sabato 26 giugno 2010

l’Unità 26.5.10
Un milione in piazza con la Cgil «Paghi di più chi ha di più»
di Andrea Bonzi

A Bologna, Milano e Napoli le principali manifestazioni. nel capoluogo emiliano parla Susanna Camusso e chiede più tasse per i redditi oltre i 150 mila euro, più diritti per i lavoratori e più legalità negli appalti.

Un milione di «no» al governo. Un milione di volti, storie e problemi si sono mescolati ieri nelle piazze di tutta Italia, in risposta alla chiamata allo sciopero della Cgil, che ha lanciato l’allarme sull’impatto devastante che la manovra da 25 miliardi di euro messa a punto dal ministro Tremonti avrà su lavoratori, precari, pensionati.
IL CUORE BATTE A BOLOGNA
A Bologna, Napoli e Milano i comizi principali: nel capoluogo emiliano si sono ritrovati, sempre secon-
do stime del sindacato, quasi 100mila persone, da tutta l’Emilia-Romagna. Due cortei sono partiti da fuori le mura per riunirsi sul Crescentone, “cuore” della città, che non è riuscito a contenerle tutte. Assente Guglielmo Epifani, impegnato in un convegno in Canada, a parlare dal palco, davanti a una «straordinaria» e gremitissima piazza Maggiore è stata Susanna Camusso, numero due della Cgil nazionale. Una sorta di investitura sul campo, in vista della sua probabile nomina a leader del più grande sindacato italiano. «C’è chi dirà che la Cgil è sempre rivolta al passato e che la Costituzione ormai è vecchia perché ha 60 anni. Mi viene da dire che ha sempre meno anni del nostro premier», esordisce Camusso. E strappa il primo, caloroso, applauso. Sventolano migliaia di bandiere Cgil: nella marea rossa ci sono tutte le categorie, dagli insegnanti ai metalmeccanici delle aziende emiliano-romagnole (Ducati, Bonfiglioli, Magneti Marelli, per citarne alcu-
ne), dalle operaie Omsa ai lavoratori del turismo della Riviera, passando per i pensionati e i dipendenti pubblici di Comuni ed Enti Locali. Picchi di adesione anche del 95% e del 100% nei luoghi di lavoro: il porto di Ravenna, ad esempio, è rimasto bloccato. «Siamo qui per reagire al governo che ci nega il futuro li sprona Camusso -. Dopo averci raccontato per 600 giorni una fiaba dove la crisi non c’era, lo specchio si è rotto: si dice che si fa la manovra per rispondere all’Europa e non si ammette di aver sbagliato previsioni». La Cgil è un sindacato «responsabile», quindi ben conscio della situazione. Ma Tremonti ha messo a punto un pacchetto di provvedimenti «iniquo e depressivo», che finisce per gravare sempre
sulle stesse spalle: quelle dei lavoratori. Da qui la richiesta di «un’addizionale per due anni a chi ha un reddito superiore ai 150mila euro» per evitare il salasso su chi ne prende 1.000 al mese, e di un prelievo maggiore a chi ha usufruito dello scudo fiscale e agli speculatori finanziari: «Possibile che il governo non chieda a queste persone di contribuire? In Gran Bretagna l’hanno fatto», ricorda la numero due di Corso Italia. Invece «l’imprenditore S.B. con un reddito di 23 milioni di euro nel 2008 non pagherà un euro» esemplifica Danilo Barbi, segretario emiliano-romagnolo della Cgil. Non è solo un problema di buste paga, ma anche di diritti. Alcuni lavoratori hanno al collo un cartello: «Fiat Panda. 700 milioni di euro. Schiavi inclusi». Inevitabile, per Camusso, toccare l’argomento Pomigliano: «Se fosse per il governo, nel Mezzogiorno non ci sarebbero più stabilimenti della Fiat attacca Camusso -. E vorremmo che ora chi grida al trionfo e alle svolte epocali quando si vogliono cancellare i diritti dei lavoratori, stesse zitto». Come «zitto e ininfluente» è stato l’esecutivo di fronte al Lingotto. Ma non ci sono diritti senza legalità. «Il governo sciolga le norme speciali per la Protezione civile, la faccia tornare alle regole per gli appalti che devono rispettare tutti. E rinunci a costituire la Difesa Spa, altro luogo dove si costruiranno di nuovo corruzione ed evasione. Noi vogliamo un Paese trasparente».


l’Unità 26.5.10
Aperte alcune tombe di prelati alla ricerca di prove di reati sessuali su minori
La Santa Sede esprime «sdegno» e «stupore». Convocato l’ambasciatore di Bruxelles
Perquisizioni anti-pedofilia Scontro tra Belgio e Vaticano
di Gabriel Bertinetto

L’inchiesta belga sui preti pedofili manda in collera il Vaticano. «Sdegno» per le tombe di arcivescovi aperte alla ricerca di prove dei reati sessuali su minori. Convocato l’ambasciatore di Bruxelles presso la Santa Sede.

Clamoroso blitz giudiziario in Belgio nell’inchiesta sui preti pedofili. Giovedì l’arcivescovado cattolico di Bruxelles è stato perquisito per dieci ore, e per tutta la giornata ai prelati è stato proibito di lasciare l’edificio. Sono stati sequestrati i documenti della Commissione indipendente per il trattamento degli abusi sessuali, un organismo creato nel 2000 dai vescovi per assistere le vittime.
Ma la fase più sensazionale dell’operazione è stata l’apertura di alcune tombe nella cripta della cattedrale Saint Rombout, a Mechelen. Si cercavano dossier relativi a casi di pedofilia che potrebbero essere stati nascosti in quel luogo nella convinzione che mai nessuno li sarebbe andati a cercare proprio lì.
MARTELLO PNEUMATICO
Per aprire i sarcofagi è stato usato un martello pneumatico ed una telecamera ha esplorato l’interno. La procura non ha rivelato se sia stato effettivamente trovato qualcosa. L’operazione «Chiesa», come l’hanno chiamata i promotori, continua.
Il Vaticano reagisce con durezza. La Segreteria di Stato esprime «vivo stupore per le modalità con cui sono avvenute alcune perquisizioni» e addirittura «sdegno per la violazione delle tombe dei cardinali Jozef-Ernest Van Roey e Leon-Joseph Suenens, defunti arcivescovi di Malines-Bruxelles».
«Sdegno» e «sgomento» vengono comunicati all’ambasciatore del Belgio in Vaticano, Charles Ghislain, convocato d’urgenza. La mossa provoca l’immediata replica di Bruxelles: «I poteri fra Stato e Chiesa sono separati» in Belgio, e la magistratura è «totalmente indipendente». Così il ministero degli Esteri riassume il contenuto della risposta data dall’ambasciatore nel colloquio in Vaticano.
NESSUNA EXTRATERRITORIALITÀ
Concetti analoghi esprime il primo ministro uscente, il democristiano Yves Leterme, secondo il quale i colpevoli di abusi sui minori, siano essi laici o ecclesiastici, devono «pagare secondo la legge belga». Non esiste insomma alcuna extraterritorialità che possa essere rivendicata dalla Chiesa. Il Vaticano non contesta solo la violazione delle tombe. Lo stesso sequestro di carte appartenenti alla Commissione sui reati sessuali viene bollata perché mette a rischio il rapporto di fiducia con le centinaia di persone che nel corso degli anni si erano rivolte all’istituto diretto dal professor Adriaensses per raccontare le proprie esperienze.
Il segretario di Stato Dominique Mamberti esprime «rammarico per alcune infrazioni alla confidenzialità, cui hanno diritto proprio quelle vittime per le quali sono state condotte le perquisizioni».
Dietro queste parole in difesa della privacy, trapela probabilmente anche l’allarme circa la possibile diffusione di materiale molto imbarazzante per le gerarchie ecclesiastiche.
Naturalmente assieme alla protesta per l’azione della magistratura, le autorità religiose ribadiscono «la ferma condanna di ogni atto peccaminoso e criminale di abuso di minori da parte di membri della Chiesa, come pure la necessità di riparare e di affrontare tali atti in modi conformi alle esigenze della giustizia ed agli insegnamenti del Vangelo».

il Fatto 26.6.10
Pedofilia in Belgio
La perquisizione che ha innervosito il Vaticano
di Giancarlo Castelli

Si è sfiorato l’incidente diplomatico tra la Santa Sede e il Belgio dopo che gli investigatori della procura di Bruxelles hanno perquisito alcune proprietà della diocesi di Mechelen alla ricerca di nuovi documenti sullo scandalo pedofilia che ha investito il clero belga. Dopo l’irruzione al palazzo arcivescovile di Mechelen-Bruxelles dove era in corso la conferenza episcopale, gli agenti hanno voluto dare un’occhiata anche alla cripta che accoglie le spoglie di alcuni prelati. “Sono state violate le tombe di due cardinali”, ha fatto sapere la Santa Sede che ha convocato l’ambasciatore belga, Charles Ghislain, presso il Vaticano. “Stupore e sdegno”, sono state le parole che gli ha rivolto Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati. “Abbiamo fatto soltanto il nostro dovere”, hanno risposto dalla procura della capitale belga specificando, peraltro, di aver controllato una sola tomba, scoperchiata soltanto in parte. Un’operazione di polizia in piena regola, quella disposta dal giudice Wim De Troy: irruzione alle 10,30 al palazzo di Mechelen nel bel mezzo di una riunione vescovile, sequestro dei cellulari, controlli e perquisizioni fino alle 19,30. Obiettivo: nuove eventuali prove sugli abusi ai minori ancora occultate o coperte dai porporati belgi. Tutti i vescovi presenti in quel momento nel palazzo sono stati interrogati dalla polizia e nessuno è potuto uscire, ha fatto sapere – non senza un certo disappunto – un portavoce dell’episcopato belga. Non è sfuggito al controllo anche il cardinale Godfried Danneels, ex-arcivescovo di Bruxelles, sospettato di avere coperto il suo omologo di Bruges, monsignor Roger Joseph Vangheluwe, proprio colui che confessò di avere abusato sessualmente di un minore, anche dopo la sua nomina vescovile. Neppure la nomina “rapida e tempestiva” del nuovo presule di Bruges, Jozef De Kesel, considerato dalle sfere ecclesiastiche “progressista”, è riuscita a stemperare la tensione. Un alto prelato, De Kesel, che è stato ex-ausiliare di Danneels a Bruxelles. Cosa che pensare a un quadro abbastanza complicato e intrecciato tra le gerarchie ecclesiali. Una nomina “rapida”, quella del nuovo arcivescovo di Bruges che fa seguito alle parole di Benedetto XVI che, soltanto pochi giorni fa, incoraggiava il clero belga di fronte agli scandali ad andare avanti. Ma la procura di Bruxelles, con l’indagine denominata “Operazione Chiesa”, è intenzionata a fare luce. Per ora, la sola imputazione del dossier dei giudici è “attentato a pudore dei minori” mentre è stata smentita l’ipotesi di reato per organizzazione criminale, come era stato ipotizzato da alcuni organi di stampa belgi. “Chi ha sbagliato deve pagare”, ha tuonato il primo ministro uscente, il democratico cristiano, Yves Le-terme, inviando alla procura quello che sembra a tutti gli effetti un plauso incondizionato per l’azione da lui definita “la prova evidente della divisione tra Stato e Chiesa”. Terribilmente indignato, invece, il professor Adriaessens, psichiatra e docente dell’Università di Lovanio, che presiede la Commissione indipendente per il trattamento degli abusi sessuali. Secondo lui, la documentazione raccolta durante la perquisizione, oltre 450 dossier, contiene diversi dati sensibili delle vittime che si erano rivolti in fiducia e con la garanzia di una certa riservatezza, proprio a lui. Agendo anche in stretta collaborazione con i vescovi stessi. Ora, dice Adriaessens, c’è il rischio che il delicato lavoro vada in fumo. “Sono entrati nella vita privata di persone che hanno avuto il coraggio e la forza di rivolgersi a noi e che, in gran parte, desiderano restare nell'anonimato – ha fatto sapere Adriaenssens – ora che la magistratura si è impadronita dei dossier che avevamo istruito negli ultimi due mesi, il nostro lavoro è annullato”. Adriaenssens ha annunciato che lunedì la Commissione deciderà se andare avanti o meno con il lavoro.

