sabato 7 marzo 2015


il Fatto 7.3.15
8 marzo
Celebrare così un genere significa chiudere una gabbia
di Barbara Spinelli


È LA PRIMA VOLTA che scrivo sulla festa delle donne, e probabilmente l’ultima. Non mi piacciono le feste “di genere”, come non mi piacerebbero giorni dedicati a una razza. Penso che ogni essere umano abbia più radici, più essenze e propensioni: naturali o non naturali. Non mi piace essere definita, e appena qualcuno lo fa cerco di dirgli che in quella definizione non mi riconosco, se non parzialmente. Ogni definizione la considero una gabbia, anche se distinguere è necessario sempre . Ogni festa in onore di tale definizione ha il potere, temibile, di confermare ed esaltare la gabbia, dunque una sorta di surrettizia intoccabilità e separatezza. Non mi piacerebbe neppure una festa dell’essere umano, e non ho mai capito l’usanza di alzarsi un piedi, quando nella liturgia cristiana si ricorda la Creazione e si evoca il giorno in cui Dio creò l’uomo. Mi sembra un giorno infausto: bisognerebbe sprofondare, piuttosto che di ergersi trionfalmente. Infine: m’infastidisce l’abitudine, apparsa in Germania negli anni 70 e oggi diffusa in Italia, di storpiare la scrittura con il ricorso al maschile-femminile: compagni(e), amici/amiche, cari/care. Aspetto con timore il momento in cui scriveremo, perché imposto dall’etichetta femminista: Dio/Dea. Avrete capito che guardo al femminismo con un certo distacco prudenziale. Come Doris Lessing, sono convinta che il femminismo ha fatto molte nobili battaglie (e ancora molte avrà da farne), ma ha causato non pochi danni, e durevoli, nel rapporto fra uomini e donne.

il Fatto 7.3.15
Pio XII: la santità e le bugie
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, soltanto “Pagine ebraiche” ha finora parlato del film di Liana Marabini “Shades of Truth”, dedicato a Pio XII e al suo impegno – secondo l’autrice del film – nel salvare gli ebrei. Io sono costernata dal manifesto del film. Mostra Pio XII con la stella gialla sulla sua mantellina papale. Più che un falso, una esplicita offesa. Agli ebrei di Roma, e alla notte del 16 ottobre 1943.
Rosanna

PROPRIO in questi giorni un comitato di giovani attivisti e di anziani che hanno ancora memoria della Resistenza a Roma, hanno sollevato il caso della “Dogana”, una palazzina in zona San Lorenzo che si vuole abbattere per ragioni commerciali, e che il comitato difende come un luogo della Shoah italiana. La “Dogana” era la piccola stazione in cui venivano fatti confluire gli ebrei rastrellati a Roma e inviati ad Auschwitz, da cui quasi nessuno è tornato, un luogo appartato e bene organizzato dell’apparato di morte del nazismo e del fascismo, come il binario 21 della Stazione Centrale di Milano. A Roma, però, risiedeva e regnava il Papa (quel Papa, Pio XII) che non ha mai detto una parola, neppure indiretta, neppure implicita, neppure camuffata da formule diplomatiche o religiose (la preghiera) contro le leggi razziali, contro la discriminazione, contro la deportazione. Per questa ragione il falso clamoroso e offensivo della stella gialla sulla veste bianca del Papa – fatto che non è accaduto e che sarebbe stato inconcepibile, come sa bene chi ascoltava voce e discorsi di quel Papa a quel tempo – diventa molto più di una negazione di fatti veramente e tristemente avvenuti (il silenzio). Il falso di quella stella vorrebbe negare il silenzio. Ma il silenzio c’è stato. E quando è così sistematicamente osservato, da un personaggio così rilevante, finisce per evocare una vera e propria complicità. Quando si verificano fatti di immensa gravità come le “leggi razziali”, che il Parlamento italiano di allora ha approvato all’unanimità con grida e celebrazioni, e il re d’Italia (unico in Europa) ha firmato, e di fronte alle quali ha taciuto l’intera classe dirigente italiana e i suoi personaggi più famosi nel mondo, qualunque assenza e silenzio autorevole diventa complicità, perché rimuove ogni ostacolo, anche psicologico e morale, ad accettare la persecuzione. Nonostante le documentate denunce e il celebre testo teatrale di Hochhuth, la deliberata assenza di un Papa dalla scena delle leggi razziali, delle deportazioni, delle notizie sullo sterminio (contrariamente alla opposizione esplicita di altri monarchi e anche di leader fascisti come Dimitar Peshev, presidente fascista del Parlamento bulgaro) rende la trovata della stella gialla sulla veste di Pio XII, più ancora di tutto il film, un atto grave di manipolazione della storia. E fa apparire imbarazzante il titolo “Sfumature di verità” (tra l’altro, parodia inconsapevole di un film soft-porno). S’intende che il film probabilmente si avvale di ogni dato, cifra evento e documento sui tanti ebrei salvati dai cattolici, religiosi e laici. S’intende che questo è vero. Ma non è il tema del film. Il tema è la presunta santità di Pio XII. Sarebbe come assolvere Mussolini per il fatto che tanti italiani (e anche alcuni fascisti) hanno trasgredito quelle ignobili leggi e hanno salvato, o tentato di salvare, concittadini ebrei. C’è un evidente errore in tutta questa operazione. Da decenni si aspettano documenti che restano segreti e sepolti in Vaticano. Ma arriva un film che tradisce la parte di verità che riguarda il Papa, a cominciare dalla indecorosa pubblicità.

il Fatto 7.3.15
Lingotto d’oro
Marchionne pagato come 2 mila operai
Per il manager Fiat-Chrisler circa 66 milioni l’anno
6,6 milioni l’anno: 6,6 di stipendio e 60 di premi e incentivi
di S. Can.


Sessantasei milioni di euro. In un anno. Questa è la “busta paga” di Sergio Marchionne come emerge dal rapporto annuale di Fca (Fiat Chrysler Automobile) depositata presso la Sec statunitense, l’autorità di controllo delle società quotate.
La somma è il prodotto di diverse voci. La prima è il compenso fisso del manager che ha avuto un emolumento annuo di 6.611.518 euro sopravanzando di circa quattro volte il suo presidente, John Elkann, che ha ricevuto uno “stipendio” di 1.685.853 euro. Quello che però ha fatto schizzare verso l’alto la retribuzione di Marchionne sono gli “incentivi straordinari” deciso dal Comitato Compensi, la struttura interna che ha determinato “specifiche transazioni ritenute eccezionali in termini di importanza strategica e di effetto sui risultati aziendali”. Per il 2014, il Comitato ha approvato un pagamento “cash” di 24,7 milioni di euro per Marchionne il quale “è stato determinante in importanti realizzazioni strategiche e finanziarie del Gruppo”. Più in particolare, si legge nel rapporto, “attraverso la visione e la guida del Ceo, la Fca ha visto creare “un enorme valore per la Società, i suoi azionisti e dipendenti”.
A RIPROVA di questo giudizio riverente nei confronti del manager, il Comitato ha poi stabilito (ma la decisione dovrà essere approvata dall’assemblea degli azionisti) di assegnare 1,62 milioni di azioni che, ai valori di ieri, ammontano a 22,6 milioni di euro e, ciliegina sulla torta, un assegno da 12 milioni di euro come buonuscita quando lascerà la compagnia. Totale, 66 milioni. L’amministratore delegato della Fca possiede anche l’1,12% delle azioni Fca dal valore di poco inferiore ai 200 milioni.
La motivazione è data dalla fusione tra Fiat e Chrysler che, nonostante la crisi, ha prodotto anche nel 2014 un margine positivo di 3 miliardi di euro. La “paga” di Marchionne, in ogni caso, equivale alla busta paga di circa duemila operai della Fiat in Italia, tanti quanti i cassaintegrati di Pomigliano. Mai si era visto un rapporto tra lo stipendio di un lavoratore e il manager della stessa azienda pari a uno a mille.

il Fatto 7.3.15
Radicali. Parla Pannella
“I miei e le mie amanti E almeno un figlio...”
Il racconto di una vita: ”La bisessualità è un destino”
“La morte mi arrapa”. “Sono longevo grazie all’autofagia”
E poi la fame atavica: “Mangio 250 grammi di pasta al giorno”
di Antonello Caporale


Marco Pannella è l’unico leader a far parlare il corpo in sua vece. Obbliga cioè il corpo - malgrado una lingua torrenziale - a monumentali battaglie politiche. E così rinsecchisce o ingrassa, si espande (a volte si moltiplica) o si riduce. Lo fa vivere o lo asseta nello stile singolare che lo ha condotto per mezzo secolo a guidare da padre-padrone il Partito radicale. Un partito che poi non è esattamente un partito.
(Al caffè Sharì Varì, tre del pomeriggio). L’idea di morire a volte mi arrapa. Mi rapisce, mi fa sognare. Perché il presente ha due forme: c’è quello dei morti e l’altro dei viventi. Sapere che le mie idee, i miei amori, la mia vita, i miei vizi saranno vivi dopo di me mi consegna a un benessere spirituale, a una condizione di entusiasmo. Ciascuno è corpo e storia e noi siamo seme che cresce. Al liceo nella mia classe eravamo in quarantatré. E in tutta la scuola l’unico Marco ero io. Negli anni ho visto fiorire un gran numero di Marchi. Un po’ di merito secondo te, ce l’ho? Ci sono amici cattolicissimi, che dunque credono nell’aldilà, nella vita oltre la vita, e mi raccomandano sempre: Marco, riguardati. E infatti credo di aver avuto un singolare riguardo per il mio corpo, per tutto quello che gli ho dato e soprattutto per quel che gli ho tolto. I nutrizionisti sono delle teste di cazzo, io credo nell’autofagia. La mia longevità (ho 85 anni e come vedi mi reggo ancora in piedi) è data anche dal digiuno e proprio grazie all’autofagia: le cellule ripuliscono il corpo, assetato o affamato, sacrificano quelle ossidate dallo stress o dagli anni e danno propulsione invece alle altre, capaci ancora di vita sana.
NON RICORDO più quanti scioperi della fame e della sete ho fatto. Ma pochi sanno che ho sempre avuto una fame ciclopica, oltre la misura. Ti dico solo che già a cinque anni impazzivo letteralmente per le salsicce fresche di maiale che, tenendo all’oscuro mamma, mi facevo spalmare su fette di pane fatto in casa, fette tagliate in modo che fossero pesanti come la roccia del Gran Sasso. Ricordo che mia zia, compagna di vacanze della mia famiglia a Giulianova, mi spalmava la salsiccia di carne fresca sul pane abbrustolito. Che bontà! Mamma - che era francese - provava scandalo e timore di infezioni: la carne fresca! Di maiale poi! Io non mi fermavo mai, e facevo ripetute visite alla ghiacciaia (allora non c’era il frigorifero). Prelevavo formaggi stagionati, pezzi di pecorino. Avevo una scaltrezza unica, dissimulavo benissimo. Nessuno in casa pensava che potesse essere il bimbetto a fregarsi il pecorino piccante. I sospetti cadevano sempre sull’incolpevole Annuzza, la domestica.
All’età di militare mi pesarono: 65 miserabili chilogrammi su un metro e novantuno di altezza. La fame non mi ha mai lasciato, e ogni giorno devo gioiosamente provvedere a cucinare almeno 250 grammi di pasta (De Cecco se sono in Italia, a Parigi trovo la Buitoni).
Faccio il sugo io, ai pomodori freschi aggiungo alcuni vegetali (cipolla, carota e qualcos’altro). La dieta ottimale era però di mezzo chilo. 350 grammi appena cucinati e il resto per colazione al mattino seguente, ripassati in padella. Non c’è di meglio al mondo.
Quindi fare sciopero della fame, per uno che mangia tanto, potrebbe sembrare un sacrificio disumano. E qui, nei giorni del digiuno, mi aiuta l’autofagia. Io progressivamente perdo i sapori, le labbra si screpolano, la lingua non avverte, si appisola, si ritrae, si consuma nell’inedia. In quei giorni mi miro allo specchio. Noto che purtroppo perdo la massa muscolare, non quel poco di grasso che pure c’è. Ma so che nel mio corpo le cellule lavorano a mio vantaggio, mi aiutano a sopportare il digiuno. Sono fatto così, magari per altri non vale. Ah, riferiamo che oggi io mi faccio sessanta sigari al giorno. A 24 anni andavo avanti con 80/100 sigarette Celtic. Le Gauloises e le Gitane erano troppo leggere per me.
ORA SAI CHE facciamo? Ordiniamo un tiramisù. Oggi smetto lo sciopero (giustizia giusta, amnistia ai detenuti ndr), lo smetto qui con te. Devi scattarmi una foto. Voglio sempre che il momento sia certificato, in qualche modo validato. Scattato? Fammi vedere. Si vede bene la bocca? E il cucchiaino? E la crema?
Il mio corpo, ah questo corpo. Nel linguaggio radicale si dice dar voce, dar mano, dar corpo. E anche l’atto sessuale è una forma di comunione, di convivio. Ho detto, e ora ripeto a te, che probabilmente ho due figli naturali. Te lo dice uno che negli anni giovanili della Fuci faceva maggioranza con i congregati mariani, mi trovavo meglio con loro che con i comunisti. Dico che probabilmente ho due figli perchè le donne con le quali è accaduto (di un concepimento sono certo, del secondo ho qualche dubbio, ma non ho approfondito mai) erano sposate e hanno ritenuto di conservare il loro legame e di farne partecipi i rispettivi compagni della gravidanza e della volontà di portarla a termine.
Perchè mi dici che ho confessato questi segreti quasi con distrazione, con superficialità? Non è assolutamente vero. Sapevo, ero cosciente di dire una cosa grave, impegnativa, importante per me. Non dimenticare che la donna della mia vita è Mirella. Ero in Abruzzo e ricordando quegli anni, erano gli anni dell’Università a Napoli, ho riferito di aver conosciuto una ragazza più giovane di me con un cognome francese. Fu un amore tenerissimo... È stata una parentesi, come altre ce ne sono state. E mi è sembrato un gesto di rispetto e di responsabilità tenere presente quella sua scelta. Non ho voluto invadere l’altrui vita. Quel bimbo o quei bimbi avevano genitori e amore.
Come amore e responsabilità ci fu quando con la mia compagna decidemmo invece di non dare corso alla gravidanza, scegliemmo l’aborto e io fui con lei. Lo praticammo insieme, l’aiutai materialmente. Fummo coscienti e certi della nostra azione. E ci sembrò giusto di non dare vita.
Non dimenticare una terza cosa fondamentale: con il corpo si dà voce e volto alle battaglie e dunque necessariamente anche all’amore. Victor Segalene scriveva: A colui che perviene sin qui malgrado la svolta e i passi falsi. Al compagno che ti dona i suoi occhi, cosa a mia volta devo donare in cambio di questo sguardo?
Si parla di paternità, di maternità. L’uomo e la donna. Ma poi c’è la fraternità. E c’è l’uomo con l’uomo. La mia bisessualità non è stata una scelta ma un destino, in spagnolo si dice destinazione. È stata lo sviluppo di un percorso, il frutto di un rapporto che si condensa in amore dialogico. Quante me ne hanno dette nel tentativo di darmi del “frocio internazionale”.
Ma il partito è comunità, comunione e quindi convivio. Cum vivere. E io ho convissuto, dando parola e ricevendo parola, dando amore e ricevendo amore.
Non voglio avere la presunzione di essere esempio di qualcosa. Sono quel che vedi. Ma non ho mai smesso di credere nella ricerca filosofica dell’amicizia, nell’amore inteso nella sua forma dialogica e anche nella pienezza della fisicità. Ho combattuto, ho dato e ho amato. Teneramente, intensamente.

