc alla Camera, Gennaro Migliore — sarebbe un rospo che non potremmo mai digerire».
Eppure senza un'intesa con Berlusconi appare impossibile per il centrosinistra evitare il piano inclinato delle urne, e scongiurare una pesante sconfitta che i sondaggi evidenziano con i loro diagrammi. Così nel Pd l'idea lettiana viene al momento coltivata come una suggestione, nella speranza di poterla magari concretizzare, man mano che le consultazioni andranno avanti. È una flebile speranza, legata — sostiene il democratico Riccardo Villari — «a una scelta politico»: «Se nel centrodestra si facesse largo la volontà di costruire un percorso condiviso, è ovvio che bisognerebbe aprirsi alla collaborazione con personalità dell'altro schieramento». Gianni Letta è un nome che nemmeno Prodi ieri ha voluto bruciare: «Deciderà il presidente della Repubblica a chi affidare l'incarico di guidare il governo». Chi mai si sarebbe aspettato tanta prudenza da colui che per dodici anni è stato l'alfiere dell'antiberlusconismo?

il Riformista 26.1.08
Stati d'animo uscito da Laterza l'ultimo saggio del sociologo
Bauman, la nostra paura è riciclata e non smaltita
Un'epoca d'angoscia da eventi naturali e culturali, dal terrorismo alle catastrofi. Viene assorbita, indotta e non trova sfogo. La speranza va comunque tenuta viva
di Livia Profeti


«La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disarticolata, fluttuante, priva di un indirizzo e di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Con queste parole, che quasi descrivono uno stato d'animo delirante, il sociologo Zygmunt Bauman introduce il suo Paura Liquida appena tradotto in Italia da Laterza (15 euro, pp. 220), ultimo capitolo della sua ricerca sulla società postmoderna dopo Vita liquida e Amore liquido .
Bauman cita Lucien Febvre per evidenziare come nel Cinquecento la paura invadesse tutti gli aspetti del vivere, a cui è seguito un lungo cammino per tentare di avviarsi «verso un mondo liberato dal fato cieco e imperscrutabile, che è la serra di tutte le paure». In realtà l'approdo si è rivelato ben diverso da quello che agli illuministi sembrò a portata di mano, perché «la nostra è, ancora una volta, un'epoca di paure».
Terrorismo, catastrofi naturali, padri e madri di famiglia che improvvisamente sterminano i loro cari, assassinii di massa altrettanto razionalmente incomprensibili: tutto ciò alimenta una paura che Bauman definisce «riciclata» indipendente dalle minacce reali, che si autoalimenta e pervade le vite di un senso di insicurezza, orientando «il comportamento dell'essere umano dopo aver modificato la sua percezione del mondo e le aspettative che ne guidano le scelte».
Ogni giorno i mass-media aggiornano l'inventario dei rischi che corriamo, guardandosi bene dal definirlo come completo e sottolineando che non c'è modo di sapere quanti altri, sfuggiti alla nostra attenzione, si preparano a colpirci all'improvviso. In realtà i pericoli annunciati sono molto meno numerosi di quelli che arrivano veramente; infatti quanti computer conosciamo che siano stati realmente preda del «sinistro millennium bug»? O quante persone ci sono note per essere vittime degli acari sui tappeti o magari aggredite «da qualcuno di quei perfidi e biechi soggetti che chiedono asilo politico»? Bauman rileva pure che «l'opinione secondo la quale il mondo là fuori è pericoloso ed è meglio evitarlo» è irrealisticamente molto più diffusa tra quelli che non escono mai piuttosto che tra coloro che invece amano uscire la sera.
Nell'ultimo capitolo del volume, dal titolo Il pensiero contro la paura , il sociologo rifiuta la convinzione panglossiana secondo la quale si è già fatto tutto ciò che si poteva fare per migliorare l'esistenza umana, e ricorda che "«chi è vivo ha il compito di tenere viva la speranza, o meglio di farla rinascere in un mondo che cambia velocemente e si distingue per modificare velocemente le condizioni in cui si svolge la lotta incessante per renderlo più ospitale per l'umanità».
Nel porsi questo compito Bauman ripropone la questione se «le parole possono cambiare il mondo», notando come gli intellettuali non abbiamo mai avuto molta fiducia in questa possibilità, bensì «hanno sempre avuto bisogno di qualcuno che facesse il lavoro che esortavano a compiere», per ultima la classe operaia. Ma egli rifiuta l'idea che le speranze che hanno animato il socialismo debbano necessariamente «seguire nell'abisso il "soggetto storico" in via di estinzione, come chiedeva il capitano Achab ai suoi marinai». Il secolo che ci aspetta può effettivamente avere esiti catastrofici, ma al contrario potrebbe anche invertire la sua rotta se saprà essere «un'epoca in cui si stringerà e darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità».
Nell'ambito della sua Lectio magistralis all'ultimo Festival di filosofia di Modena, il sociologo ha sostenuto la tesi che l'esistenza umana è basata su due valori, entrambi imprescindibili sebbene in costante conflitto tra loro: la sicurezza e la libertà. Una condizione ambivalente che orienta il corso della storia umana, che in questo senso può essere vista come un pendolo oscillante tra i due poli: a volte si sposta verso la libertà ma poi, «ossessionati dalle questioni della sicurezza», gli uomini riportano il pendolo verso il polo opposto, rischiando derive autoritarie. Paura liquida è un «inventario» delle paure della nostra società ma anche un tentativo di individuarne le radici comuni: un contributo e una proposta intellettuale per evitare una nuova oscillazione pericolosa del pendolo.