Repubblica 26.6.10
Il Belgio trema per 500 dossier
In mano alla polizia i faldoni segreti. Le vittime: "Privacy violata"
"Violata la privacy" dice la Chiesa ma per il governo "è un atto dovuto utile all´inchiesta"

BRUXELLES - Il libro nero della Chiesa belga è custodito in 475 faldoni messi insieme dalla commissione indipendente che la conferenza episcopale ha istituito per esaminare i casi di abuso sui minori compiuti da ecclesiastici. Da ieri, questi faldoni, come tutti i computer che si trovavano nella sede della Commissione, a Lovanio, sono in mano ai giudici di Bruxelles. Drammi e segreti, nomi e circostanze che la Chiesa aveva custodito, e spesso occultato, per anni e anche per decenni, sono ora in mano pubblica. E le prime a tremare, secondo il professor Peter Adriaenssens, primario di neuropsichiatria infantile e presidente della commissione, sono le vittime degli abusi sessuali. «Da ieri la commissione è sommersa di telefonate delle vittime, terrorizzate all´idea di vedere i loro traumi esposti in pubblico», ha dichiarato Adriaennsens.
Mentre il Vaticano protestava per le perquisizioni all´arcivescovado e per il fermo dei vescovi, il sequestro degli archivi della commissione è stato l´unico atto contro cui è insorta la conferenza episcopale belga. Si tratta, dice, di una grave violazione del diritto alla privacy che era stato garantito a quanti si erano rivolti a loro.
Adriaessens conferma. C´era un accordo, spiega, un protocollo con il consiglio dei procuratori generali, in base al quale la decisione o meno di trasmettere i dossier alla giustizia sarebbe stata presa autonomamente dalla commissione, con l´accordo preventivo delle vittime. «Chi è stato vittima di abuso, poteva rivolgersi alla polizia, alla magistratura, oppure a noi. Se si è rivolto a noi, spesso è perché non voleva che il suo caso fosse reso pubblico».
Il ministro della giustizia Stefaan De Clerck, però, difende l´operato della magistratura. «Il giudice istruttore ha il dovere di condurre l´inchiesta in piena indipendenza utilizzando i mezzi che ritiene necessari. Non è legato alle promesse fatte dal collegio dei procuratori generali alla commissione». «Senza voler fare polemiche - dichiara il portavoce della procura - vorrei ricordare che la nostra prima preoccupazione, specialmente in casi di questo genere, sono proprio le vittime. Non si può rimproverare alla giustizia di fare il proprio lavoro. E sarà fatto in maniera decorosa».
La commissione era stata istituita nel 1998, dopo le denunce di un prete, padre Rik Devillé, sugli abusi in seno alla Chiesa belga, e in particolare fiamminga. Tuttavia, secondo Devillé, nei primi dieci anni la commissione non si era certo dimostrata zelante. Solo con la nomina del professor Adriaessens, nel 2008, aveva cominciato a lavorare sul serio. Fino a due mesi fa, i dossier raccolti erano un paio di centinaia. Ma dopo le dimissioni del vescovo di Bruges, la commissione era stata travolta dalle denunce e i casi esposti sono più che raddoppiati. Solo in parte sono episodi recenti. Spesso gli abusi risalgono a molti anni fa, sono prescritti da un punto di vista penale, ma solo ora chi li ha subiti ha trovato il coraggio di denunciarli.
Oggi la commissione aveva in programma una riunione con un folto numero di vittime per discutere del ruolo del cardinal Danneels e della copertura che avrebbe offerto ai preti pedofili. Ai primi di luglio era previsto un confronto diretto con il cardinale. Ora l´incontro è stato annullato. «Lunedì ci riuniremo tra tutti i membri della commissione - spiega Adrianssens - e decideremo se, dopo quello che è successo, ha ancora senso proseguire la nostra missione».
(a.b.)

l’Unità 26.5.10
La sentenza. Vincolante la volontà del paziente di rifiutare le cure
La ministra liberale: riconosciuto il diritto all’autodeterminazione
Sì della Corte suprema tedesca all’eutanasia decisa dal malato
di Laura Lucchini

Sentenza storia in Germania. Per i giudici della Corte suprema federale «tagliare l’alimentazione rientra nei modi possibili di porre fine ad una terapia». È il via libera all’eutanasia se a deciderlo è stato il malato.

«Spegnere il ventilatore o tagliare l’alimentazione artificiale rientrano nella categoria dei modi possibili per porre fine ad una terapia», con queste parole il giudice Ruth Rissing van Saan ha motivato una sentenza storica ieri in Germania. La decisione della Corte Suprema Federale di Karlsruhe apre le porte alla possibilità di eutanasia passiva, nel rispetto della volontà del malato.
LA STORIA
Si tratta del caso della defunta Frau Erika Kuellmer, morta a 77 anni nel 2007 dopo cinque lunghi anni di coma permanente. Nonostante i figli avessero dimostrato che la volontà della madre era quella di non essere mantenuta in vita artificialmente, i medici della casa di cura in cui era ricoverata si erano rifiutati di sospendere il trattamento. Nel dicembre del 2007 la figlia di Kuellmer, Elke Gloor, aveva tagliato il tubo d’alimentazione della madre con le forbici, seguendo il consiglio dell’avvocato Wolfgang Putz. Gli infermieri che assitevano Kuellmer si erano però accorti della situazione in tempo per salvare la paziente. Kuellmer venne ricollegata però morì dopo due settimane per cause naturali.
Putz e la figlia sono stati accusati di tentato omicidio. Nel primo grado del processo, di fronte al tribunale regionale di Fulda, Gloor è stata assolta dalle accuse, mentre l’avvocato è stato condannato a nove mesi con la condizionale. Putz, un esperto in casi medici, ha presentato ricorso di fronte al Bundesgerichtshof, la Corte suprema federale, che ieri è giunta a una conclusione: medici, infermieri e case di cura devono sospendere l’alimentazione artificiale
dei pazienti se questo corrisponde alle loro volontà. Allo stesso tempo ha annullato la condanna contro l’avvocato.
La volontà del paziente, secondo quanto si legge nella sentenza, «rende possibile, non solo la semplice sospensione dell’alimentazione artificiale, ma anche una azione attiva con il fine di sospendere o evitare un trattamento che egli non avrebbe voluto». «Questa sentenza significa la mia assoluzione, ma molto di più significa finalmente il rispetto della volontà del paziente», ha detto Wolfgang Putz, alla fine del processo.
La ministra federale di Giustizia, la liberale Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ha accolto con soddisfazione la decisione, «che stabilisce un maggior valore del diritto di autodeterminazione delle persone». Diversamente l’associazione degli ospizi tedeschi ha espresso in un comunicato la preoccupazione che la decisione del tribunale lasci le porte aperte agli abusi. La decisione stabilisce un precedente importante in Germania. Fino ad ora la legge in materia era poco chiara o quanto meno difficile da interpretare. Nel 1994 la Corte Federale aveva già stabilito che se un paziente aveva espresso la sua volontà, si poteva sospendere il trattamento. Precisamente su questa sentenza, l’avvocato Wolfgang Putz ha costruito la sua difesa legale.
TESTAMENTO BIOLOGICO
Di nuovo, nel 2005, lo stesso tribunale aveva giudicato inammissibile che ospedali e case di cura forzassero l’alimentazione dei pazienti contro la loro volontà. Infine l’anno scorso è stata approvata una legge sul testamento biologico che stabilisce nuovamente che la volontà del paziente deve essere considerata in ogni fase della malattia.
L’eutanasia «attiva», rimane illegale in Germania. Diversamente dai vicini nordeuropei di Olanda, Belgio e Lussemburgo.

il Fatto 26.6.10
Nascita e declino delle Camere
di Lorenza Carlassare

La seconda parte della Costituzione inizia col Parlamento che, in quanto organo della rappresentanza popolare, in un sistema democratico è il centro dell’organizzazione statale in posizione di preminenza. La Corte costituzionale (sent. 106/2002) , contro la pretesa di denominare così altre Assemblee, ha riaffermato che “il “nomen Parlamento non ha un valore solo lessicale, ma… anche una valenza qualificativa, connotando, con l’organo, la posizione esclusiva che esso occupa nell’organizzazione costituzionale… in quanto solo il Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale”. Fra le altre gravi distorsioni degli ultimi tempi che hanno molte cause non ultima un’indegna legge elettorale, vi è la trasformazione del Parlamento in un organo sottomesso alla volontà del governo e del presidente del Consiglio. Il Parlamento – dice la Costituzione, “si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica” (art. 55), due Camere che esercitano insieme le stesse funzioni in posizione pari: la funzione legislativa “è esercitata collettivamente dalle due Camere “(art. 70); il governo “deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 92). Un bicameralismo paritario in discussione da sempre, oggi in particolare, in una fase storica percorsa da spinte riformiste, alla ricerca di nuovi modelli ed equilibri. Qual è la ragione del bicameralismo? In altri ordinamenti è la diversità della rappresentanza: di classi sociali diverse in Inghilterra, in un Parlamento che ha origini medievali (Camera dei Lords e Camera dei Comuni); dell’intero Stato l’una, degli Stati membri l’altra negli Stati federali: nel Senato degli Stati Uniti – organo molto potente – ogni Stato (grande o piccolo, ricco o povero) ha ‘due’ rappresentanti eletti dai propri cittadini. Spesso invece il Senato ha minori (o diversi) poteri: nei sistemi ‘parlamentari’ come il nostro, dove il governo è legato dal rapporto di fiducia al Parlamento verso il quale è politicamente responsabile, soltanto una Camera ha il potere di dare o negare la fiducia; in Italia, viceversa, entrambe. Il nostro è un bicameralismo ‘perfetto’ cioè assolutamente paritario, difficile da giustificare. I progetti di riforma, da chiunque proposti, pur nelle diversità delle soluzioni tendono a differenziare le funzioni delle due Camere e a costruire il Senato come organo di rappresentanza delle autonomie territoriali: si parla di Senato delle Autonomie, di Senato delle Regioni, di Senato federale; dizione impropria, quest’ultima, dal momento che la Repubblica italiana non è uno Stato federale, ma per la forza suggestiva dei nomi sarà forse quella vincente. Nella società dell’apparenza più della sostanza, conta la sua ‘rappresentazione’. Un'altra proposta condivisa, almeno a parole, riguarda il numero dei parlamentari ritenuto eccessivo; negli Stati Uniti, con dimensioni territoriali e popolazione ben superiori, il Senato conta appena un centinaio di membri! “Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione” ( art. 55, comma2): si tratta di pochi casi, tra i quali l’elezione del presidente della Repubblica . Ciascuna Camera, di regola, svolge i suoi lavori in piena autonomia, non solo nell’esercizio della funzione legislativa – ogni legge deve avere l’approvazione di entrambe – ma anche nel controllo politico sul governo: basta che una sola voti la sfiducia al governo per costringerlo alle dimissioni. In nome del principio di autonomia ciascuna Camera elegge fra i propri componenti il presidente e l’Ufficio di presidenza (art. 63), ciascuna “adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti” (art. 64, comma 1). La maggioranza assoluta, di-sposta come in altri casi a tutela delle minoranze ad evitare che la maggioranza di governo possa modificare norme e procedure senza il loro concorso, non è più garanzia sufficiente in un sistema tendenzialmente bipolare. Per chi ha vinto le elezioni, grazie al premio previsto dalla legge elettorale, la maggioranza assoluta non è difficile da raggiungere! Lasciando ad ogni Camera la propria autonomia, la Costituzione detta poche regole: oltre alla maggioranza assoluta per l’approvazione del regolamento interno, la prima è la pubblicità delle sedute in nome della conoscibilità e trasparenza dell’attività parlamentare affinché i cittadini possano conoscere e giudicare l’operato dei loro rappresentanti, l’altra, non meno importante riguarda i quorum richiesti per le deliberazioni. Sulla necessità di criteri di garanzia per cui una Camera non possa tenere sedute con tre o quattro presenti soltanto insisteva l’on. Ruini alla Costituente. I quorum fissati riguardano il numero legale richiesto per le sedute e la maggioranza necessaria per la validità delle deliberazioni: Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale (art. 64, comma 2). Criteri non sempre rispettati e comunque ammorbiditi dai regolamenti: fra l’altro, mentre in Senato i voti favorevoli devono superare il totale dei voti contrari e degli astenuti (come la Costituzione richiede), nel Regolamento della Camera gli astenuti non sono computati ai fini della maggioranza nelle deliberazioni, il che significa che affinché una proposta venga approvata è sufficiente che i voti favorevoli superino i voti contrari: gli astenuti, anche se numerosi, non si contano.LaCortecostituzionaleha salvato queste norme regolamentari con una dubbia sentenza giocata sulla competenza di ciascuna Camera a disciplinare il procedimento legislativo ( art.72). La ragione politica sottostante certamente è seria : molte leggi, approvate secondo il Regolamento del Senato (fuori dal numero legale dell’art. 64) avrebbero dovuto, altrimenti, essere dichiarate illegittime!