il manifesto 7.3.15
Opg addio
L’inferno degli ultimi internati di Aversa
I sogni e le paure dei 106 detenuti nel più antico Ospedale psichiatrico giudiziario d’Italia, aspettando l’imminente chiusura
di Eleonora Martini

qui

Repubblica 7.3.15
Il fantasma di Hoche torni nell’oblio

Gentile Augias, non dubito della buona fede di chi sostiene l’eutanasia e del sincero desiderio di veder risolto un problema complesso. Cito però un precedente. Nel 1920 apparve in Germania il saggio L'autorizzazione all'eliminazione delle vite non più degne di essere vissute . Autori Alfred Hoche (psichiatra) e Karl Binding (giurista). I due svilupparono l'idea di “eutanasia” sociale. Il malato incurabile, secondo loro, era da considerarsi non soltanto portatore di sofferenze personali ma anche di sofferenze sociali ed economiche, ragion per cui lo Stato doveva farsi carico del problema che questi malati rappresentavano. Niente di nuovo ma, come forse ricorderà, le cose non finirono nel migliore dei modi. Ogni qual volta si sono privilegiate le leggi positive, in base a problemi utilitaristici, le cose sono finite male. Quando si rompe il contenitore del diritto naturale, che non prevede che si ammazzino le persone, i risultati sono penosi. Purtroppo sembra che le lezioni del passato siano state inutili; stiamo ripercorrendo quello che è accaduto nel secolo scorso; speriamo di non doverne ripercorrere anche l'epilogo.
Dina Nerozzi

Il precedente ricordato dalla signora Nerozzi è atroce.
Alfred Hoche, dei due il più famoso (1865-1943), era uno psichiatra, tra l’altro ostile a Freud e alla psicoanalisi. Raggiunse — comprensibilmente — grande notorietà nella Germania nazista. La sua idea che fosse giusto eliminare le vite “indegne di essere tenute in vita”, era sufficientemente elastica per essere estesa quasi a piacere, facile passare da un programma eugenetico per eliminare gli “idioti”, agli ebrei o agli zingari, per esempio. Hoche operava nella Germania avvilita e frenetica del primo dopoguerra, schiacciata dalle richieste di riparazione dei danni di guerra, dall’inflazione, da spaventose tensioni sociali. La fragile repubblica di Weimar avrebbe infatti presto ceduto al nazismo. Il contesto va richiamato perché, per quanto “squilibrato” fosse Hoche, forse non sarebbe arrivato a tanto in un momento storico diverso. Gli individui “mentalmente morti” erano per lui un peso intollerabile sul bilancio dello Stato, denari sprecati che avrebbero potuto essere utilizzati per migliorare le condizioni generali. Detto questo, trovo profondamente ingiusto richiamare questo abietto precedente in una battaglia tutta diversa. Ogni volta che si sono introdotte innovazioni nella vita sociale, a cominciare dal divorzio, c’è sempre stato chi ha agitato ipotesi terroristiche sulle conseguenze. Per nostra fortuna, oggi nessuno vuole imporre niente; si tratta al contrario di estendere la libertà degli individui dando la possibilità a chi lo desidera di uscire con dignità dalla vita invece di buttarsi dalla finestra. Il fantasma di Hoche può tornare nella tomba.

La Stampa 7.3.15
Il padre uccise il figlio
La psicologa viene assolta


La Cassazione ha assolto una psicologa dei servizi sociali di San Donato Milanese condannata in secondo grado per omicidio colposo per non aver vigilato sull’andamento dei rapporti tra un padre egiziano, che soffriva di disturbi mentali, e il figlio di nove anni affidato ai servizi sociali del comune dell’hinterland milanese perchè i suoi genitori avevano un rapporto altamente conflittuale. Senza successo la mamma del ragazzino, Antonella Penati, aveva cercato di evitare che quegli incontri proseguissero.
Il padre - Barakat Yors - il 25 febbraio del 2009 era andato, come tutte le settimane, a trovare il piccolo e, dopo aver allontanato con una scusa l’educatore presente all’incontro, gli aveva sparato alla nuca e lo aveva accoltellato prima di suicidarsi.
In primo grado, al termine del giudizio abbreviato, erano stati assolti la psicologa Elisabetta Termini, l’assistente sociale Nadia Chiappa e l’educatore Stefano Panzeri per non aver commesso il fatto. Per la Corte di Appello di Milano, invece, la psicologa doveva essere condannata per non aver monitorato «l’evoluzione del rapporto padre-figlio» e non aver attivato le forze dell’ordine; gli altri coimputati andavano assolti in quanto a lei subordinati.

Corriere 7.3.15
Da Camusso a Vendola la sinistra sta con Boldrini
La presidente della Camera sul premier: non perdo tempo in polemiche
E Landini: mi sono rotto dei modi un po’ furbeschi del capo del governo
di Monica Guerzoni


ROMA «Renzi? Abbiamo un sacco di cose da fare, non abbiamo tempo da perdere in polemiche... Quello che dovevo dire l’ho detto». Laura Boldrini chiude gelidamente lo scontro con il premier, che ha accusato la terza carica dello Stato di aver messo i piedi fuori dal perimetro istituzionale. «Difendere le prerogative del Parlamento è il primo dovere di un presidente della Camera» ha replicato la Boldrini e la sfida, c’è da giurarci, continuerà.
L’intervista del premier a L’Espresso ha gettato altro sale sulle ferite della sinistra, già bruciata dal «tradimento» sul Jobs act. Le polemiche non si attenuano. Pier Luigi Bersani si prepara a replicare con forza sabato 14 dal palco di Bologna, dove Roberto Speranza riunirà Area riformista.
Un partito di sinistra con Boldrini e Maurizio Landini, ecco lo spettro che Renzi vede agitarsi davanti a sé. E, dalla trincea del sindacato, Susanna Camusso e Landini respingono con pari durezza l’attacco. Il leader della Fiom non ne può più di esser preso a bersaglio e, da Genova, si sfoga: «Mi sono rotto un po’ le scatole di questo modo un po’ furbesco di Renzi, di non voler fare i conti con quel che dice il sindacato». Al segretario del Pd, Landini contesta il tentativo di «denigrare e strumentalizzare» le battaglie in difesa dei lavoratori: «Noi siamo un sindacato, Renzi deve farsene una ragione. Le caricature le faccia a qualcun altro». Per il segretario dei metalmeccanici il Jobs act è una «legge sbagliata» e il sindacato proverà a cambiare le nuove regole con il referendum abrogativo.
Con altrettanta asprezza, la Camusso chiede al premier «rispetto per il movimento sindacale» e si schiera al fianco della Boldrini: «Penso che le critiche espresse dalla presidente della Camera siano corrette. Siamo di fronte a un governo che agisce prevalentemente per decreto». Poi l’affondo, che fa infuriare i renziani: «È una tendenza che non è in linea con la nostra Costituzione dire che siamo una sorta di Repubblica presidenziale, noi siamo una Repubblica parlamentare».
Acque tempestose, a sinistra. Nichi Vendola sostiene la Boldrini e contesta l’idea che solo Renzi, «il sovrano», possa fare politica: «Non può dare lezione sui perimetri istituzionali uno di quelli che hanno ridotto il Parlamento in una condizione servile». Dietro il sipario delle parole c’è la tentazione, per il fronte anti-renziano, di trovare in Parlamento una saldatura con altre forze politiche contro la legge elettorale. «Se non cambia la riforma del Senato, non sarà possibile votare l’Italicum con i capilista bloccati», insiste Miguel Gotor rilanciando il punto cardine dei ragionamenti di Bersani. L’ex segretario non ha ancora mandato giù l’affronto di quella convocazione al Nazareno «scavalcando i gruppi parlamentari» e respinge l’interpretazione di Renzi, il quale ritiene «incomprensibile» la battaglia dell’ex ministro per modificare l’Italicum. «Quando Bersani dice che il combinato disposto tra Italicum e riforma costituzionale non funziona, esprime un concetto comprensibilissimo — ribatte Davide Zoggia —. Non può dirci che siamo contro di lui a prescindere uno che, quando era minoranza, faceva il pierino e il giamburrasca, minando sia il partito di Bersani che il governo di Letta».
Sulla forma partito, però, i bersaniani non nascondono la soddisfazione per il dietrofront di Renzi, che lavora a una struttura degli iscritti radicata sul territorio. «Benvenuto presidente — festeggia Zoggia —. Renzi si è accorto che le primarie sono un casino e sta venendo sulle nostre posizioni».
I nodi verranno al pettine lunedì, quando il premier tornerà a incontrare i suoi parlamentari per discutere, tra l’altro, di Fisco e Pubblica amministrazione. La minoranza insiste nel chiedere al segretario di fermarsi a ragionare, prima di votare. Vuole che il premier rinunci ai 100 capilista bloccati e che migliori la riforma costituzionale. «Renzi batta un colpo» invocano i bersaniani e minacciano di non votare l’Italicum se il governo insisterà nel voler nominare i parlamentari.

il manifesto 7.3.15
Boldrini: «Renzi? Non ho tempo per le polemiche»
La presidente e il linguaggio sessuato: la grammatica corretta lo impone

qui

Repubblica 7.3.15
Bersani: “Renzi si rivela un ingrato”
L’ex segretario pd replica al presidente del consiglio che lo aveva definito “incomprensibile” sulle riforme La minoranza interna si prepara a non fare sconti in particolare sull’Italicum. Maggioranza a rischio al Senato
di Francesco Bei


ROMA Pierluigi Bersani, attaccato frontalmente da Renzi nell’intervista all’Espresso («la sua battaglia sulla legge elettorale è incomprensibile»), è ormai sul piede di guerra. La calma apparente che si nota sulla superficie del Pd non inganni sul vulcano che sta per esplodere nelle profondità del partito. Lo stesso ex segretario, pur restando in silenzio, in queste ore affida ai suoi lo sfogo per «l’ingratitudine» di Renzi. «Feeling o non feeling, abbiamo sempre mostrato il massimo senso di responsabilità. Se avessimo voluto fare un danno l’avremmo fatto la notte in cui le opposizioni hanno lasciato la Camera. Invece siamo stati noi a garantire il numero legale per far passare la riforma costituzionale. Renzi se l’è già dimenticato?».
Identico atteggiamento di «responsabilità» lo si vedrà martedì a mezzogiorno, quando Montecitorio licenzierà il testo Boschi per passarlo al Senato. Area riformista, il correntone bersaniano, voterà a favore. Ma «i gesti di responsabilità», per Bersani, finiscono qui. La prossima partita, quella che intreccia legge elettorale e riforma del Senato, per l’ex segretario dovrà essere giocata con regole nuove. Miguel Gotor, punta di lancia bersaniana a palazzo Madama, la mette giù piatta: «Se non cambia la riforma del bicameralismo noi non votiamo la legge elettorale. Punto». Il problema è che Renzi e Boschi a ritoccare nuovamente la legge costituzionale non ci pensano lontanamente. «Vorrà dire che andremo al referendum - replicano a palazzo Chigi - e lì si vedrà da che parte stanno gli italiani». Se infatti il ddl Boschi venisse nuovamente rimaneggiato dal Senato, sarebbe necessario un ulteriore passaggio alla Camera. E così via «in un gioco infinito di rimpalli da un ramo del Parlamento all’altro». Il problema, a questo punto, è nei numeri. «Al Senato la maggioranza, dopo la rottura del patto del Nazareno, ha solo 9 voti in più - ricorda ancora Gotor - e Renzi dovrebbe lavorare sull’unità del Pd se vuole portare a casa il risultato».
Essendo almeno una trentina i senatori dissidenti dem, è chiaro che nessuna riforma costituzionale potrebbe passare senza un accordo interno. Ma qui sta il punto e il vero timore dei bersaniani. Ovvero che il premier stia lavorando attivamente per garantirsi comunque un bacino di “disponibili” pronti a surrogare un eventuale défaillance delle minoranze interne. I fari sono puntati su Denis Verdini e su quei forzisti sempre più insofferenti verso la linea Brunetta dello scontro a tutto campo. Se il 10 marzo l’ex Cavaliere dovesse subire una sentenza sfavorevole in Cassazione nel processo Ruby, Forza Italia potrebbe deflagrare definitivamente. E tutti i parlamentari apolidi, spaventati per una fine anticipata della legislatura, potrebbero convergere nell’area di governo per arrivare al 2018. Uno scenario che renderebbe irrilevanti i voti dei dissidenti dem. E se Gotor ironizza sul «naccaverdinismo» (da Paolo Naccarato e Denis Verdini) e sui transfughi che potrebbero soccorrere Renzi, il rischio della marginalità è dietro l’angolo.
Anche per questo il 14 marzo area riformista si riunirà a Bologna, con Bersani, il ministro Martina e il capogruppo Speranza, per alzare le proprie bandiere. Un raduno, in vista della convention del 21 marzo di tutte le minoranze interne, da cui usciranno una serie di richieste precise al governo per ribilanciare a sinistra l’asse della maggioranza. A partire dall’uso del «tesoretto» ricavato dalla discesa dello spread per una misura sociale forte. «Un provvedimento sulla povertà - spiega Speranza - a questo punto è indispensabile. Con gli 80 euro abbiamo favorito il ceto medio-basso, con la riduzione dell’Irap sul lavoro abbiamo favorito le imprese. Ora serve un aiuto a quella parte di popolazione che sta sotto la soglia degli 80 euro e che si trova soprattutto al Sud».
Renzi intanto si gode il primo cambio di passo che si avverte nell’economia reale. E lo lega agli sconquassi che si annunciano dentro la Lega e Forza Italia. «Noi - dice ai suoi siamo quelli della speranza e della proposta, loro quelli della rabbia e della protesta. Se riusciamo a cambiare il clima economico e tornare alla crescita, comunque si dividano faranno fatica».