il Riformista 26.1.08
Cambiare atteggiamento nei confronti dei cattolici
Cari laici, basta con questo complesso di inferiorità
di Orlando Franceschelli


Dei problemi di cui soffre la nostra democrazia, la carenza di laicità è da annoverare tra quelli più vicini all'epicentro della crisi. Come la stessa gerarchia cattolica ci ha ricordato anche in questi giorni successivi all'Angelus che ha raccolto folle di fedeli e di politici. Presentato come esibizione non di forza, ma di affetto per il Papa. E perciò anche come chiusura delle polemiche legate alla vicenda della Sapienza. Ma di fatto subito utilizzato da Ruini e dal presidente della Cei Bagnasco per tornare ad attaccare le "affermazioni strampalate" e le "pressioni ideologiche" contro cui la chiesa si ergerebbe soltanto per difendere la verità e la dignità dell'uomo. Un attacco che ha suscitato sorpresa e disappunto persino in qualche prelato. Ma è stato prontamente rafforzato da quello sferrato proprio ieri dallo stesso Benedetto XVI contro i media "megafono del materialismo e del relativismo etico". E rende ancora più allarmante quel "complesso di superiorità" che già Guido Calogero denunciava nella condotta pubblica di non pochi cattolici.
Calogero, maestro tra i più significativi del liberalsocialismo e della cultura del dialogo, faceva risalire un simile complesso alla pretesa che le ragioni dei cattolici poggino su un fondamento assoluto perché garantito dalla fede. Da qui quell'atteggiamento di superiorità assunto nei confronti di chi invece ritiene che il "principio fondamentale" di una società pluralista sia la laicità. E la "volontà di dialogo" che l'accompagna.
E tuttavia, anche i laici - o laicisti, come li chiamava Calogero - spesso favoriscono questo atteggiamento cattolico. Assumono nei suoi confronti una "posizione di modestia critica" che invece occorre "correggere radicalmente", giacché è proprio e solo il principio della laicità a possedere "quella compiuta universalità e assolutezza" che le fedi pretendono di ascrivere ognuna a se stessa. Insomma, per dirlo nei termini oggi cari alla gerarchia: i veri valori non negoziabili delle nostre società plurali e liberali sono proprio la laicità e la capacità di confronto costruttivo. Perciò, concludeva Calogero, i laici che non sanno contrastare il complesso di superiorità dei cattolici, diminuiscono anche l'efficacia della propria battaglia ideale e politica. Assecondano un complesso che allontana dal coltivare quel senso del limite e della misura dal quale giustamente Calogero vedeva promossa e tutelata la libertà di ognuno.
Ebbene, Benedetto XVI, Ruini e Bagnasco sono intenzionati ad alimentare la versione più integralista di un simile complesso. Per loro, come anche il Papa ha ribadito proprio nel testo "densissimo e però molto chiaro" (Ruini) preparato per la Sapienza, una filosofia, un'etica e persino una scienza, insomma: una "cultura europea" che aspiri solo ad "autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni" e sia "preoccupata della sua laicità", non è una legittima protagonista delle nostre società. Un interlocutore portatore di ragioni e valori con cui anche i cattolici devono imparare laicamente a confrontarsi.
Al contrario: la cultura moderna criticamente emancipata dalla tradizione teologica, sarebbe frutto soltanto di mancanza di coraggio di fronte alla verità. E destinata a frantumarsi sugli scogli di un relativismo nichilistico e antiumano.
Una versione appunto minacciosamente neointegralista del complesso di superiorità cattolico, che così può assumere addirittura il volto di una solitaria difesa della dignità umana.
E perciò va contrastato apertamente proprio da chi è consapevole, come ha scritto Claudio Magris sul Corriere , che essere laici significa «credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, anch'essi rispettabili». Di quale rispetto culturale e civile, di quale ruolo pubblico veramente laico e costruttivo, sa essere protagonista questa gerarchia che - si badi - persino nelle argomentazioni degli altri vede un impoverimento della ragione e rivendica per le proprie - e per i misteri della fede - il monopolio della verità e dei valori?
Seppure timidamente, anche tra i cattolici affiora qualche riserva sulle tensioni alimentate da questo protagonismo politico della chiesa. Ma l'impegno dei laici autentici, tanto più di fronte alla crisi etico-politica in cui è coinvolta la nostra sfera pubblica, è uno solo: dismettere ogni "posizione di modestia critica". Anzi: rivendicare a schiena dritta che, come ammoniva Calogero, le ragioni della laicità «non sono meno robuste - anzi sono incomparabilmente più robuste - di quelle che sorreggono le fedi religiose dei suoi oppositori».
Rimanere al di qua di un simile impegno significa solo cedere a continui arretramenti della cultura e della cittadinanza del dialogo. E perciò anche della stessa democrazia e dei diritti civili che proprio della laicità sono i frutti più preziosi.

