sabato 28 aprile 2007

La Gazzetta del Sud 28.04.07
Il delitto di Cogne. Dopo diciotto mesi e 22 udienze scritta la parola fine sul processo di secondo grado: la Corte non le ha riconosciuto la seminfermità
Pena dimezzata, 16 anni alla Franzoni Alla lettura della sentenza, non c'era. Il suo difensore: «Il dispiacere di Annamaria è enorme»
di Nicoletta Tamberlich


ROMA Dimezzata la pena ad Annamaria Franzoni, condannata in primo grado ad Aosta a 30 anni per la morte del figlioletto Samuele Lorenzi, di tre anni, ucciso il 30 gennaio 2002 nella casa di famiglia in frazione Montroz a Cogne. La corte d'appello di Torino le ha concesso le attenuanti generiche e l'ha condannata a 16 anni di reclusione. Dopo un anno e mezzo e 22 udienze è stata scritta così la parola fine sul processo di secondo grado, contro cui non farà ricorso il pg, a differenza della difesa. L'imputata, alla lettura della sentenza, non c'era. L'ha saputo per telefono. Il suo difensore: «Il dispiacere di Annamaria è enorme».
ANNAMARIA AI GIUDICI, SIATE GIUSTI – «Volevo dire, spero che siate giusti nel giudicare. Non ho ucciso mio figlio non gli ho fatto niente». Ieri l'ultimo appello ai giudici, tra le lacrime, per ribadire che non ha ucciso Samuele. Anche Stefano Lorenzi, marito di Annamaria, per la prima volta ha pianto in aula. Le lacrime gli sono scese sul viso quando l'avvocato Paola Savio ha annunciato che era alla conclusione della sua replica. E ha continuato a piangere quando la moglie, Annamaria, si è asciugata gli occhi cercando di interrompere i singhiozzi, soffocati, ed è rimasta in silenzio, per qualche secondo, prima di proclamare per l'ennesima volta la sua innocenza.
SENTENZA – Poi la Corte presieduta da Romano Pettenati con il consigliere relatore Luisella Gallino e 6 giudici popolari, di cui 4 donne, si è riunita in camera di consiglio dove è rimasto chiusa per circa 10 ore. La Corte ha concesso ad Annamaria Franzoni le attenuanti generiche dichiarandole equivalenti all'aggravante che le era contestata, cioè quella di aver ucciso il proprio figlio. In tal modo la pena base è risultata di 24 anni, che è stata ridotta di un terzo, perché il processo è stato definito con rito abbreviato. Ai 24 anni ne sono stati dunque sottratti 8 e si è pertanto arrivati a determinare la pena in 16 anni. La Corte non le ha riconosciuto l'attenuante della seminfermità. Confermate le pene accessorie: l'interdizione dai pubblici uffici, lo stato di interdizione legale e la decadenza dalla potestà di genitore.
IL PG: COME UNA BIMBA CHE NON VUOLE AMMETTERE IL GUAIO – Nelle scorse udienze, in sede di requisitoria e di replica, l'accusa tenuta dal procuratore generale Vittorio Corsi aveva chiesto la conferma della condanna a 30 anni inflitta in primo grado. Annamaria Franzoni «è come una bimba che non vuole ammettere di aver combinato un grosso guaio», aveva affermato il pg. «Se confessa tutti le vorremo bene». Per Corsi, la Franzoni è colpevole: ha ucciso il piccolo Samuele «per un momento di discontrollo che può capitare a chiunque», per un black-out di «venti secondi dopo una brutta notte e un brutto inizio di giornata». Poi ha coperto il corpo con il piumone: un atto pietà, d'amore, o di rimozione, come «una bimba che ha rotto un vaso e cerca di nascondere il guaio».
Lo psichiatra esperto di «esordi psicotici» Francesco Riggio che rigetta concetti di stampo freudiano come rimozione o negazione, nel senso di bugia, ha spiegato: «Si può arrivare ad uccidere lucidamente e freddamente un bambino, un adulto e poi non crollare: sotto c'è la pulsione di annullamento, processo mentale con il quale, scomparsi gli affetti più profondi che fanno l'anaffettività, si toglie senso e significato alla vita di relazione umana.
LA DIFESA – Ma ieri è stato il giorno della difesa. L'avvocato Paola Savio, nel suo intervento, ha affermato che gli inquirenti non hanno fatto esaminare due macchie (chiamate traccia L e traccia 6 o «alfa 51») che «potenzialmente indicavano il percorso di uscita dell'assassino» dalla casa di Cogne. La Savio ha sostenuto anche che l'assassino di Samuele non indossava gli zoccoli di Annamaria e ha poi focalizzato l'attenzione su tre punti. In primo luogo il fatto che «non si può ritenere scientificamente provato che l'assassino indossasse il pigiama»; in secondo luogo «non si può ritenere scientificamente provato che l'assassino si trovasse sul piumone» e, terzo, «dalla tecnica del Bpa (Bloodstain Pattern Analysis) non si può ricavare la prova che l'assassino sia la madre». La Savio ha inoltre sostenuto che «l'altro grande assente è il movente: lo scopo punitivo non è sufficiente». Lapidario Carlo Taormina, difensore di primo grado: «è una soluzione errata, passa per elementi molto labili. Sarà una sentenza su cui la Cassazione potrà dire la sua».
FOLLA DI CURIOSI, INNOCENTISTI E COLPEVOLISTI – Anche per quest'ultima battuta del processo d'appello, il palazzo di giustizia di Torino è stato preso d'assalto da una folla di curiosi: alcuni si erano messi in fila fin dall'alba di oggi, provenienti da tutta Italia e addirittura dalla Svizzera. Per entrare hanno atteso ore davanti ai cancelli. Già alle otto, erano almeno cinquanta in coda stringendo tra le dita i biglietti numerati che erano stati distribuiti per rendere ordinato l'ingresso. Una folla composta da innocentisti e colpevolisti, anche se quelli che credevano nell'innocenza della Franzoni erano in maggioranza.

Agi 27.4,07
Cogne: lo psichiatra, il caso evidenzia una pulsione di annullamento

Roma, 27 apr. - Si puo' arrivare ad uccidere lucidamente e freddamente un bambino, un adulto e poi non crollare: sotto c'e' la pulsione di annullamento, processo mentale con il quale, scomparsi gli affetti piu' profondi che fanno l'anaffettivita', si toglie senso e significato alla vita di relazione umana. È quanto ribadisce lo psichiatra esperto di 'esordi psicotici' Francesco Riggio che rigetta concetti di stampo freudiano come rimozione o negazione, nel senso di bugia.
"Rimozione? Non dice nulla - spiega lo psichiatra romano di Villa Armonia Nuova a Roma - serve ad indicare al piu' lo spostamento fisico di un oggetto nello spazio. Negazione come bugia? E' un modo d'essere della veglia che lo stesso non dice nulla. Viceversa la pulsione di annullamento, che e' fare inesistente quanto e' esistente, la vita di un bambino o di un adulto, ci fa capire quel che accade in una persona normale ma anaffettiva, lucida e fredda, che riesce a mantenere un congruo rapporto con le cose e gli oggetti".
Insomma, il caso Cogne, evidenzia, porta alla luce quanto la psicoanalisi prima e la psichiatria organicista poi non hanno mai scoperto: la pulsione di annullamento e l'anaffettivita', che, conclude lo psichiatra romano, sono alla base della teoria della nascita di Massimo Fagioli, illustrata fin dal 1971 in 'Istinto di morte e Conoscenza', di cui sabato scorso e' uscita la dodicesima edizione. Pat 272150 APR 07

Agi 26,4.07
Asilo Rignano: lo psichiatra, un pedofilo lede la bellezza del bambino
Roma, 26 apr. - Chi e' il pedofilo, un orco, un sadico o un violentatore e perche' prima ricopre di attenzione un minore indifeso, non pronto alla sessualita' e poi lo violenta? "Ma quale orco o mostro che dir si voglia! Il pedofilo e' un perverso, un malato mentale che con lucidita' e freddezza lede la bellezza e la vitalita' di un bambino, il divenire del bambino".
A parlare della tremenda vicenda di Rignano Flaminio e' lo psichiatra Francesco Riggio, esperto di 'esordi psicotici', che rigetta l'idea, "di stampo freudiano", osserva, del bambino che inventa e dice bugie.
"Il bambino non sa mentire diversamente da un adulto come ad esempio il Padre della Psicoanalisi che - spiega lo psichiatra - nonostante avesse assistito all'esame autoptico di bambini prima violentati e poi uccisi, disse che il trauma non c'era stato e la seduzione era stata una totale invenzione delle piccole vittime: da qui derivo' la falsa tesi del bambino polimorfo e perverso che piu' tardi fu ripresa da uno dei profeti del '68, Michel Focault che sostenne la non punibilita' dei pedofili in quanto i bambini sarebbero consenzienti e capaci di sedurre un adulto".
Viceversa, "in queste persone che circuiscono per ingannare, non c'e' amore e non c'e' neanche odio ma c'e' la tendenza lucida e fredda a distruggere le qualita' umane di un bambino: il loro obiettivo appunto e' distruggere, perche' insopportabili, la bellezza, la vitalita', pulizia, la fantasia di un bambino".
La differenza con il sadico e' quindi rilevante. "Si', il sadico c'e' in quanto c'e' il masochista - risponde Riggio - in quanto, usando un potere, una posizione di forza, mira a far sta male, a far soffrire chi non sopporta e spesso e' una donna". Il pedofilo, insomma, ha in se una patologia seria: "il bambino va amato non toccato". E a volte, "se e quando il pedofilo arriva ad uccidere la vittima - conclude Riggio - lo fa con una sorta di emotivita', in verita' fredda e lucida: sa bene quel che fa, ha la piena facolta' d'intendere e di volere come prevede il codice penale, ma ha tolto con l'atto il senso e il significato alla vita dell'altro". (AGI) Pat 261710 APR 07

Agi 28.4.07, ore 16
COGNE: FAGIOLI, I GIUDICI HANNO INTUITO UNA GRAVE MALATTIA MENTALE

(AGI) - Roma, 28 apr. - Non è il delitto di un normale criminale né un raptus per stato confusionale o attacco di rabbia e odio, ma un atto efferato, freddo, lucido, calcolato e dovuto ad una gravissima malattia mentale: questo a interpretare la sentenza i giudici pare lo hanno intuito anche per la reazione anaffettiva tanto da aver ridotto la pena da 30 a 16 anni. È quanto sostiene lo psichiatra Massimo Fagioli, al termine della quinta lezione tenuta davanti ad alcune migliaia di persone e studenti all'Aula Magna dell'Università di Chieti. "Alla base di atti così efferati compiuti da persone perfettamente normali c'è l'anaffettività dovuta alla pulsione di annullamento che a sua volta - spiega lo psichiatra - porta all'anaffettività, per cui un bambino può esser buttato come fosse un telefonino tanto come il telefonino si può ricomprare così un bambino si può sempre rifare". Ed è quanto accaduto alla protagonista di Cogne. "Più si è anaffettivi e più si procede con la pulsione di annullamento che - precisa ancora l'autore di 'Istinto di morte e conoscenza', giunto alla dodicesima edizione dal 1971 - rende sempre più anaffettivi: e la pulsione di annullamento è più o meno grande da determinare la non esistenza degli altri fino a portare ad atti tanto efferati quanto lucidi e freddi". Finiti nel vortice anaffettività-pulsione di annullamento si perdono piano piano gli affetti più profondi, oltre la rabbia e l'odio? "Sì perché si fa il vuoto affettivo totale e - risponde lo psichiatra - si struttura il pensiero nazista di Heiddeger per cui gli altri esseri umani si eliminano rendendoli non esistenti, mai esistiti". E Samuele, in altre parole, non è esistito prima e poi mai esistito? "Non c'è l'affetto corrispondente al non sono stata io", conclude Fagioli. Pat 281510 APR 07 Cli

Repubblica 28.4.07
Il Pdci riabbraccia Bertinotti
Diliberto: unire la sinistra. Aperture a Rutelli, Fassino assente
Aperto ieri a Rimini il congresso dei Comunisti italiani
di Umberto Rosso


RIMINI - Oliviero Diliberto che lo saluta dal palco, grazie di essere qui carissimo compagno Bertinotti. Lui, all´inizio a disagio, poi si scioglie al calore degli applausi, e alla fine proprio si commuove. «Sono il presidente della Camera e non faccio commenti politici sulla relazione del segretario del Pdci. Però, questo sì, ringrazio tutti per l´accoglienza che il congresso mi ha riservato». E sono abbracci, baci, strette di mano, pacche sulle spalle, tutto un Fausto ciao, Fausto ti ricordi di me, presidente come stai, è bello rivederti. Un ritorno trionfale. La strada del Pdci e quella di Rifondazione, nove anni dopo la scissione, tornano ad incrociarsi. Quasi come se, in diretta, sotto gli occhi del migliaio di delegati, prendesse magicamente corpo quella riunificazione della sinistra anti-Pd che è la proposta che Diliberto rilancia, «una confederazione della sinistra, senza aggettivi, senza abiure, perché ogni aggettivo indica una simbologia, un vissuto, un´appartenenza». Ma il cammino è tutt´altro che facile. Schierato, giusto di fronte alla gigantesca falce e martello che domina la scenografia, c´è mezzo governo, Prodi in testa. Rutelli, Parisi, Santagata, Bianchi, c´è Boselli, Russo Spena, Epifani. Tutti in piedi per la standing ovation al nome di Antonio Gramsci (esattamente ieri i settanta anni della morte). Ma non c´è Piero Fassino. Non ci sono leader di primo piano del suo partito. La delegazione è guidata dal responsabile organizzazione Orlando, «il segretario era impegnato altrove - spiega - ma noi siamo qui per poi riferirgli tutto sui lavori». I comunisti italiani però si sentono snobbati e si arrabbiano. Pare che il grande gelo sia sceso dopo il commento di Diliberto al congresso di Firenze, quando disse «mi sento triste, perché i Ds hanno perduto la s di sinistra». Il capo della Quercia non ha gradito. Ma ora però dalla tribuna di Rimini il segretario del Pdci gli notifica un secondo, duro messaggio. «Il Pd inevitabilmente marcia verso una deriva moderata. Un partito di centrosinistra che guarda al centro, perfino il contrario di quel che fece la Dc. Se così è, il nostro interlocutore sarà un moderato». Chi? Sta seduto in prima fila, si chiama Francesco Rutelli. Al quale appunto il capo dei comunisti italiani riserva prima - aprendo il congresso con alla spalle tutta allineata come ai vecchi tempi la nomenklatura del suo partito - un caloroso saluto, e poi a sorpresa un´apertura di credito: «La Margherita ha presentato una proposta sull´Ici e sugli affitti che apprezziamo. Vogliamo perciò confrontarci con rispetto». Un nuovo schiaffo a Fassino. Diliberto accetta la sfida delle riforme, «ma occorre dire di quale riforma si tratta e favore di quale ceto sociale, altrimenti non vuol dire nulla», ma come sponda si sceglie la persona che a suo giudizio rappresenta la vera anima moderata del Pd.
Rutelli ricambia la cortesia, «interessante il riferimento alla necessità di recuperare a destra i consensi di elettori insidiosamente attratti dal populismo dei conservatori».
Ma Diliberto chiede garanzie al governo. Sulle pensioni, i salari e la scuola. Sul taglio degli stipendi per gli alti manager. Sull´intervento pubblico per Telecom, «è un dovere quello di prendere posizione, non solo un diritto». E soprattutto sulla legge elettorale. Capitolo sul quale, fatta salva la confermata lealtà Prodi, Diliberto si "mastellizza" contro il referendum e le soglie di sbarramento. Il Pdci è disposto solo a ragionare sul modello delle regionali messo a punto dal ministro Chiti. «Il governo non ceda alla sirene tentatrici. Qualcuno vagheggia di eliminare per via amministrativa alcuni partiti che evidentemente danno fastidio, con soglie di sbarramento per l´oggi o per il domani. E´ inaccettabile». Prodi parla e rassicura. Il Pd non sarà moderato. Lo conferma anche Arturo Parisi, «nessuno lavorerà per dividere il centrosinistra». Il leader del Pdci così si sente più garantito. Ma oggi arriva Franco Marini, l´uomo che al congresso della Margherita ha suonato l´ultimo giro di campanella per la sinistra radicale nell´Unione. Intanto, alla fine della prima giornata dei lavori, il congresso registra qualche piccolo passo avanti sulla strada della riunificazione a sinistra.
«Parliamone, c´è qualche accento diverso rispetto al passato - commenta il leader dello Sdi, Enrico Boselli - anche se le parole di Diliberto confermano che esistono sempre due diverse sinistre».

