sabato 18 febbraio 2006

Liberazione, 18.02.06
Sentenza shock: stupro meno grave se non sei più vergine
Monica Lanfranco


E’meno grave picchiare una persona fino a romperle un braccio se già la persona percossa un braccio l’ha rotto, e per giunta ingessato mentre subisce le botte? Forse sì, secondo l’opinione della Terza sezione penale della Cassazione. Questi giudici, di certo persone perbene ai quali la comunità si affida per dirimere questioni legali delicate e fondanti per la civile convivenza ieri hanno sentenziato che lo stupro su una minorenne è meno grave se la vittima ha già «avuto rapporti sessuali».
Perché «è lecito ritenere» che siano più lievi i danni che la violenza sessuale provoca in chi ha già avuto rapporti rispetto a chi non ne avuti affatto. Lo scenario dal quale, in un paese ritenuto civile come il nostro, si snoda questa vicenda vede una quattordicenne abusata dal convivente della madre.
Siamo in Sardegna, una regione nella quale è presente, a macchia di leopardo, un forte problema di violenza familiare, scolastica e sociale.
L’uomo, un quarantenne con alle spalle una storia di tossicodipendenza, racconta che avrebbe voluto un rapporto come si suol dire completo, ma che la figlioccia lo aveva convinto a soddisfarlo, temendo i rischi di sieropositività, con un rapporto orale. In virtù di questo fatto l’imputato, condannato in primo grado a tre anni e quattro mesi, si sente un po’ vittima, e chiede lo sconto di pena.
Da subito il ricorso non viene accolto: la corte d’Appello di Cagliari nel novembre 2003 gli rifiuta lo sconto sulla base delle «modalità innaturali del rapporto», ritenuti tali da compromettere «l’armonioso sviluppo della sfera sessuale della vittima».
Meno male che c’è la Terza sezione della Cassazione, che adesso lo soccorre. E per estensione, (dopo il precedente caso della sentenza sui jeans, ritenuti indumenti troppo stretti per essere strappati, e quindi se li hai addosso e dici che hai subito violenza stai mentendo), soccorre qualunque futuro simpatico stupratore, familiare, singolo, o gruppetto di amici, che intenda trascorrere momenti lieti. Certo, i rischi purtroppo restano. Se sei sfortunato e incappi in una giovane vergine allora sì che sono guai. Altrimenti non importa se hai quattordici anni, se chi ti insidia sessualmente è il convivente di tua mamma. Non sei più illibata, quindi che sarà mai.
E’ più o meno lo stesso rigore logico dei colleghi avvocati di Processo per stupro, un documento che risale ad oltre 25 anni fa. Alla sbarra all’epoca i giovani fascisti massacratori di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Ora la Corte d’appello di Cagliari dovrà tenere in “debito conto” le considerazioni della Suprema Corte per valutare la possibilità dello sconto di pena al patrigno. E l’Italia ha sceso ancora un gradino nella scala della civiltà dei rapporti umani e tra i generi. Siamo in pericolo.









AprileOnLine, 18.02.06
Medioevo in Cassazione
Con una sentenza shock i giudici affermano che lo stupro di una minorenne è meno grave se la ragazzina non è illibata. Tra le forze politiche lo sdegno è trasversale
Carla Ronga


E' meno grave lo stupro di una minorenne - anche se si tratta di una ragazzina di appena quattordici anni - se la vittima ha già "avuto rapporti sessuali". Perché "é lecito ritenere" che siano più "lievi" i danni che la violenza sessuale provoca in chi ha già avuto rapporti, con altri uomini, prima dell'incontro con il violentatore. E' questa l'opinione della Terza sezione penale della Cassazione. In sostanza i supremi giudici pensano - anzi ne sono più che sicuri, tanto che hanno accolto questo punto di vista (sostenuto dall'autore delle stupro) - che sia di più modeste proporzioni l'impatto devastante della violenza sessuale quando a subirlo è una adolescente non più vergine.
Questo perché - spiegano gli "ermellini' - "la sua personalità, dal punto di vista sessuale" è "molto più sviluppata di quanto ci si può normalmente aspettare da una ragazza della sua età".
Così chi violenta una minorenne - come quella del caso affrontato dalla Cassazione - vissuta in un ambiente socialmente degradato e difficile, e della quale abusa essendo per di più il convivente della madre, può ottenere il riconoscimento della "attenuante" del "fatto di minore gravità" invocato in nome della perduta illibatezza della vittima.
Una decisione shock,che torna a giudicare le vittime piuttosto che gli aggressori. I più colpiti sono coloro che lavorano con le donne e i minori. "Ho pensato di essere tornata indietro di 50 anni e come se mi fosse arrivato un pugno nello stomaco", ha detto Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa, " E' inconcepibile che un reato contro la persona così grave, possa avere due pesi e due misure, se la ragazza è vergine o non lo e''. Anche perché, proprio i dati confermano che la violenza contro le donne è in crescita, specialmente nelle fasce più giovani. Elisabetta Canitano, medico, presidente dell'Associazione "Vita di donne" è fuori di se. " La cosa che più colpisce è il fatto che si faccia confusione fra il danno e la colpa. Se noi possiamo parlare in termini di risarcimento del danno – spiega Canitano - allora possiamo dire che una ragazza che non ha mai avuto rapporti ha diritto a un risarcimento maggiore, ma questo non si capisce come possa essere un attenuante per chi commette il reato".