il Riformista 26.1.08
Si al modello tedesco
Il suicidio inconsapevole dei democrat può segnare la fine delle alleanze coatte
La sinistra ha commesso l'errore di non unirsi per tempo
di Pietro Folena


Caro direttore, quando uscii dai Democratici di Sinistra avevo ben chiaro, mi si scusi l'immodestia, che sarebbe nato il Partito democratico (allora si diceva "riformista", poi s'è persa anche questa nobile parola della sinistra). E dissi quello che chiunque in buona fede poteva già allora prevedere: che sarebbe divenuto un fattore destabilizzante per l'allora costituenda Unione di centrosinistra. Si poteva già intravedere, infatti, nella formazione di un partito grande ma indefinito, una operazione di continuità della classe politica e, soprattutto, il tentativo, più volte esplicitato, di dare all'Unione un ponte di comando, prescindendo dalla semplice constatazione della presenza di un articolato pluralismo in quella coalizione. Appariva chiaro ciò che solo da ultimo Walter Veltroni ha esplicitato, e cioè che il Pd era destinato a una vita solitaria. Si trattava, e si tratta, di una scelta legittima, che non condanno di per sé. Una scelta che non ho condiviso. Per tempo, lasciai i Ds prima che prendessero definitivamente quella strada.
Bisogna riconoscere che il Pd è stata una novità politica deflagrante. Quello che spiace è dover constatare come quella che si autodefinisce classe di governo, abbia decretato la sua fine così presto, con le sue proprie mani. Il Partito democratico, invece di deflagrare il centrodestra, come qualcuno aveva ipotizzato, ha non solo distrutto l'Unione, ma anche forse se stesso, se, come pare, si aprirà nei prossimi giorni uno scontro interno che potrebbe sfociare in una scissione. In ogni caso, il Partito democratico ha generato una maggiore frammentazione, di cui oggi è vittima.
Mastella e Dini erano i soci fondatori della Margherita nel 2001. Fisichella è una personalità corteggiata a lungo dai Dl che lo hanno poi eletto al parlamento. Si potrebbe parlare di una "congiura della palude", di un governo che "cade al centro". C'è del vero. Ma questo non basta a spiegare quello che è accaduto, a mio parere.
Se allontaniamo per un attimo lo sguardo dagli alberi e guardiamo la foresta, allora forse appariranno più chiari i contorni della vicenda. Il governo cade sulla legge elettorale o meglio cade perché l'illusione di un bipolarismo - o addirittura di un bipartitismo - coatto ha generato l'instabilità che conosciamo. Questa è l'ideologia dietro al referendum promosso anche dagli amici di Romano Prodi. L'idea di una politica ridotta a un perenne scontro a due. I Mastella, i Dini, i Fisichella sono gli esecutori materiali di un suicidio inconsapevole della classe dirigente del Pd. E è oggi singolare leggere i retroscena sulle pagine dei giornali e non trovare nulla di tutto questo. Tra chi difende Prodi e attacca Veltroni, o viceversa, e chi indica traditori un po' ovunque, la politica si sta nuovamente incartando.
Invece io credo fermamente nella necessità, per la sinistra e l'ex centrosinistra, di mettere fine alla stagione della riduzione ad uno, delle spallate contro il pluralismo politico. Non funziona, non ha funzionato in questi quindici anni né a destra né a sinistra.
L'unico modo per uscire dall'eterna transizione italiana è oggi una legge elettorale che favorisca la nascita di 4-5 grandi formazioni espressione dei grandi filoni politici, culturali, sociali che non siano costrette ad allearsi per poter sopravvivere, che non siano costrette a dire ai propri elettori di essere d'accordo quando non lo sono, di avere un programma comune che poi non viene attuato. Per quanto mi riguarda, voglio iscrivermi a una grande Sinistra ecologista, pacifista, dei lavoratori, laica e partecipativa. Il modello elettorale tedesco è quello che, a detta di molti, può garantire la fine di questa transizione. Se l'urgenza, prima di tornare al voto, è questa, allora che nasca un governo in grado di portare a termine in tempi brevi l'approvazione della riforma elettorale.
La Sinistra, io credo, ha tutto l'interesse a perseguire questa strada. Abbiamo commesso l'errore di non unirci per tempo. C'è chi ha proposto gruppi unitari, liste comuni, primarie per designare un leader e un programma. Tutto questo non si è visto. Oggi sarebbe servito. Oggi saremmo pronti. Ma è inutile rivangare il passato. Una Sinistra di governo, una Sinistra che voglia avere una funzione nazionale, lo dico ai compagni e alle compagne delle forze che hanno promosso gli Stati generali di dicembre, oggi deve assumersi la responsabilità di indicare al capo dello Stato l'esigenza di non arrivare al voto senza aver prima aver sperimentato tutte le strade possibili per far nascere un governo che metta in breve tempo la parola "fine" al bipolarismo coatto.

