Il Foglio 12.6.15
Non ci si può liberare di Medjugorje razionalisticamente
La fede e la razionalità al tempo di Francesco. Il Papa, la dottrina, le fragilità sulle apparizioni della Madonna ai veggenti
di Giuliano Ferrara
Che cosa pensi di Maria Vergine e del marianesimo un gesuita è notoriamente difficile da stabilire. E un amico mi dice, seguendo la sua personale educazione gesuitica, che nella Compagnia alla fine si crede solo in Mosè e in Gesù, e solo in loro. Ma che cosa si deve pensare quando il gesuita divenuto Papa, fatto inaudito, se la prende con la pietà popolare di Medjugorje e tutto quell’affannarsi della Madonna a apparire ai veggenti e a fissare appuntamenti continui? Bè, per noi miscredenti e scettici dinnanzi al soprannaturale miracolistico, che ci deliziammo al famoso racconto di Carmelo Bene, “Sono apparso alla Madonna”, non ci sarebbe problema. Invece il problema c’è, perché la fede degli altri esiste e non va disprezzata se si sia laici veri. Ed il problema è sottolineato dall’accoglienza che il secolo fa alle sferzanti parole di Francesco contro l’idea della Madre di Dio fatta postina. Dicono i secolaristi amici di questo papato, amici interessati e spesso faziosi, che siamo alla grande svolta, e che finalmente un grande uomo di chiesa squarcia il velo dell’ignoranza, libera la fede in Cristo dall’ipoteca della religio, da una devozione o pietà popolare indegna di tempi illuminati, sensisti, materialisti, scientisti.
Lucrezio, poeta e profeta dell’antichità precristiana, credeva negli Dei e pensava che non dovessimo importunarli né lasciarci importunare da loro, abitatori degli intermundia; ma detestava la religio, la pratica religiosa e le credenze sacrificali e rituali, come fonte di angoscia e di sottomissione degli uomini alla paura della morte, ingiustificata a suo dire (sebbene abbia avuto dei dubbi anche lui, e melodiosi). Machiavelli, millecinquecento anni dopo, alla soglia del tempo moderno e all’uscita da un medio evo cristiano pieno d’ombra e di luce, faceva l’operazione opposta: era un senza Dio, ma credeva in modo asciutto, da ateo devoto, nell’effetto positivo della religione allo scopo di dare sostanza, equilibrio e fondamento al mondo, sempre sul punto di crollare nell’insicurezza politica (Gennaro Sasso ha dedicato alla faccenda pagine lineari e puntuali in un breve saggio).
E’ chiaro che non si può risolvere tutto, come spicciativamente sembra voler fare questo Papa misterioso e mirabile, dicendo che la fede è un incontro con Cristo, stop. Il cristianesimo non è solo esperienza soggettiva, non è solo storia evolutiva, non è solo struttura del discorso, i tre idoli del moderno. Anche l’eucaristia è misteriosa, gaudiosa, salvifica, è concetto teologico che nessuno può sottrarre all’irrazionale scelta, molto irrazionale eppure perfettamente evangelica, di credere nella corporeità cristica e nel sangue vivo del patto detto della “nuova ed eterna alleanza”. Insomma: la mozione spirituale o il simulacro devoto di una Madonna sentita come viva e presente in un punto qualsiasi del globo, a Medjugorje oggi come ieri a Lourdes o a Fatima, non è cosa di cui ci si possa liberare razionalisticamente (gesuiticamente?). Più del che cosa, a meno che non si sia seguaci della setta di Odifreddi, conta il fatto che la cosa è creduta, che è fonte di ispirazione e travaglio.
Certo la chiesa ha il diritto e il dovere di vegliare sulla pietà popolare e di distinguere, e sono certo che il lavoro di un talento spirituale e loico come quello di Camillo Ruini e della sua commissione su Medjugorje non è andato sprecato.
Quando se ne conosceranno i risultati, sarà bello riandare a certi giudizi sommari, senza per questo affondare il credere nella mera credulità, nell’effetto di suggestione, nelle pratiche desuete di una devozione che non si porta più.
Però il problema resta. Carità e misericordia, al di fuori del mistero della fede, e della sua razionalizzazione filosofica e teologica nello stile di Paolo VI o di Benedetto XVI o di san Giovanni Paolo II, valgono, direbbe Francesco, come il programma di una Ong. Cioè meno, molto meno di quanto non si pensasse dovesse valere la predicazione di Gesù nell’epoca in cui le cose messianiche narrate nei vangeli sconvolsero l’antico Israele e il nuovo mondo testamentario. Se il popolo cristiano vuole dire la sua sulla povertà, sulla famiglia, sul gender, sull’aborto, sulla vita insidiata dall’eugenetica e su tante altre cose afferenti amore di Dio misericordia e timore di Dio, posto che quel popolo esista ancora e sia ancora titolare del diritto di essere sé stesso, bisogna che la sua retrovia devota sia ben presidiata, anche dalla Compagnia di Gesù e dal suo Papa. Staremo a vedere.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 13 giugno 2015
L’omaggio
Benedetti Michelangeli su Rai1. il ricordo
del grande pianista
Il 12 giugno 1995 moriva a Lugano, in Svizzera, uno tra i massimi pianisti del 900, Arturo Benedetti Michelangeli. Il ventesimo anniversario sarà ricordato con un documentario (una produzione Anele di Gloria Giorgianni) in onda su Rai1 venerdì
19 giugno in seconda serata. Il film, un omaggio al grande musicista fortemente voluto dal direttore dell’ammiraglia Rai Giancarlo Leone, è diretto da Nino Bizzarri. Che racconta: «Ho schizzato un ritratto di Michelangeli ricorrendo alle tracce indelebili lasciate nella memoria di chi lo ha conosciuto da vicino, frequentato e amato». Prosegue: « Non ho mai avuto occasione di
vedere Michelangeli suonare dal vivo, sapevo solo che aveva fama di essere snob e un po’ maniacale. Poi un giorno ho ascoltato la registrazione di Sonata N° 2 di Chopin: ne sono rimasto stregato». Il film, spiega Bizzarri, «mostra la fragilità di un uomo che aspirava alla perfezione: la sua non era una mania, ma un bisogno profondo». «Era un uomo nato per la perfezione e l’assoluto» conferma Paolo Andrea Mettel, storico collaboratore e amico di Michelangeli. «Il documentario di Bizzarri è pieno di rispetto nei confronti del Maestro, e al direttore di Rai1 va il merito di averne voluto celebrare l’incomparabile statura artistica». (R.S.)
Benedetti Michelangeli su Rai1. il ricordo
del grande pianista
Il 12 giugno 1995 moriva a Lugano, in Svizzera, uno tra i massimi pianisti del 900, Arturo Benedetti Michelangeli. Il ventesimo anniversario sarà ricordato con un documentario (una produzione Anele di Gloria Giorgianni) in onda su Rai1 venerdì
19 giugno in seconda serata. Il film, un omaggio al grande musicista fortemente voluto dal direttore dell’ammiraglia Rai Giancarlo Leone, è diretto da Nino Bizzarri. Che racconta: «Ho schizzato un ritratto di Michelangeli ricorrendo alle tracce indelebili lasciate nella memoria di chi lo ha conosciuto da vicino, frequentato e amato». Prosegue: « Non ho mai avuto occasione di
vedere Michelangeli suonare dal vivo, sapevo solo che aveva fama di essere snob e un po’ maniacale. Poi un giorno ho ascoltato la registrazione di Sonata N° 2 di Chopin: ne sono rimasto stregato». Il film, spiega Bizzarri, «mostra la fragilità di un uomo che aspirava alla perfezione: la sua non era una mania, ma un bisogno profondo». «Era un uomo nato per la perfezione e l’assoluto» conferma Paolo Andrea Mettel, storico collaboratore e amico di Michelangeli. «Il documentario di Bizzarri è pieno di rispetto nei confronti del Maestro, e al direttore di Rai1 va il merito di averne voluto celebrare l’incomparabile statura artistica». (R.S.)
La Stampa 13.6.15
Della Germania il catalogo è questo
A Palazzo Ducale di Genova gli scatti famosi di un utopista dell’immagine
di Fiorella Minervino
Sotto i capelli biondi il volto pare scolpito, gambe sode, braccia muscolose, il giovane se ne sta ritto, fiero e determinato, calzoncini corti e canottiera nera, mani fasciate; a fianco sorride l’altro ragazzo, basso, tarchiato, orecchie a sventola, ricci scomposti, petto nudo, ma con guanti da boxe: sono i Pugili come li fissò nel bianco e nero August Sander (1876 Herdorf - 1964 Colonia) fra i massimi fotografi del secolo scorso: era il 1929 quando ritrasse i due tedeschi al loro posto di lavoro, in posa naturale, senza affettazioni, ma nel costume e nei dettagli fisici e psicologici rivelatori dell’attività e moda del tempo. Si ignorano i loro nomi, come del resto quelli degli altri modelli che sfilano nella sala, ecco il Muratore, 1928, un giovanotto risoluto e incurante della fatica, berretto e sciarpa al collo, mano sul fianco, mentre con l’altra sostiene una massiccia asse di legno sulle spalle carica di mattoni. Il Pasticciere, 1929 è un corpulento uomo pelato, camice bianco, baffi, tiene il grosso mestolo in legno e la capiente pentola in una cucina buia, ma imbiancata da tracce di farina. Sembra uscita da un quadro di George Grosz, l’ossuta Segretaria di Radio a Colonia, 1931, seduta di lato, sigaretta in mano, capelli neri corti ben acconciati, abito a fiori, atteggiamento disinvolto da emancipata.
Non mancano artisti e intellettuali, come gli esegeti della Nuova Oggettività che Sander a Colonia, la città d’adozione, frequentò come amico e anticipatore; così il Pittore è Otto Dix in posa nel ’27, ma col nome fra parentesi, come pure l’Architetto, occhialetti tondi, cravattino, frangetta, sigaro in mano, occhi che guardano lontano, non è altri che Hans Poelzig, nello stesso anno. Sono questi alcuni fra i ritratti memorabili nella mostra (in collaborazione con il Goethe Institute di Genova e la Photographische Samlung di Colonia), che con oltre 100 immagini testimonia il genio di Sander nel narrare storie, e nel procedere dai singolo individuo all’archetipo, come si proponeva nella monumentale catalogazione dei tipi umani.
Il suo progetto era di creare una sorta di ritratto universale dell’umanità attraverso i tedeschi contemporanei, scelti per identità, mestieri, condizione sociale, appartenenza. Già nel 1910 aveva cominciato dai contadini e minatori, per continuare con banchieri e mendicanti. Nel ’29 uscirono in un libro solo 60 scatti, e nel 1980, quando era scomparso, venne pubblicato il famoso volume Uomini del XX secolo con 7 suddivisioni esplicative, comprese le Donne e gli Ultimi. Nella fitta galleria di ritratti compaiono pure altri esponenti della società che cambiava: uomini e donne perseguitati nella II Guerra mondiale e i prigionieri, così come avanza il Soldato 1940, con volto e occhi simili al pugile biondo, ma ora in divisa, con elmetto calato quasi fin sugli occhi. Poi si trasforma nel successivo Membro del corpo di guardia SS di Hitler 1940, dallo sguardo di ghiaccio. Ma i nazisti non amavano i suoi lavori: nel 1936 distrussero i negativi del suo Volti dell’epoca.
Sander aveva scoperto la foto a 14 anni quando lavorava come garzone in miniera, gli capitò di aiutare un professionista, e in un’intervista alla Radio nel ’30 ricordava che per lui la macchina fotografica era come la «scatola magica» e che i primi scatti gli procurarono una «gioia immensa» anche se i familiari criticavano le rughe eccessive e «i brutti effetti» delle sue immagini. A Colonia, dove si era trasferito con la moglie Anna, dovette arrangiarsi con battesimi e compleanni, nei fine settimana si trasformava in fotografo ambulante, riprendeva i luoghi nei dintorni da vendere a editori e riviste, ma appena possibile curava i suoi portfolios in bianco e nero, e coltivava le sue ricerche; basta osservare i mirabili studi e ingrandimenti di dettagli, mani, nasi, volti, orecchie, occhi, bocche, talora uniti a collage, strepitosi nel rivelare età e lavoro della persona ritratta, come la nodosa Mano di contadino 1911-14 con gli occhiali fra le dita. La sua consacrazione venne nel 1955, alla mostra The Family of Man al MoMa, curata da Edward Steichen.
Della Germania il catalogo è questo
A Palazzo Ducale di Genova gli scatti famosi di un utopista dell’immagine
di Fiorella Minervino
Sotto i capelli biondi il volto pare scolpito, gambe sode, braccia muscolose, il giovane se ne sta ritto, fiero e determinato, calzoncini corti e canottiera nera, mani fasciate; a fianco sorride l’altro ragazzo, basso, tarchiato, orecchie a sventola, ricci scomposti, petto nudo, ma con guanti da boxe: sono i Pugili come li fissò nel bianco e nero August Sander (1876 Herdorf - 1964 Colonia) fra i massimi fotografi del secolo scorso: era il 1929 quando ritrasse i due tedeschi al loro posto di lavoro, in posa naturale, senza affettazioni, ma nel costume e nei dettagli fisici e psicologici rivelatori dell’attività e moda del tempo. Si ignorano i loro nomi, come del resto quelli degli altri modelli che sfilano nella sala, ecco il Muratore, 1928, un giovanotto risoluto e incurante della fatica, berretto e sciarpa al collo, mano sul fianco, mentre con l’altra sostiene una massiccia asse di legno sulle spalle carica di mattoni. Il Pasticciere, 1929 è un corpulento uomo pelato, camice bianco, baffi, tiene il grosso mestolo in legno e la capiente pentola in una cucina buia, ma imbiancata da tracce di farina. Sembra uscita da un quadro di George Grosz, l’ossuta Segretaria di Radio a Colonia, 1931, seduta di lato, sigaretta in mano, capelli neri corti ben acconciati, abito a fiori, atteggiamento disinvolto da emancipata.
Non mancano artisti e intellettuali, come gli esegeti della Nuova Oggettività che Sander a Colonia, la città d’adozione, frequentò come amico e anticipatore; così il Pittore è Otto Dix in posa nel ’27, ma col nome fra parentesi, come pure l’Architetto, occhialetti tondi, cravattino, frangetta, sigaro in mano, occhi che guardano lontano, non è altri che Hans Poelzig, nello stesso anno. Sono questi alcuni fra i ritratti memorabili nella mostra (in collaborazione con il Goethe Institute di Genova e la Photographische Samlung di Colonia), che con oltre 100 immagini testimonia il genio di Sander nel narrare storie, e nel procedere dai singolo individuo all’archetipo, come si proponeva nella monumentale catalogazione dei tipi umani.
Il suo progetto era di creare una sorta di ritratto universale dell’umanità attraverso i tedeschi contemporanei, scelti per identità, mestieri, condizione sociale, appartenenza. Già nel 1910 aveva cominciato dai contadini e minatori, per continuare con banchieri e mendicanti. Nel ’29 uscirono in un libro solo 60 scatti, e nel 1980, quando era scomparso, venne pubblicato il famoso volume Uomini del XX secolo con 7 suddivisioni esplicative, comprese le Donne e gli Ultimi. Nella fitta galleria di ritratti compaiono pure altri esponenti della società che cambiava: uomini e donne perseguitati nella II Guerra mondiale e i prigionieri, così come avanza il Soldato 1940, con volto e occhi simili al pugile biondo, ma ora in divisa, con elmetto calato quasi fin sugli occhi. Poi si trasforma nel successivo Membro del corpo di guardia SS di Hitler 1940, dallo sguardo di ghiaccio. Ma i nazisti non amavano i suoi lavori: nel 1936 distrussero i negativi del suo Volti dell’epoca.
Sander aveva scoperto la foto a 14 anni quando lavorava come garzone in miniera, gli capitò di aiutare un professionista, e in un’intervista alla Radio nel ’30 ricordava che per lui la macchina fotografica era come la «scatola magica» e che i primi scatti gli procurarono una «gioia immensa» anche se i familiari criticavano le rughe eccessive e «i brutti effetti» delle sue immagini. A Colonia, dove si era trasferito con la moglie Anna, dovette arrangiarsi con battesimi e compleanni, nei fine settimana si trasformava in fotografo ambulante, riprendeva i luoghi nei dintorni da vendere a editori e riviste, ma appena possibile curava i suoi portfolios in bianco e nero, e coltivava le sue ricerche; basta osservare i mirabili studi e ingrandimenti di dettagli, mani, nasi, volti, orecchie, occhi, bocche, talora uniti a collage, strepitosi nel rivelare età e lavoro della persona ritratta, come la nodosa Mano di contadino 1911-14 con gli occhiali fra le dita. La sua consacrazione venne nel 1955, alla mostra The Family of Man al MoMa, curata da Edward Steichen.
Corriere 13.6.15
La prova che i bambini a volte vedono i fantasmi
Uno studio inglese: due terzi dei bimbi ha avuto almeno un’«esperienza para-psicotica» Ma, crescendo, il loro mondo si normalizza
di Matteo Persivale
«La verità è che il mondo intero è un’allucinazione, e in questo universo il bambino è un’allucinazione per gli altri». Jean-Paul Sartre difendeva così un film che l’aveva profondamente emozionato, L’infanzia di Ivan di Andrei Tarkovskij, e viene da pensare proprio alla magia dei bambini di Tarkovskij — al finale di Stalker , con la bimba che fa muovere i bicchieri sulla tavola con il pensiero: o sta soltanto sognando di farlo? — leggendo lo studio pubblicato dalla rivista Psychological Medicine («Psychotic-like experiences in a community sample of 8000 children aged 9 to 11 years: an item response theory analysis», di KR Laurens, MJ Hobbs, M Sunderland, MJ Green e GL Mould) e o ampiamente ripreso dai giornali inglesi, secondo il quale quasi due terzi dei bambini dichiarano di aver avuto almeno un’esperienza para-psicotica nelle loro vite.
E se si considerano le allucinazioni, il 17% dei bambini dai 9 ai 12 anni dichiara di aver avuto un’esperienza simile almeno una volta. Una cifra che si dimezza quando si analizzano i teenager e scende ulteriormente quando si considerano gli adulti.
Le allucinazioni insomma tendono a diventare assai meno frequenti quando si cresce. Nel mondo dell’infanzia cioè le allucinazioni sono un fenomeno relativamente comune: e la realtà si afferma con decisione soltanto crescendo.
Renaud Jardri, professore di psichiatria infantile a Lille, ha spiegato a The Guardian che ha visto molti bambini che hanno avuto allucinazioni ma ci sono criteri precisi che i genitori preoccupati dovrebbero considerare prima di chiedere supporto a un medico per i propri figli: soltanto se le allucinazioni sono «frequenti, complesse, creano stress e provocano degli handicap nella vita di tutti i giorni».
Ma allucinazioni che in qualche modo si associano a emozioni positive e non interferiscono con la vita quotidiana del bambino, con i suoi rapporti interpersonali e familiari, non costituiscono generalmente un problema. Che la realtà dei bambini sia qualitativamente diversa da quella degli adulti è una fonte di costante sorpresa, per i genitori come per gli insegnanti.
Fin dall’età vittoriana la letteratura — seguita, nel Novecento, dal neonato cinema — ha raccontato con precisione questo straordinario mondo così diverso, tanto più ricco e più interessante, di quello degli adulti. Da un libro come Alice nel paese delle meraviglie (Alice scivola giù da una conigliera e finisce in un mondo incantato) a Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak passando per film come Il mago di Oz e Time Bandits di Terry Gilliam, la fantasia dei bambini — il loro mondo incantato, come lo chiamava Bruno Bettelheim nel suo libro Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli) — sfida il mondo poco flessibile degli adulti.
I bambini ci guardano, e lo spettacolo che offriamo non è sempre rassicurante: la forza della loro immaginazione può essere a tratti tanto dirompente che Terry Gilliam ama ripetere che oggi quel film non glielo lascerebbero girare.
Che facciano più spavento i brontoloni ma alla fine innocui «mostri» di Sendak (ai quali ha dato forma, voce e corpo pelliccioso il regista Spike Jonze nel film Nel paese delle creature selvagge ) dei telegiornali degli adulti è tutto da dimostrare. Ma è certo che il classico «amico immaginario» di tanti bambini sia una presenza autentica nelle loro vite: e, più che un’allucinazione, sia una sorta di conseguenza della loro immaginazione così potente, che il mondo degli adulti è troppo piccolo per contenere.
La prova che i bambini a volte vedono i fantasmi
Uno studio inglese: due terzi dei bimbi ha avuto almeno un’«esperienza para-psicotica» Ma, crescendo, il loro mondo si normalizza
di Matteo Persivale
«La verità è che il mondo intero è un’allucinazione, e in questo universo il bambino è un’allucinazione per gli altri». Jean-Paul Sartre difendeva così un film che l’aveva profondamente emozionato, L’infanzia di Ivan di Andrei Tarkovskij, e viene da pensare proprio alla magia dei bambini di Tarkovskij — al finale di Stalker , con la bimba che fa muovere i bicchieri sulla tavola con il pensiero: o sta soltanto sognando di farlo? — leggendo lo studio pubblicato dalla rivista Psychological Medicine («Psychotic-like experiences in a community sample of 8000 children aged 9 to 11 years: an item response theory analysis», di KR Laurens, MJ Hobbs, M Sunderland, MJ Green e GL Mould) e o ampiamente ripreso dai giornali inglesi, secondo il quale quasi due terzi dei bambini dichiarano di aver avuto almeno un’esperienza para-psicotica nelle loro vite.
E se si considerano le allucinazioni, il 17% dei bambini dai 9 ai 12 anni dichiara di aver avuto un’esperienza simile almeno una volta. Una cifra che si dimezza quando si analizzano i teenager e scende ulteriormente quando si considerano gli adulti.
Le allucinazioni insomma tendono a diventare assai meno frequenti quando si cresce. Nel mondo dell’infanzia cioè le allucinazioni sono un fenomeno relativamente comune: e la realtà si afferma con decisione soltanto crescendo.
Renaud Jardri, professore di psichiatria infantile a Lille, ha spiegato a The Guardian che ha visto molti bambini che hanno avuto allucinazioni ma ci sono criteri precisi che i genitori preoccupati dovrebbero considerare prima di chiedere supporto a un medico per i propri figli: soltanto se le allucinazioni sono «frequenti, complesse, creano stress e provocano degli handicap nella vita di tutti i giorni».
Ma allucinazioni che in qualche modo si associano a emozioni positive e non interferiscono con la vita quotidiana del bambino, con i suoi rapporti interpersonali e familiari, non costituiscono generalmente un problema. Che la realtà dei bambini sia qualitativamente diversa da quella degli adulti è una fonte di costante sorpresa, per i genitori come per gli insegnanti.
Fin dall’età vittoriana la letteratura — seguita, nel Novecento, dal neonato cinema — ha raccontato con precisione questo straordinario mondo così diverso, tanto più ricco e più interessante, di quello degli adulti. Da un libro come Alice nel paese delle meraviglie (Alice scivola giù da una conigliera e finisce in un mondo incantato) a Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak passando per film come Il mago di Oz e Time Bandits di Terry Gilliam, la fantasia dei bambini — il loro mondo incantato, come lo chiamava Bruno Bettelheim nel suo libro Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli) — sfida il mondo poco flessibile degli adulti.
I bambini ci guardano, e lo spettacolo che offriamo non è sempre rassicurante: la forza della loro immaginazione può essere a tratti tanto dirompente che Terry Gilliam ama ripetere che oggi quel film non glielo lascerebbero girare.
Che facciano più spavento i brontoloni ma alla fine innocui «mostri» di Sendak (ai quali ha dato forma, voce e corpo pelliccioso il regista Spike Jonze nel film Nel paese delle creature selvagge ) dei telegiornali degli adulti è tutto da dimostrare. Ma è certo che il classico «amico immaginario» di tanti bambini sia una presenza autentica nelle loro vite: e, più che un’allucinazione, sia una sorta di conseguenza della loro immaginazione così potente, che il mondo degli adulti è troppo piccolo per contenere.
Corriere 13.6.15
La fertilità finirà nei nuovi curriculum?
di Luisa Pronzato
I nserire la fertilità nel curriculum? La questione si sta ponendo in Inghilterra dove un quinto delle professioniste laureate nate tra il 1969 e il 1968, non ha figli. A sollevare il dibattito Geeta Nargund, ginecologa e consulente del ministero dell’Istruzione, che ha invitato le donne che vogliono avere figli a farlo prima dei trent’anni. Perché l’orologio biologico non sia una mannaia sui percorsi di carriera femminili servono, sostiene la ginecologa, meno allarmismi e più informazione. Anzi formazione. Sin dalla scuola, sia a bambine sia a bambini. «Le donne istruite — dice — non sono abbastanza istruite sulla fertilità». E proprio per questo ha proposto di inserirla nei programmi di studi. «Ho osservato troppo spesso lo shock e la disperazione sui volti di donne che si rendono conto che è passato troppo tempo per iniziare una famiglia», ha scritto in una lettera al ministro. «Per molti, questa notizia arriva come una vera e propria sorpresa e il senso di devastazione e di rimpianto può essere schiacciante». E ha aggiunto: «L’informazione è potere ed è il modo migliore per aiutare le persone a prendere il controllo sulla loro fertilità». Il discorso, come in Italia, non si ferma a come trasformare i tanti dibattiti sulla conciliazione a una concreta condivisione di ruoli tra donne e uomini. Non demonizzare le madri che lavorano, potrebbe essere il primo punto. Vediamolo concretamente: un recente studio su 50mila adulti in 25 paesi, mostra che le figlie di madri che lavorano hanno realizzato più obiettivi di quelle che non lavorano. Una buona risposta a quel 41 % di adulti che a una ricerca Pew ha risposto che le madri che lavorano sono un male per la società.