Tra le forze politiche lo sdegno è trasversale, mettendo per una volta tutti dalla stessa parte. Se Alessandra Mussolini la definisce una " sentenza vergognosa e devastante", di "sentenza di sapore medievale, fuori dal tempo" ha parlato Gloria Buffo (Ds) con Livia Turco che ne chiede la cancellazione, mentre per Giovanna Melandri si fa un "balzo indietro di decenni". "Lo stupro è sempre inaccettabile. Non c'è giustificazione, mai, a un gesto così odioso e questa verità è ancora più vera e forte se quel gesto viene rivolto contro una minorenne. Perché la violenza è un modo per annullare la soggettività di una persona e le soggettività meno formate ricevono un danno doppio". Così commenta il pronunciamento della Cassazione Anna Serafini, responsabile del dipartimento Infanzia e Adolescenza della direzione nazionale dei Ds. Dorina Bianchi (Margherita) non vorrebbe mai trovarsi "nei panni delle mogli o delle figlie di quei supremi giudici". Per Elettra Deiana (Prc) "l'inviolabilità' del corpo femminile non è ancora diventato principio vincolante per la magistratura italiana", di una "sorta di incitazione allo stupro, seguita dall'impunità" ha parlato Andrea Gibelli (Lega).

Una sentenza "errata tecnicamente e moralmente" è stata definita dal presidente nazionale degli avvocati per i minori e le famiglie, Manuela Maccaroni. Un errore "tecnico", prima di tutto: l'articolo 609 quater, comma due, del codice penale prevede la reclusione da cinque a dieci anni per chi compie atti sessuali con una persona che al momento del fatto non ha compiuto sedici anni, come la ragazza di cui parla la sentenza, quando il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore o altra persona cui per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia il minore è affidato, o che abbia con quest'ultimo "una relazione di convivenza". Un articolo sufficiente a comminare una pena grave senza alcuna necessità di approfondire le abitudini della ragazza o il suo sviluppo fisico.

Dure le prese di posizione anche in ambito governativo, con il ministro per le Pari opportunità Stefania Prestigiacomo: una sentenza "che ci lascia interdetti, in un momento in cui il nostro paese ha varato nuove normative su pedofilia e mutilazioni genitali" ribadendo la "posizione di estremo rigore nei confronti di tutti gli atti che scalfiscano l'inviolabilità fisica della persona, soprattutto se minore".












Liberazione, 17.02.06
Laicità
Il crocefisso e i giudici
Giorgio Rappo, via e-mail

Caro direttore, ho letto la sentenza sull’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche e sono allibito per il tipo di argomenti portati dai signori giudici (suppongo vadano chiamati così): ne suggerisco la lettura. Non sono un giurista e neanche laureato, ciò nonostante seguendo le argomentazioni dei signori giudici si perviene a conclusioni paradossali, ovvero che il crocefisso andrebbe inserito in ogni contesto rappresentando il fondamento stesso della Repubblica. Strani tempi: la Croce Rossa Internazionale modifica i suoi simboli recependo l’esigenza di maggiore laicità, qui invece finiscono in una sentenza tesi respinte dalla carta europea.










AprileOnLine, 16.02.06
Crocifisso sì, laicità forse
Libera Chiesa. Il Consiglio di Stato ha parlato: il simbolo cristiano deve rimanere appeso nelle scuole, in quanto riferimento ''idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili''
E. S.


Appare per molti aspetti discutibile la sentenza del Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso della cittadina svedese Solle Lauti, in merito alla presenza del crocifisso nell'aula di scuola media inferiore frequentata dai suoi figli ad Abano Terme, in provincia di Padova.
In primo luogo, nel documento il crocifisso viene ritenuto "abilitato" a restare al suo posto non in quanto oggetto di culto, ma perché "simbolo idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili", intendendo per valori civili la tolleranza, il rispetto reciproco, quello dell'individuo in sé, e dei suoi diritti. Una serie di considerazioni che inevitabilmente sembrano trasferire competenze e funzioni di uno stato laico alle attenzioni e alla premura della religione che il crocifisso rappresenta.

Non a caso, dunque, sfogliando attentamente le 19 pagine della sentenza emergono diretti riferimenti al concetto di laicità, la quale secondo il Consiglio di Stato, "benché presupponga e richieda ovunque la distinzione tra la dimensione temporale e la dimensione spirituale, e fra gli ordini e le società cui tali dimensioni sono proprie, non si realizza in termini costanti e uniformi nei diversi Paesi ma, pur all'interno della medesima civiltà, è relativa alla specifica organizzazione istituzionale di ciascuno Stato, e quindi essenzialmente storica, legata com'è al divenire di questa organizzazione". Da quanto scritto sembra esserci un tentativo, francamente piuttosto maldestro, di coniugare valori laici e cattolici, cosa di per sé assolutamente legittima e storicamente fondata, ma con l'intenzione di giustificare in questo modo una specifica e simbolica presenza religiosa all'interno di uno spazio pubblico, e dunque obbligatoriamente da tutelare attraverso principi laici, che prevedono in tema religioso la libertà e il rispetto di qualsiasi orientamento di fede. Oltre questo, la teoria così esposta in qualche modo invita a distinguere tra vari tipi di laicismo, in base alle evoluzioni storico-religiose avutesi nel corso del tempo, nelle realtà più diverse.