il Riformista 26.1.08
Cosa rossa a geometria variabile. Prc e Sd per un governo istituzionale
Ma sul Colle tutti in ordine sparso. Accordo della Sinistra arcobaleno in caso di elezioni
di Alessandro De Angelis


Più delle urne, è il come arrivarci che divide la Cosa arcobaleno. Alla vigilia delle consultazioni sul Colle, la sinistra dell'Unione (che fu) non ha una linea comune sul dopo Prodi. Risultato: la Cosa rossa procede a geometria variabile. E da Napolitano si presenterà in ordine sparso: è ovvio, dicono in molti per sdrammatizzare, dal momento che, secondo la prassi, il presidente incontra i singoli gruppi parlamentari. Ma è altrettanto vero che l'ipotesi del portavoce unico (annunciata qualche tempo fa) nei momenti decisivi è sempre rimasta sulla carta: si è verificato nel dibattito sulla fiducia, accadrà anche per i colloqui col presidente della Repubblica. Dettagli? Forse, ma, ad oggi, Napolitano ascolterà quattro linee diverse sul governo di transizione. Dice Bonelli: «Noi siamo per un Prodi bis con un mandato mirato: legge elettorale, extragettito e alcuni provvedimenti ambientali». Il Pdci, lo ha ribadito tutto il suo stato maggiore dopo la sfiducia in Senato, è invece contrario, anzi contrarissimo ad ogni ipotesi di governo istituzionale: «elezioni subito» va ripetendo Diliberto da due giorni a questa parte. Un'altra ipotesi, ha detto ieri il leader del Pdci, sarebbe «una ulteriore ferita per il nostro popolo». Opposto, seppur con accenti diversi, l'orientamento di Sd e di Rifondazione. Ieri Mussi ha convocato la direzione del suo movimento dando il via libera a un esecutivo istituzionale dai margini assai stretti: «Noi possiamo considerare un governo di transizione se è breve, a tema, con la data delle elezioni incorporata» ha detto. E ha specificato: «Non va bene nemmeno che questo governo faccia una qualunque legge elettorale, ma deve essere quella bozza Bianco come era allo stato finale quando stava per essere approvata». La parte del suo movimento più vicino alla Cgil avrebbe preferito l'indicazione di un governo meno legato ad un solo scopo. I sindacati confederali sono preoccupati per lo scioglimento anticipato delle Camere e, in un comunicato congiunto, ieri Cgil, Cisl e Uil hanno ribadito le loro priorità: l'emergenze economiche da affrontate, i contratti da rinnovare e la redistribuzione da portare a termine. Ma, per Mussi, l'asse con Giordano non avrebbe retto su questo terreno.
La discussione sul dopo Prodi entra infatti nel vivo oggi, nella riunione di esecutivo, direzione e gruppi parlamentari di Rifondazione. L'ipotesi che buona parte del gruppo dirigente vuole scongiurare è quella di un governo che sulla carta nasce per la riforma elettorale ma che in realtà servirebbe, dicono i dirigenti del Prc, a far passare una politica difficilmente digeribile per il popolo rosso. Ieri Russo Spena ha fissato i suoi paletti sulla politica estera: «Ritengo che i gruppi parlamentari di Rifondazione comunista e dell'intera Sinistra arcobaleno non voteranno a favore del rifinanziamento delle missioni militari all'estero, riservandosi di valutare caso per caso». Diverso l'orientamento dei fedelissimi di Bertinotti che oggi in direzione andranno invece giù duri sulla linea del governo istituzionale, che in tempi rapidissimi vari la nuova legge elettorale: è la linea di medizione più alta possibile, spiegano, tra le esigenze della base e l'obiettivo istituzionale. Il presidente della Camera non ha affetto gradito l'atteggiamento del suo gruppo dirigente in questi ultimi giorni e ha provato a raddrizzare la linea. Prima un colloquio chiarificatore con Giordano che, infatti, diversamente da tre giorni fa, in un'intervista alla Stampa di ieri apriva all'ipotesi di un governo per la bozza Bianco. Poi una indicazione ai fedelissimi di andare avanti sull'ipotesi Marini nella riunione odierna. Afferma Milziade Caprili: «Se c'è un punto d'intesa si deve dar vita a un governo per la legge elettorale anche con pezzi dell'altro schieramento. Domando a chi è contrario: quale sarebbe il vantaggio di andare alle elezioni ora? Anche per affrontare la questione sociale e risolvere le emergenze c'è bisogno di dotarsi di strumenti che assicurino la governabilità. E, aggiungo, questo governo può anche varare qualche misura redistributiva».
Fin qui le ipotesi legate al governo di transizione che delineano una Cosa rossa a due gambe, Sd e Rifondazione. Se invece la situazione dovesse precipitare (vai alla voce: elezioni anticipate) l'orientamento prevalente tra i partiti della cosa arcobaleno è quello di fare di necessità virtù, ovvero di presentarsi uniti. Liste comuni? Si vedrà, per ora lo schema prevalente è quello dell'unità nella diversità. Ma anche i più scettici, di fronte alle ipotesi delle urne, hanno rotto gli indugi. Dice Bonelli, finora assai prudente sulla prospettiva unitaria: «Alle elezioni la Sinistra arcobaleno dovrà presentarsi con delle liste comuni all'interno di un'alleanza di tutto il centrosinistra». E i comunisti italiani, nella direzione di due giorni fa, hanno dato, senza troppo clamore, il via libera definitivo ad andare uniti alle elezioni. In questo caso, col porcellum , la Cosa rossa correrebbe a quattro gambe.