La fertilità finirà nei nuovi curriculum?
di Luisa Pronzato
I nserire la fertilità nel curriculum? La questione si sta ponendo in Inghilterra dove un quinto delle professioniste laureate nate tra il 1969 e il 1968, non ha figli. A sollevare il dibattito Geeta Nargund, ginecologa e consulente del ministero dell’Istruzione, che ha invitato le donne che vogliono avere figli a farlo prima dei trent’anni. Perché l’orologio biologico non sia una mannaia sui percorsi di carriera femminili servono, sostiene la ginecologa, meno allarmismi e più informazione. Anzi formazione. Sin dalla scuola, sia a bambine sia a bambini. «Le donne istruite — dice — non sono abbastanza istruite sulla fertilità». E proprio per questo ha proposto di inserirla nei programmi di studi. «Ho osservato troppo spesso lo shock e la disperazione sui volti di donne che si rendono conto che è passato troppo tempo per iniziare una famiglia», ha scritto in una lettera al ministro. «Per molti, questa notizia arriva come una vera e propria sorpresa e il senso di devastazione e di rimpianto può essere schiacciante». E ha aggiunto: «L’informazione è potere ed è il modo migliore per aiutare le persone a prendere il controllo sulla loro fertilità». Il discorso, come in Italia, non si ferma a come trasformare i tanti dibattiti sulla conciliazione a una concreta condivisione di ruoli tra donne e uomini. Non demonizzare le madri che lavorano, potrebbe essere il primo punto. Vediamolo concretamente: un recente studio su 50mila adulti in 25 paesi, mostra che le figlie di madri che lavorano hanno realizzato più obiettivi di quelle che non lavorano. Una buona risposta a quel 41 % di adulti che a una ricerca Pew ha risposto che le madri che lavorano sono un male per la società.
Repubblica 13.6.15
La bella scrittura ricomincia da Internet
Nonostante il dominio delle tecnologia, la calligrafia resiste
E sui social network spuntano anche i font in corsivo
di Michela Di Caro
LINEE flessuose che raccontano un’arte antica e mai dimenticata. Chi pensava che la bella calligrafia fosse morta, assediata dalle moderne tecnologie, deve ricredersi.
Magari non saranno più tempi di penne d’oca e calamaio, ma preziosi pennini impregnati d’inchiostro scivolano ancora, nonostante tutte le diavolerie hi tech, tra le pagine di quanti hanno deciso di lasciare il segno della propria personalità.
A Ragogna, in provincia di Udine, arrivano da tutto il mondo per frequentare lo Scriptorium Foroiuliense, una delle pochissime scuole di amanuensi in Italia, mentre i corsi annuali dell’Associazione Calligrafica italiana (Aci) di Milano, dall’Italico allo Spencerian, registrano sempre il tutto esaurito. E c’è pure chi è disposto a frequentare seminari in qualche eremo sperduto, pur di ritrovare l’armonia del gesto, lavorando sul ritmo, il movimento, gli spazi.
Ad incentivare il ritorno all’utilizzo del corsivo, non è un’improvvisa vena di romanticismo. Se molti si misurano con svolazzi e curve alla ricerca di equilibri e proporzioni formali e personali, il mercato riscopre l’eleganza dei segni: così importanti agenzie grafiche e pubblicitarie puntano sul lettering scritto a mano. Dai coloratissimi sign-painting che ricordano le insegne vintage, ai calligramma (che in pratica sono le poesie in cui i versi in corsivo vengono stampati in modo da formare disegni decorativi o sagome di oggetti), fino ad arrivare alla calligrafia sperimentale dove pensieri, immagini, parole diventano espressione grafica che mescola inchiostri neri e colorati. E poi menu, inviti per party e nozze, etichette, libri e poster impreziositi da testi in bella calligrafia. Sui social network, primo tra tutti Pinterest, si moltiplicano foto di font in corsivo, smartphone e tablet si stanno adeguando con applicazioni per la scrittura manuale direttamente sugli schermi; ma anche i principali siti web, quelli che riscuotono l’interesse soprattutto delle nuove generazioni, propongono titoli, header o testatine scritte a mano. Insomma, la costruzione di un futuro che volendo essere più attraente, delicato, elegante, si appoggia con decisione al passato.
Insomma, tutti a scuola a imparare quanto avevamo dimenticato: le legature, ovvero i tratti che uniscono le lettere, i movimenti della mano, le proporzioni, ma soprattutto come impugnare la penna, con leggerezza. Ma la professione di Calligrafo non si improvvisa.
«Richiede anni di studio ed esercizio», spiega Barbara Calzolari, tra i massimi esperti italiani dello Spencerian, l’arte della calligrafia americana dell’800, famosa per la notevole varietà di lettere e curve ornamentali. «La scrittura vuole tempo e quindi è un rituale, una parte della tua vita che rimane. Lasci un segno. Ci vuole molta dedizione per imparare a comunicare alle mani quello che gli occhi vedono».
Ogni carattere è infatti basato sulla costruzione, sulla sequenza di alcuni segni «che devono essere fatti secondo regole precise - continua-, partendo da un certo punto e con la penna inclinata con una certa gradazione. L’importante nello scrivere è rallentare, andare adagio tenendo insieme il cer- vello e la mano».
E pensare che in Italia, l’insegnamento della bella scrittura non è più obbligatorio da circa quarantacinque anni (1970). Eppure scrivere a mano, magari in bella calligrafia, proprio perché un processo che richiede tempo e attenzione, è un potente scacciapensieri. In più, facilita la capacità di osservazione, aiuta a fissare la memoria, a indagare i pensieri, a elaborare idee e ragionamenti, oltre a costituire una delle espressioni più autentiche dell’identità personale, dato che la grafia di ciascuno di noi è unica.
La bella scrittura ricomincia da Internet
Nonostante il dominio delle tecnologia, la calligrafia resiste
E sui social network spuntano anche i font in corsivo
di Michela Di Caro
LINEE flessuose che raccontano un’arte antica e mai dimenticata. Chi pensava che la bella calligrafia fosse morta, assediata dalle moderne tecnologie, deve ricredersi.
Magari non saranno più tempi di penne d’oca e calamaio, ma preziosi pennini impregnati d’inchiostro scivolano ancora, nonostante tutte le diavolerie hi tech, tra le pagine di quanti hanno deciso di lasciare il segno della propria personalità.
A Ragogna, in provincia di Udine, arrivano da tutto il mondo per frequentare lo Scriptorium Foroiuliense, una delle pochissime scuole di amanuensi in Italia, mentre i corsi annuali dell’Associazione Calligrafica italiana (Aci) di Milano, dall’Italico allo Spencerian, registrano sempre il tutto esaurito. E c’è pure chi è disposto a frequentare seminari in qualche eremo sperduto, pur di ritrovare l’armonia del gesto, lavorando sul ritmo, il movimento, gli spazi.
Ad incentivare il ritorno all’utilizzo del corsivo, non è un’improvvisa vena di romanticismo. Se molti si misurano con svolazzi e curve alla ricerca di equilibri e proporzioni formali e personali, il mercato riscopre l’eleganza dei segni: così importanti agenzie grafiche e pubblicitarie puntano sul lettering scritto a mano. Dai coloratissimi sign-painting che ricordano le insegne vintage, ai calligramma (che in pratica sono le poesie in cui i versi in corsivo vengono stampati in modo da formare disegni decorativi o sagome di oggetti), fino ad arrivare alla calligrafia sperimentale dove pensieri, immagini, parole diventano espressione grafica che mescola inchiostri neri e colorati. E poi menu, inviti per party e nozze, etichette, libri e poster impreziositi da testi in bella calligrafia. Sui social network, primo tra tutti Pinterest, si moltiplicano foto di font in corsivo, smartphone e tablet si stanno adeguando con applicazioni per la scrittura manuale direttamente sugli schermi; ma anche i principali siti web, quelli che riscuotono l’interesse soprattutto delle nuove generazioni, propongono titoli, header o testatine scritte a mano. Insomma, la costruzione di un futuro che volendo essere più attraente, delicato, elegante, si appoggia con decisione al passato.
Insomma, tutti a scuola a imparare quanto avevamo dimenticato: le legature, ovvero i tratti che uniscono le lettere, i movimenti della mano, le proporzioni, ma soprattutto come impugnare la penna, con leggerezza. Ma la professione di Calligrafo non si improvvisa.
«Richiede anni di studio ed esercizio», spiega Barbara Calzolari, tra i massimi esperti italiani dello Spencerian, l’arte della calligrafia americana dell’800, famosa per la notevole varietà di lettere e curve ornamentali. «La scrittura vuole tempo e quindi è un rituale, una parte della tua vita che rimane. Lasci un segno. Ci vuole molta dedizione per imparare a comunicare alle mani quello che gli occhi vedono».
Ogni carattere è infatti basato sulla costruzione, sulla sequenza di alcuni segni «che devono essere fatti secondo regole precise - continua-, partendo da un certo punto e con la penna inclinata con una certa gradazione. L’importante nello scrivere è rallentare, andare adagio tenendo insieme il cer- vello e la mano».
E pensare che in Italia, l’insegnamento della bella scrittura non è più obbligatorio da circa quarantacinque anni (1970). Eppure scrivere a mano, magari in bella calligrafia, proprio perché un processo che richiede tempo e attenzione, è un potente scacciapensieri. In più, facilita la capacità di osservazione, aiuta a fissare la memoria, a indagare i pensieri, a elaborare idee e ragionamenti, oltre a costituire una delle espressioni più autentiche dell’identità personale, dato che la grafia di ciascuno di noi è unica.
Repubblica 13.6.15
Perché capiamo una parola per un’altra? Oliver Sacks spiega cosa nascondono i fraintendimenti
L’uomo che scambiò un pubblicitario per una seppia
di Oliver Sacks
QUALCHE settimana fa, Kate, la mia assistente, mi ha detto: «Vado alle prove del coro» [in ing. choir practice]. Sono rimasto sorpreso. Lavoriamo insieme da trent’anni e non le ho mai sentito esprimere il minimo interesse per il canto. Ma ho pensato, chi lo sa? Forse questa è una parte di lei di cui non ha mai parlato; forse si tratta di un nuovo interesse; forse suo figlio canta in un coro; forse... Continuavo a fare delle ipotesi, senza pensare nemmeno per un attimo di aver capito male. Solo al suo ritorno ho capito che era andata dal chiropratico [in ing. chiropractor]. Pochi giorni dopo, Kate scherzando mi ha detto: «Vado alle prove del coro». Di nuovo mi ha sconcertato: Petardi? [in ing. firecrackers] Perché parlava di petardi?Con l’aumento della mia sordità, tendo sempre di più a fraintendere ciò che dice la gente, anche se è una cosa abbastanza imprevedibile.
Nel corso della giornata, può accadere venti volte, oppure mai. Annoto con cura in un piccolo taccuino - rosso con l’etichetta “Paracisi” - anomalie nell’ascolto, in particolare fraintendimenti. Scrivo quello che sento (in rosso) su una pagina, quello che è stato effettivamente detto (in verde) nella pagina a fianco, e (in viola) le reazioni della gente ai miei fraintendimenti, e le ipotesi spesso improbabili che posso elaborare nel tentativo di dare un senso a ciò che spesso, essenzialmente, senso non ne ha.
Dopo la pubblicazione di Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, nel 1901, questi fraintendimenti nell’udito, insieme con una serie di fraintendimenti nella lettura, nel parlare, nell’agire o di lapsus erano visti come “freudiani”, un’espressione di sentimenti e conflitti profondamente repressi.
Anche se ci sono fraintendimenti occasionali non pubblicabili che mi fanno arrossire, la stragrande maggioranza non ammette alcuna semplice interpretazione freudiana. In quasi tutti i miei fraintendimenti, tuttavia, c’è un suono complessivo simile, una gestalt acustica simile, che collega ciò che si dice e ciò che viene udito. La sintassi è sempre mantenuta, ma questo non aiuta; è probabile che i fraintendimenti capovolgano il significato, che lo travolgano con forme sonore fonologicamente simili ma prive di significato o assurde, pur mantenendo la forma generale di una frase. La mancanza di un’enunciazione chiara, degli accenti insoliti o una trasmissione elettronica difettosa contribuiscono a ingannare le nostre percezioni. Nella maggior parte dei fraintendimenti, si sostituisce una parola vera con un’altra, per quanto assurda e fuori contesto, ma a volte il cervello ci presenta un neologismo. Quando un amico mi ha detto al telefono che suo figlio era malato, invece di “tonsillite” ho capito “pontillite” ed ero perplesso. Si trattava di una sindrome clinica rara, di un’infiammazione di cui non avevo mai sentito parlare?
Se un fraintendimento sembra plausibile, uno può pensare di non aver capito male; è solo se il fraintendimento è sufficientemente inverosimile, o totalmente fuori contesto, che uno pensa: «Non può essere», e allora (forse con un certo imbarazzo) si chiede a chi parla di ripetere, come faccio spesso, o perfino di scandire le parole o le frasi capite male.
Quando Kate ha detto di andare alle prove del coro, io l’ho accettato: poteva benissimo andare alle prove di un coro. Ma quando un amico, un giorno, mi ha detto che a «una famosa seppia ( cuttlefish ) è stata diagnosticata la SLA», mi sono detto che dovevo aver capito male. I cefalopodi hanno un sistema nervoso complesso, è vero, e forse, pensai per un attimo, una seppia potrebbe avere la SLA. Era piuttosto l’idea di una seppia “famosa” ad essere ridicola. (Si chiarì poi che aveva detto: «A un famoso pubblicitario - publicist - è stata diagnosticata la SLA».) Può sembrare che i fraintendimenti siano di scarso interesse, ma possono gettare una luce inattesa sulla natura della percezione — la percezione del discorso, in particolare. Ciò che è straordinario, innanzi tutto, è che essi si presentano come parole o frasi chiaramente articolate, non come un’accozzaglia di suoni. Uno fraintende quello che sente piuttosto che non sentire affatto.
I fraintendimenti non sono allucinazioni, ma come le allucinazioni utilizzano le abituali vie neurologiche della percezione e si pongono come realtà, se uno non si interroga su di esse. Ma poiché tutte le nostre percezioni devono essere costruite dal cervello, da dati sensoriali spesso scarsi ed ambi- gui, la possibilità di sbagliare o di ingannarsi è sempre presente. In effetti, è prodigioso il fatto che le nostre percezioni siano così spesso esatte, data la velocità, la quasi istantaneità, con la quale sono costruite.
Ciò che ci circonda, i nostri desideri e le nostre aspettative, consce e inconsce, possono certamente essere codeterminanti nel fraintendimento, ma il problema vero è nei livelli più bassi, in quelle parti del cervello coinvolte nell’analisi e nella decodifica fonologica. Nel fare quello che possono quando ricevono dalle nostre orecchie dei segnali distorti o carenti, queste parti del cervello riescono a costruire delle parole reali o delle frasi, anche se sono assurde.
Mentre spesso non sento bene le parole, raramente non sento bene la musica: le note, le melodie, le armonie, i fraseggi rimangono chiari e ricchi come sono sempre stati in tutta la mia vita (anche se spesso ho difficoltà a capire i testi). Suonare o anche ascoltare la musica (almeno la musica con una partitura tradizionale) non solo coinvolge l’analisi del tono e del ritmo, ma attiva la nostra memoria procedurale e i centri emotivi del cervello; i brani musicali rimangono nella memoria e consentono l’anticipazione.
Il discorso, invece, deve essere decodificato anche da altri sistemi nel cervello, compresi i sistemi da cui dipendono la memoria semantica e la sintassi. Il discorso è aperto, inventivo, improvvisato; è ricco di ambiguità e di significati. C’è un’enorme libertà in questo, che rende il linguaggio parlato quasi infinitamente flessibile e adattabile, ma anche vulnerabile al fraintendimento.
Freud si sbagliava totalmente, allora, sui lapsus e i fraintendimenti? Ovviamente, no. Fece delle considerazioni fondamentali sui desideri, le paure, i motivi e i conflitti di cui non siamo consapevoli, o che cacciamo dalla nostra coscienza, e che possono influenzare i lapsus e i fraintendimenti in ciò che ascoltiamo o leggiamo. Forse, però, ha insistito troppo sul fatto che le percezioni distorte dipendono totalmente da una motivazione inconscia.
Nel raccogliere i miei fraintendimenti negli ultimi anni, senza alcun pregiudizio o selezione esplicita, sono costretto a pensare che Freud sottovalutò la capacità dei meccanismi neurali, combinati con la natura aperta e imprevedibile del linguaggio, di sabotare il significato, di generare dei fraintendimenti che sono irrilevanti sia in termini di contesto che di motivazioni inconsce.
Tuttavia, c’è spesso un certo stile o un guizzo — un “tocco” — in queste invenzioni istantanee; esse riflettono, in una qualche misura, i nostri interessi e le nostre esperienze, e io mi ci diverto abbastanza. Solo nel regno del fraintendimento — almeno, dei miei fraintendimenti — una biografia di cancro può diventare una biografia di Cantor (uno dei miei matematici preferiti, la busta della spesa una bestia sospesa e un innocente “vado a piedi” un perentorio “baciami i piedi”.
Professore di neurologia presso la New York University School of Medicine, ha pubblicato recentemente la sua autobiografia On the
Move . © Oliver Sacks, 2015 traduzione di Luis E. Moriones
Perché capiamo una parola per un’altra? Oliver Sacks spiega cosa nascondono i fraintendimenti
L’uomo che scambiò un pubblicitario per una seppia
di Oliver Sacks
QUALCHE settimana fa, Kate, la mia assistente, mi ha detto: «Vado alle prove del coro» [in ing. choir practice]. Sono rimasto sorpreso. Lavoriamo insieme da trent’anni e non le ho mai sentito esprimere il minimo interesse per il canto. Ma ho pensato, chi lo sa? Forse questa è una parte di lei di cui non ha mai parlato; forse si tratta di un nuovo interesse; forse suo figlio canta in un coro; forse... Continuavo a fare delle ipotesi, senza pensare nemmeno per un attimo di aver capito male. Solo al suo ritorno ho capito che era andata dal chiropratico [in ing. chiropractor]. Pochi giorni dopo, Kate scherzando mi ha detto: «Vado alle prove del coro». Di nuovo mi ha sconcertato: Petardi? [in ing. firecrackers] Perché parlava di petardi?Con l’aumento della mia sordità, tendo sempre di più a fraintendere ciò che dice la gente, anche se è una cosa abbastanza imprevedibile.
Nel corso della giornata, può accadere venti volte, oppure mai. Annoto con cura in un piccolo taccuino - rosso con l’etichetta “Paracisi” - anomalie nell’ascolto, in particolare fraintendimenti. Scrivo quello che sento (in rosso) su una pagina, quello che è stato effettivamente detto (in verde) nella pagina a fianco, e (in viola) le reazioni della gente ai miei fraintendimenti, e le ipotesi spesso improbabili che posso elaborare nel tentativo di dare un senso a ciò che spesso, essenzialmente, senso non ne ha.
Dopo la pubblicazione di Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, nel 1901, questi fraintendimenti nell’udito, insieme con una serie di fraintendimenti nella lettura, nel parlare, nell’agire o di lapsus erano visti come “freudiani”, un’espressione di sentimenti e conflitti profondamente repressi.
Anche se ci sono fraintendimenti occasionali non pubblicabili che mi fanno arrossire, la stragrande maggioranza non ammette alcuna semplice interpretazione freudiana. In quasi tutti i miei fraintendimenti, tuttavia, c’è un suono complessivo simile, una gestalt acustica simile, che collega ciò che si dice e ciò che viene udito. La sintassi è sempre mantenuta, ma questo non aiuta; è probabile che i fraintendimenti capovolgano il significato, che lo travolgano con forme sonore fonologicamente simili ma prive di significato o assurde, pur mantenendo la forma generale di una frase. La mancanza di un’enunciazione chiara, degli accenti insoliti o una trasmissione elettronica difettosa contribuiscono a ingannare le nostre percezioni. Nella maggior parte dei fraintendimenti, si sostituisce una parola vera con un’altra, per quanto assurda e fuori contesto, ma a volte il cervello ci presenta un neologismo. Quando un amico mi ha detto al telefono che suo figlio era malato, invece di “tonsillite” ho capito “pontillite” ed ero perplesso. Si trattava di una sindrome clinica rara, di un’infiammazione di cui non avevo mai sentito parlare?
Se un fraintendimento sembra plausibile, uno può pensare di non aver capito male; è solo se il fraintendimento è sufficientemente inverosimile, o totalmente fuori contesto, che uno pensa: «Non può essere», e allora (forse con un certo imbarazzo) si chiede a chi parla di ripetere, come faccio spesso, o perfino di scandire le parole o le frasi capite male.
Quando Kate ha detto di andare alle prove del coro, io l’ho accettato: poteva benissimo andare alle prove di un coro. Ma quando un amico, un giorno, mi ha detto che a «una famosa seppia ( cuttlefish ) è stata diagnosticata la SLA», mi sono detto che dovevo aver capito male. I cefalopodi hanno un sistema nervoso complesso, è vero, e forse, pensai per un attimo, una seppia potrebbe avere la SLA. Era piuttosto l’idea di una seppia “famosa” ad essere ridicola. (Si chiarì poi che aveva detto: «A un famoso pubblicitario - publicist - è stata diagnosticata la SLA».) Può sembrare che i fraintendimenti siano di scarso interesse, ma possono gettare una luce inattesa sulla natura della percezione — la percezione del discorso, in particolare. Ciò che è straordinario, innanzi tutto, è che essi si presentano come parole o frasi chiaramente articolate, non come un’accozzaglia di suoni. Uno fraintende quello che sente piuttosto che non sentire affatto.
I fraintendimenti non sono allucinazioni, ma come le allucinazioni utilizzano le abituali vie neurologiche della percezione e si pongono come realtà, se uno non si interroga su di esse. Ma poiché tutte le nostre percezioni devono essere costruite dal cervello, da dati sensoriali spesso scarsi ed ambi- gui, la possibilità di sbagliare o di ingannarsi è sempre presente. In effetti, è prodigioso il fatto che le nostre percezioni siano così spesso esatte, data la velocità, la quasi istantaneità, con la quale sono costruite.
Ciò che ci circonda, i nostri desideri e le nostre aspettative, consce e inconsce, possono certamente essere codeterminanti nel fraintendimento, ma il problema vero è nei livelli più bassi, in quelle parti del cervello coinvolte nell’analisi e nella decodifica fonologica. Nel fare quello che possono quando ricevono dalle nostre orecchie dei segnali distorti o carenti, queste parti del cervello riescono a costruire delle parole reali o delle frasi, anche se sono assurde.
Mentre spesso non sento bene le parole, raramente non sento bene la musica: le note, le melodie, le armonie, i fraseggi rimangono chiari e ricchi come sono sempre stati in tutta la mia vita (anche se spesso ho difficoltà a capire i testi). Suonare o anche ascoltare la musica (almeno la musica con una partitura tradizionale) non solo coinvolge l’analisi del tono e del ritmo, ma attiva la nostra memoria procedurale e i centri emotivi del cervello; i brani musicali rimangono nella memoria e consentono l’anticipazione.
Il discorso, invece, deve essere decodificato anche da altri sistemi nel cervello, compresi i sistemi da cui dipendono la memoria semantica e la sintassi. Il discorso è aperto, inventivo, improvvisato; è ricco di ambiguità e di significati. C’è un’enorme libertà in questo, che rende il linguaggio parlato quasi infinitamente flessibile e adattabile, ma anche vulnerabile al fraintendimento.
Freud si sbagliava totalmente, allora, sui lapsus e i fraintendimenti? Ovviamente, no. Fece delle considerazioni fondamentali sui desideri, le paure, i motivi e i conflitti di cui non siamo consapevoli, o che cacciamo dalla nostra coscienza, e che possono influenzare i lapsus e i fraintendimenti in ciò che ascoltiamo o leggiamo. Forse, però, ha insistito troppo sul fatto che le percezioni distorte dipendono totalmente da una motivazione inconscia.
Nel raccogliere i miei fraintendimenti negli ultimi anni, senza alcun pregiudizio o selezione esplicita, sono costretto a pensare che Freud sottovalutò la capacità dei meccanismi neurali, combinati con la natura aperta e imprevedibile del linguaggio, di sabotare il significato, di generare dei fraintendimenti che sono irrilevanti sia in termini di contesto che di motivazioni inconsce.
Tuttavia, c’è spesso un certo stile o un guizzo — un “tocco” — in queste invenzioni istantanee; esse riflettono, in una qualche misura, i nostri interessi e le nostre esperienze, e io mi ci diverto abbastanza. Solo nel regno del fraintendimento — almeno, dei miei fraintendimenti — una biografia di cancro può diventare una biografia di Cantor (uno dei miei matematici preferiti, la busta della spesa una bestia sospesa e un innocente “vado a piedi” un perentorio “baciami i piedi”.
