sabato 13 febbraio 2010

Repubblica 13.2.10
Domani incontro al femminile per la sfida nel Lazio. Tra le supporter anche Marchini e Finocchiaro
Il tifo di Mannoia, Filippi e Fendi la campagna della Bonino parte in rosa
di Chiara Righetti

ROMA - Poetesse, sportive, imprenditrici. Da Alessia Filippi a Piera Degli Esposti, da Fiorella Mannoia a Franca Valeri, sono diverse per età, storia personale, convinzioni le donne che hanno risposto alla chiamata di Emma Bonino. Un valore aggiunto che lei sottolinea, quando assicura che quella con la Polverini «sarà una sfida non volgare o insultante. Ma appassionante sì. Perché le differenze ci sono: a me è piaciuto iniziare la mia campagna al femminile». E aggiunge: «Mi daranno della vetero-femminista. Ma se il nuovo è quello che vediamo, ben venga se c´è qualcosa di antico».
Domattina a Roma, nella sala Umberto di via della Mercede, la voce narrante sarà quella di Daniela Poggi. Molti i volti noti sul palco e in platea. Quattro testimonial hanno affidato il loro sostegno ad un video: Simona Marchini, Alessia Filippi, la stilista Anna Fendi e la capogruppo Pd in Senato Anna Finocchiaro. In sala ci saranno, certo, politiche: parlamentari, assessore, consigliere. Ma anche molte rappresentanti della società civile. Forti delle loro battaglie, scelte in rappresentanza dei temi su cui la Bonino gioca il suo impegno per elezioni che - ha spiegato ieri mentre il Pd romano si spellava in applausi - saranno «più che mai politiche». Attesa quindi Elsa Marsili, mamma di un ragazzo disabile e fondatrice del centro "Insieme Uguali", ma anche Nadia Cerioli che porterà la voce dei precari dell´Ispra, e la docente universitaria Jacqueline Risset. E ancora: Margherita Granbassi, Luisa Rizzitelli, presidente del sindacato delle atlete, Marinella D´Innocenzo, che dirige l´Ares 118. E gli organizzatori danno per certo che ci saranno, un po´ defilate, anche diverse religiose, che pur se lontano dai riflettori hanno assicurato che non faranno mancare il loro appoggio.
Quanto al mondo della cultura l´elenco è davvero lunghissimo: l´attrice Giuliana Calandra e la poetessa Gemma Bracco, la scrittrice Ippolita Avalli e la regista Giovanna Gagliardo. Diverse le biografie, comune l´impegno per pari opportunità e diritti civili. Ecco quindi Donatella Maiorca, regista del discusso "Viola di mare", storia d´amore fra due donne nella Sicilia dell´800, a fianco di Lorella Zanardo, che ha raccontato in un documentario l´uso mercificato del corpo delle donne.
Intanto la sfida elettorale entra nel vivo: oggi Emma sarà a Fondi, il Comune pontino sciolto per infiltrazione mafiosa. Nei prossimi giorni due appuntamenti con Bersani, con cui mercoledì pomeriggio incontrerà i lavoratori dell´Acea. E il 22 il segretario del Pd sarà allo Spazio Eventi per presentare i candidati governatori del centrosinistra.

Corriere della Sera Roma 13.2.10
Pdl e Pd il giorno delle accuse rosa
di Alssandro Capponi
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l’Unità 13.2.10
Quando la scienza viene ignorata
Eluana e i cavalieri del miracolo
di Maurizio Mori

Al tempo della rivoluzione astronomica erano gli aristotelici che si rifiutavano di guardare nel cannocchiale di Galileo. Oggi, al tempo della rivoluzione bioetica, sono i vitalisti che si rifiutano di considerare i risultati dell’autopsia di Eluana, che ha confermato la distruzione dei centri nervosi necessari per provare dolore. Infatti, il direttore di Avvenire (9 febbraio, prima pagina) continua a scrivere della «dolorosissima morte di Eluana Englaro “per disidratazione”, cioè per sete – così ha certificato l’autopsia» – dove l’ultima clausola prova la faziosità nel dare informazione.
Un tempo i cattolici aristotelici dicevano chiaramente che la scienza era una diavoleria, oggi i cattolici vitalisti preferiscono farle un omaggio formale, per poi usare la retorica per riproporre la sana semplicità del vitalismo prescientifico contrapponendola ai «digrignanti sofismi» di chi dubita o nega le cose «così chiare» che sono «dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte». Proprio come con Galileo, accusato di fare astrusi ragionamenti per negare il fatto più semplice del mondo: che il Sole gira intorno alla Terra! Proprio non cambia nulla ...
Più specificamente si afferma che «amare la vita umana, difenderla, sostenerla e comunque e sempre accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene naturale». Parole che sembrano piane e condivisibili ma che in realtà sono fuorvianti, perché la scienza ha scomposto la “vita umana” cosicché chi è in Stato Vegetativo Permanente non tornerà mai più tra noi. Riproporre l’irenica semplicità del passato ora che le condizioni sono radicalmente mutate diventa un inaccettabile semplicismo che può avere effetti malvagi, perché si bolla subito come debole (o depravato) chi non riesce o non vuole fare la cosa che dapprima è presentata come la cosa che «viene naturale» e poi diventa però una «durissima prova», la quale è sopportata dalle famiglie coraggiose che capiscono che «l’amore aiuta i “miracoli”».
Ma insistere sul “miracolo” nel caso del Vegetativo Permanente è spargere illusioni e false speranze in impossibili ritorni. Dire poi che ora le macchine di Liegi trovano «la vita (spirituale o personale) anche nei “vegetativi”» è una forma di materialismo radicale che mostra i paralogismi cui porta il continuare a sostenere l’ormai obsoleto vitalismo.
È vero che i vitalisti sono ancora molti nonostante la dottrina sia ormai obsoleta. Le grandi svolte storiche richiedono tempo: la Chiesa ha impiegato 400 anni per riconoscere di aver sbagliato con Galileo. E molta gente continua a credere agli oroscopi, ai riti vodoo, alle nascite verginali e a tanti altri miti dipendenti da visioni obsolete. «È più facile spezzare l’atomo che un pregiudizio!». ❖

l’Unità 13.2.10
Il coraggio di cambiare le cose
La grande lezione di Basaglia: volere la luna
di Livio Pepino

Tra i meriti della bella fiction televisiva di Marco Turco dedicata a Franco Basaglia c’è il rilancio di una prospettiva che sembra passata di moda, anche a sinistra: quella del cambiamento (della sua possibilità e della sua necessità). Il messaggio vale per tutti: anche per chi quella prospettiva ha coltivato e praticato.
Nel 1979, a poco più di un anno dalla riforma che porta il suo nome, Basaglia, in un intervento che può essere letto in Conferenze brasiliane, disse parole allora sorprendenti: «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare». Oggi da quelle parole profetiche occorre ripartire. Sapendo che il cambiamento è possibile. Anche in una stagione difficile come quella che stiamo attraversando. Purché continuiamo a “volere, ostinatamente, la luna”.
Anni prima, mentre si preparava la chiusura dei manicomi, nasceva Psichiatria democratica e cominciava a dipanarsi una vicenda parallela, un’altra scommessa giocata sul crinale della trasformazione del sistema istituzionale in senso ugualitario. Riguardava, questa vicenda, la giustizia, la cui trasformazione cominciò ad essere considerata una possibilità reale e non «una nuova utopia per consentirci di sopportare il tipo di vita che siamo costretti a vivere» (per usare, ancora, parole di Basaglia). Era la vicenda di Magistratura democratica, che qualche anno dopo Giuseppe Borrè avrebbe sintetizzato in questi termini: «Perché è nata Md? Personalizzando un po’ potrei dire: perché sono entrato in Md? Credo che la risposta stia nello stretto e indissolubile intreccio di due ragioni complementari. Da un lato, il rifiuto del conformismo, come gerarchia, come logica di carriera, come giurisprudenza imposta dall’alto, in una parola come passività culturale; dall’altro, il sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti, e sentirsi “da questa parte” come giuristi, con le risorse e gli strumenti propri dei giuristi».
Sono passati gli anni. Con alti e bassi. Da ultimo, prevalgono i bassi. Ma, anzitutto, siamo ancora qui, Magistratura democratica e Psichiatria democratica e molti altri. E, poi, conosciamo la strada. L’importante è continuare a percorrerla, incuranti degli inviti al realismo di troppi “cattivi maestri”. ❖

Corriere della Sera 13.2.10
I malati di mente senza assistenza
di Mario Pappagallo
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l’Unità 13.2.10
Il bidone della scuola
La chiamano riforma ma si tratta di omicidio: lo dice un preside, lo pensano gli studenti. Intanto Sarkozy per uscire dalla crisi rafforza le universita
di Claudio Fava