Liberazione 26.1.08
Il giurista: «E la sinistra? Ora deve ricostruire la sua cultura»
Rodotà: «C'era più moralità ai tempi della Dc e di Leone...»
di Angela Azzaro


«Con la caduta del governo Prodi si chiude una fase, quella che abusivamente era stata chiamata Seconda Repubblica. C'era una crisi incombente, che ha attraversato tutti questi anni, anche durante la permanenza a Palazzo Chigi di Berlusconi. Qual è la differenza con il periodo che c'era prima, con la cosiddetta Prima Repubblica? Che allora ci si dimetteva per un avviso di garanzia, oggi non ci si dimette neanche dopo una condanna a cinque anni». Insomma, detto con nomi e cognomi, «meglio Leone di Cuffaro e Mastella». Stefano Rodotà non se la sente di minimizzare la situazione di crisi del Paese e denuncia la grave questione morale che rischia di rendere ancora più forte la sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. «E' passata l'idea che se non c'è una questione penalmente rilevante, allora un politico può fare quello che vuole. Ma la politica non si misura solo con i reati. C'è una deontologia che si chiama responsabilità e che non viene rispettata. E' vero c'è una crisi dei valori, ma non di quelli indicati dal Vaticano. Ha preso piede l'idea dell'arricchimento facile, a tutti i costi. Diciamolo: si chiude una fase che ha portato con sé un forte degrado culturale e politico».

Davvero Leone meglio di Cuffaro?
La classe politica attuale ha perso di credibilità. Quando Leone si dimise, lo fece per molto meno di quello di cui sono accusati alcuni esponenti politici oggi. Non aveva fatto nulla di penalmente rilevante. Fu sacrificato dai suoi colleghi per tentare di recuperare un po' di credibilità nell'opinione pubblica. Questo ci riporta all'oggi. Se Mastella avesse detto: ritengo che ci sia una persecuzione giudiziaria nei mie confronti e per questo vi chiedo solidarietà, ma certi comportamenti non sono ammissibili dal punto di vista etico, sarebbe stato diverso. Invece ha fatto venire in mente Craxi quando disse: così fan tutti. Non si può ricostruire la fiducia dei cittadini nella classe dirigente, quando si vede e si sente come si scelgono i primari. E' un costume inaccettabile, anche se non è perseguibile dai giudici.

Ha fatto bene Mastella a dimettersi?
Chi viene preso con le mani nel sacco, dovrebbe andar via. Da diversi anni non è più così. Con due conseguenze. Che si spara addosso ai giudici, quando sono stati i politici a mettersi nelle loro mani. Se avessero fatto come negli altri paesi, dove la classe politica espelle dal proprio corpo coloro che sono percepiti come illegittimi dall'opinione pubblica, non sarebbe andata così. In secondo luogo è accaduto che alcune persone singole, prive di responsabilità, si sono prese un diritto, che non hanno, di vita e di morte su un governo voluto dai cittadini.

Per continuare con i paragoni, vengono in mente le parole di Berlinguer sulla questione morale.
Esiste eccome una questione morale. Quando Berlinguer pose il problema, intravedendo la deriva che stava per prendere la politica, molti non lo capirono. Dissero che proponeva una società triste. Oggi chi prova a sollevare la questione, viene tacciato di essere moralista. Prevale in molti l'idea che la politica è sangue e merda... La politica è avere una forte deontologia, un rispetto delle regole.