Repubblica 7.3.15
Il Pm
“Processate Vendola così favorì l’Ilva”

BARI Nel 2010 il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, fece pressioni sul direttore generale dell’Arpa, Giorgio Assennato, perché ammorbidisse la sua posizione nei confronti dell’Ilva sulle prescrizioni di tutela ambientale.
Anzi, ci fu un periodo, nel giugno 2010, in cui Vendola era “imbestialito” nei confronti di Assennato, tanto che in una riunione a cui avrebbe dovuto partecipare lo fece attendere fuori dalla stanza. Così ieri Remo Epifani, uno dei sei pm che si occupa dell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici Ilva, ha tratteggiato in udienza preliminare a Taranto il ruolo che avrebbe avuto, secondo l’accusa, il governatore pugliese, imputato di concorso in concussione aggravata, nel favorire la fabbrica siderurgica che inquinava con le sue emissioni la città. L’udienza si è conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per tutti e 52 gli indagati.

Corriere 7.3.15
Il passo lento della politica sulla riforma della scuola


Una riforma al giorno toglie il medico di torno? Può darsi. Capita però che il turbo riformismo di governo si ingrippi. È il caso della scuola. Il Parlamento mugugna all’idea di trasformarsi in un votificio per i decreti governativi? Benissimo, diamogli fiducia. Niente decreto, ma un disegno di legge: vedrete che la questione dei precari e quella del bonus per le scuole paritarie le risolveremo lo stesso.
Aspetteremo, vedremo. Nell’attesa, però, è forse il caso di porre una domanda che non c’entra con le tattiche di governo. Di chiedersi e di chiedere, cioè, come mai (precari e bonus a parte) si fosse pensato a riformare la scuola italiana attraverso un decreto, seppure illustrato da slides e sottoposto a consultazione online . Non è solo, né soprattutto, questione della presenza, o meno, dei fatidici requisiti di necessità e di urgenza. Prima bisognerebbe ragionare su come possa prendere corpo una riforma, tanto più se si parla di una riforma cruciale come quella della scuola, che chiama in causa l’idea stessa che abbiamo del Paese e del suo futuro. Certo, la velocità è divenuta requisito essenziale della politica, e un passato lontano, in cui tutto era incomparabilmente più lento, non ha risposte da offrire. Ma resta il fatto che una riforma della scuola che ha davvero cambiato, nel bene e nel male, l’Italia c’è stata: l’introduzione della scuola media unica (era il 1962) portò l’obbligo ai quattordici anni, chiuse l’epoca in cui ci si divideva, bambini tra chi avrebbe proseguito gli studi e chi era destinato a un lavoro subalterno, gettò le basi di quella scuola di massa che oggi bisognerebbe adeguare ai tempi nuovi. Alla guida del governo, sorretto dall’esterno dai socialisti, c’era Amintore Fanfani, uno che, quanto a politica del fare, nella storia repubblicana non ha avuto sin qui rivali. Tra gli obiettivi che illustrò alle Camere, dopo averli concordati con Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi, uno (la riforma urbanistica di Fiorentino Sullo) si perse per strada assieme al suo ideatore, un altro (le Regioni) restò a lungo in stand by . La nazionalizzazione dell’energia elettrica, però, la condusse in porto (a tappe forzate, scontrandosi con durissime resistenze). E così fu anche per la riforma della scuola media. Approvata nel pieno delle vacanze, il 31 dicembre.
Le possibili analogie finiscono qui. Perché la gestazione di queste riforme – le più significative nella storia del centrosinistra, anche se il centrosinistra cosiddetto «organico» non c’era ancora – era stata in realtà lunga, complessa, e aveva coinvolto le forze politicamente e intellettualmente più vivaci dell’Italia di allora. Un’Italia capace ancora di appassionarsi anche alla «battaglia del latino». Che voleva dire anche: primato della cultura umanistica o di quella tecnico scientifica? Scuola legata alle esigenze del mercato del lavoro o votata alla formazione dell’individuo? Di qua gli abolizionisti (Pietro Nenni bollò il latino come «la lingua dei signori»). Di là i sostenitori, minoritari ma numerosi e agguerriti tra i cattolici, e presenti anche tra i laici e persino tra i comunisti: fiero sostenitore del latino era stato Concetto Marchesi, lo stesso Antonio Gramsci aveva scritto che il latino e il greco avrebbero dovuto sì essere sostituiti «come fulcro della scuola formativa», ma sarebbe stato difficile trovare alternative che dessero «risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità». Si chiuse con un compromesso, l’abolizione completa sarebbe arrivata solo nei primi anni Settanta. Ma le sorti della battaglia erano segnate. Una simile temperie non può ovviamente essere rieditata, chi si ostinasse a considerare ancora le rif orme come l’esito di un processo politico, sociale e culturale più vasto e complesso sarebbe trattato da nostalgico della democrazia discutidora. Tutto vero. Ma da qui a chiedersi solo, parlando di riforma della scuola, se quello di Matteo Renzi sia stato un passo indietro o un gioco d’astuzia, ne corre.

Repubblica 7.3.15
Rcs, sui libri esclusiva a Mondadori
Il Consiglio: per la cessione trattativa unica con la società del gruppo Fininvest fino al 29 maggio. No di Marchetti e Guarneri
Ultima parola al prossimo Cda. Il ministro Franceschini preoccupato: “Settore sensibile”. Negoziato con Clessidra per le radio


MILANO Due mesi e mezzo per chiudere l’affare Mondadori-Rcs Libri. Il cda della casa editrice di via Rizzoli presieduto da Angelo Provasoli ha deciso ieri a maggioranza di concedere un’esclusiva al gruppo Mondadori fino al 29 maggio, per cercare di trovare un accordo definitivo tra le due case editrici. La notizia è stata salutata con entusiasmo in Borsa dove il titolo Mondadori ha strappato del 7,38% a 1,04 euro mentre per Rcs il rialzo è stato più contenuto, più 2,71% a 1,21 euro.
La manifestazione di interesse da Segrate era arrivata qualche settimana fa e prevedeva l’acquisto del 100% di Rcs Libri a un prezzo compreso tra 120 e 150 milioni. Unendo le forze Mondadori e Rizzoli diventerebbero una potenza nel segmento del “trade”, che nel 2013 valeva 1.258 milioni, con una quota del 38%, che chiaramente diminuisce se si considera il valore complessivo del mercato pari a 2.972 milioni. Per questo motivo l’operazione dovrà anche avere il via libera dell’Autorità Antitrust, per evitare che un singolo operatore venga a determinare una posizione dominante a danno degli editori più piccoli. «Ho letto quello che ha detto il presidente del Consiglio, capisco Matteo, ma io sono preoccupato in particolare per il settore del libro scolastico e del libro», ha osservato il ministro della Cultura Dario Franceschini «É un settore molto sensibile. Del resto non sarà il governo, né il premier né io a decidere. Quando le procedure saranno avviate, a decidere sarà l’Antitrust, un’autorità indipendente che valuterà, secondo le regole del nostro ordinamento, se c'è un rischio di trust o meno».
La decisione di avviare una trattativa in esclusiva, però, non è stata unanime ma presa a maggioranza dei presenti. Due consiglieri, l’ex presidente e giurista Piergaetano Marchetti e Attilio Guarneri, quest’ultimo indicato dalla famiglia Rotelli, hanno votato contro. E hanno battagliato fino all’ultimo affinché Rcs non prosegua nelle trattative dal momento che la decisione di vendere i Libri non era contenuta nel piano industriale triennale presentato a suo tempo dall’ad Pietro Scott Jovane, ed è motivata esclusivamente dall’esigenza di liquidità dell’azienda. Vi è infatti una forte necessità di abbattere l’indebitamento, che a fine 2014 era ancora intorno ai 480 milioni, e di aumentare il margine operativo lordo, per cercare di rientrare nel parametro di 4,5 (debiti su Ebitda) fissato con le banche per settembre 2015.
Il risultato è che si procede con «approfondimenti su termini e condizioni dell’eventuale operazione, riservandosi ogni conseguente valutazione nel merito». Il cda di Rcs si tiene dunque le mani libere e non prende alcun impegno formale per la formalizzazione dell’accordo. Anche perché, e questo è un fatto pubblico, l’assemblea del 23 aprile di Rcs dovrà provvedere a rinnovare l’intero Consiglio di amministrazione in scadenza. E dunque l’organo di governo che verrà eletto avrà mano libera nel continuare la trattativa con Mondadori o nell’interromperla a suo piacimento se il nuovo amministratore delegato elaborerà un progetto diverso per abbattere i debiti della casa editrice. Certo le opzioni sul tavolo non sono moltissime. Nella stessa riunione di ieri è stata avviata anche la negoziazione esclusiva con il fondo Clessidra fondato da Claudio Sposito per la possibile cessione del 44,45% nel gruppo Finelco, quello delle radio (Radio 105, Virgin Radio e Radio Montecarlo). Le valutazioni che gli analisti assegnano a questa quota si aggirano intorno ai 30 milioni, dunque in sé non determinante per risolvere la situazione, ma certo un’altra boccata d’ossigeno per l’azienda. (g. po.)

il Fatto 7.3.15
B. fa il pieno: a lui i libri Rcs, l’amico tratta per le radio
Via libera del Cdadi Silvia Truzzi


Milano Come volevasi dimostrare: gli accorati appelli di ministri e scrittori (talvolta i ruoli coincidono) non hanno fatto nemmeno il solletico al cda di Rcs che ieri ha deliberato il via libera ufficiale alla (s) vendita dell’area libri. Si legge nel comunicato stampa che il cda di Rcs Mediagroup ha deliberato “a maggioranza” (contrari Pier-gaetano Marchetti e Attilio Guarnieri, ndr) di proporre al gruppo Mondadori “la concessione di un periodo di esclusiva sino al 29 maggio 2015” in merito alla manifestazione di interesse per la partecipazione in Rcs Libri, “al fine di approfondire termini e condizioni dell'eventuale operazione, riservandosi ogni conseguente valutazione nel merito”. Ovvero via alle consultazioni dei rispettivi conti, tutto rimandato al nuovo cda di Rcs che sarà probabilmente più favorevole alla linea dell’ad Pietro Jovane, acceso sostenitore della cessione. Comincerà la trattativa sul prezzo: Rcs punta a 150 milioni, ma andrà di lusso se la spunterà a 130 (il massimo che Mondadori è disposta a dare). Sempre che i tre soci di Adelphi, come sembra assai probabile, non si sfilino (cosa che potrebbe accadere anche per la Marsilio di De Michelis). A Segrate intanto si comincia a stappare champagne perché il titolo vola in Borsa: ieri a +9,34%. (Anche Rcs guadagna qualcosa, anche se in misura decisamente minore: +1,69%).
Quella dei libri però non è l’unica cessione, ci sono anche le radio: nell'ambito del piano di cessioni di attività ‘non core’ è stata avviata “una negoziazione in via esclusiva con un primario operatore finanziario per la possibile cessione della quota di partecipazione del 44,45% detenuta in Finelco (di cui fanno parte Virgin, 105, Monte Carlo). A chi? Pare al fondo Clessidra. Di cui è presidente e amministratore delegato Claudio Sposito che è stato per dieci anni managing director di Morgan Stanley & Co e per cinque amministratore delegato di Fininvest (non è un omonimia, è proprio la Fininvest di Berlusconi). Sostanzialmente il consiglio di amministrazione presieduto da Angelo Provasoli (consulente di parte per Fininvest nel lodo Mondadori) potrebbe cedere la partecipazione nelle radio a un ex amministratore delegato della medesima Fininvest e l’area libri direttamente a Mondadori. Tutto intorno a B. Da noi nessuno fa una piega. Le monde però ieri titolava: “Silvio Berlusconi, il businessman è di ritorno”. “Politicamente lo dicono morto, ma eccolo frenetico sul fronte economico con l'ambizione di voler acquistare l'editore Rcs Libri e Rai Way, società della Rai”.
SE GIOVEDÌ Matteo (Renzi) aveva detto (tramite un’intervista all’Espresso anticipata dalla agenzie) di capire Dario (Franceschini), ieri Dario ha detto di capire Matteo. Come direbbe il Furio di Verdone: vedi che è reciproco? Spiega il ministro per i beni culturali: “Ho letto quello che ha detto il presidente del Consiglio. Capisco Matteo, ma sono preoccupato per il settore del libro scolastico e naturalmente del libro in genere: è un settore molto sensibile, del resto non saranno il governo, né il premier né io a decidere, ma quando le procedure saranno avviate, sarà l'autorità Antitrust, un'autorità indipendente che valuterà secondo le regole del nostro ordinamento se c'è un rischio di trust o meno”.