Detto questo, è lo stesso Consiglio di Stato che lascia alle dispute dottrinarie la definizione "delicata" e astratta di laicità: "In questa sede giurisdizionale si tratta in concreto e più semplicemente di verificare se l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sia lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, che danno forma e sostanza al principio di laicità che connota oggi lo Stato italiano, e al quale ha fatto più volte riferimento la Corte Costituzionale". "È evidente – si legge più avanti – che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo in cui è posto". Se dunque in un luogo di culto "è propriamente ed esclusivamente un simbolo religioso", la situazione può essere interpretata in maniera diversa "in una sede non religiosa, come la scuola, destinata all'educazione dei giovani", perché in questo caso "il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i già accennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo), valori civilmente rilevanti".

Stando alle motivazioni della sentenza, si potrebbe allora obiettare che non solo il crocifisso deve considerarsi l'emblema perfetto di valori universali; perché, se questo è l'obiettivo "simbolico", accanto al Cristo sofferente per l'umanità, nelle aule ci starebbe bene anche una bandiera con i tanti colori della pace. Ma questa (forse) è un'altra storia.














Liberazione, 16.02.06
Quale Marx per il XXI secolo? Lo studioso olandese interviene nella discussione provocata
dalla pubblicazione del volume collettivo “Sulle tracce di un fantasma”
L’economia, una fede che si traveste da scienza
Michael R. Kraetke


Il dibattito “Quale Marx per il XXI secolo? ” che, a partire dalla discussione sul recente volume collettivo curato da Marcello Musto, Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia (Manifestolibri, 2005), si è sviluppato sulle pagine di Liberazione, ha il merito di attirare l’attenzione, anche in Italia, sul risveglio d’interesse, in corso in molti paesi, verso il pensatore di Treviri.

Proverò a illustrare “perché abbiamo ancora bisogno di Marx”, limitando le mie argomentazioni a un unico punto: la critica dell’economia politica, senza rinunciare, sullo sfondo, a considerare il rapporto tra teoria e prassi, trattato in molti degli interventi che mi hanno preceduto.

Contrariamente al ritornello assolutamente dominante fino a pochi anni fa - There is no alternative - l’economia in quanto scienza sociale vive oggi una crisi profonda. Molti economisti sono preoccupati per lo stato della loro disciplina e invocano una riforma dell’intero e mastodontico corpo della teoria economica. Sempre più spesso la professione economica deve confrontarsi con coloro che si ribellano al pensiero dominante. Un movimento di dissenso ha accusato il pensiero economico dominante di “autismo”, di assoluta cecità e sordità di fronte alla realtà economica del mondo attuale e riaperto la battaglia per qualcosa di nuovo e di diverso: un’economia “post-autistica”.

Sfortunatamente la maggioranza della classe politica, anche a sinistra, non è ancora consapevole della profonda crisi che vive la scienza economica. Essa continua a parlare di economia invece che di politica. Non crede più in Dio, ma nella presunta “scientificità” del pensiero economico e nelle verità universali di cui sembra portatore. Usa il linguaggio, i principi e i parametri della scienza economica dominante e ne ha bisogno perché ciò che conta nella prassi politica contemporanea è la competenza nella gestione dell’economia e della finanza.

Poiché le politiche di tutti i paesi a capitalismo avanzato sono centrate sull’economia, la classe politica e il pubblico si sono sottomessi alla logica implicita propagata dall’ortodossia dell’economia dominante. Si conoscono le migliori soluzioni (e a volte anche quelle di riserva) per ogni problema particolare. Quindi non c’è motivo, né ragione, per una contesa politica. Il libero mercato e la libera competizione non solo risolveranno ogni problema politico o sociale, ma forniranno automaticamente la miglior soluzione possibile, se ci dimostreremo sufficientemente saggi da lasciarli lavorare. Ci viene fatto credere che non ci sia spazio e nessun fondamento logico per nessuna soluzione politica, persino nella nostra società frammentata e complessa. Ne deriva una completa depoliticizzazione della vita politica, l’ascesa al potere della tecnocrazia economica e l’egemonia del pensiero economico ortodosso. Ecco perché la crisi del pensiero economico e la ribellione di molti economisti rappresenta un tema politico di enorme importanza. Molti di essi, infatti, hanno abbandonato il campo dell’ortodossia neoclassica e si sono uniti ai ribelli con la volontà di analizzare il mondo dei mercati nell’economia contemporanea senza il paraocchi del mondo ideale delle utopie capitaliste e di cercare un’alternativa.

Naturalmente, benché non sia facile afferrarla e ancora più complesso svilupparla, un’alternativa esiste e qui entra in gioco Marx. Le dicotomie tra politica ed economia, Stato e mercato sono già state criticate e risolte da Marx, nella sua critica dell’economia politica. Il doppio progetto della vita di Marx, mai portato a termine, della critica della politica e dell’economia, benché frammentario e giunto a noi non ultimato, ha molti spunti da offrire ai ribelli della scienza economica. L’analisi critica del capitalismo fatta da Marx è un’analisi critica delle categorie e delle teorie economiche altamente politica - di vera economia politica che rompe il dualismo tra teoria e prassi - e sottolinea la natura politica delle relazioni economiche nel capitalismo moderno così come dei ruoli e delle funzioni acquisite dallo Stato moderno all’interno del processo di sviluppo capitalista. Un’indagine piena di storia e aperta all’analisi storica, in grado di dialogare analiticamente con i processi, con le strutture e con varie tipologie di relazione e in grado di cogliere i cambiamenti storici. Un’indagine che possiede una chiara visione della nascita, della costruzione, dello sviluppo e perfino del decadimento delle istituzioni. In grado di dialogare con i mercati e con le aziende, capace di integrare il mondo “reale” della produzione con il mondo “monetario”, comprese le più sofisticate forme di moneta e capitale fittizi. Dalle premesse alle conclusioni sistematiche, l’analisi di Marx si dedica ai conflitti inerenti il mondo reale dei mercati - inclusi i mercati di merci fittizie come la forza lavoro, la moneta, il capitale, la natura - e sviluppa i modi e i mezzi attraverso cui questi conflitti o problemi strutturali, inerenti le relazioni economiche del capitalismo moderno, non vengono risolti, ma trasformati e trasferiti in nuove e differenti forme. In altre parole, ci indica come e perché, il capitalismo cambia ed è destinato a cambiare. Da molti punti di vista, Marx rappresenta un termine di paragone di critica politica e di economia sociale che deve ancora essere scoperto dal movimento dell’economia “post-autistica”.