Tronti, su questa pagine, diceva: attenti però a cadere nella dicotomia che vede da una parte una politica corrotta e dall'altra una società virtuosa.
Sono d'accordo che non si debba cadere in questa contrapposizione, che - tra le altre obiezioni - è stata quella che ha determinato la fine del sistema dei partiti anche quando non era il caso. Il mito della società buona contrapposta a una politica cattiva è un abbaglio che porta a pensare che quando si va davanti ai cittadini tutto si risolve. C'è stato in questi anni un gioco di legittimazione reciproca. Gli stessi striscioni che si trovano allo stadio li troviamo anche in Parlamento.

Per uscire da questa crisi basta secondo lei una nuova legge elettorale di cui dovrebbe prendersi carico un eventuale governo istituzionale?
La mia posizione su questo tema è molto netta. Una legge non basta, ma eviterebbe i disastri che saranno certamente prodotti andando a votare con questa legge o con quella, pessima, che uscirebbe dal referendum. Di fronte a questa, "il porcellum" è meglio perché dà il premio di maggioranza a quella forza che davvero ha superato il 50 per cento di preferenze. Qualsiasi sia la nuova legge, deve tenere conto di come, il 25 e il 26 giugno del 2006, si sono espressi i cittadini. Hanno infatti respinto un sistema di tipo presidenziale. Dire che si propone il modello francese, come forma di governo, vuol dire che il 26 giugno abbiamo scherzato. Non si può esaltare il potere dei cittadini solo quando fa comodo.

La caduta del governo è legata fattivamente (per le pressioni di Bagnasco) simbolicamente (per l'egemonia esercitata dalla Chiesa sui temi etici e sui diritti civili) alle pressioni del Vaticano.
Mi limito ad osservare quello che hanno fatto molti. C'è una coincidenza tra le decisioni rapide prese da Mastella e tre episodi: il discorso del pontefice sull'amministrazione del Lazio, le polemiche per la sua presenza all'inaugurazione accademica della Sapienza, il discorso di Bagnasco. Davanti all'attacco della Chiesa, la politica ha mostrato una crescente debolezza. Il tema dei diritti civili è stato progressivamente abbandonato. E' stato ritenuto, con un realismo molto comodo, che siccome non c'erano i numeri era meglio non rischiare. Questo sia per le unioni civili che per il testamento biologico.

Un governo poco coraggioso. Anche per questo ha pagato un prezzo così alto?
Io posso o meno apprezzare l'ultimo discorso di Prodi al Senato. Però ha fatto una cosa importante. E' andato lì e ha detto: ognuno si prende la responsabilità delle proprie decisioni. Perché, allora, su unioni civili e testamento biologico non è stata fatta la stessa cosa? Perché non si è andati in aula a dire: vediamo ora chi vota contro? Si sarebbe perso in Parlamento, ma si sarebbe detto al Paese, a una grande parte dell'opinione pubblica: guardate ci siamo noi che abbiamo a cuore i diritti civili. Oggi è questo il grande tema. Vado spesso in giro, in occasioni pubbliche, per parlarne. C'è sempre una grande attenzione e passione. C'è anche una parte del mondo cattolico, che non fa parte delle gerarchie, con cui si possono costruire alleanze.

Anche la Sinistra non è stata in grado di fare politica su diritti civili e questioni cosiddette eticamente sensibili?
Ci sono mille emergenze, lo so benissimo. L'economia, i morti sul lavoro, la cancellazione, non solo fisica, degli operai. Sono grandissimi temi. Nessuno lo nega. Ma la Sinistra ha sempre fatto anche grandi battaglie di libertà, battaglie che oggi sono state messe in un angolo. Prodi aveva davanti un interlocutore - la Chiesa - molto determinato, ma ha risposto con debolezza. Questo pontificato ha infatti teorizzato il rafforzamento del suo ruolo in Italia, per partire alla riconquista del mondo. Può essere una vocazione pastorale legittima, ma si è tradotta in un protagonismo politico molto forte. Non si vuol chiudere la bocca a nessuno, ma esistono regole democratiche che devono essere rispettate.

Il governo dell'Unione ha completamente dimenticato la legge 40. Lei che è uno dei maggiori critici della normativa, come giudica il comportamento dell'esecutivo uscente?
Ultimo il Tar del Lazio ha bocciato le linee guida e ha rimandato la legge alla Consulta perché si esprima sulla sua costituzionalità. Non ci sono solo le procure sotto l'occhio del ciclone per il loro rapporto con la politica. Nel silenzio della politica, c'è una magistratura che è consapevole di dover usare i parametri costituzionali per valutare la misura dei diritti dei cittadini. Tutti discutono di valori. C'è chi scrive anche un manifesto. In molti si dimenticano che ci sono quelli garantiti dalla Carta, che festeggia i 60 anni, ma senza che ne cogliamo in pieno il valore politico e simbolico ancora vivo. Sulla legge 40, penso che doveva essere inserita nel programma dell'Unione. Non è stato fatto con la scusa che la maggioranza non era favorevole. Se nella politica si fosse ragionato sempre con i numeri, le minoranze non avrebbe potuto o dovuto fare nessuna battaglia.