Mettiamo che tra voi lettori ci sia un giovanotto da poco laureato in Lingue e Letterature straniere con un voto generoso, diciamo tra il 105 e il 110. Mettiamo ancora che conosca perfettamente inglese e francese, che abbia un diploma post laurea come esperto bibliotecario e che possa contare su una congrua esperienza maturata nell’organizzazione dei fondi bibliotecari. Mettiamo infine che abbia perfette conoscenze di biblioteconomia, bibliografia e storia delle biblioteche. E naturalmente che sappia usare tutti i programmi informatici necessari. Bene, se qualcuno di voi possiede questi titoli potrà partecipare a un concorso per la gestione della biblioteca della facoltà di Lingue con sede a Ragusa. Se i titoli verranno ritenuti idonei, se avrà sbaragliato la concorrenza e se supererà il colloquio d’ammissione, otterrà un incarico per sei mesi, dietro un compenso lordo complessivo di cento euro. Che, tolte le tasse, fa 13 euro al mese. Più o meno dieci centesimi di euro l’ora.
Il bando sta nel sito dell’Università di Catania, numero di riferimento 458. E non è storia isolata. Quando il ministro Brunetta parla dei bamboccioni che invece di andare a faticare vivono appesi alle gonne delle mamme, quando allude a un paese di pigri e imbelli, dovremmo chiedergli se il governo di cui è ministro è lo stesso che ospita la signora Gelmini. E se anche lui, Brunetta, ha condiviso i colpi di mannaia che il suo governo ha vibrato contro l’università e la ricerca. Qualche cifra? La sforbiciata al Fondo per il finanziamento ordinario delle università, operata dalla Finanziaria per il 2009, registra un taglio progressivo dai 702 milioni di euro nel 2010 agli 835 milioni di euro nel 2011. Il programma sistema universitario e formazione post-universitaria perde in un solo anno un miliardo e seicentoquarantasei milioni di euro. I fondi per borse di studio, i prestiti d’onore, i contributi per alloggi, residenze universitari e attività sportiva diminuiscono del 60%.
La ministra dice che i tagli servono a colpire gli sprechi, le cattedre inutili, i corsi fantasma, le aree di parcheggio universitario. Giusto. Peccato che queste sforbiciate abbiamo invece risparmiato le baronie, i califfati, le sacche di potere clientelare che si sono costruite all’ombra dei senati accademici nel corso dei lustri. Alla fine chi pagherà pegno sarà il laureato con titoli, eccellenze ed esperienza che si vedrà offrire tredici euro al mese per gestire una biblioteca universitaria. Non è né una riforma né una controriforma, commentava un preside di facoltà: è un omicidio che ha per vittima l’università e la ricerca.
Quando Sarkozy, presidente gollista, ha vinto le elezioni, il primo provvedimento che ha imposto al suo esecutivo è stato uno stanziamento ulteriore per la ricerca scientifica e l’università francese, un miliardo e settecento milioni in più. Il ragionamento suo e degli altri leader politici europei, di destra o di sinistra poco importa, è che un’uscita dalla crisi passa anche attraverso un investimento sulla qualità del nostro sapere, sugli strumenti cognitivi che metteremo a disposizione dei bamboccioni, su una ricerca scientifica adeguata a un tempo e a un mondo in cui crisi finanziaria e devastazione ambientale richiedono contromisure strutturali. E dove pensi di costruirle, queste contromisure, se non investendo nell’università, in un sapere applicato alle cose vere e concrete del mondo? Dove nasce la green economy, attorno alle macchinette del caffè alla Borsa di Milano o nelle aule universitarie che cercano e ricercano, sperimentano e inventano?
Noi invece i tagli preferiamo farli sulla pelle di quei ragazzi. Tredici euro al mese, e ringrazia che te li diamo. Altrimenti ti tocca fare come certi amici miei, eterni professori in attesa di cattedra, che per fare un po’ di punteggio sperando in una supplenza, vanno a lavorare gratis nelle scuole private. Alla fine del mese si troveranno una busta paga compilata alla perfezione, stipendio ministeriale, tredicesime, assegni familiari, ferie non godute, spese d’aggiornamento professionale, scatti d’anzianità, contributi, straordinario... ogni cifra al posto giusto. Peccato che dentro non ci sia un centesimo. Una patacca. Questo è un paese di patacche. Non contano le cose, ma il modo in cui si dicono o si vendono. Il bando di concorso per quell’incarico da tredici euro al mese ha lo stesso linguaggio alto e perentorio dei bandi di gara della Nasa. Loro vanno sulla luna, noi restiamo qui, a casa: a chiederci, leggendo di Bertolaso, quale sia la differenza tecnica tra l’andare a puttane con i soldi degli italiani e un massaggio privato per combattere lo stress. ❖

l’Unità 13.2.10
Primo Marzo
Che giorno, quel giorno Partecipiamo, per capire cosa saremmo senza loro

Mancano poco più di 15 giorni al 1 marzo, quando si punteranno i riflettori sulla condizione degli immigrati in Italia. Nell’idea degli organizzatori, la giornata dovrebbe essere un’occasione di riflessione sul ruolo sociale, economico e culturale degli immigrati nelle famiglie, nelle aziende, nelle scuole, nelle relazioni interpersonali. Una riflessione su cosa sarebbe il Paese senza di loro e su cosa poter fare perché cresca la consapevolezza da parte dei residenti di quanto la presenza straniera possa costituire un fattore di progresso.
Giorno dopo giorno, l’organizzazione di questa iniziativa si è arricchita di adesioni da parte di associazioni di italiani e di stranieri su tutto il territorio nazionale. Forse per la prima volta, insieme italiani e stranieri.
Dai dibattiti ai pranzi per la raccolta di fondi agli incontri con le comunità straniere. Da Palermo a Bolzano, da Roma a Monza, da Milano a Genova, da Sassari a Trino: sono ormai decine le città italiane coinvolte nell’iniziativa e in ognuna di esse si moltiplicano gli incontri di preparazione per quella giornata. Il calendario delle singole iniziative è disponibile sui siti primomarzo2010.it e su italiarazzismo.it, dove troverete anche l’elenco delle associazioni che hanno già aderito, la descrizione delle diverse forme di appoggio decise da alcuni sindacati, la mappa dei comitati locali che continuano a formarsi e tutti i dati utili per contribuire alla realizzazione di questa iniziativa.
L’invito è quello di partecipare, ciascuno nei modi che riterrà più opportuni, recandosi a un incontro, parlando con un lavoratore straniero, compiendo un atto di amicizia nei loro confronti. Ah, a proposito: il colore di quella giornata è il giallo.

Repubblica 13.2.10
Martin Walser "Vi racconto l’ultimo amore di Goethe"

A 73 anni, Goethe s´innamorò della diciannovenne Ulrike von Levetzov, conosciuta nella cittadina termale di Marienbad. Lo scandalo provocato dalla grande differenza di età non lo trattenne dal chiederne la mano, incaricando di farlo per suo conto l´amico e protettore Karl August di Sassonia-Weimar. Questa storia di amore e passione del grande poeta tedesco, che su quell´incontro scrisse la sublime Marienbader Elegie, è il tema dell´ultimo romanzo di Martin Walser, 83 anni, ed è subito chiaro che lo scrittore racconta Goethe e allo stesso tempo se stesso.
Che cosa l´affascina negli amori in cui c´è una grande differenza di età?
«Ho scritto quattro romanzi su questo tema, ma in un caso era la donna anziana ad amare un giovane uomo. E in quel caso i critici, parlo soprattutto di critici donne, furono benevole, apprezzarono molto. Parlo delle stesse che poi hanno stroncato i romanzi dove il più vecchio era l´uomo con parole che non si dimenticano: "moralmente, biologicamente e esteticamente inammissibile", hanno scritto. È così che ho finito per scrivere questo romanzo, dove la differenza di età è perfino superiore a tutto ciò che avevo scritto in precedenza, ma il protagonista è Goethe, e perciò i critici hanno taciuto, anzi hanno lodato, e questo me lo lasci dire, è un po´ strano: con Goethe ve bene ciò che con gli altri protagonisti dei miei romanzi era scandaloso. Comunque le garantisco che il tema ora per me è chiuso. Oltre Goethe e Ulrike non si va».
Walser è quello che i tedeschi chiamano un Rechtshaber. Non rinuncerebbe mai a una polemica. Come Michael Kohlhaas, protagonista di una famosa novella di Kleist, finirebbe sulla forca piuttosto che spostarsi dalle proprie posizioni. Per sua fortuna invece che sulla forca la vis polemica lo ha portato a scrivere il suo più bel romanzo, Un uomo che ama.
Ma ancora non ci ha spiegato il fascino di questi amori...
«È quello di essere amori infelici. Né potrebbe essere diversamente quando c´è una grande differenza di età. L´evidente disposizione all´infelicità e il fatto che tuttavia accadano è ciò che li rende degni di essere raccontati. Una storia d´amore riuscita è noiosa. Per me poi c´era anche un altro interesse, quello di misurarmi con le famose parole di Goethe secondo cui l´arte permette sempre di superare il dolore. Scrivendo si può venire a capo di passioni, tormenti, sofferenze. È questo il tema del suo ultimo grande romanzo, Wilhelm Meisters Wanderjahre (Gli anni del pellegrinaggio di Wilhelm Meister). Questa espressione culturale del classicismo tedesco è però assolutamente falsa. Perciò m´interessava smentirla. Il mio è un Goethe che soffre. Così è nella realtà. Mentre si scrive ci si sente forti, ma non appena finito di scrivere siamo deboli come prima».
Quando sono i veri momenti di felicità per Goethe?
«Con Ulrike ha molti momenti di felicità, per esempio si parlano e lui ha l´impressione di non aver mai potuto parlare con qualcuno come con Ulrike. È felice, ma la felicità non dura. In tedesco esiste la parola Ungluecksglueck, nessuna felicità è pura felicità».
L´amore è il più grande mistero della vita, canta Salome nell´opera di Strauss. Altri dicono la morte. Quale dei due misteri la occupa di più in questo momento?
«Morte è una parola di cui non ho esperienza. Della parola morire ne ho di più, nel senso che tutto quello che si può dire sulla realtà del morire è assolutamente sbagliato. Nessuno si prepara a morire, anche se ognuno di noi da una certa età in poi fa finta di farlo. Ho visto morire mia madre, che era una cattolica fervente, ma la fede non l´ha aiutata per niente. Morire è stato brutale per le come per un non credente».
Lei è religioso?
«Sto lavorando in questo momento a un libro dal titolo Muttersohn, figlio di madre: il protagonista è uno cui la madre è riuscita a far credere che per la sua procreazione non c´è stato bisogno di un uomo. L´azione si svolge a Roma, l´uomo va a vedere la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, un suo antenato aveva scritto un libriccino sul fatto che le reliquie non devono essere necessariamente vere per operare miracoli, basta che ci si creda. Crediamo sempre molto di più di quanto sappiamo».
Sua figlia Alissa ha scritto un romanzo, in cui i critici sentono "il tono letterario del padre", il famoso Walser sound. Che effetto le fa?
«Il sound del padre, che stupidaggini».
E a proposito di figli, lei si è rifiutato di commentare le recenti dichiarazioni di Jakob Augstein, il quale ha rivelato di essere in realtà figlio suo e non del famoso giornalista e fondatore dello Spiegel. Le sarebbe piaciuto fare l´esperienza di crescere un figlio maschio?
«No per carità. Sono felice di aver avuto quattro figlie e credo che questo abbia attenuato ogni possibile conflitto. In un´intervista con un giornale Alissa ha detto di recente: "Sono contenta di non essere un figlio", e credo che abbia perfettamente ragione».