Repubblica 28.4.07
Ovidio, Euripide e l'Eros
Due studi sul tema del desiderio
di Nadia Fusini


Il testo originale e le nostre tentazioni
Le Baccanti una storia simile a un abisso
Ogni epoca crede di reinventare nuovi intrecci e nuovi contratti tra gli amanti
Il poeta latino coglie nella passione amorosa l'essenziale doppiezza e problematicità
Il saggio di Massimo Fusillo su Dioniso e quello di Victoria Rimell sugli "Amores" affrontano il mondo classico per trovarvi rimandi precisi al nostro Novecento

Da un po´ di tempo, confesso, non riesco a leggere un libro alla volta, ne leggo almeno due. Per voracità? Si, forse: sono stata sempre golosa di libri. Ma credo sia più vero riconoscere che a muovermi è l´angoscia del tempo che resta, la paura di non riuscire a leggerli tutti i libri che sono già stati scritti, e quelli altrettanto copiosi che vengono pubblicati ogni giorno. Non che valga la pena, poi rifletto, leggere tutti i libri in tempi in cui un criterio di mercato rozzo, ignorante, battezza col nome di libro merce a volte troppo estranea.
Ma quando leggo, spesso ho fortuna; una specie di sesto senso mi guida verso i libri veri, come in questo caso, quando quasi senza accorgermene, per una specie di scelta involontaria, mi sono ritrovata tra le mani un saggio di Massimo Fusillo su Dioniso, dal titolo Il dio ibrido (Il Mulino, pagg. 261, euro 23), e uno di Victoria Rimell, dal titolo Ovid´s Lovers (Cambridge U. P., pagg. 235, 50 sterline, o 106 euro da Tombolini).
Sono due giovani e prolifici studiosi del mondo classico che con agio si muovono tra idee moderne: il primo più della seconda interessato a stringere legami teorici con la contemporaneità. Mentre la seconda privilegia la centralità dell´immaginazione poetica (miracolosa e, come sappiamo, very sexy in Ovidio), e si stringe al testo originale in un corpo a corpo affascinante, il primo invece cerca tracce e rimandi, echi e variazioni dei temi che si annidano in quel testo sublime, Le Baccanti, e da lì irradiano investendo in particolare il Novecento.
In entrambi i casi, tanto in Ovidio, che in Euripide, a tema - ci convincono i due studiosi - è il desiderio, qualcosa di cui non smetteremo di parlare mai: un tema universale, in altri tempi si sarebbe detto. Ma anche e soprattutto un tema che ci troverà sempre impreparati, quand´anche riuscissimo a tenere a mente l´infinità di figure che poeti e scrittori celebrando le sue gesta hanno inventato.
In fondo, ogni epoca crede di reinventare nuove pose e posture, nuovi intrecci e nuovi nodi, nuovi contatti e contratti tra gli amanti - e in verità di intenti si dispone a reimmaginare il modo del loro incontro. E´ accaduto senz´altro nella fin de siècle che ha aperto sul Novecento, sta accadendo nell´inizio di millennio che viviamo adesso. A Vienna scoppiò l´incendio, lì risuonò lo sparo di Weininger, lì Freud svelò la sessualità fin nell´infanzia, e fior di scrittori si dedicarono a comprendere di nuovo e dunque ridefinire che cos´è un uomo, che cos´è una donna, che cos´è la sessualità, che cos´è il matrimonio, che cos´è l´amore.
Oggi, se si discute di Pacs e di Dico, è perché altre figure di amanti prendono la scena. Come si ameranno, è tutto da vedere. Come si congiungeranno, quali saranno le loro ebbrezze, qualcuno lo descriverà. C´è forse chi lo sta già facendo.
Leggendo questi due saggi, che intrattengono con la tradizione un rapporto ricco di aperture sul presente, intendevo prepararmi ad affrontare i tempi, a sostenere i mutamenti epocali, che certo non basterà una legge a registrare. Mi sono serviti? Si. Tutti e due in modo diverso.
Il libro di Victoria Rimell mi ha fatto riscoprire in Ovidio una voce complessa e originale, che nei testi elegiaci come nelle Metamorfosi immagina una relazione tra uomo e donna, maschio e femmina, l´io e l´altro davvero metamorfica. E non perché Rimell invochi i concetti abusati e postmoderni di ibridismo, maschera, travestitismo eccetera, eccetera, ma perché con eleganza e sapienza ci educa a leggere in Ovidio come egli colga della passione amorosa l´essenziale doppiezza e problematicità. A dimostrazione che aldilà e oltre il sesso, inteso come genere, si pone la questione.
E poi mi ha incantato il modo in cui la studiosa inglese lega nel poeta la dimensione erotica a quella dell´immaginazione, guidando il lettore alla conoscenza di una verità importante: non c´è poeta che alla fine non goda nella lingua, e della lingua. Lingua che nella versione inglese, dovuta alla stessa Rimell, suona viva, mobile, prensile, ironica; quasi che l´inglese traducesse meglio di ogni altra il latino.
Insieme più lontano e più vicino, sempre sul tema dell´amore, della sessualità e delle sue forme per l´appunto dionisiache, ci porta a riflettere Massimo Fusillo nel suo libro denso, colto, ipersensibile alle vicende della modernità. E giustamente, visto che ci invita a seguire le epifanie novecentesche del dio. Epifanie che folgorano più sulla scena teatrale, che nella pagina scritta.
Indimenticabile (cito quello che ho visto, perché l´epifania è un´esperienza della visione, non si può avere per sentito dire) Marisa Fabbri diretta da Ronconi a Prato nel ‘77, la quale si farà, per volontà del regista, interprete di ogni conflitto, sarà Dioniso e Penteo, e insieme tutte le Baccanti. In sé raccogliendo ogni tensione.
Proprio in questa intuizione brilla l´intelligenza viva di chi - il regista, che non è un critico - in un solo gesto coglie l´ombelico di un testo abissale per profondità come Le Baccanti e lo apre, lo dispiega: in sé ogni individuo, in sé, ripeto, non come classe né come genere, ma come individuo, è segnato dalla divisione; ognuno di noi è Penteo e la Baccante e il coro.
Il fine dello studioso Fusillo è quello di riattraversare (in pagine fitte di rimandi e saldamente radicate nella conoscenza del testo greco e capaci al tempo stesso di confrontarsi con media diversi, e penso al cinema), di riattraversare, dicevo, e qui cito dalla quarta di copertina: «le diverse esperienze dell´immaginario contemporaneo, dal neopaganesimo alle teorie sull´identità sessuale, dalle performance del post-human alla sperimentazione teatrale». Io gli sono andata dietro ed è stato un viaggio movimentato, ricco di panorami e vedute emozionanti.
Alla fine del quale viaggio, dirò che in genere ho notato che più si accetta la distanza, più l´intelligenza (non solo l´erotismo) cresce. Più ci si appropria di un testo per interpretare i proprii bisogni o pii desideri, più l´intelligenza del medesimo scema. E scema l´interesse dell´interpretazione. Pretendere che Dioniso faccia da mascotte alle confraternite queer o gay, pretendere che Dioniso con le sue baccanti abbiano anticipato i costumi sessuali contemporanei riduce fortemente l´intelligenza del testo originale.
D´accordo, un testo per sopravvivere dovrò accettare di essere manomesso, se non manipolato, se non stuprato, violentato. In fondo, nel caso delle Baccanti, siamo proprio in tema. Ma c´è, mi domandavo leggendo, ancora chi crede all´uso della letteratura come specchio? dei tempi, delle brame?
C´è ritorno e ritorno: Fusillo sarà d´accordo con me, penso. E anche se più di me benevolo nell´accoglienza di quel «dio del ritorno» per eccellenza che è Dioniso, converrà con me (e con un certo Marx) che se la prima volta è tragedia, la seconda può essere farsa. O con Ernest Jones, che se non è il ritorno di «a buried desire», di un desiderio sepolto, dov´è il pericolo? O con un certo Bataille, che Dioniso non è il dionisismo, né l´erotismo una teoria del godimento con un organo, piuttosto che un altro.

Corriere 28.4.07
UNIONE / Bersani si candida per la leadership del Pd: sono a disposizione, da uno a cento
Bertinotti «investe» Veltroni: «Lui può essere il leader»
«Rappresenterebbe bene il bisogno di un ricambio generazionale» Ovazione alle assise Pdci, il segretario lo abbraccia: caro compagno
di Roberto Zuccolini


ROMA — Ciò che i compagni del suo partito, i Ds, e del futuro suo partito, il Pd, non hanno mai voluto dire ufficialmente, lo dice Fausto Bertinotti: «Walter Veltroni potrebbe essere il leader della coalizione». E spiega anche perché: «Penso da tanto tempo che ci sia bisogno nella politica italiana di un ricambio generazionale. Il processo di rinnovamento deve maturare, può essere fatto senza strappi, ma è necessario». E, poi, aggiunge, «ha fatto bene il sindaco di Roma». A dire il vero Bertinotti — che al congresso di Rimini del Pdci ha incassato un'ovazione e un «caro compagno» da Diliberto — intervenendo a R retroscena
su La7, si sofferma anche sulla formazione unitaria che potrebbe nascere a sinistra del Pd.
E non esclude che, a quel punto, Rifondazione Comunista potrebbe cambiare nome e simbolo: «A mio giudizio il suo mantenimento in vita è compatibile con il progetto, però decideranno i dirigenti del Prc». Ma è il tema della leadership a tenere banco fra i partiti dell'Unione.
Tanto che nello stesso giorno tra i Ds esce allo scoperto, con una vera e propria autocandidatura per il Pd, Pierluigi Bersani: «Io sono a disposizione. Assolutamente: da uno a cento». Il ministro per lo Sviluppo spiega anche le sue idee sulle tappe che dovrebbero portare alla scelta del leader.
E spinge per un'accelerazione, come aveva fatto il giorno prima Dario Franceschini della Margherita: «Tra le cose da fare subito c'è la scelta del meccanismo di partecipazione, dai voti alle preferenze, con il quale si possa eleggere il leader all'Assemblea Costituente della nuova formazione unitaria». Cioè il prossimo ottobre, molto prima di quanto abbiano previsto la maggioranza di Ds e Margherita, orientati sul seguente percorso: prima le primarie per la Costituente, poi il congresso nella prossima primavera e ad ottobre 2008 la scelta di chi guiderà il Pd.
L'accelerazione, si vede subito, è vista con sospetto da un buon numero di esponenti del futuro Partito democratico. Frena subito il dalemiano Nicola Latorre: «Il tema della leadership è intempestivo. Ogni giorno ha la sua pena: ora dobbiamo mettere tutte le energie per costruire il partito e raccogliere le adesioni. Dopo la nascita del partito ci porremo la questione del leader». E si protegge dietro la «bandiera» dell'attuale guida dell'Unione: «La figura deve essere una sola. Per ora il leader è Prodi: solo dopo arriverà il momento in cui si sceglierà una guida unitaria».
In altre parole, all'interno dei diessini la maggioranza non ha intenzione di esporsi con un nome, come fa invece Bertinotti con Veltroni, ipotizzandolo, di fatto, alla guida di tutta la coalizione di governo. Anche perché siamo solo all'inizio di un'aspra battaglia interna, senza contare che ovviamente all'argomento è interessata da vicino anche la Margherita. Non a caso proprio il presidente dei Dl, Francesco Rutelli, intervenendo a Radio Anch'io, si colloca dalla parte di chi frena: «Il futuro leader sarà eletto con una votazione che coinvolgerà molte centinaia di migliaia di persone, ma c'è tempo per farlo. E per fare tutto, meno che aprire adesso una gara».
Lo stesso pensa Sebastiano Vassallo, uno dei saggi che ha scritto il manifesto del Pd. Per diversi motivi, tra i quali uno che reputa non secondario: «Abbiamo oltre metà legislatura avanti a noi e, se scegliere il leader del Pd vuol dire individuare anche il leader della coalizione, farlo subito vorrebbe dire sconfessare Prodi nel suo ruolo di presidente del Consiglio». Giuliano Amato poi sposta il discorso allargandolo: «Non so chi diventerà leader del Partito democratico, ma so che non dovrà sintonizzarsi solo con gli iscritti ai partiti che hanno fatto i congressi delle settimane scorse, ma necessariamente con la più larga platea che parteciperà al processo costitutivo della nuova formazione». In altre parole, dovrà essere una personalità gradita anche fuori dai partiti.

Corriere 28.4.07
Fausto, dietro il sì a Walter anche il lancio di Epifani al vertice dell'area radicale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Raccontano che Piero Fassino vada a trovarlo molto spesso nel suo ufficio a Montecitorio. Con Massimo D'Alema, invece, il rapporto è conflittuale ma paritario. Del ministro degli Esteri il presidente della Camera Fausto Bertinotti ama dire: è il migliore, con lui si può discutere veramente di politica. Il che non vuol dire che poi l'ex leader di Rifondazione comunista non ami ricordare, quando parla con gli amici, di tutte le volte che D'Alema ha minacciato di distruggere il suo partito (dal 1998, anno della caduta del governo Prodi, al 2006 anno in cui Bertinotti soffiò la poltrona di presidente della Camera all'esponente della Quercia) senza riuscirci. Con Anna Finocchiaro i rapporti sono assai meno intensi. La capogruppo dell'Ulivo a palazzo Madama, comunque, ha un ottimo feeling con il presidente dei senatori di Rifondazione Giovanni Russo Spena, il quale comincia quasi sempre così i suoi discorsi: «Io e Anna».
E, comunque, nel gruppo del Prc a palazzo Madama, Finocchiaro ha un suo seguito.
Il Partito Democratico sarà pure la novità della politica italiana, ma chiunque aspira a diventare candidato premier sa che deve avere il "via libera" del Prc. E, quindi, di Bertinotti. Il quale Bertinotti, subirà anche la fascinazione di D'Alema, ma da uomo pratico ha capito che con Veltroni in campo ottiene due risultati. Il primo, scongiurare la prospettiva che la sinistra radicale alle prossime elezioni sia messa da parte grazie a un gioco di sponda con l'Udc. Il secondo, evitare la sconfitta elettorale dell'Unione. Perché che Veltroni piaccia, che nei sondaggi sia sempre al top, è un fatto che il presidente della Camera si guarda bene dal trascurare. Anche se una delle sue battute preferite è questa: Veltroni è bravissimo nelle orazioni funebri e nei discorsi alle cerimonie, D'Alema è bravissimo nei discorsi politici.
Del resto, è difficile dimenticare che nel 2001, quando l'Ulivo separò le sue sorti da Rifondazione (su cui gravava ancora il marchio d'infamia della caduta del governo Prodi), alle elezioni amministrative di Roma Veltroni aprì al Prc e cercò subito di coinvolgerlo. Tanto che Bertinotti, allora segretario del partito, annunciò: «Se l'Ulivo a Roma candiderà Veltroni noi diremo di sì e poi procederemo al confronto programmatico». Un'affermazione singolare per un politico che amava (e ama) dire che prima «vengono i programmi e poi gli uomini». Ma l'allora segretario del Prc si rendeva ben conto che con Veltroni il suo partito poteva rientrare in gioco e perciò si comportò così. Sono passati svariati anni, ma le condizioni politiche non sono troppo cambiate. C'è un Partito democratico in cui Franco Marini avverte che le «alleanze non sono eterne», strizzando l'occhio agli ex amici democristiani dell'Udc. C'è un Partito democratico in cui D'Alema, solo qualche mese fa diceva alla senatrice di Rifondazione Rina Gagliardi: «Per fortuna che ci sono i democristiani».
Di fronte a tutto questo, Bertinotti sa che il sindaco di Roma è la garanzia che non ci saranno scenari diversi dall'alleanza tra il Pd e la sinistra cosiddetta radicale. Perché è vero che D'Alema è «il migliore», ed è vero che Fassino è un alleato che fa «proposte importanti e ragionevoli, come quella di aprire in Afghanistan un tavolo della pace con i talebani», ma è anche vero che Veltroni, alla fine della festa, viene ritenuto da Rifondazione il candidato vincente, e, soprattutto, il candidato che non tradirà il suo mandato elettorale. Bertinotti, quando chiacchiera in libertà con i suoi, non rinuncia a indirizzargli ironiche punture di spillo. E certo non lo convince il fatto che in un afflato di "captatio benevolentiae" il sindaco vada in Malawi a inaugurare con cento studenti romani una scuola dedicata ad Angelo Frammartino, volontario vicino a Rifondazione, ucciso a Gerusalemme da un giovane palestinese.
Ma Veltroni, per Bertinotti, ha un vantaggio in più rispetto a quelli già citati: un buon rapporto con colui che potrebbe diventare il leader della sinistra che sarà, di quella federazione che il presidente della Camera immagina prossima ventura, alla quale è disposto a sacrificare il progetto della sinistra europea, e, forse, anche il nome e il simbolo di Rifondazione comunista. Con quel Guglielmo Epifani che ha rapporti strettissimi con Bertinotti (i due si vedono molto spesso) e che sarebbe l'unico, dopo aver lasciato la Cgil, a poter mettere insieme comunisti, ex Ds e forse persino i socialisti. Epifani, sì, perché Bertinotti ormai per sé immagina una strada diversa, più istituzionale. Ma esattamente come quel D'Alema a cui non darà l'appoggio per un'eventuale candidatura a premier, il presidente della camera ha ritagliato per sé un ruolo di king maker. E, allora, avanti Veltroni, per palazzo Chigi, e avanti Epifani per quella Epinay mitterrandiana che Bertinotti sogna per la sinistra italiana.

Corriere 28.4.07
Il Prc vuole fare il king maker
Il presidente della Camera gioca d'anticipo candidando il sindaco di Roma

di Massimo Franco


Il «voto» di Fausto Bertinotti per Walter Veltroni nuovo leader del centrosinistra è una mossa d'anticipo, destinata a spiazzare altri candidati; e soprattutto, a fare apparire lente e farraginose le procedure che i fondatori del Partito democratico, Ds e Margherita, stanno discutendo. L'idea che il successore di Romano Prodi sarà designato dal solo Pd, è scontata a metà. L'indicazione del presidente della Camera, nonché leader del Prc, dice che gli alleati avranno una parola decisiva nel «suggerire» il candidato; e che il limbo dei prossimi mesi espone il Pd alle incursioni esterne.
Colpisce anche che non sia più Prodi l'unico baricentro dell'Unione. Finora, l'attuale premier era stato voluto perché vincente; e perché evitava la competizione fra diessini ed era ritenuto garante dell'alleanza con l'estrema sinistra. Ma è stato lui ad archiviare la propria leadership per il futuro. E a Bertinotti non dispiace di investire il sindaco di Roma a «guidare una coalizione che unisca riformisti e sinistra radicale rinnovati». Veltroni «come altri, naturalmente», concede con un pizzico di diplomazia il presidente della Camera. Sa, infatti, che il numero degli aspiranti già sfiora la decina.
Si tratta di diessini ed esponenti della Margherita. E le loro mire scoperte spiegano perché, nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, abbia riesumato la finzione del «leader che già c'è, ed è Prodi». Temeva l'inizio di una guerra nel partito maggiore del- l'Unione. Basta pensare al segretario dei Ds, Piero Fassino, che ha ammonito a non scrivergli «il coccodrillo», ossia lodi postume: nel senso che le sue ambizioni rimangono intatte. O al ministro Pierluigi Bersani, disponibile «al cento per cento». O al presidente dei senatori dell'Ulivo, Anna Finocchiaro.
L'elenco non include i candidati «coperti», a cominciare da Veltroni; né dirigenti della Margherita come Rutelli, Parisi e Rosy Bindi. Ma se questo è lo sfondo competitivo, l'obiettivo di Bertinotti diventa più comprensibile. Esprimendo una semplice opinione, il capo del Prc entra nelle manovre per il dopoProdi. Tende ad influenzarlo. E opta per un Veltroni che ufficialmente non si è fatto avanti; eppure viene percepito come uno dei leader più forti, se non altro per la virulenza con la quale da settimane il centrodestra attacca a freddo il Campidoglio.
Ma prevale la sensazione di una strategia che punta a riplasmare la sinistra; e che, nelle intenzioni del presidente della Camera, assegna al Prc il ruolo di perno, insieme col Pd. Quando stimola le frange più radicale ad unirsi, Bertinotti pensa a questo; e gli applausi dei «compagni separati» del Pdci sono una risposta. E additando Veltroni come candidato-cerniera fra Pd e antagonismo, tenta di legittimarsi come king maker. Vuole esorcizzare «la deriva centrista», negata anche ieri da Prodi ma diventata un'ossessione: un chiodo fisso e comodo, al quale appendere i dubbi dei diessini in bilico. Per poi, magari, accoglierli nel paradiso bertinottiano.