Professore di neurologia presso la New York University School of Medicine, ha pubblicato recentemente la sua autobiografia On the
Move . © Oliver Sacks, 2015 traduzione di Luis E. Moriones
Corriere 13.6.15
Un uomo con mille maschere: i sogni di Adele e delle altre
Il viaggio di Lella Ravasi Bellocchio, analista junghiana, nella mente femminile
di Giuseppina Manin
I sogni delle donne attraversano deserti di fuoco e mari insidiosi. Si inoltrano nel profondo di Paesi stranieri, calpestano tappeti di stelle luminose. I sogni delle donne parlano di amore e morte, di bimbi partoriti e bimbi mai nati, di incontri erotici con sconosciuti, di incesti trasversali. Lella Ravasi Bellocchio, che nella sua lunga militanza analitica junghiana di sogni ne ha sentiti di ogni tipo, come Sherazade ne inanella uno dopo l’altro a formare una lunga collana onirica di perle opalescenti e tenebrose. Memorie del sottosuolo, sedimenti arcaici, film della notte. Che a volte ci aiutano, altre ci ingannano, talora ci illuminano.
Sogni come modalità di conoscenza al femminile che, avverte Lou Salomé, esige «fiori sul tavolo e nell’anima». Ravasi Bellocchio comincia con lo sfogliarne uno tutto suo, di tanti anni fa. Mentre è impegnata nel training junghiano sogna Musatti, caposcuola freudiano. Una visione che la spingerà a incontrarlo, a frequentarlo in un percorso di parallela intensità scientifica e umana. E poi i sogni delle pazienti. Di Adele che «vede» un uomo dalle mille maschere sul viso, di Luciana che deve arrampicarsi su pareti di vetro, di Caterina che non trova i vestiti giusti e resta nuda... Mentre Angela, che mai si è concessa alla passione, ritrova l’altra se stessa in un incubo degno di un quadro di Füssli, l’amplesso con un uomo dal fallo lunghissimo, sottile come uno scettro.
Bestie feroci e tunnel pericolosi popolano i sogni delle donne in gravidanza, mentre chi ha abortito si ritrova a fare i conti con l’ombra del figlio mai nato. Strazianti i sogni del lutto. La cognizione del dolore a volte passa attraverso un rito iniziatico, in un cimitero nascosto in un bosco, a volte riaffiora con un sapore antico, le crocchette di spinaci di cui mamma, dall’aldilà onirico, dà la ricetta.
Infine l’acqua, elemento cardine del femminile, simbolo umettante della psiche, trabocca nei sogni delle donne, specie di quelle dietro le sbarre. Ravasi Bellocchio, che ha lavorato con alcune detenute del carcere milanese di San Vittore, riferisce di fiumi, mari, pozzanghere limacciose. Segni evidenti di un’angoscia che non si sa come affrontare. Al terapeuta il compito di accompagnare nella lettura. «Il sogno non si interpreta, si costruisce insieme», sostiene l’autrice. Il sogno va accolto, osservato con la meraviglia con cui si legge un messaggio in bottiglia arrivato da chissà dove. Ponte tra conscio e inconscio, vivi e morti. Mondi non contrapposti, che sconfinano e si intrecciano. Il sogno, terra di nessuno, dà accesso a tutti.
«Bisognerebbe fare dei nostri sogni la trama di una nostra fiaba», suggerisce l’autrice. Da mettere accanto alle fiabe degli altri, in una stupefacente mille e una notte collettiva.
Un uomo con mille maschere: i sogni di Adele e delle altre
Il viaggio di Lella Ravasi Bellocchio, analista junghiana, nella mente femminile
di Giuseppina Manin
I sogni delle donne attraversano deserti di fuoco e mari insidiosi. Si inoltrano nel profondo di Paesi stranieri, calpestano tappeti di stelle luminose. I sogni delle donne parlano di amore e morte, di bimbi partoriti e bimbi mai nati, di incontri erotici con sconosciuti, di incesti trasversali. Lella Ravasi Bellocchio, che nella sua lunga militanza analitica junghiana di sogni ne ha sentiti di ogni tipo, come Sherazade ne inanella uno dopo l’altro a formare una lunga collana onirica di perle opalescenti e tenebrose. Memorie del sottosuolo, sedimenti arcaici, film della notte. Che a volte ci aiutano, altre ci ingannano, talora ci illuminano.
Sogni come modalità di conoscenza al femminile che, avverte Lou Salomé, esige «fiori sul tavolo e nell’anima». Ravasi Bellocchio comincia con lo sfogliarne uno tutto suo, di tanti anni fa. Mentre è impegnata nel training junghiano sogna Musatti, caposcuola freudiano. Una visione che la spingerà a incontrarlo, a frequentarlo in un percorso di parallela intensità scientifica e umana. E poi i sogni delle pazienti. Di Adele che «vede» un uomo dalle mille maschere sul viso, di Luciana che deve arrampicarsi su pareti di vetro, di Caterina che non trova i vestiti giusti e resta nuda... Mentre Angela, che mai si è concessa alla passione, ritrova l’altra se stessa in un incubo degno di un quadro di Füssli, l’amplesso con un uomo dal fallo lunghissimo, sottile come uno scettro.
Bestie feroci e tunnel pericolosi popolano i sogni delle donne in gravidanza, mentre chi ha abortito si ritrova a fare i conti con l’ombra del figlio mai nato. Strazianti i sogni del lutto. La cognizione del dolore a volte passa attraverso un rito iniziatico, in un cimitero nascosto in un bosco, a volte riaffiora con un sapore antico, le crocchette di spinaci di cui mamma, dall’aldilà onirico, dà la ricetta.
Infine l’acqua, elemento cardine del femminile, simbolo umettante della psiche, trabocca nei sogni delle donne, specie di quelle dietro le sbarre. Ravasi Bellocchio, che ha lavorato con alcune detenute del carcere milanese di San Vittore, riferisce di fiumi, mari, pozzanghere limacciose. Segni evidenti di un’angoscia che non si sa come affrontare. Al terapeuta il compito di accompagnare nella lettura. «Il sogno non si interpreta, si costruisce insieme», sostiene l’autrice. Il sogno va accolto, osservato con la meraviglia con cui si legge un messaggio in bottiglia arrivato da chissà dove. Ponte tra conscio e inconscio, vivi e morti. Mondi non contrapposti, che sconfinano e si intrecciano. Il sogno, terra di nessuno, dà accesso a tutti.
«Bisognerebbe fare dei nostri sogni la trama di una nostra fiaba», suggerisce l’autrice. Da mettere accanto alle fiabe degli altri, in una stupefacente mille e una notte collettiva.
Corriere 13.6.15
I duellanti del nichilismo Dostoevskij contro Tolstoj
La seduzione del nulla come malattia. E con Lev la risposta del cristianesimo
di Claudio Magris
Un celebre saggio di Thomas Mann, dedicato a Dostoevskij, s’intitola Dostoevskij — con misura . Titolo non felice, perché il confronto con un autore e con la sua opera — specialmente se sono grandi, inquietanti e sconvolgenti — non segue una dieta né le dosi prescritte nelle assunzioni di medicinali. Nell’opera di un grande autore — tanto più quanto più si tratta di un grande — ci si tuffa senza cautele e senza remore, senza salvagenti, come in un mare agitato, oppure non ci si tuffa. Ciò non significa abdicare al proprio giudizio e ai propri valori, assoggettarsi idolatricamente alla sua grandezza; si fanno i conti con i grandi creatori affrontandoli a viso aperto e senza timidezza, anche contestandoli, in un dialogo e in un rapporto che, se autentici, sono sempre, in quel momento, un incontro fra pari, fra due persone che, in quella loro relazione — in questo caso nel momento della lettura — sono sempre pari, indipendentemente da ciò che l’uno e l’altro significano, al di fuori di questo loro dialogo, nella storia del mondo. In ogni incontro, in ogni dialogo, il protagonista, come nella Trinità, è lo spirito, ovvero il rapporto fra i due, in quel momento soli faccia a faccia.
Dostoevskij è un autore che sconvolge sin dalle fondamenta le nostre certezze, le nostre difese, il nostro accomodamento col mondo. Se si dovessero indicare una data e un’opera quale nascita della narrativa contemporanea, la scelta più giusta cadrebbe sulle Memorie del sottosuolo : l’uomo del sottosuolo, che Nietzsche identificava col suo superuomo (o oltreuomo, come è stato proposto da Gianni Vattimo) è l’Io scisso, plurimo, riluttante alla corazza della coscienza, che sarà, nelle forme più varie, il protagonista della letteratura occidentale per quasi due secoli e probabilmente lo è ancora. Allo stesso tempo Dostoevskij ha posto, come forse nessun altro scrittore, le domande ultime sul destino dell’uomo, sulla sofferenza e sull’amore; sulla salvezza e sulla perdizione dell’uomo.
Dostoevskij e Nietzsche hanno vissuto a fondo il nichilismo quale verità esistenziale e storica dell’epoca; il primo l’ha considerato una malattia da cui guarire, mentre il secondo l’ha celebrato — o meglio si è forse costretto a celebrarlo — come una liberazione da festeggiare. Il futuro della nostra civiltà, scriveva parecchi anni fa Vittorio Strada, dipenderà anche da quale dei due avrà avuto ragione.
A documentare l’inquietante, inesauribile centralità di Dostoevskij — per quel che riguarda le questioni essenziali della nostra vita, della nostra storia, del nostro destino individuale e politico — è uscito ora un grande saggio di Gustavo Zagrebelsky, Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi) che affronta con incalzante acutezza e appassionata partecipazione i temi sconvolgenti dell’opera di Dostoevskij, della radicale domanda sul nulla e sul potere, con tutte le sue implicazioni. Un libro col quale bisogna misurarsi a fondo.
Come in Dostoevskij, pure in Tolstoj la letteratura, proprio perché così incredibilmente grande, trascende il pur altissimo valore poetico per toccare le estreme domande sulla vita, le cose ultime in cui si giocano la salvezza o la perdizione dell’umano. Alla vasta, multiforme e variamente approfondita critica sul rapporto, spesso conflittuale, fra i due giganti si è aggiunto un breve, essenziale saggio di Graziano Bianchi, dal taglio discorsivo più che analitico e di una intensa forza sintetica. Dostoevskij legge «Anna Karénina» , dice il titolo del saggio di Bianchi, che fa parte di un’ampia, profonda e insieme scorrevole raccolta di saggi A occhio nudo , dedicati a vari autori, ma soprattutto, pur in altri capitoli della raccolta, ai due Dioscuri russi, in particolare all’autore di Delitto e castigo .
Bianchi non è un critico letterario, bensì un avvocato che ha alle proprie spalle un’attività legale di grande rilievo, sempre accompagnata da una dominante passione per la letteratura, la musica, la problematica religiosa e l’arte in genere, cui negli ultimi anni si è dedicato sempre più. Del resto i legami e le profonde, anche complesse e contraddittorie affinità fra diritto e letteratura attraversano i secoli, in una feconda, talora polemica ma sempre vitale compenetrazione, da Antigone ai notai poeti della scuola siciliana, dal Mercante di Venezia a Heine, a Kleist o a Satta. Bianchi si è occupato di Beethoven, sempre con una competenza e uno scrupolo filologico arricchiti dalla vivacità e dalla libertà del «dilettante» (che spesso falsamente si identifica con superficiale) ossia di chi si occupa per amore di poesia e di arte. Dilettante — parola cara a Goethe — è chi conosce e trasmette il piacere della lettura.
Dostoevskij lettore di Tolstoj. I due titani conoscono, ognuno, l’incommensurabile valore dell’altro. Per Dostoevskij Anna Karénina è opera «perfetta» e «nulla nelle attuali letterature europee può ad essa paragonarsi». Tolstoj, secondo Steiner, nella sua fuga estrema nella morte si sarebbe portato con sé I fratelli Karamàzov .
I rapporti difficili fra i due nascono non tanto — e non certo solo — dall’invidia, meschinità poco intelligente che sembra allineare fra i letterati più che in altre confraternite e che è banale non solo in un genio ma in ogni uomo. Lo scontro avviene — e Bianchi lo illustra con partecipe e appassionata lucidità — fra il cristianesimo pacifista e umanitario senza Cristo di Tolstoj, che Dostoevskij rifiuta, e la centralità del Cristo, e di una fede in un Dio trascendente, per l’autore dei Demoni . Ma lo scontro avviene soprattutto nella visione della Russia, metafisico luogo d’incontro fra Oriente e Occidente, come sottolineava già Merežkovskij, e portatrice di una missione universale e di un nuovo cristianesimo. Dostoevskij, che si pone dalla parte degli umiliati e offesi — per parafrasare il titolo di un altro suo romanzo — rinfaccia a Tolstoj di scrivere una «letteratura del proprietario terriero» e gli rinfaccia pure l’interesse per la gente futile come Vronski e i suoi pari che «non possono parlare altro che di cavalli». Tolstoj, d’altra parte, parla, non certo meno faziosamente, di «tutti questi idioti adolescenti, Raskolnikov ecc., non reali».
Ma Dostoevskij rimprovera a Tolstoj — e in particolare al suo Levin, in Anna Karénina — la mancanza di un «sentimento immediato per l’oppressione degli slavi […] la diserzione […] il distacco dalla grande comune causa russa». Il pacifismo di Levin gli appare un falso umanitarismo, perché insensibile alle sofferenze del popolo russo e dei popoli slavi — che Dostoevskij descrive massacrati, torturati e violentati dai turchi — è contrario a prenderre le armi per difenderli. Il pacifismo tolstojano — all’epoca della guerra russo-turca — appare a Dostoevskij una insensibile resa al Male, un’egoistica divinizzazione dell’Io.
L’universalità di Dostoevskij, che ha scandagliato come forse nessun altro gli abissi della mente e del cuore umano, s’intreccia non solo a una umanissima partecipazione alle sofferenze del proprio popolo, ma anche alla visione di una missione universale del popolo russo che, per quanto grandiosa, non è più accettabile delle missioni privilegiate e speciali rivendicate da qualsiasi altro popolo, che tanto irritavano Croce.
Il saggio di Bianchi non è un contributo alla slavistica, ma un appassionato invito, oggi più attuale e necessario che mai, a rileggere i grandissimi per trovare o rinsaldare grazie ad essi la nostra verità. Non si sceglie fra Tolstoj e Dostoevskij, né fra Dante e Shakespeare o fra Omero e Cervantes; anche nella grandissima letteratura, come nella casa del Padre, ci sono molte dimore. Un mio compagno di scuola alle medie credeva che Dostoevskij fosse il nome in russo di Tolstoj...
I duellanti del nichilismo Dostoevskij contro Tolstoj
La seduzione del nulla come malattia. E con Lev la risposta del cristianesimo
di Claudio Magris
Un celebre saggio di Thomas Mann, dedicato a Dostoevskij, s’intitola Dostoevskij — con misura . Titolo non felice, perché il confronto con un autore e con la sua opera — specialmente se sono grandi, inquietanti e sconvolgenti — non segue una dieta né le dosi prescritte nelle assunzioni di medicinali. Nell’opera di un grande autore — tanto più quanto più si tratta di un grande — ci si tuffa senza cautele e senza remore, senza salvagenti, come in un mare agitato, oppure non ci si tuffa. Ciò non significa abdicare al proprio giudizio e ai propri valori, assoggettarsi idolatricamente alla sua grandezza; si fanno i conti con i grandi creatori affrontandoli a viso aperto e senza timidezza, anche contestandoli, in un dialogo e in un rapporto che, se autentici, sono sempre, in quel momento, un incontro fra pari, fra due persone che, in quella loro relazione — in questo caso nel momento della lettura — sono sempre pari, indipendentemente da ciò che l’uno e l’altro significano, al di fuori di questo loro dialogo, nella storia del mondo. In ogni incontro, in ogni dialogo, il protagonista, come nella Trinità, è lo spirito, ovvero il rapporto fra i due, in quel momento soli faccia a faccia.
Dostoevskij è un autore che sconvolge sin dalle fondamenta le nostre certezze, le nostre difese, il nostro accomodamento col mondo. Se si dovessero indicare una data e un’opera quale nascita della narrativa contemporanea, la scelta più giusta cadrebbe sulle Memorie del sottosuolo : l’uomo del sottosuolo, che Nietzsche identificava col suo superuomo (o oltreuomo, come è stato proposto da Gianni Vattimo) è l’Io scisso, plurimo, riluttante alla corazza della coscienza, che sarà, nelle forme più varie, il protagonista della letteratura occidentale per quasi due secoli e probabilmente lo è ancora. Allo stesso tempo Dostoevskij ha posto, come forse nessun altro scrittore, le domande ultime sul destino dell’uomo, sulla sofferenza e sull’amore; sulla salvezza e sulla perdizione dell’uomo.
Dostoevskij e Nietzsche hanno vissuto a fondo il nichilismo quale verità esistenziale e storica dell’epoca; il primo l’ha considerato una malattia da cui guarire, mentre il secondo l’ha celebrato — o meglio si è forse costretto a celebrarlo — come una liberazione da festeggiare. Il futuro della nostra civiltà, scriveva parecchi anni fa Vittorio Strada, dipenderà anche da quale dei due avrà avuto ragione.
A documentare l’inquietante, inesauribile centralità di Dostoevskij — per quel che riguarda le questioni essenziali della nostra vita, della nostra storia, del nostro destino individuale e politico — è uscito ora un grande saggio di Gustavo Zagrebelsky, Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi) che affronta con incalzante acutezza e appassionata partecipazione i temi sconvolgenti dell’opera di Dostoevskij, della radicale domanda sul nulla e sul potere, con tutte le sue implicazioni. Un libro col quale bisogna misurarsi a fondo.
Come in Dostoevskij, pure in Tolstoj la letteratura, proprio perché così incredibilmente grande, trascende il pur altissimo valore poetico per toccare le estreme domande sulla vita, le cose ultime in cui si giocano la salvezza o la perdizione dell’umano. Alla vasta, multiforme e variamente approfondita critica sul rapporto, spesso conflittuale, fra i due giganti si è aggiunto un breve, essenziale saggio di Graziano Bianchi, dal taglio discorsivo più che analitico e di una intensa forza sintetica. Dostoevskij legge «Anna Karénina» , dice il titolo del saggio di Bianchi, che fa parte di un’ampia, profonda e insieme scorrevole raccolta di saggi A occhio nudo , dedicati a vari autori, ma soprattutto, pur in altri capitoli della raccolta, ai due Dioscuri russi, in particolare all’autore di Delitto e castigo .
Bianchi non è un critico letterario, bensì un avvocato che ha alle proprie spalle un’attività legale di grande rilievo, sempre accompagnata da una dominante passione per la letteratura, la musica, la problematica religiosa e l’arte in genere, cui negli ultimi anni si è dedicato sempre più. Del resto i legami e le profonde, anche complesse e contraddittorie affinità fra diritto e letteratura attraversano i secoli, in una feconda, talora polemica ma sempre vitale compenetrazione, da Antigone ai notai poeti della scuola siciliana, dal Mercante di Venezia a Heine, a Kleist o a Satta. Bianchi si è occupato di Beethoven, sempre con una competenza e uno scrupolo filologico arricchiti dalla vivacità e dalla libertà del «dilettante» (che spesso falsamente si identifica con superficiale) ossia di chi si occupa per amore di poesia e di arte. Dilettante — parola cara a Goethe — è chi conosce e trasmette il piacere della lettura.
Dostoevskij lettore di Tolstoj. I due titani conoscono, ognuno, l’incommensurabile valore dell’altro. Per Dostoevskij Anna Karénina è opera «perfetta» e «nulla nelle attuali letterature europee può ad essa paragonarsi». Tolstoj, secondo Steiner, nella sua fuga estrema nella morte si sarebbe portato con sé I fratelli Karamàzov .
I rapporti difficili fra i due nascono non tanto — e non certo solo — dall’invidia, meschinità poco intelligente che sembra allineare fra i letterati più che in altre confraternite e che è banale non solo in un genio ma in ogni uomo. Lo scontro avviene — e Bianchi lo illustra con partecipe e appassionata lucidità — fra il cristianesimo pacifista e umanitario senza Cristo di Tolstoj, che Dostoevskij rifiuta, e la centralità del Cristo, e di una fede in un Dio trascendente, per l’autore dei Demoni . Ma lo scontro avviene soprattutto nella visione della Russia, metafisico luogo d’incontro fra Oriente e Occidente, come sottolineava già Merežkovskij, e portatrice di una missione universale e di un nuovo cristianesimo. Dostoevskij, che si pone dalla parte degli umiliati e offesi — per parafrasare il titolo di un altro suo romanzo — rinfaccia a Tolstoj di scrivere una «letteratura del proprietario terriero» e gli rinfaccia pure l’interesse per la gente futile come Vronski e i suoi pari che «non possono parlare altro che di cavalli». Tolstoj, d’altra parte, parla, non certo meno faziosamente, di «tutti questi idioti adolescenti, Raskolnikov ecc., non reali».
Ma Dostoevskij rimprovera a Tolstoj — e in particolare al suo Levin, in Anna Karénina — la mancanza di un «sentimento immediato per l’oppressione degli slavi […] la diserzione […] il distacco dalla grande comune causa russa». Il pacifismo di Levin gli appare un falso umanitarismo, perché insensibile alle sofferenze del popolo russo e dei popoli slavi — che Dostoevskij descrive massacrati, torturati e violentati dai turchi — è contrario a prenderre le armi per difenderli. Il pacifismo tolstojano — all’epoca della guerra russo-turca — appare a Dostoevskij una insensibile resa al Male, un’egoistica divinizzazione dell’Io.
L’universalità di Dostoevskij, che ha scandagliato come forse nessun altro gli abissi della mente e del cuore umano, s’intreccia non solo a una umanissima partecipazione alle sofferenze del proprio popolo, ma anche alla visione di una missione universale del popolo russo che, per quanto grandiosa, non è più accettabile delle missioni privilegiate e speciali rivendicate da qualsiasi altro popolo, che tanto irritavano Croce.
Il saggio di Bianchi non è un contributo alla slavistica, ma un appassionato invito, oggi più attuale e necessario che mai, a rileggere i grandissimi per trovare o rinsaldare grazie ad essi la nostra verità. Non si sceglie fra Tolstoj e Dostoevskij, né fra Dante e Shakespeare o fra Omero e Cervantes; anche nella grandissima letteratura, come nella casa del Padre, ci sono molte dimore. Un mio compagno di scuola alle medie credeva che Dostoevskij fosse il nome in russo di Tolstoj...
Repubblica 13.6.15
Yemen
Missili sulla città vecchia di Sana’a, distrutto il patrimonio Unesco
Il bombardamento ha colpito il cuore della capitale: sei le vittime Rabbia dell’Unesco: ma la crisi non sembra destinata a una rapida soluzione
di Alberto Stabile
BEIRUT . Adesso diranno che i ribelli si fanno scudo delle bellezze architettoniche di Sana’a, la capitale dello Yemen, e dunque certi “danni collaterali” inflitti dalla super coalizione guidata dall’Arabia Saudita a quella che Pasolini, incantato, definì “una rustica Venezia” e l’Unesco classificò come patrimonio dell’Umanità, sono pressoché inevitabili. Ma le immagini delle distruzioni provocate all’alba di ieri alla città vecchia della capitale yemenita colpita da uno o più missili non ammettono scusanti: le antiche torri dalle facciate bianche ed ocra, miracolosamente erette quindici secoli fa con mattoni di fango, si sono come polverizzate. Sotto le macerie sono stati trovati i cadaveri di sei persone.
Così nel Medio Oriente precipitato nella furia distruttrice delle fazioni si consuma un altro genocidio culturale, come se non fossero già bastate le irruzioni dello Stato Islamico contro i siti archeologici e i santuari iracheni, siriani e libici. E anche stavolta, alta e sterile, s’è levata la condanna dell’Unesco, verso questo nuovo attentato contro la storia dell’umanità.
A Sana’a, l’umanità c’è sempre stata, si dice, sin dai tempi biblici quando Sem, uno dei figli di Noè, trovò nelle sue valli fertili, ad oltre duemila metri sul livello del mare, ristoro dalla ferocia del deserto. Ma fu dopo l’avvento di Maometto che la città diventò gioiello inimitabile di architettura islamica. Chilometri di suq labirintici, oltre 130 moschee, decine di hammam, i bagni turchi, e quelle case a forma di torri che permettono alla gente di immergere la loro vita di tutti i giorni nella storia.
Era fatale che prima o poi l’offensiva saudita contro i ribelli Huti, appartenenti alla minoranza degli Zaidi, di religione sciita e sospettati di godere del sostegno dell’Iran, puntasse contro Sana’a. E’ successo mentre a Ginevra, il mediatore delle Nazioni Unite, Ismail Ould Cheikh Ahmed, era riuscito a mettere attorno al tavolo da un lato i ribelli Huti e dall’altro i seguaci del presidente eletto Abed Rabbo Mansur Hadi, fuggito a Ryad dopo il colpo di mano con il quale gli Huti si erano insediati al governo.
Al negoziato, mancano gli inviati dell’ex presidente Alì Abdullah Saleh, alleato degli Huti, e anche i sauditi che si sono eretti nel ruolo di giustizieri, creando una coalizione di nazioni sunnite per combattere i ribelli (e indirettamente l’Iran) e riportare al potere Hadi.