l’Unità 13.2.10
La foto più bella dell’anno? L’ha scattata un italiano a Teheran

«Ero chiuso in casa: troppo pericoloso uscire. Ma ogni sera, dai tetti delle case saliva la protesta contro il regime: ho voluto documentare le emozioni, le paure, ma anche la speranza della gente di Teheran». Pietro Masturzo è l’autore dello scatto che ha vinto il World Press Photo nella categoria «Foto dell’Anno», e spiega così come è nata l’istantanea che lo ha collocato sul podio più alto del premio di fotogiornalismo più prestigioso al mondo. La foto premiata , scattata in seguito alle presidenziali iraniane del 12 gennaio, raffigura alcune donne che sui tetti delle case di Teheran continuano a gridare la loro protesta. Masturzo, appena trentenne, da soli tre anni avviato nella professione di fotografo freelance, appena arrivato in Iran è stato arrestato: «Mi avevano visto scattare foto durante le manifestazioni dei sostenitori di Moussavi e fui arrestato perchè ero entrato con il solo visto turistico».

venerdì 12 febbraio 2010

Repubblica 31.12.09
Il dottor Hester la signora Anna e l'elogio della follia
di Oliver Sacks

QUANDO udiamo la parola "manicomio", siamo portati a pensare a posti orribili, fosse di serpenti straboccanti di squallore, miseria, brutalità. La maggior parte è oggi chiusa e abbandonata. Ricordiamo con un brivido di terrore quei poveretti che un tempo erano costretti a vivere in simili posti. È dunque salutare ascoltare la voce di una paziente, una certa Anna Agnew, giudicata malata di mente nel 1878 - da un giudice, non da un medico - e rinchiusa nell' Ospedale per malati di mente dell' Indiana. Anna venne ospedalizzata dopo diversi tentativi di uccidere se stessae uno dei suoi figli. Anna si sentì sollevata quando le porte dell' ospedale si chiusero dietro di leie trasse sollievo dal fatto che la sua malattia era stata riconosciuta. Come lei stessa lasciò scritto: «Dopo solo una settimana di soggiorno nell' ospedale, avvertivo un senso di appagamento quale non sentivo da più di un anno. Non perché mi fossi riconciliata con la vita, ma perché avevano capito il mio stato mentale, ed ero trattata di conseguenza. Ero circondata da altri nelle mie condizioni, turbati e confusi, e mi ritrovai a provare interesse per le loro miserie, il mio senso di simpatia umana si risvegliava. Al tempo stesso, ero trattata come una donna malata, con una gentilezza che nessuno mi aveva mostrato prima di allora. Il dottor Hester fu la prima persona abbastanza gentile da rispondere alla mia domanda: "Sono matta?", "Sì signora. Lei è pazzae molto ...".E continuò: "Ma vogliamo aiutarla in ogni modo, e la nostra speranzaè che questo posto possa farlo"». Il vecchio termine per indicare gli ospedali per malati di mente era in inglese "lunatic asylum", e "asilo", nella sua accezione originaria, significava rifugio, protezione, santuario. A partire dal IV secolo dell' era Cristiana, i monasteri e le chiese erano luoghi d' asilo. A questi si aggiunsero gli asili laici, creati, come Foucault ha suggerito, utilizzando le strutture ormai inutili dei lebbrosari per ospitare gli indigenti,i criminaliei malati di mente. Nel suo famoso libro Asylums, Erving Goffman li classificava tutti- ospedali religiosi e laici, manicomi e ospizi - come "istituzioni totali", luoghi dove la distanza tra il personale e i degenti era immensa, dove rigidi ruoli e altrettanto rigide regole impedivano ogni forma di solidarietà e di simpatia, dove i ricoverati erano privati dell' autonomia, della libertà e della dignità, ridotti a numeri senza volto o identità. Negli Anni 50, quando Goffman conduceva le proprie ricerche presso l' ospedale St. Elizabeth di Washington, le cose stavano proprio così, almeno nella maggior parte dei manicomi. Eppure, non erano queste le finalità che si erano prefissi quei filantropi e bravi cittadini che avevano fondato i primi manicomi in America, tra gli inizi e la metà del XIX secolo. In mancanza di trattamenti specifici per la malattia mentale, il "trattamento morale" veniva visto come l' unica alternativa possibile: ci si occupava dell' individuo nel suo insieme, come espressione di una potenzialità di salute fisica e mentale, e non solo di quella parte del suo cervello che sembrava non funzionare. I primi manicomi statali erano spesso veri e propri palazzi con soffitti alti, finestre grandi e giardini, dove l' aria e la luce non mancavano, si faceva molto esercizio fisico e il vitto era variato. Molti manicomi erano autosufficienti, e coltivavano gran parte delle risorse che consumavano. I pazienti lavoravano spesso nei campi o nelle stalle e il lavoro era considerato come una cruciale forma di terapia, oltre che di sostentamento. Il senso di comunitàe la solidarietà erano importanti, vitali per i pazienti, che si sarebbero altrimenti sentiti isolati nei loro mondi mentali, vittime delle loro ossessioni e allucinazioni. Parimenti cruciale era il riconoscimento e l' accettazione del loro stato da parte del personale e degli altri pazienti. Infine, per tornare al termine originario di "asilo", questi ospedali fornivano ai pazienti controllo e protezione, sia dai loro stessi impulsi (omicidi o suicidi che fossero) sia dal ridicolo, dall' isolamento, dalle aggressioni o dagli abusi che spesso subivano nel mondo esterno. Gli asili fornivano una vita protetta e certo limitata, una vita semplificata e ristretta, ma all' interno della struttura protettiva godevano anche della libertà della loro follia, di attraversare le proprie psicosi ed emergere, a volte, dal baratro come persone più stabili e sane. Col tempo, i manicomi statali divennero piccole città. Pilgrim State, il manicomio di Long Island, ospitava circa 14.000 pazienti. Era inevitabile che i grandi numeri e le scarse risorse facessero allontanare i manicomi statali dagli ideali delle origini. Già alla fine dell' Ottocento erano diventati sinonimo di squallore e abbandono, spesso amministrati da burocrati inetti, sadici e corrotti, una situazione che si è prolungata sino alla metà del XX secolo. Il movimento di anti-istituzionalizzazione dei malati di mente, un rivolo negli Anni 60, divenne un fiume in piena negli Anni 80, anche se era sempre più chiaro che le buone intenzioni stavano creando problemi gravi quanto quelli che intendevano risolvere. In molte città, l' enorme popolazione di "psicotici del marciapiede" era una drammatica dimostrazione di come mancassero cliniche psichiatriche e centri di accoglienza, o infrastrutture capaci di occuparsi delle centinaia di migliaia di pazienti che erano stati allontanati dai manicomi statali. Le medicine antipsicotiche che avevano favorito il processo di deistituzionalizzazione si rivelarono meno miracolose di quanto si fosse sperato. Erano certo in grado di affievolire i cosiddetti sintomi "positivi" della schizofrenia: allucinazioni e deliri psicotici. Ma a poco servivano per porre rimedio ai sintomi "negativi" - l' apatia e la passività, la mancanza di motivazioni e la capacità di rapportarsi agli altri - che spesso erano più pesanti dei sintomi "positivi". Agli inizi degli Anni 90 divenne chiaro a tutti che ci si era sbagliati, che la chiusura dei manicomi era avvenuta troppo in fretta, senza che si fossero attivate strutture alternative. Non c' era bisogno di chiudere tutti i manicomi. Occorreva invece farli funzionare: mettere mano all' affollamento, alla mancanza di personale, porre fine all' abbandono e alla brutalità. L' approccio farmacologico, sia pur necessario, da solo non bastava. Ci eravamo scordati degli aspetti positivi degli "asili", o forse non volevamo più sborsare soldi per tenerli aperti; per dare ai pazienti spazi e senso di comunità, un posto per lavorare e giocare, per apprendere un mestiere e imparare a vivere insieme - quel rifugio sicuro che i manicomi statali delle origini intendevano offrire. Qual è ora la situazione? I manicomi ancora aperti sono pressoché vuoti, e la popolazione dei pazienti consiste essenzialmente di malati cronici che non rispondono più a nessun trattamento farmacologico, o di individui talmente violenti che non possono essere lasciati liberi. La grande maggioranza dei malati di mente vive fuori dalle strutture ospedaliere. Alcuni restano in famiglia e si servono di supporto ambulatoriale nei momenti di crisi, altri vivono in residenze aperte: strutture che garantiscono al paziente una certa libertà e autonomia, pur provvedendo alle necessità terapeutiche. Esistono anche, negli Stati Uniti, delle comunità residenziali che si rifanno in parte alle comunità terapeutiche degli "asili" dell' Ottocento e offrono ai pochi che vi vengono ammessi un' assistenza completa. Ne ho visitate alcune, e ho ritrovato quel che c' era di meglio nei vecchi manicomi statali: un forte senso di solidarietà, delle opportunità di lavoro e spazi di creatività, il rispetto per gli individui. Il tutto unito a quanto di meglio la psicoterapia e i trattamenti farmaceutici possono offrire oggi. Purtroppo, strutture simili sono rare, e possono ospitare qualche centinaia di pazienti, a fronte dei milioni che negli Stati Uniti soffrono di malattie mentali. I pazienti che sono ammessi debbono contare sul supporto finanziario delle famiglie, visto che in media la degenza costa intorno ai 100.000 dollari l' anno. Gli altri - il 99 per cento di malati privi di risorse adeguate - debbono accontentarsi di cure insufficienti e rinunciare al proprio potenziale di vita. L' Alleanza nazionale dei malati di mente fa quel che può, ma i milioni di malati di mente restano ancor oggi la parte più esclusa e la più abbandonata della nostra società. Eppure è chiaro che persino la schizofrenia nonè necessariamente una malattia che inesorabilmente peggiora (anche se ciò può verificarsi). In circostanze ideali, e con risorse adeguate, anche persone molto malate, quelle che vengono classificate come senza speranza, possono vivere una vita produttiva e degna. La versione integrale di questo articolo comparirà nel numero di gennaio 2010 della Rivista dei Libri (Traduzione di Pietro Corsi)