Corriere 28.4.07
Il rapporto tra storiografia e finzione in un confronto a Milano con Pietrangelo Buttafuoco, Antonio Scurati e Alessandro Piperno
Narrare i fatti
Borges: esistono soltanto punti di vista Momigliano: ma la verità non si inventa


La posta in gioco di ogni discussione su «storia e narrativa» è molto alta. Si tratta o di arrendersi di fronte all'ondata che declassa la storiografia a mero racconto possibile, non molto distinguibile — tranne che per essere meno attraente — da qualunque narrazione che sia frutto di fantasia artistica, ovvero di fare quadrato intorno alla discriminante, comunque, della ricerca della verità: anche quando questa sia una verità parziale (e dunque, potenzialmente, una non-verità). Le conseguenze dell'una o dell'altra opzione sono molto chiare. Esse furono costantemente e reiteratamente messe in luce dagli storici: ad esempio da Tucidide nel suo proemio polemicamente incentrato sull'antitesi fra «verità» (che è frutto, come egli si esprime, di «indagine») e «narratività» (muthòdes); ma anche, al tempo nostro, da Arnaldo Momigliano nelle memorabili Regole del gioco nello studio della storia antica (1974); o, per fare un esempio ancor più recente, nel lavoro di scavo, empirico e teorico insieme, di Carlo Ginzburg (soprattutto nel volume del 2000 Rapporti di forza). La riduzione della storiografia a non più che «racconto possibile» comporta anche, specie là dove la battaglia è ancora aperta, una insperata mano a sostegno dei «negazionismi».
C'è un sofisma alla base di certi virtuosismi «relativistici», fondati sull'ovvio richiamo alla parzialità della documentazione archivistica accessibile. E certo, chi non è consapevole del carattere provvisorio della documentazione su cui qualunque storico, anche il più fortunato, costruisce il suo racconto? Ma questo non può esimere dall'accettare acquisizioni inconfutabili né impedirà di respingere le menzogne quando esse sono inequivocabilmente tali (e non ci sarà documento che potrà «riabilitarle»).
Dunque il problema è mal posto. Non si tratta di due possibili verità al paragone (quella storiografica e quella narrativa), ma, semmai, di come tener conto della insostituibile, sui generis, «verità» della narrativa. Certa grandissima narrativa del Novecento è stata, a pieno titolo, storiografia sul Novecento. Del resto il contributo, non necessariamente intenzionale, della narrativa alla «verità storica» risale di molto nel tempo, e forse appartiene ad ogni tempo: dall'epos omerico (che è anche storia) al romanzo di Grimmelshausen, a Cervantes, a Stendhal, a Manzoni, eccetera. Nel capitolo IX della prima parte del Don Chisciotte, Cervantes definisce la storia, intendendo beninteso lo scrivere storia, «madre della verità». «L'idea è meravigliosa — commenta Borges —: non vede nella storia l'indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne ma ciò che noi giudichiamo che avvenne» ( Finzioni). La questione del tasso di verità presente nel tessuto narrativo di una pagina storiografica è, ab origine, il problema dello scrivere storia. Ciò vale già per Tucidide, che pure condanna gli «abbellimenti» dei poeti e dei logografi loro imitatori, e che, nondimeno, fa parlare direttamente i personaggi (come faceva Omero) e dedica un intero capitolo alla questione di come si è regolato nel riferire la parola dei protagonisti. Non lo fa per esibire la sua bravura oratoria, e comunque questo è un obiettivo secondario. È per lui una via d'uscita di fronte ad una aporia capitale e onnipresente per chi tenti di scrivere storia: quella inerente al nesso e alla sintesi fra le volontà dei singoli, di quell'insieme di singoli che sono le masse, e la volontà direttiva dei capi. È il problema, che si pone a lungo Tolstoj ( Guerra e pace), di quanto valgano i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia. E non a caso il suo «eroe» è Kutuzov, il quale si addormenta mentre i generali prussiani e austriaci disquisiscono a tavolino intorno ai piani di una battaglia che nella realtà sarà il frutto di miriadi di comportamenti individuali e del loro intreccio.
Tucidide si è trovato, raccontando la guerra e la politica, di fronte alla medesima questione: quanto pesano le volontà collettive nella determinazione delle decisioni. O meglio: come avviene che tante volontà individuali si fondono in una decisione collettiva, che qualcuno «interpreta» e gli altri accettano? Nella sua diagnosi è la volontà dei capi che conta, in ultima analisi, più di ogni altra. Ed è per questo che risolve narrativamente la questione ponendo al centro la parola dei leader, riscritta o parafrasata. Ma forse non era un'arbitraria prospettiva, una sopravvalutazione dell'efficacia dell'arte del discorso. Forse la prassi dimostrava che per lo più le cose andavano effettivamente così. E forse la polarità, senza mediazioni, tra capi e popolo era effettiva, non un ritrovato letterario per dare la parola solo ad alcuni. Siamo ancora una volta sul limitare di congetture che tentano di scrutare ciò che le fonti non dicono. E quando invece lo dicono resta in noi il dubbio: in che misura interferisce in queste descrizioni, non sempre frutto di autopsia, la componente retorica?
La componente retorica investe anche un altro aspetto, indissolubile dalla questione della «verità», e cioè il pathos. Un verso notevolissimo di Lucrezio dice che «a causa del tempo intercorso» noi «non abbiamo provato alcun dolore» per le carneficine del tempo della guerra annibalica (III, 832: nil sensimus aegri): non soffrimmo perché non c'eravamo. Per Lucrezio quello è un semplice tassello nell'incalzante ragionamento demolitore della credenza nell'immortalità dell'anima, ma tocca, sia pure di sfuggita, la aporia capitale della comprensione storica: essere scevro delle emozioni, e indenne dalle sofferenze è un vantaggio o non piuttosto un limite per capire «cosa veramente accadde»? La distanza temporale, di solito esaltata come matrice di equanimità, non è forse in ultima analisi un danno?
Gli effetti dell'accrescersi progressivo della lontananza temporale (al di là della distruttività che il tempo comporta per la conservazione dei documenti, tema che qui lasciamo da parte), specie se coniugati con la velocità della trasformazione di civiltà, possono risolversi in una totale estraneazione, e quindi incapacità di intendere il passato.
Anche di questa lotta contro il tempo è fatto lo scrivere storia. Arte a praticar la quale l'atarassia senza passioni non è la migliore, ma forse la peggiore condizione. Sicché, il pathos narrativo (la partecipazione emotiva, non il volgare patetismo) non è un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l'indizio della perdurante vita del passato dentro di noi. Erodoto, greco d'Asia divenuto poi partigiano di Atene e storico delle guerre persiane, parlava di un passato che egli non aveva visto, ma che sentiva ancora come presente.
In questo senso, e con l'abilità immaginifica propria dell'idealismo italiano, Croce poté efficacemente scrivere, al principio della sua Storia come pensiero e come azione (1938): «L'uomo è un microcosmo, non in senso naturalistico, ma in senso storico: compendio della storia universale».

Liberazione 28.4.07
Intervista all'ex esponente della minoranza ds: «Bisogna cominciare a lavorarci dall'alto -
coordinando i gruppi - e dal basso, coinvolgendo chi in questi anni s'è tenuto in disparte»
Salvi: «Il soggetto della sinistra?
Farlo subito e farlo plurale»
di Stefano Bocconetti


E' molto più che un sì. Se esistesse sarebbe un superlativo del sì. «Mi chiedi se sono d'accordo con l'idea di Berlinguer di un soggetto unitario della sinistra? Io dico che va fatto assolutamente. Subito. Senza perdere tempo a discutere di pregiudiziali, di collocazioni internazionali. Senza farsi irretire da dibattiti ideologici, burocratici. Bisogna farlo. Subito». Cesare Salvi, fino a ieri era nei diesse. Due congressi fa aveva dato vita d una componente - «Socialismo 2000» - che stavolta, invece, ha fatto gruppo col correntone di Mussi. Naturalmente, non entrerà nel piddì.

Salvi come ti immagini la sinistra prossima futura?
Io un'idea - anche abbastanza precisa - ce l'ho. Però, la tengo per me. Perchè penso che questo non è il momento delle formule. Non bisogna rivendicare appartenenze. Deve essere una fase in cui si costruisce.

D'accordo, riformuliamo la domanda: si costruisce cosa?
Un soggetto plurale. Un soggetto che, non ti suoni assurdo, si candida ad essere maggioritario.

Maggioritario? Non ti sembra di correre?
Se ci pensi uso altre parole ma credo di dire le stesse cose sostenute da Bertinotti quando ha parlato di "massa critica". Sì, io penso che oggi ci sia la possibilità di mettere assieme le parti di questa sinistra, fino ad ora separate. Parti che possono diventare rilevanti. Quantitativamente e qualitativamente. Nel senso che possono candidarsi a guidare una stagione politica. Possono candidarsi a vincere.

Perché secondo te oggi è possibile e ieri non lo era?
Per due ragioni. La prima è che non esistono più i ds. Che comunque esercitavano una forza attrattiva in settori della sinistra.

E' il tuo caso?
Sì, ho creduto a quell'esperienza. Ma ora i dirigenti dei ds hanno fatto una scelta - legittima, beninteso - di portare quel partito ad un approdo moderato e neocentrista.

Lo definiresti così: neocentrista?
La scelta è quella. Io da sette anni ero in minoranza in quel partito che non c'è più. Ed è da tempo che si manifesta una tendenza verso quella direzione. IPer esempio ancora non ho capito perché si sia dovuta interrompere l'esperienza dei "progressisti", del '95, inventandosi un'assurda differenziazione fra le due sinistre. Una tendenza manifestata da tutti i dirigenti. Pensa alle analisi di D'Alema, al suo progetto di modernizzazione senza aggettivi. Ora quel progetto è arrivato a compimento. Liberando, però, al tempo stesso risorse, energie. Potenzialità.

La seconda "condizione"?
Che oggi la sinistra, tutta, è al governo. E può incidere. Anzi, se mi permetti, deve cominciare ad incidere. Perché il rischio che vedo è che - passami la battuta - con Prodi la sinistra avrà difficoltà a sopravvvere.

Che vuoi dire?
Ma, insomma: la stragrande maggioranza del paese è per il ritiro dall'Afghanistan, è per aggredire il dramma della precarietà. Per far crescere la cultura, le università. Per tutelare chi muore sul lavoro. E non mi pare che il governo abbia fatto molto su questi temi. Ecco perché dico che bisogna fare presto. Russo Spena propone un coordinamento dei gruppi parlamentari? Facciamolo, adesso. Questo dall'alto. Mentre dal basso dobbiamo far crescere il progetto del nuovo soggetto plurale. Mobilitando quel popolo di sinistra che in questi anni è rimasto a guardare.

C'è un problema, però. Avete appena condotto una battaglia, nei ds, per impedire il distacco dal socialismo europeo. Il soggetto che immagini dovrà aderire al Pse?
Ti ho già detto che immagino, un soggetto plurale. Poi, vedi, il socialismo europeo è un corpo composito, dove coesistono le spinte più diverse. A me, socialista e perché no? socialdemocratico, interessa una battaglia per spostare a sinistra quel campo. Ma rispetto le identità di tutti. Pluralità è questo: nessuno deve chiedere. E poi lasciami dire una cosa...

Quale?
Che me interessa sviluppare una discussione non sull'adesione ad un gruppo, ripercorrendo la brutta storia voluta da Fassino e Rutelli col piddì. A me interessa discutere di cosa è il socialismo oggi. Di come si esercita una moderna critica al capitalismo, come si salvaguarda la natura, come si tutela il lavoro, cosa vuol dire laicità. Come si fa crescere la partecipazione, la democrazia. E come si fa crescere tutto questo in un progetto. Se vuoi un po' quel che fece il Pci...

Cos'è, nostalgia?
Non fraintendermi. Quella è una storia chiusa. Mi serviva solo come esempio, per dire che bisogna mettere in campo, oggi, valori, progetti, unità. Accettando, ecco una distanza decisiva con le passate esperienze, la diversità delle ricerche. Ma ti ripeto: partire subito non è una variante. E' la condizione per vincere.

Liberazione 28.4.07
Pdci, Diliberto: «Unificare la sinistra»
Standing ovation dei delegati per Bertinotti
A Rimini senza Cossutta il 4° congresso dei comunisti italiani. Il segratario: «Accettiamo la sfida
della nuova formazione. Il Pd guarda al centro». Prodi: «Non intendiamo escludere nessuno»
di Castalda Musacchio


Unificare la sinistra dopo il vuoto lasciato "a sinistra" dal neonato Partito democratico. E' questa la sfida lanciata dal segretario del partito dei comunisti italiani Oliviero Diliberto dal palco del quarto congresso del suo partito a Rimini. Una scelta simbolica di una città (Rimini) e di una data (il 27 aprile del 1936 moriva Gramsci il più citato nella relazione del segretario Pdci, ndr) per «avviare un processo che non sia la simmetrica riproposizione a sinistra di ciò che hanno fatto Ds e Margherita, bensì una costruzione "in progress" che tuttavia si dia una tempistica certa, non accetti dilazioni o freni espliciti o impliciti, dettati magari dall'evidenza dell'autoconservazione dei gruppi dirigenti». Dunque una mano tesa a tutti quei soggetti a quelle forze politiche al movimento che si riconoscano nella necessità di «fare massa critica». E non è neppure un caso che Diliberto citi esplicitamente un'espressione adottata dal presidente della camera Fausto Bertinotti. Pur qui a Rimini in veste istituzionale, in verità è proprio il presidente della Camera ad essere il più applaudito dai delegati del Pdci. E lo stesso segretario dei comunisti italiani non risparmia neppure un saluto affettuoso "saltando il cerimoniale" aprendo la sua relazione e rivolgendosi allo stesso Bertinotti come un «caro compagno». Un segno di disgelo, «la fine - commenterà poi lo stesso capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena - di un settarismo nei confronti di Rifondazione». E di fatto questo congresso sancisce perlomeno nella forma la voglia di un cambiamento strategico anche, anzi soprattutto, nei rapporti con Rifondazione.
I messaggi che Diliberto lancia dal palco rivolgendosi direttamente agli invitati presenti, accanto a Bertinotti lo stesso Prodi e Rutelli, sono dunque espliciti. «La priorità ora - sostiene il segretario del Pdci - è quella di cimentarsi in una strada di unità. Da qui nella fase nuova che si è determinata dalle condizioni oggettive che la suggeriscono anzi che la dovrebbero imporre, riproponiamo ai soggetti della sinistra, non solo ai partiti ma anche alle associazioni, alle organizzazioni dei lavoratori, ai giornali di sinistra, alle singole personalità, a tutti insomma, di iniziare finalmente a parlarci non più sul se, ma sul come procedere sulla strada dell'unità». Un percorso certamente difficile e tutto in salita ma ora un obiettivo prioritario. E proprio questo è l'invito che persino il grande assente da questo congresso, Armando Cossutta, non ha mancato di rilasciare in un'intervista al Riformista. E che lo stesso Diliberto ha fatto proprio.
La sfida come si diceva è dunque per «una sinistra senza aggettivi», perché questi potrebbero indurre alcuni a non aderirvi. Boselli, l'altro invitato "eccellente" al congresso del Pdci, annuisce. Del resto quell'unità si potrebbe significamente inseguire su alcuni temi portanti su cui c'è la sintonia politica: il lavoro e i saperi, temi portanti della relazione di Diliberto. E proprio perché «il partito democratico è un'altra cosa rispetto alla sinistra, è di fatto un partito di centrosinistra che guarda al centro».
La sfida è lanciata. Una sfida a cui è chiamato a replicare lo stesso Prodi che dal palco del congresso non può che rassicurare i delegati del Pdci come proprio il Pd non intenda chiudere gli spazi. «Il partito democratico - dirà Prodi - non divide, non impone guide moderate e inciuci». Eppure a sinistra del Pd "la sinistra" è in fermento verso la costruzione di un nuovo progetto che oggi si misura con la necessità di arrivare a delineare le fondamenta di un nuovo soggetto politico. «Oggi - commenta infine Russo Spena - si è compiuto un importante passo avanti. Occorre perseverare su questa strada, per dar luogo a un nuovo soggetto politico della sinistra, che deve essere la sinistra senza ulteriori aggettivazioni». «La relazione di Diliberto - dirà ancora lo stesso Claudio Grassi dell'area Essere comunisti di Rifondazione presente al congresso insieme a Michele De Palma - può concretamente aprire una stagione nuova nei rapporti tra il Pdci e Rifondazione comunista lasciando alle spalle le divisioni del passato». «Eppure - conclude Russo Spena - occorre continuare sulla strada del cantiere per far sì che si realizzi una grande e concreta innovazione politica».

l’Unità on line 28.4.07
Un appello di Mussi e Angius «Verso la Sinistra Democratica»
Il 5 maggio l'assemblea costituente
qui

l’Unità 28.4.07
COSSUTTA. Il segretario lo saluta, ma lui replica:
m’impegno a costruire una sinistra larga