Yemen
Missili sulla città vecchia di Sana’a, distrutto il patrimonio Unesco
Il bombardamento ha colpito il cuore della capitale: sei le vittime Rabbia dell’Unesco: ma la crisi non sembra destinata a una rapida soluzione
di Alberto Stabile
BEIRUT . Adesso diranno che i ribelli si fanno scudo delle bellezze architettoniche di Sana’a, la capitale dello Yemen, e dunque certi “danni collaterali” inflitti dalla super coalizione guidata dall’Arabia Saudita a quella che Pasolini, incantato, definì “una rustica Venezia” e l’Unesco classificò come patrimonio dell’Umanità, sono pressoché inevitabili. Ma le immagini delle distruzioni provocate all’alba di ieri alla città vecchia della capitale yemenita colpita da uno o più missili non ammettono scusanti: le antiche torri dalle facciate bianche ed ocra, miracolosamente erette quindici secoli fa con mattoni di fango, si sono come polverizzate. Sotto le macerie sono stati trovati i cadaveri di sei persone.
Così nel Medio Oriente precipitato nella furia distruttrice delle fazioni si consuma un altro genocidio culturale, come se non fossero già bastate le irruzioni dello Stato Islamico contro i siti archeologici e i santuari iracheni, siriani e libici. E anche stavolta, alta e sterile, s’è levata la condanna dell’Unesco, verso questo nuovo attentato contro la storia dell’umanità.
A Sana’a, l’umanità c’è sempre stata, si dice, sin dai tempi biblici quando Sem, uno dei figli di Noè, trovò nelle sue valli fertili, ad oltre duemila metri sul livello del mare, ristoro dalla ferocia del deserto. Ma fu dopo l’avvento di Maometto che la città diventò gioiello inimitabile di architettura islamica. Chilometri di suq labirintici, oltre 130 moschee, decine di hammam, i bagni turchi, e quelle case a forma di torri che permettono alla gente di immergere la loro vita di tutti i giorni nella storia.
Era fatale che prima o poi l’offensiva saudita contro i ribelli Huti, appartenenti alla minoranza degli Zaidi, di religione sciita e sospettati di godere del sostegno dell’Iran, puntasse contro Sana’a. E’ successo mentre a Ginevra, il mediatore delle Nazioni Unite, Ismail Ould Cheikh Ahmed, era riuscito a mettere attorno al tavolo da un lato i ribelli Huti e dall’altro i seguaci del presidente eletto Abed Rabbo Mansur Hadi, fuggito a Ryad dopo il colpo di mano con il quale gli Huti si erano insediati al governo.
Al negoziato, mancano gli inviati dell’ex presidente Alì Abdullah Saleh, alleato degli Huti, e anche i sauditi che si sono eretti nel ruolo di giustizieri, creando una coalizione di nazioni sunnite per combattere i ribelli (e indirettamente l’Iran) e riportare al potere Hadi.
Repubblica 13.6.15
Selahttin Demirtas
Parla il leader del partito Hdp, il volto nuovo del Paese dopo le elezioni: “Il mio è il successo di tutte le identità e degli oppressi. Molti sono stati uccisi, ma la gente non si è piegata. Ora voglio una nazione democratica e pluralista”
“Dai curdi ai ragazzi di Gezi Park così abbiamo fermato Erdogan”
di Marco Ansaldo
DIYARBAKIR «LA nostra vittoria non è solo dei curdi. E’ un successo per tutte le identità e gli oppressi. Se non fossimo riusciti a fermare il partito al potere in Turchia, i rischi provenienti dalla guerra civile in Siria adesso sarebbero più forti. Ora invece c’è un equilibrio di forze, e siamo fiduciosi per il futuro della Turchia e di tutta la regione. La strada per creare un Paese più pacifico in Medio Oriente, capace di affrontare una soluzione per la questione curda, è aperta» .
E’ il volto nuovo della Turchia. L’immagine fresca di un potere moderato, capace però di oltrepassare l’altissimo sbarramento elettorale necessario per entrare in Parlamento (il 10 per cento), e di costituire ora l’opposizione più credibile al partito conservatore di origine islamica che guida il Paese da 13 anni. Ma per Selahattin Demirtas, il giovane leader del Partito democratico del popolo (Hdp), non hanno votato solo i curdi, ma molti turchi liberali, oltre che i ragazzi usciti dalla rivolta di Gezi Park, e le donne affascinate da un politico diverso per queste latitudini, dotato di ottima oratoria sì, ma di fronte all’aggressività imperante anche di una buona dose di humour.
L’ufficio dove Demirtas, 42 anni, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, riceve La Repubblica è poco fuori il centro di Diyarbakir, il capoluogo del Kurdistan turco. Qui i curdi hanno festeggiato il loro risultato storico, uscito domenica scorsa dalle urne. Tra i suoi fedelissimi però c’è cautela, e un certo grado di tensione. Demirtas gira con le guardie del corpo. Perché la partita politica che si gioca nella regione curda adesso è determinante per tutto il Paese. E gli scontri quotidiani e i morti in un’area attraversata dai jihadisti del Califfato islamico e dai temibili Hezbollah, scandiscono le ore di una trattativa serrata per la costituzione del nuovo governo. Con la prospettiva di nuove elezioni anticipate. Seduto dietro la sua scrivania di legno scuro, il leader curdo si alza, sposta la bandiera con il simbolo del partito, un albero verde che apre le sue foglie come mani — un’immagine che richiama i platani difesi dalla gente durante la protesta del parco Gezi a Istanbul — e posa sorridente per una foto ricordo.
Selahattin Demirtas, la sua affermazione nelle urne ha sorpreso molti, soprattutto per la consistenza dei voti raggiunti, il 13,1 per cento, mai ricevuto da un partito curdo. A che cosa attribuisce questo consenso?
«Siamo riusciti a ottenere un risultato in grado di creare effetti non solo in Turchia, ma in tutta l’area circostante e nel mondo. Prima di tutto, abbiamo fermato le ambizioni di regime di Recep Tayyip Erdogan. Com’è ovvio sosteniamo poi un sistema democratico, pluralistico e multi—etnico» .
Vi siete in parte impadroniti anche delle richieste ambientaliste e di rispetto per i diritti umani emerse durante la rivolta Gezi Park?
«Sì, è vero. Quello spirito di resistenza guardava a una vita nuova, alla libertà. Soprattutto quei ragazzi, i portatori dello “spirito di Gezi Park”, non hanno accettato la repressione, non si sono piegati alle minacce. Molta gente è stata uccisa, ma la resistenza non si è ritirata. Tutto questo alle elezioni si è riflesso sul nostro partito e ha contribuito al nostro successo» .
Nel 2002 molti turchi credettero in Erdogan, l’uomo nuovo, e lo votarono. Ora sembra che tocchi a lei. Non sente una grande responsabilità, visto che in questo momento ha addosso l’attenzione dell’Europa e del mondo?
«Quando Erdogan vinse quelle elezioni, allora, rappresentava un segmento di popolazione rimasta oppressa in Turchia per lungo tempo. Era quella islamica, ma dotata di un’espressione libertaria, capace di parlare di diritti umani e democrazia, e critica con lo status quo. Furono in grado di guadagnarsi anche il sostegno di pensatori liberali, dei democratici e persino di quelli di sinistra. Ma quando nel 2007 il suo partito è diventato più forte, ha cominciato a non sostenere più quel segmento sociale, il suo vero volto è venuto fuori. Erdogan si è trasformato in un lupo mannaro. Ha sorpreso tutti. Il regime si è trasformato in quello che ci ricordava il vecchio status quo, autoritario, repressivo, dittatoriale. E il movimento curdo, che è più radicato, ha cominciato a essere riconosciuto anche oltre i suoi spazi. Il nostro approccio non si basa sugli individui, ma sul partito, sulle istituzioni e sui programmi» .
E pensa che questa vostra affermazione possa diventare in futuro un passo verso la costituzione di istanze più ampie fra i curdi, unendovi alle battaglie che la vostra etnia sta facendo in Iraq, in Siria, in Iran?
«Noi crediamo che in qualsiasi posto i curdi vivano, debbano cercare una soluzione comune con la gente del Paese dove si trovano. Il problema curdo in Turchia deve essere risolto all’interno dei confini esistenti. Naturalmente le popolazioni che vivono nell’area curda in Siria e in Iraq prenderanno le loro decisioni per il futuro. Nel partito non c’è il programma di unire le diverse parti del Kurdistan e di creare un grande Kurdistan. E piuttosto di disegnare nuovi confini, proponiamo un modello che renda i confini più flessibili. Dove Siria, Iraq, Iran e i Paesi arabi possano essere qualcosa sul modello dell’Unione Europea, con libertà di movimento, lavoro, diritti sociali comuni, unione doganale, scambi culturali e sistemi più democratici».
Selahttin Demirtas
Parla il leader del partito Hdp, il volto nuovo del Paese dopo le elezioni: “Il mio è il successo di tutte le identità e degli oppressi. Molti sono stati uccisi, ma la gente non si è piegata. Ora voglio una nazione democratica e pluralista”
“Dai curdi ai ragazzi di Gezi Park così abbiamo fermato Erdogan”
di Marco Ansaldo
DIYARBAKIR «LA nostra vittoria non è solo dei curdi. E’ un successo per tutte le identità e gli oppressi. Se non fossimo riusciti a fermare il partito al potere in Turchia, i rischi provenienti dalla guerra civile in Siria adesso sarebbero più forti. Ora invece c’è un equilibrio di forze, e siamo fiduciosi per il futuro della Turchia e di tutta la regione. La strada per creare un Paese più pacifico in Medio Oriente, capace di affrontare una soluzione per la questione curda, è aperta» .
E’ il volto nuovo della Turchia. L’immagine fresca di un potere moderato, capace però di oltrepassare l’altissimo sbarramento elettorale necessario per entrare in Parlamento (il 10 per cento), e di costituire ora l’opposizione più credibile al partito conservatore di origine islamica che guida il Paese da 13 anni. Ma per Selahattin Demirtas, il giovane leader del Partito democratico del popolo (Hdp), non hanno votato solo i curdi, ma molti turchi liberali, oltre che i ragazzi usciti dalla rivolta di Gezi Park, e le donne affascinate da un politico diverso per queste latitudini, dotato di ottima oratoria sì, ma di fronte all’aggressività imperante anche di una buona dose di humour.
L’ufficio dove Demirtas, 42 anni, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, riceve La Repubblica è poco fuori il centro di Diyarbakir, il capoluogo del Kurdistan turco. Qui i curdi hanno festeggiato il loro risultato storico, uscito domenica scorsa dalle urne. Tra i suoi fedelissimi però c’è cautela, e un certo grado di tensione. Demirtas gira con le guardie del corpo. Perché la partita politica che si gioca nella regione curda adesso è determinante per tutto il Paese. E gli scontri quotidiani e i morti in un’area attraversata dai jihadisti del Califfato islamico e dai temibili Hezbollah, scandiscono le ore di una trattativa serrata per la costituzione del nuovo governo. Con la prospettiva di nuove elezioni anticipate. Seduto dietro la sua scrivania di legno scuro, il leader curdo si alza, sposta la bandiera con il simbolo del partito, un albero verde che apre le sue foglie come mani — un’immagine che richiama i platani difesi dalla gente durante la protesta del parco Gezi a Istanbul — e posa sorridente per una foto ricordo.
Selahattin Demirtas, la sua affermazione nelle urne ha sorpreso molti, soprattutto per la consistenza dei voti raggiunti, il 13,1 per cento, mai ricevuto da un partito curdo. A che cosa attribuisce questo consenso?
«Siamo riusciti a ottenere un risultato in grado di creare effetti non solo in Turchia, ma in tutta l’area circostante e nel mondo. Prima di tutto, abbiamo fermato le ambizioni di regime di Recep Tayyip Erdogan. Com’è ovvio sosteniamo poi un sistema democratico, pluralistico e multi—etnico» .
Vi siete in parte impadroniti anche delle richieste ambientaliste e di rispetto per i diritti umani emerse durante la rivolta Gezi Park?
«Sì, è vero. Quello spirito di resistenza guardava a una vita nuova, alla libertà. Soprattutto quei ragazzi, i portatori dello “spirito di Gezi Park”, non hanno accettato la repressione, non si sono piegati alle minacce. Molta gente è stata uccisa, ma la resistenza non si è ritirata. Tutto questo alle elezioni si è riflesso sul nostro partito e ha contribuito al nostro successo» .
Nel 2002 molti turchi credettero in Erdogan, l’uomo nuovo, e lo votarono. Ora sembra che tocchi a lei. Non sente una grande responsabilità, visto che in questo momento ha addosso l’attenzione dell’Europa e del mondo?
«Quando Erdogan vinse quelle elezioni, allora, rappresentava un segmento di popolazione rimasta oppressa in Turchia per lungo tempo. Era quella islamica, ma dotata di un’espressione libertaria, capace di parlare di diritti umani e democrazia, e critica con lo status quo. Furono in grado di guadagnarsi anche il sostegno di pensatori liberali, dei democratici e persino di quelli di sinistra. Ma quando nel 2007 il suo partito è diventato più forte, ha cominciato a non sostenere più quel segmento sociale, il suo vero volto è venuto fuori. Erdogan si è trasformato in un lupo mannaro. Ha sorpreso tutti. Il regime si è trasformato in quello che ci ricordava il vecchio status quo, autoritario, repressivo, dittatoriale. E il movimento curdo, che è più radicato, ha cominciato a essere riconosciuto anche oltre i suoi spazi. Il nostro approccio non si basa sugli individui, ma sul partito, sulle istituzioni e sui programmi» .
E pensa che questa vostra affermazione possa diventare in futuro un passo verso la costituzione di istanze più ampie fra i curdi, unendovi alle battaglie che la vostra etnia sta facendo in Iraq, in Siria, in Iran?
«Noi crediamo che in qualsiasi posto i curdi vivano, debbano cercare una soluzione comune con la gente del Paese dove si trovano. Il problema curdo in Turchia deve essere risolto all’interno dei confini esistenti. Naturalmente le popolazioni che vivono nell’area curda in Siria e in Iraq prenderanno le loro decisioni per il futuro. Nel partito non c’è il programma di unire le diverse parti del Kurdistan e di creare un grande Kurdistan. E piuttosto di disegnare nuovi confini, proponiamo un modello che renda i confini più flessibili. Dove Siria, Iraq, Iran e i Paesi arabi possano essere qualcosa sul modello dell’Unione Europea, con libertà di movimento, lavoro, diritti sociali comuni, unione doganale, scambi culturali e sistemi più democratici».
Repubblica 13.6.15
Il teologo Giovanni Cereti
“Una mossa per unire le confessioni”
intervista di P.R.
CITTÀ DEL VATICANO «Mi sembra tutto molto chiaro: il vescovo di Roma Jorge Mario Bergoglio vuole la piena comunione con gli ortodossi e in generale con tutte le Chiese e le comunità cristiane; ogni passo utile in questo senso è da lui percorso e, nello stesso tempo, cercato, desiderato ». Giovanni Cereti, fine teologo, esperto di ecumenismo, rettore dell’Abbazia dei genovesi nella chiesa di San Giovanni Battista in Trastevere a Roma, è abituato alle risposte a braccio di Papa Francesco date in occasione degli incontri col clero. Già lo scorso 10 febbraio, infatti, fu lo steso Cereti a chiedere al Papa durante un colloquio coi sacerdoti di Roma avvenuto sempre in Laterano, di fare qualcosa per i sacerdoti di rito latino impossibilitati a sposarsi.
Francesco la sorprende?
«Fin dall’inizio del pontificato. Si presentò come vescovo di Roma. E non fu un’uscita a caso. Era consapevole, credo, che per gli ortodossi la questione del primato di Pietro è argomento delicato. Come vescovo di Roma egli è riconosciuto da tutti i cristiani. Per questo ha insistito su quel titolo».
La Chiesa ortodossa non riconosce il primato?
«Fin dalle origini la Chiesa ortodossa riconosce un primato “nella carità” o “di onore” al vescovo di Roma, ma ritiene che non sia valido finché continua la suddivisione tra chiesa orientale ed occidentale successiva al Grande Scisma; le Chiese protestanti, invece, non riconoscono nessun primato, né al Papa né ai patriarchi delle chiese orientali, in quanto reputano che l’istituto papale non sia in accordo con le Sacre Scritture».
La disponibilità a una data comune sulla Pasqua potrà essere davvero significativa sulla strada
dell’unità?
«È difficile rispondere. Intanto è un tassello non secondario. Certo, ritengo ne dovranno seguire di ulteriori. Ognuno a suo tempo. Ma credo che il Papa saprà come fare».
Già il Concilio Vaticano II cercò una data comune.
«È vero. Ma poi non si arrivò a una soluzione. Ed è una cosa triste che i cristiani celebrino la medesima festa in momenti separati. Ogni seprazione o divisione, del resto, è motivo di tristezza».
A suo avviso dietro l’annuncio dato ieri da Francesco ci sono soltanto motivazioni di stampo ecumenico?
«Le ragioni ecumeniche sono evidenti a tutti. Inoltre mi sembra di poter rilevare anche dei motivi dettati dalla necessità di arrivare a una testimonianza comune. L’arrivo a una data uguale per tutti è anche in questo senso un aiuto».
(p.r.)
Il teologo Giovanni Cereti
“Una mossa per unire le confessioni”
intervista di P.R.
CITTÀ DEL VATICANO «Mi sembra tutto molto chiaro: il vescovo di Roma Jorge Mario Bergoglio vuole la piena comunione con gli ortodossi e in generale con tutte le Chiese e le comunità cristiane; ogni passo utile in questo senso è da lui percorso e, nello stesso tempo, cercato, desiderato ». Giovanni Cereti, fine teologo, esperto di ecumenismo, rettore dell’Abbazia dei genovesi nella chiesa di San Giovanni Battista in Trastevere a Roma, è abituato alle risposte a braccio di Papa Francesco date in occasione degli incontri col clero. Già lo scorso 10 febbraio, infatti, fu lo steso Cereti a chiedere al Papa durante un colloquio coi sacerdoti di Roma avvenuto sempre in Laterano, di fare qualcosa per i sacerdoti di rito latino impossibilitati a sposarsi.
Francesco la sorprende?
«Fin dall’inizio del pontificato. Si presentò come vescovo di Roma. E non fu un’uscita a caso. Era consapevole, credo, che per gli ortodossi la questione del primato di Pietro è argomento delicato. Come vescovo di Roma egli è riconosciuto da tutti i cristiani. Per questo ha insistito su quel titolo».
La Chiesa ortodossa non riconosce il primato?
«Fin dalle origini la Chiesa ortodossa riconosce un primato “nella carità” o “di onore” al vescovo di Roma, ma ritiene che non sia valido finché continua la suddivisione tra chiesa orientale ed occidentale successiva al Grande Scisma; le Chiese protestanti, invece, non riconoscono nessun primato, né al Papa né ai patriarchi delle chiese orientali, in quanto reputano che l’istituto papale non sia in accordo con le Sacre Scritture».
La disponibilità a una data comune sulla Pasqua potrà essere davvero significativa sulla strada
dell’unità?
«È difficile rispondere. Intanto è un tassello non secondario. Certo, ritengo ne dovranno seguire di ulteriori. Ognuno a suo tempo. Ma credo che il Papa saprà come fare».
Già il Concilio Vaticano II cercò una data comune.
«È vero. Ma poi non si arrivò a una soluzione. Ed è una cosa triste che i cristiani celebrino la medesima festa in momenti separati. Ogni seprazione o divisione, del resto, è motivo di tristezza».
A suo avviso dietro l’annuncio dato ieri da Francesco ci sono soltanto motivazioni di stampo ecumenico?
«Le ragioni ecumeniche sono evidenti a tutti. Inoltre mi sembra di poter rilevare anche dei motivi dettati dalla necessità di arrivare a una testimonianza comune. L’arrivo a una data uguale per tutti è anche in questo senso un aiuto».
(p.r.)
Corriere 13.6.15
La mano tesa del Papa alle Chiese d’Oriente e quella diatriba che dura da millenni
La lite sui calendari, incomprensibile per il mondo di oggi
di Luigi Accattoli
GRANDE SCISMA
Con il Grande Scisma o Scisma d’Oriente la Chiesa cattolica si separò da quella di rito ortodosso. La prima propugnava il primato del vescovo di Roma in quanto successore dell’apostolo Pietro, la seconda si riteneva la continuatrice della tradizione delle prime comunità di cristiani. Storicamente il Grande Scisma viene fatto risalire al 1054, anno in cui papa Leone IX scomunicò il patriarca Michele I Cerulario. Quest’ultimo rispose scomunicando a sua volta il Papa. In realtà la divisione fu il frutto di un conflitto e di dispute che si andavano trascinando da parecchi anni.
C’è del sale e c’è del pepe nella battuta di papa Francesco sulla data della Pasqua. Il sale attiene alla buona volontà di arrivare a un accordo su una materia che divide ancora il mondo cristiano per ragioni ormai incomprensibili alla cultura contemporanea. Il pepe sta nel tono tranciante dell’accenno: come a dire che non solo è tempo di accordarsi, ma è già tardi.
Nel 2016 dovrebbe riunirsi a Istanbul un Concilio Panortodosso, cioè di tutte le Chiese dell’Ortodossia. Il pressing di Francesco sulla data della Pasqua — è almeno la quarta volta che ne parla in pubblico da quando è Papa — mira a facilitare il compito al moderatore della convocazione panortodossa che è il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo: Francesco con la sua mano tesa permette a Bartolomeo (con il quale ha ripetutamente parlato della questione) di presentare alle Chiese Ortodosse una via relativamente spianata.
Ma sarebbe ingenuo immaginare che l’accordo possa arrivare in tempi rapidi: sulla data della Pasqua si battaglia tra cristiani occidentali e orientali dalla fine del secondo secolo e pur trattandosi di una questione minore, non bisogna dimenticare che spesso ai religiosi appare grande ciò che alla ragione laica parrebbe piccolo.
Tre sono i problemi principali che finora hanno impedito un accordo: la diversa maniera del computo astronomico della data, il conflitto tra Chiese che seguono il calendario giuliano (risalente a Giulio Cesare) e quelle che hanno adottato il calendario Gregoriano (da papa Gregorio XIII), la novità di stabilire una data fissa per una celebrazione che gli antichi consideravano mobile al fine di farla coincidere con il momento «lunare» nel quale Cristo riunì i dodici per l’Ultima Cena.
I cristiani hanno sempre inteso celebrare la Pasqua nel giorno della risurrezione di Cristo, che i Vangeli collocano a metà del mese ebraico di Nisan: al 14° giorno di questo mese cadeva la Pasqua ebraica, che dà il nome a quella cristiana. Subito nacquero divergenze su come trasferire ai calendari ellenistico-romani una datazione del calendario ebraico.
Il conflitto aperto tra Oriente e Occidente, che nei primi secoli produsse lacerazioni e scomuniche, risale a papa Vittore I (189-199) e al suo antagonista d’Oriente che fu Policrate vescovo di Efeso: Vittore voleva che la Pasqua fosse celebrata sempre di domenica, comunque venisse calcolato il «14 di Nisan»; secondo Policrate invece la Pasqua si sarebbe dovuta celebrare in qualsiasi giorno uscisse da quel calcolo, fosse o no domenica.
Il Concilio di Nicea stabilì nel 325 che la Pasqua coincidesse con la prima domenica successiva alla luna piena che viene dopo l’equinozio di primavera dell’emisfero Nord. La pace seguita a questa decisione – mai accettata da tutte le Chiese, ma fatta propria sia da Roma sia dalle principali comunità orientali – fu infranta dalla riforma del calendario: da allora (1582) le Chiese dell’Ortodossia continuano a calcolare e celebrare secondo il vecchio calendario, mentre la Chiesa Cattolica – seguita in questo da quelle protestanti – ha cambiato passo e le due date non solo non coincidono ma vanno sempre più distanziandosi per effetto del progressivo allontanamento del computo giuliano rispetto al più corretto – anche se non perfetto – metodo gregoriano.
I tentativi di arrivare a un accordo durano da quasi cent’anni. Una prima proposta nacque in campo laico negli anni 20 del secolo scorso, per iniziativa della Società delle Nazioni che suggerì a tutte le Chiese di fissare la Pasqua alla domenica successiva al secondo sabato di aprile. La proposta trovò favore negli ambienti protestanti, ma lasciò fredda la Chiesa Cattolica e contrarie le Chiese dell’Ortodossia.
Toccò poi al Vaticano II rilanciare la questione affermando – nella Costituzione sulla Liturgia (1963) – che la Chiesa di Roma «non ha nulla in contrario a che la festa di Pasqua venga assegnata a una determinata domenica nel calendario gregoriano». Ovviamente già il solo richiamo al calendario gregoriano provocò lo sgradimento degli orientali.
Da allora passi in avanti se ne sono fatti un po’ ovunque, ma restano ancora varie resistenze. Favorevoli a un accordo che fissi la data sono sia i cattolici sia i protestanti. Ancora legati al computo di una data variabile dipendente dalle fasi lunari sono invece gli orientali.