Repubblica Roma 12.2.10
La polemica Alemanno: "Sono d'accordo con Renata". Mazzoli: "Annuncio elettorale". Bonelli: "Una balla atomica"
Polverini: "Il nucleare non ci serve" Bonino: "Poteva dirlo al premier"
di Chiara Righetti

«RITENGO che nel Lazio non ci sia bisogno di nuove centrali». Dopo l'"outing" online sulle coppie di fatto, Renata Polverini sceglie di nuovo il suo blog per far scoppiare, è il caso di dirlo, un'altra "bomba" elettorale. Forse stanca dei manifesti che chiedono "Il Pd dice no al nucleare. E la Polverini?", si affida al suo diario sul web per spiegare: «In tempi rapidissimi il Lazio diventerà energeticamente autosufficiente e in pochi anni andrà in surplus, esportando energia in altre Regioni». Quindi Una presa di posizione, arrivata dopo settimane di "Devo pensarci, stiamo lavorando al programma", che fa esultare un anti-nuclearista della prima ora, il deputato Fabio Rampelli: «Inattaccabile. Nel Lazio non si faranno centrali. Sono così soddisfatti tutti coloro che da venti giorni cercano di provocarla su questo tema». «Scopro adesso che la Polverini non vuole centrali nel Lazio. È fantastico. Poteva dirlo ieri sera a Berlusconi, magari sarebbe stato contento», è la reazione di Emma Bonino. Che aveva denunciato, all'indomani dell'approvazione in consiglio dei ministri del decreto legislativo in materia, «un'operazione opaca e centralista. Una strategia in cui il governo da una parte si guarda bene dal dare, prima delle elezioni, indicazioni sui siti scelti per le centrali. Dall'altra finge di coinvolgere le Regioni, salvo poi scavalcarle». Il tema, in mesi di campagna elettorale per tredici Regioni su venti, è più che mai scottante. Come dimostra l'equilibrismo (solo ieri, a "Repubblica Tv") del sottosegretario con delega all'Energia Stefano Saglia: «Non si fa un impianto di questo tipo se la Regione non è d'accordo». Non ci sta il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, che definisce la presa di posizione della Polverini «una balla atomica». E aggiunge: «Ieri a cena con Berlusconi si dichiarava d'accordo col cavaliere.
Oggi, in evidente difficoltà rispetto all'opinione pubblica, e con un'ipocrisia che rasenta la vergogna, dice no alle centrali nel Lazio».
Mentre «la sua maggioranza vuole il nucleare a tutti i costi ed è ormai certo che la prima centrale sarà a Montalto di Castro». Pure il coordinatore della campagna elettorale Milana rileva la stranezza di un no «comunicato all'indomani della cena con Berlusconi: una volta tanto il premier poteva ascoltare una barzelletta invece di raccontarla». E il segretario regionale Pd Mazzoli fa notare che, «come gran parte dei candidati di centrodestra (da Zaia a Formigoni, ndr ), la Polverini è contraria alle centrali, ma solo nella propria Regione. Una presa di posizione tardiva e elettorale». Mentre un altro viterbese antinuclearista doc, l'assessore all'Energia Giuseppe Parroncini, si domanda «se questa convinzione rispecchi il pensiero della coalizione che in questi giorni (con esponenti importanti come Robilotta, Desideri, Ciocchetti ed altri), rivendica con forza il contrario». È bufera, al punto che la portavoce Lorenzin si sente in dovere di precisare: «Nessun dietrofront, semplicemente una valutazione sui bisogni del Lazio». Intanto però nel tamtam sul web l'annuncio di Renata comincia a fare effetto: «Finalmente» esulta Alessandro, «Grande Renata», gli fa eco Ornella. Anche se Nick avverte: «Non basta dire "Il nucleare nel Lazio non serve"! Occorre dire che il nucleare nel Lazio non ci sarà di sicuro! Così si perdono le elezioni». Perfino Alemanno nel pieno del consiglio comunale straordinario su Acea non riesce a evitare un «Sono d'accordo».
E ai consiglieri dell'opposizione che fanno notare che un sindaco non può schierarsi apertamente con un candidato replica: «Vorrà dire che presto la inviterò come presidente della Regione Lazio».
Oggi la Polverini sarà in giro fra mercatie cliniche del II municipio.
Per la Bonino attesa alle 18 al Teatro Vascello l'apertura ufficiale della campagna elettorale Pd con Montino e Zingaretti.

l’Unità 12.1.10
I sondaggi premiano De Luca e Bonino
Bersani: «Ora combattere»
di Simone Collini

Franceschini sulla Bonino: «Avrei fatto una scelta diversa». E sull’Udc: «Inaccettabile la strategia di Casini». Ma il leader del Pd chiede ai suoi «ottimismo e combattività»: «Posizione lineare del Pd, non è il caso di sollecitare dubbi».

«Il centrodestra può anche fare di tutto per nascondere la realtà del Paese, ma non ce la farà a invertire una tendenza che ormai si fa sempre più chiara». Pier Luigi Bersani critica il regolamento sulla par condicio partorito dalla commissione di Vigilanza Rai: «Bisogna ristabilire un minimo di decenza». Ma è convinto che nonostante furbizie e censure, le regionali riserveranno più di una delusione a Berlusconi. «Alle regionali gli italiani hanno l’occasione per dire al governo che così non va», dice. E i sondaggi riservati mostrati ieri ai vertici del Pd da Nando Pagnoncelli sembrano confermare questa sua convinzione.
SONDAGGI POSITIVI
Oltre alle cinque regioni date per praticamente certe (Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Basilicata e Marche), il Pd è in crescita nel Lazio e in Campania, con Emma Bonino e Vincenzo De Luca che sono avanti nei consensi rispetto a Renata Polverini e Stefano Caldoro. Certo, in entrambe le regioni la coalizione di centrosinistra è dietro, seppur non di molto, quella di centrodestra. Ma per quanto riguarda il Lazio, si scommette sul fatto che con l’avvio della campagna elettorale di Emma Bonino, oggi al teatro Vascello con anche Nicola Zingaretti, oltre ai consensi personali aumenteranno anche quelli per i partiti che la sostengono. E, per quanto riguarda la Campania, ancora non è scontato che l’Udc corra col Pdl: «Caserta dice Nicola Cosentino circa le mire dei centristi alla presidenza di quella Provincia è un fatto locale e non può incidere sulle alleanze elettorali che riguardano la presidenza della Campania».
Il Pd registra, così come Bersani registra che i sondaggi appena arrivati al Nazareno danno il suo fronte avanti anche in Liguria, dove Claudio Burlando può contare su una coalizione che va da Rifondazione all’Udc, e in Puglia, dove i centristi vanno da soli con Adriana Poli Bortone e di fatto facilitano la corsa di Nichi Vendola.
BERSANI CHIEDE AI SUOI COMBATTIVITÀ
Un quadro che fa dire a Bersani: «Adesso è il momento della combattività e dell’ottimismo». Un messaggio rivolto soprattutto ai suoi. Che il leader del Pd lancia nel giorno in cui Dario Franceschini dice tra l’altro due cose (oltre che «con i dati delle europee avremmo vinto sette regioni», contrariamente a quel che dice Bersani, che ha più volte difeso la politica della alleanze sostenendo che il Pd da solo, stando al risultato delle europee, «vincerebbe in tre sole regioni»). E cioè che non avrebbe scelto la Bonino nel Lazio («Io avrei fatto una scelta diversa», fa sapere il capogruppo del Pd alla Camera) e che rispetto all’Udc si debbono mettere dei paletti: «Si possono fare accordi caso per caso, ma seguire la strategia di Casini e dichiarare chiusa la stagione della chiarezza delle alleanze sarebbe inaccettabile». Bersani, ai giornalisti che lo incontrano al Nazareno, ribadisce che per lui la Bonino è «una fuoriclasse» e l’importanza di lavorare per «accorciare le distanze» con tutti gli altri partiti di opposizione per rendere il centrosinistra «competitivo» alle regionali: «Dal congresso in poi ho sempre detto la stessa cosa: sì al bipolarismo, no al bipartitismo. I paletti me li metto io, non ci sono dubbi sulla posizione lineare del Pd e non credo sia il caso di sollecitare dubbi».❖

l’Unità 12.1.10
Una visione solo legalitaria mortifica la politica. A volte la difesa di un diritto può anche voler dire violare la legge. Pannella lo ha dimostrato
Immacolati e pregiudicati
di Luigi Manconi