Limitarsi a una ripetizione del passato - il vecchio grido di battaglia “Torniamo a Marx” - sarebbe ingenuo. Meglio sarebbe andare avanti con Marx e oltre Marx, risolvendo i problemi che lui non ha potuto risolvere, rispondendo alle domande che lui aveva posto e a cui non ha potuto rispondere. La battaglia per l’egemonia è in corso e il suo esito non è ancora deciso. Potrà forse essere decisa una volta che l’antico impegno di Marx, la sua critica dell’economia politica e il suo serio lavoro, verranno riesumati. La crisi del pensiero economico ci offre quantomeno la possibilità di una battaglia intellettuale di valore e persino la possibilità di vincerla.



















Liberazione, 16.02.06
Contro gli stereotipi, per trasformare la politica
Nel libro della psicanalista Francesca Molfino “Donne, Politica e Stereotipi: perché l’ovvio non cambia?” il ruolo della differenza di genere nella realtà italiana è osservato attraverso il permanere di limiti e tabù
Bianca Pomeranzi


Il libro di Francesca Molfino Donne, Politica e Stereotipi: perché l’ovvio non cambia? , pubblicato da Baldini Castoldi Dalai editore (pp. 360, euro 14,00) esce in un momento quanto mai opportuno: prima delle elezioni che ci dovranno liberare del regime mediatico-istituzionale che ha angustiato la vita delle donne in Italia per ormai troppi anni e dopo il riaffacciarsi nello spazio pubblico di un movimento che intende aprire con forza una nuova fase nella politica delle donne e degli uomini.

L’autrice, interrogandosi sugli stereotipi di genere come strato “roccioso” della differenza sessuale, utilizza molteplici approcci disciplinari per l’interpretazione della realtà italiana. Per far questo tiene conto da un lato dei dati dell’analisi sociologica, come ad esempio i risultati di una ricerca europea sugli ostacoli che gli stereotipi di genere oppongono alla partecipazione delle donne ai ruoli decisionali e alla politica in Lettonia, Estonia, Danimarca e Italia, e dall’altro delle scienze della comunicazione e della semiotica, come gli studi sulla rappresentazione femminile in tv. Infatti, nel libro vi è l’inserimento di un interessantissimo studio di Anna Maria Lo Russo sulla rappresentazione delle donne politiche nell’arena televisiva. Allo stesso modo e con grande dovizia fornisce una analisi storica sulla rappresentanza femminile in Italia dalle origini alle elezioni europee del 2004 e le Amministrative del 2005. Quasi “en passant” si citano il piccolo incremento sulla media della presenza delle donne nelle elezioni regionali, ora del 11,39%, dovuto principalmente alle liste del centrosinistra, a fronte di un 9,89% nazionale e il ritardo italiano rispetto alla media europea che è del 25% e a quella mondiale che è del 15%.

Tuttavia non è questo il campo di analisi privilegiato dall’autrice che è psicanalista e femminista. Il “cuore” della pubblicazione sta tutto nell’analisi culturale, con forte segno psicanalitico, delle interviste a una serie molto ricca di rappresentanti parlamentari e di giornaliste italiane che si occupano di politica. Da qui nasce la domanda sullo strato roccioso rappresentato dall’analisi degli stereotipi. In quanto la stragrande maggioranza delle intervistate, tra cui ci sono alcune donne con un percorso decisamente femminista come Franca Chiaromonte, Elettra Deiana, Mariella Gramaglia e Giovanna Grignaffini, tende a identificare la politica come passione, collegandola alla realizzazione di istanze fortemente ideali e nello stesso tempo inserendola in una visione legata ai sentimenti e alla soggettività.

Il sospetto dell’autrice è che dietro a queste dichiarazioni, peraltro oneste da parte di chi le ha fatte, vi sia il permanere di uno stereotipo, condiviso da uomini e donne, che attribuisce una maggiore valenza etica alle donne che sono abituate al lavoro di cura e alla custodia degli affetti. Fino a qui non ci sarebbe nulla di male se il permanere degli stereotipi non mettesse in luce un processo di ripetizione, peraltro esaltato dai media per comunicare con il maggior numero di persone possibile, e di rimozione. Dice Molfino, citando Freud e Deleuze, che gli stereotipi sono stati necessari per dare come risolto il «mistero della differenza sessuale», per riuscire a fare pensare delle diversità che non si conoscevano. Quindi ne deduce che gli stereotipi rappresentano una delle zone di resistenza al cambiamento più occulte e pericolose, soprattutto per una realtà come quella italiana dove «rispetto ad altri paesi europei colpisce la quasi assoluta impermeabilità delle istituzioni alle tematiche del genere e del femminismo».