Repubblica 26.6.10
Al British di Londra una mostra nata in collaborazione con gli Uffizi, dove arriverà nel 2011 Cento opere su carta: così i grandi maestri italiani sperimentavano e pensavano la pittura

Da Fra Angelico a Leonardo il disegno padre di tutte le arti

LONDRA. Che bello, dopo tante mostre inutilmente flamboyant, raccogliersi negli spazi naturalmente sobri e silenziosi della vecchia biblioteca del British, dove studiava – tra gli altri - Karl Marx. Che bello appagare gli occhi e la mente con cento tra i più bei disegni del Rinascimento, scelti oculatamente da Hugo Chapman e Marzia Faietti per indicarci in modo semplice e chiaro lo sviluppo di questa specialissima arte lungo centodieci anni fondamentali di storia, dal 1400 al 1510: «Fra Angelico to Leonardo. Italian Reinassance Drawings».
Che bello poter dimenticare, almeno per una volta, il gigantismo che ossessivamente ci circonda nei musei, e avvicinarsi a opere, magari minuscole, per coglierne da vicino le più piccole sfumature, i più piccoli dettagli. Opere disegnate a carboncino, gesso, inchiostro e pastello da giganti come Botticelli, Michelangelo, Jacopo e Gentile Bellini, Raffaello, Mantegna, Leonardo, Verrocchio, Tiziano.
Grazie a un´inedita collaborazione tra il British e gli Uffizi, depositari delle due collezioni più ricche in materia, l´esito della mostra (aperta a Londra fino al 25 Luglio, per spostarsi poi a Firenze dal 1 febbraio al 30 aprile 2011) è semplicemente straordinario. Perché consente di ripercorrere passo passo il peso crescente svolto dal disegno nella storia dell´arte e di comprendere alla lettera cosa volesse dire il Vasari, quando affermava che il disegno è il padre di tutte le arti.
Dalla staticità bidimensionale del tardo gotico, si passa sin dalle prime sale al dinamico mondo rinascimentale, che, grazie al nuovo uso della luce, incentra la sua ricerca sulla dimensione prospettica e la tridimensionalità, offrendo uno sguardo via via più puntuale e realistico tanto della natura quanto del corpo umano. Mentre l´altra grande novità del momento è l´utilizzo su larga scala della carta, che abbassa sensibilmente i costi rispetto alla pergamena. Così, mentre irrompe l´invenzione della stampa, il disegno diventa essenziale nella progettazione concettuale delle grandi tele e nella loro presentazione ai committenti. Al contempo però, come la mostra evidenzia con precisione, esso si trasforma nella forma ideale di sperimentazione dell´artista, che qui può scatenare tutta la sua fantasia, sovente in misura superiore a quanto accadrà nei prodotti finiti di quadri e affreschi. Né meno interessante, infine, è la mappatura offerta sulle varianti regionali dell´arte del disegno: in particolare, a Firenze e a Venezia.
E con questo la funzione pedagogico-didattica dell´esposizione è perfettamente assolta. Dopodiché, c´è la pura bellezza. La bellezza di opere che lasciano senza fiato. Come nel caso dell´ Uomo sdraiato su una lastra di pietra del Mantegna, in cui la definizione minuziosa dei contorni della figura e l´uso sapiente della prospettiva, imprimono al gesto dell´uomo, teso a sollevarsi, una potenza drammatica impressionante.
Si cambia sala ed eccoci davanti al San Giovanni Battista del Pollaiuolo, messo a confronto con il prototipo offerto dalla statua in bronzo di Donatello. Anche se i curatori si premurano di sottolineare tanto le similitudini («il fervore spirituale» del santo), quanto le differenze: nella statua il tratto declamatorio, dicono, è molto più accentuato. La preoccupazione del Pollaiuolo, semmai, è quella di delineare un gesto e una postura naturale alla figura, come dimostrano gli accurati studi laterali di braccia e gambe.
Resterebbe da dire poi qualcosa di una magnifica Testa di donna´ del Verrocchio, i cui delicati contrasti di tono anticipano il famoso "sfumato" di Leonardo. Ed è proprio quest´ultimo, con dieci disegni in mostra, a fare la parte del leone. A cominciare dal Paesaggio del 1473, il primo disegno datato a lui attribuito e anche tra i primi studi di paesaggio dell´arte europea. La compresenza su piani diversi e con diverse tonalità di una città fortificata, di alberi mossi dal vento, di una cascata dal segno più marcato, e da ultimo di campi e montagne sullo sfondo, fanno pensare di primo acchito a qualcosa di orientaleggiante e vagamente flou. Ma come bene mostra lo studio successivo per il "setting" dell´Adorazione dei Magi, in Leonardo il controllo geometrico dello spazio può essere sbalorditivo: qui una struttura architettonica reticolare e multistratificata si offre come scena ideale per le figure umane ed animali che andranno ad abitarla. Per il momento esse ci appaiono vaporose, appena accennate, quasi che l´artista sia un regista di teatro che sta cercando la posizione scenica ideale per i propri personaggi.
E manca ancora un´ultima piroetta leonardesca: quella offerta dai deliziosi Studi sul Cristo Infante e il gatto, che sembrano sul punto di scappare dal foglio. Come è giusto che sia per un bambino e un micio, due creature elettriche, piene di vitalità: così il semplice gioco di un genio si trasforma in un gioiello artistico.

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La sfida futura al cavaliere
Di Nichi in meglio
Il tour per l'Italia. L'alleanza con Zingaretti. La rete di giovani. La mano tesa del clero. I rapporti con gli avversari politici. Così Vendola prepara la candidatura a leader della sinistra
di Denise Pardo

Tracce significative dell'agenda d'inizio giugno. L'8 è stato a Bruxelles. Il 10 a Roma, il 14 a Vicenza, il 15 a Pomigliano D'Arco. Il 17 a Roma, di nuovo. Il 20 a "Telecamere" su RaiTre con Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino. Convegni, dibattiti, confronti su Finanziaria, sindacato, sviluppo, futuro della sinistra. E interviste, da "La Stampa" al "manifesto", dal "Sole 24Ore" a "Vanity Fair" al "Fatto". Come minimo, per Nichi Vendola, governatore della Puglia, è solo un allenamento. Una prestazione atletica. Uno sfizio narcisista da politica locale in trasferta. Come massimo, l'inizio di una Lunga Marcia per diventare il capo. E il sospetto, l'idea, forse la follia o la predestinazione non arriva solo dal fuoco nemico o da quello amico. Arriva da lontano, dal mondo anglosassone. Così il 14 giugno è anche successo che sul "Times" Bill Emmott, ex direttore di "The Economist", lo abbia segnalato come l'uomo, nella sinistra, da tenere sotto osservazione, quello capace di mobilitare le masse stile Obama. Quale comunista, ex Rifondazione persino, e ora portavoce di Sel, Sinistra Ecologia Libertà, aveva mai avuto un'investitura internazionale? Troppo rumore per nulla, secondo alcuni, vedi l'entourage di Enrico Letta con cui si guarda in cagnesco. Grandi manovre premature per il traguardo 2012, se ci saranno le primarie, per il 2013 se si arriverà a fine legislatura, si pensa dalle parti della segreteria di Bersani dove il calore reciproco è più artico che tropicale. Vendola si prepara, forse assalito dal dubbio di un possibile voto anticipato l'anno prossimo. Nichi marcia e punta lontano. E ora a Bari, colpa di Emmott, è diventato "Obema".
Nel centrosinistra dilaniato da lotte fraticide, da anime diversamente conciliabili, in un Pd che appare soprattutto di transizione, Vendola, un ragazzino di 52 anni fondatore durante la campagna per le regionali di un personale movimento Web e volontario "Le fabbriche di Nichi", in continua espansione, quasi 200 anche in America Latina, potrebbe ancora una volta infilarsi in un vuoto di potere e vincere la partita. Naturalmente quando si gioca in Nazionale, spesso ci si arriva non solo per talento ma anche e molto per capacità di sopravvivenza. Ma uno come lui, che si chiama come si chiama per il santo nero Nicola di Bari e per Nikita Kruscev, che è gay, incantatore nel parlare nonostante un difetto di pronuncia, che ce l'ha fatta e per ben due volte, intercettatore di consensi talmente diversi da costringerlo a specificare "non sono Zelig", l'ha imparata sulla sua pelle l'arte della difesa, oltre che della marcia. Se ha deciso, e ha deciso, farà come ha fatto in Puglia, dove è diventato presidente contro tutti, contro il Pd. "Vincerà Boccia", diceva Massimo D'Alema con un tono paziente. "Massimo, mia moglie vota per lui, non sai quanto è popolare", rispondeva Nicola Latorre fedelissimo plenipotenziario. Tap, tap sulla spalla gli faceva comprensivo D'Alema. È andata come è andata. E il 17 giugno a Roma, erano il presidente della Provincia Nicola Zingaretti e lui, solo loro due, qualcuno dice con l'embrione di un tacito accordo, al primo la candidatura al Comune di Roma (gli basterà?) al secondo quella per la leadership, nel confronto pubblico dal titolo "L'alternativa comincia ora". Proprio quello che pensa Nichi.
A Vicenza con gli industriali del Nord-est e con un marcantonio tirato a lucido come Luca Zaia, una tana del lupo che più tana del lupo non si può, ha spopolato e chi ci avrebbe mai scommesso un euro. Seguiranno Milano e Torino, un grand tour del Nord, la padania leghista. Dalla sua ha i risultati raggiunti in Puglia, la leadership italiana per la produzione di energia pulita, l'acquedotto che macina utili, gli investimenti su turismo e cultura, il vendolismo compassionevole e imprenditoriale.
Appena eletto, è arrivata la telefonata del premier che ne va matto. Ha mille ragioni per apprezzarlo: politicamente ha bisogno del nemico comunista e la storia di Vendola gli va a pennello. Da impresario tv Nichi è un fenomeno mediatico che scritturerebbe seduta stante, Canale 5, prima serata. In più, è un outsider come Bossi e come piace al Cavaliere. Quando Vendola ha perso il padre, gli ha fatto una telefonata di un'ora parlandogli del suo di papà. In una delle apparizioni alla Camera, il premier, attorniato da giornalisti, vedendo con la coda dell'occhio entrare e uscire Nichi dall'infermieria, gli ha chiesto trepidante: "Tutto a posto, ti senti bene?". Non si sa se Nichi abbia fatto gli scongiuri ma il deputato Pdl Giorgio Stracquadanio che avrebbe i quattro quarti di sangue azzurro se non ci fossero stati quegli anni da portaborse all'antiproibizionista Tiziana Maiolo, ha dichiarato che tra un Pdl guidato da Gianfranco Fini e un Pd con Vendola premier sceglierebbe quest'ultimo "è il Blair d'Italia: anche il laburista Toni nacque estremista e poi si è messo al centro del palcoscenico". Intanto Nichi, fresco di telefonata al ministro Mara Carfagna per congratularsi per l'impegno contro l'omofobia, occupato in un serratissimo botta e risposta con Enrico Letta, ennesima polemica Pomigliano e la posizione di Fiom sostenuta da lui e criticata dal vice segretario Pd, ha consegnato alle agenzie una velenosa battuta: "Tra i due Letta, quello più di sinistra è Gianni".
Per il Pd è un'onda anomala. Troppo legato alla sinistra sinistra approdata in Sel: Franco Giordano è un fratello. Paolo Cento gli sta sempre intorno. Gennaro Migliore non ne parliamo. Ma pure nella sua Sel, c'è chi non vede di buon occhio la tela che si va filando, con Claudio Fava per esempio, nuvole qua e là. Con Luigi De Magistris, alter ego in vari possibili sensi di Antonio Di Pietro, incontri, forum, tutto è ancora aperto. Ma la marcia continua. E prende strade inaspettate, collocato più che mai sulla differenza, il tasto con cui ha vinto, il tasto con cui vuole continuare a vincere e sul gusto per scelte imprevedibili e impopolari. Ad "Anno zero" nella puntata su preti e pedofilia, lui, discepolo del vescovo Tonino Bello, "innamorato delle parole del cardinal Martini e della Bibbia", e questo spiega anche i voti pii e moderati, ha preso le parti di Ratzinger: "La Chiesa non è solo pedofilia", ha detto filando d'amore e d'accordo con Antonio Socci, ciellino crociato dagli occhi di bragia e spargendo qua e là frasi da inquisizione: "Per me il diavolo è il potere". In altre occasioni, ha difeso la memoria di Bettino Craxi ("Non si può ridurre la sua vita a una vicenda giudiziaria") e questo ha fatto piacere alla diaspora socialista.
In compenso, sfidando D'Alema e vincendo lo ha umiliato ed è meglio che gli stia alla larga. Per i veltroniani e la corte di Goffredo Bettini, invece, l'avvento di Nichi potrebbe sanare passate ingiustizie. Per alcuni della Margherita, le ambizioni di Vendola non possono espandersi più in là della sua Puglia. Mentre Bersani nicchia sulle future primarie, il governatore, furbo, ne parla continuamente, sperando nello scontro con un moderato (il suo ideale sarebbe Letta junior, che fu sponsor di Boccia) rivelatosi a dir poco imbarazzante per il Pd. E così si riflette sull'antidoto. Nella partita a due, è andato alla grande. Perché non provare allora a neutralizzarlo mettendo in campo tutti, lui, Letta, Zingaretti, Matteo Renzi, sindaco di Firenze, anch'egli candidato autoctono (e vincitore) alle primarie toscane?
Fosse così semplice. Vendola è levantino, è la rappresentazione del Mediterraneo, un mare mite che si infila dappertutto e che quando meno te lo aspetti, sorprende con una tempesta improvvisa. "Pensi a governare la Puglia", dicono dai banchi dell'opposizione. "Guai a chi tocca Nichi nella sua terra, ha fatto bene, ha fatto del bene", dice Paola Balducci, ex assessore, poi deputata, nota avvocato penalista. "È un marchio che va oltre se stesso". Mediatore raffinato: il primo sul quale esercitarsi, è stato gioco forza se stesso. Spesso con la mano sul cuore, all'americana. Vanitoso e testardo come pochi (ascolta tutti ma tutto quello che ascolta non verrà mai detto da lui), non si perde una processione, in primis quella della Madonna di Terlizzi il suo paese, e il clero locale vede e provvede. Ma gli ex dc fanno di più. Si commuovono. Angelo Sanza, ad esempio, un monumento della Balena bianca, ora coordinatore regionale Udc Puglia ne è ammaliato. Alla fine della presentazione delle Considerazioni programmatiche del governatore in Consiglio regionale, ha dichiarato ai giornalisti: "Mi ritrovo convergente su molte delle riflessioni fatte dal presidente. Quella di Vendola è una sfida. Noi la raccogliamo". Nel giro di un minuto, è arrivata la telefonata di Casini, piuttosto alterato nel ricordargli che Vendola è un avversario politico. "Ma Pier! Ha parlato di "quoziente familiare", di povertà, ha citato Aldo Moro. Che dovevo fare?", si è giustificato Sanza, che poi ha dovuto correggere il tiro.
Intanto, dal 16 luglio, per tre giorni Vendola ha convocato gli Stati generali delle "Fabbriche di Nichi", per discutere, galvanizzare e coordinare il suo partito del Web, il partito dei giovani e dei volontari, serbatoio potenziale e micidiale di voti. Per loro, il leader con l'orecchino, diverso e fiero di esserlo, dal nome da ragazzino, è quanto di più trasgressivo politicamente ci sia in giro. Per quelli meno giovani, potrebbe essere, come ha notato Emmott, lo sparigliatore, la risposta alle richieste del largo popolo di sinistra e non solo, che sostenendolo, sente di partecipare a una battaglia politica e storica. All'abbattimento di un tabù. Comunque vadano le cose, che cresca a livello nazionale o no, che riesca o no a trasformare il suo manifesto per la sinistra in consenso reale, il Pd dovrà fare i conti anche con Nichi, con la sua gente, con la sua marcia. Forse il suo progetto si dovrà fermare davanti al muro di cristallo degli apparati politici. Forse è troppo presto per uno come lui. O forse vincerà la corrente di pensiero nel Pd che riconosce in lui un simbolo moderno, portatore, però, di vecchi valori. Ma certo è un segnale quel bigliettino che un politico scafato come Sanza si porta in tasca. La frase di Moro citata dal governatore: "La politica è il realismo delle profezie". "Obema" insegna.