La scena, vista nel corso di Annozero, è istruttiva: l’uno di fronte all’altro, Niccolò Ghedini, avvocato e parlamentare del Pdl, e il giornalista Marco Travaglio. Il primo accusa il secondo di essere un “pregiudicato” in quanto condannato per diffamazione; il secondo sventola il proprio Casellario giudiziario che definisce “immacolato”, privo cioè di condanne. Ghedini, a sua volta, risponde che quel documento non riporta le sentenze di primo grado, che sarebbero state inflitte a Travaglio. Pertanto, il match si conclude alla pari, e il pubblico pagante mostra di non apprezzare quello che Gianni Brera chiamava “il risultato perfetto”, ovvero lo 0 a 0.
Quello scambio solleva un quesito: e se, invece, Travaglio avesse una condanna definitiva? Forse che, solo per questo, sarebbe meno titolato a muovere le sue accuse all’avversario? Per me, ovviamente no: e per qualunque serio garantista, ma anche per chiunque consideri la lotta politica altra cosa rispetto ai “mattinali di questura”, e al “Forum” del non dimenticato Sante Licheri. È piuttosto lo stesso Travaglio, coerentemente con la propria ideologia, che dovrebbe considerarsi interdetto dal poter muovere accuse, in caso di condanna definitiva: o meglio già al momento in cui ricevesse un’informazione di garanzia. Cosa che io ritengo un abominio giuridico, mentre è Travaglio a considerarlo un fattore di legalità. Si dirà: ma i giornalisti che coltivano una concezione sostanzialista del diritto non sono rappresentanti del popolo, per i quali ultimi sarebbe richiesto un surplus di prudenza e maggiore rigore politico-giudiziario. Non è così per tre ragioni: perché l’azione pubblica può comportare atti amministrativi tali da determinare indagini della magistratura; perché l’attività politica può indurre alla violazione di regole e norme, e quando non è motivato da interesse privato, bensì da una buona causa – ciò non è meritevole di riprovazione morale; perché chiunque può essere vittima di un errore giudiziario.
Da settimane, mi capita di scrivere a favore della candidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della Campania: sia perché l’interessato non ha finora riportato alcuna condanna, sia perché ha sempre indicato nella necessità di difendere il posto di lavoro di 200 operai la motivazione dei reati imputatigli. Il quotidiano Il Fatto risponde: “è una superballa” e racconta come in quelle vicende giudiziarie trovino posto interessi personali e clientelari di un gruppo di potere, che farebbe capo a De Luca. Ma questa è la tesi dell’accusa. Tuttavia, ciò che più mi colpisce è che tutte le critiche rimandino a quella condizione di “indagato”. E a ciò si limitino. È, alla lettera, una abdicazione della politica: e, infatti, a De Luca, non viene contestato ciò che andrebbe contestato, e che io contesto. Ovvero l’aver assunto, in più circostanze, posizioni di destra (sulla sicurezza, sull’ordine pubblico, sull’immigrazione...). Ne risulta confermato che una impostazione tutta e solo legalitaria porta esiti paradossali: riduce l’azione pubblica alla sola dimensione giudiziaria, sacrifica le domande di diritti e di libertà a un tetro richiamo all’ordine, mortifica la politica a un cupo conflitto tra opposti casellari giudiziari. Ma proprio nel momento dell’apparente trionfo, si consuma il fallimento del giustizialismo, al punto che il suo tonitruante alfiere – Antonio Di Pietro – vi deve rinunciare per un momento senza alcuna spiegazione esauriente: sulla base di un calcolo politicistico. Esito malinconico, ma prevedibile di una cultura politica tutta fondamentalmente di destra: non a caso, Di Pietro assicura che se De Luca non rispetterà il patto sottoscritto, dopo Mani Pulite vi sarà “Mani tagliate” (si dirà: è solo una metafora ironica, ma possibile che non gli venga mai in mente qualcosa di diverso dal più truce linguaggio sbirresco?).
Torniamo a quel “pregiudicato”. Ad esempio Marco Pannella e altri militanti radicali sono stati condannati in via definitiva per aver distribuito derivati della canapa indiana. Qualche giorno fa un giudice di Avezzano ha autorizzato la somministrazione gratuita di farmaci a base di cannabinoidi a un malato di sclerosi multipla. Ma chi fa politica non avrebbe dovuto sentire il dovere, ancor prima di quella ordinanza, di violare la legge per tutelare il diritto alla libertà di cura per quel malato?
Intanto, Di Pietro viene criticato da De Magistris che viene criticato da Travaglio che viene criticato da Grillo che viene criticato da Sonia Alfano e più in là, sullo sfondo, un corrucciatissimo Elio Veltri... giova ripeterlo: c’è sempre un puro più puro che epura. ❖

l’Unità 12.1.10
La «par condicio» allargata costa 3 milioni alla Rai
A tanto ammontano i ricavi pubblicitari delle trasmissioni azzerate dalla Vigilanza
Incontro tra Zavoli eNapolitano. Bonino in controtendenza: «Non è un bavaglio»
di Natalia Lombardo

Zavoli da Napolitano ipotizza le dimissioni. Il presidente Rai in Vigilanza col mandato del Cda mostra i punti critici: 3 milioni il danno per la Rai. Calabrò, Agcom, attende modifiche. Mediaset vuole regole per sé.

L’Era glaciale dell’informazione sta per completare il suo avvento, e negli studi di AnnoZero infiamma, ancora per poco, la battaglia. Anche tra Emma Bonino e Francesco Storace (che mostra il simbolo) sulla gestione della sanità nelle regioni. Michele Santoro ha virato la puntata di ieri sul bavaglio che il regolamento sulla par condicio impone ai talk show dal 28 febbraio. E offre un «piccolo assaggio» della tv senza politica: Berlusconi che racconta del nipotino che canta «Meno male che nonno c’èèèè». O risponde a Vespa che gli chiede: Come festeggerà San Valentino? «Manderò mail a tutte le mie fidanzate».
LE PERDITE DELLA RAI
Sono 21 ma, con le varie puntate arrivano fino a 50, i programmi che passano dall’informazione alla «comunicazione» senza mediazione giornalistica. Con una perdita di entrate pubblicitarie per 3 milioni di euro, una mazzata sui sofferenti conti Rai. Il direttore generale Masi ha incaricato il vice, Antonio Marano, di riscrivere il palinsesto secondo le norme della Vigilanza. La chiamano «simulazione» da presentare alla commissione, un rebus che sarà sbrogliato martedì.
Molto critico Pierluigi Bersani: «Sono norme assurde, non capisco perché ci siamo messi in questa situazione», e si augura che venga «ridotto il danno, perché di danno si tratta, e tocca i profili di libertà». Nello stile radicale, invece, per Emma Bonino «non è un bavaglio», semmai «le regole evitano che ci sia la giungla» nei programmi tv. Una divergenza che, nell’entourage del segretario Pd assicurano non influirà sulla campagna elettorale.
ZAVOLI MEDITA LE DIMISSIONI
Il primo ad essere preoccupato è il presidente della commissione di Vigilanza che ha affidato quel regolamento al radicale Beltrandi (che minaccia lo sciopero della fame). Sergio Zavoli ieri ha chiesto e ottenuto un incontro con Napolitano, altrettanto preoccupato. A lui ha avanzato l’ipotesi di dimettersi se non riuscirà a modificare il regolamento, ma il Capo dello Stato lo ha invitato a resistere e a lavorare per «soluzione che passi attraverso un ripensamento della maggioranza, con il concorso dell’opposizione».
Nel tentativo di riparare il danno Zavoli ha convocato i vertici Rai nell’ufficio di presidenza: il presidente Paolo Garimberti a nome di tutto il Cda e con il Dg Masi (più rigido) ha illustrato le «criticità» anche incostituzionali che la norma comporta: sul piano «giuridico» perché «in conflitto con la legge sulla par condicio», divieto ribadito dalla Consulta; sui palinsesti e per «il danno economico»; terzo, «l’autonomia del lavoro giornalistico»; infine perché il pubblico «non può vedere solo tribune elettorali». Nella stessa riunione a San Macuto è stato accolto anche Corrado Calabrò, il presidente dell’Authority per le Telecomunicazioni, che aveva scritto a Zavoli. Il Garante Agcom deve stilare le stesse regole per le tv private. Pressato da Mediaset che, nonostante i vantaggi negli ascolti, pretende di non avere gli stessi limiti della Rai. Calabrò ha preso tempo, ha varato solo la parte del regolamento fino al 28 febbraio. Sul nodo black out aspetta le mosse della Vigilanza. Qui il Pdl si è mostrato appena meno rigido «siamo passati dallo scontro al confronto», si rincuora Zavoli. Ma la disponibilità è solo sull’applicazione delle regole, non sul cambiare il testo.
Garimberti ieri ha mostrato «i canini, vedete? sono scesi». Altro che «passività» di cui è stato accusato da Santoro, «sono irritato».
Rifiuta «compromessi o trattative» e annuncia uno sciopero bianco: la Rai non toglierà le patate dal fuoco alla Vigilanza: «Devono cambiare loro e non noi. Ma se resta così, la Rai applicherà alla lettera le regole sulla par condicio».
Garimberti poi ha incontrato i conduttori a Viale Mazzini: Annunziata, Floris e gli altri, con Natale della Fnsi e Verna dell’Usigrai che conferma lo sciopero. Assente Vespa (stava registrando), Paragone (altrettanto critico) era a Milano e Santoro al lavoro. Gran parte di loro non vogliono offrire la sponda (quelle «trattative sugli ospiti» che teme Annunziata): Masi si assuma la responsabilità di cambiare i palinsesti, ma se non sappiamo cosa dobbiamo fare non ci muoviamo.❖