Molto esplicitamente l’autrice chiama in causa la religione cattolica che si illude di conoscere cosa sia effettivamente la differenza sessuale e che così facendo mantiene e nutre lo strato roccioso e l’immutabile dell’ovvio. In questo c’è un esplicito riferimento alla “Lettera ai Vescovi” dell’allora cardinale Ratzinger. Molfino tuttavia non polemizza con nessuno, procede per la sua strada fornendo alle lettrici e ai lettori strumenti interpretativi della realtà che derivano dalle discipline sopraccitate. In questo lavoro, tutto positivo, tende a collegarsi con altre autrici della cultura femminista europea e italiana come Braidotti e Boccia per ciò che concerne la “politicità” della costruzione della differenza sessuale. Infatti sia la Braidotti di Metamorfosi che la Boccia di Una Differenza Politica sono consapevoli che l’autonomia delle donne richiede una profonda distanza dai modelli socialmente imposti, anche a livello inconscio.

Il contributo di Molfino al sapere delle donne si dispone dunque su questo piano che costituisce da molti anni il suo specifico campo di esperienza femminista. Di questo gliene siamo grate perché in questa fase, in cui occorre una profonda trasformazione della politica, la capacità di tenere insieme il livello delle istituzioni con la cultura femminista costituisce un prezioso contributo per tutte le donne. Soprattutto siamo grate all’autrice per la sua capacità di comporre un libro a lettura multipla dove la parte informativa e quella analitica rendono accessibile a tutti la comprensione della vicenda politica che si vuole analizzare.

Insomma un libro femminista, ma dedicato anche ai giovani, agli uomini e alle donne che intendono saperne di più sulla “anomalia italiana” della rappresentanza e della rappresentazione delle donne in politica. In questa capacità di Francesca Molfino si riconosce un percorso comune a molta parte del femminismo “romano” che ha avuto sin dalle origini una vocazione al confronto con la politica istituzionale e che per questo è stato giudicato da alcune, in passato, troppo legato allo spontaneismo degli anni Settanta. Oggi, tuttavia, la capacità di analizzare la contemporaneità sapendo coniugare il partire da sé, ovvero il punto di vista singolare, con gli strumenti e i dati che parlano di una dimensione collettiva, è da considerare in parte anche una derivazione di quelle pratiche politiche che l’autrice contribuì a realizzare. Probabilmente quell’esperienza torna anche nell’esplicito interesse a collegare l’analisi degli stereotipi con la necessità di aprire una nuova fase politica in cui femminismo e politica “istituzionale” siano capaci di dialogare per la trasformazione del senso della politica tout court. Infatti, il messaggio chiaro del libro è che il salto di civiltà, ormai necessario all’umanità, non si può costruire senza l’agire delle donne su tutti i livelli di esperienza.










Liberazione, 15.02.06
Luxuria, i linciaggi e l’orrore per le idee
Piero Sansonetti


Su Repubblica di ieri c’è mezza pagina dedicata alle candidature dell’Unione e della destra. E’ intitolata così: «Alle frontiere delle coalizioni il carosello degli impresentabili». L’articolo è firmato da Filippo Ceccarelli, uno dei giornalisti italiani più arguti, seri, anche fini. Ceccarelli sceglie con cura alcuni impresentabili. A sinistra Marco Ferrando, Francesco Caruso e Vladimir Luxuria. A destra Gaetano Saya, Mario Borghezio e Adriano Tilgher.

Lasciamo stare il caso Ferrando, del quale parliamo in un’altra parte del giornale, e che riguarda la lotta politica aperta all’interno di Rifondazione. (Io credo che Ferrando abbia espresso sul medioriente opinioni sbagliatissime e non condivisibili, e che questo apra un problema politico, relativo alla sua candidatura al Parlamento, che toccherà a Rifondazione Comunista risolvere, in piena autonomia, nel modo che riterrà più giusto: in qualunque modo sarà risolto questo problema, non vedo come possa essere messa in discussione la figura morale e la rispettabilità di Marco Ferrando). E lasciamo stare anche il caso-Caruso (definito da Gianfranco Fini un criminale) del quale si occupa a pagina 5, con saggezza, Haidi Giuliani.

Occupiamoci per un momento solo di Vladimir Luxuria. Sapete chi è? Un editorialista di Liberazione, un opinionista, un intellettuale molto preparato, un esponente di punta del movimento dei gay delle lesbiche e dei transgender. Non ha mai alzato un dito su chicchessia anzi è assolutamente nonviolento. E potremmo continuare per parecchie pagine a tessere le sue lodi, perché se le merita. Perché allora un giornalista intelligente, quale è Ceccarelli, lo paragona a personaggi come Gaetano Saya (che in questi giorni sta coprendo di insulti e di minacce di morte il nostro amico Furio Colombo) o come Adriano Tilgher, che fu tra i fondatori del gruppo nazista “Avanguardia nazionale” e fu il braccio destro di Stefano Delle Chiaie, uno dei più pericolosi e agguerriti terroristi neri degli anni ’70 e ’80?

E’ un’enormità. Non vogliamo neppure rispondere a Fini, che usa quel frasario perché è un fascistello, allevato - insieme a molti del gruppo dirigente di An - dagli squadristi del Fronte della Gioventù. E’ normale che di fronte a un gay dichiarato perda la testa e inizi a straparlare. Il razzismo e il tremore per la diversità, e per la diversità sessuale soprattutto, è una caratteristica fondante dell’ideologia fascista (ai tempi di Mussolini uno come Luxuria non sarebbe stato lasciato in vita...). Ma Ceccarelli? Se anche uno come lui si piega al diffondersi del senso comune razzista e omofobo, fino a paragonare gay e nazi, c’è davvero da preoccuparsi.