L’espresso n. 26 1.7.10 adesso nelle edicole
Se il Pd ha paura del nuovo
di Ilvo Diamanti

Ho visto Nichi Vendola a Vicenza, all'Assemblea dell'Associazione Industriali. Davanti a oltre mille imprenditori, ha suscitato interesse e attenzione. Perfino attrazione. Ne ho scritto, su Repubblica.it., in una "Bussola". Ciò ha indotto molti osservatori a interrogarsi (e a interrogarmi) sulla possibilità che Vendola possa essere il leader che la sinistra attende, da tanto tempo. In questo singolare Paese dove la sinistra sembra scomparsa, anche perché quasi nessuno ammette di essere di sinistra. In fondo, se in Puglia ha vinto
e rivinto, se nel Nord-est ha convinto (vincere è un'altra cosa), perché non potrebbe, proprio lui, meglio di altri, vincere o, almeno, convincere anche altrove? Perché non potrebbe, proprio lui, guidare la sinistra oltre il Mar Rosso, fino alla Terra promessa? Io, sinceramente, ne dubito (ma sono scettico per istinto e professione). Ma il suo "caso" è, comunque, utile a capire perché, nella sinistra e soprattutto nel Partito democratico, altri Vendola, in altri contesti, non riescano ad affermarsi. Oppure restino ai margini. Lontano dalla scena politica nazionale.
In effetti, Vendola, nel Nord-est, è piaciuto proprio perché è "diverso". E non
fa mistero della sua diversità. È comunista e meridionale. In più, non ha mai nascosto la sua omosessualità. Vissuta, però, in modo normale. Non esibita come una bandiera. Questo, sicuramente, lo ha aiutato, a Vicenza. Dove i "comunisti", oggi preoccupano più di un tempo. Proprio perché si nascondono e si mimetizzano.
Ciò, naturalmente, non basta a spiegare il clima simpatetico che si è creato fra lui e il pubblico di Vicenza. Più leghista che Pdl. Semmai, forza-leghista. Conta, sicuramente, il fatto che Vendola è percepito come un "eretico" della politica. Proprio per i suoi vizi. La lotta contro i leader del Pd lo ha legittimato ulteriormente. I piccoli imprenditori l'hanno sentito quasi come uno di loro. Lontani e ostili rispetto ai centri del potere politico ed economico. Roma e Torino. Poi, ovviamente, contano la capacità di comunicare. Il linguaggio e la fisicità. Usa metafore e citazioni attraenti. I classici della filosofia e della letteratura. Gli evangelisti. Ma parla di problemi concreti da specialista. Militante e predicatore. Un po' prete e al tempo stesso amministratore ("il migliore del Sud", ha scandito Emma Marcegaglia). Insomma, un politico della prima Repubblica.
D'altronde, ha un'esperienza lunga. Ma si è imposto al di fuori dei partiti e dei leader politici dominanti, nel centrosinistra. Ha approfittato dello spazio aperto dalle primarie, al tempo di Prodi, che immaginava l'Ulivo come un'area larga e comprensiva. Poi, nei mesi scorsi, ha faticato a ri-candidarsi, in Puglia. Ha dovuto battersi non solo contro il candidato del Pdl e dell'Udc (Poli Bortone, di fatto un'alleata). Ma, prima ancora, contro il Pd di D'Alema e di Letta. Per cui è emerso da un processo di dura selezione darwiniana. Una lotta per la vita, dove vince chi riesce a mobilitare risorse ed entusiasmo. Identità e persone. Come nei primi anni '90, quando i partiti tradizionali si erano sgretolati e si aprirono spazi impensabili, in precedenza. Così il ceto politico si rinnovò in fretta.
Per iniziativa della Lega, nel Nord. Nel centrodestra, sulla spinta di Berlusconi. Che creò un partito personale, a propria immagine e somiglianza. Mentre a sinistra il cambiamento si è realizzato soprattutto a livello locale, dove si sono affermati i sindaci. Cacciari, Illy, Rutelli, lo stesso Bassolino.
Poi Chiamparino e Veltroni. Protagonisti di una stagione breve. Perché ogni
esperimento innovativo è stato, per così dire, "normalizzato", quando si è cercato di trasferirlo a livello nazionale. L'Ulivo di Prodi, il Pd di Veltroni: "calmierati" dai gruppi dirigenti centrali (ma anche locali). Sopravvissuti alla prima Repubblica. Hanno fatto del Pd un partito di ex. Un ex-partito. Senza memoria, senza identità. E, al tempo stesso, chiuso, bloccato. Da ciò la difficoltà di produrre una leadership innovativa (non, banalmente, "nuova"). Capace di spezzare le routine, di parlare alla società, generare fiducia e, magari, emozione.
Nel Pd i leader emersi (e che emergono) a livello locale vengono fermati lì. Il "vantaggio competitivo" di Vendola - verrebbe da dire - è di essere cresciuto "fuori dal Pd". Come dire che, nella sinistra, le novità, i Vendola, probabilmente - anzi: certamente - esistono. Ma in queste condizioni, per loro, è quasi impossibile emergere, affermarsi. L' ho scritto altre volte: a Obama, nel Pd, al massimo avrebbero affidato un incarico di consulente all'integrazione in un'amministrazione comunale di sinistra.

venerdì 25 giugno 2010

Agi 25.6.10
RU486: FLAMIGNI, PASSO AVANTI LAICITA' STATO E RISPETTO 194
L'introduzione della RU486 e' un passo avanti in nome della laicita' dello Stato, nel pieno rispetto della legge 194, che auspica l'uso di tecniche piu' moderne e piu' rispettose dell'integrita' fisica e psichica della donna ed e' sicura: i decessi a cui piu' volte si fa riferimento non hanno niente a che vedere con le interruzioni di gravidanza ma con l'uso compassionevole che viene fatto del farmaco in casi particolari di neoplasia incurabile. E' questa l'opinione del ginecologo e membro del Comitato Nazionale di Bioetica (Cnb) Carlo Flamigni che stasera, insieme a Corrado Melega, presenta, alla Festa de L'Unita' alle Terme di Caracalla a Roma, il libro "RU486. Non tutte le streghe sono state bruciate", edito da 'L'asino d'oro'. Con Flamigni, parleranno della scottante materia, la psichiatra Anna Homberg, il magistrato Francesco Dall'Olio e Roberta Agostini della direzione del Pd. La RU486 largamente impiegata negli Usa ed in Europa e' dunque sicura ma soprattutto non richiede ricovero in ospedale, diversamente da quanto disposto in Italia. "Come tutti ormai sanno, questo ricovero e' del tutto inutile: lo ha detto l'OMS, lo ha dichiarato la FDA, lo hanno sottoscritto tutte le maggiori Societa' scientifiche. Inoltre e' un atto illegittimo, il Ministero della Salute non ha alcun diritto di intervenire su questi aspetti della sanita' e i suoi riferimenti alla legge 194 sono del tutto sbagliati, sara' sufficiente un ricorso alla magistratura per coprire ancora una volta di ridicolo i nostri maggiorenti". Il libro poi, presentato al Salone del Libro di Torino, e' "dedicato ai membri del Consiglio Superiore di Sanita' che ha deciso l'obbligo di ricovero per le donne", recita una nota, e spiega tutto quello che c'e' da sapere sulla pillola abortiva. "L'aborto farmacologico non e' una panacea - sostengono Flamigni e Melega - se vivessimo in un Paese normale la RU486 sarebbe molto semplicemente considerata un mezzo alternativo a quelli gia' esistenti. C'e' da chiedersi perche' ci sia un cosi' pervicace accanimento. In effetti, crediamo che il vero bersaglio sia la legge 194, da trent'anni sottoposta ad ogni genere di attacco". (AGI) Red/Pat

l’Unità 25.6.10
Contro una manovra definita «iniqua e depressiva». Cortei in tutte le principali città
Stop di otto ore per i dipendenti pubblici, di quattro per i privati. Fermi bus e metro
«Sulle spalle dei soliti noti»
Oggi sciopero generale Cgil
di Laura Matteucci

La Cgil in piazza con l’opposizione contro una manovra iniqua e depressiva. Disagi per i trasporti, quelli pubblici fermi 4 ore con modalità diverse città per città. Camusso a Bologna. Fassina e Damiano (Pd) a Milano e Roma.