La mano tesa del Papa alle Chiese d’Oriente e quella diatriba che dura da millenni
La lite sui calendari, incomprensibile per il mondo di oggi
di Luigi Accattoli
GRANDE SCISMA
Con il Grande Scisma o Scisma d’Oriente la Chiesa cattolica si separò da quella di rito ortodosso. La prima propugnava il primato del vescovo di Roma in quanto successore dell’apostolo Pietro, la seconda si riteneva la continuatrice della tradizione delle prime comunità di cristiani. Storicamente il Grande Scisma viene fatto risalire al 1054, anno in cui papa Leone IX scomunicò il patriarca Michele I Cerulario. Quest’ultimo rispose scomunicando a sua volta il Papa. In realtà la divisione fu il frutto di un conflitto e di dispute che si andavano trascinando da parecchi anni.
C’è del sale e c’è del pepe nella battuta di papa Francesco sulla data della Pasqua. Il sale attiene alla buona volontà di arrivare a un accordo su una materia che divide ancora il mondo cristiano per ragioni ormai incomprensibili alla cultura contemporanea. Il pepe sta nel tono tranciante dell’accenno: come a dire che non solo è tempo di accordarsi, ma è già tardi.
Nel 2016 dovrebbe riunirsi a Istanbul un Concilio Panortodosso, cioè di tutte le Chiese dell’Ortodossia. Il pressing di Francesco sulla data della Pasqua — è almeno la quarta volta che ne parla in pubblico da quando è Papa — mira a facilitare il compito al moderatore della convocazione panortodossa che è il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo: Francesco con la sua mano tesa permette a Bartolomeo (con il quale ha ripetutamente parlato della questione) di presentare alle Chiese Ortodosse una via relativamente spianata.
Ma sarebbe ingenuo immaginare che l’accordo possa arrivare in tempi rapidi: sulla data della Pasqua si battaglia tra cristiani occidentali e orientali dalla fine del secondo secolo e pur trattandosi di una questione minore, non bisogna dimenticare che spesso ai religiosi appare grande ciò che alla ragione laica parrebbe piccolo.
Tre sono i problemi principali che finora hanno impedito un accordo: la diversa maniera del computo astronomico della data, il conflitto tra Chiese che seguono il calendario giuliano (risalente a Giulio Cesare) e quelle che hanno adottato il calendario Gregoriano (da papa Gregorio XIII), la novità di stabilire una data fissa per una celebrazione che gli antichi consideravano mobile al fine di farla coincidere con il momento «lunare» nel quale Cristo riunì i dodici per l’Ultima Cena.
I cristiani hanno sempre inteso celebrare la Pasqua nel giorno della risurrezione di Cristo, che i Vangeli collocano a metà del mese ebraico di Nisan: al 14° giorno di questo mese cadeva la Pasqua ebraica, che dà il nome a quella cristiana. Subito nacquero divergenze su come trasferire ai calendari ellenistico-romani una datazione del calendario ebraico.
Il conflitto aperto tra Oriente e Occidente, che nei primi secoli produsse lacerazioni e scomuniche, risale a papa Vittore I (189-199) e al suo antagonista d’Oriente che fu Policrate vescovo di Efeso: Vittore voleva che la Pasqua fosse celebrata sempre di domenica, comunque venisse calcolato il «14 di Nisan»; secondo Policrate invece la Pasqua si sarebbe dovuta celebrare in qualsiasi giorno uscisse da quel calcolo, fosse o no domenica.
Il Concilio di Nicea stabilì nel 325 che la Pasqua coincidesse con la prima domenica successiva alla luna piena che viene dopo l’equinozio di primavera dell’emisfero Nord. La pace seguita a questa decisione – mai accettata da tutte le Chiese, ma fatta propria sia da Roma sia dalle principali comunità orientali – fu infranta dalla riforma del calendario: da allora (1582) le Chiese dell’Ortodossia continuano a calcolare e celebrare secondo il vecchio calendario, mentre la Chiesa Cattolica – seguita in questo da quelle protestanti – ha cambiato passo e le due date non solo non coincidono ma vanno sempre più distanziandosi per effetto del progressivo allontanamento del computo giuliano rispetto al più corretto – anche se non perfetto – metodo gregoriano.
I tentativi di arrivare a un accordo durano da quasi cent’anni. Una prima proposta nacque in campo laico negli anni 20 del secolo scorso, per iniziativa della Società delle Nazioni che suggerì a tutte le Chiese di fissare la Pasqua alla domenica successiva al secondo sabato di aprile. La proposta trovò favore negli ambienti protestanti, ma lasciò fredda la Chiesa Cattolica e contrarie le Chiese dell’Ortodossia.
Toccò poi al Vaticano II rilanciare la questione affermando – nella Costituzione sulla Liturgia (1963) – che la Chiesa di Roma «non ha nulla in contrario a che la festa di Pasqua venga assegnata a una determinata domenica nel calendario gregoriano». Ovviamente già il solo richiamo al calendario gregoriano provocò lo sgradimento degli orientali.
Da allora passi in avanti se ne sono fatti un po’ ovunque, ma restano ancora varie resistenze. Favorevoli a un accordo che fissi la data sono sia i cattolici sia i protestanti. Ancora legati al computo di una data variabile dipendente dalle fasi lunari sono invece gli orientali.
La Stampa 13.6.15
La mossa geo-politica del Vaticano
“Una data fissa per la Pasqua” L’invito del Papa agli ortodossi
L’apertura del Pontefice ai patriarchi di Costantinopoli e Mosca I due giorni oggi non coincidono a causa del calendario diverso
di Franco Garelli
Possono essere molte le ragioni sottese alla rivoluzionaria proposta di Francesco di stabilire una data fissa per celebrare la risurrezione di Cristo, in modo che ogni anno, nello stesso giorno, tutti i cristiani – cattolici, ortodossi o protestanti – vivano insieme la Pasqua.
La prima è dare un segno di concretezza ad una istanza ecumenica che da tempo fatica ad andare oltre le buone intenzioni, dal momento che si scontra con differenze teologiche e di tradizione cristallizzate nel corso della storia e che persistono anche nell’epoca attuale. Come si sa, per il mondo cattolico la Pasqua è una festa mobile, e la sua data cambia di anno in anno, in quanto connessa al ciclo lunare. La Pasqua si celebra la domenica successiva alla prima luna di primavera, e viene sempre compresa nel periodo tra il 22 marzo e il 25 aprile. Gli ortodossi invece seguono il calendario giuliano, che prevede la ricorrenza della Pasqua in una data diversa da quella celebrata in Occidente. Si tratta di opzioni e di tradizioni differenti che al mondo secolarizzato di oggi possono apparire poco rilevanti, ma che invece per il popolo dei fedeli e per i cultori della tradizione mantengono un forte valore identitario. In altri termini, dietro le diverse sequenze del calendario vi è l’affermazione di specifiche identità confessionali, che si sono delineate nel tempo e impediscono il dialogo e la convergenza tra quanti professano l’unica fede in Gesù Cristo. Di qui la mano tesa del Papa soprattutto nei confronti delle Chiese ortodosse, con la disponibilità a trovare una data comune, in modo che a Roma, a Costantinopoli e a Mosca venga celebrata la Pasqua ogni anno nello stesso giorno. Ciò per evitare, nelle parole di Francesco, che i cattolici e gli ortodossi celebrino la Pasqua in giorni diversi; che gli uni festeggino la più grande festa dei cristiani quando gli altri ritengono che il Signore non sia ancora risorto.
Ma oltre ad essere dettata da ragioni ecumeniche, questa apertura del Pontefice sembra far parte della grande attenzione che Francesco riserva a ciò che accade a livello religioso e politico nel Medio Oriente e nell’Est europeo. E’ grande la preoccupazione del Papa non soltanto per le sorti delle comunità cristiane in Paesi e in territori in cui l’islam è fortemente maggioritario e in cui esse hanno problemi di sopravvivenza fisica; ma anche per il ruolo che le chiese ortodosse possono avere in nazioni (come la Russia e l’Ucraina) che sono al centro di conflitti identitari ed etnici. Di qui, l’attenzione - che oggi si arricchisce di un nuovo gesto - nei confronti del Patriarcato di Mosca e delle Chiese ad esso collegate perché venga ribadita la comune radice cristiana, al fine di rafforzare l’azione di pace e di riconciliazione in terre ricche di contrapposizioni. Ciò vale soprattutto per l’Ucraina, dove la confessione maggioritaria (la chiesa ortodossa cattolica) è chiamata dal Pontefice a svolgere un ruolo di maggior mediazione politica grazie alla sua duplice identità «ortodossa» e «cattolica».
Come sempre dunque in questo pontificato, un gesto religioso (come appunto la proposta di una data fissa per la Pasqua per tutti i cristiani) ha anche una forte valenza geo-politica.
La mossa geo-politica del Vaticano
“Una data fissa per la Pasqua” L’invito del Papa agli ortodossi
L’apertura del Pontefice ai patriarchi di Costantinopoli e Mosca I due giorni oggi non coincidono a causa del calendario diverso
di Franco Garelli
Possono essere molte le ragioni sottese alla rivoluzionaria proposta di Francesco di stabilire una data fissa per celebrare la risurrezione di Cristo, in modo che ogni anno, nello stesso giorno, tutti i cristiani – cattolici, ortodossi o protestanti – vivano insieme la Pasqua.
La prima è dare un segno di concretezza ad una istanza ecumenica che da tempo fatica ad andare oltre le buone intenzioni, dal momento che si scontra con differenze teologiche e di tradizione cristallizzate nel corso della storia e che persistono anche nell’epoca attuale. Come si sa, per il mondo cattolico la Pasqua è una festa mobile, e la sua data cambia di anno in anno, in quanto connessa al ciclo lunare. La Pasqua si celebra la domenica successiva alla prima luna di primavera, e viene sempre compresa nel periodo tra il 22 marzo e il 25 aprile. Gli ortodossi invece seguono il calendario giuliano, che prevede la ricorrenza della Pasqua in una data diversa da quella celebrata in Occidente. Si tratta di opzioni e di tradizioni differenti che al mondo secolarizzato di oggi possono apparire poco rilevanti, ma che invece per il popolo dei fedeli e per i cultori della tradizione mantengono un forte valore identitario. In altri termini, dietro le diverse sequenze del calendario vi è l’affermazione di specifiche identità confessionali, che si sono delineate nel tempo e impediscono il dialogo e la convergenza tra quanti professano l’unica fede in Gesù Cristo. Di qui la mano tesa del Papa soprattutto nei confronti delle Chiese ortodosse, con la disponibilità a trovare una data comune, in modo che a Roma, a Costantinopoli e a Mosca venga celebrata la Pasqua ogni anno nello stesso giorno. Ciò per evitare, nelle parole di Francesco, che i cattolici e gli ortodossi celebrino la Pasqua in giorni diversi; che gli uni festeggino la più grande festa dei cristiani quando gli altri ritengono che il Signore non sia ancora risorto.
Ma oltre ad essere dettata da ragioni ecumeniche, questa apertura del Pontefice sembra far parte della grande attenzione che Francesco riserva a ciò che accade a livello religioso e politico nel Medio Oriente e nell’Est europeo. E’ grande la preoccupazione del Papa non soltanto per le sorti delle comunità cristiane in Paesi e in territori in cui l’islam è fortemente maggioritario e in cui esse hanno problemi di sopravvivenza fisica; ma anche per il ruolo che le chiese ortodosse possono avere in nazioni (come la Russia e l’Ucraina) che sono al centro di conflitti identitari ed etnici. Di qui, l’attenzione - che oggi si arricchisce di un nuovo gesto - nei confronti del Patriarcato di Mosca e delle Chiese ad esso collegate perché venga ribadita la comune radice cristiana, al fine di rafforzare l’azione di pace e di riconciliazione in terre ricche di contrapposizioni. Ciò vale soprattutto per l’Ucraina, dove la confessione maggioritaria (la chiesa ortodossa cattolica) è chiamata dal Pontefice a svolgere un ruolo di maggior mediazione politica grazie alla sua duplice identità «ortodossa» e «cattolica».
Come sempre dunque in questo pontificato, un gesto religioso (come appunto la proposta di una data fissa per la Pasqua per tutti i cristiani) ha anche una forte valenza geo-politica.
Repubblica 13.6.15
L’innesco pericoloso
di Chiara Saraceno
FENOMENO largamente ingovernato e lasciato a soluzioni trovate sul momento, il continuo flusso di arrivi di migranti rischia di trasformarsi nell’innesco di un processo di frantumazione sociale.
MA ANCHE di sfiducia prima ancora che di de-solidarizzazione, di grandi proporzioni, con esiti imprevedibili per la coesione sociale. Tanto più che i vari populismi soffiano sul fuoco di legittime paure, enfatizzano i rischi (oggi la scabbia, ogni giorno la criminalità e la violenza), chiamano alla rivolta contro gli invasori e contro un governo indicato come imbelle. La cautela con cui si muovono, i distinguo che operano, anche gli amministratori di sinistra e i candidati al ballottaggio di domani testimoniano di come i politici più vicini ai territori siano consapevoli di stare su una polveriera su cui hanno scarso controllo. Il fatto è che tutti sanno che la miccia è accesa. Mancano però i pompieri e l’acqua. Manca una organizzazione, una regia, che indichi una strada praticabile non solo nel giorno per giorno, che non si comporti come se l’emergenza di questi giorni non fosse prevedibile e perciò non ci si potesse attrezzare per tempo, sia per accogliere chi arriva, sia per convincere i partner europei a fare la loro parte. Dopo l’ennesima tragedia di Lampedusa sembrava che il governo italiano e l’Alto commissario europeo agli affari esteri fossero riusciti a imporre all’Unione europea una assunzione piena di corresponsabilità. Ma poi l’accordo dato per raggiunto si è via via ridotto, prima nei numeri (e tempi) dei richiedenti asilo che gli altri paesi erano disposti ad accogliere, poi nella trasformazione di un impegno vincolante in pura discrezionalità volontaria, senza che dal governo italiano si sia sentita una protesta, forse per timore di perdere quel po’ di flessibilità sul bilancio faticosamente ottenuta. Come se il contraccolpo di una crisi forte della coesione sociale e della vittoria dei populismi non rappresentasse un pericolo più grave, anche per le finanze. Quanto all’Alto commissario Morgherini, se ne è persa traccia. In compenso, diversi paesi hanno sospeso Schengen, ritornando ai controlli alle frontiere per tutti. La Lega si è affrettata ad applaudire, chiedendo che sia sospeso anche in Italia, come se ci fossero migranti che premono ai confini francese o austriaco per entrare nel nostro paese e non, invece, per lasciarlo.
Chiudere le frontiere interne avrà poco effetto sia sugli arrivi in Italia, sia sui tentativi di chi arriva di lasciare il più presto possibile il nostro paese, non lasciandosi identificare, per andare in altri, dove si trovano già parenti. Persone che hanno passato mesi e talvolta anni per arrivare in Europa, non si faranno facilmente dissuadere da controlli, respingimenti alle frontiere, condizioni di vita miserabili, come quelle di chi si accampa nelle stazioni. Avrà invece l’effetto di esasperare ulteriormente il rapporto tra autoctoni e migranti.
È compito del governo e delle sue articolazioni territoriali agire con fermezza perché la responsabilità sia condivisa da tutte le realtà territoriali, garantire i sostegni, economici e organizzativi e non lasciare che si creino condizioni di vita incivili dentro e fuori i centri di accoglienza. Condizioni che oltre a essere inaccettabili in un paese che si vuole civile e democratico, non fanno che attizzare il fuoco del malcontento e della insicurezza nella popolazione autoctona, specie in quella che per forza di cose vi è più a contatto, esattamente come avviene per i campi rom lasciati nel degrado nelle periferie più povere. Il lassismo con cui si lascia che la stazione metropolitana di Milano sia colonizzata da venditori abusivi è simile a quello per cui si lascia che migranti alla ricerca di un passaggio fuori Italia si ammassino alla stazione di Milano e Roma fino a quando diventano troppo visibili e allora arriva o un presidio medico o una carica della polizia. Monitorare per tempo questi fenomeni aiuterebbe a contenerne l’inaccettabilità per i cittadini. Ma è compito del governo anche far sentire la propria voce anche in Europa e all’Onu, rifiutando scelte unilaterali, magari proponendo una visione meno disumanizzante di quella che vede i profughi e richiedenti asilo come oggetti da spostare da un posto all’altro a prescindere dalla meta che loro desiderano raggiungere.
Se questa azione non è possibile, se l’Italia e ancor più la Grecia sono chiamate a Bruxelles solo per rispondere dei compiti loro assegnati da chi veramente comanda nella UE e non anche per chiedere che i confini non siano permeabili solo alla concorrenza, ma anche agli esseri umani, e che la solidarietà non riguardi solo la salvaguardia degli interessi forti, il rischio per l’Europa appare più grande di quello costituito dall’uscita della Grecia dall’euro. Se l’Europa, infatti, è solo quella della austerità imposta ai più deboli e della solidarietà non condivisa, davvero non si capisce a che cosa serva ed è sempre più difficile difenderla anche agli europeisti.
L’innesco pericoloso
di Chiara Saraceno
FENOMENO largamente ingovernato e lasciato a soluzioni trovate sul momento, il continuo flusso di arrivi di migranti rischia di trasformarsi nell’innesco di un processo di frantumazione sociale.
MA ANCHE di sfiducia prima ancora che di de-solidarizzazione, di grandi proporzioni, con esiti imprevedibili per la coesione sociale. Tanto più che i vari populismi soffiano sul fuoco di legittime paure, enfatizzano i rischi (oggi la scabbia, ogni giorno la criminalità e la violenza), chiamano alla rivolta contro gli invasori e contro un governo indicato come imbelle. La cautela con cui si muovono, i distinguo che operano, anche gli amministratori di sinistra e i candidati al ballottaggio di domani testimoniano di come i politici più vicini ai territori siano consapevoli di stare su una polveriera su cui hanno scarso controllo. Il fatto è che tutti sanno che la miccia è accesa. Mancano però i pompieri e l’acqua. Manca una organizzazione, una regia, che indichi una strada praticabile non solo nel giorno per giorno, che non si comporti come se l’emergenza di questi giorni non fosse prevedibile e perciò non ci si potesse attrezzare per tempo, sia per accogliere chi arriva, sia per convincere i partner europei a fare la loro parte. Dopo l’ennesima tragedia di Lampedusa sembrava che il governo italiano e l’Alto commissario europeo agli affari esteri fossero riusciti a imporre all’Unione europea una assunzione piena di corresponsabilità. Ma poi l’accordo dato per raggiunto si è via via ridotto, prima nei numeri (e tempi) dei richiedenti asilo che gli altri paesi erano disposti ad accogliere, poi nella trasformazione di un impegno vincolante in pura discrezionalità volontaria, senza che dal governo italiano si sia sentita una protesta, forse per timore di perdere quel po’ di flessibilità sul bilancio faticosamente ottenuta. Come se il contraccolpo di una crisi forte della coesione sociale e della vittoria dei populismi non rappresentasse un pericolo più grave, anche per le finanze. Quanto all’Alto commissario Morgherini, se ne è persa traccia. In compenso, diversi paesi hanno sospeso Schengen, ritornando ai controlli alle frontiere per tutti. La Lega si è affrettata ad applaudire, chiedendo che sia sospeso anche in Italia, come se ci fossero migranti che premono ai confini francese o austriaco per entrare nel nostro paese e non, invece, per lasciarlo.
Chiudere le frontiere interne avrà poco effetto sia sugli arrivi in Italia, sia sui tentativi di chi arriva di lasciare il più presto possibile il nostro paese, non lasciandosi identificare, per andare in altri, dove si trovano già parenti. Persone che hanno passato mesi e talvolta anni per arrivare in Europa, non si faranno facilmente dissuadere da controlli, respingimenti alle frontiere, condizioni di vita miserabili, come quelle di chi si accampa nelle stazioni. Avrà invece l’effetto di esasperare ulteriormente il rapporto tra autoctoni e migranti.
È compito del governo e delle sue articolazioni territoriali agire con fermezza perché la responsabilità sia condivisa da tutte le realtà territoriali, garantire i sostegni, economici e organizzativi e non lasciare che si creino condizioni di vita incivili dentro e fuori i centri di accoglienza. Condizioni che oltre a essere inaccettabili in un paese che si vuole civile e democratico, non fanno che attizzare il fuoco del malcontento e della insicurezza nella popolazione autoctona, specie in quella che per forza di cose vi è più a contatto, esattamente come avviene per i campi rom lasciati nel degrado nelle periferie più povere. Il lassismo con cui si lascia che la stazione metropolitana di Milano sia colonizzata da venditori abusivi è simile a quello per cui si lascia che migranti alla ricerca di un passaggio fuori Italia si ammassino alla stazione di Milano e Roma fino a quando diventano troppo visibili e allora arriva o un presidio medico o una carica della polizia. Monitorare per tempo questi fenomeni aiuterebbe a contenerne l’inaccettabilità per i cittadini. Ma è compito del governo anche far sentire la propria voce anche in Europa e all’Onu, rifiutando scelte unilaterali, magari proponendo una visione meno disumanizzante di quella che vede i profughi e richiedenti asilo come oggetti da spostare da un posto all’altro a prescindere dalla meta che loro desiderano raggiungere.
Se questa azione non è possibile, se l’Italia e ancor più la Grecia sono chiamate a Bruxelles solo per rispondere dei compiti loro assegnati da chi veramente comanda nella UE e non anche per chiedere che i confini non siano permeabili solo alla concorrenza, ma anche agli esseri umani, e che la solidarietà non riguardi solo la salvaguardia degli interessi forti, il rischio per l’Europa appare più grande di quello costituito dall’uscita della Grecia dall’euro. Se l’Europa, infatti, è solo quella della austerità imposta ai più deboli e della solidarietà non condivisa, davvero non si capisce a che cosa serva ed è sempre più difficile difenderla anche agli europeisti.
Repubblica 13.6.15
Per chi suona (davvero) la campanella
di Adriano Sofri
TORNIAMO sul sostegno: cioè sugli alunni, i genitori, gli insegnanti di sostegno (e non) e le autorità competenti. Sapevo di toccare un nervo molto sensibile, le reazioni al mio articolo del 21 maggio sono state molte e accese. Questo mostra prima di tutto che non c’è stata finora un’informazione chiara e una discussione adeguata, e ce n’è tanto più bisogno dal momento che la “Buona Scuola” chiede una delega al governo per riformare il sostegno nei successivi 18 mesi. Le reazioni mi hanno aiutato a farmi un’idea più ampia, e a interpellare più stringentemente le autorità competenti. (Non terrò conto delle accuse vicendevoli di voler umiliare o strumentalizzare i bambini disabili). Una prima questione riguarda la possibilità di passaggio (consentita oggi dopo 5 anni) dal sostegno all’insegnamento “normale” delle materie. Chi vuole abolirla ha a cuore la continuità del sostegno (in realtà, in molte situazioni attuali, anche un paio d’anni continui sarebbero un passo avanti) e depreca che si scelga il sostegno come un accesso più facile alla docenza, con la riserva di lasciarlo appena possibile. Il proposito è giusto, ma è dubbio che lo si raggiunga imponendo di scegliere irreversibilmente la carriera del sostegno dall’università. Candidati senza vocazione continuerebbero a sceglierla se vi vedessero una via più accessibile, e nemmeno al miglior formazione riuscirebbe a prevalere sulla loro renitenza: diventeranno cinici, o maltrattatori. Una selezione iniziale che badasse alla doppia qualità della vocazione e della formazione garantirebbe molto meglio, e gli eventuali passaggi, comunque limitati, si riserverebbero a insegnanti provati da un lavoro che, affrontato degnamente, è davvero emotivamente coinvolgente e fisicamente faticoso. Non ci sono dati esatti su quanti sono oggi i passaggi dal sostegno all’insegnamento della materia dopo i 5 anni (troppi, comunque, benché i numeri Istat siano più rassicuranti); oltretutto c’è anche il passaggio inverso, cioè la frettolosa riconversione di insegnanti “ordinari” – di educazione fisica, per esempio restati senza incarico, e dirottati al sostegno. Nei mestieri che si prendono cura della debolezza –medici e infermieri, badanti, assistenti sociali, e genitori e insegnanti di sostegno… - ci sono le persone che possono fare più bene e più male. Ci sono genitori che sperano dalla scuola miracoli che la scuola –né altri non può fare. Ci sono genitori disperati che fanno bocciare i figli, che la scuola li tenga più a lungo, e dopo la maggiore età temono il vuoto. Genitori che pensano che il sostegno e la sua riforma siano loro competenza – e non anche di insegnanti e di pedagogisti - e temono un sostegno fatto “contro le famiglie”, un po’ come avvenne con l’applicazione della legge Basaglia. E poi, succede pressoché a ciascuno di fare i conti, per un accidente o una malattia, anche con la propria debolezza.