E poi c’è da preoccuparsi, molto, per un’altra cosa: possibile che non si riesca a fare decollare questa campagna elettorale, cioè a portarla sui temi veri, sulle questioni che riguardano il futuro dell’Italia, sui progetti, le idee, le proposte, i sogni e le speranze che i partiti politici e i due schieramenti devono illustrare e sottoporre al giudizio degli elettori? La campagna elettorale è una grande occasione di discussione politica e di partecipazione. La posta è altissima: su quale idea di società costruire l’Italia del terzo millennio, cioè per quale via uscire dal berlusconismo che ha rattrappito il nostro paese in questi cinque anni. Su questo ci sono moltissime idee. Alcune anche in contrasto tra loro, all’interno degli schieramenti. Quale sviluppo, quale redistribuzione delle risorse, quale impianto per l’istruzione, per il lavoro, per i diritti, per le persone, per i generi, per la natura. Siamo in grado di discuterne? Per esempio di capire che Vladimir Luxuria è una persona che ci pone di fronte a problemi complicatissimi, e molto seri, che riguardano le relazioni personali, i diritti delle coppie, la libertà sessuale, di comportamento, di sentimento e di affetto delle persone. Ci parla di amore, di diritto all’amore, di difesa dell’amore. Recentemente in una discussione televisiva, mi è capitato di dire queste cose, e mi sono sentito rispondere da una persona saggia e coltissima come Giovanni Sartori: «non saprei, perché sono cose che non mi interessano...». Quali sono, allora, le cose che ci interessano: le risse tra leader e punto e basta?






















Il Manifesto, 14.02.06
Con lo sguardo dell'inizio
Pubblicata da Donzelli «Hannah Arendt. La vita, le parole», la biografia della filosofa tedesca che, insieme a quelle della scrittrice Colette e della psicoanalista Melanie Klein, compone il trittico dedicato da Julia Kristeva al «genio femminile».
Simona Forti


Atutta prima, sembra un'inedita Kristeva l'autrice di Hannah Arendt. La vita, le parole. (Il volume, uscito per le edizioni Fayard nel `99 e ora tradotto da Donzelli - pp. VI-296, € 23, traduzione di Monica Guerra -, è parte di una trilogia intitolata «Il genio femminile», dedicata ad Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette). Insolito, infatti, è il tocco leggero e chiaro della scrittura con cui l'intellettuale di origine bulgara e di cultura francese dipana il racconto biografico. Ironico e paradossale può apparire l'intento del libro: esporre il pensiero di Hannah Arendt - così esplicitamente avverso alla psicoanalisi - a una sorta di sguardo «analitico». Il risultato, per quanto teoreticamente discutibile, è comunque molto interessante. Credo, infatti, che sebbene vogliano tenersene lontano, le opere arendtiane si prestino più di quanto si possa credere a questo tipo di lettura. Il messaggio che Kristeva tacitamente invia ai suoi lettori richiama innanzitutto l'esemplarità dell'esistenza di Hannah Arendt: una vita femminile che riesce a rendere «produttivi» i paradossi del secolo che attraversa. E il gioco di specchi tra la vita di chi racconta e la vita raccontata, che senza dubbio trapela tra le righe, riesce a tenersi distante da ogni fastidioso narcisismo. Con grande finezza vengono ritratti tutti i segni della «differenza» arendtiana: il suo essere una donna, costantemente immersa in ambienti quasi esclusivamente maschili; il suo essere ebrea, ma non praticante e non sionista, studiosa appassionata di teologia cristiana e filosofia tedesca.

Per Kristeva, insomma, tutto nella vita di Hammah Arendt, dalle opere alle scelte personali, parla dal punto prospettico di un'irriducibile estraneità. Non soltanto gioca un ruolo centrale l'esilio, che la vede a Parigi negli anni Trenta e poi a New York dal 1940. Ogni episodio della sua esistenza, persino i lineamenti somatici così precocemente invecchiati, reca tracce di una lotta, la lotta tipica di chi è costretto a strapparsi da ciò che è familiare: luoghi, abitudini, lingua.

Ecco allora che la differenza tra il semiotico e il simbolico - nucleo teorico della riflessione kristeviana - trova nel dedalo dei segni offerti dall'«universo-Arendt» una possibilità d'applicazione particolarmente promettente. Questo fa del testo non un volume di semplice «esegesi» arendtiana, che si aggiungerebbe a una produzione ormai sterminata, ma un godibile esempio di come possono interagire tra loro, in maniera intelligente e misurata, narrazione e psicoanalisi, analisi testuale e critica filosofica. Alla fine, Julia Kristeva riesce davvero a trasformare la biografia di Hannah Arendt nella testimonianza di un percorso tortuoso, sofferto, contraddittorio quanto si vuole, ma «riuscito», in quanto capace di rispondere alla chiamata del proprio daimon. Il «demone» arendtiano chiedeva già tirannicamente alla giovane ebrea di cultura tedesca di spendere l'esistenza nella ricerca del senso, nell'interminabile inseguimento di una verità: la radicale finitezza del mondo umano intessuta da una pluralità irriducibile.