«Contro le scelte politiche del governo e per cambiare una manovra sbagliata e ingiusta», queste le motivazioni dello sciopero generale della Cgil: otto ore per i lavoratori pubblici, quattro per i privati (ma i metalmeccanici della Fiom scioperano per l’intera giornata), con manifestazioni e presidi in molte città. Motivazioni che la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia fa finta di non conoscere: «Contro cosa scioperano? chiede retoricamente Contro l’Europa, contro i mercati? La manovra va fatta, anche noi crediamo che alcuni aspetti non vadano bene, ma il saldo deve essere quello». La Cgil rassicura la presidente: c’è sì bisogno di una manovra correttiva, ma quella proposta è «ingiusta e depressiva», fatta sulle spalle dei soliti noti, dice la vice segretaria generale Susanna Camusso, oggi a Bologna per la manifestazione cui parteciperanno anche Pd, Idv, Sel e Popolo viola (il segretario Epifani è in Canada per il congresso della confederazione sindacale internazionale). «La manovra è necessaria continua anche perché per due anni il governo ha negato la crisi senza mettere in atto alcuna misura anticiclica», ma «vorremmo credere che la presidente sappia che non c’è una sola manovra possibile, un solo modo di trovare risorse e di tagliare le spese. La Cgil dunque in piazza con l’opposizione «per cambiare un’operazione che abbatte il Pil dello 0,8%, come certifica Confindustria (0,4% all’anno, ndr) perché il paese ha bisogno di crescere attraverso politiche di stimolo e per l’occupazione». Dito puntato, insomma, contro un provvedimento che non contempla strumenti di sostegno all’occupazione e allo sviluppo, proprio mentre il tasso di disoccupazione è arrivato al 9,1% (dati Istat). Una manovra iniqua perché divide il paese scaricando i costi sui lavoratori, sulle Regioni, sugli Enti locali e sui cittadini più esposti.
In sciopero anche per la libera informazione e la giustizia, contro i tagli alla cultura, allo spettacolo e all’editoria. Nelle piazze sarà letto l’appello per la manifestazione del primo luglio a piazza Navona e che vede la Cgil tra i promotori. In diverse città parleranno lavoratori del mondo dell’informazione e della cultura mentre i lavoratori poligrafici e dell’emittenza privata sciopereranno in concomitanza con la giornata del silenzio del 9 luglio. Con una premessa beneaugurante: «Lo sciopero proclamato paga. Il ministro Tremonti annuncia una retromarcia sugli scatti di anzianità della scuola». Così Corso d’Italia commenta le aperture sugli scatti del personale scolastico.
TRASPORTI DIFFICILI
A Roma manifestazione e corteo fino a piazza Farnese, a Milano comizio in piazza Duomo. A Napoli interviene Fulvio Fammoni (e ci sono anche Vendola e Di Pietro). Liguria (eccezion fatta per La Spezia), Toscana e Piemonte effettueranno lo sciopero il 2 luglio. Numerosi esponenti del Pd partecipano alle manifestazioni promosse: a Milano, tra gli altri ci sarà anche Stefano Fassina, responsabile Economia e lavoro, e a Roma Cesare Damiano, capogruppo in commissione Lavoro della Camera.
Nei trasporti astensione dal lavoro per quattro ore. Per piloti, assistenti di volo e personale di terra degli aeroporti dalle 10 alle 14. Alitalia raccomanda di verificare chiamando lo 800.650055 o collegandosi a www.alitalia.it. Dalle 14 alle 18, lo stop nel trasporto ferroviario: escluse le fasce a maggiore mobilità pendolare (dalle 6 alle 9 e dalle 18 alle 21), circolazione regolare per i treni a media e lunga percorrenza. Il trasporto pubblico locale bus, metro, tram e ferrovie concesse si ferma per 4 ore in fasce orarie diverse da regione a regione, rispettando le fasce di garanzia. Interessati anche navi e traghetti che ritarderanno di 4 ore le partenze, i camion per tutto l’arco della giornata, i portuali per 4 ore per ciascun turno di lavoro, gli addetti alle autostrade per 4 ore al termine di ciascun turno ed il personale dell’Anas per l’intera giornata. Coinvolti anche l’autonoleggio, il soccorso autostradale, le autoscuole, i trasporti funebri. I docenti commissari negli esami di maturità sono stati esonerati dal partecipare.

l’Unità 25.6.10
Il neoministro usa il legittimo impedimento al processo di Milano in cui è imputato
Brancher, stop al processo «Devo pensare al mio ufficio»

l’Unità 25.6.10
Intercettazioni. La posta in gioco
Se si uccide l’articolo 21 della Carta
di Nicola Tranfaglia

Primo esame di storia contemporanea in un’aula universitaria qualsiasi della penisola. Il docente si ferma e chiede agli studenti: come distinguiamo una democrazia dalla dittatura? E ancora precisa:quali sono le libertà elementari che una democrazia garantisce? Uno studente risponde:tra le libertà elementari che la democrazia deve ai cittadini è quella del pensiero e della sua espressione. Il professore insiste: E se così i giornali mettono in piazza gli affari privati di qualcuno? Così si viola la privacy a danno della libertà di ciascuno? Ma, come non manca di ricordare il presidente del Consiglio,siamo tutti spiati. Ma è proprio così?
L’Associazione Nazionale dei Magistrati ricorda che i dati reali smentiscono questa affermazione e afferma che l’anno scorso,nel 2009,sono state intercettate 132mila utenze, riferibili a non più di 35mila persone. E un magistrato siciliano esperto che ha riflettuto da molti anni sulla nostra storia, Roberto Scarpinato ammonisce:«La legge costituisce un gravissimo colpo alle indagini antimafia perché impedisce di scoprire molti reati che poi ci permettono di identificare l’attività mafiosa». Insomma, nel contrasto ormai aperto che divide la maggioranza parlamentare berlusconiana dai pochi che, pur ancora nel Pdl,vorrebbero modificare il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche e rinviarlo a settembre, il disegno di legge va avanti e non c’è da sperare che qualcuno possa fermarlo in dirittura di arrivo. Perciò nelle librerie Feltrinelli sono state raccolte in queste ultime settimane trentamila firme e a Trapani magistrati e cittadini hanno fatto una «notte bianca» per attirare l’attenzione della opinione pubblica sulla distruzione dell’articolo 21 e di altri articoli fondamentali sulle libertà repubblicane. Sembra che pochi si rendano conto fino in fondo della ferita mortale che la legge sulle intercettazioni apporterà al tessuto innovativo della repubblica e, se non ci saranno nei prossimi giorni manifestazioni adeguate alla gravità dell’attacco che il regime populistico berlusconiano vuole assestare alle basi della nostra democrazia, sarà difficile risalire la china di questo abisso. Dobbiamo renderci conto di quello che ci aspetta se la nuova legge passerà. Non si tratta di una battaglia che riguarda soltanto magistrati e giornalisti ma tutti quelli che, negli ultimi settanta anni, hanno goduto di una certa libertà di espressione. In questo senso c’è da sperare che le iniziative già prese dalla Federazione Nazionale della Stampa di ricorrere alla Corte di Giustizia europea e quelle prevedibili dell’opposizione di raccogliere le firme per un nuovo referendum abrogativo possano realizzarsi: quando ai cittadini si limita in maniera così forte la libertà di espressione, il passo verso un regime autoritario diventa decisivo in un momento nel quale il ricordo del fascismo sembra del tutto svanito.

l’Unità 25.6.10
Compagni. Il linguaggio e il messaggio
In un partito dove esista un minimo di solidarietà interna, l’appellativo «compagne e compagni» sarebbe vissuto come una scelta di stile e di sentimento
di Luigi Manconi

Compagni e compagne». Fabrizio Gifuni, attore. «È necessario trovare nuovi serbatoi simbolici». Debora Serracchiani, parlamentare europea del Pd.

Dai, è così, no? Non c’è dubbio che tra le due frasi sopra riportate quella più adeguata ai tempi, moderna e innovativa, anti-ideologica e fin “giovanile”, sia la prima. Ed è certamente la prima a esprimere un maggiore grado di semplicità e un più alto tasso di comunicabilità. È ovvio che non scherzo e, tuttavia, il discorso non può fermarsi qui. Quello della comunicazione è un problema gigantesco, ma che non va affrontato ricorrendo a luoghi comuni. Un esempio. Nella storia recente, Romano Prodi passa per essere il leader meno versato nella comunicazione di massa e meno seducente. Meno capace di un rapporto “erotico” con l’elettore. Forse è vero, ma non si può ignorare che quel suo linguaggio borbottante e, insieme, sottile fino all’insidia di qualcosa che somiglia a un fischio a rovescio (inspirato), lento fino a intorpidirsi e reificato fino alla domesticità, tuttavia a qualcuno (molti) «parlava». Per esempio, a mia madre, ultra ottantenne donna di chiesa, inorridita dalla licenziosità berlusconiana e rassicurata dalla paciosità quasi abbandonica di Prodi. Se ne può dedurre che il messaggio prodiano risultasse efficace presso alcune aree della società nazionale che possiamo definire «periferiche» (sotto il profilo produttivo, sociale e generazionale). Mi si obbietterà: ecche te ne fai di quelle? Il problema è raggiungere gli strati economicamente e culturalmente “centrali”. Qui già emerge un equivoco pericoloso: l’idea che il messaggio e la fonte debbano essere unici e unitari. In altre parole, è Prodi, e solo lui, che avrebbe dovuto rivolgersi, univocamente, all’intera società. Il che può accadere solo in circostanze eccezionali e per figure extra-ordinarie. Come è Berlusconi. Quest’ultimo, in effetti, indirizza il proprio messaggio alla maggioranza della collettività, ne raggiunge una buona parte, e ne persuade una quota significativa. Se non c’hai culo (o carisma, che è pressappoco la stessa cosa, in termini epistemologici), devi adottare una strategia diversa. La debolezza non era “di Prodi”: consisteva piuttosto nell’incapacità di fare del peculiare stile prodiano una tessera della complessiva azione di comunicazione del governo, cui far concorrere Rosy Bindi, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema. Ciascuno rivolto al proprio target, col proprio linguaggio e col proprio stile. Si trattava, evidentemente, di un’impresa ardua e dispersiva, ma l’unica consentita nelle circostanze date. Ed è un’indicazione che può valere anche oggi. Ovvero nel momento in cui il messaggio unico e unitario del centro destra, emesso da una sola ed esclusiva fonte – Berlusconi, appunto – si rivela meno efficace e tende a frammentarsi: da qui l’insofferenza dello stesso premier verso “le associazioni e le fondazioni” che pullulano nel Pdl; e da qui, ancora, il fatto che le molte voci (quelle di Umberto Bossi, Giulio Tremonti, Gianfranco Fini) tendano vieppiù a dissociarsi l’una dall’altra, mentre fino a qualche tempo fa si integravano pienamente, “coprendo” funzioni e interessi e culture differenti. Oggi, quella articolazione del Pdl tende a farsi dissociazione. E oggi la dissociazione, che ha afflitto patologicamente il centro sinistra, potrebbe farsi – se lo volesse – pluralità composita e integrata di accenti e di messaggi. Ovviamente è la cosa più difficile del mondo, ma non certo perché troppo diversificate sono le componenti politiche e le ascendenze culturali del Pd, bensì perché incontrollate sono le pulsioni narcisistiche, le vanità mondane, le petulanze sotto culturali. In un partito dove esista un minimo di solidarietà interna, il ricorso all’appellativo “compagne e compagni” verrebbe vissuto esclusivamente come una scelta di stile e di sentimento, così come l’età relativamente giovane (per la verità: assai relativamente) di alcuni potrebbe costituire una risorsa di energie e non un privilegio da vezzeggiare. Lo stesso vale per il linguaggio: ricevo una mail nella quale mi si chiede di «fare avere un feedback» alla richiesta inviatami. L’ho fatto, ma quel «fare avere un feedback» non è altrettanto legnoso e gergale di quanto lo sia un «si deve scadenzare la nostra iniziativa politica sui tempi della crisi?». È certamente vero che «i giovani parlano così», e allora? Si rischia di non rispondere a due quesiti fondamentali: 1) come reagiscono coloro che «non parlano così» all’adozione di un simile linguaggio? 2) siamo proprio sicuri che i giovani che «parlano così» vogliano che «si parli così» anche quando si espone un programma contro il lavoro precario o per la riforma dell’università?

l’Unità 25.6.10
Dopo una maratona anche notturna approvato il decreto sugli enti lirici che torna al Senato
Santa Cecilia. Per protesta l’orchestra non suonerà domani in Vaticano
Alla Scala scioperano, ma Bondi passa alla Camera
di Luca Del Frà

Ostruzionismo dell’Idv, il Pd emenda il provvedimento, ma vota contro. Minacciata la fiducia
Al termine di una seduta fiume (37 ore e 7 minuti) è stato votato ieri alla Camera il decreto Bondi sulle fondazioni lirico sinfoniche, Infuriano le polemiche,il provvedimento dovrà tornare al Senato.