Repubblica 7.3.15
Daniele Morandi Bonacossi Il direttore degli scavi di Ninive: “I jihadisti hanno cancellato opere di grande valore e si finanziano vendendo all’Occidente i reperti”
“È pulizia etnica per cancellare cultura e storia delle minoranze”
intervista di Pietro Del Re


Si accaniscono contro cristiani, yazidi, ma le vittime sono anche musulmani
A Mosul sono stati devastati siti che hanno fatto la storia archeologica della Mesopotamia

«SONO scempi tragici, quelli perpetrati dalle milizie dello Stato islamico, perché fanno parte di un’operazione di pulizia etnica nel nord dell’Iraq», spiega Daniele Morandi Bonacossi, professore di Archeologia del Vicino Oriente all’Università di Udine, sceso in prima linea per salvare dalla furia jihadista lo straordinario patrimonio artistico della piana di Ninive. «Questi forsennati si accaniscono contro comunità non islamiche, come la caldea, la cristiana e la yazida, ma anche contro comunità islamiche come la turcomanna, per costringerle alla fuga prima di operare un sistematico annientamento della loro storia e della loro cultura», aggiunge l’archeologo che sovrintende scavi a poche decine di chilometri da Mosul, nel Kurdistan iracheno.
Da un punto di vista archeologico, quanto è grave la distruzione in corso?
«E’ come se dei pazzi entrassero con le ruspe nel Foro romano o al Palatino, e distruggessero i palazzi imperiali o la casa di Augusto. A Mosul sono stati devastati siti archeologici che hanno fatto la storia dell’archeologia della Mesopotamia. Le notizie sulle distruzioni operate con le ruspe a Nimrud sono scioccanti, ma finché gli islamisti non pubblicheranno un video non avremo riscontri precisi sull’entità dei danni».
E’ vero che alcune statue distrutte erano solo le copie di originali conservati al Museo di Bagdad, appena riaperto?
«Molti degli oggetti che originariamente si trovavano nel Museo di Mosul, devastato la settimana scorsa, come i rilievi di Ninive o le statue della città di epoca partica di Hatra, furono trasferiti al Museo di Bagdad nel 2003. Alcune statue distrutte erano dunque copie di gesso. Ma molte altre erano purtroppo statue originali».
Professore, condivide l’accusa di crimini di guerra, lanciata ieri contro i jihadisti dalla direttrice dell’Unesco, Irina Bokova?
«La distruzione di questo patrimonio culturale, che appartiene all’intera umanità, ricorda quanto accadde durante la guerra nella ex Jugoslavia con l’incendio della biblioteca di Sarajevo e la distruzione del ponte di Mostar. L’aspetto più inquietante di quanto sta succedendo in Iraq è che da qualche settimana le devastazioni si stanno intensificando».
Che cosa si può fare per proteggere questo patrimonio culturale?
«Al momento ben poco, ahimè. Tuttavia, gran parte dei reperti non distrutti viene contrabbandata in Occidente e contribuisce a finanziare le attività terroristiche dell’organizzazione jihadista. Se i reperti vengono trafugati dalla Siria e dall’Iraq, l’altro terminale di questa sciagura è l’Europa, ma anche gli Usa e il Giappone».
In che cosa consiste il vostro lavoro?
«L’obiettivo del il progetto “Terre di Ninive” è proteggere il patrimonio culturale dal vandalismo ma anche dalla follia dell’Is e per farlo bisogna innanzitutto sapere cosa c’è da proteggere. Questa regione dell’Iraq settentrionale è ancora poco esplorata e il primo problema è proprio catalogare il patrimonio culturale. Noi stiamo censendo il patrimonio di una regione a cavallo tra le province di Ninive e Dohuk. Sono appena rientrato in Italia, lasciando una squadra di archeologi in quella regione, dove negli ultimi decenni è stato molto difficile lavorare».
In poche parole, quanto è stata importante la civiltà mesopotamica?
«L’Occidente non sarebbe quello che è se non ci fosse stata la civiltà mesopotamica. Il suo apporto è stato enorme, dallo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento con i processi di domesticazione di piante e di animali, alla nascita degli Stati, delle città e delle prime società complesse e stratificate. L’impero assiro, le cui le capitali sono state così orrendamente devastate in questi giorni, è stato il primo impero globale della storia dell’umanità».


il Fatto 7.3.15
Guerra santa per cancellare arte e storia
Matthiae e lo scempio di Nimrud: “Isis: affermazione di onnipotenza”
di Tommaso Rodano


La notizia dell’ennesimo scempio dell’Isis arriva da Facebook. La riferisce la pagina ufficiale del ministero iracheno del Turismo e delle Antichità: le ruspe dei miliziani dello Stato islamico hanno raso al suolo l’antico sito archeologico assiro di Nimrud, nei pressi di Mosul, città occupata dal regno autoproclamato di al Baghdadi.
È l’ultimo di una serie di sfregi brutali dell’Is nei confronti del patrimonio artistico e culturale dell’Iraq. Arriva pochi giorni dopo la distruzione delle statue e le sculture del museo di Ninive (molte delle quali, secondo le ricostruzioni di alcuni archeologi, erano solo delle copie in gesso), documentata in un video che ha fatto il giro del mondo. “Stavolta parliamo di un luogo assolutamente eccezionale, un patrimonio dell’umanità. Uno dei siti archeologici più importanti non della Mesopotamia, ma del pianeta”. Le parole sono di Paolo Matthiae, professore di archeologia e storia dell’arte, direttore della missione che negli anni ‘60 e ‘70 ha riportato alla luce la città di Ebla, in Siria.
“Gli scavi di Nimrud – spiega Matthiae – sono durati da metà ‘800 fino agli anni ‘90 del secolo scorso. Tra i reperti ci sono alcuni dei tesori custoditi al British Museum. Ci sono i rilievi storici del palazzo di Assurnasirpal II, il sovrano che rifondò Nimrud in maniera spettacolare nel IX secolo avanti Cristo. Un patrimonio archeologico, per capirci, addirittura superiore a quello di un sito come Ercolano”.
LA VIOLENZA contro l’arte e la storia spaventa non meno di quella verso gli esseri umani. “Questi atti mettono in luce una contraddizione profonda nell’Isis. Non c’è solo la distruzione, ma il saccheggio: da un lato cancellano le testimonianze di un passato idolatra, secondo la fede fondamentalista. Dall’altro, invece si adeguano a ciò che di peggio c’è nel mondo contemporaneo: la mercificazione selvaggia”. Un messaggio rivolto all’occidente o al pubblico “interno”? “Queste distruzioni generano indignazione in tutto il mondo civile, non solo occidente o cristiano. Ma l’Isis, come è stato scritto, ha una strategia comunicativa tutt’altro che casuale. Questi atti significano: ‘noi siamo capaci di tutto. E siamo disposti a tutto per abbattere il vostro sistema di valori’. È un’affermazione di onnipotenza” .
L’Unesco ha definito lo scempio di Nimrud un “atto di guerra”. Ma le armi contro le razzie dello Stato Islamico sembrano spuntate. “Qualcosa da fare c’è – conclude Matthiae –. Io ho insistito su una presa di posizione dell’Onu, che dichiari questi atti un crimine contro l’umanità. Può avere un impatto sulla maggioranza tollerante del fronte islamico. In secondo luogo, anche se rischioso, è importante che le popolazioni locali difendano il proprio patrimonio, che ha un’importanza economica oltre che artistica. È successo, ad esempio, con il minareto pendente di Mosul, simbolo della città. L’Isis voleva distruggerlo, ma gli abitanti l’hanno salvato difendendolo in massa. Infine, il mondo occidentale – e gli archeologi di tutto il mondo – si devono preparare a intervenire per ripristinare, nei limiti del possibile, ogni opera d’arte danneggiata”.

il Fatto 7.3.15
Dopo12 anni di guerra
Il museo di Baghdad riapre contro i barbari
di Leonardo Coen


Domenica 1° marzo il bellissimo Museo nazionale iracheno di Baghdad ha riaperto al pubblico, 12 anni dopo i saccheggi e le irruzioni di vandali e ladri d’antichità che avevano approfittato del caos post Saddam. Era fine aprile 2003. Gli americani si erano preoccupati di proteggere il ministero del petrolio, dimenticandosi quanto fosse più prezioso difendere i tesori del museo, uno dei più importanti del mondo, dove erano custoditi 170 mila reperti. La razzia di allora divenne l’emblematica didascalia dello sfascio. Desolante simbolo della caduta di ogni valore: salvo quello legato all’arte rubata... Oggi, invece, spalancare le porte del Museo di Baghdad - peraltro, in anticipo di due mesi - è diventata l’orgogliosa risposta alle furibonde devastazioni jihadiste dell’Isis: il 26 febbraio la distruzione del Museo della Civiltà di Mosul. Il 5 le vestigia di Nimrud. Secondo quanto tramanda la Genesi biblica, fu un nipote di Noè a fondarla, dandole il proprio nome.
Bagdad ha replicato alle devastazioni jihadiste con la cerimonia di riapertura in diretta tv: “Il nostro messaggio è chiaro - ha proclamato il premier Haider al-Abadi - è il messaggio della terra di Mesopotamia, proteggeremo la civiltà e individueremo chi la vuole distruggere”.
I CONFINI dell’attuale Iraq corrispondono più o meno, se si aggiunge un lembo di territorio siriano, all’antica Mesopotamia: tra il Tigri e l’Eufrate tutto quello che è alla base della nostra civiltà trovò luce e consapevolezza: le prime leggi che codificavano i comportamenti sociali, l’astronomia, l’agricoltura, la matematica, l’arte. Il Museo di Baghdad ci documenta quel tempo: i Sumeri inventarono la scrittura, 53 secoli fa. Con la scrittura nacque la Storia. Assurbanipal creò la prima biblioteca enciclopedica del mondo, 4 secoli prima di quella d’Alessandria. Voleva conservare per le generazioni del futuro la saggezza e le conoscenze del passato: le teche di oggi ci mostrano le tavolette d’argilla incise dalla scrittura cuneiforme che hanno nutrito i racconti biblici. Sono ritornati nelle sale del museo imponenti tori alati dalla testa umana, geni protettori del popolo assiro, altorilievi di pietra che erano posti alle porte dei palazzi babilonesi e che pesano parecchie tonnellate: spiccano quelli maestosi che addobbavano Nini-ve.
E ancora: le statue dei sovrani Parti di Hatra, scolpiti all’inizio dell’era cristiana, carichi di suggestione cavalleresca. O le meraviglie dell’arte islamica, che ci riportano alle Mille e una notte. A tutto quello che la furia iconoclasta dell’Isis non tollera, e condanna, in base a un’interpretazione estremista della legge coranica. Gli oggetti di questo museo sono inestimabili. A tal punto che il famoso tesoro di Nimrud in oro massiccio - c’è chi lo paragona a quello di Tutankamen - è al sicuro, nel caveau della Banca d’Iraq, come la testa in cuoio del re Sargon (circa 2340 a. C.).
Dodici anni fa con il collega Guy Chiappavento, riuscimmo a entrare nel Museo appena razziato. Mancavano migliaia di pezzi: 4.300 sono stati recuperati e intercettati alle aste, o nei negozi d’antiquariato di tutto il mondo, in particolare negli Usa (soldati poco scrupolosi avevano tentato di portarseli a casa). Il celebre vaso rituale sumero d’Uruk, alto un metro, in alabastro, l’hanno ritrovato sbriciolato nel portabagagli di una vettura. È stato restaurato ed è esposto di nuovo: rappresenta il culto della dea Innin. All’appello mancano ancora 10mila reperti. Che insieme alla marmaglia devastatrice ci fossero dei ladri professionisti me lo confermò Jabir Khalid Ibrahim, allampanato presidente dell’ufficio nazionale delle antichità irachene: “Hanno selezionato soprattutto pezzi smerciabili e di grande importanza”. Pigliarono il volo pure gli archivi digitali del museo: “Ci hanno portato via la memoria della memoria”. Ricordo che fotografai i frammenti di una statua romana del II secolo: un piede con sandalo, parti di gambale. Vicino, una macchia scura. Sangue. Uno dei ladri si era probabilmente ferito, nel trafugare la statua, buttata giù dal piedistallo che giaceva rovesciato sul pavimento, sotto le teche svuotate.
 Repubblica 7.3.15
Perché Netanyahu ha sfidato Obama
di Ian Buruma