Oggi i docenti di sostegno sono 130 mila, 95 mila dei quali di ruolo. Veniamo al punto più esposto: la ventilata separazione delle carriere di sostegno e insegnamento della materia, paventata come una “ medicalizzazione” del sostegno. Ho cercato le opinioni delle associazioni di disabili e familiari, degli insegnanti, dei pedagogisti e dei singoli con esperienze e idee da avanzare. Sommariamente si dividono così: le principali Federazioni rappresentanti di disabili, Fand e Fish, pensano che solo la separazione assicuri al sostegno la formazione specializzata (ma non “monovalente”, su un’unica patologia, precisa a loro nome Salvatore Nocera) che le disabilità dei ragazzi esigono; altri chiedono all’opposto che sostegno e insegnamento restino intercambiabili, e anzi lo siano di più, come vorrebbe Dario Ianes, che punta sulla formazione all’inclusione di tutti gli insegnanti, con una minoranza di “esperti” itineranti. Altri ancora, come la pedagogista Marina Santi o Daniela Boscolo, temono che nell’una e nell’altra visione l’insegnante di sostegno dimagrisca fino a scomparire, assimilato nel primo caso all’operatore della patologia, nel secondo al docente ordinario. Una terza posizione, come Evelina Chiocca del Ciis o il Comitato Insegnanti Bis-abili, punta sulla “cattedra mista”, cioè – semplifico - a una turnazione fra docente della materia e del sostegno (il quale è a sua volta formato in una materia). Il sottosegretario Davide Faraone, che col suo staff è particolarmente impegnato su questo cruciale capitolo della “Buona Scuola”, è intervenuto, dopo il mio articolo, per negare il rischio di “medicalizzazione”, e la stessa separazione: “I ruoli tra i docenti curricolari /delle materie, cioè, nota mia/ e di sostegno dovrebbero essere intercambiabili…”. Essendosi fatto tutto più chiaro e insieme più confuso ai miei occhi, ho proposto i vari interrogativi che avevo raccolto allo stesso Faraone e ai suoi collaboratori. Faraone mi ha esposto una nuova posizione: “Ci proponiamo di agire non su un doppio ma su un triplo binario: rafforzando la preparazione specifica anche degli insegnanti della materia, la cui sinergia col sostegno è decisiva per evitare l’isolamento dei ragazzi; conservando e rafforzando il sostegno; e affiancando agli uni e agli altri degli operatori con una formazione peculiare per le patologie più impegnative, che tuttavia restino docenti e non sanitari”. La condizione oggi più evocata è l’autismo, e anche Faraone riferisce la propria esperienza di padre. “Così disastrosa che abbiamo trasferito la nostra bambina a una scuola privata, dove oltretutto può seguirla anche la sua operatrice, e i risultati sono confortanti: ma se noi possiamo permettercelo, tante altre famiglie non possono”. Dice anche che le contrapposizioni sul sostegno, aspre come sono, possono rivelarsi largamente dovute a fraintendimenti e diffidenze, anche sul tema della “cattedra mista”. E che la delega da votare con la legge vuol dire davvero un periodo sufficiente a confrontarsi sul tema senza vincoli insuperabili, compresa la proposta di legge a firma sua e di altri e le diverse opzioni di associazioni, sindacati e singoli. Gli dico che mi auguro il contrario, ma il suo “triplo binario” rischia di apparire un paradosso o un espediente, e di tirargli addosso i sospetti di tutte le parti. E che comunque prevede più soldi, e un certo ottimismo: l’operatore che sia, in una sola persona, prima docente, poi docente di sostegno, e infine formato su una patologia, ha qualcosa di leonardesco. I soldi in più li abbiamo messi, dice. E tutta questa discussione è ancora pregiudicata da una condizione che prima o poi andrà affrontata: quella per cui oggi ci sono più o meno 185 classi di concorso per gli insegnanti, figlie di quella proliferazione di titoli di materie universitarie che servì a moltiplicare, se non le baronie, le sottobaronie.
Bisogna augurarsi che la discussione si faccia costruttiva, e riduca il bianco della delega in bianco richiesta nella legge. Ho ricevuto il diario di un’insegnante: “Quando era necessario ho accompagnato l’allieva in bagno, ho aspettato accanto a lei che facesse la cacca e poi l’ho pulita… Ho preparato schemi, riassunti e verifiche di informatica, matematica, fisica, chimica, scienze della terra, biologia, scienze motorie, filosofia, italiano, storia, storia dell’arte, inglese, discipline geometriche, discipline progettuali. Dal livello prescolare al livello quinta liceo”.
Quanto alla “Buona Scuola”, se al prossimo passaggio tramontasse la chiamata diretta che così inopinatamente era sorta, si potrebbe suonare, se non le campane, la campanella.
Per chi suona (davvero) la campanella
di Adriano Sofri
TORNIAMO sul sostegno: cioè sugli alunni, i genitori, gli insegnanti di sostegno (e non) e le autorità competenti. Sapevo di toccare un nervo molto sensibile, le reazioni al mio articolo del 21 maggio sono state molte e accese. Questo mostra prima di tutto che non c’è stata finora un’informazione chiara e una discussione adeguata, e ce n’è tanto più bisogno dal momento che la “Buona Scuola” chiede una delega al governo per riformare il sostegno nei successivi 18 mesi. Le reazioni mi hanno aiutato a farmi un’idea più ampia, e a interpellare più stringentemente le autorità competenti. (Non terrò conto delle accuse vicendevoli di voler umiliare o strumentalizzare i bambini disabili). Una prima questione riguarda la possibilità di passaggio (consentita oggi dopo 5 anni) dal sostegno all’insegnamento “normale” delle materie. Chi vuole abolirla ha a cuore la continuità del sostegno (in realtà, in molte situazioni attuali, anche un paio d’anni continui sarebbero un passo avanti) e depreca che si scelga il sostegno come un accesso più facile alla docenza, con la riserva di lasciarlo appena possibile. Il proposito è giusto, ma è dubbio che lo si raggiunga imponendo di scegliere irreversibilmente la carriera del sostegno dall’università. Candidati senza vocazione continuerebbero a sceglierla se vi vedessero una via più accessibile, e nemmeno al miglior formazione riuscirebbe a prevalere sulla loro renitenza: diventeranno cinici, o maltrattatori. Una selezione iniziale che badasse alla doppia qualità della vocazione e della formazione garantirebbe molto meglio, e gli eventuali passaggi, comunque limitati, si riserverebbero a insegnanti provati da un lavoro che, affrontato degnamente, è davvero emotivamente coinvolgente e fisicamente faticoso. Non ci sono dati esatti su quanti sono oggi i passaggi dal sostegno all’insegnamento della materia dopo i 5 anni (troppi, comunque, benché i numeri Istat siano più rassicuranti); oltretutto c’è anche il passaggio inverso, cioè la frettolosa riconversione di insegnanti “ordinari” – di educazione fisica, per esempio restati senza incarico, e dirottati al sostegno. Nei mestieri che si prendono cura della debolezza –medici e infermieri, badanti, assistenti sociali, e genitori e insegnanti di sostegno… - ci sono le persone che possono fare più bene e più male. Ci sono genitori che sperano dalla scuola miracoli che la scuola –né altri non può fare. Ci sono genitori disperati che fanno bocciare i figli, che la scuola li tenga più a lungo, e dopo la maggiore età temono il vuoto. Genitori che pensano che il sostegno e la sua riforma siano loro competenza – e non anche di insegnanti e di pedagogisti - e temono un sostegno fatto “contro le famiglie”, un po’ come avvenne con l’applicazione della legge Basaglia. E poi, succede pressoché a ciascuno di fare i conti, per un accidente o una malattia, anche con la propria debolezza.
Oggi i docenti di sostegno sono 130 mila, 95 mila dei quali di ruolo. Veniamo al punto più esposto: la ventilata separazione delle carriere di sostegno e insegnamento della materia, paventata come una “ medicalizzazione” del sostegno. Ho cercato le opinioni delle associazioni di disabili e familiari, degli insegnanti, dei pedagogisti e dei singoli con esperienze e idee da avanzare. Sommariamente si dividono così: le principali Federazioni rappresentanti di disabili, Fand e Fish, pensano che solo la separazione assicuri al sostegno la formazione specializzata (ma non “monovalente”, su un’unica patologia, precisa a loro nome Salvatore Nocera) che le disabilità dei ragazzi esigono; altri chiedono all’opposto che sostegno e insegnamento restino intercambiabili, e anzi lo siano di più, come vorrebbe Dario Ianes, che punta sulla formazione all’inclusione di tutti gli insegnanti, con una minoranza di “esperti” itineranti. Altri ancora, come la pedagogista Marina Santi o Daniela Boscolo, temono che nell’una e nell’altra visione l’insegnante di sostegno dimagrisca fino a scomparire, assimilato nel primo caso all’operatore della patologia, nel secondo al docente ordinario. Una terza posizione, come Evelina Chiocca del Ciis o il Comitato Insegnanti Bis-abili, punta sulla “cattedra mista”, cioè – semplifico - a una turnazione fra docente della materia e del sostegno (il quale è a sua volta formato in una materia). Il sottosegretario Davide Faraone, che col suo staff è particolarmente impegnato su questo cruciale capitolo della “Buona Scuola”, è intervenuto, dopo il mio articolo, per negare il rischio di “medicalizzazione”, e la stessa separazione: “I ruoli tra i docenti curricolari /delle materie, cioè, nota mia/ e di sostegno dovrebbero essere intercambiabili…”. Essendosi fatto tutto più chiaro e insieme più confuso ai miei occhi, ho proposto i vari interrogativi che avevo raccolto allo stesso Faraone e ai suoi collaboratori. Faraone mi ha esposto una nuova posizione: “Ci proponiamo di agire non su un doppio ma su un triplo binario: rafforzando la preparazione specifica anche degli insegnanti della materia, la cui sinergia col sostegno è decisiva per evitare l’isolamento dei ragazzi; conservando e rafforzando il sostegno; e affiancando agli uni e agli altri degli operatori con una formazione peculiare per le patologie più impegnative, che tuttavia restino docenti e non sanitari”. La condizione oggi più evocata è l’autismo, e anche Faraone riferisce la propria esperienza di padre. “Così disastrosa che abbiamo trasferito la nostra bambina a una scuola privata, dove oltretutto può seguirla anche la sua operatrice, e i risultati sono confortanti: ma se noi possiamo permettercelo, tante altre famiglie non possono”. Dice anche che le contrapposizioni sul sostegno, aspre come sono, possono rivelarsi largamente dovute a fraintendimenti e diffidenze, anche sul tema della “cattedra mista”. E che la delega da votare con la legge vuol dire davvero un periodo sufficiente a confrontarsi sul tema senza vincoli insuperabili, compresa la proposta di legge a firma sua e di altri e le diverse opzioni di associazioni, sindacati e singoli. Gli dico che mi auguro il contrario, ma il suo “triplo binario” rischia di apparire un paradosso o un espediente, e di tirargli addosso i sospetti di tutte le parti. E che comunque prevede più soldi, e un certo ottimismo: l’operatore che sia, in una sola persona, prima docente, poi docente di sostegno, e infine formato su una patologia, ha qualcosa di leonardesco. I soldi in più li abbiamo messi, dice. E tutta questa discussione è ancora pregiudicata da una condizione che prima o poi andrà affrontata: quella per cui oggi ci sono più o meno 185 classi di concorso per gli insegnanti, figlie di quella proliferazione di titoli di materie universitarie che servì a moltiplicare, se non le baronie, le sottobaronie.
Bisogna augurarsi che la discussione si faccia costruttiva, e riduca il bianco della delega in bianco richiesta nella legge. Ho ricevuto il diario di un’insegnante: “Quando era necessario ho accompagnato l’allieva in bagno, ho aspettato accanto a lei che facesse la cacca e poi l’ho pulita… Ho preparato schemi, riassunti e verifiche di informatica, matematica, fisica, chimica, scienze della terra, biologia, scienze motorie, filosofia, italiano, storia, storia dell’arte, inglese, discipline geometriche, discipline progettuali. Dal livello prescolare al livello quinta liceo”.
Quanto alla “Buona Scuola”, se al prossimo passaggio tramontasse la chiamata diretta che così inopinatamente era sorta, si potrebbe suonare, se non le campane, la campanella.
Repubblica 13.6.15
Tutti i rischi dei voti agli insegnanti
risponde Corrado Augias
CARO AUGIAS, valutare i docenti non solo è giusto: è doveroso. Sono insegnante anch’io e sono convinta di fare del mio meglio, così come i miei colleghi. Siamo tutti molto impegnati e mossi dalle migliori intenzioni. La valutazione del docente non può certo essere la vendetta dello studente pigro o della famiglia arrogante, ma dovrebbe essere il legittimo controllo di organismi preparati e, appunto, competenti, affinché tutti gli studenti abbiano garanzia di ricevere un insegnamento di qualità. Se la considerazione sociale della categoria non è delle migliori, è anche conseguenza del nostro rifiuto, come docenti, di un qualsiasi tipo di controllo.
Questo rifiuto ci rende, agli occhi delle famiglie, complici degli abusi e degli errori che ancora accadono in alcune scuole. Si tratta del futuro dei ragazzi e del nostro futuro come società. Non può essere lasciato nelle mani della fortuna, non può prescindere da responsabilità individuali e politiche.
Nadia De Santis, Torino — nadia.desantiskibi@gmail.com
LA QUESTIONE di una possibile valutazione divide la categoria. Né da questo osservatorio né dalle manifestazioni di piazza è possibile dire quale sia e di che consistenza, la possibile maggioranza. Accanto alla lettera della professoressa De Santis ho ricevuto per esempio quella di Giovanni Polizzi (giovanni- polizzi@libero.it): «In ambito scolastico non vale il principio della dipendenza funzionale perché nella scuola non accade, come altrove, che il superiore abbia nei riguardi delle attività una conoscenza migliore. Accade il contrario: gli insegnanti sono spesso più competenti del dirigente. Occorrerebbe definire meglio il rapporto tra la funzione del dirigente (spesso di tipo gestionale) e la funzione docente (in prevalenza didattica); naturalmente interagiscono ma non in una logica di dipendenza, come conferma anche il principio della libertà d’insegnamento. Non si tratta di volersi sottrarre a una doverosa valutazione ma di affidarla a organismi dotati della necessaria competenza». Ci sono anche lettere di insegnanti che motivano il rifiuto di una valutazione. Ad esempio Gianfranco Mosconi: «un docente preparato e serio può essere perfino malvisto dal preside; proprio perché più esigente, scontenta le famiglie interessate più alla promozione che alla vera formazione dei figli. E che dire di quei presidi che si sentono depositari di ogni sapere e pretendono di intervenire perfino su materie che non conoscono?». Di parere diverso Alessandro Mazzini (liceo Manzoni, Milano): «la riforma Renzi va nella direzione giusta, è anzi timida. Bisognerebbe introdurre la possibilità di licenziare quei docenti che non fanno il proprio dovere e trasformare la scuola in una realtà analoga al restante mondo del lavoro». Per ciò che vale la mia opinione, credo che la valutazione andrebbe reintrodotta, purché con ogni migliore garanzia contro errori o abusi.
Tutti i rischi dei voti agli insegnanti
risponde Corrado Augias
CARO AUGIAS, valutare i docenti non solo è giusto: è doveroso. Sono insegnante anch’io e sono convinta di fare del mio meglio, così come i miei colleghi. Siamo tutti molto impegnati e mossi dalle migliori intenzioni. La valutazione del docente non può certo essere la vendetta dello studente pigro o della famiglia arrogante, ma dovrebbe essere il legittimo controllo di organismi preparati e, appunto, competenti, affinché tutti gli studenti abbiano garanzia di ricevere un insegnamento di qualità. Se la considerazione sociale della categoria non è delle migliori, è anche conseguenza del nostro rifiuto, come docenti, di un qualsiasi tipo di controllo.
Questo rifiuto ci rende, agli occhi delle famiglie, complici degli abusi e degli errori che ancora accadono in alcune scuole. Si tratta del futuro dei ragazzi e del nostro futuro come società. Non può essere lasciato nelle mani della fortuna, non può prescindere da responsabilità individuali e politiche.
Nadia De Santis, Torino — nadia.desantiskibi@gmail.com
LA QUESTIONE di una possibile valutazione divide la categoria. Né da questo osservatorio né dalle manifestazioni di piazza è possibile dire quale sia e di che consistenza, la possibile maggioranza. Accanto alla lettera della professoressa De Santis ho ricevuto per esempio quella di Giovanni Polizzi (giovanni- polizzi@libero.it): «In ambito scolastico non vale il principio della dipendenza funzionale perché nella scuola non accade, come altrove, che il superiore abbia nei riguardi delle attività una conoscenza migliore. Accade il contrario: gli insegnanti sono spesso più competenti del dirigente. Occorrerebbe definire meglio il rapporto tra la funzione del dirigente (spesso di tipo gestionale) e la funzione docente (in prevalenza didattica); naturalmente interagiscono ma non in una logica di dipendenza, come conferma anche il principio della libertà d’insegnamento. Non si tratta di volersi sottrarre a una doverosa valutazione ma di affidarla a organismi dotati della necessaria competenza». Ci sono anche lettere di insegnanti che motivano il rifiuto di una valutazione. Ad esempio Gianfranco Mosconi: «un docente preparato e serio può essere perfino malvisto dal preside; proprio perché più esigente, scontenta le famiglie interessate più alla promozione che alla vera formazione dei figli. E che dire di quei presidi che si sentono depositari di ogni sapere e pretendono di intervenire perfino su materie che non conoscono?». Di parere diverso Alessandro Mazzini (liceo Manzoni, Milano): «la riforma Renzi va nella direzione giusta, è anzi timida. Bisognerebbe introdurre la possibilità di licenziare quei docenti che non fanno il proprio dovere e trasformare la scuola in una realtà analoga al restante mondo del lavoro». Per ciò che vale la mia opinione, credo che la valutazione andrebbe reintrodotta, purché con ogni migliore garanzia contro errori o abusi.
Corriere 13.6.15
Più di dieci milioni di italiani versano al Fisco 55 euro l’anno
di Alberto Brambilla, Paolo Novati
Comitato tecnico scientifico di Itinerari previdenziali
Le due facce dell’Italia: il 4,01% dei contribuenti paga il 32,6% dell’Irpef, mentre oltre 10 milioni di italiani versano in media 55 euro l’anno. La fotografia che arriva dalle dichiarazioni Irpef 2013 ritrae un Paese che difficilmente potrebbe identificarsi nell’Italia membro del G7. In sintesi: su 60,782 milioni di abitanti il numero di contribuenti, cioè di quelli che presentano la dichiarazione dei redditi, è di circa 41 milioni; i contribuenti effettivi (che pagano almeno un euro di tasse) sono circa 31 milioni. In altre parole, quasi la metà degli italiani non ha redditi.
Le due facce del Paese: il 4,01% dei contribuenti paga il 32,6% dell’Irpef, mentre oltre 10 milioni di italiani versano in media 55 euro l’anno
La fotografia che arriva dalle dichiarazioni Irpef 2013, presentate lo scorso anno, ritrae un Paese che difficilmente potrebbe identificarsi nell’Italia, membro del club del G7. Vediamo in sintesi qualche dato: su 60,782 milioni di abitanti il numero di contribuenti, cioè di quelli che presentano la dichiarazione dei redditi, è di circa 41 milioni (500 mila in meno rispetto all’anno precedente); i contribuenti effettivi (che pagano almeno un euro di tasse) sono circa 31 milioni. In altre parole, quasi la metà degli italiani non ha redditi e quindi vive a carico di qualcuno. Per valutare poi l’Irpef media versata, occorre fare il rapporto tra il numero dei dichiaranti e il numero di abitanti: a ogni dichiarante corrispondono 1,48 abitanti.
Analizzando in dettaglio le dichiarazioni, si arriva alle seguenti considerazioni:
1) Tra i contribuenti i primi 799.815 dichiarano redditi nulli o negativi.
2) Il totale di coloro che dichiarano redditi (compresi quelli con reddito nullo o negativo) fino a 7.500 euro annui sono 10.338.712 contribuenti, cioè il 25,23% del totale, e corrispondono a 15.331.084 abitanti. L’Irpef media dichiarata pro capite è pari a 55 euro l’anno. Per queste persone, oltre agli altri servizi, lo Stato deve provvedere a pagare circa 1.790 euro a testa per la sanità (109 miliardi il totale 2013). Per cui occorre reperire dagli altri contribuenti, per il solo servizio sanitario, circa 27 miliardi.
3) Tra i 7.500 e i 15.000 euro di reddito annuo contiamo 8.740.989 contribuenti (circa 13 milioni di abitanti) che pagano una Irpef media di 649 euro. Anche qui per la sola sanità dobbiamo reperire altri 15 miliardi circa. In totale, con i 27 miliardi di prima, sono 42 miliardi in totale.
4) Tra i 15.000 e i 20.000 euro di reddito dichiarato troviamo 6,2 milioni di contribuenti (9,31 milioni di abitanti) che pagano un’imposta media di 1.765 euro, quasi sufficiente per pagarsi la sanità.
Ricapitolando, i primi 19.079.701 di contribuenti (pari al 46,56% del totale), di cui 7.187.273 pensionati, dichiarano redditi da zero a 15.000 euro e quindi vivono con un reddito medio mensile inferiore ai 600 euro: meno di quello dei circa 6 milioni di pensionati che, come dice in modo errato l’Istat, hanno pensioni inferiori a mille euro al mese (per la metà sono superstiti). Questi primi 19.079.701 di contribuenti a cui corrispondono 28,3 milioni di abitanti, anche per via delle detrazioni, pagano in media circa 300 euro l’anno e si suppone pochissimi contributi sociali, con gravissime ripercussioni sia sull’attuale sistema pensionistico sia sulla futura coesione sociale.
Chi avrà i soldi per pagare le pensioni agli oltre 10 milioni di soggetti privi di contribuzione? Il 61,88% dei contribuenti, pari a 37.613.497 abitanti, non supera i 20.000 euro di reddito lordo dichiarato l’anno (cioè poco più di 1.100 euro netti al mese). Oltre i 55.000 euro di reddito lordo troviamo solo 1,64 milioni di contribuenti (il 4,01%); tra i 100.000 e i 200.000 euro, 339.217 (lo 0,83%), e sopra i 200.000 euro lordi sono 106.356. Siamo proprio un Paese povero! Alcuni stati in via di sviluppo o emergenti hanno percentuali ben più alte.
Rovesciando la descrizione possiamo riassumerla anche così: Lo 0,19% dei cittadini paga il 6,9% dell’Irpef, il che ovviamente è clamoroso. L’1,02% dei contribuenti paga il 16,3% dell’Irpef, oppure il 4,01% paga il 32,6%, oppure ancora il 10,91% paga il 51,2% di tutta l’Irpef (il 38,1% paga quasi l’86% di tutta l’Irpef).
Impressionante la progressione delle imposte medie pagata. Tra i 20 ai 35.000 euro: 3.400 euro; tra i 35 e i 55 mila euro: 7.393 euro; tra i 55 e i 100 mila euro: 15.079 euro; tra i 100 e i 200 mila euro: 31.537 euro; sopra i 200.000 euro: 102.463 euro; oltre i 300.000 euro, la media della sola Irpef ed addizionali regionali e comunali è 163.021 euro, cioè oltre il 50% del reddito lordo a cui si sommano le altre imposte, tasse e accise; in pratica si lavora per i 2/3 per lo Stato e solo per 1/3 per la propria famiglia; si capisce il perché ogni anno questo numero di «vacche da mungere» diminuisce sempre più, anche perché a costoro sono precluse quasi tutte le agevolazioni tariffarie e sanitarie. Nell’immaginario collettivo sono quelli da spremere con patrimoniali e, se pensionati, con blocchi delle indicizzazioni, prelievi forzosi e, secondo alcuni movimenti, da espropriare oltre un certo livello di pensione. In un Paese normale dove il merito conta ancora qualcosa sarebbero da citare come esempio.
Ci sarebbero molte osservazioni da fare; preferisco che siano i lettori a giudicare: a) se questa fotografia impietosa corrisponde al Paese che ha il record di case in proprietà, telefonini, auto e altro pro capite e una ricchezza pro capite stimata dalla Bundesbank doppia rispetto a quella dei tedeschi; b) se non sia necessario, come peraltro accade nella maggior parte dei Paesi che spesso citiamo a sproposito quali modelli di welfare, che la nostra Agenzia delle entrate e l’Inps — che pure dispongono di tutte le informazioni e codici fiscali — procedano alla convocazione dei soggetti che dichiarano poco o nulla da molti anni per domandare come fanno a vivere. In tanti casi, vista anche la pesante crisi economica, la povertà sarebbe reale ed effettiva. Ma forse si scoprirebbero anche molti lavoratori irregolari. E in qualche caso associati alla criminalità organizzata.
Più di dieci milioni di italiani versano al Fisco 55 euro l’anno
di Alberto Brambilla, Paolo Novati
Comitato tecnico scientifico di Itinerari previdenziali
Le due facce dell’Italia: il 4,01% dei contribuenti paga il 32,6% dell’Irpef, mentre oltre 10 milioni di italiani versano in media 55 euro l’anno. La fotografia che arriva dalle dichiarazioni Irpef 2013 ritrae un Paese che difficilmente potrebbe identificarsi nell’Italia membro del G7. In sintesi: su 60,782 milioni di abitanti il numero di contribuenti, cioè di quelli che presentano la dichiarazione dei redditi, è di circa 41 milioni; i contribuenti effettivi (che pagano almeno un euro di tasse) sono circa 31 milioni. In altre parole, quasi la metà degli italiani non ha redditi.