L’hanno già ribattezzata la “Notte dei cristalli della lirica” sul blog dei lavoratori della Scala, ma lo spettacolo è andato in scena a Montecitorio da mercoledì lungo 37 ore di seduta senza interruzio-
ne notturna per approvare il contestatissimo decreto Bondi: si vota giovedì alle 5 di pomeriggio tra volti tesi, facce sfatte dal sonno, nervi a fior di pelle, screzi tra Pdl e Lega, accuse reciproche di tradimento, i deputati dell’opposizione che si dividono. Al termine di una notte insonne Antonio Di Pietro esclama: «È una porcata», mentre il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini chiarisce: «È un brutto provvedimento – aggiungendo però – quando in gioco ci sono le sorti dei lavoratori bisogna far valere il senso di responsabilità».
Il decreto che mortifica i grandi teatri lirici – come la Scala, il Maggio fiorentino, il Regio di Torino, il San Carlo di Napoli e l’Orchestra di Santa Cecilia –, è approdato alla Camera qualche giorno fa, dopo che in Senato l’opposizione aveva portato avanti il più possibile l’ostruzionismo per superare i termini di conversione in legge che scadranno il prossimo 29 giugno. Il tempo stringe, perciò martedì la maggioranza minaccia di porre la fiducia: il giorno dopo tuttavia si apre uno spiraglio, il governo accetterebbe di approvare alcuni emendamenti rinunciando alla fiducia, ma pretende la fine dell’ostruzionismo.
DIVISI
L’opposizione si divide: da una parte il Pd, che voterà comunque contro il decreto, ma a fronte di alcuni miglioramenti rinuncia all’ostruzionismo, al contrario l’Idv e alcuni parlamentari del gruppo misto capeggiati da Beppe Giulietti, che vogliono invece vendere cara la pelle sui banchi della Camera cercando di obbligare con l’ostruzionismo il governo a porre la fiducia su una legge per la lirica, atto in sé un po’ grottesco e che non ha precedenti nella storia parlamentare europea.
I parlamentari del Pd della commissione cultura della Camera, forse più accomodanti di quelli del Senato, si sono riuniti mercoledì in tarda mattinata con il sottosegretario Francesco Giro per valutare le correzioni che riguardano il contratto nazionale, gli integrativi e il turn-over. Giunge una telefonata dalla Presidenza del consiglio: «Dietro front, mettiamo la fiducia». Gli emendamenti infatti obbligherebbero a un nuovo passaggio in Senato, dove lunedì, ultimo giorno a disposizione, non è prevista una seduta: convocandola d’urgenza si teme la mancanza del numero legale. Ma Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl in Senato, nega il rischio: altra telefonata dalla presidenza del Consiglio a Giro che – nomen est omen – con un nuovo dietro front riapre la riunione sugli emendamenti.
Siamo alle comiche finali: il tempo perso negli stop–and–go spinge a una seduta notturna senza interruzione, nella speranza di arrivare a votare prima della partita della nazionale di ieri. Ma tra la tenuta dei deputati Idv, botte di sonno e di nervosismo e sui banchi del Governo il ministro Bondi solo, fermo e impassibile come la statua del Commendatore, i lavori sono continuati anche mentre l’Italia incassava tre goal dalla Slovacchia – forte anche di buoni teatri lirici che con questo decreto rischiano di diventare meglio dei nostri.
Alla Scala si va avanti con gli scioperi, sabato prossimo si asterrà dal lavoro l’Orchestra di Santa Cecilia e non suonerà in Vaticano, sarebbe stata la prima volta nella sua storia centenaria. Anche negli altri teatri la temperatura sale: a rischio ci sono le tournée internazionali e le stagioni estive. Recondita speranza: al Senato il decreto si areni nuovamente e i tempi scadano.

il Fatto 25.6.10
Madri a metà
di Luigi Galella

“Era un bambolotto così dolce, biondo, occhi celesti... era bellissimo...” La voce della donna è roca e spezzata. Incerta, come la pronuncia della lingua italiana. Come se avesse la bocca impastata e i pensieri che fluttuano lenti e affaticati mentre si ricongiungono al passato. Inquadrata per singoli dettagli del viso, per oscurarne l’identità, ma non l’espressione, il palpito lieve del cuore, negli occhi che s’intravedono brillare quando racconta di suo figlio e del rapporto speciale che li univa: “ legati insieme da una forte emozione”. M. ha oggi 27 anni ed è detenuta nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. Tre anni fa ha ucciso suo figlio, per l' “amore” che gli voleva, convinta che il piccolo fosse indemoniato, per far uscire il male dal suo corpo. Una sorta di “omicidio salvifico”.
“Madri a metà” è un reportage di Silvia Luzi per Current tv (mercoledì, 21.10, Sky 130) in cui ci si accosta al crimine più grande e incomprensibile: l'assassinio del proprio figlio. L’attenzione mediatica sull’infanticidio negli ultimi anni è cresciuta, non i numeri. Probabilmente per effetto del delitto di Cogne, del clamore suscitato e delle tante, troppe “Porta a porta” che ne hanno morbosamente amplificato la suggestione. In quel caso, unico al mondo nella letteratura psichiatrica del fenomeno, una madre ritenuta colpevole per la legge, com’è noto, continua a proclamarsi innocente. Non accade mai che la rimozione giunga a tanto. Si possono dimenticare i particolari del gesto, non la cosa in sé. Com’è avvenuto per una madre quasi trentenne, a Napoli, che aveva un rapporto difficile con un uomo più grande e che a differenza di altri delitti, rappresenta l’esperienza “normale” del figlicidio. Ora lei si dice dispiaciuta per le mamme che ascolteranno la sua “aberrazione”, ma “chi cade, cade anche per non far inciampare quelli che passano dopo”.
Sono le parole che aprono e chiudono l'inchiesta della Luzi. Che tratta un tema di straordinaria intensità, ancorché ignorato, senza mai calcare la mano, senza scivolare nella febbre dell'audience da “frustate al cuore”. Per una scelta che immaginiamo stilisticamente funzionale, l'autrice costruisce la narrazione in forma quasi omodiegetica. Come parte della storia. Dicendo “io”. Ponendo il proprio corpo di donna fra gli altri, che osserva e descrive. Forse inconsciamente quasi per proteggerne la vulnerabilità. Estrema, considerata l’esperienza limite trattata. Che ha risvolti in alcuni casi deliranti e in altri ancor più misteriosamente ordinari. E che si può spiegare attraverso l’analisi sociologica, dell'alienazione indotta dalla civiltà industriale (in Lombardia c’è il maggior numero di questi reati), ma che agli antipodi temporali è anche possibile leggere attraverso il mito di Medea abbandonata e cieca di furore. Figura dell’alterità, “straniera”. Che uccide disperata i propri figli, parte di sé, per riappropriarsi simbolicamente del padre, che l'ha esiliata fuori di sé.

il Fatto 25.6.10
Laicità in croce
di Marco Politi

Da Bagnasco a Berlusconi, da Bertone a Napolitano: in attesa della sentenza definitiva della Corte europea sul crocifisso si moltiplicano gli interventi. Sorge artificialmente lo spettro di giudici decisi a conculcare il sentimento religioso italiano. Ha detto il capo dello Stato che le sentenze europee “devono essere comunque accettate”. Ma ha soggiunto che la “laicità dell’Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari e profondi”. In realtà la Corte di Strasburgo, a novembre scorso, ha sancito un principio pacifico in tanti altri Paesi: l’esposizione nelle aule scolastiche del simbolo religioso (per di più unico simbolo esposto) rappresenta una “violazione della libertà dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”. Da allora sono partite pressioni molteplici perché il secondo grado della Corte di Strasburgo sconfessi la prima sentenza. Si è mobilitata la Cei, si è mosso il governo, si sono allertato l’associazionismo cattolico, facendo un gran parlare di identità, tradizioni, libertà. Berlusconi proclama che la decisione “inaccettabile per la stragrande maggiorana degli italiani”, il cardinal Bagnasco chiede il “rispetto della libertà religiosa”, il cardinale Bertone definisce la croce “espressione identitaria, strettamente connessa con la storia e la tradizione dell’Italia come pure dei popoli europei”. In realtà non un solo argomento, portato in campo in questi mesi per difendere la presenza obbligatoria del crocifisso nelle aule e nei tribunali, ha un fondamento. L’Unione europea – tranne la pattuglia isolata di Polonia, Irlanda, Italia e Malta – respinse a schiacciante maggioranza dei suoi 27 stati la menzione delle “radici cristiane” nella propria costituzione. Non fu negazione del ruolo del cristianesimo nella storia europea, bensì rifiuto che da un generico richiamo costituzionale potessero scaturire, direttamente o indirettamente, situazioni di privilegio per una religione. Che l’Europa sovranazionale sia laicista o antireligiosa è falso: infatti il trattato costituzionale prevede un “dialogo permanente” con le varie Chiese.
Falso è anche dire che la sentenza respingerebbe la fede nell’ambito angusto del “recinto privato”.
Il cristianesimo, come ogni altra fede, è totalmente libero di esprimersi collettivamente e visibilmente nelo spazio pubblico e sociale dei paesi Ue. Parlare in Italia di un cristianesimo che rischia di essere conculcato, è una gag.
Ciò che indica la prima sentenza della Corte europea è, correttamente, l’impossibilità che in uno spazio istituzionale come la scuola (o i tribunali) vi sia un simbolo religioso che visivamente rappresenti il supremo principio ispiratore dell’educazione (o della giustizia). Non ci può essere nella società pluralistica contemporanea il dito indice di una sola religione, che all’interno di un’istituzione segni la via da seguire. Perché non è vero che il crocifisso sia nelle aule o nei tribunali “per tradizione”. La croce nei luoghi istituzionali è il retaggio dei secoli in cui il cattolicesimo era religione di stato. E il tentativo di imporne la presenza, anche oggi che la Costituzione e il Concordato hanno eliminato qualsiasi riferimento ad una religione di stato, non ha più nessuna base giuridica. Meno che mai è giustificato il tentativo surrettizio delle gerarchie ecclesiastiche di creare e crearsi uno status privilegiato di “religione di maggioranza”. Peraltro i giovani italiani, come dimostra l’ultima indagine Iard riportata dall’Avvenire, si sentono “cattolici” soltanto al 52 per cento.
Neanche è vero che il cattolicesimo sia un tratto universale dell’identità italiana. Ogni cittadino ha la sua storia, la sua cultura, le sue credenze. Sul piano istituzionale è certo che un solo simbolo, il Tricolore, rappresenta tutti (con buona pace di Bossi) e una sola immagine rappresenta nei luoghi pubblici l’unità della nazione, quella del presidente della Repubblica (Berlusconi se ne faccia una ragione).
Da questo punto di vista rimane insuperabile la chiarezza del principio costituzionale americano (nazione assai religiosa e spesso citata da Benedetto XVI come esempio di laicità positiva), secondo cui lo Stato non può “né favorire né contrastare una religione”. Nelle scuole americane c’è la bandiera a stelle e strisce, non il crocifisso.
C’è un accenno interessante nel recente intervento di Napolitano. Il richiamo ad una una laicità “inclusiva”, disponibile ad accogliere ed amalgamare le “tradizioni più diverse”. Se è così, si abbia il coraggio di lasciare scegliere gli alunni se nella propria classe vogliono una parete neutrale oppure tale da accogliere la pluralità dei simboli religiosi e filosofici, che ciascuno sente consono. O si rispetta la libertà di coscienza come astensione volontaria da qualsiasi marchio o si lascia libera l’espressione di tutti. Decidere, invece, di imporre un simbolo dichiarato unilateralmente valido per tutti è totalitarismo mascherato.