Assente, e si sente. È il primo congresso dei Comunisti italiani senza Armando Cossutta. All’inizio della sua relazione il segretario Oliviero Diliberto saluta «Armando». «Sarebbe stolto e ingeneroso che noi non sottolineassimo che questo congresso - dice - è il primo che teniamo senza la presenza, per sua scelta, di un compagno al quale tutti noi, ed io in particolare, dobbiamo moltissimo. Questo compagno ha scelto di lasciare il nostro partito e non gli lesina certo aspre critiche. Io, viceversa, non intendo, come sempre ho fatto finora - e a questo criterio intende continuare scrupolosamente ad attenersi - minimamente polemizzare con lui. Da me, nei suoi confronti, non sentirete mai alcuna parola che non sia di riconoscenza politica e di affetto. Egli è stato il fondatore di questo partito e ci dispiace non averlo qui tra noi: ma continuiamo a dirgli, anche attraverso questa tribuna: grazie, caro compagno Armando Cossutta».
Lui risponde, asciutto: «Ringrazio il compagno Diliberto per le parole che mi ha rivolto e per l'applauso del congresso. Ai delegati rivolgo un saluto affettuoso. Naturalmente confermo la validità delle decisioni che ho assunto di uscire dal partito e di impegnarmi come sempre e, se possibile, anche di più per costruire una grande formazione unitaria della sinistra italiana».
Intervistato dal riformista, spiega: «Nel Paese c'è una grande domanda di sinistra. E, soprattutto, ci sono le condizioni per dar vita a un nuovo soggetto della sinistra. Io ci sono, muoviamoci subito. Mi rivolgo a Prc, ai gruppi di Mussi e Angius, al Pdci, ai Verdi: diamo vita a gruppi parlamentari unificati, facciamo una proposta seria sulla legge elettorale e, in Europa, cerchiamo un rapporto con il Pse». E la Costituente socialista avviata da Boselli? «Io non ho dubbi - risponde Cossutta - non ho difficoltà ad avere un rapporto stretto con Enrico e spero che lui non abbia problemi a stringere la mano a un vecchio comunista come me. In questo processo ci deve essere anche lo Sdi».

l’Unità 28.4.07
OCCHETTO. A sinistra del Pd si riparta dal riformismo


«Sì, sono d'accordo con Bertinotti: c'è bisogno di una grande rivoluzione culturale d'idee e progetti per aggregare assieme le forze che nella sinistra si trovano distanti dal Pd. Per parte mia dico: riprendiamo quel riformismo forte di tradizione socialista che ebbe in Riccardo Lombardi l'ispiratore e il grande protagonista». A parlare e dire «sono d'accordo» con Fausto Bertinotti («a patto che non sia un modo per gettare acqua sul fuoco per dilazionare i tempi»), è Achille Occhetto che annuncia: il 12 maggio prossimo si riunisce il «Cantiere» per discutere di politica e del futuro della sinistra. «Riprendere in mano e ripartire - osserva Occhetto - da quel riformismo forte, dal riformismo rivoluzionario di Lombardi può essere, anzi, è il punto di partenza per avviare una costituente delle idee, quella rivoluzione culturale necessaria per costruire qualcosa di valido nella sinistra».

l’Unità 28.4.07
Gramsci globale, la scrittura contro il potere
di Bruno Gravagnuolo


IL CONVEGNO Al via a Roma «Gramsci, le culture, il mondo». Un taglio «multiculturalista» che fa emergere l’attualità di un pensiero duttile e avvolgente dalla parte dei ceti subalterni

Una straordinaria macchina di pensiero contro la passività. Contro la subalternità dei dominati, ma anche dei soggetti individuali come tali. Nel vasto campo, nazionale e globale, segnato dai conflitti sociali per l’«egemonia». Ecco era questo il filo conduttore più insistente che affiorava ieri al Convegno della Fondazione Istituto Gramsci e della International Gramsci Society, di là del taglio «globalista» e «culturalista» dei lavori, pensati per questo settantesimo anniversario della morte del pensatore sardo.
Un modo nuovo e originale di ripensare il fascino di Gramsci, con l’assopirsi delle passioni ideologiche di un tempo, e però «paradossalmente» con una diffusione senza pari del suo pensiero nell’ambito più disparato degli studi e delle lingue, specie nel settore delle scienze sociali.
Sicché l’approccio «multiculturale», non riusciva a sbiadire il tratto gramsciano di cui sopra. Ma anzi lo esaltava. Ovvero: genealogia del dominio, storia dei dominati. E rovesciamento continuo del pensiero in una filosofia «anti-passiva». Quella che una volta si chiamava (Gramsci la chiamava così) «filosofia della praxis». Al servizio della liberazione delle classi subalterne. Nei contesti locali e geopolitici più lontani e interdipendenti. Dove i Quaderni del Carcere si studiano ormai come un classico vivo e operante.
E c’erano all’Istituto Sturzo di Via delle Coppelle 35 alcuni dei più insigni studiosi italiani e internazionali di Gramsci. Da Giuseppe Vacca, a Marcus Green, a Stuart Hall, a Ursula Apitzsch, Anne Showstack Sassoon. Mentre domani fino a sera vi saranno Guido Liguori, Joseph A. Buttigieg, Renate Holub, Derek Bothman, Abdeselamm Cheddadi, Peter Mayo, Iain Chambers e tanti altri. Piccolo inciso a pro del Gramsci. Bene che «l’Istituto Sturzo» abbia ospitato un Convegno così importante. Ma quand’è che il Comune di Roma manterrà la sua promessa di una sede propria e adeguata all’Istituto, visto che quella annunciata di Vicolo Valdina è stata poi assegnata al Senato? Una volta il Gramsci era un vero crocevia culturale e di «massa». Un archivio al servizio della città. Oggi al Portuense è un po’ ristretto e in penombra. Non sarebbe il caso che Veltroni ci pensi seriamente?
Ciò detto veniamo al Convegno. Multiculturale, s’è detto. E perciò India, Usa, Gran Bretagna, America Latina, mondo arabao, teatri di una diffusione editoriale senza pari. Mentre in Italia, a parte il Gramsci con le sue iniziative - in primo luogo la nuova edizione nazionale degli scritti - c’è come una coltre di oblio. Rischiarata di tanto in tanto da clamori mediatici su «complotti» e «infamie» varie di Togliatti. E così a parte la verità storica - Gramsci era sì fonte di imbarazzi politici negli anni ’30 ma fu Togliatti a salvarne i manoscritti - si perde l’essenziale.
È l’essenziale è proprio la lettura «molecolare» del potere gramsciana nei processi di modernizzazione. Vuoi dove la modernizzazione mancava, nell’Oriente «gelatinoso», vuoi dove era (ed è) guidata in chiave conservatrice e passiva dai vecchi ceti dominanti. Perciò la sua lezione affascina oggi studiosi indiani come Ranajt Guha, la cui relazione è stata letta da Paolo Cappuzzo, tra i massimi studiosi dei «cultural studies» gramsciani. E l’approccio di Guha sta proprio nel vedere come le classi contadine in India resistano oggi alla «globalizzazione», inventando forme produttive e distributive solidali compatibili col mercato e non marginalizzate, dopo aver resistito alla dominazione coloniale inglese, i cui moduli le nuove borghesie autoctone tentano di riprodurre (e ne ha parlato anche Sandro Mezzadra). E negli Usa? Veri cultori di Gramsci sono i «neocon», secondo un tema caro a Joseph A. Buttigieg, che parlerà domani del «Gramsci di Edward Said». Nessuno come loro infatti ha compreso che il dominio è un’architettura del consenso che si vale di «forme simboliche», nel momento in cui l’«egemonia» immateriale della nuova economia liofilizza singoli e aggregati di massa. Ecco perché i think-tank, le riviste come il Weekly standard dei Kristoll padre e figlio, i political consultants e quant’altro. Ed «egemonia», lo «spiega» bene il metodo di Guha, è stile, linguaggio, folklore, «posture», il gusto di massa. Insomma, è l’insieme delle forme di coscienza rapprese in simboli fin dalla favole infantili, che a Gramsci interessavano moltissimo. Qual è allora il programma di Gramsci, affidato come diceva Giorgio Baratta a una scrittura vitale e fulminea? Decostruire la morfologia del potere. I «cristalli» di senso comune indotto dai dominanti nei dominati. Che si tratti, come diceva Green, di contestare il positivismo di Lombroso - e oggi della sociobiologia! - o di sfatare il mito di un’economia liberista «naturale». Protagonismo contro subalternità. E contro il trasformismo che decapita la politica di sinistra, rendendola oggetto di egemonia e non il suo contrario. Eccolo l’assillo vero di Gramsci. Un Nietzsche delle classi subalterne, con il demone della politica.

l’Unità 28.4.07
A TURI Visita al carcere in cui fu recluso cinque anni. E un convegno sull’eredità politica e editoriale del fondatore dell’«Unità»
Nella cella dove nacquero i «Quaderni»
di Maristella Iervasi

Turi (Bari) è la cittadina pugliese nel cui carcere fu rinchiuso il fondatore del Pci e del quotidiano l’Unità, Antonio Gramsci (1891-1937). Proprio qui il grande filosofo, uomo politico e scrittore fu recluso dal regime fascista fino a pochi giorni prima della morte. E fu qui, da detenuto, che scrisse 21 Quaderni, letti in tutto il mondo. Non è dunque un caso che a Turi si sia svolta una delle più significative celebrazioni per l’anniversario della morte.
La giornata si è aperta nella sala conferenze della biblioteca comunale - inaugurata due settimane fa e che porta il nome di Antonio Gramsci, e dove è custodito il patrimonio librario fornito dall’Istituto Gramsci. Al convegno, L’attualità di Gramsci, erano presenti Nicola Michele Mazzarano, segretario regionale dei Ds, Dario Ginefra, segretario provinciale Ds, l’avvocato Gianvito Mastroleo, presidente della fondazione di Vagno, il professor Luigi Masella, presidente regionale della Fondazione Antonio Gramsci, il professor Vito Antonio Leuzzi, presidente degli Studi antifascisti, Antonio Padellaro, direttore de l’Unità e Nicola Latorre, vicepresidente dei senatori Ds.
Mastroleo nel suo intervento ha ricordato quando Sandro Pertini, ex presidente della Repubblica nel 1989 andò a Turi, per visitare la cella di Gramsci. Erano stati compagni di cella. «E fu un omaggio di commozione vera». L’attualità di Gramsci nella politica di oggi è stata invece sottolineata da Masella e Leuzzi. Mentre il senatore Latorre - che insieme con una delegazione dei Ds è entrato nel carcere, si è soffermato su alcuni aspetti fondamentali della lezione gramsciana: «Nei suoi scritti c’è una chiave di lettura, un’analisi che ci ha aiutato a rivedere e a ripensare le teorie della crisi - ha sottolineato -. La sua attualità si può ritrovare nel concetto di egemonia e nelle teorie sulla società civile e sulla subalternità».
Al convegno è intervenuto anche Antonio Padellaro, direttore de l’Unità. «I giornali - ha detto - non sono solo contenitori di notizie ma trasmettitori di memoria. E in un momento in cui la memoria storica della sinistra viene svalutata, occorre conservare il ricordo per difendere l’identità. Altrimenti si finisce in una nebbia indistinta, inaccettabile. Il tentativo di negare la memoria esiste. Occorre continuare a battersi - ha concluso Padellaro -. L’Unità lo fa, per un’esigenza di rispetto ai lettori e per la sua storia. La testata Unità è un monumento nazionale che non può essere intaccato».

l’Unità 28.4.07
ROMA Al Cimitero acattolico
Sulle sue ceneri rose rosse e pochi politici
di Gioia Salvatori

Sulle ceneri di Gramsci che ispirarono Pasolini, al cimitero acattolico di Roma, magre celebrazioni, ieri, per il settantesimo anniversario della morte del fondatore del Pci. Tra le tombe a un passo dalla Piramide Cestia, là dove sono sepolti anche Keats, Shelley, Von Humboldt, si sono visti solo pochi volti noti della sinistra: il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, il capogruppo al senato del Prc Giovanni Russo Spena e l’assessore alla cultura della Provincia di Roma, ex sottosegretario, il diessino Vincenzo Vita. Per il Pdci da ieri impegnato a congresso, è andato a deporre una corona per conto della direzione nazionale, il segretario romano Fabio Nobile, giovedì sera. Non si sono visti segretari o ex segretari di partito, che hanno detto di avere Gramsci nel cuore, non ci sono stati discorsi commemorativi né altro genere di orazioni. Come ogni anno ogni partito ha deposto una corona di fiori e le rappresentanze di Pdci, Ds e Prc sono andate, come al solito, separate. Ci sono anche i fiori di Iniziativa Comunista.
La delegazione più numerosa è stata quella dell’Istituto Gramsci che, prima dell’inizio del convegno internazionale Gramsci, le culture e il mondo, si è recata con tutti i relatori, stranieri compresi, al cimitero acattolico. Con loro c’era anche il nipote del fondatore del Pci: Antonio Gramsci junior, musicista e residente a Mosca come il padre Giuliano. Immancabili il presidente dell’Istituto Giuseppe Vacca, e i due vicedirettori Roberto Gualtieri e Alberto Provanzini, Giuseppe Zucconelli, diessino, responsabile del cerimoniale e organizzatore storico dell’appuntamento del 27 aprile.
Ogni tanto, però, qualcuno dei pochi visitatori del cimitero si avvicina alla tomba, indicata dalle frecce fin dall’ingresso, e vi fa sosta. Uno studente di filosofia depone una rosa rossa. Poi è la volta di un adolescente della periferia romana membro di una «famiglia rossa di contadini e partigiani umbri»; non sta con nessun partito ma è giunto per salutare Gramsci «che sapeva combattere per ideali giusti».

venerdì 27 aprile 2007

axteismo press aprile 2007
Che cosa sono i dogmi? Chi li stabilisce? Quanti e quali sono?
Gli assiomi della fede


La maggior parte dei dogmi furono definiti nei primi secoli del cristianesimo, quando si rese necessario distinguere le verità di fede dalle eresie.

I dogmi sono verità contenute nella rilevazione divina e manifestate nelle Sacre Scritture o nella tradizione della Chiesa. Il dogma viene proclamato da un concilio o dal papa in prima persona, e impegna tutti i cristiani a credervi per fede. Può in seguito essere chiarito ed elaborato, ma mai negato. Il termine ha acquisito questo significato solo in epoca moderna (dal XVII secolo), anche se già nella Chiesa antica e nel Medioevo si parlava di “formulazioni dogmatiche”, nelle quali si proclamavano le verità più importanti della fede. Difesa dalle eresie. Fin dalle sue origini, quindi, la Chiesa ha fissato dei “dogmi”, soprattutto in particolari momenti storici, spesso per opporsi a eresie. La maggior parte di essi si trova nei testi dei primi sette concili ecumenici, tutti del primo millennio, quando si stabilirono le verità centrali della fede e si fissò il “Credo”, usato ancora oggi nella liturgia. Un elenco preciso dei dogmi non esiste. Ecco comunque quelli ritenuti più importanti dalla Chiesa cattolica. Stefania Saracino

DOGMA: Dio è uno e trino
Ha assunto la forma di dogma durante il concilio di Costantinopoli del 381. Dio è uno solo in tre persone: Dio-Padre, Dio-Figlio e Dio-Spirito Santo. Le persone divine sono distinte tra loro, ma la loro distinzione non divide l’Unità divina.

DOGMA: Gesù Cristo è il Figlio unigenito di Dio, generato ma non creato consustanziale al Padre, eterno e immutabile
Fu proclamato nel primo concilio di Nicea (325): Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è stato generato prima dei secoli, ma non è una creatura di Dio, ed è della stessa sostanza del Padre.

DOGMA: Maria è Madre di Dio
Dogma proclamato dal concilio di Efeso (431). Maria è Madre di Dio perché è madre di Gesù. Infatti, colui che è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che è diventato veramente suo figlio, è il Figlio eterno di Dio Padre. E’ Dio egli stesso.

DOGMA: Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo
Gesù Cristo, nell’unità della sua persona divina, ha due nature inscindibili, quella umana e quella divina, ed è perfetto quanto alla divinità e perfetto quanto alla umanità (concili di Efeso, 431, e di Calcedonia, 451).

DOGMA: Maria è sempre vergine
Il II concilio di Costantinopoli, nel 553, sancì la perpetua verginità di Maria: prima, durante e dopo il parto di Gesù Cristo. Quando i Vangeli parlano di “fratelli e sorelle di Gesù”, si tratta di parenti prossimi.

DOGMA: Il purgatorio esiste
E’ lo stato di quanti muoiono nella grazia di Dio, ma, anche se sono sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione. La dottrina del Purgatorio fu sancita come dogma nei concili di Firenze (1439) e di Trento (1545-1563).

DOGMA: Transustanziazione
E’ la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, al momento della consacrazione. La transustanziazione divenne dogma nel 1215, nel IV concilio Laterano, e fu confermata dal concilio di Trento, quando la Chiesa cattolica, in seguito alla riforma protestante, stabilì i confini dell’ortodossia.

DOGMA: Immacolata concezione
Proclamata da papa Pio IX l’8 dicembre 1854, stabilisce che la Vergine Maria è stata concepita pura, senza peccato originale. E’ cioè stata preservata dalla condanna universale del peccato fin dal concepimento.

DOGMA: Infallibilità papale
Il dogma è contenuto nella costituzione Pastor aeternus approvata dal Concilio Vaticano I il 18 luglio 1870. Afferma che il papa deve essere considerato infallibile quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo “supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani” e “definisce una dottrina circa la fede e i costumi”. Pertanto quanto da lui stabilito vincola tutta la Chiesa per sempre.

DOGMA: Assunzione di Maria
E’ l’ultimo dogma, proclamato da papa Pio XII il 1° novembre 1950. Indica che la Madonna, finito il corso della sua vita terrena, fu “assunta” (cioè accolta) in Paradiso con l’anima e con il corpo, accanto al Figlio e a Dio Padre.