Le due facce del Paese: il 4,01% dei contribuenti paga il 32,6% dell’Irpef, mentre oltre 10 milioni di italiani versano in media 55 euro l’anno
La fotografia che arriva dalle dichiarazioni Irpef 2013, presentate lo scorso anno, ritrae un Paese che difficilmente potrebbe identificarsi nell’Italia, membro del club del G7. Vediamo in sintesi qualche dato: su 60,782 milioni di abitanti il numero di contribuenti, cioè di quelli che presentano la dichiarazione dei redditi, è di circa 41 milioni (500 mila in meno rispetto all’anno precedente); i contribuenti effettivi (che pagano almeno un euro di tasse) sono circa 31 milioni. In altre parole, quasi la metà degli italiani non ha redditi e quindi vive a carico di qualcuno. Per valutare poi l’Irpef media versata, occorre fare il rapporto tra il numero dei dichiaranti e il numero di abitanti: a ogni dichiarante corrispondono 1,48 abitanti.
Analizzando in dettaglio le dichiarazioni, si arriva alle seguenti considerazioni:
1) Tra i contribuenti i primi 799.815 dichiarano redditi nulli o negativi.
2) Il totale di coloro che dichiarano redditi (compresi quelli con reddito nullo o negativo) fino a 7.500 euro annui sono 10.338.712 contribuenti, cioè il 25,23% del totale, e corrispondono a 15.331.084 abitanti. L’Irpef media dichiarata pro capite è pari a 55 euro l’anno. Per queste persone, oltre agli altri servizi, lo Stato deve provvedere a pagare circa 1.790 euro a testa per la sanità (109 miliardi il totale 2013). Per cui occorre reperire dagli altri contribuenti, per il solo servizio sanitario, circa 27 miliardi.
3) Tra i 7.500 e i 15.000 euro di reddito annuo contiamo 8.740.989 contribuenti (circa 13 milioni di abitanti) che pagano una Irpef media di 649 euro. Anche qui per la sola sanità dobbiamo reperire altri 15 miliardi circa. In totale, con i 27 miliardi di prima, sono 42 miliardi in totale.
4) Tra i 15.000 e i 20.000 euro di reddito dichiarato troviamo 6,2 milioni di contribuenti (9,31 milioni di abitanti) che pagano un’imposta media di 1.765 euro, quasi sufficiente per pagarsi la sanità.
Ricapitolando, i primi 19.079.701 di contribuenti (pari al 46,56% del totale), di cui 7.187.273 pensionati, dichiarano redditi da zero a 15.000 euro e quindi vivono con un reddito medio mensile inferiore ai 600 euro: meno di quello dei circa 6 milioni di pensionati che, come dice in modo errato l’Istat, hanno pensioni inferiori a mille euro al mese (per la metà sono superstiti). Questi primi 19.079.701 di contribuenti a cui corrispondono 28,3 milioni di abitanti, anche per via delle detrazioni, pagano in media circa 300 euro l’anno e si suppone pochissimi contributi sociali, con gravissime ripercussioni sia sull’attuale sistema pensionistico sia sulla futura coesione sociale.
Chi avrà i soldi per pagare le pensioni agli oltre 10 milioni di soggetti privi di contribuzione? Il 61,88% dei contribuenti, pari a 37.613.497 abitanti, non supera i 20.000 euro di reddito lordo dichiarato l’anno (cioè poco più di 1.100 euro netti al mese). Oltre i 55.000 euro di reddito lordo troviamo solo 1,64 milioni di contribuenti (il 4,01%); tra i 100.000 e i 200.000 euro, 339.217 (lo 0,83%), e sopra i 200.000 euro lordi sono 106.356. Siamo proprio un Paese povero! Alcuni stati in via di sviluppo o emergenti hanno percentuali ben più alte.
Rovesciando la descrizione possiamo riassumerla anche così: Lo 0,19% dei cittadini paga il 6,9% dell’Irpef, il che ovviamente è clamoroso. L’1,02% dei contribuenti paga il 16,3% dell’Irpef, oppure il 4,01% paga il 32,6%, oppure ancora il 10,91% paga il 51,2% di tutta l’Irpef (il 38,1% paga quasi l’86% di tutta l’Irpef).
Impressionante la progressione delle imposte medie pagata. Tra i 20 ai 35.000 euro: 3.400 euro; tra i 35 e i 55 mila euro: 7.393 euro; tra i 55 e i 100 mila euro: 15.079 euro; tra i 100 e i 200 mila euro: 31.537 euro; sopra i 200.000 euro: 102.463 euro; oltre i 300.000 euro, la media della sola Irpef ed addizionali regionali e comunali è 163.021 euro, cioè oltre il 50% del reddito lordo a cui si sommano le altre imposte, tasse e accise; in pratica si lavora per i 2/3 per lo Stato e solo per 1/3 per la propria famiglia; si capisce il perché ogni anno questo numero di «vacche da mungere» diminuisce sempre più, anche perché a costoro sono precluse quasi tutte le agevolazioni tariffarie e sanitarie. Nell’immaginario collettivo sono quelli da spremere con patrimoniali e, se pensionati, con blocchi delle indicizzazioni, prelievi forzosi e, secondo alcuni movimenti, da espropriare oltre un certo livello di pensione. In un Paese normale dove il merito conta ancora qualcosa sarebbero da citare come esempio.
Ci sarebbero molte osservazioni da fare; preferisco che siano i lettori a giudicare: a) se questa fotografia impietosa corrisponde al Paese che ha il record di case in proprietà, telefonini, auto e altro pro capite e una ricchezza pro capite stimata dalla Bundesbank doppia rispetto a quella dei tedeschi; b) se non sia necessario, come peraltro accade nella maggior parte dei Paesi che spesso citiamo a sproposito quali modelli di welfare, che la nostra Agenzia delle entrate e l’Inps — che pure dispongono di tutte le informazioni e codici fiscali — procedano alla convocazione dei soggetti che dichiarano poco o nulla da molti anni per domandare come fanno a vivere. In tanti casi, vista anche la pesante crisi economica, la povertà sarebbe reale ed effettiva. Ma forse si scoprirebbero anche molti lavoratori irregolari. E in qualche caso associati alla criminalità organizzata.
Repubblica 13.6.15
Schizofrenia politica da condono
La decisione di Crocetta legalizza in un colpo solo 30 mila abusi
di Tomaso Montanari
COME in un film horror di terz’ordine riprende vita un devastante virus congelato, un orrendo mostro che dormiva da dodici anni nei cassetti giuridici a triplo fondo della Regione Sicilia: che sempre di più appare autonoma soprattutto dalla Costituzione, oltre che dal buon senso.
Giusto un anno fa, un comunicato stampa della giunta Crocetta annunciava la soddisfazione dell’allora assessore all’ambiente Maria Rita Sgarlata e del presidente della commissione ambiente Giampiero Trizzino per aver bloccato il mostro, e cioè il condono in forma di circolare: «Un atto fondamentale a difesa del territorio siciliano. La circolare di fatto allargava l’ultimo condono edilizio agli immobili ricadenti in aree sulle quali insistono vincoli di protezione, tra i quali quelli paesaggistici ed idrogeologici ». Oggi – silurata la Sgarlata e marginalizzato Trizzino – la stessa identica giunta Crocetta scongela e sottoscrive quella famigerata circolare: un atto di schizofrenia politica che genera istantaneamente un mostruoso supercondono, che a sua volta legalizza in un colpo solo 30mila abusi siciliani. Anche edifici sul mare, anche in zone vinco-late: e soprattutto anche in luoghi ad altissimo rischio idrico e geologico. E qui non c’è solo l’inqualificabile esempio di un’amministrazione che invita i suoi cittadini a perseverare allegramente nell’illegalità in attesa della prossima sanatoria (che immancabilmente arriverà): c’è molto di peggio, perché rinunciando per sempre alle demolizioni, si mettono le basi per le stragi future, nella più completa rimozione della pur recentissima memoria dei trentasette morti dell’alluvione di Giampilieri (Messina, 2009).
Il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ha appena constatato pubblicamente che «non esiste una strategia per lo sviluppo del Mezzogiorno». Di fronte all’azzardo inqualificabile della Giunta Crocetta c’è da augurarsi che ciò sia vero letteralmente. Perché se invece una strategia ci fosse, e se questa strategia avesse a che fare con il ballottaggio di domenica prossima, saremmo di fronte al più cinico dei calcoli: puntare tutto sull’ignoranza, e barattare la vita stessa dei cittadini con il loro consenso.
La cosa più impressionante è che quello fino a ieri congelato era un mostro partorito dal governo Berlusconi nel 2003: un mostro che in salsa siciliana è diventato ancor più mostruoso, perché la versione originale non permetteva di condonare gli edifici in aree vincolate. E ci si chiede: ma è possibile che il ministro Delrio e il presidente Renzi rimangano muti di fronte ad un governatore del Pd che resuscita una devastante legge del ventennio berlusconiano, e anzi la peggiora ulteriormente? L’uscita di scena del ministro Maurizio Lupi aveva fatto sperare che il Nazareno dell’ambiente (simboleggiato dallo Sblocca Italia) fosse stato sepolto per sempre: ma ora quel patto risorge, e lo fa nella regione più bella e più infelice di un’Italia che sembra condannata a non cambiare mai verso.
Schizofrenia politica da condono
La decisione di Crocetta legalizza in un colpo solo 30 mila abusi
di Tomaso Montanari
COME in un film horror di terz’ordine riprende vita un devastante virus congelato, un orrendo mostro che dormiva da dodici anni nei cassetti giuridici a triplo fondo della Regione Sicilia: che sempre di più appare autonoma soprattutto dalla Costituzione, oltre che dal buon senso.
Giusto un anno fa, un comunicato stampa della giunta Crocetta annunciava la soddisfazione dell’allora assessore all’ambiente Maria Rita Sgarlata e del presidente della commissione ambiente Giampiero Trizzino per aver bloccato il mostro, e cioè il condono in forma di circolare: «Un atto fondamentale a difesa del territorio siciliano. La circolare di fatto allargava l’ultimo condono edilizio agli immobili ricadenti in aree sulle quali insistono vincoli di protezione, tra i quali quelli paesaggistici ed idrogeologici ». Oggi – silurata la Sgarlata e marginalizzato Trizzino – la stessa identica giunta Crocetta scongela e sottoscrive quella famigerata circolare: un atto di schizofrenia politica che genera istantaneamente un mostruoso supercondono, che a sua volta legalizza in un colpo solo 30mila abusi siciliani. Anche edifici sul mare, anche in zone vinco-late: e soprattutto anche in luoghi ad altissimo rischio idrico e geologico. E qui non c’è solo l’inqualificabile esempio di un’amministrazione che invita i suoi cittadini a perseverare allegramente nell’illegalità in attesa della prossima sanatoria (che immancabilmente arriverà): c’è molto di peggio, perché rinunciando per sempre alle demolizioni, si mettono le basi per le stragi future, nella più completa rimozione della pur recentissima memoria dei trentasette morti dell’alluvione di Giampilieri (Messina, 2009).
Il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ha appena constatato pubblicamente che «non esiste una strategia per lo sviluppo del Mezzogiorno». Di fronte all’azzardo inqualificabile della Giunta Crocetta c’è da augurarsi che ciò sia vero letteralmente. Perché se invece una strategia ci fosse, e se questa strategia avesse a che fare con il ballottaggio di domenica prossima, saremmo di fronte al più cinico dei calcoli: puntare tutto sull’ignoranza, e barattare la vita stessa dei cittadini con il loro consenso.
La cosa più impressionante è che quello fino a ieri congelato era un mostro partorito dal governo Berlusconi nel 2003: un mostro che in salsa siciliana è diventato ancor più mostruoso, perché la versione originale non permetteva di condonare gli edifici in aree vincolate. E ci si chiede: ma è possibile che il ministro Delrio e il presidente Renzi rimangano muti di fronte ad un governatore del Pd che resuscita una devastante legge del ventennio berlusconiano, e anzi la peggiora ulteriormente? L’uscita di scena del ministro Maurizio Lupi aveva fatto sperare che il Nazareno dell’ambiente (simboleggiato dallo Sblocca Italia) fosse stato sepolto per sempre: ma ora quel patto risorge, e lo fa nella regione più bella e più infelice di un’Italia che sembra condannata a non cambiare mai verso.
Repubblica 13.6.15
Sanatoria in Sicilia, bufera su Crocetta
In extremis, e alla vigilia dei ballottaggi, una circolare riscopre il condono varato da Berlusconi nel 2003 Interessate 30 mila case abusive, in gran parte nei paesi che votano
Il governatore: “Non sapevo nulla”
di Emanuele Lauria
PALERMO. Uno, due, trentamila. È lo stesso assessore al Territorio Maurizio Croce, l’uomo che ha firmato la circolare sblocca- sanatoria, a fornire il numero definitivo delle pratiche che tornano in pista. La Sicilia del “comunista” Crocetta riscopre il condono Berlusconi, dodici anni dopo, ed è un corto circuito che scatena polemiche. Perché il provvedimento incriminato arriva a pochi giorni dalle elezioni eof course - favorirà pure gli abusivi di numerosi centri interessati dai ballottaggi delle amministrative. «Io non lo sapevo», dice il presidente Crocetta impegnato in una difficilissima sfida elettorale con i grillini nella sua Gela, una delle capitali dell’abusivismo siciliano. «L’atto - dice il governatore - l’ha firmato il mio assessore e comunque dovevamo adottarlo per forza se vogliamo rispettare le sentenze della giustizia amministrativa». La questione, in realtà, non è così semplice. La circolare che ha scatenato il putiferio, infatti, ne cancella una precedente di segno contrario che, a sua volta, ne annulla un’altra firmata ancora prima. Tutto nasce dall’incerta applicazione della sanatoria Berlusconi del 2003: l’Assemblea regionale siciliana, infatti, nel recepirla, si “dimenticò” di importare anche nell’Isola le norme più stringenti sulla cosiddetta “inedificabilità relativa”, che si applica in alcune zone protette, fra le quali pezzi di riserva e aree soggette a vincolo idrogeologico. In altre aree, come quello entro 150 metri dalla battiglia, vige l’inedificabilità assoluta.
I Comuni sono rimasti prigionieri di dubbi interpretativi, fugati ora dalla circolare del duo Croce-Crocetta: il vincolo “relativo” può essere bypassato «anche se non in automatico», si affretta a precisare l’assessore alludendo al fatto che il via libera definitivo alle pratiche, in ogni caso, sarà subordinato ai pareri degli organi competenti (assessorato, sovrintendenze). «Cosa dovevamo fare, soccombere davanti a un contenzioso enorme? », si giustifica ora Croce che cita «ben 23 sentenze contrrarie del consiglio di giustizia amministrativa ». Ora, in una terra segnata dalla piaga dell’abusivismo, dove complessivamente sono 770 mila le domande di sanatoria (e secondo la commissione ambiente dell’Ars la maggior parte delle irregolarità non viene denunciata) un provvedimento del genere non poteva passare inosservato. Crocetta è finito nel mirino dei grillini: «Governo incapace che conferma la propria totale schizofrenia», dice il deputato Giampiero Trizzino. A ruota le proteste dei Verdi, che con Angelo Bonelli annunciano un esposto al governo nazionale: «Possibile che su un tema così delicato Crocetta imiti in peggio Berlusconi? ». «C’è il dubbio - dice Gianfranco Zanna di Legambiente- che si tratti di un tentativo di fare cassa a danno del territorio ». Quindi lo «sconcerto» di Italia Nostra che parla di «mossa disperata dell’ultima ora».
Già, l’ultima ora. Ovvero la vigilia dei ballottaggi. La Regione ha fatto subito sapere che a Gela, la cittadina di Crocetta, le istanze che si sbloccano sono “soltanto” 150. Non vengono fornite altre cifre dettagliate. Ma un segnale si può cogliere dal numero complessivo delle domande di sanatoria presentate nel 2003. Nei primi posti della classifica siciliana figurano Marsala (1.379 istanze), Carini (1.322), Gela (1.319), Barcellona (1.158) e Milazzo (1.111): tutti centri interessati dal voto. Un caso? Forse. Di certo, il segretario del Pd siciliano, Fausto Raciti, dice che «la tempistica di questo atto, probabilmemnte dovuto, è discutibile». E lo stesso assessore Croce, rivendicando la sua buona fede, infine ammette di essersi “pentito”: «La circolare dovevo firmarla, ma forse sarebbe stato meglio farlo martedì».
Sanatoria in Sicilia, bufera su Crocetta
In extremis, e alla vigilia dei ballottaggi, una circolare riscopre il condono varato da Berlusconi nel 2003 Interessate 30 mila case abusive, in gran parte nei paesi che votano
Il governatore: “Non sapevo nulla”
di Emanuele Lauria
PALERMO. Uno, due, trentamila. È lo stesso assessore al Territorio Maurizio Croce, l’uomo che ha firmato la circolare sblocca- sanatoria, a fornire il numero definitivo delle pratiche che tornano in pista. La Sicilia del “comunista” Crocetta riscopre il condono Berlusconi, dodici anni dopo, ed è un corto circuito che scatena polemiche. Perché il provvedimento incriminato arriva a pochi giorni dalle elezioni eof course - favorirà pure gli abusivi di numerosi centri interessati dai ballottaggi delle amministrative. «Io non lo sapevo», dice il presidente Crocetta impegnato in una difficilissima sfida elettorale con i grillini nella sua Gela, una delle capitali dell’abusivismo siciliano. «L’atto - dice il governatore - l’ha firmato il mio assessore e comunque dovevamo adottarlo per forza se vogliamo rispettare le sentenze della giustizia amministrativa». La questione, in realtà, non è così semplice. La circolare che ha scatenato il putiferio, infatti, ne cancella una precedente di segno contrario che, a sua volta, ne annulla un’altra firmata ancora prima. Tutto nasce dall’incerta applicazione della sanatoria Berlusconi del 2003: l’Assemblea regionale siciliana, infatti, nel recepirla, si “dimenticò” di importare anche nell’Isola le norme più stringenti sulla cosiddetta “inedificabilità relativa”, che si applica in alcune zone protette, fra le quali pezzi di riserva e aree soggette a vincolo idrogeologico. In altre aree, come quello entro 150 metri dalla battiglia, vige l’inedificabilità assoluta.
I Comuni sono rimasti prigionieri di dubbi interpretativi, fugati ora dalla circolare del duo Croce-Crocetta: il vincolo “relativo” può essere bypassato «anche se non in automatico», si affretta a precisare l’assessore alludendo al fatto che il via libera definitivo alle pratiche, in ogni caso, sarà subordinato ai pareri degli organi competenti (assessorato, sovrintendenze). «Cosa dovevamo fare, soccombere davanti a un contenzioso enorme? », si giustifica ora Croce che cita «ben 23 sentenze contrrarie del consiglio di giustizia amministrativa ». Ora, in una terra segnata dalla piaga dell’abusivismo, dove complessivamente sono 770 mila le domande di sanatoria (e secondo la commissione ambiente dell’Ars la maggior parte delle irregolarità non viene denunciata) un provvedimento del genere non poteva passare inosservato. Crocetta è finito nel mirino dei grillini: «Governo incapace che conferma la propria totale schizofrenia», dice il deputato Giampiero Trizzino. A ruota le proteste dei Verdi, che con Angelo Bonelli annunciano un esposto al governo nazionale: «Possibile che su un tema così delicato Crocetta imiti in peggio Berlusconi? ». «C’è il dubbio - dice Gianfranco Zanna di Legambiente- che si tratti di un tentativo di fare cassa a danno del territorio ». Quindi lo «sconcerto» di Italia Nostra che parla di «mossa disperata dell’ultima ora».
Già, l’ultima ora. Ovvero la vigilia dei ballottaggi. La Regione ha fatto subito sapere che a Gela, la cittadina di Crocetta, le istanze che si sbloccano sono “soltanto” 150. Non vengono fornite altre cifre dettagliate. Ma un segnale si può cogliere dal numero complessivo delle domande di sanatoria presentate nel 2003. Nei primi posti della classifica siciliana figurano Marsala (1.379 istanze), Carini (1.322), Gela (1.319), Barcellona (1.158) e Milazzo (1.111): tutti centri interessati dal voto. Un caso? Forse. Di certo, il segretario del Pd siciliano, Fausto Raciti, dice che «la tempistica di questo atto, probabilmemnte dovuto, è discutibile». E lo stesso assessore Croce, rivendicando la sua buona fede, infine ammette di essersi “pentito”: «La circolare dovevo firmarla, ma forse sarebbe stato meglio farlo martedì».
Repubblica 13.6.15
Le suore e i conti milionari. “Complici del malaffare”
di Giuliano Foschini
TRANI . «Gliel’ho detto al “piccolino”: ce lo volete dare questo nominativo?». In nome del Signore, brutte cose accadevano alla Casa divina provvidenza di Bisceglie. Tra le migliaia di pagine depositate dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza - come per esempio questa intercettazione della madre superiora, suor Marcella, con uno degli uomini del senatore Antonio Azzollini a fare più impressione sono quelle che riguardano le Ancelle, suore che a credere al gip Raffaella Volpe gestivano con grande disinvoltura gli “gli affari criminali della Congregazione”.
Emblematiche sono le transazioni effettuate sui conti allo Ior della Congregazione ancelle della divina provvidenza, nati ufficialmente per accontonare le pensioni delle religiose. Ma che in realtà servivano, così dice la procura di Trani, per distrarre fondi dal crac della Divina provvidenza. Per dire, su quei conti transitano bonifici per complessivi un milione e ottocentomila euro, 775mila euro dei quali disposti con un unico bonifico proprio da suor Marcella. E ancora sono registrati giroconti per cinque milioni di euro oltre a versamenti per circa duecentomila euro. «Cifre che dimostrano - spiega il gip - come su questo conto non confluiscono affatto solo i proventi delle pensioni». Anche perchè parte dei soldi vengono poi girati su un altro conto Vaticano: le suore, dice il gip, infatti, «avevano traslato una considerevole parte delle ricchezze dell’ente sui conti dell’istituto gemello, all’evidente scopo di occultarla alle eventuali azioni di recupero da parte dei creditori». Addirittura arrivano a firmare un «finto contratto di affitto.
Accanto a questa importante mole di denaro all’interno i conti, ci sono poi i movimenti politici per evitare che la gestione della Cdp passi di mano. Il 3 dicembre del 2013 sempre suor Marcella è al telefono con don Maurizio Pisciolla, assistente spirituale della Congregazione.
Nel corso della telefonata la religiosa, dopo aver comunicato che l’Ente aveva richiesto l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria «spinge il suo interlocutore ad attivare il suo referente politico, ovvero il senatore Azzollini affinché il ministero nomini uno o più soggetti di loro gradimento ». «Se si va all’amministrazione straordinaria» dice don Maurizio, «possiamo vedere per i nomi». «E sì!» risponde la Superiora. «Deve vedere per i nomi. Abbastanza, perché sono nomine del Governo, sono nomine politiche». La frequentazione era chiara già da tempo quando per esempio suor Marcella era seccata che Azzollini non avesse comunicato il nome di un suo protetto. «Almeno che ci dicesse, lui disse che doveva mandare una persona. Però noi siamo sempre appesi» dice al solito don Marcello che la tranquillizza. «A me non risponde al telefono, adesso lo richiamo io. Ci riprovo. Telefono fino a che non mi risponde».
Registrate ci sono poi telefonate in cui sempre suor Marcella è a conoscenza «di una discrasia, in danno dell’Ente, tra i metri quadri fatturati e quelli indicati come oggetto del contratto di pulizia ». «Ma lì ci sta la ragazza nostra...» dice all’interlocutore. E un’altra nella quale aiuta l’ex direttore generale Dario Rizzi, a non fare allontanare la sua amante, la dipendente Vasiljevic. «Stacci pure tu!» dice alla suora, «ancora tirano fuori qualcosa dal cilindro». «Va bene, va bene...» risponde la sorella.
Le suore e i conti milionari. “Complici del malaffare”
di Giuliano Foschini
TRANI . «Gliel’ho detto al “piccolino”: ce lo volete dare questo nominativo?». In nome del Signore, brutte cose accadevano alla Casa divina provvidenza di Bisceglie. Tra le migliaia di pagine depositate dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza - come per esempio questa intercettazione della madre superiora, suor Marcella, con uno degli uomini del senatore Antonio Azzollini a fare più impressione sono quelle che riguardano le Ancelle, suore che a credere al gip Raffaella Volpe gestivano con grande disinvoltura gli “gli affari criminali della Congregazione”.
Emblematiche sono le transazioni effettuate sui conti allo Ior della Congregazione ancelle della divina provvidenza, nati ufficialmente per accontonare le pensioni delle religiose. Ma che in realtà servivano, così dice la procura di Trani, per distrarre fondi dal crac della Divina provvidenza. Per dire, su quei conti transitano bonifici per complessivi un milione e ottocentomila euro, 775mila euro dei quali disposti con un unico bonifico proprio da suor Marcella. E ancora sono registrati giroconti per cinque milioni di euro oltre a versamenti per circa duecentomila euro. «Cifre che dimostrano - spiega il gip - come su questo conto non confluiscono affatto solo i proventi delle pensioni». Anche perchè parte dei soldi vengono poi girati su un altro conto Vaticano: le suore, dice il gip, infatti, «avevano traslato una considerevole parte delle ricchezze dell’ente sui conti dell’istituto gemello, all’evidente scopo di occultarla alle eventuali azioni di recupero da parte dei creditori». Addirittura arrivano a firmare un «finto contratto di affitto.