il Fatto 12.2.10
Tv politica, politica tv
di Furio Colombo

Sapevo quel che Marco Bertrandi, il Radicale solitario, stava cercando di fare alla Commissione di Vigilanza, muovere i pezzi del gioco e i voti di destra e sinistra della Commissione e uscirne facendo sbattere gli uni contro gli altri e, alla fine, niente più politici in tv. Niente programmi di approfondimento, solo tribune politiche, noiose, ma non truccate, non umilianti. Precisazione. Non sto dicendo che so cosa avrebbe fatto Bertrandi. Non ne abbiamo mai parlato e mi dispiace un po’. Sto dicendo – e ho provocato non poco dissenso in questo giornale e in tutta l’opposizione – che sono d’accordo sul risultato di questa operazione. Sto dicendo che condivido il giudizio netto e negativo sui cosiddetti programmi di approfondimento. Sto dicendo che la politica italiana, povera e vuota e smarrita com’è ai nostri giorni, non perde nulla senza Gasparri in video tutte le sere con debita controparte di partito avverso. E noi, tutti insieme, quel che resta della sinistra o comunque dell’opposizione democratica a Berlusconi, come possiamo ridurci a dire che senza “Porta a Porta” non c’è libertà? E’ vero, siamo il paese in cui ogni politico di buon nome si metterebbe in fila per presentarsi volontario alla decima o undicesima presentazione di un libro di Vespa le cui “anticipazioni” hanno già segnato e sviato sei mesi di politica italiana. E’ vero anche che abbiamo una fortuna in più. La sola tra tante circostanze negative: Berlusconi non scrive libri, al massimo distribuisce albi floreali di famiglia tipo Kim Il-sung. Ah, e c’è un’altra circostanza fortunata: Berlusconi non accetta confronti o dibattiti con altri esseri umani. Tollera solo, per i suoi monologhi, direttori di giornali di clausura, due ore e non una parola. Così non abbiamo il programma di approfondimento del premier e non siamo costretti a rinunciarvi. Tra le circostanze meno fortunate c’è un’abile manovra combinatoria. Non so se esista una formula matematica. Ma un giro fisso di dieci-dodici teste parlanti compare la stessa settimana nel giro di tutti i “programmi di approfondimento”, quelle teste e non altre, da sempre e per sempre. Abbiamo detto tante volte che in Italia i politici nazionali eletti sono troppi. Diciamo mille? Eppure soltanto dieci-dodici di essi hanno facoltà di parola, non in base a criteri giornalistici e a libere scelte professionali. No, esclusivamente in base alle gerarchie e scelte interne di partito. Qualcuno crede che, in America, siano il Partito repubblicano o il Partito democratico a dire alle reti Usa chi devono intervistare? Da noi non si sgarra mai. Nel GR3 del mattino viene chiesto a Daniele Capezzone di spiegare la giornata politica e al senatore Latorre di aprire una finestra sui democratici. Poi la giornata continua così, con pochi cambiamenti simmetrici. E così continua la settimana e poi il mese. Finché la sera, ogni sera, compaiono tutti insieme. La politica comincia e finisce lì. Direte: c’è “Annozero”. Giusto. Appezzo e sostengo. So, naturalmente che “Annozero” ha un forte punto di vista e approvo. Vengo da un paese – gli Stati Uniti – in cui una sola intervista condotta da un giornalista considerato “amico” ha liquidato l’ambizione di candidatura presidenziale di Ted Kennedy. Un paese dove è toccato ai giornalisti dire a George Bush, faccia a faccia, ciò che molti cittadini pensavano e pensano della guerra in Iraq e che molti politici non hanno mai osato dire. “Annozero” è un programma robusto. Ma ha i suoi invitati politici, ospiti semifissi, ora l’uno, ora l’altro, a volte in coppie dosate in modo da parare i colpi del regime. E adesso, con una certa angoscia, cominciamo a notare l’infiltrazione del politico dentro il bellissimo Tg3 della notte. La sera dell’anniversario di Eluana Englaro quel nuovo, intelligente Tg aveva in studio il senatore Quagliariello. Avete letto bene, amici democratici dei programmi di approfondimento, il senatore Quagliariello. Credetemi, le tribune politiche, con divieti di arbitraria esclusione dei candidati, sono noiose ma meno umilianti.

Liberazione 11.2.10
Riccardo Iacona: «Chiudere giornali e programmi è assurdo e incostituzionale»
di Laura Eduati


Riccardo Iacona esce furente dalla conferenza stampa della Fnsi al Senato. Un incontro che non è riuscito a calmare gli animi. Anzi. La Federazione nazionale della stampa lancia l'allarme rosso. Alla conferenza sono accorsi giornalisti come Michele Santoro e Milena Gabanelli. Non soltanto per capire la faccenda dei tagli all'editoria: sul piatto, questi giorni, è piombato anche il divieto di mandare in onda talk-show politici come Porta a Porta , Ballarò , In mezz'ora e Annozero fino alle regionali, decisione della Commissione di vigilanza della Rai.

Il Parlamento ha paura delle trasmissioni che parlano di politica?
Questo è un provvedimento gravissimo e orribile. Bisogna capire bene quello che stanno facendo: cancellano delle trasmissioni per un mese intero, proprio alla vigilia delle elezioni ovvero quando gli italiani hanno il bisogno di informarsi. Non era mai accaduto prima.

E' la solita ingerenza della politica nella Rai?

Non è ingerenza, è abuso di potere. Speriamo che nelle prossime ore il direttore generale dell'azienda chieda di sospendere la decisione della Commissione di vigilanza. Marco Beltrandi (deputato Pdl, ndr) è arrivato a dire che, se vogliono, Santoro e compagnia possono anche andare in onda ma senza parlare di politica. Di questo passo possono chiudere anche Report , la mia trasmissione ( Presa Diretta , ndr), e tutti quei programmi di inchiesta che, bene o male, parlano anche di politica in senso lato.

Non bastava la par condicio?

A me non piace la par condicio, ma sono convinto che i conduttori dei talk show sanno come gestire le trasmissioni in periodo elettorale. Questa è una "par cancellazione".
Siete pronti, voi conduttori non colpiti dal provvedimento, a manifestare solidarietà a Floris, Santoro e Vespa?

Ecco, nemmeno Vespa è d'accordo con la Commissione di vigilanza. Comunque certo, siamo solidali con loro e pensiamo alla mobilitazione. Per lo scioperò, però forse arriviamo tardi perché bisogna indirlo con due settimane di anticipo. Poi mi chiedo: chi pagherà i costi industriali di questa scelta? La Rai ha investito soldi su questi programmi, un mese di sospensione provocherebbe anche un danno economico. Ora il sindacato sta valutando ricorsi legali.

I tagli ai fondi per l'editoria sono un altro pericolo per la libertà di espressione?
Chiudere giornali è sempre sbagliato. Anche se bisognerebbe mettere ordine e dare i contributi ai giornali che davvero escono in edicola e non sono il paravento per dare uno stipendio a qualche direttore.
Questo, infatti, chiedono le testate storiche...

E' demenziale e incostituzionale chiudere giornali, e soprattutto bisognerebbe stigmatizzare questo uso politico dei contributi. Dobbiamo aprire gli occhi su quello che sta succedendo. Possiamo rischiare di alzarci una mattina e non poter più vedere Santoro, Floris, la Gabanelli?

C'è sempre Matrix su Canale 5...

C'è anche questo problema da risolvere.