Axteismo, No alla chiesa, no alle religioni
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Repubblica 3.4.07
Inediti/ Un saggio di Maria Zambrano sul poeta della 'Commedia'
Dante, la bestia e l'angelo
di Maria Zambrano


Nella 'Monarchia' l'uomo viene assimilato all'orizzonte perché media tra razionale e irrazionale La concezione dell'Universo nel Medio Evo era concentrica e legata alla divinità L' intimità della religione veniva vissuta come mistero di luce e di amore Beatrice manifesta un' esperienza di passione che secoli dopo si chiamò mistica

Ogni opera umana si rivela sempre, com' è ovvio, uno specchio in cui gli uomini possono guardarsi. L' immagine di sé che l' uomo cerca instancabilmente non si riduce alla sua sola figura, per la ragione, anch' essa ovvia, che l' uomo non arriva a darsi una figura, nemmeno sbozzata, se non in relazione a tutto ciò che lo circonda. Ed è sempre stata una peculiarità dell' uomo sentirsi in relazione: vale a dire effettivamente circondato dall' universo nella sua totalità, quale un mediatore tra tutte le cose esistenti. E esattamente questa l' idea dell' uomo che Dante professa in tutta la sua opera, in maniere diverse. Una tra le più belle è quella che riporta nella Monarchia, attribuendola ad alcuni filosofi: l' idea che l' uomo sia come un orizzonte - assimilato all' orizzonte - perché media tra i due emisferi. Mediatore tra l' emisfero degli esseri naturali irrazionali e la ragione, tra la bestia e l' angelo, capace di attraversare, come illustra simbolicamente il suo poema straordinario, tutti gli stati dell' essere, dal centro dell' inferno fino all' ultimo cielo, proprio ai piedi del centro supremo, del trono della Santa Trinità. Quel che ci offre nella sua opera è, in effetti, la condizione umana in tutta la sua pienezza, nella piena attuazione delle sue possibilità: fin qui può abbassarsi l' uomo, fin lì può ascendere; fino a tali confini estremi dell' afflizione e della beatitudine e, semplicemente, sulla terra, dove l' uomo può espandere la sua potenza e il suo intelletto. A questa idea verificata dall' esperienza risponde l' opera di Dante. E uno specchio poliedrico. Giacché nessun uomo ha potuto mai raggiungere i confini estremi dell' umano senza appurare, sorso dopo sorso, i conflitti del proprio tempo, del proprio paese, senza attraversare le barriere delle circostanze spazio-temporali. A Dante spettò in sorte di vivere uno dei periodi più complessi e conflittuali della storia occidentale; viverlo dal di dentro e non subirlo semplicemente. Non fu uno spettatore. Non poteva esserlo in virtù dell' unità della sua mente, della sua anima, della sua morale, in questo tipicamente medievale. L' uomo del Medio Evo è infatti il meno differenziato e scisso tra quelli conosciuti. La specializzazione dell' essere, che si produsse molto prima di quella del conoscere caratteristica dei tempi moderni, era inconcepibile per un uomo medievale. Poiché la concezione dell' universo - più che del mondo, come si dice oggi - era concentrica, cioè unitaria in forma pluricircolare. Il centro della sfera totale in cui è racchiuso l' universo è la divinità - Dio Uno e Trino - . Ma l' uomo che si sapeva decaduto, caduto sulla terra - la valle di lacrime - , portava in sé, proprio al centro di sé, sia pur offuscata, la presenza viva della divinità. Emanuele, come si sa, vuol dire questo: Dio nell' uomo. E tale presenza non si manifestava solo in un sentimento di quello che in seguito si è concepito come cuore, ma attraverso la ragione. La ragione era divina. Una ragione trascendente che muovendo dalla divinità attraversava l' intera creazione e stabiliva una dimora prediletta nella mente umana. Questo significa che la ragione era una scala mediatrice, che per mezzo di lei e attraverso di lei si poteva viaggiare, transitare per i mondi diversi che compongono l' universo visibile e in visibile. La ragione illuminata dalla fede e dall' amore. Itinerarium mentis in Deum, così San Bonaventura, discepolo di San Francesco tanto caro a Dante, intitolava la sua opera insieme filosofica e teologica; guida di conoscenza e d' amore. E quelli che più si addentravano nei misteri dell' essenza divina la descrivevano o la manifestavano come il fuoco della luce. L' intimità della religione veniva vissuta come mistero di luce e di amore; di una luce-ragione-parola che discese e si fece carne in un corpo umano. La scienza - poiché esisteva una scienza, erede della tradizione greca e di quella egizia, sua madre o almeno nutrice, e forse anche di altre tradizioni - non era solo congiunta al divino, ma veniva altresì intesa come una forma svelata del mistero. Le stesse Arti Liberali - Trivium e Quadrivium - rivestivano un significato teologale: erano cioè, al pari dei sette Pianeti - incluso il Sole - una scala per ascendere fino al centro supremo. Non c' è dunque da stupirsi se Dante dichiara a sua volta che per cieli intende le Arti. Perciò il cosiddetto sistema geocentrico, che concepiva la Terra come il centro del ruotare del Sole, andrebbe definito, più esattamente, teocentrico. Dante infatti non inventa nulla quando, nel verso finale della sua Divina Commedia, dichiara che «L' Amore muove il Sole e le altre stelle»: cioè tutti i corpi che ruotano nei cieli. Questa unità essenziale di scienza, teologia, religione unificava nell' uomo la mente con il cuore, o almeno se lo proponeva e nel contempo lo rendeva possibile. Per questa esclusiva ragione, o magari per qualche altra ragione convergente, la virtù per eccellenza dell' uomo medievale era la lealtà. Essere tacciato come sleale, o all' estremo come traditore, era l' ombra peggiore che potesse cadere su un uomo. La lealtà è alquanto diversa dalla sincerità, che è ciò che più le assomiglia. Essere sincero tuttavia non significa affatto essere leale. La sincerità è la virtù dell' uomo isolato, confinato nella propria individualità, sprofondato nell' incertezza e nel dubbio, dell' uomo rimasto solo con la propria coscienza e che non ha altra forma di rettitudine se non l' andar dichiarando o almeno dichiarandosi senza mentirsi ciò che sente e pensa in ogni momento, costretto a volte a spiarsi per questo, a frugare dentro di sé come in un estraneo le proprie segrete intenzioni, i desideri inconfessabili, trascinandosi per il labirinto della psiche solitaria. Lealtà è unità di mente, anima e azione che, in forma più esplicita, corrisponde all' autenticità molto più che alla sincerità. Ma non possiamo non riconoscere che l' «autenticità» non è stata finora formulata con l' ampiezza che sarebbe necessaria per eguagliare il livello morale della lealtà medievale. Ed è proprio questa lealtà che paradossalmente induceva e ancora induce chi ne è schiavo - poiché non si è estinta del tutto - a cacciarsi in situazioni spinose, irte di pericoli, compreso quello di apparire sleale. Cosa che può succedere a chiunque e in qualunque circostanza. A Dante successe di dover pagare la propria lealtà intatta con esilio, povertà, soggezione a occupazioni equivoche, condanna a morte crudele e infamante a un tempo: solitudine. La trama della sua vita non mostra quasi altra cosa, la trama della sua vita, la materia dei suoi sogni. E insieme la sua esperienza. Molti uomini del tempo di Dante passarono per situazioni analoghe e molti ne vennero letteralmente consumati, mentre lui riuscì a trasformare quel fuoco su cui la sua città lo aveva condannato a morire arso, in un fuoco che lo fece vivere ardendo fino alla morte. La sua opera travalica il destino. Ma fu necessario sopportare quel destino per portarla a compimento. Se sperimentare un destino siffatto non è sufficiente per creare la Divina Commedia o l' intera opera che, essendo dello stesso autore, impallidisce un poco sotto lo splendore di quella, tuttavia non sarebbe stato possibile portare alla luce tenebre tanto profonde e far discendere tanto celestiale chiarore, senza essere passato in vita, per opera delle circostanze storiche e dell' amore, attraverso tanti inferni, purgatori e cieli. Due centri si manifestano nella vita sperimentata da Dante, due centri che immediatamente ne rivelano un terzo. L' esperienza storica e l' amore che gli ispirò una giovane fiorentina quando entrambi avevano appena nove anni. E noto che tra loro non ci fu alcuna relazione, al di là del saluto che durò un tempo assai breve. Né lei durò molto più a lungo, poiché nacque nel 1266 - un anno scarso dopo Dante - e morì nel 1290. Difficilmente una donna può illuminare in modo più profondo e totale il cuore e la mente di un uomo. Ma non fu solo questo, un amore umano ancorché immortale, quello che Beatrice gli ispirò. Come vedremo, già nella Vita Nuova appaiono parole rivelatrici del fatto che l' amore lo condusse fino ai confini estremi della vita, che si tratta di un amore che trasforma, che di un semplice uomo qual era Dante fa un uomo nuovo; un amore che lo portò a morire e rinascere, per quanto è possibile restando un abitante della terra. Se poi consideriamo la Divina Commedia, opera capitale di Dante e forse della poesia occidentale, risulta quasi impossibile non pensare che ci siano due Beatrice sotto lo stesso nome. Dante stesso lo rivela, dal momento che di lei fa la guida che lo conduce di cielo in cielo cedendo il posto solo a San Bernardo, ormai nei pressi della suprema presenza divina. Quello che Dante ha sperimentato dev' essere qualcosa di più che l' amore umano. E Beatrice manifesta e veglia a un tempo un' esperienza di conoscenza amorosa che secoli dopo si sarebbe detta mistica. Non che la mistica sia un fenomeno moderno, visto che, come ben si sa, il trattato Teologia Mistica è opera di Dionigi Areopagita - del secolo IV - . Tuttavia all' epoca di Dante, quando negli animi più illuminati si accendeva un così grande fervore di contemplazione e di azione, non si adoperava quel qualificativo, «mistico», che invece è stato tanto usato e anche abusato a partire dal Rinascimento, dalla Riforma e dalla Controriforma.
l’Unità 27.4.07
La sinistra radicale potrebbe contare su cento deputati
Fase solo in embrione. Ma già si calcola l’ipotetica forza elettorale: tra il 12 e il 15%
di Wanda Marra


È TEMPO DI CANTIERI a sinistra. «Patti di consultazione continua» li propone Giordano, da tempo Diliberto prova a lanciare la Federazione. Per adesso, quel che appare certo è che i parlamentari di Mussi e Angius convergeranno, andando a formare nuovi grup-
pi di Camera e Senato, che dovrebbero chiamarsi Sinistra democratica, con 24 deputati (contando anche gli indecisi Grillini e Baratella) e 12 senatori (contando Montalbano, anche lui indeciso). Non da oggi, però, si parla di un nuovo soggetto a sinistra del Pd, che tenga in sé insieme ai transfughi Ds anche Rifondazione, Pdci e Verdi. Ipotizzando un’aggregazione di questo tipo, si può provare a dare subito qualche numero. Sarebbero 97 i deputati di un gruppo così composto, che diventerebbe il terzo a Montecitorio, dopo l’Ulivo, rispetto al quale sarebbe un po’ meno della metà, e FI. 48, invece, i senatori, anche qui con un gruppo terzo, dopo l’Ulivo di cui sarebbe un po’ più della metà e FI. E un eventuale peso elettorale? Mettendo insieme i consensi ottenuti alla Camera, il 5,8% di Rc con il 2,3% del Pdci e il 2,1% dei Verdi e ipotizzando un consenso intorno al 3% per la Sinistra democratica (i deputati sono 24, un po’ più del 10%, e dunque si potrebbe ipotizzare per loro un 10% del 31,3% dei consensi dell’Ulivo, circa il 3%), si arriverebbe a un 13%. Che poi si avvicina a quel 12-15% calcolato dai sondaggisti del Cavaliere, secondo quanto scrive Liberazione. Una forza di tutto rispetto, insomma. Bertinotti, che da Presidente della Camera sembra porsi un po’ come un padre nobile (e d’altra parte la necessità di fare «massa critica» l’aveva posta per prima lui) avverte in un’intervista a Left: «Coloro che appartengono alla sinistra del Pd non si cullino nell'idea di una rendita di posizione del tipo: siccome si fa il Pd, dunque nascerà un soggetto unitario della nuova sinistra». Perché «serve una grande operazione di formazione e innovazione della cultura politica di sinistra. È un passaggio ineludibile se si vuole aprire un cantiere e dentro esso realizzare la costruzione di una nuova soggettività». Dichiara Russo Spena, annunciando la sua presenza alla manifestazione del 5 maggio, prima uscita pubblica di Sinistra democratica: «Chiederò di dare vita con noi ad un luogo di confronto permanente in cui elaborare i principali temi inseriti nell'agenda politica da qui a luglio». L’idea sembra convincere i parlamentari dell'ex-correntone. Luciano Pettinari spiega: «Dobbiamo stringere da subito un vero e proprio patto d'azione». Oggi Diliberto riunisce il congresso del Pdci. Ospite, tra gli altri, anche Salvi. Proporrà la costituzione di un soggetto unitario, di una «cosa di sinistra, ma senza aggettivi, perché la specificazione di “comunista” piuttosto che di “socialista” finirebbe per esercitare una reciproca esclusione». In effetti i problemi sulla strada della “grande” sinistra non mancano. Più al socialismo guardano Mussi e Angius, comunisti sono Rc e Pdci, mentre i Verdi, che si riuniscono il 4 e il 5 maggio (ospite Mussi) a Genova, pongono come prioritario il tema dell’ambiente. Tra Rifondazione e il Pdci, poi, è ancora irrisolto il nodo del simbolo. Falce e martello, dicono, vale quasi il 2% in partenza. Caldarola, annunciando che per il momento starà fuori dal gruppo della Sinistra democratica per rivestire al meglio il ruolo di sherpa nella costituente socialista, sintetizza: «Rc non si muoverà davvero fino a quando il Pdci rimarrà in campo con la Falce e martello e il nome comunista». E vale la pena ricordare qualche altro appuntamento del Cantiere: domenica si riunisce Uniti a sinistra di Folena. Il 12 maggio si vede il Cantiere di Occhetto. Ordine del giorno? «Come coprire un vuoto a sinistra». E il 16 e il 17 giugno inizia la fase costituente della Se.

l’Unità 27.4.07
Oliviero Diliberto. Il segretario del Pdci: facciamo «massa critica» su quel che ci unisce. Pace, diritti, lavoro, laicità... Tanti cantieri, un progetto solo
«Sì, un partito del lavoro, a sinistra del Pd»
di Eduardo Di Blasi


Afferma il segretario del Pdci Oliviero Diliberto: «Se la sinistra italiana non vuole essere marginalizzata e anche un domani sostituita dentro al centrosinistra da altre forze moderate, deve provare a riunificarsi per avere più peso specifico. È quella che Bertinotti ha chiamato la “massa critica”».
Quali soggetti dovrebbero far parte di questa “massa critica”?
«Tutti coloro che da sinistra non si riconoscono nel Pd. Senza preclusione. Io indico infatti l’espressione “sinistra”, senza aggettivi. Perché se uno aggiunge un aggettivo, questo è un paletto. Se uno dice “socialista” preclude, ad esempio, coloro che sono ancora comunisti. Io vorrei includere tutti».
Però «comunista» e «socialista» non sono solo aggettivi...
«Appunto per questo. Partiamo dalle cose, e vediamo se siamo d’accordo su queste. Sulla pace siamo d’accordo? Sì. Sui diritti del lavoro, sul precariato, siamo d’accordo. Sul rilancio della laicità dello Stato pure. Partiamo dalle cose. E io credo che, partendo da qui, il tema unificante della sinistra “senza aggettivi” sia quello del lavoro».
Un nuovo partito dei lavoratori?
«Il problema che avremo tutti di fronte, e in particolare lo avrà la Cgil, è che la rappresentanza politica del mondo del lavoro rischia di scomparire. E quella sindacale, la Cgil, rischia di essere isolata. Noi dobbiamo costituire una soggettività politica in cui ognuno entra senza rinnegare quello che è».
In un partito in cui non si rinnega ciò che si è, potrebbe entrare anche De Michelis...
«Se a uno gli chiedi di fare le abiure, l’unità non la farai mai. Su De Michelis credo poi che siano le discriminanti programmatiche a dire che è difficile che sia dentro. Penso al tema della pace e della guerra o alla legge Biagi...».
Qual è il progetto che avete in testa?
«Noi avanziamo una proposta di schema confederale. Da Rimini vogliamo lanciare un messaggio di unità, non solo con quelli che appartenevano a quel partito, cosa del tutto riduttiva, ma a tutto quello che nel frattempo è sorto in Italia. Penso ai movimenti, alle associazioni, a singole personalità sparse della sinistra...».
Su questa strada non ci sono un po’ troppi cantieri?
«Beh, ma sa, ciascuno si fa il suo. Poi si dovrà mettere insieme in un unico progetto. Ci sono delle scadenze. L’anno prossimo ci sono le elezioni provinciali. Nel 2009 ci sono le elezioni europee. Vogliamo andare tutti quanti sparpagliati, a farci la guerra gli uni con gli altri? Io credo che questo ridurrebbe la sinistra italiana ai minimi termini».
Quindi il varo di questa nuova alleanza dovrebbe avere per obiettivo le provinciali prossime?
«Per lo meno entro le prossime europee. Non voglio impiccarmi ad una data. Però bisogna farlo rapidamente. In diversi Paesi d’Europa si è già fatto. In Germania c’è Die Linke, la sinistra, l’hanno chiamata così, “sinistra”, senza aggettivi. E vi confluiscono i socialdemocratici di Lafontaine e i comunisti dell’Est».
In Germania, però, non sono al governo con la Spd. C’è una grande coalizione. È come se in Italia ci fosse un esecutivo Pd-Fi
«La Spd ha scelto una linea politica diversa, altrimenti assieme sarebbero maggioranza. E poi li voglio vedere i miei amici del Pd a fare l’alleanza con Forza Italia...».
Nei sondaggi “prenatali” dei due soggetti: il Pd sta tra il 23% e il 27%, il cantiere della sinistra viaggia tra il 12% e il 15%. La somma non fa una maggioranza...
«Beh, confido nella capacità di un pezzo di centristi che guardano a sinistra di raggiungere quello che manca per avere la maggioranza. E non sto pensando a Casini, ma a Mastella».
L’Udeur ha preso l’1,3% alle ultime politiche.
«Al momento ha l’1,3%, ma gli elettori dei Dl che non votano per il Pd perché ci stanno gli ex comunisti, quelli bisogna recuperarli. E può recuperarli un contenitore di centro».
Boselli ha chiuso il suo congresso rilanciando sul socialismo, su un «aggettivo»...
«Al congresso dello Sdi ho assistito a un episodio che mi ha colpito: tutti i delegati in piedi a cantare l’Internazionale, cosa che non ho visto al Congresso dei Ds. I socialisti rivendicano una identità. Credo che questa identità precluda. Ma credo anche si possa essere socialisti dentro una grande sinistra».