In controtendenza rispetto a tante recenti interpretazioni «iperpolitiche» della filosofia arendtiana, l'autrice francese ritiene che l'interrogativo che assorbe, affatica e appassiona Hannah Arendt - dalla tesi di dottorato su Agostino a La vita della mente - sia in fondo uno solo: che cos'è diventata la vita umana; che cosa resta di essa dopo il crollo dei sistemi di riferimento normativi? Se ancora la vita ci appare il «bene ultimo», come pensarla a partire dal fatto incontrovertibile che ciò che ha accomunato e accomuna tutti gli «animali totalitari» - quelli del passato e quelli latenti - è esattamente la pulsione a renderla superflua e a distruggerla nella sua singolarità? Sarebbe infatti questa la minaccia a fronte della quale The Human Condition, l'opera del `58, intona un inno all'unicità della vita spesa nell'azione e nella narrazione (bios), di contro a una vita biologicamente riproducubile (zoe). E' la disperazione prodotta dalla storia del secolo, a far scommettere Hannah Arendt su un agire politico pensato come espressione e prolungamento del «miracolo della natalità». «Donna senza figli - ci dice Julia Kristeva - la Arendt ci lascia in eredità una versione moderna (e secolarizzata?) del legame giudaico-cristiano con l'amore per la vita, attraverso il suo canto reiterato del `miracolo della nascita', dove si coniugano la casualità dell'inizio e la libertà degli uomini di amarsi, pensare e giudicare». E' perché ci sono nascite - frutto della libertà di donne e di uomini, prima che prodotti delle combinazioni genetiche - che esiste la possibilità di essere liberi. La nostra libertà, infatti, - commenta Kristeva - non è soltanto una costruzione psichica, è la conseguenza dell'inizio come esperienza della rinnovabilità del senso.

Proseguendo in modo assai eterodosso il discorso arendtiano - in questo caso portandolo al limite del tradimento - l'autrice francese ribadisce qui la propria visione dello psichismo materno come luogo di passaggio dalla zoe al bios. Più in generale, presenta il legame con la madre - o meglio, l'incontro primario col femminile - come radice, nel singolo, della possibilità di «amore per il qualunque», condizione, in ognuno, dell'apertura verso il prossimo, verso la sua stessa fragilità. E questo varrà, conclude Kristeva, almeno fino a quando la tecnica non avrà eliminato, oltre alla novità della nascita, anche la minaccia della morte. Fino ad allora, l'unico modo per la vita umana di trascendere la propria «naturalità» sarà riposto nell'immortalità della narrazione, o nella possibilità istantanea, da parte della vita singolare, di essere «riconosciuta» dal gioco plurale delle parole e degli sguardi altrui.

Proprio sull'«enigmatica essenza» del chi arendtiano si concentrano le pagine più belle e penetranti del libro. Altamente problematica appare a Kristeva la sottovalutazione dell'espressività del corpo e della psiche nella «rivelazione» dell'identità del singolo che agisce. Per eccesso di coerenza con gli assunti della filosofia heideggeriana, Hannah Arendt si precluderebbe così la strada per una compiuta decostruzione della soggettività metafisica. Come sostenere, infatti, che la psiche è abitata in ognuno dalle stesse e identiche pulsioni? Come ignorare che anche a livello del Dna il corpo biologico è altissimamente individualizzato? Certo rifiutarsi di riconoscere la singolarità della psiche e del corpo è un gesto intenzionalmente provocatorio, la cui forza dovrebbe servire a marcare la differenza tra un soggetto che può essere tale solo se e quando agisce in mezzo agli altri e un individuo che diviene inevitabilmente un oggetto ogni volta che è preso nella rete delle funzioni sociali e dei determinismi biologici.

La nettezza di questa separazione sembra attenuarsi nell'ultima opera di Hannah Arendt, La vita della mente. La parte dedicata al Pensare, soprattutto, riuscirebbe a ridare al processo del pensiero il carattere di un'esperienza incarnata e sensibile. Tuttavia una nuova insidia teorica si ripresenta nella sezione su Volere. E' chiara, e per Kristeva anche condivisibile, la scelta nietzscheana della filosofa di contrastare una volontà, che in virtù del senso di impotenza verso il passato, si trasforma in risentimento, a sua volta foriero di appetito di vendetta e sete di dominio. Se, per sospendere l'accanimento contro il tempo, la risposta di Nietzsche è l'oblio, quella arendtiana è il perdono. Tuttavia, come è possibile per «qualcuno» perdonare, se si trova privato della sua interiorità psichica? E' ancora una volta il medesimo desiderio arendtiano di negare la profondità della psiche a rilanciare una libertà del tutto svincolata dalla volontà e abbandonata alla dinamica plurale dell'«io posso». Ma, si chiede polemicamente Julia Kristeva, il potere politico, quand'anche separato dal dominio, può davvero fare a meno dell'intenzionalità della volontà? Nella sua ricerca di un fondamento non soggettivistico della politica - polemico tanto nei confronti del marxismo quanto dell'esistenzialismo francese - Hannah Arendt non solo non risolve, ma nemmeno affronta queste aporie.

Secondo l'autrice francese, auspicare il perdono al posto della vendetta risentita, puntare sul legame della promessa invece che sul controllo del dominio, significa lasciar emergere, filosoficamente, le risonanze cristiane della formazione giovanile. E insieme a questa eredità, mai esplicitamente ammessa da Arendt, verrebbe alla luce la negazione - in senso propriamente analitico - su cui regge l'intero edificio arendtiano. Hannah Arendt avrebbe avuto bisogno, per continuare a vivere, ad agire e a pensare, di «attaccarsi» alla possibilità che da qualche parte - al di là forse delle singole persone concrete - e in qualche modo - al di fuori delle parentesi totalitarie - il «senso comune» rimanga «sano». Era questa già la tesi di Lyotard che Kristeva sviluppa rintracciandone i segni palesi. «Non è la lingua tedesca che è impazzita!»; perché Hannah Arendt ripete così spesso e ansiosamente questa affermazione? Come ad esempio nella bellissima intervista con Gaus (confronta Archivio Arendt 2. Feltrinelli, 2003). Perché, per quanto abbia genialmente ripensato alla vita come alla possibilità del miracolo dell'inizio, Hannah Arendt non è riuscita ad ammettere fino in fondo che in ogni cosa - sia essa la lingua, l'umanità, la madre, il padre, ogni singolo, persino l'essere - è racchiusa la sua possibilità di non essere. Resta, tuttavia, l'unica filosofa, non a caso una donna, che ci ha offerto un pensiero dell'inizio come possibilità per ciascuno di rilanciare la questione del senso della propria vita.