Repubblica 12.2.10
Nel "milleproroghe" salta il "diritto soggettivo" a ottenere i fondi pubblici Il caso
Giornali, contributi a rischio "Così soffocano cento testate"
di Aldo Fontanarosa

ROMA Giovedì nero per i giornali di partito, per le testate no profit e le cooperative editoriali. Da giorni, il governo prometteva di rendere sicuri i contributi a questo settore grazie a una norma salvagente. Era tutto deciso: la norma sarebbe stata innestata nel decreto "milleproroghe" all'esame del Senato. Ieri però il decreto è passato con 160 voti a favore, 119 contrari e 2 astenuti senza avere a bordo alcun salvagente. Il governo ha blindato il testo con la richiesta di fiducia; ed ora lo trasferisce alla Camera senza modifiche.
La correzione promessa, e poi dimenticata, avrebbe restituito all' Unità, al manifesto, ad Avvenire, al Secolo d'Italia un diritto davvero cruciale. I tecnici lo chiamano "diritto soggettivo". Fino al 2009, il diritto soggettivo permetteva ai giornali di chiedere alle banche l'anticipo degli aiuti, in attesa del pagamento effettivo da parte dello Stato. Pagamento che, in genere, tarda un anno.
L'ultima Finanziaria, l'anno scorso, di colpo ha cancellato questo diritto soggettivo e il "milleproroghe" adesso non lo reintroduce come invece si sperava. Erano dunque giustificate le prime pagine che alcuni giornali hanno dedicato al caso ieri mattina, in vista del voto del Senato. Ieri l'Unità ha titolato, con amarezza: "Ultime notizie". Il manifesto ha annunciato che i suoi giornalisti saliranno sul tetto in difesa della libertà di informare, come fanno centinaia di operai in tutta Italia per le loro aziende in crisi.
«Salire sui tetti dice il deputato Giuseppe Giulietti,a nome dell'associazione Articolo 21 sarà un gesto necessario.
Dopo aver votato tante norme in favore delle aziende del premier ironizza la maggioranza dimentica di votare quelle in favore di preziose aziende editoriali». Giovanna Melandri del Pd ricorda che le notizie cat tive non sono finite: i contributi al settore altra novità rischiano di ridursi a 130 milioni, a causa della crisi. Questi tagli e la mancanza del diritto soggettivo «causeranno la chiusura di 100 testate pronostica il senatore Vincenzo Vita, sempre del Pd e la perdita di 4000 posti di lavoro». «Il disegno aggiunge Claudio Fava di Sinistra Ecologia e Libertà è tutto politico. Vengono colpite testate indipendenti che, nella maggior parte dei casi, sono contrarie a questo governo». L'associazione delle cooperative giornalistiche (Mediacoop) ricorda che il ritorno al diritto soggettivo, non accolto nel "milleproroghe", era sostenuto in realtà da senatori di tutti gli schieramenti. Eppure non è andato a buon fine.
Mediacoop parteciperà alla riunione che il sindacato dei giornalisti (la Fnsi) convoca sulla questione per il 15 febbraio. La speranza è che la Camera faccia quello che il Senato ha negato ieri, correggendo il "milleproroghe". Altro treno possibile per dare stabilità ai contributi-è un decreto per lo sviluppo annunciato dal ministro Scajola, ma ancora fermo in stazione.

l’Unità Lettere 12.2.10
Le famiglie dei pazienti psichiatrici
Molto romantico e commovente il suo commento a proposito di Franco Basaglia. Peccato che nella realtà ci siano migliaia di malati di mente che non vengono curati per niente e vengono abbandonati alle loro famiglie, che sono senza gli strumenti necessari, quando non direttamente responsabili di quelle malattie.
Paolo Izzo
Risponde Luigi Cancrini:
Franco Basaglia non ha mai negato la malattia mentale. Ha detto che l’ospedale psichiatrico la rendeva invisibile sovrapponendo ai sintomi i danni dell’esclusione e dell’emarginazione. La cura, diceva, deve essere portata avanti fuori dall’ospedale con l’aiuto delle famiglie che (la fiction lo mostrava bene) all’inizio fu dato per scontato e che andava costruito invece con pazienza, con umiltà e con mezzi adeguati. Ne discussi a lungo con lui quando venne a trovarci nell’università dove tentavamo di aiutare la famiglia di un ragazzo autistico e credo che si sarebbe battuto con noi e con tanti altri, se avesse vissuto di più, perché il diritto al sostegno e alla cura delle famiglie. La letteratura ci dice che il lavoro con le famiglie è lo strumento più importante nel prevenire le ricadute e le ospedalizzazioni dei pazienti affetti da un disturbo schizofrenico. «Al di là dei ricordi suggestivi lei scrive la malattia rimane» ed io sono d’accordo anche se curarla e alleviarla è assai più facile oggi che ieri. Dobbiamo solo fare di più e di meglio sul territorio in cui, al tempo di Basaglia, le cure non esistevano.

Quella che segue è la versione inegrale della lettera inviata da Paolo Izzo
La follia e la pazzia
Caro Luigi Cancrini,
molto romantico e commovente il suo commento a proposito di Franco Basaglia e i "folli" (l'Unità di oggi, 10 febbraio). Va bene: è tempo di anniversari, di celebrazioni, di ricordi... Peccato che nella realtà ci siano migliaia di malati di mente che non vengono curati per niente e vengono abbandonati alle loro famiglie, che sono senza gli strumenti necessari, quando non direttamente responsabili di quelle malattie. Bello e utopistico sarebbe che il malato di mente conoscesse una volta in vita sua un folle psichiatra o un artista, che trasformino la sua pazzia almeno in follia, ma generalmente non è così. Lei dovrebbe saperlo bene. E, al di là di leggi romantiche e ricordi suggestivi, la malattia mentale rimane, incurantemente incurata. Come la "follia" di chi la nega.

il Fatto 12.2.10
Protezione civile
Perché i potenti hanno bisogno delle prostitute?
di LucaTelese

E cco, per esempio quando leggi questa in-
tercettazione: “Sono Guido, buongiorno... Sono atterrato in questo istante dagli Stati Uniti, se oggi pomeriggio, se Francesca potesse... Io verrei volentieri, una ripassatina”. Ecco, proprio quando leggi queste parole: come mai non ti viene mai in mente che si riferiscano a una “massaggiatrice di mezza età”, come ha provato a spiegarci con la sua proverbiale genialità inventiva Silvio Berlusconi? Perché resti perplesso quando Bertolaso ti racconta di “una grande professionista che mi aiutava a risolvere quell’enorme stress dal lavoro che facevo?”. Perché persino il nome dell’imprenditore che fa da intermediario – Anemone – assume una sonorità da teatro plautino, una suggestione da tragedia greca, da maschera grottesca? Poi di contorno arrivano altre figure mitologiche: le brasiliane, le vergini rallegratrici, persino qualche mediatrice che riaffiora dall’immaginario arcaico del Cacao meravi-
gliao. Se quello che i magistrati ipotizzano fosse vero, se le risate sciacallesche sulle macerie e sui cadaveri non sono un incubo, la domanda che ritorna, ancora una volta è: perché il potere ha questo frenetico bisogno di infilarsi dentro il letto del sesso mercenario? C’è qualcosa che si ripete sempre uguale, da qualche anno a questa parte: donne pagate, donne offerte, donne (ma se serve anche trans e uomini) usate come benefit, come antistress, come carne da macello. Inchiesta di Vallettopoli, anno di grazia 2006. Un certo Giuseppe chiama il portavoce del ministro degli Esteri: “Ti mando Stella: piccola ma carina. Compatta. Come una Smart. 22 anni. È roba fresca”. Altra telefonata.
Il direttore delle risorse umane della Rai, Giuseppe Sangiovanni parla di Maria Monsè: “Una bella Porcella”. E poi la trans Natalie che racconta gli incontri di Piero Marrazzo con Brenda: “Era una cosa a tre, io non andai”. Estate 2009, il sistema Tarantini. Dalle indagini risulta che una escort Terrì De Nicolò, è pagata per prostituirsi con gli amici di
“Gianpi”. Sia con il vicepresidente della regione Puglia Sandro Frisullo (di centrosinistra) sia a Palazzo Grazioli. A Frisullo la casa la offre – gentilmente – un collaboratore: un territorio amico. Negli altri casi ecco i centri benessere, che diventano subito le nuove oasi ristoratrici della contemporaneità.
È un cerchio strano che si chiude ogni volta. Il tarantinismo, ben prima di Patrizia D’Addario (leggersi il suo Gradisca presidente per credere) restituisce una nuova vita alla figura del procacciatore, e all’idea della preda sessuale che viene consegnata al sovrano già doma.
Allora la prima domanda che ti fai è: perché i potenti ci dovrebbero stare? Quale bisogno soddisfano, e quale debolezza scandagliano le arti dei procacciatori? Molti ripetono l’argomentazione difensiva prediletta: “Ma come! Sono uomini così belli e desiderati, che bisogno hanno di una prostituta?”
E invece un bisogno c’è. Hai sempre fretta, sei terribilmente stressato, hai pochi tempi morti nell’agenda del palmare. Devi riempirli appena si liberano. Non devi lasciare tracce. Non devi avere implicazioni sentimentali, strascichi. Non devi accendere una relazione con una figura autonoma, che confligge con la famiglia di riferimento, che spesso – anche in contemporanea – deve essere impegnata nella rappresentazione della drammaturgia istituzionale. Escort è una parola più comoda, asciugata al senso etimologico: la scorta, l’estrema protezione del segreto, la corroborazione curativa del corpo. Non più il corpo del politico, il sottosegretario, il presidente. Ma il capo, il sovrano che deve ristorarsi.
Se è così, però, il capo-semidio, non può sporcarsi le mani con il denaro. Non può distruggere il sogno mettendo mano al portafoglio. Il ruffiano che paga, diventa essenziale perché cancella la traccia e il senso di colpa. Perché ricostruisce l’illusione del dono sessuale-votivo offerto al principe in virtù del suo carisma. La Protezione virile si sostituisce a quella civile. Meno male che ci sono le intercettazioni: ancora per un po’ Anemone resta un cognome, e non un mito.