Accanto a questa importante mole di denaro all’interno i conti, ci sono poi i movimenti politici per evitare che la gestione della Cdp passi di mano. Il 3 dicembre del 2013 sempre suor Marcella è al telefono con don Maurizio Pisciolla, assistente spirituale della Congregazione.
Nel corso della telefonata la religiosa, dopo aver comunicato che l’Ente aveva richiesto l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria «spinge il suo interlocutore ad attivare il suo referente politico, ovvero il senatore Azzollini affinché il ministero nomini uno o più soggetti di loro gradimento ». «Se si va all’amministrazione straordinaria» dice don Maurizio, «possiamo vedere per i nomi». «E sì!» risponde la Superiora. «Deve vedere per i nomi. Abbastanza, perché sono nomine del Governo, sono nomine politiche». La frequentazione era chiara già da tempo quando per esempio suor Marcella era seccata che Azzollini non avesse comunicato il nome di un suo protetto. «Almeno che ci dicesse, lui disse che doveva mandare una persona. Però noi siamo sempre appesi» dice al solito don Marcello che la tranquillizza. «A me non risponde al telefono, adesso lo richiamo io. Ci riprovo. Telefono fino a che non mi risponde».
Registrate ci sono poi telefonate in cui sempre suor Marcella è a conoscenza «di una discrasia, in danno dell’Ente, tra i metri quadri fatturati e quelli indicati come oggetto del contratto di pulizia ». «Ma lì ci sta la ragazza nostra...» dice all’interlocutore. E un’altra nella quale aiuta l’ex direttore generale Dario Rizzi, a non fare allontanare la sua amante, la dipendente Vasiljevic. «Stacci pure tu!» dice alla suora, «ancora tirano fuori qualcosa dal cilindro». «Va bene, va bene...» risponde la sorella.
Repubblica 13.6.15
Il doppio passo di Renzi tra sindaco e commissario
Il premier è consapevole che questo potrebbe essere l’unico sbocco per salvare il salvabile a Roma
di Stefano Folli
NELLA sostanza, il futuro della giunta Marino a Roma è segnato. Il che non significa che tutto sia deciso e prevedibile. La storia resta complicata e incerta, soprattutto per le conseguenze che investono il governo e il Partito Democratico. Ma è evidente che il premier-segretario vuole spingere verso l’uscita un sindaco diventato suo malgrado un serio problema politico. E non perché sia invischiato nel malaffare — questo nessuno lo ha mai detto —, ma a causa del discredito complessivo in cui l’”establishment” romano è sprofondato.
Nonostante la fiducia in se stesso, virtù che a Marino non fa difetto, a Palazzo Chigi si ritiene che non sia lui l’uomo su cui vale la pena di puntare per la riscossa del centrosinistra. La scelta del prefetto Gabrielli come commissario per il Giubileo non lascia dubbi circa la strategia governativa: si riducono le competenze del sindaco su un punto cruciale come la gestione delle risorse in vista dell’anno della chiesa. E si prepara il terreno al dopo. Anche se non è chiaro quale profilo avrà il domani della capitale d’Italia.
Si capisce però cha Renzi premono due cose. Primo, evitare che il pozzo nero dell’inchiesta sul Campidoglio continui a diffondere miasmi velenosi tali da coinvolgere l’immagine del presidente del Consiglio anche sul piano internazionale. Secondo, agire in modo da non consegnare l’amministrazione di Roma, come un pacco regalo, ai Cinque Stelle: quindi salvare il Pd, dopo averlo risanato. Dei due obiettivi, il primo esige una discontinuità, un taglio netto con il recente passato. Ed ecco la soluzione Gabrielli, passo preliminare all’accantonamento di Marino. Il secondo è un progetto molto più difficile perché ci vuole tempo per far dimenticare il discredito. Ci vuole in particolare una classe dirigente affidabile.
Ne deriva che l’apparente frenata di ieri sulla nomina del commissario non sta a indicare un ripensamento di Palazzo Chigi. Semmai è la prova che ci si muove con una certa accortezza: Renzi non ha davanti a sé un’autostrada, bensì un sentiero tortuoso. Del resto, non tutti nel Pd sono convinti della bontà dell’operazione Gabrielli. Il che dimostra che c’è bisogno di creare il consenso politico necessario. Non pochi dalle parti del Nazareno pensano ancora che “non si può sciogliere il consiglio comunale della capitale e sostituirvi un commissario”. Il presidente del Consiglio deve invece spiegare che questo scenario non solo è possibile, ma rischia di essere il solo sbocco possibile per salvare il salvabile. In fondo Gabrielli è ancora una soluzione “morbida”, un primo passo non traumatico.
Ma il rallentamento si spiega anche con la reazione di Marino. Molto irritata in un primo tempo, più composta e sorridente in serata, quando è apparso rassicurato e ha sottolineato l’importanza della collaborazione con il prefetto. È logico che a Palazzo Chigi siano preoccupati. Un sindaco Marino che rimane al suo posto sul piano formale, ma usa la sua tribuna per esprimere risentimento e rancore verso il governo che lo ha dimezzato, è una prospettiva di cui nessuno avverte il bisogno. Quindi è essenziale che in Campidoglio si accetti la novità, avendo smaltito l’amarezza.
IPASSI successivi sono tutti da definire. Dipendono, come è logico, dagli sviluppi dell’inchiesta. Una volta nominato commissario del Giubileo, Gabrielli potrebbe trasformarsi anche in commissario “tout court”? Allo stato delle cose, sciogliere il consiglio di Roma come fosse un piccolo comune mafioso resta una soluzione estrema, ma possibile. Ed è vero un punto: il commissario garantisce 18 mesi, forse due anni, di amministrazione neutra, all’ombra della quale le forze politiche possono rigenerarsi e preparare le elezioni. Viceversa, le semplici dimissioni del sindaco obbligano a elezioni in tempi più ravvicinati. Al massimo entro il maggio del 2016. Forse troppo poco per costruire un muro di fronte all’avanzata di grillini e altri movimenti anti-sistema.
Il doppio passo di Renzi tra sindaco e commissario
Il premier è consapevole che questo potrebbe essere l’unico sbocco per salvare il salvabile a Roma
di Stefano Folli
NELLA sostanza, il futuro della giunta Marino a Roma è segnato. Il che non significa che tutto sia deciso e prevedibile. La storia resta complicata e incerta, soprattutto per le conseguenze che investono il governo e il Partito Democratico. Ma è evidente che il premier-segretario vuole spingere verso l’uscita un sindaco diventato suo malgrado un serio problema politico. E non perché sia invischiato nel malaffare — questo nessuno lo ha mai detto —, ma a causa del discredito complessivo in cui l’”establishment” romano è sprofondato.
Nonostante la fiducia in se stesso, virtù che a Marino non fa difetto, a Palazzo Chigi si ritiene che non sia lui l’uomo su cui vale la pena di puntare per la riscossa del centrosinistra. La scelta del prefetto Gabrielli come commissario per il Giubileo non lascia dubbi circa la strategia governativa: si riducono le competenze del sindaco su un punto cruciale come la gestione delle risorse in vista dell’anno della chiesa. E si prepara il terreno al dopo. Anche se non è chiaro quale profilo avrà il domani della capitale d’Italia.
Si capisce però cha Renzi premono due cose. Primo, evitare che il pozzo nero dell’inchiesta sul Campidoglio continui a diffondere miasmi velenosi tali da coinvolgere l’immagine del presidente del Consiglio anche sul piano internazionale. Secondo, agire in modo da non consegnare l’amministrazione di Roma, come un pacco regalo, ai Cinque Stelle: quindi salvare il Pd, dopo averlo risanato. Dei due obiettivi, il primo esige una discontinuità, un taglio netto con il recente passato. Ed ecco la soluzione Gabrielli, passo preliminare all’accantonamento di Marino. Il secondo è un progetto molto più difficile perché ci vuole tempo per far dimenticare il discredito. Ci vuole in particolare una classe dirigente affidabile.
Ne deriva che l’apparente frenata di ieri sulla nomina del commissario non sta a indicare un ripensamento di Palazzo Chigi. Semmai è la prova che ci si muove con una certa accortezza: Renzi non ha davanti a sé un’autostrada, bensì un sentiero tortuoso. Del resto, non tutti nel Pd sono convinti della bontà dell’operazione Gabrielli. Il che dimostra che c’è bisogno di creare il consenso politico necessario. Non pochi dalle parti del Nazareno pensano ancora che “non si può sciogliere il consiglio comunale della capitale e sostituirvi un commissario”. Il presidente del Consiglio deve invece spiegare che questo scenario non solo è possibile, ma rischia di essere il solo sbocco possibile per salvare il salvabile. In fondo Gabrielli è ancora una soluzione “morbida”, un primo passo non traumatico.
Ma il rallentamento si spiega anche con la reazione di Marino. Molto irritata in un primo tempo, più composta e sorridente in serata, quando è apparso rassicurato e ha sottolineato l’importanza della collaborazione con il prefetto. È logico che a Palazzo Chigi siano preoccupati. Un sindaco Marino che rimane al suo posto sul piano formale, ma usa la sua tribuna per esprimere risentimento e rancore verso il governo che lo ha dimezzato, è una prospettiva di cui nessuno avverte il bisogno. Quindi è essenziale che in Campidoglio si accetti la novità, avendo smaltito l’amarezza.
IPASSI successivi sono tutti da definire. Dipendono, come è logico, dagli sviluppi dell’inchiesta. Una volta nominato commissario del Giubileo, Gabrielli potrebbe trasformarsi anche in commissario “tout court”? Allo stato delle cose, sciogliere il consiglio di Roma come fosse un piccolo comune mafioso resta una soluzione estrema, ma possibile. Ed è vero un punto: il commissario garantisce 18 mesi, forse due anni, di amministrazione neutra, all’ombra della quale le forze politiche possono rigenerarsi e preparare le elezioni. Viceversa, le semplici dimissioni del sindaco obbligano a elezioni in tempi più ravvicinati. Al massimo entro il maggio del 2016. Forse troppo poco per costruire un muro di fronte all’avanzata di grillini e altri movimenti anti-sistema.
Corriere 13.6.15
Inchieste e profughi fanno temere il voto a Roma
di Massimo Franco
La linea ufficiale è di resistenza a oltranza in difesa di Ignazio Marino. Dietro questo schermo, però, il Pd si prepara a scongiurare soprattutto un’eventualità: lo scioglimento del Campidoglio per infiltrazioni mafiose. Sarebbe un disastro di immagine sul piano internazionale, evocato con allarme anche dalla nostra diplomazia. L’alternativa non sembra, però, un appoggio incondizionato al sindaco. Sono piuttosto le elezioni anticipate a Roma: favorendo magari un passo indietro onorevole del «primo cittadino».
L’affiancamento del prefetto Franco Gabrielli a Marino per il Giubileo è stato visto come un suo commissariamento di fatto. E a scacciare la sensazione non basta la telefonata cordiale di ieri tra i due. Non è scontato, però, che la designazione del prefetto preluda ad un ruolo di sindaco-ombra destinato a diventare il candidato del governo. E non solo perché sono già in atto le manovre a sostegno di altri nomi ritenuti in grado di contrastare una marcia trionfale del M5S su Roma: a cominciare dal capo dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone.
Il problema è che una caduta di Marino adesso suonerebbe come una sconfitta: un esito subito e non voluto. In più, con l’inchiesta Mafia Capitale in evoluzione, non si può prevedere come finirà; e quale sarebbe la candidatura da offrire a un’opinione pubblica che al ballottaggio del 2013 toccò un astensionismo superiore al 50 per cento. Non bastasse, si profila un irrigidimento dei partiti sull’immigrazione. La Lega ha fatto da rompighiaccio, con parole d’ordine truci ma di sicura presa. E l’emergenza amplificata costringe a inseguirla.
L’argomento è particolarmente scivoloso, per il Pd, perché a Roma incrocia le indagini della magistratura. Una parte delle imputazioni riguarda infatti il modo criminale col quale sono stati gestiti i centri di accoglienza. Il M5S, teorizza che l’immigrazione è servita per finanziare i partiti; idem la Lega. Su questo sfondo, il tentativo di Palazzo Chigi è quello di accentuare un’immagine a tutto tondo contro la corruzione; di fare pulizia nel partito; e in parallelo di ricostruire una strategia che gli permetta di risalire la china.
Non sarà facile. La minoranza del Pd addita come «incomprensibile» la difesa di Marino e in parallelo l’affidamento a un altro della gestione del Giubileo. E le opposizioni insistono su un Pd garantista solo con amici e alleati. Giustamente, Renzi attacca chi «soffia sul fuoco di paure, minacce, inquietudini». C’è solo da sperare che lo scontro si attenui dopo i ballottaggi di domani in 65 Comuni. «Bisogna staccarsi dal momento elettorale», consiglia il presidente del Senato, Pietro Grasso. Chiede «coesione sociale e solidarietà da parte delle istituzioni. Non si può rifiutare l’accoglienza». Appello saggio, ma controcorrente
Inchieste e profughi fanno temere il voto a Roma
di Massimo Franco
La linea ufficiale è di resistenza a oltranza in difesa di Ignazio Marino. Dietro questo schermo, però, il Pd si prepara a scongiurare soprattutto un’eventualità: lo scioglimento del Campidoglio per infiltrazioni mafiose. Sarebbe un disastro di immagine sul piano internazionale, evocato con allarme anche dalla nostra diplomazia. L’alternativa non sembra, però, un appoggio incondizionato al sindaco. Sono piuttosto le elezioni anticipate a Roma: favorendo magari un passo indietro onorevole del «primo cittadino».
L’affiancamento del prefetto Franco Gabrielli a Marino per il Giubileo è stato visto come un suo commissariamento di fatto. E a scacciare la sensazione non basta la telefonata cordiale di ieri tra i due. Non è scontato, però, che la designazione del prefetto preluda ad un ruolo di sindaco-ombra destinato a diventare il candidato del governo. E non solo perché sono già in atto le manovre a sostegno di altri nomi ritenuti in grado di contrastare una marcia trionfale del M5S su Roma: a cominciare dal capo dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone.
Il problema è che una caduta di Marino adesso suonerebbe come una sconfitta: un esito subito e non voluto. In più, con l’inchiesta Mafia Capitale in evoluzione, non si può prevedere come finirà; e quale sarebbe la candidatura da offrire a un’opinione pubblica che al ballottaggio del 2013 toccò un astensionismo superiore al 50 per cento. Non bastasse, si profila un irrigidimento dei partiti sull’immigrazione. La Lega ha fatto da rompighiaccio, con parole d’ordine truci ma di sicura presa. E l’emergenza amplificata costringe a inseguirla.
L’argomento è particolarmente scivoloso, per il Pd, perché a Roma incrocia le indagini della magistratura. Una parte delle imputazioni riguarda infatti il modo criminale col quale sono stati gestiti i centri di accoglienza. Il M5S, teorizza che l’immigrazione è servita per finanziare i partiti; idem la Lega. Su questo sfondo, il tentativo di Palazzo Chigi è quello di accentuare un’immagine a tutto tondo contro la corruzione; di fare pulizia nel partito; e in parallelo di ricostruire una strategia che gli permetta di risalire la china.
Non sarà facile. La minoranza del Pd addita come «incomprensibile» la difesa di Marino e in parallelo l’affidamento a un altro della gestione del Giubileo. E le opposizioni insistono su un Pd garantista solo con amici e alleati. Giustamente, Renzi attacca chi «soffia sul fuoco di paure, minacce, inquietudini». C’è solo da sperare che lo scontro si attenui dopo i ballottaggi di domani in 65 Comuni. «Bisogna staccarsi dal momento elettorale», consiglia il presidente del Senato, Pietro Grasso. Chiede «coesione sociale e solidarietà da parte delle istituzioni. Non si può rifiutare l’accoglienza». Appello saggio, ma controcorrente
La Stampa 13.6.15
Riforme, un tagliando per il governo
di Marcello Sorgi
Nel giro di pochi giorni l’orizzonte del governo, e quello personale di Renzi, si sono improvvisamente annuvolati. Sebbene il premier e la cerchia ristretta dei suoi collaboratori cerchino di dissimulare, la sensazione è che la grande avanzata, che durava da oltre un anno e mezzo, abbia subito un rallentamento, se non proprio una battuta d’arresto.
La sbandierata vittoria 5 a 2 nelle regioni non è bastata a fugare del tutto le riserve sul risultato elettorale del 31 maggio, che ha visto un arretramento del Pd soprattutto al Nord, dove più forte era stata l’affermazione del partito del 40,8 per cento alle europee dell’anno scorso. E le due settimane di campagna elettorale per i ballottaggi, trascorse nell’intreccio tra l’emergenza immigrazione e le evidenze dell’inchiesta romana su Mafia Capitale, non fanno ben sperare per il risultato di Venezia, luogo simbolo del voto di domani. Se a vincere dovesse essere l’ex magistrato Felice Casson, che in Senato è stato tra i più fieri oppositori del premier e delle sue riforme, Renzi, a denti stretti, come ha già fatto in Campania per l’«impresentabile» De Luca, potrebbe vantarsi di aver invertito la tendenza favorevole a Salvini e alla Lega. Se invece Casson fosse battuto dall’imprenditore Luigi Brugnaro, candidato del centrodestra, la sconfitta peserebbe assai di più del semplice voto in un pur importante capoluogo di regione. E andrebbe ad accrescere la pressione, che da giorni, ormai, si sta addensando sul presidente del Consiglio e leader del centrosinistra.
Avendo abituato tutto e tutti a un piglio decisionista, Renzi è atteso a delle scelte che non possono tardare. Le più urgenti riguardano Roma e il sindaco Marino, da difendere o da mollare, il Pd della Capitale infestato da comitati d’affari che trescavano con le cooperative corrotte, la riforma della scuola impantanata a Palazzo Madama, e in prospettiva anche quella del Senato.
Tra tutte, la questione più complicata è quella della Capitale. Se molla Marino - come pare preannunciare la decisione di non nominarlo commissario per il Giubileo, e designare al suo posto il prefetto Gabrielli -, Renzi sa che se lo ritroverà avversario alle prossime elezioni per il Campidoglio, dopo scioglimento anticipato del Comune. Marino infatti, tra i pochi a non essere coinvolto nell’inchiesta, è convinto di essere il miglior candidato a una ripulitura etica dell’amministrazione; e non si rende conto che il premier potrebbe giudicare più conveniente l’azzeramento politico della giunta, prima di quello giudiziario della magistratura.
Ma anche il terreno delle riforme è diventato scivoloso per Renzi. E non a causa del fuoco di sbarramento della minoranza interna Pd dei Tocci, dei Mineo, dei Gotor, che sulla scuola come sulla riforma del Senato stanno dando battaglia, com’era già accaduto in passato sul Jobs Act, e sono in grado al Senato di far mancare i voti necessari per approvare le riforme. Il vero timore è per il contenuto della legge, che ha fatto emergere una sacca di resistenza nell’elettorato degli insegnanti, tradizionalmente vicino al centrosinistra. Tra professori e personale della scuola, e non soltanto tra Cobas e sindacati, s’è creato un fronte trasversale che è andato a ingrossare le file dell’astensione o quelle del Movimento 5 stelle. Così che nella mente di Renzi, l’ipotesi di un rinvio della riforma, piuttosto che di uno stravolgimento, nasce più da queste considerazioni, che non dal rifiuto di darla vinta ai suoi oppositori.
Un analogo ragionamento, il premier, da alcune delle persone a lui vicine, è spinto a fare sulla riforma del Senato. Le elezioni nelle aree metropolitane, che hanno in parte sostituito le provincie, si sono rivelate un lasciapassare per una schiera di piccoli professionisti della politica cresciuti all’ombra della classe dirigente periferica del Pd. L’esplosione dello scandalo romano ha fatto il resto, mettendo in luce le incognite della selezione locale del personale politico, anche al livello più alto, colpito e affondato dall’inchiesta. Di modo che l’ipotesi di un Senato composto da consiglieri regionali, eletti in una votazione di secondo grado all’interno delle regioni, secondo quanto previsto dalla riforma, alla luce di quanto sta accadendo solleva nuovi e non trascurabili dubbi.
Naturalmente, in questo come negli altri casi, Renzi potrebbe decidere di tirare diritto. L’ha fatto altre volte, è nella sua indole e nel suo carattere, e c’è perfino chi dice che Renzi non sarebbe più Renzi se non facesse così. Oppure, sorprendendo tutti, potrebbe fermarsi a riflettere se a un anno e mezzo dalla cavalcata che lo ha portato in vetta al partito e al governo, anche per lui non sia venuto il momento di fare un tagliando a se stesso e al renzismo.
Riforme, un tagliando per il governo
di Marcello Sorgi
Nel giro di pochi giorni l’orizzonte del governo, e quello personale di Renzi, si sono improvvisamente annuvolati. Sebbene il premier e la cerchia ristretta dei suoi collaboratori cerchino di dissimulare, la sensazione è che la grande avanzata, che durava da oltre un anno e mezzo, abbia subito un rallentamento, se non proprio una battuta d’arresto.
La sbandierata vittoria 5 a 2 nelle regioni non è bastata a fugare del tutto le riserve sul risultato elettorale del 31 maggio, che ha visto un arretramento del Pd soprattutto al Nord, dove più forte era stata l’affermazione del partito del 40,8 per cento alle europee dell’anno scorso. E le due settimane di campagna elettorale per i ballottaggi, trascorse nell’intreccio tra l’emergenza immigrazione e le evidenze dell’inchiesta romana su Mafia Capitale, non fanno ben sperare per il risultato di Venezia, luogo simbolo del voto di domani. Se a vincere dovesse essere l’ex magistrato Felice Casson, che in Senato è stato tra i più fieri oppositori del premier e delle sue riforme, Renzi, a denti stretti, come ha già fatto in Campania per l’«impresentabile» De Luca, potrebbe vantarsi di aver invertito la tendenza favorevole a Salvini e alla Lega. Se invece Casson fosse battuto dall’imprenditore Luigi Brugnaro, candidato del centrodestra, la sconfitta peserebbe assai di più del semplice voto in un pur importante capoluogo di regione. E andrebbe ad accrescere la pressione, che da giorni, ormai, si sta addensando sul presidente del Consiglio e leader del centrosinistra.
Avendo abituato tutto e tutti a un piglio decisionista, Renzi è atteso a delle scelte che non possono tardare. Le più urgenti riguardano Roma e il sindaco Marino, da difendere o da mollare, il Pd della Capitale infestato da comitati d’affari che trescavano con le cooperative corrotte, la riforma della scuola impantanata a Palazzo Madama, e in prospettiva anche quella del Senato.
Tra tutte, la questione più complicata è quella della Capitale. Se molla Marino - come pare preannunciare la decisione di non nominarlo commissario per il Giubileo, e designare al suo posto il prefetto Gabrielli -, Renzi sa che se lo ritroverà avversario alle prossime elezioni per il Campidoglio, dopo scioglimento anticipato del Comune. Marino infatti, tra i pochi a non essere coinvolto nell’inchiesta, è convinto di essere il miglior candidato a una ripulitura etica dell’amministrazione; e non si rende conto che il premier potrebbe giudicare più conveniente l’azzeramento politico della giunta, prima di quello giudiziario della magistratura.
Ma anche il terreno delle riforme è diventato scivoloso per Renzi. E non a causa del fuoco di sbarramento della minoranza interna Pd dei Tocci, dei Mineo, dei Gotor, che sulla scuola come sulla riforma del Senato stanno dando battaglia, com’era già accaduto in passato sul Jobs Act, e sono in grado al Senato di far mancare i voti necessari per approvare le riforme. Il vero timore è per il contenuto della legge, che ha fatto emergere una sacca di resistenza nell’elettorato degli insegnanti, tradizionalmente vicino al centrosinistra. Tra professori e personale della scuola, e non soltanto tra Cobas e sindacati, s’è creato un fronte trasversale che è andato a ingrossare le file dell’astensione o quelle del Movimento 5 stelle. Così che nella mente di Renzi, l’ipotesi di un rinvio della riforma, piuttosto che di uno stravolgimento, nasce più da queste considerazioni, che non dal rifiuto di darla vinta ai suoi oppositori.
Un analogo ragionamento, il premier, da alcune delle persone a lui vicine, è spinto a fare sulla riforma del Senato. Le elezioni nelle aree metropolitane, che hanno in parte sostituito le provincie, si sono rivelate un lasciapassare per una schiera di piccoli professionisti della politica cresciuti all’ombra della classe dirigente periferica del Pd. L’esplosione dello scandalo romano ha fatto il resto, mettendo in luce le incognite della selezione locale del personale politico, anche al livello più alto, colpito e affondato dall’inchiesta. Di modo che l’ipotesi di un Senato composto da consiglieri regionali, eletti in una votazione di secondo grado all’interno delle regioni, secondo quanto previsto dalla riforma, alla luce di quanto sta accadendo solleva nuovi e non trascurabili dubbi.
Naturalmente, in questo come negli altri casi, Renzi potrebbe decidere di tirare diritto. L’ha fatto altre volte, è nella sua indole e nel suo carattere, e c’è perfino chi dice che Renzi non sarebbe più Renzi se non facesse così. Oppure, sorprendendo tutti, potrebbe fermarsi a riflettere se a un anno e mezzo dalla cavalcata che lo ha portato in vetta al partito e al governo, anche per lui non sia venuto il momento di fare un tagliando a se stesso e al renzismo.