l’Unità 27.4.07
La guerra fra gli apostoli
di Paolo Flores d’Arcais


UN SAGGIO sull’Almanacco di filosofia di Micromega ricostruisce le violente dispute che opposero i seguaci di Gesù. Smentendo il dogma di una «tradizione apostolica univoca e ininterrotta»

Due valutazioni così opposte della figura di Paolo - unico vero apostolo per rivelazione diretta o primo apostata e arci-eretico quasi demoniaco - impone un sommario esame delle divergenze e dei conflitti - molto aspri - che agitano già la primissima generazione dei seguaci di Gesù: quella appunto di Paolo (che nasce una decina d’anni dopo Gesù) e degli apostoli che lo hanno «conosciuto secondo la carne», soprattutto di quelli che fra loro saranno le «colonne» della primitiva comunità di Gerusalemme: Giacomo, Pietro e Giovanni.
Un primo conflitto è legato alla figura di Stefano. Santo Stefano è ricordato dalla Chiesa come il Protomartire, il primo ad aver subito il martirio per la fede.
Si dimentica però che Stefano è alla testa del piccolo gruppo di ebrei ellenisti (originari cioè della diaspora di lingua greca) che, tra i non pochi che vivevano a Gerusalemme, si convince che Gesù è il Messia. Ben presto entrano però in conflitto con la maggioranza degli altri seguaci di Gesù, gli ebrei di Palestina (molti di origine galilea) raccolti intorno a Giacomo e Pietro. Lo scontro viene riportato all’inizio del capitolo VI degli Atti degli apostoli con queste parole: «In quei giorni, crescendo i discepoli, gli ellenisti cominciarono a mormorare contro gli ebrei, perché le loro vedove venivano trascurate nel servizio giornaliero».
Una banale questione di soldi, di ripartizione degli aiuti, sembrerebbe. Per la quale viene istituito un consiglio di sette ellenisti (uno dei quali è un proselite, dunque un convertito all’ebraismo, non un ebreo di nascita). Questi «sette» non hanno affatto un compito tecnico, tuttavia, perché risulta chiaro che operano da carismatici, come predicatori e come esorcisti e taumaturghi. «Non sono destinati solo all’amministrazione del servizio dei poveri. Li vedremo anche battezzare e predicare», sottolinea lo storico e teologo (fatto cardinale da Paolo VI) Jean Danielou (L’Eglise des premiers temps, Seuil 1985). E gli Atti si soffermano a lungo sull’attività missionaria in Samaria di uno dei sette, Filippo.
Gli storici sono perciò concordi nel ritenere che il contrasto abbia già a che fare con i contenuti della predicazione degli ellenisti, non condivisa dai palestinesi. Questi ultimi continuano infatti a «restare legati alla patria ebraica, fedeli al culto del Tempio, stretti osservanti delle usanze mosaiche» (Danieolou), mentre Stefano «non cessa di pronunciare discorsi contro il luogo santo e la legge… lo abbiamo udito asserire che Gesù Nazareno distruggerà questo luogo e muterà gli usi che ci ha tramandato Mosè» (Atti, 6, 13-14). Stefano non ha alcun rispetto per il Tempio, visto che dichiara apertamente che «l’Altissimo non abita in templi fatti da mano d’uomo» (Atti, 7,48).
La divisione tra il gruppo intorno ai dodici (palestinesi) e quello intorno ai sette (ellenisti) porta in realtà ad una separazione concordata: i primi predicheranno nelle sinagoghe di ebrei palestinesi e i secondi in quelle di ebrei ellenisti, il cui elenco viene fatto in Atti, 6,8. Il conflitto, che si dimostrerà mortale, nasce solo fra gli ebrei delle sinagoghe elleniste e i sette, mentre tra i seguaci dei dodici e le sinagoghe ebraiche palestinesi tutto resterà nell’ambito di una dialettica tra interpretazioni che era del tutto normale a quei tempi. Tanto è vero che il linciaggio di Stefano (linciaggio vero e proprio, visto che viene lapidato dalla folla della sinagoga ellenista, ma senza processo, Atti, 7, 57-9) non comporta nessuna conseguenza per «gli apostoli» (cioè i dodici e i loro seguaci): «In quei giorni ci fu una grande persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme. Tutti si dispersero per le contrade della Giudea e della Samaria, fatta eccezione degli apostoli» (Atti, 8,1). Inoltre, per esemplificare l’azione di «quelli che si erano dispersi» e che «andavano da un luogo all’altro evangelizzando la parola» viene narrato solo (e a lungo) di Filippo, esattamente uno dei sette.
Definire perciò «alquanto imbarazzate» (Marcel Simon e André Benoit, Giudaismo e cristianesimo, Laterza 2005) le «indicazioni degli Atti» è esatto e semmai riduttivo, visto che «questa persecuzione non colpì affatto la Chiesa nel suo complesso, ma soltanto il gruppo degli Ellenisti», e nessuna reazione da parte dei dodici è segnalata: la persecuzione non riguardava la loro «chiesa». (…)
Giacomo rappresenta la posizione della «circoncisione», Pietro ha invece già predicato a degli incirconcisi e ha «mangiato con loro» e per questo è messo sotto accusa in uno dei suoi ritorni a Gerusalemme (Atti, 11,3). La sua predicazione viene infine accettata, perché incoraggiata dallo Spirito (Pietro racconta la visione ricevuta nella città di Ioppe in Atti, 11,4-17), ma la via maestra della «circoncisione» viene riaffermata da Gerusalemme nei confronti della comunità di Antiochia attraverso l’invio di Barnaba (Atti, 11, 22) e successivamente di altri «profeti» (Atti, 11,27). Non si dimentichi che la comunità di Antiochia, come quelle di Cipro e di Fenicia, era stata fondata da quanti «erano stati dispersi a motivo della tribolazione sorta con Stefano» (Atti, 11,19), cioè gli ellenisti dei sette. Barnaba ha portato con sé come «aiuto» Paolo, che da quel momento diventa un protagonista (anzi il protagonista) della predicazione.
Dal seguito degli Atti risulta piuttosto chiaramente che Barnaba e Paolo, anziché riportare i cristiani di Antiochia sulle posizioni di Gerusalemme («circoncisione») faranno propria la loro posizione. Gerusalemme risponderà con nuovi inviati, che ribadiscono: «Se non siete circoncisi secondo il costume di Mosè non potete essere salvi» (Atti, 15,1). Ne nasce «dissidio e discussione non lieve», al punto che viene convocato a Gerusalemme quello che passerà poi nella storia del cristianesimo come il concilio di Gerusalemme (probabilmente nel 48). È Giacomo che trae le conclusioni, con riferimento a ciò che, a partire da Mosè «viene predicato in ogni città sino dai tempi più remoti, essendo letto nelle sinagoghe ogni sabato» (Atti, 15, 21). Il carattere integralmente ebraico dei «cristiani» è riaffermato dunque in modo solenne, anche se si ammette la conversione di gentili che si astengano da carni immolate agli idoli, da animali soffocati e dal sangue. A Paolo viene «affidato l’Evangelo degli incirconcisi, come Pietro per i circoncisi» (Galati, 2,7).
Parliamo ormai di «cristiani» non già perché gli ebrei che riconoscono Gesù come il messia si siano costituiti in religione separata, ma perché così è stata nel frattempo definita polemicamente ad Antiochia, con «nomignolo romano» (Danielou), ovviamente insultante, la loro «via» all’interno dell’ebraismo.

Gazzetta del Sud 27.4.07
Parla lo psichiatra Luigi Cancrini che ha direttamente seguito la vicenda come consulente
«Qualcosa di brutto è accaduto...»
di Maurilio Ponente


Nella scuola materna di Rignano Flaminio, «purtroppo qualcosa di brutto è accaduto». Lo sottolinea lo psichiatra Luigi Cancrini che ha direttamente seguito la vicenda come consulente.
«Se poi – precisa – questo qualcosa è accaduto nell'ambito di una messa nera, io non lo so e francamente non mi interessa. È un fatto non importante perché il dato terribile, quello che conta, è l'abuso sul bambino. Sono contento che ci sia un processo, un libero dibattimento. Queste questioni non si discutono sui giornali».
Cancrini conferma che «in diversi bambini» coinvolti nella vicenda «sono stati riscontrati segni fisici». Inoltre, «sulla base di quanto si è avuto modo di capire, i racconti dei bambini sono attendibili. Perché un bambino dai tre anni in su è in grado di raccontare fatti traumatici».
Su quest'ultimo aspetto, Cancrini è in disaccordo con quanto affermato da Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, che invece ha avanzato dubbi sui racconti dei bambini in quanto la loro «memoria non si fissa» ed alto è il rischio di alterare la realtà. «La posizione di Caffo – sottolinea Cancrini – è antiscientifica. Solo lui ed altre poche persone in tutto il mondo dicono che i bambini non sono attendibili. Prima di dire queste cose bisogna leggere le perizie e riflettere».

Repubblica 27.4.07
In Cina i perseguitati del "movimento dei cento fiori" furono più di un milione
La "grande purga" di Mao che uccise la primavera cinese
Cinquant´anni fa la repressione contro "i deviazionisti"
di Federico Rampini


L’anniversario passerà sotto silenzio, i parenti delle vittime sono ancora vigilati speciali
Il "grande Timoniere" invitò al confronto per poi ordinare ondate di arresti contro i critici

PECHINO - Molto prima del movimento di Piazza Tienanmen, un´altra "primavera di Pechino" moriva cinquant´anni fa, schiacciata da Mao Zedong nel terrore: 55.000 arresti in pochi mesi, un milione di perseguitati nel decennio successivo. Quella prova generale di radicalizzazione del maoismo sarebbe servita da modello per altre operazioni di repressione di massa del dissenso. Il 27 aprile 1957 è un giorno d´infamia la cui memoria a Pechino anche quest´anno passerà in silenzio. Le vittime di allora sono sempre in attesa di una completa riabilitazione, perfino i loro parenti restano dei vigilati speciali.
La campagna di «rettifica contro i deviazionisti di destra» resta una delle pagine più nere nella storia del regime cinese. Fino alla vigilia di quel 27 aprile la Repubblica popolare (fondata nel 1949) vive un illusorio esperimento di democrazia. Un anno prima, nel maggio 1956 il presidente Mao ha dato un segnale incoraggiante. Mentre in Unione sovietica sotto Nikita Kruscev matura la destalinizzazione, il padre della Cina rossa esorta gli intellettuali a esprimersi liberamente. Lo slogan libertario del `56, che fa il giro di tutto il mondo, è: «Lasciate che fioriscano cento fiori, che cento scuole di pensiero si affrontino». Il «movimento dei cento fiori» affascina l´intellighenzia di sinistra in Occidente. Gli intellettuali cinesi all´inizio sono più cauti, forse intuendo il pericolo. Mao insiste per mesi nell´incoraggiare un confronto aperto delle idee e ogni «critica costruttiva» al regime. Il 27 febbraio 1957 il leader comunista torna alla carica, parte in tournée in varie città del paese per incoraggiare la gente a discutere senza remore. Gli intellettuali che contribuiscono a far progredire il paese con idee nuove - garantisce il Grande Timoniere - devono essere considerati «leali e degni di fiducia». Invita gli otto partiti politici - nella Repubblica popolare vige una finzione di pluralismo - a contestare la dirigenza comunista quando sbaglia. A poco a poco le bocche si aprono, i «cento fiori» sbocciano davvero, si sviluppa un dibattito pubblico vivace, esplodono alla luce del sole le tensioni sociali e il malcontento diffuso. Per una breve stagione, la primavera del 1957, il modello cinese sembra unire il socialismo e la libertà, l´eguaglianza e la democrazia. Ma l´intera operazione si rivela un diabolico inganno. Le ricostruzioni storiche più attendibili sono ormai tassative: già nel 1956 Mao in realtà ha deciso di impedire in Cina ogni imitazione del processo a Stalin iniziato a Mosca. I «cento fiori» servono solo a fare uscire allo scoperto i soggetti pericolosi per il regime. La trappola si richiude in quel 27 aprile di cinquant´anni fa. Quel giorno il leader comunista ordina all´improvviso la «campagna di rettifica». Mao dichiara che «negli ultimi giorni i deviazionisti di destra nei partiti democratici e nelle istituzioni educative si sono mostrati determinati e aggressivi». Parte la prima purga di massa, decima il mondo della cultura, espelle dal partito gli audaci che avevano criticato il vertice, impone un clima di terrore nelle università e nei giornali. L´8 giugno il Quotidiano del Popolo scrive: «Alcuni elementi di destra invitano il partito a farsi da parte». Mao annuncia che almeno il 5% della popolazione è di destra, e questa percentuale guida le epurazioni nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nel mondo della cultura. Per mostrare il proprio zelo ogni sezione del partito deve indicare almeno il 5% di colpevoli da condannare. Si sperimenta la pratica dei processi sommari in pubblico, delle condanne urlate dalle assemblee, delle umiliazioni in piazza.
E´ un copione destinato a ripetersi su scala più vasta un decennio più tardi quando Mao manderà allo sbaraglio le giovani Guardie rosse in una finta rivoluzione antiautoritaria, in realtà manipolata per consolidare il suo potere. Ma prima ancora la svolta repressiva del 1957 prepara un´altra tragedia in tempi rapidi: un anno dopo, ormai certo del suo predominio incontrastato sul paese, Mao lancia il Grande Balzo in avanti. E´ un piano ambizioso per accelerare l´industrializzazione, l´obiettivo simbolico è quello di superare la produzione di acciaio dell´Inghilterra. Le masse contadine vengono distolte dal lavoro dei campi per improvvisare altiforni siderurgici in ogni villaggio. Nel 1958-59 crollano i raccolti, il paese sprofonda nella carestia. Il bilancio finale sarà stimato ben oltre i 50 milioni di morti per fame. Intanto la campagna contro i deviazionisti di destra prosegue, nel decennio successivo oltre un milione di cinesi verranno cacciati dal lavoro, deportati nei gulag o esiliati a lavorare nelle campagne.
Mezzo secolo dopo le ferite di quel periodo non sono riemarginate.
Alcuni «processi per riabilitazione» sono stati avviati nel 1978, due anni dopo la morte di Mao e la fine della Rivoluzione culturale. Ma tanti hanno patito una sorte simile alla vittima eccellente delle purghe Zhang Bojun, che nel 1957 dirigeva il Partito democratico dei contadini e degli operai, e non ha avuto diritto neppure a un riscatto postumo. La sua caduta in disgrazia continua a pagarla oggi perfino la figlia, Zhang Yihe: ancora di recente un suo libro (il terzo) è stato proibito dalla censura.
Proprio ieri il governo di Pechino ha annunciato invece una campagna per «costruire una sana cultura di Internet in linea con le caratteristiche culturali cinesi e con i valori del partito».

Repubblica 27.4.07
Il pacemaker che ridà la felicità
Rivoluzionario intervento sul nervo vago per guarire dalla depressione
di Ottavia Giustetti


Torino, fatto per la prima volta alle Molinette I medici: risultati positivi
Operato un paziente di 57 anni sul quale i farmaci non facevano effetto

TORINO - C´è una nuova speranza per i malati di depressione, è il pacemaker che ridà la felicità. Per salvarsi dal baratro del male di vivere, quando le terapie con i farmaci non hanno successo, quando la psicoterapia non riesce a evitare le sempre più pericolose ricadute, un piccolo neurostimolatore può essere impiantato sul nervo vago, il nervo che attraversa il collo e che mette in comunicazione la pancia con le aree del cervello che si occupano del mantenimento dell´umore, e con un intervento chirurgico senza rischi ci sono buone possibilità di guarire dalla malattia. È stato fatto per la prima volta in Italia alle Molinette di Torino, da una équipe di psichiatri e neurochirurghi che hanno adottato questa tecnica innovativa approvata sia dagli enti di controllo europei che statunitensi. I professori Filippo Bogetto, Giuseppe Maina, Alessandro Ducati e Michele Lanotte hanno seguito e operato un uomo di 57 anni, anche lui medico specialista, che da molti anni soffriva di pesanti ricadute nella depressione e sul quale le terapie farmacologiche non avevano più effetti soddisfacenti. E a un mese dall´intervento l´uomo che negli ultimi tempi non era nemmeno più in grado di lavorare è tornato a vivere. «È necessario un po´ di tempo prima di avere la certezza che il neurostimolatore abbia successo - spiega Filippo Bogetto, ordinario di Psichiatria dell´università di Torino - per questo abbiamo aspettato a dare la notizia. Nel nostro primo caso stiamo osservando giorno per giorno i miglioramenti e siamo felici di poter dare una nuova speranza a quei malati che non trovano riscontri nelle cure con i farmaci e nella psicoterapia».
L´intervento consiste nell´impianto, a livello del collo, di un elettrodo intorno al nervo vago, connesso con uno stimolatore di piccole dimensioni (tipo pace-maker) posizionato nel petto. Il macchinario agisce appunto come il pace-maker: somministra delle stimolazioni nervose - non al cuore ma al nervo vago - che modificano il funzionamento di quelle parti del cervello che gestiscono il tono dell´umore. Gli effetti post operatori sono una lieve raucedine e tosse, ma si tratta di disturbi transitori, mentre l´intensità e la frequenza degli stimoli viene regolata dall´esterno con una specie di telecomando secondo come il paziente risponde alla terapia. Il professor Bogetto ci tiene a sottolineare che questo neurostimolatore non può essere considerato un apparecchio miracoloso, che deve essere comunque affiancato alla terapia farmacologica e costituisce un aiuto in più per quelle persone che soffrono di una depressione davvero grave. Al momento è considerata dai clinici una specie di ultima spiaggia, quando non c´è più nulla da provare, ma se nei prossimi anni dovesse dare buoni risultati potrebbe diventare una terapia di routine.