PERCHÉ lo ha fatto? Cosa ha indotto Benjamin “Bibi” Netanyahu ad accettare l’invito estesogli dai Repubblicani del Congresso, arrivare negli Usa ed attaccare la condotta dal presidente Obama riguardo all’Iran, senza dare alcun preavviso alla Casa Bianca?
Il premier israeliano ha definito la sua missione «fatidica, addirittura storica», ritenendola un’opportunità per esprimere la propria preoccupazione riguardo al destino di Israele e di tutti gli ebrei. Una preoccupazione di cui tuttavia eravamo già a conoscenza, anche se molti ebrei non ritengono che il primo ministro abbia parlato a loro nome. Netanyahu bramava forse gli applausi dei suoi sostenitori repubblicani al Congresso? Sta forse scommettendo su una presidenza repubblicana nel 2016? L’applauso certo lo ha ricevuto, ma alla luce di recenti sondaggi la sua fiducia in tale ipotesi sembrerebbe mal riposta.
Netanyahu potrebbe semplicemente aver visto nel Congresso Usa l’opportunità di estendere la sua campagna elettorale, volta a confermare la propria leadership in Israele. O ha voluto forse fare colpo sugli elettori israeliani, mostrandosi impegnato su un palcoscenico mondiale. Anche questa possibilità appare tuttavia improbabile, dal momento che molti israeliani, per quanto preoccupati dall’eventualità di una bomba nucleare iraniana, hanno aspramente criticato le provocazioni avanzate dal loro primo ministro al presidente Usa e a molti ebrei democratici.
A prescindere da quali possano essere state le sue motivazioni, Netanyahu ha fatto qualcosa che nessun altro leader israeliano era mai riuscito a fare: non solo ha irritato il presidente Obama, ma si è fatto pubblicamente riprendere anche da persone che in condizioni normali appoggerebbero qualsiasi leader israeliano. Costringendo gli americani a dover prendere le parti o di Israele o del presidente del proprio Paese, Netanyahu ha inferto un grave colpo al sostegno per Israele, che a torto o ragione è sempre stato tradizionalmente bipartitico.
Il fatto che Israele abbia sempre potuto contare sul sostegno degli Usa, non ha fatto che confermare ciò che molti hanno dato a lungo per scontato. Ovvero che Israele e America siano legati tra loro come gemelli siamesi. C’è chi pensa che Israele sia un fantoccio di Washington, mentre altri credono che sia vero il contrario. Gli antisemiti sono addirittura convinti che gli ebrei controllino Washington e Wall Street, in una riedizione dei protocolli degli anziani di Sion.
Spesso i nazionalisti europei del XIX e del XX consideravano gli Usa la legittima casa dei capitalisti e dei “cosmopoliti sradicati”, che non provavano alcun senso di lealtà verso il suolo natio. In America, si riteneva, solo il denaro dava potere e gli ebrei dunque dovevano essere potenti.
Benché fosse stato Stalin a coniare la definizione di “cosmopoliti sradicati” per indicare gli ebrei indesiderati, gli antisemiti erano convinti che gli ebrei fossero anche innatamente bolscevichi e che probabilmente anche in Unione Sovietica reggessero le fila del potere. Si riteneva che gli ebrei, capitalisti o comunisti che fossero, non provassero alcun senso di lealtà al di fuori di quello per il proprio popolo, che a partire dal 1948 fu fatto coincidere sempre più spesso con lo Stato di Israele. E Netanyahu, atteggiandosi a leader di tutti gli ebrei del mondo, non ha fatto che rafforzare quella nozione.
Gli Usa, infatti, non sono sempre stati pro-Israele quanto lo sono oggi. I principali sostenitori di Israele un tempo erano i francesi — sino a quando nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni, il generale de Gaulle non prese le distanze dallo Stato ebraico. A partire da quel momento il sostegno americano a Israele è diventato un prodotto della guerra fredda. Con il tempo, però, e soprattutto in ambiti politici conservatori, un atteggiamento critico nei confronti di Israele è stato vieppiù considerato non solo antisemitico, ma antiamericano.
Tale associazione contiene una parte di verità: il vecchio mito antisemitico secondo cui l’America sarebbe controllata dagli ebrei non è del tutto scomparso, in particolare (ma non solo) in Medio Oriente. Ma il fatto che a Washington gli interessi degli Usa fossero quasi automaticamente identificati con quelli di Israele ha reso difficile criticare gli uni senza criticare gli altri.
Sfidando apertamente il presidente Usa, Netanyahu sta spezzando quel nesso, rendendo più facile agli ebrei americani il manifestare un atteggiamento critico nei confronti dei leader israeliani. Ciò renderà anche meno costoso per i politici americani l’opporsi alle politiche israeliane da loro non condivise.
C’è chi scorgerà in tutto ciò una sconfitta per Israele, mentre potrebbe essere vero il contrario: lo sconsiderato viaggio di Bibi a Washington potrebbe infatti rivelarsi una grande opportunità per il suo Paese. Assumendo una posizione più dura verso il proprio alleato, gli Usa potrebbero obbligare gli israeliani a sforzarsi maggiormente per scendere a patti con i palestinesi. Non è certo questo che Bibi si augurava di ottenere. E tuttavia potrebbe rivelarsi il suo più grande successo.
Traduzione di Marzia Porta

il manifesto 7.3.15
Palestinesi come l’Isis, lo slogan per vincere le elezioni israelianeVerso il voto
Gli ultranazionalisti accostano strumentalmente i palestinesi allo Stato Islamico pur di uscire vittoriosi dal voto del 17 marzo
Ma nella campagna elettorale dominano anche i problemi sociali ed economici di tante famiglie israeliane che restano irrisolti
di Michele Giorgio

qui

il manifesto 7.3.15
Netanyahu l’«americano» e la strategia del panicoElezioni israeliane
La politica della paura
di Zvi Schuldiner

qui

La Stampa 7.3.15
Obama e i nuovi diritti civili
di Gianni Riotta


Chi non ricorda il discorso di Martin Luther King a Washington 1963, «I have a dream», che i bambini americani imparano a memoria?
Ma chi ricorda Bayard Rustin, braccio destro del reverendo King, che organizzò, controllato a vista dall’Fbi, il successo della manifestazione? Senza Rustin, scomparso nel 1987, la marcia sarebbe fallita, nessuno ad ascoltare King, e per questo il presidente Barack Obama gli concesse - postuma - la Presidential Medal of Freedom. Oltre a battersi per i diritti civili delle minoranze, Rustin si batteva, in tempi e culture impossibili, per la dignità degli omosessuali. Gay, era sbattuto in cella dai poliziotti come si usava allora, ricattato con scandali e calunnie.
Alla dimostrazione di Washington seguì, il 7 marzo 1965, la marcia di Selma, in Alabama, che - tra le continue violenze della polizia e dozzine di feriti con i manganelli e i gas - avviò l’approvazione del Voting Rights Act e la fine dell’embargo politico contro gli afroamericani. Nel ricordare lo storico corteo - che il governatore democratico razzista Wallace voleva proibire per «intralcio al traffico»- il presidente Barack Obama proverà a dimostrare quanta strada l’America abbia fatto nei diritti civili e quanta ne resti da fare.
Il primo Presidente afroamericano dal 1776 dice «Quando parlo alle mie figlie Malia e Sasha della battaglia per i diritti civili voglio che comprendano: non è un lavoro compiuto» e a Selma, nel Sud Confederato dove il razzismo del codice feroce di Jim Crow durò dalla fine della Guerra Civile 1865 alla presidenza Johnson 1965, Obama elogerà le conquiste di ieri e deprecherà le sconfitte presenti. Se 50 anni fa i neri non potevano votare, andare a scuola, essere eletti, sposare un bianco o anche solo usare bagni pubblici e tram, ora l’America ha conosciuto un presidente nero, Obama, un capo di stato maggiore nero, Powell, neri alla Corte Suprema dal progressista Marshall al conservatore Thomas. Nei media, a Hollywood, nelle università, con più lentezza a Wall Street, gli afroamericani si fanno strada. Spesso in Europa si fa la morale agli Usa sulla tolleranza, ma vedremo quanti anni ci vorranno prima di un turco cancelliere a Berlino, un giamaicano premier a Downing Street, un algerino presidente a Parigi, un romeno al Quirinale.
Obama dirà all’America quello che ripete alle figlie teenager «il lavoro non è finito», guardando al devastante rapporto che il ministero della Giustizia ha appena pubblicato (integrale http://goo.gl/vBdjn6 ) sulla polizia a Ferguson, Missouri, dove un giovane nero è stato ucciso da un agente scatenando mesi di proteste. Prima e oltre la morte di Michael Brown, il Dipartimento di Polizia soffre istituzionalmente di deformazioni razziste, con offese, disprezzo, pochi neri in divisa e il sospetto perenne contro gli afroamericani. Per scongiurare guai più gravi, Ferguson ha licenziato ieri tre agenti e pochi giorni fa, tre secondini del carcere di Attica a New York (dove una rivolta del 1971 finì con decine di morti) sono stati condannati e licenziati per avere massacrato di botte un detenuto nero. Il New York Times denuncia come nelle galere dello Stato, per esempio a Rikers Island, i detenuti soffrano violenze razziste ogni giorno. È vero che le minoranze si macchiano della maggioranza dei reati violenti, ma milioni di cittadini perbene non devono vivere sotto l’ombra del sospetto.
Il presidente Obama percorrerà idealmente lungo l’Edmund Pettus Bridge di Selma, dove la marcia verso Montgomery per il diritto a votare conobbe l’ora più buia, un aspro cammino. Il suo carisma testimonia i progressi immensi, il rapporto su Ferguson le ingiustizie ancor radicate. Diritti civili 2015, non sono più solo votare o non essere discriminati, sono uguaglianza di accesso a scuola e lavoro, diritto di sposarsi - la gioielleria Tiffany fa pubblicità per fedi nuziali con la foto di una coppia di uomini -, diritto all’informazione digitale, diritto alla privacy. Lo stesso New York Times che elogia Obama per il Rapporto su Ferguson lo critica per la legge sulla privacy che bilancia diritti di utenti e grandi aziende come Google e Facebook, dimostrando quanto i «diritti umani e civili» siano mutati dal 1965 a Selma. Obama mediterà su un Paese capace di maturare, sugli eroi che l’hanno spinto sulla giusta strada, John Lewis, M. L. King, Rustin, sui politici che hanno superato il pregiudizio, John e Bob Kennedy, L. B. Johnson, checché dica un film di moda. E avrà accanto a sé il repubblicano George W. Bush, per ricordare che i diritti non hanno colore, né di pelle, né di partito.

La Stampa 7.3.15
Obama sui passi di Martin Luther King
“Basta abusi sui neri”
Il presidente Usa in Alabama 50 anni dopo la marcia che aprì la stagione del riscatto degli afroamericani
di Paolo Mastrolilli


«Porterò con me le mie figlie, per mostrare loro come si può fare la differenza nella vita, anche senza una carica o un titolo importante». E’ una storia ancora senza finale, quella che il presidente Obama racconterà oggi a Malia e Sasha, e a tutta l’America, parlando davanti all’Edmund Pettus Bridge di Selma. Perché cinquant’anni dopo la marcia che aprì la strada al diritto di voto per i neri, la discriminazione razziale è ancora parte della vita quotidiana degli americani, e l’Alabama è ancora al centro delle nuove battaglie aperte per i diritti civili, come quella per i matrimoni gay.
Il 7 marzo del 1965 Martin Luther King si mise alla testa degli attivisti che volevano andare da Selma a Montgomery, la capitale dello stato, per rivendicare il diritto di partecipare alla vita democratica degli Stati Uniti. La polizia li caricò, dando all’America la sua “Bloody Sunday”. Ci riprovarono due giorni dopo, e poi ancora il 21 marzo, quando il presidente Johnson mandò l’esercito a proteggerli, perché il governatore Wallace si rifiutava di farlo. Vinsero, perché arrivarono a Montgomery, e dal loro sacrificio nacque il Voting Rights Act.
L’anniversario
Oggi, cinquant’anni dopo, quell’America torna a Selma guidata dal primo presidente nero, che forse solo ora comincia a sentirsi abbastanza a suo agio nel ruolo di difensore dei neri. Lo fa per celebrare i progressi compiuti in mezzo secolo, ma anche per denunciare i problemi ancora irrisolti. Solo due giorni fa, ad esempio, il dipartimento alla Giustizia ha pubblicato un rapporto sulle pratiche della polizia di Ferguson, quello dove lavorava l’agente Wilson che il 9 agosto scorso aveva ucciso il giovane nero Michael Brown, che somiglia ad un atto d’accusa. E’ vero, Mike non era un santo e Wilson non è stato incriminato perché probabilmente ha sparato per difendersi, ma per il resto il razzismo del 1965 sembra ancora tutto là. «Non penso - ha detto ieri Obama in un’intervista al Joe Madison Show - che questo sia tipico di ciò che accade nel paese, ma non è un incidente isolato. Ci sono circostanze in cui la fiducia fra le comunità e le forze dell’ordine è stata spezzata». Poi, parlando ad un incontro con gli studenti del Benedict College della South Carolina, il presidente ha chiarito che «non era irragionevole decidere che non c’erano abbastanza prove per incriminare l’agente Wilson. Poi però c’è un altro aspetto, cioé come vengono trattati i cittadini afro americani, e qui c’erano sistematici abusi contro di loro».
Polizia violenta
Ferguson è solo uno dei problemi. Sul piano economico i neri restano molto indietro, non solo per colpa loro, e infatti il tasso di disoccupazione degli afro americani è doppio rispetto a quello dei bianchi. Selma, per esempio, aveva 28.400 abitanti nel 1960, di cui la metà era nera: ora ne ha 20.000, l’80% sono neri, e la disoccupazione è due volte la media nazionale. Gli stessi diritti politici, che nacquero dalla marcia della “Bloody Sunday”, sono stati scalfiti dalla sentenza del giugno 2013, con cui la Corte Suprema di Washington ha consentito proprio all’Alabama, e ad altri otto stati in prevalenza del sud, di cambiare le regole del Voting Rights Act senza chiedere l’approvazione federale.
I diritti negati
Ci sono altri diritti civili, poi, che mancano, e altre discriminazioni che continuano. Ancora l’Alabama, ad esempio, si sta opponendo ai matrimoni gay con una determinazione che ricorda quella usata contro i neri. La Corte Suprema locale ha appena rifiutato di applicare la sentenza di un tribunale federale che li autorizza, aspettando che sul tema si pronunci la Corte Suprema di Washington. Le donne poi, anche a Wall Street o nella Silicon Valley, continuano a guadagnare in media un terzo in meno degli uomini, e secondo l’Onu una bambina nata oggi avrà bisogno di 81 anni per avere le stesse opportunità di un maschio. Oggi dunque a Selma si ricorda una marcia che non è ancora finita.