Il Messaggero, 13.02.06
Provocazioni/ La ricetta di Corinne Maier per rilanciare la scienza dell’inconscio in crisi.
Grazie all’umorismo
«Che risate, sul lettino dello psicoanalista»
di G.ROCCA


«LA logica della “redditività” non risparmia la psicoanalisi di cui ignoriamo se sopravviverà al Prozac e al Viagra, medicinali che permettono di ottenere erezioni e felicità a comando». Con questa premessa Corinne Maier, la fortunata scrittrice di Buongiorno pigrizia , in cui spiegava come convivere con i luoghi comuni della vita aziendale, si ripresenta ai suoi lettori con un nuovo libro,Buongiorno lettino (Bompiani, 206 pagine, 9,90 euro), che si prefigge un altro obiettivo: come far uso dell’analisi ridendo.

Perché è pessimista sul futuro della psicoanalisi?
«Dopo il grande successo degli anni Sessanta e Settanta, almeno in Francia, si è registrato un calo di interesse. Non dico che sia finito, ma le persone che entrano in analisi sono molto meno di una volta. Le lunghe terapie, anni e anni di sedute, sconcertano e poi non si è mai sicuri del risultato. Al giorno d’oggi la gente vuole efficacia e rapidità; così vengono privilegiate pratiche che ottengono un relax immediato. Come il massaggio, oppure ci si rivolge a metodi orientali. C’è poi il problema dei costi: da noi l’assistenza sociale rimborsa solo le visite psichiatriche».

Al contrario il vocabolario “psi” è sempre più di moda. Come mai?
«Le parole derivate dalla sfera “psi” si sono affermate nei settimanali femminili, nei media, nella vita corrente dando l’impressione che ci sia una sorta di cultura generale in materia. E’ davvero un paradosso che con l’espandersi dei termini associati alla psicoanalisi, la sua sfera d’influenza sia arretrata».

E spesso se ne fa anche uso in campagna elettorale. In Italia ultimamente nel duello Berlusconi-Prodi si è parlato perfino di attacchi di panico...
«Non so se dietro ai politici ci sia un consigliere psicologo. Le rispondo con l’esempio di Giscard d’Estaing e Mitterrand nelle presidenziali del 1981 che videro la vittoria di quest’ultimo in una lotta davvero dai toni duri. Ebbene dopo la sconfitta, Giscard d’Estaing si rivolse a uno psicoanalista per riconquistare il suo equilibrio. Mi chiedo: che cosa sarebbe accaduto se lo avesse fatto prima, avrebbe vinto?»

Ha una ricetta per risollevare le sorti della psicoanalisi?
«No, ma dico che tutti dovrebbero farla. S’imparano molte cose di noi stessi e di conseguenza si capisce meglio la vita. Per quanto riguarda il lato economico invece penso che il costo delle sedute dovrebbe essere relazionato alle condizioni finanziarie del paziente e che non ha senso chiedere a uno studente la stessa cifra di un professionista».

Lei economista pubblica un libro sulla psicoanalisi, come mai?
«Non credo che l’economia sia veramente la disciplina della realtà, come alcuni pensano. Comunque mi sono sempre occupata anche attivamente di psicoanalisi. Sono appassionata e una seguace delle teorie lacaniane. Lacan era un grande il cui pensiero è andato oltre la psicoanalisi, permettendo di riflettere sul mondo e sulle cose».

Che cosa vuole dimostrare con questo libro?
«Che la psicanalisi non è una vecchia pratica noiosa. Per farlo sono ricorsa a ritratti nei quali ciascuno si può riconoscere o può ritrovare il suo vicino».

Perché come Corinne Maier spiega nel libro, la normalità non esiste. E’ inutile illudersi: siamo tutti dei casi clinici.




























Il Manifesto, 12.02.06
Padri senza figli

Che i padri americani - e non solo - non se la passino bene lo aveva già confermato la recenta uscita di una doppietta cinematografica: «Non bussare alla mia porta» (Don't Come Knocking) di Wim Wenders e «Broken Flowers» di Jim Jarmusch. Due strani film, praticamente gemelli, con Sam Shepard, nel primo, e Bill Murray, nel secondo, a incarnare il maschio americano al tramonto, depresso, attaccato alla bottiglia, spaesato, disorientato e alla ricerca del figlio perduto. Ora una notizia, che arriva dalla cronaca e non dalla fiction, conferma questo stato di crisi permanente: un numero sempre più elevato di uomini incerti del proprio marchio doc impresso sulla figliolanza, si affidano ai test di paternità in cerca della «verità». Saliva, sangue, capelli, pelle per ottenere la «certezza» scientifica di essere «veramente» padri. Un esame (che costa tra i 200 e gli 800 euro) pubblicizzato online, perché gli Stati uniti sono un grande paese, moderno e digitalizzato - che assicura «affidabilità, qualità, precisione e discrezione». s.g.