giovedì 24 giugno 2010

Repubblica 24.6.10
Italiani, di costituzione
di Alessandra Longo

Italiani, di Costituzione. E´ il titolo che l´Anpi ha dato alla sua seconda festa nazionale che apre oggi ad Ancona per chiudersi domenica 27. Lavoro, pace, democrazia: di questo si parlerà. I partigiani, dopo anni di solitudine, anche amara, si ritrovano dentro la corrente dei tanti che ci tengono ancora alla Costituzione, oggi sottoposta a continui attacchi. Non un raduno di ex. «E´ una sfida al presente», dice l´attore Marco Paolini. Da Ancona, l´appello è per un «no forte, responsabile, massiccio, a chi intende cancellare la democrazia dal Paese». Un nuovo sito, il blog, forum, spettacoli, il tentativo di rinnovarsi per lasciare il testimone ai giovani: è la missione dell´Anpi 2010, fedele alla lezione della decima brigata Rocco: «Abbiamo imparato a non essere mai indifferenti».

l’Unità 24.6.10
Napolitano sul crocefisso: nessuna interferenza ma decidano i singoli Stati
A giorni la Corte di Strasburgo si pronuncerà sul ricorso italiano contro la sentenza sul divieto di esposizione del crocifisso. Il presidente Napolitano: «La laicità dell’Europa non ferisca sentimenti elementari e profondi».
di Marcella Ciarnelli

Nessuna interferenza. Ma piuttosto una riflessione sollecitata al Capo dello Stato dal presidente di «Umanesimo cristiano». E Napolitano, proprio mentre la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo si accinge, il 30 giugno, a decidere sulla revisione della sentenza del novembre scorso sull’esposizione del crocifisso negli uffici e scuole pubbliche, su ricorso del governo italiano, non ha mancato di far conoscere il suo pensiero che non deve essere inteso in alcun modo come «un’interferenza nelle competenze proprie di organi giudiziari, in questo caso sovrannazionali, sulla cui saggezza è bene confidare e le cui decisioni definitive devono essere comunque accettate».
Una premessa alla quale il presidente ha fatto seguire la sottolineatura di come lui «più volte e in diverse sedi» abbia avuto modo «di riconoscere la rilevanza pubblica e sociale del fatto religioso e il valore della laicità dello Stato, a garanzia della libertà religiosa e dei rapporti tra confessioni religiose e autorità statuali, nel segno della reciproca autonomia e dell’accettazione del metodo democratico».
Argomenti da affrontare con una visione complessiva perché «i processi di integrazione europea, anche per le difficoltà di diverso genere che stanno incontrando, hanno bisogno di tutte le energie spirituali e culturali degli Stati e delle popolazioni che vi partecipano». Il punto, Napolitano vi fece riferimento nel messaggio alle Camere nel giorno del suo insediamento, è che «la laicità dell’Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari elementari e profondi, bensì come disponibilità ad accogliere ed amalgamare le tradizioni più diverse, senza escluderne alcuna, in una logica non più di indifferenza ed esclusione, ma di inclusione e arricchimento reciproco». Di qui, «anche la questione, particolarmente sensibile, dell'atteggia-
mento da tenere nei confronti delle simbologie religiose può essere più opportunamente affrontata secondo il generale principio di sussidiarietà, che ha finora costantemente ispirato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dai singoli Stati, che sono in grado di meglio percepirne la valenza in rapporto ai sentimenti diffusi nelle rispettive popolazioni, così come la necessità di bilanciamento tra diverse sensibilità e la salvaguardia di obiezioni di coscienza serie e consistenti in specifiche situazioni». Ascoltare la società civile, questo è l’invito «evitando sterili contrapposizioni e integralismi specialmente nei confronti di simboli che hanno assunto, anche per il riconoscimento di esponenti di altre religioni, significati universali di pace e di tolleranza».
GOVERNO E VATICANO
In vista dell'imminente sentenza interviene anche il presidente del Consiglio. Per Berlusconi la decisione di novembre «è inaccettabile». E ricorda che il ricorso dell’Italia «ha avuto, a vario titolo, l’appoggio di altri Stati europei». Anche il Vaticano, con i cardinali Bagnasco e Bertone, ha ribadito l’inaccettabilità della decisione passata. Aspettando la prossima.

il Fatto 24.6.10
La linea dura
La Fiom esulta: adesso non possono ignorarci
di Salvatore Cannavò

Entri nella sede Fiom e la soddisfazione trapassa i muri. E non parliamo solo di quella dei suoi dirigenti, a cominciare da Maurizio Landini, neosegretario generale, ma anche dei funzionari (non molti per la verità) che ci lavorano. La Fiom ha ottenuto un successo evidente in questo referendum, pur essendo stata molto cauta. Non ha mai dato indicazione di voto per il “No” e, anzi, ha invitato i lavoratori a recarsi alle urne. Il 36 per cento di contrari all’accordo che, tra gli operai, sale al 40 per cento è però molto di più dei consensi (28 per cento) che la stessa Fiom e lo Slai-Cobas (che ha invitato a votare “No”) avevano ottenuto nelle elezioni Rsu del 2006. A comprendere la soddisfazione di Landini aiuta l’irritazione speculare di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato Fiat che si aspettava un risultato attorno all’80 per cento.

Landini arriva puntualissimo in conferenza stampa, accompagnato dal responsabile Fiom per il settore auto Enzo Masini, e la prima parola è di ringraziamento “per i lavoratori e le lavoratrici di Pomigliano che hanno voluto dare un messaggio chiarissimo: sì all’investimento Fiat e dunque sì al lavoro ma sì anche ai diritti e alla dignità del lavoro stesso”. Sulla parola “dignità” il segretario Fiom tornerà più volte, facendone l’architrave del suo ragionamento e della prospettiva della Fiom. Che resta quella di non firmare l’accordo separato ma anche di restare disponibile “a riaprire il negoziato se la Fiat vuole”. “Siamo disponibili ad accettare i 18 turni, lo straordinario obbligatorio di 40 ore e anche l’orario di lavoro plurisettimanale – spiega Landini – perché si tratta di elementi che stanno già dentro il contratto nazionale di lavoro. No però alle deroghe al contratto e alle leggi” quelle la Fiom, a maggior ragione dopo questo referendum, non le firmerà mai.

Il contratto nazionale, dunque, resta la bussola dell’organizzazione e anche per questo il 1 luglio, proprio a Pomigliano, si terrà l’assemblea nazionale dei delegati del gruppo Fiat e delle fabbriche metalmeccaniche del sud Italia, “perché la vicenda ha una valenza generale e noi vogliamo rimarcare questo dato”. Del resto, su Pomigliano hanno scioperato Mirafiori, Termini Imerese, anche la Piaggio e ora si tratterà di capire come valorizzare questa disponibilità “inusitata” dei lavoratori.

Anche le ventilate minacce della Fiat di lasciare la produzione in Polonia non scalfiscono il segretario Fiom: “Ognuno si assuma le proprie responsabilità – dice Landini – noi siamo pronti ad assumerci le nostre”.

Insomma, Landini che aveva inaugurato la sua segreteria con una delle trattative più difficili della Fiom si rimette al centro della scena mentre sono costretti a un ruolo da comprimari sia il governo che Fim e Uilm. Che rincorrono da un lato la Fiat, chiedendole di mantenere gli impegni, e dall’altra la stessa Fiom alle cui posizioni replicano con qualche nervosismo: “Si tratta di fregnacce”, dice Raffaele Bonanni della Cisl.

Ma anche nei rapporti con la Cgil le cose un po’ cambiano . Landini non ha voluto alimentare polemiche salvo che con il segretario campano della Cgil, Michele Gravano, che aveva invitato la Fiom a firmare. E preferisce sottolineare l’unità di vedute tra la categoria e la confederazione, dimostrato anche dalla dichiarazione di Susanna Camusso, neo-vicesegretaria generale secondo la quale “il terzo degli operai che ha detto no all’accordo è precisamente quello che dice che i diritti non si cancellano”. Esattamente come dice la Fiom. Ma il referendum rafforza quest’ultima all’interno dell’organizzazione – a nessuno è sfuggita la solidarietà che nella serata del referendum le è giunta dalla Funzione pubblica, appena rientrata nella maggioranza del segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani – e costringe comunque a valutare, come dice Landini, “chi ci ha preso e chi no”. A Epifani potrebbero fischiare le orecchie ma è molto lontano dall’Italia, in Canada, al Congresso Mondiale dell’Ituc, la confederazione internazionale dei sindacati.

il Fatto 24.6.10
Maturità, Del Boca: “Da bocciare 
le scelte della Gelmini sui temi”
Lo storico e saggista critica gli argomenti proposti agli studenti per la prima prova
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/23/temi-di-maturita-da-bocciare-le-scelte-della-gelmini/

il Fatto 24.6.10
In Israele 222 detenuti senza motivo
“Una violazione dei diritti umani”
Detenuti amministrativi, i fantasmi di Israele “Un massacro mentale contro i diritti umani”
Il caso è stato sollevato dalla Ong israeliana B'Tselem. Per il governo questa misura detentiva viene usata quando non c'è “alternativa”
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/21/detenuti-amministrativi-i-fantasmi-di-israele-un-massacro-mentale-contro-i-diritti-umani/

il Fatto 24.6.10
Post indignato
di Piergiorgio Odifreddi
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/20/post-indignato/

Repubblica 24.6.10
Despoti e dittatori che umiliano la democrazia
di E.L. Doctorow

La preghiera laica dello scrittore americano E.L. Doctorow in difesa della Dichiarazione universale proclamata dall´Onu nel 1948
Da quando quel documento è stato promulgato, sono stati uccisi dai 13 ai 14 milioni di persone in operazioni di genocidio e di repressione
I massacri sono un infernale ghigno di disprezzo verso la presunzione umana di essere qualcosa di più che un ammasso di carne e sangue