La Stampa 7.3.15
Tra cinque anni i bambini bianchi saranno una minoranza negli Usa


Fra soli cinque anni, nel 2020, i bambini bianchi non saranno più la maggioranza negli Stati Uniti. E poco dopo, nel 2044, l’intera popolazione bianca diventerà minoranza. Sono gli ultimi dati pubblicati martedì scorso dal Census Bureau, che aiutano anche a mettere in prospettiva le commemorazioni di oggi a Selma e in generale il problema razziale.
La trasformazione
L’immigrazione sta cambiando la faccia dell’America, molto più rapidamente di quanto non riescano a farlo la politica e la cultura. Secondo il rapporto del Census intitolato «Projections of the Size and Composition of the U.S. Population: 2014 to 2060», in questo arco di tempo la popolazione degli Stati Uniti salirà da 319 a 417 milioni di persone, e nel 2060 un quinto degli abitanti saranno nati all’estero. Questo afflusso di immigrati, e la forte crescita di quelli già presenti negli Usa, cambierà per sempre la demografia e l’etnia del paese. Non saranno i neri, ad aumentare, ma piuttosto i latini e gli asiatici, che si moltiplicano grazie ai nuovi arrivi e agli alti tassi di fertilità. Già fra cinque anni, i bambini bianchi non ispanici scenderanno in minoranza, e tutti gli altri sommati diventeranno il 50,2% del totale. Nel 2044 la tendenza si completerà, e gli americani non bianchi diventeranno il 50,3%. I bianchi non ispanici resteranno il gruppo più ampio, perché le minoranze saranno divise fra varie etnie, ma non saranno più la maggioranza e nel lungo periodo diventeranno sempre meno rilevanti. Basti pensare che nel 2060 gli abitanti bianchi non ispanici sotto i 18 anni d’età scenderanno al 36% del totale, avviati in sostanza a diventare minoranza anche rispetto ad altri singoli gruppi come quello latino.
Questa trasformazione spiega quanto sia già superato il dibattito razziale in corso oggi. I neri forse continueranno ad essere discriminati dalle altre ex minoranze che diventeranno progressivamente maggioranza, ma il mutamento culturale riguarderà tutti, a partire dai bianchi, rimettendo in discussione l’intero assetto etnico e sociale degli Stati Uniti.
La questione politica
Una tendenza che aiuta anche a capire le forti resistenze alla riforma dell’immigrazione che il presidente Obama ha tentato prima in Congresso, e poi attraverso i decreti emessi alla fine del novembre scorso. Il Census Bureau ammette che le sue previsioni sono suscettibili a revisione, in base alle scelte politiche. Chi si oppone alla riforma lo sa, e sta cercando di ostruire il corso della storia. Secondo i demografi, la politica ha la possibilità di influenzare questa tendenza, ma non quella di cambiarla, a meno che non muti il quadro generale geopolitico e l’America smetta di attirare nuova immigrazione.
[p. mas.]

La Stampa 7.3.15
Gay Talese
“Non vedremo la fine del razzismo
finché ci sarà la mia generazione”
Lo scrittore Gay Talese: la segregazione continua, in America e anche in Italia
intervista di Paolo Mastrolilli


«Niente, la mia generazione deve morire. Fino a quando questo non succederà, e non lasceremo il passo ad una più giovane e aperta, il razzismo resterà con noi. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia: non pensiate di essere diversi voi».
Gay Talese c’era, cinquant’anni fa a Selma. Era andato a raccontare la marcia per il New York Times, che adesso lo ha rimandato in Alabama a ripercorrere la storia. «Ma è tutto un gioco, una photo opportunity, un’ipocrisia. Sembra che questo piccolo paese del sud sia la radice del problema, quando invece lo stesso razzismo esiste dentro di noi, ovunque nel paese. Andremo, faremo le parate, e poi torneremo alle nostre vite segregate».
Qual è il ricordo più vivo che ha della marcia?
«Vedere Martin Luther King combattere una battaglia di cento anni prima».
Cioè?
«Un premio Nobel per la pace, una figura nota in tutto il mondo, che marciava nel 1965 in Alabama per cercare di affermare gli stessi principi per cui nel 1865 era stata combattuta la Guerra civile. Nulla era cambiato, in un secolo, e questa era la vera tragedia dell’America».
Perché dice che Selma non era la radice del problema?
«Io sono cresciuto nel New Jersey, e vicino al negozio di sarto di mio padre vedevo spesso riunirsi degli uomini vestiti di bianco, che appartenevano al Ku Klux Klan. Il razzismo era dentro di noi, ovunque, solo che noi eravamo ipocriti e lo nascondevamo. Su questo aveva proprio ragione Wallace».
Chi, il governatore dell’Alabama? Ma non era quello che aveva ordinato di picchiare i manifestanti a Selma?
«Una volta l’ho intervistato, all’hotel Pierre di New York, nel cuore dell’Upper East Side privilegiato di Manhattan. Mi prese per un braccio, mi portò alla finestra, e indicandomi la Fifth Avenue mi disse: “Voi ve la prendete con il Sud, ma non siete diversi. Mi indichi una sola persona nera che vede per strada”. Ci pensai su, e mi resi conto che aveva ragione. Io abitavo e abito nell’Upper East Side: non avevo allora, e non ho oggi, un solo vicino di casa nero. Segregazione economica e sociale non dichiarata».
Ma alla Casa Bianca c’è un presidente nero.
«Certo. Se è per questo, il sindaco di New York de Blasio è sposato con una donna nera e ha due figli misti. Sono eccezioni, però. La realtà quotidiana della gente normale non è questa. La nostra società è ancora segregata, e lo è anche la vostra».
Cosa intende dire?
«Io sono italiano, mio padre era emigrato dalla Calabria. Qual è la nostra storia? Dopo il Risorgimento e l’unificazione guidata da Garibaldi, la Calabria, la Sicilia, il sud in generale, erano l’Alabama dell’Italia. La gente povera moriva di fame e cercava di costruirsi una vita decente altrove, come mio padre che partì per l’America. Arrivati qui fummo maltrattati e discriminati, ma poco alla volta riuscimmo ad affermarci. E quando ci integrammo cosa facemmo? Cominciammo a riservare lo stesso trattamento alle altre minoranze, maltrattando i neri come facevano tutti gli altri bianchi. Nel frattempo il razzismo esplodeva anche in Italia».
Cioè?
«Ricordo che una volta venni a Roma, con l’ambasciatore americano Rabb, e l’autista che ci portava si lamentava: “Questa città - diceva - si sta riempiendo di meridionali. Con tutti questi calabresi, sembra di stare in Africa”. Io sono calabrese - pensai - e sono venuto dall’America fino a qui per farmi insultare da questo ignorante. Non lo vede? Non c’è alcuna differenza fra questo razzismo, e quello di Selma contro i neri».
L’Italia è razzista come l’Alabama del 1965?
«Certo. Infatti ora che siete ricchi, e gli immigrati vengono da voi, non volete i neri. Ma anche l’America è razzista come l’Alabama del 1965, tutti lo siamo».
Come ne veniamo fuori?
«E’ un problema economico, perché i neri continuano a non avere le stesse opportunità dei bianchi, ma soprattutto culturale. E a questo punto temo che non sia più possibile cambiare il cuore degli uomini. Bisogna aspettare che muoiano le generazioni razziste, ed educare meglio i giovani, nella speranza che crescano senza questi pregiudizi. E’ difficile, però, perché da ragazzi siamo sensibili, ma invecchiando diventiamo tutti più conservatori e intolleranti verso gli altri».

Repubblica 7.3.15
Ritorno a Selma
Gay Telese, all’epoca inviato del New York Times, rivive la tragedia di 50 anni fa
La marcia guidata dal reverendo Luther King per rivendicare il diritto di voto ai neri che fu repressa nel sangue dalla polizia
Tra i ragazzi del ponte Pettus che fecero la storia d’America “Ma mezzo secolo dopo lottiamo ancora per i diritti”
di Gay Talese


“Il percorso di Selma va ancora completato”. Lo ha detto il presidente americano Obama alla vigilia delle celebrazioni per i 50 anni della marcia di Selma, a cui parteciperà con la famiglia. “Quella marcia non ha solo aperto le porte ai neri. Lì è nata l’America che dà a tutti pari opportunità”