Tronti dice: la Sinistra per tornare ad essere forte deve, non solo essere, ma sentirsi minoranza.
Rispondo con una battuta. Non mi piace quando si ostenta la vocazione maggioritaria, ma neanche quando si ostenta quella minoritaria. Se però riconoscersi come minoranza serve a ricreare la propria identità allora sono d'accordo.

Quale identità? E' questa la sfida più importante?
Sicuramente si deve fare i conti con una perdita di cultura. Se anche a Sinistra si continua a dire che i diritti civili sono un lusso, è difficile il cambiamento. Retribuzioni e lavoro questioni centrali? Chi lo mette in dubbio. Ma sono altrettanto importanti anche gli altri diritti, le libertà. Scindere i due piani è pericolosissimo. Lo hanno fatto le dittature. Anche il fascismo diceva al popolo: avete i treni, avete il lavoro, avete da magiare, ma di che cosa vi lamentate? Il prezzo era libertà. Libertà e diritti civili devono essere per la Sinistra valori non rinviabili a un secondo tempo.

Quanto una maggior presenza delle donne nello spazio pubblico e del pensiero femminista può aiutare il cambiamento?
Faccio un esempio. Quattro tra le più importanti sentenze sui temi della vita e delle libertà sono state fatte da donne. L'ordinanza della Cassazione sul caso di Eluana, che ha stabilito il diritto a non essere prigioniera del suo stato vegetativo; la sentenza di Roma sul caso Welby che ha detto che l'anestesista non è perseguibile; le sentenze di Cagliari e Firenze che, anticipando il Tar, hanno stabilito la possibilità della diagnosi preimpianto. Un caso? No. Perché queste sentenze mostrano la centralità dei temi espressi dal movimento delle donne: cioè l'attenzione al corpo, il senso del limite inteso anche come una non ingerenza del legislatore sulla vita delle persone. Tutte questioni oggi dirimenti.

Liberazione 26.1.08
Tullia Zevi: «Quel giorno del 1938 in cui scoprimmo di essere diversi»
Alla vigilia della Giornata della memoria del 27 gennaio e nell'anniversario delle Leggi razziali varate dal fascismo.
A colloquio con una delle grandi figure dell'ebraismo italiano, prima donna nel ruolo di presidente dell'Ucei per quindici anni
di Guido Caldiron


« Quel giorno abbiamo scoperto la diversità. Cosa volesse dire essere considerati e apparire come "diversi". E direi che abbiamo misurato sulle nostre vite, quasi sui nostri corpi, questa sensazione: ci è entrata nella pelle». Tullia Zevi ricorda così l'estate del 1938 e il momento in cui apprese che il Regime fascista aveva promulgato le leggi razziali. Per lei, poco più che maggiorenne, la vacanza che stava trascorrendo in Svizzera con la famiglia si tramutò così nell'inizio di un lungo esodo forzato che l'avrebbe portata, fino alla fine della guerra, prima a Parigi e quindi negli Stati Uniti.
E' stata la prima donna a diventare presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che ha guidato per oltre quindici anni. Ha conosciuto e frequentato molti antifascisti, partecipato alla vita del Partito d'Azione ed è stata legata da una profonda amicizia con Amelia Rosselli. Giornalista, ha seguito per la stampa americana il processo di Norimberga ai gerarchi nazisti e più tardi quello contro Adolf Eichmann che si è svolto a Gerusalemme, ed è stata per molti anni corrispondente del quotidiano israeliano Ma'ariv . Tullia Zevi non ha mai smesso di animare la vita culturale e politica italiana continuando a rappresentare un punto di riferimento per l'ebraismo e per la cultura laica e progressista.
La sua storia l'ha affidata recentemente a Ti racconto la mia storia (Mondadori) un libro intervista realizzato da sua nipote Nathania Zevi che attraversa oltre settant'anni di storia a partire dalle Leggi razziali dell'estate del 1938. Alla vigilia della Giornata della Memoria che ricorda il 27 gennaio la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau avvenuta nel 1945 le abbiamo chiesto di riflettere per Liberazione sul significato di questa data e sul valore della memoria storica per combattere il razzismo che ha attraversato l'Europa e l'Italia e che torna oggi nel dibattito pubblico e nella nostra società.