Repubblica 27.4.07
La ragione di Montaigne
Su MicroMega un saggio di Tzvetan Todorov


Che cos'è la natura umana? Qualcuno dubita che esista veramente attribuendo alla cultura i nostri comportamenti
Le leggi non sono fondate sulla verità ma sulla tradizione e l'arbitrio
L'uomo non è capace di elevarsi al di sopra della sua condizione ed esperienza
Secondo il grande autore degli "Essais" l'usanza ci nasconde il vero volto delle cose e della stessa opinione è Pascal

Ai giorni nostri si ha qualche ripugnanza a riferirsi alla «natura umana». Questa espressione sembra aver partecipato al naufragio generale delle pompose astrazioni ereditate dal passato. E se lo stesso naufragio appartenesse a tali astrazioni? Il nostro vocabolario odierno non è meno pomposo di quello dei nostri predecessori; ma, ammaliati dalla novità delle formule, stentiamo a giudicarle con serenità. In luogo della natura e dell´uomo compaiono però vocaboli che non vogliono necessariamente dire altro né sono generalizzazioni più felici.
Vorrei trarre vantaggio da ciò che si ritiene essere un difetto: parlerò del presente servendomi di parole passate, proprio perché le percepiamo come parole, e ne diffidiamo. Il dibattito sulla «natura umana» non si è spento, tutt´altro; ma si ha maggiore difficoltà a raccapezzarsi quando si usano denominazioni che non siano ancora divenute degli stereotipi. (...)
Un primo atteggiamento nei confronti della «natura umana», assai diffuso, consiste proprio nel negarne l´esistenza e nell´affermare invece che «tutto è cultura». Questa posizione trova in Montaigne un eloquente difensore. Egli colloca la negazione su due piani: quello dell´essere umano in generale e quello di ciascuna persona in particolare. Qui mi atterrò al primo, tenendo conto che in luogo di «cultura» Montaigne parla di «consuetudine».
Il saggio Della consuetudine è dedicato alla natura umana in generale. Alcune sue frasi esprimono una posizione prudente, per esempio: «L´usanza ci nasconde il vero volto delle cose». La consuetudine non è che una maschera e le cose hanno certo un vero volto; solo che questa maschera è onnipresente e non è per niente facile sbarazzarsene. Il costume, come un tiranno scaltro, ha imprigionato i nostri sensi e il nostro giudizio, che dovevano per l´appunto aiutare a liberarci da esso: «L´abitudine ottunde i nostri sensi», «l´assuefazione - dunque ancora l´abitudine - indebolisce la vista del nostro giudizio». Il costume è solo un ospite ma un ospite irascibile di cui non ci si riesce a liberare. (...)
La scoperta della natura dei fenomeni, del «vero volto delle cose», si rivela più problematica di quanto sembrava a prima vista. Dove trovare un punto di appoggio che consenta di sollevare il giogo, se i nostri occhi ci riportano come vere cose che sono solo pregiudizi, se il nostro spirito non riesce ad isolare la consuetudine come oggetto della sua riflessione poiché le regole stesse del suo procedere gli sono dettate proprio dalla consuetudine? La ragione, in queste condizioni, non è che la serva della violenta padrona che abbiamo visto; lungi dall´essere capace di separare ciò che è costume da ciò che non lo è, essa ha la funzione di trovare delle giustificazioni plausibili per le consuetudini più varie, di fare apparire surrettiziamente come natura la mia cultura: «Penso che non venga all´immaginazione umana alcuna fantasia tanto insensata che non trovi esempio in qualche pubblica usanza e di conseguenza che non sia sostenuta e appoggiata dalla nostra ragione per cui accade che quello che è fuori dai cardini delle consuetudini viene ritenuto fuori dei cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente, per lo più».
La comparsa, qui, della parola «irragionevolmente» ci fa vacillare. Se è possibile qualificare come ragionevoli o irragionevoli degli atti, vuol dire che la ragione esiste ancora, indipendentemente dalle consuetudini. Insomma, Montaigne si continua a servire dello strumento che ha invece dichiarato inutilizzabile. Sembra difficile immaginare che non ne sia consapevole; ma allora, in che senso bisogna prendere l´affermazione dell´inesistenza della ragione? Nel suo senso più letterale, a voler giudicare dalla frase che segue poco dopo: «Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti attorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione». La ragione naturale non può emergere dalla ragione consuetudinaria perché la natura, a riguardo, non esiste; non si può emancipare ciò che non è. L´uomo è interamente governato dall´abitudine e dall´interesse, non è capace di elevarsi al di sopra della sua condizione.
L´argomento su cui si appoggia Montaigne è quello di tutti gli empiristi: la diversità dell´esperienza vissuta. Ma quanto viene confutato da questo argomento è una versione talmente estrema dell´idea di «natura umana» (o natura delle cose) che è difficile immaginare qualcuno che la possa sostenere: quella consistente nell´affermare che tale «natura» è direttamente osservabile, che le essenze coincidono con i fenomeni.
Una simile teoria equivarrebbe alla negazione pura e semplice dei dati sensoriali (la diversità degli individui, dei costumi, degli oggetti). E tuttavia possibile prendere in considerazione la diversità fenomenica e nondimeno affermare l´esistenza di regole comuni, di una identità astratta (vecchio dibattito di Kant contro gli empiristi). Lo stesso Montaigne, continuando a servirsi della ragione mentre la combatte, esibisce suo malgrado tale possibilità: per poter argomentare e farsi comprendere deve riferirsi ad uno modello assoluto che trascende le determinazioni spazio-temporali del soggetto parlante. Questa «ragione» qui è comune perlomeno a Montaigne e ai suoi lettori.
Ritroviamo le stesse aporie in Pascal, da questo punto di vista assai vicino a Montaigne. Crediamo che le nostre idee provengano dalla ragione naturale, afferma egli, mentre in realtà sono il prodotto della consuetudine: «La consuetudine ci dà le prove più forti e maggiormente credute; essa fa inclinare l´automa, che trascina l´intelletto senza che questo ne sia consapevole. Chi ha provato che domani farà giorno e che noi moriremo? E che cosa c´è di più creduto? Dunque è la consuetudine a persuadercene». Vi sono evidentemente ben altre ragioni che l´abitudine a farci credere al ritorno del giorno e alla mortalità umana: sono i pregiudizi, certo, e però si riscontra che, in più, sono veraci. (...)
Tornando a Montaigne: forte della rinuncia alla ricerca della natura delle cose sul piano conoscitivo, egli la traspone anche su quello dell´etica e del giudizio: non vi sarà, per lui, alcuna morale o politica che possa richiamarsi a principi più naturali di altri. I giudizi proferiti dagli uomini divergono in tutto e per tutto, ma questo non preoccupa minimamente Montaigne: «Io scuserei volentieri il nostro popolo di non aver altro modello né altra regola di perfezione che i propri costumi e usanze; poiché è vizio comune, non solo del volgo ma di quasi tutti gli uomini mirare alla maniera di vivere in cui sono nati e limitarsi ad essa». (...)
Nell´Apologia di Raimondo Sebond (II, 12) Montaigne se la prende direttamente con i sostenitori del diritto naturale: a dargli retta, esso non esiste. Montaigne sembra basarsi su di un sillogismo ripreso dalla tradizione scettica. Premessa maggiore: «La verità deve avere un volto uniforme ed universale»; oppure «ciò che la natura ci ha veramente comandato, noi lo deriviamo senz´altro da un comune consenso». Premessa minore:»Niente più delle leggi è soggetto a continui rivolgimenti»; oppure «non vi è cosa in cui il mondo è tanto diverso che in fatto di consuetudini e leggi».
Conclusione: le leggi non sono fondate sulla natura e sulla verità ma sulla tradizione e sull´arbitrio, «il nostro dovere ha soltanto regole fortuite»; «le leggi del nostro paese? Cioè questo mare fluttuante di opinioni di un popolo o di un principe.?».
Una tale deduzione è forse meno rigorosa di quanto appaia. Montaigne pare non voler riconoscere i due sensi della parola «legge»: la legge-regolarità e la legge-comandamento. «Non uccidere» non è evidentemente una legge nel primo senso della parola, poiché gli omicidi abbondano; ma potrebbe esserlo nel secondo senso, consentendo di giudicare un atto dovunque e sempre (competenza del diritto naturale). Ma è soprattutto l´argomento scettico, secondo cui se una cosa non è presente universalmente non può essere vera (giusta), a non essere probante: l´ingiustizia, anch´essa, esiste; universale non sarà la presenza di atti (o leggi) giuste, ma la nostra stessa inclinazione a distinguere tra giusto e ingiusto. Una volta di più il prezzo di questo rifiuto è un empirismo radicale che non ammette l´esistenza di ciò che non si vede.

Repubblica 27.4.07
Esce La dolorosa autobiografia di Adele Grisendi
Mia madre mi aveva dimenticata
Jolanda è preda di gravissime depressioni e finisce in manicomio
"L’amore mancato" è il titolo di questa storia privata e terribile
di Luciana Sica


Autobiografia estrema, celebrazione del sentimento nostalgico, come in un gioco di specchi madre e figlia travolte dalla sventura della follia e dalle atrocità dei manicomi. Ma poi anche lessico famigliare e memoria storica, rievocazione del mondo contadino nel cuore dell´Emilia, quando nelle campagne c´erano ancora le lucciole e non c´era ancora la televisione - poco più di mezzo secolo fa ed è già l´affresco di un´altra era.
L´autrice è Adele Grisendi, ex sindacalista della Cgil che un paio d´anni fa ha firmato un altro romanzo legato a doppio filo ai ricordi dell´infanzia, più sofferti che festosi. Era Baciami piccina, titolo solo all´apparenza invitante per una storia invece segnata dalla povertà, dalla durezza e dalla fatica, soprattutto al femminile, negli anni per niente spensierati in cui comunque si canticchiava quel motivetto di Rabagliati.
Si chiama L´amore mancato, sottotitolo "Crescere con una madre che ti ha dimenticato" - in uscita da Sperling & Kupfer (pagg. 230, euro 17) - questo suo nuovo libro, ancora più privato e più terribile: per il dolore che racchiude senza mai il filtro della finzione letteraria, anzi con il puntiglio di una ricostruzione per certi versi iperrealistica, il più possibile fedele ai "fatti".
In questo libro, affollato peraltro di altri personaggi tutti ormai scomparsi, le protagoniste sono comunque due donne: la madre Jolanda in preda alle sue cicliche, gravissime depressioni e la figlia Adele, l´eterna bambina "dimenticata" che mai ha potuto contare sul sorriso accogliente di chi l´ha messa al mondo. Due donne accomunate dalla tragedia di un disamore reciproco che nel tempo si trasformerà anche in un amore, ma comunque doloroso, sempre trattenuto, fatalmente inespresso.
Il tema della maternità - la sua profonda ambivalenza, i sentimenti "doppi", la sospetta indifferenza delle madri - è stato variamente trattato: con prove più o meno convincenti che hanno comunque distrutto quella costruzione culturale, quella pura mistificazione che è l´istinto materno. Citando, non troppo a caso, è già degli anni Novanta un saggio fondamentale: L´amore in più, di Elisabeth Badinter. Molto più recente - del 2002 - è il meraviglioso film-documentario di Alina Marazzi intitolato Un´ora sola ti vorrei.
In questo libro della Grisendi, c´è una giovane donna - Jolanda - che mai avrebbe voluto figli, che in caso avrebbe potuto accettare un maschio, e che comunque alla vista della sua indesiderata neonata scoppia in un pianto dirotto. Non lacrime di gioia, ma di pura disperazione. Jolanda non è pazza, ma lo diventerà, inchiodata a un ruolo per il quale si sente ed è del tutto inadeguata, schiacciata dalle banali aspettative degli altri e dai suoi stessi sensi di colpa.
Siamo alla fine degli anni Quaranta, la cultura contadina è a dir poco maschiocentrica, Jolanda è un cuore semplice flaubertiano, è una donna buona, fragile, taciturna, docilissima con il marito che pure la ama ma certo Cesare - così si chiama - è proprio quel tipo di uomo spesso intemperante che pretende ogni sottomissione, del tutto incapace di cogliere il disagio della moglie, i segnali inequivocabili dei disturbi psichici che l´assalgono fino a renderla irriconoscibile.
Oggi viene definita depressione post-parto, espressione che per la verità dice tutto e niente. Molto più ci sarebbe da capire su una condizione più generale e ben dissimulata dalle donne costrette a un attaccamento ansioso ma "evitante" (direbbe Bowlby) per quei loro bambini tanto idolatrati e sempre così meravigliosamente organizzati - peccato che forse si sentano un po´ soli.
A quei tempi l´inadeguatezza materna era ritenuta una variante della pazzia, e quindi le donne in effetti impazzivano, e notoriamente i luoghi dove i pazzi venivano "curati" erano i manicomi. È così che, a distanza di sei mesi dalla nascita della piccola Adele, Jolanda finisce rinchiusa in uno di quei luoghi orrendi - ed è solo l´inizio. Le crisi e i ricoveri si susseguiranno fino al ´79, quando ormai siamo già in epoca di nuovi psicofarmaci e i malati di mente verranno poi seguiti dagli psichiatri nelle strutture pubbliche.
È l´autrice del libro - che ha rovistato ossessivamente nelle cartelle cliniche del San Lazzaro di Reggio Emilia (ma avremmo fatto come lei) - a squadernare un paio di numeri non esaltanti: in pochi mesi a Jolanda vengono riservate ventuno sedute di elettroshock e un centinaio di comi ipoglicemici dovuti ai trattamenti con l´insulina.
«La paziente non ha ottenuto beneficio alcuno», si legge in una di quelle cartelle... D´improvviso, dopo nove mesi (nove mesi!) dall´inizio di quel primo ricovero, la paziente sembra tornare in sé, «è lucida e non sembra più allucinata né delirante». Non è chiaro come sia guarita, ma torna a casa, «affidata in esperimento al marito».
È il 5 gennaio del 1949. Adele ha un anno e mezzo, la madre la vede e non la riconosce. «Di chi è questa bella bambina?», chiede Jolanda. L´ha dimenticata completamente e mai sarà capace di quella che è poi l´essenza dell´amore materno: la fisicità - le carezze, i baci, gli sguardi, la voce - legata all´accudimento.
La bella bambina si salva per una circostanza molto fortunata: saranno Francesca e Pino, i cognati di Jolanda, a farle da genitori, ad amarla come una figlia. Nel libro della Grisendi questi adorabili personaggi, genitori "adottivi" se così si può dire, vengono ritratti con un sentimento di amore e di gratitudine infinita. La loro generosità impedisce ad Adele di cadere nel vuoto incolmabile della deprivazione, rappresenterà un formidabile sostegno per tutte le sue scelte, anche le più difficili - come la rottura di un matrimonio ovviamente tanto voluto da Jolanda.
Ma il dolore confuso dell´autrice si coglie ad ogni pagina, in ogni invocazione alla madre assente, al padre debole e collerico, ai suoi cari ormai definitivamente perduti. È proprio di queste invocazioni senza risposta che è fatto questo libro molto amaro, ma anche tenero, dolce... Per dirla con Winnicott, nessuno potrà restituirti quello che non hai avuto - l´amore materno, prima d´ogni cosa. E così, quando la Grisendi scrive - forse un po´ en passant - di non aver voluto un figlio, inevitabilmente si pensa a una coazione a ripetere di segno freudiano, a un danno mai riparato.

Repubblica 27.4.07
Gramsci e i lager di Lenin
Un episodio inedito accaduto in Urss
di Simonetta Fiori


Nel 1922 il dirigente comunista si adoperò a Mosca per liberare da un campo di lavoro il suo compagno Gino De Marchi Gli incontri all´Hotel Lux e la sfida al potere sovietico
La rivelazione nel saggio di Gabriele Nissim "Una bambina contro Stalin", ricco di carte e memoriali
Nino non gli nega affetto e solidarietà sotto il controllo occhiuto della polizia politica sovietica