LA SETTIMANA scorsa, mentre nel centro di Selma ripercorrevo la strada imboccata cinquanta anni fa al seguito di centinaia di manifestanti che marciavano per i diritti civili lungo il ponte Edmund Pettus e un’autostrada interrotta da alcuni avvocati bianchi ostili che presto avrebbero dato luogo al “Bloody Sunday”, la mia attenzione è stata attratta da un uomo di mezza età, nero, impegnato con vigore a scavare con una pala buchi nel terreno tra il marciapiede e il cordolo di Broad Street che porta al ponte. L’uomo ha iniziato a piantare violette, azalee e piccoli cespugli di ginepro scaricati dal pianale di un camioncino Ford del 1997 parcheggiato nei dintorni e che appartiene alla Steavie’s Landscape Design and Construction company.
«Steavie non sono io» ha detto dopo aver notato che l’osservavo da un po’, per poi farmi avanti con quelle che deve aver pensato fossero domande sgradevoli. Gli agenti della sicurezza e altri uomini in abito scuro arrivati da fuori stavano perlustrando questa zona in attesa dell’arrivo quevamo. sto fine settimana del presidente Obama per il Bridge Crossing Jubilee. Ma il giardiniere probabilmente è giunto alla conclusione che devo essere troppo anziano per dargli seccature (io mi considero un giovanile ottantatreenne). Così si è rilassato e appoggiatosi alla pala mi ha teso la mano senza guanto e ha detto: «Sono il fratello di Steavie».
Mi ha spiegato che insieme ad alcuni suoi amici sta dando una mano a Steavie nell’impresa, sponsorizzata dal comune, di rendere più bello il centro di Selma. «Avevamo soltanto otto giorni a disposizione per questa missione» ha detto, ammettendo poi che piantare fiori e cespugli lungo i marciapiedi di questa cittadina dalle risorse alquanto limitate e con molte vetrine di negozi chiusi è troppo da chiedere a un’azienda di decorazioni paesaggistiche come quella di Steavie.
Durante la mia passeggiata lungo quattro isolati lungo la Broad Street dal municipio, giù dalla rampa del ponte, ho contato quindici negozi sfitti e vuoti.
Il fratello di Steavie ha 59 anni, è alto un metro e sessantacinque circa ed è nato a Selma. Indossa un cappellino blu da baseball e sulla visiera compare la scritta «Obama». Sotto la giacca di flanella scozzese indossa una felpa grigia con cappuccio, i blue jeans e stivali di cuoio marrone. Quando parla sfoggia un ampio sorriso che fa sembrare più lunghi i sottili baffi sul labbro superiore. «Mi chiamo Ricky Brown» dice infine, come preparandosi a parlarmi con sincerità. «Quando ci fu il Bloody Sunday avevo nove anni. Mia madre era troppo spaventata per permettermi di unirmi alla marcia, anche se mia sorella maggiore, che aveva 15 anni, ebbe il permesso di andarci. Quando i poliziotti e la gang dello sceriffo Jim Clark iniziarono a suonarle a tutti, vicino al ponte, io non sentii il baccano, perché vivevamo più in fondo, dietro i condomini Carver, dall’altra parte della Brown Chapel, dove King aveva fatto i suoi discorsi e da dove era partita la marcia. Più tardi, però, sentii mia sorella rientrare in casa di corsa. Urlava perché le avevano lanciato contro un lacrimogeno e la gang di Clark era arrivata di corsa nella nostra zona, picchiando tutti a destra e a manca con i manganelli, e colpendo tutti quelli che beccava. Io osservai la scena dal secondo piano, dove vive- Avevo una pistola ad aria compressa e presi la mira per colpire i cavalli. Sparai nove colpi, forse, e colpii parecchi cavalli nel culo. Mi trovavo in mezzo a due miei amici alla finestra, mentre sparavo, ma poi uno mi vide e si mise a urlare a un altro: “Ehi, quei ragazzini negri stanno sparando al mio cavallo con una pistola ad aria compressa”. “Qual è stato?” fece l’altro. “Non lo so, cazzo. I negri sembrano tutti uguali”».
Da lì è iniziato il lungo viaggio che ha portato Brown a Detroit, dove in un primo tempo ha trovato lavoro in una catena di montaggio della Chevrolet fino a quando l’amministrazione non ha deciso che i robot potevano svolgere il suo lavoro meglio, per poi occupare per molti anni la posizione di riparatore di tetti iscritto al sindacato. Adesso è tornato a Selma. «Spero che tutte queste piante che abbiamo messo qui intorno questa settimana rendano le cose più attraenti agli occhi della maggior parte dei visitatori che arriveranno come lei per il giubileo» ha detto.
Concordo: i miglioramenti aiutano. Ma gli dico anche che non sono un visitatore qui per il giubileo. Sono venuto a Selma decine di volte, fin dagli anni Cinquanta, durante il mio secondo anno di università come studente della facoltà di giornalismo all’Università dell’Alabama. Mi ci sono recato insieme ad altri giornalisti del New York Times nel 1965, per coprire gli eventi del Bloody Sunday e i suoi strascichi, per ascoltare bianchi furibondi sputare epiteti razzisti contro la televisione al Selma Country Club e bighellonare con lo sceriffo Clark nei pressi del suo appartamento sovrastante la prigione, dove contai ben 88 camicie sue, tutte taglia 17/34.
Sono tornato a Selma di nuovo nel 1990, per scrivere del 25esimo anniversario del Bloody Sunday e dell’approvazione del Voting Rights Act, con tanto di fumo proveniente da una macchina apposita, spruzzato lungo il ponte per simulare il gas lacrimogeno respirato nel 1965 dai dimostranti, e con tanto di registrazione su nastro di urla che evocavano le botte date dallo sceriffo Clark e dai suoi compari. E sono ritornato ancora altre volte in un posto dal quale, proprio come Ricky Brown, sembra che nessuno di noi possa andarsene per sempre.
Selma, appollaiata su un alto promontorio a picco sulla riva nord del Fiume Alabama, prende nome dalla Canzone di Selma di Ossian, che si dice fosse una traduzione del XVIII secolo di un ciclo epico di poesie scozzesi risalenti al Medio Evo, ma di fatto era un mix di leggende e folklore che invece è stato considerato una sorta di bluff letterario. Oggi si torna a parlare di Selma e ci si aspetta che abbia un peso più simbolico di quello che una piccola cittadina qualsiasi è in grado di sopportare.
Senza dubbio qui si è fatta la storia dei diritti civili. I diritti civili della storia americana. Ma io sono cresciuto a Ocean City, in New Jersey, una stazione balneare politicamente e socialmente conservatrice fondata durante l’Ottocento da pastori metodisti. Anche se nella mia cittadina natale gli studenti neri frequentavano la scuola insieme ai bianchi, si trattava per lo più di una comunità in buona parte emarginata. Nel Village Theatre, gli studenti neri e i neri di ogni età se ne stavano seduti per conto proprio in balconata, mentre i bianchi se ne stavano sotto, in platea. Ricordo di aver visto gruppi di appartenenti al Ku Klux Klan ricoperti da lenzuola bianche riunirsi ogni tanto nei nostri campi, a pochi isolati di distanza dal centro affari, dove mio padre, di origini italiane e cattolico, possedeva e dirigeva una sarto- ria. Quando nel 1949 entrai nel campus di soli bianchi dell’Università dell’Alabama, non vidi nulla di diverso da ciò che avevo visto durante l’infanzia trascorsa in New Jersey.
Nel giugno del 1963, in qualità di reporter del Times, intervistai a New York il governatore dell’Alabama, George C. Wallace, arrivato in città per prendere parte come ospite alla trasmissione “Meet the Press” su Nbc. Alloggiava in una grande suite del Pierre Hotel nella Fifth Avenue, dove si svolse la nostra chiacchierata. Per i primi dieci minuti l’intervista andò bene, poi però il governatore Wallace all’improvviso si alzò dalla sedia, mi prese per un braccio e mi portò verso una delle finestre che si affacciano su Central Park e sugli edifici eleganti e costosi che costeggiano la Fifth Avenue. Indicandomi la strada disse: «Eccola qui la roccaforte dell’ipocrisia in America». Dichiarò che la gente di colore, neppure quelle persone che avrebbero potuto permetterselo, non accetterebbe mai di condividere quegli spazi e quella zona con i bianchi, e neppure le aree circostanti, a causa della prassi ancora in vigore, seppure non apertamente riconosciute, di segregazione delle proprietà immobiliari a New York e in altre città del Nord. E poi, proseguì, «se ne vanno al Sud, e si lamentano, sproloquiano di parità di diritti!».
Citai le sue parole esatte nel quotidiano del giorno dopo, ma me ne andai dall’intervista senza riferire al governatore Wallace di aver abitato io stesso in un appartamento a pochi isolati di distanza dal Pierre e di non aver avuto, né di avere ancora oggi, un vicino afroamericano che vive nel mio stesso isolato.
Anche la storia di Selma nello stesso modo sfida i contorni netti della storia: nel 1990 presi parte a un matrimonio interrazziale tra una trentottenne bionda dagli occhi azzurri di nome Betty Ramsey e un cinquantunenne nero di Selma, di nome Randall Miller, proprietario di una prospera agenzia di pompe funebri utilizzata per lo più dai neri. Randall e Betty Miller vivono in una casa di mattoni di otto stanze e con un ampio patio circondata da quattro acri molto curati di terreno erboso, che assomiglia vagamente alla distesa di un campo da golf. In effetti Randall era solito giocare regolarmente a golf, ma non lo fa più a causa della sua agenzia di pompe funebri che gli richiede di lavorare molto, una delle poche attività che restano floride in un’economia depressa. Come si confà a qualsiasi ricco, a prescindere che sia bianco o nero, ammette con riluttanza di essere un milionario.
Randall è anche uno dei neri di Selma più mobili dal punto di vista sociale. È in buoni rapporti con politici del posto quali George P. Evans, il sindaco nero che ha sostituito il sindaco nero che ha sostituito Joe Smitherman, morto nel 2005. È in rapporti cordiali anche con alcuni personaggi di primo piano dell’establishment bianco come l’82enne Joseph Knight, il cui nonno fu sindaco di Selma durante la Guerra civile; con il banchiere Catesby Jones, possidente terriero, il cui bisnonno fu un famoso ufficiale navale dei confederati; con l’avvocato Leopold Blum Babin, che essendo ebreo deplora che così tanti commercianti ebrei di spicco abbiano lasciato Selma (la sinagoga locale a lungo è stata priva di un rabbino a tempo pieno); e con il presidente del Selma and Dallas County Center for Commerce, Wayne Vardaman, che auspica che la città riesca a migliorare la sua immagine, che appare ormai macchiata dagli eventi del 1965 per l’eternità.
«Memphis non celebra l’assassinio» del reverendo Martin Luther King Jr, dice Vardaman, «mentre Selma festeggia il Bloody Sunday». È un ritornello già sentito in questo posto nel quale la gente vorrebbe andare avanti, ma spesso non sa in che modo. L’attuale sceriffo della Contea di Dallas, Harris Huffman, è un cordiale ufficiale bianco di 61 anni, con i capelli grigi e il pizzetto. Teme che troppi residenti, bianchi e neri, siano rimasti fermi al passato. «Io tratto le persone come mi piacerebbe essere trattato io» dice. Poi però aggiunge: «A Selma alcuni vivono ancora negli anni Sessanta, e ce ne sono altri che vivono addirittura nel 1860».
Anche se siamo nel 2015, può risultare difficile indovinare in che anno siamo. Il Selma Country Club, dove nel 1965 vidi alcuni soci sibilare contro la televisione, non ha nessun socio di colore. La scuola superiore di Selma, che in occasione del 25esimo anniversario contava circa un terzo di bianchi, oggi è frequentata esclusivamente da neri e altri studenti di colore. Fuori dalla porta dell’ufficio del preside, nell’atrio, c’è il manifesto del film «Selma», ma il Walton Theatre di Selma è chiuso.
Da quando il film ha mostrato molte riprese scenografiche dell’Edmund Pettus Bridge, alcune di sanguigno splendore, altre di serena tranquillità degna di una brochure turistica, la cittadina è stata invasa da masse di narcisi che con la macchina fotografica trascorrono molto tempo sul ponte per immortalarsi in un autoscatto. Di sicuro il loro numero aumenterà a dismisura questo fine settimana, quando il presidente e forse migliaia di visitatori in arrivo da fuori, neri e bianchi, riempiranno ogni centimetro quadrato di strada per avere una chance di rivivere la storia.
In verità, ciò che si può vedere a Selma, come nella maggior parte delle località in America, è un processo doloroso tuttora in corso. Il parafulmine più famoso di Selma è Rose Sanders, avvocatessa laureatasi a Harvard, che da tempo è il volto ufficiale del movimento dei diritti civili della sua città.
La maggior parte dei bianchi di Selma l’accusa di distruggere il sistema della scuola pubblica locale, di istigare i bianchi a frequentare le scuole private, a causa di una campagna da lei guidata negli anni Novanta che incluse dei sit-in di protesta nella Scuola superiore di Selma e il boicottaggio delle aziende di proprietà di bianchi dopo che il consiglio di amministrazione della scuola, a maggioranza bianco, si era rifiutato di riassumere il primo sovrintendente nero del distretto. Ne nacquero un dibattito e rancore tra i genitori degli studenti di entrambe le razze, e quei sentimenti negativi sono perdurati per decenni senza tregua alcuna.
«Non si può incolpare me del fatto che i bianchi se ne vadano» dice Ms. Sanders. «La colpa è dei razzisti». Per ciò che la concerne, ha cercato di liberarsi del suo nome «da schiava», scegliendo quello di Faya Rose Touré, e da poco dedica molto del proprio tempo al pianoforte per aiutare un gruppo musicale di giovani afro-americani a prepararsi per un concerto che eseguiranno alla presenza del presidente Obama. È difficile guardare Selma e non augurarle qualcosa di più. La sua popolazione, che nel 1960 era di 28.400 abitanti, la metà dei quali nera, oggi è inferiore a 20mila e i neri sono l’80 per cento. Il tasso di disoccupazione qui è superiore al 10 per cento, ovvero il doppio della media dello stato. Da alcuni punti di vista, lo scenario del giubileo di quest’anno non potrebbe essere più cupo, tenuto conto che il Voting Rights Act è stato abrogato dopo una sentenza della Suprema corte degli Stati Uniti.
E nonostante tutto, la vita qui procede come sempre e ovunque, e va avanti e indietro. I Miller ripensano con stupore al mondo di anche solo 25 anni fa, quando Betty aveva la sensazione che nessuna donna l’avrebbe più accolta, nera o bianca che fosse, mentre Randall si è ritrovato a pensare a Emmett Till, «che è stato picchiato e gli è stato cavato un occhio, per lanciarlo poi nel fiume Tallahatchie». In qualche modo, malgrado tutto, se la sono cavata bene.
Dopo la nostra chiacchierata, facciamo un giro nel patio e nei terreni intorno alla loro proprietà. Dato che è disponibile un fotografo, ha scattato molte foto che spero di poter stampare e regalare loro come anniversario per le nozze d’argento.
In alcune di esse compare Randall che abbraccia Betty, e la bacia amabilmente. Per un attimo si ferma a riflettere e dice: «Sai, se cinquant’anni fa da queste parti avessi fatto una cosa del genere a una donna bianca, avrei potuto essere linciato». © 2-015 The New York Times ( Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 7.3.15
Democratura
Oligarchia e populismo la “terza via” di Putin
Illiberale, funestato dai delitti politici, privo di equilibrio tra poteri. Eppure il regime russo non è la semplice tirannia di un uomo solo
Perché le sue radici affondano nella storia
di Lucio Caracciolo


LA Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe. Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa. Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno.
Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore. Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. In parole povere, il regime vigente.
Certo, alcuni coraggiosi sfidano la storia e Putin, confidando nell’avvento finale della democrazia in Russia. Tre anni fa costoro riuscirono per qualche settimana a suscitare manifestazioni di massa anti-regime a Mosca e in altre città. Oggi si sono riaffacciati sulla scena pubblica, in occasione dei funerali di Boris Nemtsov, l’oppositore misteriosamente freddato alle porte del Cremlino. Ma nuotano controcorrente. Nel clima di mobilitazione patriottica eccitato dalla guerra in Ucraina, quattro russi su cinque dichiarano di apprezzare il presidente. Lo scambio proposto da Putin al suo popolo — io vi garantisco sicurezza, stabilità e relativo benessere, voi lasciate la politica a me — sembra ancora reggere. Malgrado le sanzioni, o grazie ad esse. E nonostante il crollo del rublo. Per quanto tempo, nessuno può stabilire.
Nel profondo dello spirito imperiale russo, la democrazia è percepita come il cavallo di Troia dell’Occidente per spac- care la patria e rigettarla in una nuova età dei torbidi. Con i cinesi a Khabarovsk, la Nato a Kaliningrad, gli islamisti padroni del Caucaso e dilaganti nel Tatarstan, gli skinheads a scorrazzare per San Pietroburgo, come nel fosco video di propaganda diffuso dai sostenitori di Putin alla vigilia delle elezioni del 2012.
Che cos’è allora questo putinismo che da quindici anni regge la Federazione Russa? I politologi potrebbero ricorrere forse al termine democratura, crasi di democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista Predrag Matvejevic descriveva i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici. Eppure il caso russo fa storia a sé.
Sotto il profilo geopolitico l’impero di Mosca ama offrirsi, oggi più che mai, come un polo autonomo e sovrano del “mondo cristiano”. Agli esordi, la Russia di Putin anelava ad essere riconosciuta come soggetto indipendente dell’insieme occidentale — leggi: anti-cinese e anti-islamico. Dal 2007 però, offeso dal rifiuto americano a considerarlo un partner paritario, il leader ha portato la Russia a contrapporsi all’Occidente. La guerra in Ucraina, nella quale i russi si percepiscono aggrediti da americani ed europei, lo ha spinto infine verso un’intesa tattica con la Cina e con due potenze islamiche come Turchia e Iran: i nemici storici di ieri sono gli (infidi) alleati di oggi.
Quanto al regime politico: in Russia si vota, certo, ma le elezioni sono “gestite”, ossia più o meno moderatamente manipolate. Al centro del sistema partitico sta Russia Unita, braccio politico del presidente. Il quale incarna il cuore del meccanismo decisionale, secondo il principio della “verticale del potere”. I comandi partono dal Cremlino e si diramano giù fino all’ultimo dei poteri locali. Governo e Parlamento hanno ruoli non paragonabili al rango formale. Putin preferisce infatti decidere radunando piccoli comitati informali. Appena giunto al potere ha stabilito che il lunedì avrebbe radunato al Cremlino alcuni ministri, mentre le questioni serie le avrebbe discusse il sabato in dacia, con i consiglieri fidati e gli esponenti dei “dicasteri della forza” — militari e capi dell’intelligence. L’ukaz che determinava l’annessione della Crimea, ad esempio, il presidente l’ha varato dopo aver consultato solo il segretario del Consiglio di sicurezza, Nikolaj Patrushev, già direttore dell’intelligence, e il ministro della Difesa, Sergej Shojgu.
Putin era e resta uomo dei servizi segreti, nei quali entrò nel lontano 1976. «Un agente del Kgb non è mai ex», ripete. La sua visione del mondo è quella visceralmente securitaria che segna ogni uomo di intelligence. I suoi pochi confidenti vengono quasi tutti dal medesimo ambiente. Ma il presidente non è un dittatore assoluto. È l’amministratore delegato scelto dalle élite russe — in specie dagli apparati della forza ma anche da una pattuglia di oligarchi fidati — per proteggere il sistema. Ad esse risponde. Putin è un capo certo potentissimo, ma revocabile, se al sistema servisse un uomo nuovo. Con la guerra alle porte e la recessione che incupisce le prospettive dell’economia nazionale, non ci stupiremmo se un giorno non troppo lontano qualcuno dei mandatari — ma- gari un generale — lo invitasse a dichiararsi malato per il supremo bene della patria.
Uno degli uomini che lo aiutarono a insediarsi come amministratore delegato della Federazione Russa per salvarla dalla disintegrazione, Gleb Pavlovsky, ha osservato: «È impossibile dire quando questo sistema cadrà, ma quando cadrà, cadrà in un giorno. E quello che gli succederà sarà la copia di questo». E i russi di buona volontà, altrettanto patriottici di Putin, ma che aspirano alla libertà e allo Stato di diritto? Visti dal Cremlino, per loro vale sempre il motto del vecchio ministro zarista delle Finanze, Sergej Witte: «I nostri intellettuali lamentano che non abbiamo un governo come in Inghilterra. Farebbero meglio a ringraziare Iddio che non abbiamo un governo come quello della Cina».