E.L. DOCTOROW
Secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, così com´è stata ratificata dall´Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, tutti gli individui possiedono in quanto tali un valore e una dignità, e devono essergli riconosciuti diritti uguali e inalienabili in quanto membri della famiglia umana... il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona... il diritto a non essere tenuti in schiavitù o sottoposti a tortura... il diritto a non essere arbitrariamente detenuti o arrestati... il diritto alla libertà di espressione e di opinione... il diritto di procurarsi un´istruzione... il diritto di praticare una religione... di riunirsi pacificamente, di sposarsi per libero consenso, di avere proprietà personali, di ricevere eguale retribuzione per eguale lavoro, di aderire a un sindacato, di essere proprietari delle rispettive creazioni intellettuali e artistiche.
Anche se giuridicamente non sono vincolanti, questi Diritti Umani Dichiarati si dimostrano una scomodità per i governi. Chi sostiene il diritto a riunirsi pacificamente va abbattuto con le armi se sfila in corteo per protestare contro le elezioni truccate, i giornalisti che sostengono il diritto alla libertà di espressione vanno incarcerati o assassinati e le loro rotative distrutte, le donne che vogliono un´istruzione vanno malmenate o riconsegnate ai mariti, ai lavoratori che scioperano bisogna rispondere coi lacrimogeni e i manganelli, e laddove vengono utilizzate la tortura e la detenzione senza processo, si tratta di un espediente necessario.
Inoltre, ad alcune nazioni membre dell´Onu è parso doveroso rifiutare con fermezza l´interferenza esterna in questioni strettamente interne. E dunque, a partire dalla ratifica della Dichiarazione dei Diritti Umani nel 1948, fra i 13 e i 14 milioni di persone con un loro valore e una loro dignità sono state uccise in tutto il mondo in operazioni di genocidio o repressione politica.
Fra i paesi che hanno diligentemente contribuito a raggiungere questa cifra da Olocausto ci sono il Sudan, la Cambogia, la Cina, il Vietnam del Sud, l´Iraq, l´Iran, l´Algeria, il Ruanda, il Congo, il Burundi, l´Indonesia, il Guatemala, il Pakistan, l´Uganda, la Nigeria, il Cile, l´Angola, l´Argentina, l´Afghanistan, El Salvador, la Siria, la Serbia, l´Etiopia.
Quando esaminiamo gli assassinii da prima pagina degli ultimi sessant´anni, i dittatori, i despoti, gli autori di omicidi tribali, i generali, i colonnelli, i ministri della giustizia e i rivoluzionari che hanno posto fine a quelle vite e annientato quelle anime... quando riflettiamo sui torturatori delle repubbliche delle banane, i tiranni delle isole dei Caraibi e del Pacifico, gli ideologi sociopatici dell´Asia, i massacratori africani e i criminali autori della pulizia etnica nei Balcani, e se per buona misura ci aggiungiamo tutti i loro consiglieri, fiancheggiatori, banchieri, fornitori di armi, intermediari di affari e politologi provenienti dall´Occidente democratico... ci rendiamo conto che in quanto individui anch´essi sono membri della famiglia umana che pretendono di essere considerati persone con un valore e una dignità.
E dunque ne possiamo trarre le seguenti conclusioni: Recitare gli articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani significa recitare una sorta di preghiera. La preghiera è cautamente indirizzata a Dio in quanto Dio di tutti. Le nostre religioni vengono facilmente politicizzate. Chi brandisce il machete, chi colpisce col manganello, chi spara con l´ak47, uccide con la convinzione di essere nel giusto.
La desacralizzazione dell´umanità compiuta dagli autori dei genocidi rappresenta una terribile umiliazione della nostra specie. Togliere la vita a masse di esseri umani significa togliergli anche l´identità, al punto che la morte di una persona non sembra più rilevante di quella di una formica in un formicaio. I massacri rappresentano un infernale ghigno di disprezzo nei confronti di tutta la presunzione umana: dell´idea di essere qualcosa di più che un ammasso di carne, sangue e ossa. Tanto che tutti noi, credenti o scettici, tremiamo nel contemplare questo dominio del nichilismo. C´è qualcosa di simile allo stesso Satana nello spettro degli innumerevoli cadaveri gettati, di generazione in generazione, in una fossa di profondità abissale.
Non è stato un insieme di istituzioni religiose a proporre la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani per quanto molti dei suoi firmatari abbiano poi defezionato. Possiamo fare commenti sconfortati su questo documento dell´Onu, ma resta il fatto che, a partire dall´eredità morale lasciataci dai testi sacri di migliaia di anni fa, i rari progressi etici della razza umana non sono venuti da iniziative religiose, ma laiche. Uno di questi è il concetto di democrazia, con le libertà che ne derivano. Un altro è la percezione della terra come un ambiente passibile di distruzione. Un altro ancora è il tribunale internazionale per i crimini di guerra. Così come questa Dichiarazione concepita a livello internazionale.
Nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si profetizza che in futuro questa civiltà diventerà finalmente civile, che la propensione omicida della nostra specie, questo gene malato, questa proteina tossica che da sempre ci tormenta e nutre la terra delle nostre ossa, un giorno forse verrà rimossa dal nostro Dna. Agli ateniesi c´è voluto più di un secolo per inventare la loro democrazia. Questo accadeva mezzo millennio prima di Cristo. I primi segni di democrazia in Occidente apparvero solo con la Magna Carta del 1215, e poi, dopo altri quattrocento anni, in documenti come il Mayflower Compact dei Padri Pellegrini. Il concetto arrivò a caratterizzare gli stati nazionali solo verso la fine del Settecento. Dunque, i grandi progressi morali richiedono un tempo sovrumano, e la preghiera implicita nella Dichiarazione Universale è che ce ne sia abbastanza, di tempo, prima che la negazione dei diritti umani universali si traduca nella distruzione del pianeta.
Traduzione di Martina Testa

Repubblica 24.6.10
Simona Argentieri parla del suo nuovo libro "A qualcuno piace uguale"
Se l'omosessualità non è un destino
di Luciana Sica

L'analista affronta un tema poco trattato: la scelta, a un certo punto della vita, dopo "normali" relazioni eterosessuali, di fare coppia con un partner dello stesso sesso

Piccolo gioco cinefilo, alludendo a quel film di Billy Wilder - A qualcuno piace caldo - dove saggiamente si dichiara: "nessuno è perfetto!", A qualcuno piace uguale è il titolo scelto da Simona Argentieri per il suo nuovo libro in uscita nelle "Vele" di Einaudi (pagg. 132, euro 10). Da sempre provvista di un suo tic per il cinema, la nota psicoanalista è qui molto critica con i vecchi pregiudizi che colpiscono gli omosessuali, ma anche allergica al nuovo conformismo del "politicamente corretto" che tende a banalizzare e soprattutto a dissimulare certe forme più o meno sottili di rifiuto.
Le pagine di A qualcuno piace uguale scorrono veloci, chiare e ben scritte: tutt´altro che rassicuranti, però. «Ammettere che nessuno è perfetto non equivale a dire che tutto va ugualmente bene»: in linea di massima, l´autrice trova molto sospetta l´assenza di "problematizzazione" quando si parla di sessualità in generale, e di omosessualità in particolare.
Il suo è uno sguardo preoccupato sull´incapacità di amare, come spia di patologia, sintomo diffusissimo ma estraneo alle inclinazioni sessuali. E sulla tendenza a proclamare pari dignità per ogni bizzarria, ogni combinazione sentimentale ed erotica: nulla sembra proibito e tutto possibile, anche che a un certo punto della vita si scopra un gusto erotico diverso e si scelga un partner dello stesso sesso. Capita, anzi l´impressione è che capiti sempre più di frequente.
Non solo di questo tema - poco trattato - scrive l´Argentieri nel suo libro, e senza l´ingenuità di sbandierare una qualche certezza, convinta che le generalizzazioni siano sempre improbabili e nel caso del "viraggio" quasi impossibili: «Nel passaggio all´omosessualità, bisognerebbe innanzitutto valutare quale fosse l´assetto della relazione eterosessuale nella prima parte della vita... Non a caso Freud parlava di "sacrifici pulsionali", della rinuncia a una parte di sé».
Oggi molti analisti - di diversi orientamenti teorici - si chiedono soprattutto quanto contano le pressioni culturali al bisogno di adattamento sociale, se non sono un elemento decisivo nella formazione complessiva del soggetto. Che la scelta eterosessuale possa essere conformista, mortificante per la parte passionale dell´erotismo, e l´incontro omosessuale consentire finalmente un´espressione autentica del desiderio, l´Argentieri non lo esclude: «Credo che la minore rigidità delle strutture psicologiche dei nostri giorni permetta davvero in qualche caso una riorganizzazione intrapsichica della propria struttura e una pienezza inedita di emozioni, affetti, passioni».
Se però è declinata al femminile, a volte la scelta omosessuale somiglia a un rimedio alla solitudine, a un ripiegamento su una sorta di amicizia amorosa. In questi rapporti - dice l´Argentieri - la componente passionale non è il primo motore: «Sono le circostanze ambientali e culturali, i fattori di realtà che hanno il loro peso, come una raggiunta autonomia economica, l´aver già realizzato il desiderio di avere figli, magari la delusione nei confronti dell´altro sesso o la valutazione realistica delle opportunità che offre la vita. Una donna non giovanissima può non trovare facilmente un partner etero, mentre in una relazione omosessuale l´aspetto anagrafico non è così determinante».
Dal suo punto di vista, più problematici sembrano gli uomini che, dopo aver fatto coppia con una o più donne, preferiscono apertamente un partner dello stesso sesso: «Sono uomini - anche secondo l´esperienza clinica - che per un lungo tratto della vita "non scelgono", e sono tutt´altro da invidiare perché in genere soffrono e fanno soffrire, vittime di complicazioni e tormenti, artefici di piccoli inferni nella vita quotidiana. Qui le due parti spesso sono scisse: quella eterosessuale si è organizzata in un rapporto stabile mentre quella omosessuale viene vissuta in modo anonimo e furtivo. Se invece le due "quote" si integrano, la sessualità diventa legame, oltre che piacere, e un uomo può orientarsi decisamente alla compagnia di un altro uomo».
Tenendo conto di tanta varietà nella declinazione dei generi, c´è da chiedersi cosa dica oggi la parola "omosessuale": «Non dice proprio niente, è un concetto di poco spessore che non ci dà nessuna informazione sull´organizzazione psicologica di un soggetto. Dietro questa etichetta può esserci davvero di tutto, dalla nevrosi alla perversione, dall´inibizione alla più banale normalità... Gli omosessuali sono fin troppo simili agli eterosessuali, e se proprio sono "diversi", lo sono tra loro».
Senza temere certi cliché, l´Argentieri osa difendere «lo stare in coppia» come una risorsa, un esercizio di conoscenza, una fonte di intimità. Non sottovaluta però le difficoltà profonde di qualunque relazione stabile, insistendo sul problema di riconoscere e tollerare la diversità dell´altro - senza odiarlo.
«In un primo momento dell´attrazione amorosa ci può essere l´illusione che stare con una persona dello stesso sesso sia facilitante, ma ben presto si comprende che la somiglianza anatomica è solo l´aspetto più superficiale del mistero dell´alterità. La psicoanalisi non può rinunciare a interrogarsi sulla qualità dei rapporti che riusciamo a costruire... È anche vero che chi è felice ha sempre ragione: ma questo l´ha scritto Tolstoj, non Freud».

Repubblica 24.6.10
Gli accademici: "Senza finanziamenti, costretti alla questua"
Il grido d'allarme della Crusca

La presidente Maraschio: "In queste condizioni non possiamo programmare nulla"

FIRENZE. È un grido quel foglio. «Gli accademici della Crusca e i soci corrispondenti italiani e stranieri denunciano le condizioni di assoluta precarietà economico-finanziaria dell´istituzione». Seguono quarantasette firme di intellettuali, ricercatori, linguisti fra cui Angelo Stella, Domenico De Robertis, Maria Luisa Altieri Biagi, Maurizio Dardano, Tullio De Mauro e via via tutti gli altri. L´Accademia che ha creato il primo vocabolario del mondo, che è stata dal 1583 il motore di una coscienza linguistica nel paese e che sul suo esempio ha fatto nascere altre storiche accademie in Francia, Spagna e Germania, annaspa nelle incertezze del presente e vede, davanti, un orizzonte sempre più ristretto.
«Per funzionare ci serve un milione di euro e soprattutto una legge che ci riconosca come ente di tutela e valorizzazione della lingua garantendoci una stabilità di risorse che oggi non abbiamo», spiega la presidente Nicoletta Maraschio. Oggi arrivano, come contributo dal Ministero dei Beni Culturali, 190mila euro e altri 50mila dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana: «Ma soltanto per pagare il personale e per il mantenimento della villa medicea di Castello sede dell´Accademia se ne vanno 400mila euro. In queste condizioni non possiamo programmare niente, non possiamo nemmeno acquistare i libri che ci servono e ogni anno è una questua da questa o quella associazione per racimolare soldi e finanziare i progetti di ricerca». Così non si va avanti, dicono gli accademici, da qui l´appello presentato a Palazzo Vecchio con l´assessore alla cultura di Firenze, Giuliano da Empoli che aggiunge: «È straziante che una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo sia costretta di Finanziaria in Finanziaria, a lottare per la sua sopravvivenza quando all´estero c´è una grande domanda di italiano visto che è la quarta o quinta lingua straniera più studiata». Scuote il capo Tullio De Mauro, appena entrato come ordinario nella Crusca: «Gran parte della classe dirigente italiana, compreso l´attuale governo, non considera una priorità investire nella cultura. È così anche per l´università e per la ricerca». Eppure gli studi sulla lingua italiana, sul suo sviluppo e sulla contaminazione, possono aiutarci a capire i fenomeni complessi che avvengono intorno a noi: «Le parole sono perimetri concettuali», ha ricordato la docente bolognese Maria Luisa Altieri Biagi. Se ci fossero finanziamenti adeguati, l´Accademia potrebbe sviluppare alcuni servizi come per esempio lo sportello di consulenza linguistica oppure, ha aggiunto Tullio De Mauro «potrebbe realizzare un nuovo dizionario della lingua contemporanea di cui avremmo sicuramente bisogno, con una descrizione accurata degli usi di migliaia e migliaia di parole che circolano nei testi migliori redatti nella nostra lingua».