È una storia bellissima e sconosciuta, riaffiorata dopo ottant´anni dagli archivi sovietici. Un episodio importante della vita di Gramsci, che in qualche modo anticipa la rottura con Mosca degli anni successivi. Accadde nel luglio del 1922, in Unione Sovietica, nelle buie ed enigmatiche atmosfere del regime leninista. Un suo compagno "scomodo", Gino De Marchi, finisce in galera per una resa dei conti tra comunisti italiani. Gramsci si adopera per liberarlo, lo accoglie affettuosamente nelle stanze dell´hotel Lux e successivamente sfida il Comintern con la richiesta di "non infierire" su quel bravo militante, già fiaccato da malaria e tubercolosi. Un complesso di gesti inusuali e per l´epoca dirompenti che restituisce tutta l´atipicità del comunista sardo, di cui ricorre oggi il settantesimo anniversario della morte. «È come se dinanzi al sopruso agisse in lui una sorta di istinto morale naturale», dice Gabriele Nissim, artefice dell´importante scoperta e autore del suggestivo racconto Una bambina contro Stalin che uscirà a giugno da Mondadori.
Nel corso della sua inchiesta su Gino De Marchi, una delle vittime italiane dello stalinismo, Nissim s´è imbattuto in alcuni preziosi inediti gramsciani conservati tra le carte del Comitato Esecutivo della Terza Internazionale (Archivio di Storia Sociale e Politica di Mosca) che ora ci consentono di ricostruire questo nuovo capitolo. Al centro v´è la romanzesca figura di De Marchi, un comunista eccentrico e un po´ poeta, che nel 1921 lascia l´Italia per l´Urss con il pesante marchio del tradimento. Classe 1902, piemontese di Fossano, temperamento esuberante, nel clima battagliero del biennio rosso a Torino il giovane compagno Gino aveva ceduto al ricatto della polizia confessando il nome del suo complice in una faccenda di armi clandestine (l´agente l´aveva minacciato di rivalersi sull´adorata madre). Ne era anche seguito una sorta di "processo" nei magazzini dell´Ordine Nuovo, da cui il militante diciannovenne era uscito umiliato per la vita. Gramsci, evidentemente, non poteva ignorare la vicenda, ma prima della partenza di quel compagno per l´Urss volle incontrarlo, e forse ne nacque anche una reciproca simpatia, come testimonia Lalla De Marchi, la sorella di Gino, che rimase profondamente impressionata dallo "sguardo penetrante" di Nino.
Nel ricostruire la storia, Nissim non rinuncia a seminare un ragionevole dubbio. Poteva Gramsci ignorare il clima di ostilità verso il "compagno spione" che andava montando in Unione Sovietica? Essendo Gramsci un autorevole dirigente del comunismo internazionale, è difficile escluderlo, ma converrà attenersi ai fatti. Quando nel luglio del 1922 a Mosca Nino apprende che un anno prima De Marchi era stato spedito in clausura nel campo di lavoro di Vladikino, egli non esita a compiere il primo clamoroso gesto per la sua liberazione. In compagnia di una delegazione italiana, va a trovarlo in carcere e gli comunica che finalmente è un uomo libero. In un memoriale ritrovato in anni recenti dalla figlia Luciana, Gino rievoca quella illustre visita. «Quando il compagno Gramsci, membro del Comitato Esecutivo dell´Internazionale Comunista, venne a trovarmi nel campo di concentramento di Vladikino e mi comunicò che ero libero, aggiunse che con il lavoro avrei potuto dimostrare ai compagni di essere ancora un compagno e tornare all´attività di Partito». Parole di incoraggiamento che alimentano in Gino una speranza. Commenta Nissim: «Evidentemente Gramsci non amava i processi sommari e i siluramenti dei compagni, anche quando era convinto dei loro sbagli. La statura intellettuale e morale lo innalzava ben al di sopra del costume politico in auge nel mondo comunista di quei tempi».
Uscito dalla galera, Gino rimane per i suoi "un traditore sotto osservazione". Un comunicato della segreteria del Comintern gli impedisce di tornare in Italia e di frequentare gli italiani che vivono in Russia. La sua nuova destinazione è il Turkestan, non certo una sistemazione-premio. Gramsci non si dà per vinto. Rientrato a Mosca dal sanatorio "Il bosco d´argento" - nel quale era in cura per una brutta depressione - Nino non esita a farsi vedere in pubblico con l´amico, sfregiato dallo stigma del traditore. Lo riceve nelle stanze dell´Hotel Lux, dove l´attività degli stranieri è controllata meticolosamente dalla polizia politica. Un comportamento inusuale rispetto alle liturgie di partito, che impediscono ai comunisti "puri" di avere qualsiasi contatto con gli "impuri". È la moglie di Gino, Vera, a raccontarci quegli incontri affettuosi, nutriti anche di impensabile sense of humour. È sempre Vera a confessare la sua immensa sorpresa dinanzi alla bellissima Giulia Schucht allacciata al suo devoto Nino: lei splendida nel suo ovale perfetto incorniciato dalle trecce bionde, lui una specie di sgorbio (ma il marito la rimprovera: «Guardalo bene quell´uomo e non dimenticarti mai il suo sguardo e la sua voce. Sei stata fortunata ad aver potuto passare qualche giorno con lui. Devi capire che anche la più bella donna del mondo non sarà mai più bella della sua anima»).
Il 12 luglio del 1923, a favore di Gino, Gramsci compie un secondo passo formale. Scrive al Comintern un appello perché si ponga fine alla sua persecuzione (il documento è pubblicato qui a fianco). Parola d´ordine: "non infierire". Un verbo sconosciuto alla dirigenza del suo partito, annota Nissim. Un termine in cui si riflette una diversa concezione del mondo e del genere umano. Forse non è un caso che un analogo concetto ritorni tre anni dopo nella celebre lettera scritta da Gramsci al Pcus per contestare la prevaricazione di Stalin contro le minoranze di Trockij e Zinoviev. C´è come un filo - nutrito di coraggio morale e autonomia di giudizio - che lega quei gesti di solidarietà umana verso De Marchi con la lucida critica politica allo stalinismo (e nel 1930 con la critica a Togliatti per l´espulsione di Leonetti, Tresso e Ravazzoli). Il compagno che sbaglia può essere criticato o avversato, mai liquidato. Una convinzione profonda che probabilmente in Urss avrebbe segnato la sua definitiva condanna. Un giorno Lajolo domandò a Togliatti come si sarebbe comportato Gramsci dinanzi all´epurazione dei comunisti polacchi massacrati da Stalin. Algida e significativa la risposta: «Si sarebbe fatto uccidere».
Malinconico è anche il seguito della nostra storia. Tornato a una vita dignitosa dopo i due interventi di Gramsci, De Marchi si prenderà cura dei figli di Nino, intanto rientrato in Italia e arrestato dai fascisti nel 1926. Nissim documenta l´insolito e caldo rapporto di Gino con Giuliano Gramsci, il figlio musicista che non conobbe mai il padre e che ne ritrovò un´eco affettuosa in quello "zio" esuberante. Ma lo zio Gino non s´è mai liberato dal marchio del tradimento. Nel 1937 viene rispedito in un lager di Stalin. I tempi si sono fatti più cupi. Il 3 giugno del 1938 muore sotto una scarica di fucili. Ha solo 36 anni. Gramsci è morto l´anno prima, a 46. Sulla loro amicizia un sipario lungo quasi un secolo.

L’appello al Comintern "Non infierite, sta male"
Ecco l´appello autografo, rivolto al Comintern, nel quale Antonio Gramsci chiede la fine della persecuzione di Gino De Marchi, "esiliato" nel Turkestan. Il documento è stato trovato nell´Archivio di Storia Sociale e Politica di Mosca:

12 luglio 1923
Dichiarazione per Gino De Marchi
Il CC del PCI non crede opportuno che Gino De Marchi rimanga a Mosca, abbandonato a se stesso, libero di trovarsi un impiego per conto suo. È d´opinione tuttavia che non si debba infierire contro il De Marchi, il quale ha dimostrato di volersi redimere col lavoro e si è sempre volentieri subordinato alle deliberazioni del consiglio del PCI. Durante la sua permanenza a Tashkent, il De Marchi ha acquistato una certa capacità nel commercio degli oggetti artistici antichi, come dimostrano i benserviti rilasciatigli dalla rappresentanza del Vicestorg nell´Asia media. Sarebbe utile trovare al De Marchi un´occupazione dello stesso genere, ma non nel Turkestan, il cui clima non si adatta al De Marchi, tubercolotico in terzo stadio e malarico.
Antonio Gramsci

"Siamo stati i primi ad accorgerci di lui" . Una testimonianza del grande storico inglese
Grazie ai Quaderni sono uno storico
di Eric J: Hobsbawm

Il 4 maggio sarà inaugurata a Ghilarza l´International Gramsci Society-Sardegna. Presidente onorario, . Del grande storico inglese pubblichiamo la testimonianza su Gramsci raccolta da Giorgio Baratta.
Credo che, in Gran Bretagna, siamo stati tra i primi ad accorgerci di Gramsci, principalmente a causa dei molti soldati britannici che tornarono in patria dopo aver combattuto la guerra in Italia, ove avevano sentito parlare di lui. Credo sia stato proprio tramite alcuni di loro che anch´io sentii parlare di Gramsci per la prima volta: da uomini come il poeta Hamish Henderson, ottimo scrittore, gran bevitore, scozzese, che fu tra i primi a tradurre le Lettere dal carcere, e da diverse altre persone, che mi sollecitarono a prendere personalmente contatto con i suoi testi. Uno di essi fu il primo a realizzare un´antologia dei testi di Gramsci in Inghilterra, negli anni Cinquanta, The Modern Prince, forse la prima raccolta pubblicata fuori dall´Italia.
Quando venni in Italia per la prima volta, credo nel 1951 o ‘52, attraverso i contatti con alcuni amici italiani ebbi la possibilità di conoscere direttamente gli scritti di Gramsci presso l´Istituto Gramsci. Naturalmente Piero Sraffa, mio collega al Trinity College, mi aveva parlato di lui ma, come tutti sanno, Piero Sraffa parlava pochissimo di quanto stretti fossero stati i suoi rapporti con Gramsci, e fu soltanto in seguito che io ne venni a conoscenza.
Rimasi colpito quasi immediatamente non tanto dall´approccio politico di Gramsci, che peraltro all´epoca era molto originale per un marxista, ma soprattutto dal suo approccio alla storia delle classi subalterne, alla storia delle classi popolari. Sotto certi riguardi i miei primi scritti storici erano paralleli a quelli di Gramsci in questa direzione. Ad esempio, l´introduzione al lavoro che poi generò il mio primo libro sui ribelli primitivi (ndt I banditi. Il banditismo sociale nell´età moderna) vide la luce proprio grazie al fatto che avevo sentito parlare di Davide Lazzaretti. Allora non conoscevo, perché non l´avevo ancora letto, il passo di Gramsci nei Quaderni in cui egli parla di che cosa ci sia "ai margini della storia", iniziando precisamente dalla scoperta di Lazzaretti, quale esempio della storia speciale straordinaria delle classi subalterne. L´incontro con il testo di Gramsci mi stimolò al punto che non mi limitai ad affrontare l´argomento, ma progettai e realizzai un intero libro sull´orientamento di scrivere la storia "dal basso", la storia "dei subalterni".
Il mio rapporto personale con Gramsci è stato, in un certo senso, fondativo: Gramsci è una delle maggiori fonti di ispirazione del mio lavoro di storico. Allo stesso tempo egli rappresenta anche una essenziale fonte di ispirazione delle mie idee sulla politica, perché Gramsci è stato uno dei pochissimi, forse l´unico tra i marxisti e i comunisti, a scoprire che l´oggetto della politica non è soltanto la questione di come prendere il potere e mantenerlo, ma che c´è invece molto altro oltre a questo. In effetti la forma governo da parte di una classe non è caratterizzata unicamente, come credono in molti, da un´imposizione dall´alto, ma consiste in un rapporto dialettico molto complesso tra chi governa e chi è governato, un rapporto che non può essere spiegato solamente in termini di potere.

Corriere della Sera 27.4.07
Mio padre Gramsci
«Sotto Stalin sarebbe finito in un Gulag Peccato che l'Italia l'abbia dimenticato»
di Ettore Mo


Di Antonio Gramsci è stato scritto molto e l'interesse per la sua vita e le sue opere si è particolarmente intensificato negli ultimi mesi, mentre si stava avvicinando il settantesimo anniversario della morte, avvenuta il 27 aprile del '37. Ma la maggior parte degli scritti si è concentrata sulla figura dell'intellettuale e del politico, anche per stabilire 1'attualità e validità del suo pensiero e del suo ruolo nel mondo contemporaneo. Ciò che mancava in questa fluviale produzione letteraria era l'uomo Gramsci, l'umanità di questo piccolo grande sardo, fondatore del Pci, emersa solo timidamente nelle Lettere dal carcere e quasi schiacciata sotto il peso del controverso personaggio pubblico, che aveva tutto sacrificato al suo impegno di leader comunista, militante usque ad mortem.
Ora, col libro di Anna Maria Sgarbi Giuliano Gramsci, lettere a mio padre, che uscirà in autunno per le edizioni Laterza, questa lacuna è stata colmata. Per oltre tre anni, a cominciare dal settembre del 2003, l'autrice ha frequentato assiduamente a Mosca, dove vive, il figlio superstite di Antonio — Giuliano, appunto —, che ha ora 81 anni e che, avendo preferito la musica alla politica fin dall'infanzia, è professore di flauto e clarino presso il Conservatorio della capitale. «Ho trascorso con lui intere giornate a passeggiare molto lentamente — scrive Anna Maria nella prefazione —, sia per l'instabilità della sua camminata che per il dialogo tanto affascinante quanto esclusivo». Il progetto di un libro in cui Giuliano rievoca, con rimpianto, nostalgia e non di rado angoscia, la figura paterna, nasce proprio al termine di queste lunghe passeggiate per le strade di Mosca quando la signora Sgarbi (di professione avvocato internazionale) gli propose di scrivere a quatto mani delle lettere al padre, un papà che non aveva «mai visto» e che morì in prigione in Italia, quando lui non aveva ancora undici anni.
Le lettere sono venti. Caro papà — scrive nelle prima — «sono invecchiato, ho ottant'anni... Tu sei sempre quello, giovane, intelligente, acuto e anche bello... Non ti ho mai toccato con le mani, ma ti ho sempre accarezzato sulla carta e ti ho anche abbracciato nei sogni» (Ed ecco riemergere, in un flash-back, la Russia degli anni Trenta quando in casa Gramsci, a Mosca, ci sono «preoccupazioni per il pane quotidiano» mentre per le strade corre «l'eco delle purghe di massa e della lotta contro i trotzkisti e altri "nemici del popolo"».
Qualche anno dopo il quotidiano Pravda avrebbe annunciato che l'agente dell'imperialismo mondiale, Trotzkij, e nemico acerrimo del potere sovietico era stato assassinato in Messico. Era il 20 agosto 1940. La notizia, annota Giuliano nel suo diario, «ha fatto felice Baffone». Cioè Stalin, suppongo. Avesse ricevuto in carcere una lettera mai spedita, Antonio Gramsci avrebbe aggiunto una nuova sofferenza alle tante che già l'affliggevano apprendendo che l'infanzia, la fanciullezza e anche l'adolescenza di Giuliano e del fratello maggiore Delio erano trascorse «senza libertà, con la paura di tutto». Una delle poche evasioni era andare al cinema dove proiettavano film come La Corazzata Potëmkin che piacevano a Stalin e anche «ai ragazzi della mia età». E nella stessa lettera Giuliano informava con orgoglio il padre di aver ricevuto al termine della prima elementare «un libro molto bello intitolato "Grazie compagno Stalin per la nostra infanzia felice"».
Dopo la morte di Stalin, apprendiamo, a casa Gramsci approdavano spesso gli amici comunisti italiani come Pietro Secchia, Scocimarro, Mario Montagnana (cognato di Togliatti) ed altri: tutti curiosi di sapere come fosse realmente la vita nell'Unione Sovietica. Anche per metterla a confronto con quella descritta da Giuseppe Boffa, primo corrispondente dell'Unità da Mosca, o da Maurizio Ferrara. Ma certo non era quella, avverte Giuliano, «romantica e dolce, equilibrata e serena» proposta in un libro di certo Paolo Robotti, che definiva Mosca «grande, austera, infallibile» .
In una delle lettere, c'è un ricordo affettuoso di Palmiro Togliatti e di una sua visita a Mosca, quando salutò «molto dolcemente» i due fratellini, «accarezzandoci il volto e i capelli». Il leader del Pci li avrebbe poi accompagnati sulla collina dei passeri, perché vedessero la capitale «tutta intera, illuminata e festosa». Ma al ritorno tra le pareti domestiche, la mamma sconvolta e in lacrime diede ai ragazzi la terribile notizia: «papà è morto».
«Ebbi un colpo alla testa come di un badile che ti stacca il cranio — scrive Giuliano —. Non ti avrei mai visto. A undici anni ti aspettavo, da anni ti aspettavo. Avrei sentito il tuo odore, l'odore del mio papà...». Mussolini che nella sua rozzezza, lo aveva definito «quel sardo gobbo», riconosceva però al professore di economia e filosofia Antonio Gramsci «un cervello indubbiamente potente» e in un passaggio ampolloso ma indubbiamente ispirato da devozione filiale, Giuliano scrive che «per fare un bel ritratto di te bisognerebbe ricorrere alla penna di un Leopardi e di un Manzoni messe insieme. E aggiunge: «Non si cancelleranno mai le pagine dei libri che ti descrivono, non sbiadiranno mai le parole delle tue lettere e dei tuoi pensieri, non sbiancheranno mai le tue fotografie».
Fosse sopravvissuto alle atrocità del carcere e avesse poi trovato rifugio nella Russia sovietica, è l'accorata considerazione che fa ora Giuliano, Antonio Gramsci non avrebbe avuto vita facile sotto il regime di Stalin e quasi certamente sarebbe morto di stenti in qualche Gulag della Siberia o delle Isole Solovskij, insieme a migliaia di altri sventurati risucchiati nel vortice delle grandi purghe.
«Per fortuna — confida Giuliano ad Anna Maria Sgarbi durante una delle tante passeggiate — nessuno di noi è finito nel Gulag». Lui, all'Istituto musicale, aveva cominciato a studiare Johann Sebastian Bach e, avendo appreso che in tedesco Bach vuoi dire ruscello, era giunto alla conclusione che «Bach è la vera Germania», non quella nazista, cupa e minacciosa, che si stava espandendo sotto i suoi occhi di quindicenne. Anche il fratello Delio, che morì nell'82 senza aver conseguito il grado di ammiraglio cui teneva «più di ogni altra cosa al mondo», scampò alle purghe staliniane, grazie anche all'interessamento di Togliatti. Un trapasso sereno, il suo. «Se ne è andato senza lasciare segni di debolezza — racconta Giuliano in una lettera al padre —, poco prima di chiudere gli occhi per sempre ha voluto mettere i tuoi occhiali, perché diceva sempre che i tuoi occhiali erano quelli che avevano portato tutti gli intellettuali. Anche Cechov portava gli occhiali come i tuoi, quelli senza telaio, con le lenti strette sul naso». Nel commiato di Giuliano Gramsci a quelli che saranno i suoi lettori c'è una nota amara: «studiato in tutto il mondo — scrive nel messaggio finale al padre —, tu sei stato quasi dimenticato in Italia», dove, «con la sola eccezione dei gramscisti dell'International Gramsci Society, appari per lo più consegnato al museo dell'antichità... Ricordo il dibattito che ci fu in Italia nel 1987, a cinquant'anni dalla tua scomparsa. Ma allora c'era ancora il Pci, il partito che avevi fondato. Forse oggi anche la sinistra italiana non ama più il pensiero, forse anch'essa è salita sul carro della cultura intesa come esibizione e spettacolo».
Nel cimitero degli inglesi, a Roma, accanto alla sua modestissima tomba (che in una visita di tanti anni fa ricordo assediata da erbacce), riposano i grandi poeti romantici Percy B. Shelley e John Keats, «il cui nome — recita un celebre verso di quest'ultimo — è scritto sull'acqua»: quello di Antonio Gramsci — assicura Giuliano, che a suo modo lo scandisce ogni giorno baloccandosi tra i suoi prediletti Bach e Vivaldi — è inciso in rosso nella coscienza di generazioni di uomini ed è impossibile dimenticarlo.