Repubblica 7.3.15
“Europa, stai attenta il modello ha già vinto in Ungheria e Turchia”
L’allarme di John Feffer, direttore del think tank Foreign Policy in Focus: “Instabilità e disuguaglianze favoriscono il contagio”
di Antonello Guerrera


«RUSSIA , Ungheria e Turchia non sono esempi isolati. Se l’Occidente non reagirà in fretta, le democrature si moltiplicheranno. Soprattutto in Europa». L’allarme lo lancia John Feffer. Direttore del think tank di Washington “Foreign Policy In Focus” e acuto esperto geopolitico, Feffer studia da anni le “democrature” del Vecchio continente, come le ha definite, tra gli altri, lo scrittore croato Predrag Matvejevic. E cioè quegli apparati politici che, specialmente dopo l’addio a assolutismi o totalitarismi, garantiscono solo in apparenza libertà e diritti. Sono le “democrazie illiberali” coniate da Fareed Zakaria e invocate oramai apertamente dal premier ungherese Viktor Orbán. Come dimostra l’ultimo rapporto “Freedom House 2015”, per il nono anno consecutivo democrazia e libertà sono regredite nel mondo, stavolta in ben 61 paesi. Tra questi, anche la Russia di Putin.
L’efferato omicidio Nemtsov cambierà Mosca, signor Feffer?
«Difficile dirlo. La Russia è un Paese che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la grande enfasi della “transizione”, non ha sviluppato fondamenta democratiche, a differenze di quelle economiche architettate da oligarchi e “capitalisti rossi”. Questo anche a causa della comunità internazionale».
In che senso?
«L’Occidente pensava che la caduta del Muro e il liberismo economico fossero sufficienti per innescare un solido processo democratico. Ma questo non è successo. Oligarchi e politici come Zhirinovski fecero la guerra a Eltsin, preparando l’avvento di Putin».
Paradossalmente, però, Russia e Turchia negli anni scorsi si sono avvicinate molto all’Europa e ai suoi valori, per non parlare dell’Ungheria, già membro Ue. Poi, però, si sono ritratte ed estremizzate. Come mai?
«Ankara ha provato a entrare nella Ue, ma questa ha poi rifiutato, per divergenze economiche e politiche tra stati. Così Erdogan ha sfruttato la delusione dei turchi per allontanarsi dall’Occidente e riavvicinarsi a Mosca, come Orbán del resto. In Ungheria, c’è acredine verso le politiche economiche e sociali della Ue, Budapest si sente minacciata dalla globalizzazione. L’esito della battaglia di Orbán con- tro i valori europei sarà decisiva».
Perché?
«Perché se riuscirà a imporsi sull’Europa, la sua Ungheria potrebbe diventare un modello e scatenare altre democrature in incubazione. Penso alle spinte più conservatrici della Polonia o a certe posizioni illiberali del premier Robert Fico in Slovacchia. O alla Croazia. Se cresce la delusione nella politica e nell’economia globalizzata, se non si fa nulla per ridistribuire la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, la democratura non sarà più solo un apparato transitorio, ma diventerà un’alternativa stabile e credibile. E attecchirà anche in Usa, Giappone o Italia. C’è il rischio di diventare tutti piccole democrature».
Ma com’è possibile che il mondo global e ultraconnesso, nel quale i valori democratici sono maggiormente veicolati, rinunci sempre di più a libertà e diritti?
«Perché l’incrocio tra nazioni e culture diverse nel mondo in genere non porta democrazia, ma contrasti. E lo abbiamo visto negli ultimi trent’anni. Basti pensare ai valori occidentali “pericolosi” o “libertini” che hanno unito Russia, Turchia e Ungheria. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Occidente è riuscito a cementare le sue democrazie liberali grazie alle risorse degli Stati Uniti e a un sistema geopolitico relativamente stabile come quello della Guerra fredda. Oggi tutto questo è scomparso».
E dunque qual è la soluzione?
«Bisogna rivalutare il ruolo democratico dello Stato, unico argine contro le disuguaglianze e i lati oscuri dell’economia globalizzata che danno tanti argomenti a gente come Putin e Orbán. Che, non a caso, si pavoneggiano come “difensori dello Stato”. I Paesi Bassi, per esempio, nonostante incarnino una nazione aperta e accogliente, mantengono welfare e sicurezze sociali poderosi. Questa è la via. Purtroppo, l’Europa sta andando nella direzione opposta».

il Fatto 7.3.15
Ecco i 6 impegni di Tsipras. La Troika dice no
Lettera all’Eurogruppo con nuovi tagli di spesa e qualche intervento sociale
I creditori: “Prima deve parlare con noi”
di Marco Palombi


Mi dispiace, non ci siamo capiti: adesso nelle lettere ufficiali si scrive “Istituzioni” (Fmi, Bce e Commissione) invece di “Troika”, ma sono sempre loro che decidono e sulla base del vecchio Memorandum. Questo è in sostanza il “pizzino” che da Bruxelles ieri hanno spedito ad Atene: niente anticipi sui prestiti, fino a che non fate esattamente quel che vi abbiamo chiesto (o ordinato). Quelli che seguono, sono gli aridi fatti. Il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, ha inviato al presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, una lettera in cui elenca le sei riforme che il governo di Alexis Tsipras intende adottare entro aprile: si va da provvedimenti spot come l’uso di studenti, domestici e turisti come “delatori fiscali” ad un nuovo regolamento per la concessione di licenze sul gioco d’azzardo elettronico (da cui Atene spera di incassare 500 milioni di euro) ; ci sono nuovi tagli ai ministeri per 61 milioni e sugli appalti pubblici per altri 140 fino ad una sorta di social card per fornire ai più poveri energia elettrica, sostegno per l’affitto e buoni pasto (costo 200 milioni). Non mancano le eterne riforme del fisco e della Pubblica amministrazione.
SONO I PRIMI DUE PUNTI della lettera, però, i più interessanti: intanto l’istituzione di un “Consiglio fiscale”, un’Autorità indipendente che monitori le politiche governative, stili previsioni economiche e rediga periodiche “spending review”; in secondo luogo modifiche alla stesura del bilancio statale con tetti di spesa e meccanismi correttivi automatici per i vari settori dello Stato da sottoporre a piani pluriennali di riduzione delle spese. Tutto da approvare entro aprile in cambio di un rapido sblocco di una prima parte di aiuti (che poi sono prestiti): la richiesta è arrivata a Bruxelles e ha tutti i contorni dell’urgenza visto che Atene deve rimborsare debiti per 4,3 miliardi entro marzo (la prima tranche da 300 milioni, su un totale di un miliardo e mezzo di pertinenza del Fmi, è stata pagata ieri). Insomma l’austerità non pare proprio finita, nonostante lo spericolato annuncio di Tsipras nella notte della vittoria elettorale.
Il problema è che ai creditori della Grecia - di solito pudicamente chiamati istituzioni internazionali o anche partner europei - tutto questo non basta affatto: troppo generici gli impegni, poco affidabili i nuovi leader greci. E così è partito il “pizzino ” riportato dall’Ansa: non ci siamo capiti, così non va. È inutile che scriviate all’Eurogruppo, cioè ai politici, fanno sapere quelli della ex Troika: “Qualunque proposta venga fuori dalla lettera di Varoufakis deve essere prima valutata alla luce degli accordi (il Memorandum, ndr), e questo lo puoi fare solo attraverso la valutazione (della ex Troika, ndr), perché bisogna mettere tutti i dati insieme, guardare alle entrare e alle uscite, quindi non lo possono fare i ministri”. Non è chiaro? “Le riforme devono esser verificate dalle tre istituzioni (Bce, Fmi e Commissione europea, ndr) come scritto nel programma”.
ANTICIPI SUI PROSSIMI prestiti? Non scherziamo: “Siamo molto, molto all’inizio del processo”, “il passo va accelerato”, le trattative con la ex Troika “sono essenziali a priori per avere qualunque discussione in un secondo momento all’Eurogruppo”. Per quanti in Grecia non avessero ancora capito, però, si è incaricato di spiegarlo in chiaro Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco: “Se il programma greco è in grado di funzionare e viene dettagliata la lista di riforme prima della fine di aprile, e se la Troika è d’accordo, e se questo programma è attuato in anticipo, allora ovviamente sarebbe possibile concedere un anticipo”. Cioè no, scordatevelo.
Ormai pure l’eventuale “Grexit” è un’eventualità considerata senza patemi: ieri l’agenzia Ficht, pur ritenendola poco probabile, ha sostenuto in un report che l’uscita di Atene dall’euro non innescherebbe una crisi sistemica nell’area. D’altronde le banche (soprattutto tedesche, francesi e olandesi) che avevano allegramente prestato soldi ai greci fino al 2010 sono già rientrate quasi del tutto dei loro crediti, scaricando l’onere sui bilanci pubblici dell’Eurozona. È tutto a posto. O no?

il Fatto 7.3.15
Salvate il memoriale di Auschwitz
Secondo le autorità polacche il monumento italiano non ha una funzione educativa
Silenzio da Roma
di Angelo d’Orsi


Nella ricorrenza del “Giorno della Memoria” pochi hanno fatto caso alle polemiche del governo polacco verso la Federazione Russa, con un paio di gesti fuori luogo: il mancato invito al presidente Putin alla celebrazione ad Auschwitz il 27 gennaio, e l’affermazione, risuonata come una provocazione, di un ministro polacco per il quale la liberazione del maggior campo di sterminio nazista sarebbe stata effettuata non dall’Armata Rossa, bensì “dagli ucraini”. Una clamorosa falsificazione storica e un’autentica scempiaggine: al tempo gli ucraini o erano inquadrati nell’esercito sovietico, oppure stavano con i nazisti. Insomma, si capisce che nella diffusa russofobia di questi tempi, i polacchi, di tale sentimento forse i principali animatori, volevano assestare un altro colpo alla Russia, schierati come sono con Kiev, e con la Nato che preme per espandersi.
LA RUSSOFOBIA però non c’entra con la decisione del governo di Varsavia di espellere dal museo di Auschwitz il “Memoriale Italiano” finora collocato nello spazio riservato all’Italia all’interno della struttura museale, il ”Blocco 21”. Risalente agli anni ’70 del secolo scorso, il Memoriale fu installato nell’agosto 1979, e poco dopo il Museo fu dichiarato sito Unesco.
Progettata dallo Studio milanese BBPR (Banfi Belgiojoso Peressutti Rogers: Ludovico Belgiojoso fu internato a Mauthausen), l’opera, sulla base di un’ambientazione studiata da Nelo Risi, reca testi di Primo Levi, propone musiche di Luigi Nono, ed è decorata da disegni di Pupino Samonà. Il Memoriale rappresenta, nella sua complessità multimediale, una delle opere più originali nel genere. E certo non è facile trovare un “monumento” che vanti altrettanti nomi di prestigio, nella sua genesi e realizzazione.
Perché dunque, dichiarare, come è stato fatto dalle autorità polacche, che l’opera non esercita una funzione educativa? Dopo un progressivo degrado, causato dal boicottaggio polacco e dal disinteresse dei rappresentanti dello Stato italiano, i polacchi hanno chiuso il padiglione che lo ospita, fin dal 2011, e ora ne hanno disposto la rimozione. Ma perché? Semplicemente per due ragioni: l’opera ricorda tutte le vittime dell’odio nazista, compresi i comunisti, e, quindi, essa reca anche le simbologie del comunismo, come (inaudito!) la Falce e martello e, per sovrammercato, l’effigie di un comunista: Antonio Gramsci. Nel furore degli ex che ha contraddistinto il mondo dopo il 1989, i polacchi giudicano intollerabile la presenza di tali elementi evocativi sul sacro suolo della loro patria. Detto fatto, si dispone lo smantellamento, e la sostituzione con un nuovo manufatto più “consono” ai tempi, politicamente e culturalmente allineato.
ANCOR PIÙ inquietante dell’atteggiamento polacco è l’acquiescenza del nostro governo. Con un placet del ministro Franceschini, l sindaco di Firenze si frega le mani perché il Memoriale dovrebbe essere collocato nella periferia della città, immaginando che l’opera possa portare turisti, ossia denaro. E non ci si rende conto che toglierlo dal suo contesto “naturale” sarebbe un gesto folle, che toglierebbe gran parte del suo valore all’opera, che, vale la pena ricordare, rinuncia all’usuale arsenale di iconografia retorica, e offre una visione conturbante: nel padiglione a spirale (500 mq), si ricrea l’incubo del deportato che aspetta la morte, ma nel contempo si esalta il valore universale della Resistenza al fascismo. Alcuni gruppi e istituzioni, come Gerush 92-Committee for Human Rights, l’Accademia di Brera, vari centri universitari, hanno ingaggiato battaglia contro il trasloco del Memoriale, denunciando il tentativo di cancellare la memoria, “correggendo” la storia, in senso revisionistico. È stato lanciato un Appello, con illustri adesioni, e si cerca una sponda politica, in nome non tanto della battaglia antirevisionistica, a cui pochi sono sensibili, ma almeno della difesa di un’opera (che significa difesa della collocazione per la quale fu ideata). Sono state presentate interpellanze parlamentari. Avranno seguito? Considerando che il capo del governo è stato sindaco di Firenze fino a ieri, v’è da temere che esse rimarranno lettera morta.

il manifesto 7.3.15
Walter Benjamin scrive a Eric Auerbach
di Walter Benjamin

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