Signora Zevi, ricordando l'anniversario della liberazione di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio del 1945, il Presidente Napolitano ha spiegato come la strada per i campi nazisti si è aperta con le Leggi razziali del 1938. Come ricorda quel momento?
Non potrò mai dimenticare l'estate del 1938. Ero in vacanza in Svizzera con i miei genitori e i miei tre fratelli. Seduto davanti a me, mio padre leggeva i giornali italiani a voce alta, al tempo stesso sconvolto e incredulo, Quasi non credeva a ciò che stava leggendo: "Ma che cos'è questa storia, vogliono farci fare la fine dei topi?". La sensazione di paura e di pericolo cominciò a insinuarsi in me: dovevo temere che mi potesse accadere qualcosa solo perché ero ebrea. Ero "diversa" e per questo ero in pericolo. Non c'era soltanto la sensazione di essere emarginati, ma quella ancora più terribile di non essere proprio considerati degli esseri umani.

All'epoca, pur costretta all'esilio, come percepì la reazione della società italiana alle Leggi razziali?
All'epoca avevo l'impressione che nel resto della società non ci fosse percezione di quanto stava accadendo, come se chi non era direttamente coinvolto non si rendesse conto dell'impatto concreto di quelle decisioni, di quelle norme, sulle vite di tante persone. Credo di poter dire che il concetto di "razza" non era radicato nella cultura italiana e questo salto improvviso lasciò molti quasi increduli. Certo il Fascismo esisteva già da molti anni e le guerre in Africa avevano già mostrato tutta la brutalità del colonialismo italiano, ma con le Leggi razziali si aprì una nuova profonda ferita nella nostra società.

Dopo la guerra lei rientrò nel nostro paese solo nel 1946. Quale realtà trovò nella comunità ebraica, una delle più antiche d'Europa?
Era una realtà sconvolta, ferita dal marchio di diversità che le leggi razziali avevano cercato di imporle. Gli ebrei erano e si sentivano italiani. La mia famiglia era italiana da sempre e non avremmo saputo dove trovare altrove la nostra origine. Eravamo talmente integrati, ci sentivamo a tutti gli effetti "oriundi" che quando si aprì questa sorta di enorme spartiacque tra noi e il resto della società fu prima di tutto una terribile e drammatica sorpresa. L'ebraismo era talmente radicato nella cultura italiana che non si riusciva nemmeno a immaginare ciò che invece era accaduto. Certo, prima delle Leggi razziali e di Auschwitz c'erano state le misure contro gli ebrei assunte dalla Germania e l'intera politica di Hitler fin dall'inizio. Quindi nel 1946 trovai le tracce visibili di questa ferita e del dolore che aveva lasciato dietro di sé.

A tanti anni di distanza da quella tragedia nel nostro paese c'è chi arriva a parlare di popoli geneticamente propensi a delinquere o di altri che non si possono integrare. Che effetto le fanno queste parole?
Il razzismo come il nazionalismo sono come virus da quali ci si deve difendere. Sempre. L'unica razza che conosco è la razza umana. E l'unico orizzonte che conosco e che giudico possibile è quello del confronto e dell'integrazione. Perciò quando nella civilissima Europa, la stessa nella quale si è realizzata la Shoah, sento che qualcuno torna a inoculare il veleno della razza non posso che preoccuparmi. Ma torno ancora una volta a essere vigile. Credo che ciascuno di noi debba farsi custode del grado di civiltà espresso dalla società in cui vive. Dobbiamo vigilare perché la società in cui viviamo sia davvero multiculturale, perché la diversità non diventi un marchio infamante.

Quella diversità che veniva agitata, e viene agitata ancora oggi, dai razzisti come un pericolo può diventare perciò anche il luogo dell'incontro, della convivenza?
Il concetto di diversità deve essere sviluppato e accolto. La consapevolezza delle diversità deve rimanere ma come elemento di libertà dell'individuo. Sono però la coesistenza e l'integrazione delle diversità che vanno curate e sviluppate. E in un certo senso arriverei a dire anche amate. Credo che una società civile metta al centro della sua esistenza l'integrazione armonica delle diversità che si nutrono l'un l'altra e insieme crescono.

Da questo punto di vista quale può essere oggi il significato della Giornata della memoria?
Noi ebrei sopravvissuti alla Shoah abbiamo dovuto imparare a coesistere con questa ferita. Ma la ferita si riapre ad ogni sollecitazione. Ci sono cose nella vita che non vanno dimenticate e non per un desiderio di vendetta, ma perché la conoscenza del passato è l'unico antidoto per la tutela dei diritti umani. E nuovi campi di concentramento possono tornare a esistere dovunque se i diritti di tutte le minoranze non trovano un terreno fertile sul quale attecchire. Per questo credo si possa affermare che gli ebrei ricoprono lo scomodo ruolo di cartina di tornasole e coscienza critica della democrazia.