Repubblica 12.2.10
La tesi nel libro di Hamerow uscito ora da Feltrinelli
“Gli Alleati non fermarono l’Olocausto”
di Massimo L. Salvadori

La memoria dell'Olocausto e le sue celebrazioni portano periodicamente la coscienza dei posteri a confrontarsi con le colpe dei carnefici nazisti e delle forze che con essi collaborarono nello sterminio degli ebrei d'Europa. Sennonché, con il passare del tempo, la memoria è andata scavando, ancora parzialmente, in un'altra direzione: quella che nella tragica vicenda tocca le responsabilità degli Stati in guerra con la Germania, dei loro governi, di gran parte delle popolazioni e persino di settori assai influenti dell'ebraismo al loro interno. Il libro dello storico statunitense Theodore S. Hamerow, Perché l'Olocausto non fu fermato.
Europa e America di fronte all'orrore nazista, tradotto presso la Feltrinelli, non è il primo a sollevare il coperchio di questa vicenda, ma al suo chiarimento porta un importante contributo.
Dopo aver distinto tra l'antisemitismo "segregazionistico" di matrice religiosa e sociale e l'antisemitismo "sterminatore" del Terzo Reich, l'autore si sofferma sulle radici che resero possibile a quest'ultimo di conseguire con tanto successo le proprie finalità. Si vorrebbe vedere rafforzata la tesi di una follia omicida nazista isolata, contrastata con determinazione al di fuori dei confini del dominio hitleriano. E invece la storia è tutt'altra, ed è una brutta storia. Se a Pio XII vengono attribuite pesanti responsabilità, egli si trova in compagnia di Roosevelt, di Churchill e di Stalin, i «tre grandi» della coalizione antinazista, e di coloro che li circondavano. Se il Papa fu il primo ad essere investito da un'onda polemica non ancora esaurita alimentata dall'accusa di non aver gridato la sua condanna nel nome di Cristo contro la «soluzione finale» per il timore di incontrollabili reazioni da parte nazista, ora va montando l'onda che investe i governi e i popoli i quali, mentre levavano alta la bandiera della democrazia e dell'umanesimo, non fecero per fermare l'Olocausto quello che avrebbero potuto ovvero fecero soltanto ciò che consentiva un realismo politico che anzitutto si misurava con il diffuso antisemitismo presente con diversa intensità a tutti i livelli nei paesi democratici occidentali, nell'Europa centro-orientale e nell'Unione Sovietica. Si trattava di un antisemitismo che andava dal sotterraneo disagio per la «diversità ebraica» a quello acuto e palese di quanti convinti che gli ebrei ricchi costituissero una élite subdolamente dominante e i poveri una componente sgradevole, insomma un corpo rimasto estraneo anche là dove la legislazione gli ebrei aveva formalmente emancipato.
Quando la Germania nazista mise in atto a partire dal 1933 le leggi contro gli ebrei prima che avesse inizio lo sterminio di massa, i governi occidentali respinsero le pressioni per aumentare le quote di immigrazione degli ebrei rispetto agli altri perseguitati non razziali; quando, a guerra iniziata, si diffusero in maniera crescente le notizie sulla caccia agli ebrei e sulle uccisioni di massa, prima si stentò a credere e poi si mise loro la sordina; e quando, dopo il 1942, il piano di sterminio divenne certo al di là di ogni dubbio, continuò a prevalere la scelta di non voler fare i conti con l'«unicità» della persecuzione omicida nei confronti degli ebrei. Entrò allora in ballo un Leitmotiv condiviso dai governi britannico, americano e sovietico: la necessità politica di non conferire alla guerra contro la Germania il carattere di una lotta diretta a privilegiare la salvezza degli ebrei rispetto a quella degli altri gruppi oppressi al fine di non avvalorare la propaganda dei nazisti secondo cui i governi loro nemici erano effettivamente manovrati dai primi. E ciò fu alla base anche del rifiuto di distogliere dal comune sforzo bellico forze da dedicare specificamente al bombardamento della rete ferroviaria e delle strutture che alimentavano il traffico dello sterminio: una scelta ci dice l'autore che si ritenne non sarebbe stata condivisa anzitutto dai militari i quali avrebbero dovuto esserne gli esecutori. E la linea di non voler far apparire la guerra una crociata a favore degli ebrei fu sostenuta da influenti settori delle élites ebraiche, a partire da quella americana. La soluzione all'Olocausto questa la posizione prevalsa sarebbe venuta dalla vittoria finale della coalizione antinazista! Scrive in proposito l'autore: «I governi alleati dovevano fare i conti con un notevole livello di antisemitismo nei loro stessi paesi. La gente tendeva ad attribuire il crescente sacrificio di vite e risorse alle abili manovre dietro le quinte dei finanzierie dei politici ebrei. Le autorità governative dovevano stare attente a non fare nulla che potesse alimentare questi sospetti popolari. Soffermarsi troppo sull'Olocausto avrebbe probabilmente peggiorato la situazione».
Parole, queste, pesanti come macigni. Poi venne il dopoguerra. Alla «questione ebraica» in Europa avevano posto fine i nazisti per via criminale, l'emigrazione e la nascita di Israele. E dopo di allora la memoria dell'Olocausto è stata celebrata con molta commossa solidarietà e compassione umana verso gli ebrei: quella che era troppo mancata tra il 1933 e il 1945. Celebrata sì,

il Fatto 12.2.10
Il sangue degli oppositori dietro il velo del regime
Manifestazioni in tutto l’Iran per l’anniversario della rivoluzione
di Mauro Mauri

La celebrazione odierna per il 31° anniversario della Rivoluzione Islamica è andata come molti immaginavano. Il black out sulle informazioni impedisce di avere riferimenti certi sul numero dei manifestanti: fin da ieri a Tehran il servizio sms era bloccato mentre internet viaggiava a rilento, con l’impossibilità di inoltrare filmati.
Dunque dall’Iran sono usciti quasi esclusivamente le gioiose immagine degli uomini del regime che celebravano se stessi in un clima da messa in scena cinematografica, con tanto di comparse pagate per applaudire, i definiti sandwich supporter, ovvero persone reclutate tra le campagne e nelle fasce del disagio sociale, solitamente ripagate con un semplice sandwich ma ora con un cestino pieno di viveri e un’abbondante mancia. Il capo della polizia aveva spiegato che divulgare sms contrari al regime era un atto da mohareb – nemici di Dio punibile con la pena capitale.
Già da un paio di giorni le principali arterie di Teheran erano presidiate, oggi c’è stato un dispiegamento di forze dell’ordine che ha tenuto a bada l’Onda Verde, in ogni caso non travolgente come in precedenza. Le minacce del regime hanno funzionato: fin dai giorni scorsi aveva disposto affinché i miliziani basiji e poliziotti fermassero i passanti per controllare i messaggi spediti dal proprio cellulare.
La giornata registra almeno due morti nella capitale, uno a Shiraz e decine di arresti avvenuti nel resto del paese. A Teheran la polizia ha disperso i manifestano non solo con i lacrimogeni ma – pare anche sparando sulla folla, mentre i basiji hanno attaccato le autoe dell’ex presidente Mohammad Khatami e del leader dell’opposizione Mehdi Karrubi.
Gli slogan sono stati i classici “Marg bar dictator” (morte al dittatore) rivolti alla Guida Suprema Ali Khamenei ed a Mahmood Ahmadinejad, accusati di esser bugiardi per il broglio elettorale del 12 giugno 2009. Un nuovo slogan – “referendum” si riferiva alla proposta di Khatami di tenere un referendum sulla legittimità della rielezione di Ahmadinejad.
Sul fronte politico non hanno sorpreso le parole di Ahmadinejad: “Il regime sionista si avvicina alla sua distruzione e in merito ad Obama avremmo voluto che rimediasse alle politiche disumane di Bush, invece è asservito agli interessi di una banda di sionisti”. Regime ed opposizione si sono scontrati non solo in piazza ma anche sul web: le milizie basiji informatiche sarebbero in grado di risalire i profili degli utenti che per mascherare il proprio internet provider utilizzano dei proxy (server-specchio), riuscendo così a rintracciare i computer da cui partono i messaggi. Il regime hackera i siti legati all’Onda Verde che replica con mosse analoghe, un must è la messa in linea di fotomontaggi che sberleffano ferocemente Ahmadinejad e Khamenei. Determinante in questo caso l’azione degli iraniani residenti in Occidente, ben più liberi rispetto a chi vive in Iran.
Vi sono poi stati scontri ad Esfahan, con i manifestanti raggruppati attorno allo stupendo ponte delle 33 arcate, l’icona della città, la seconda dell’Iran. Mentre violenti scontri risultano esserci stati pure ad Ahvaz. Invece a Qom, la città santa dell’Islam sciita, calma totale. Davvero curioso quanto accaduto – o meglio non accaduto – a Tabriz, città del nord con circa 4 milioni di abitanti, dove alla celebrazione governativa ha partecipato solo qualche centinaio di persone, con i cameramen impegnati con sforzi indicibili per riprenderli dalle angolature ottimali al fine di far sembrare il loro numero superiore. In ogni caso si può sempre agire in un secondo momento, a tavolino, con Fotoshop, come già successo in passato. Forse che la desolata piazza della capitale dell’Azerbagian iraniano sia dovuta al fatto che il regime abbia esaurito i “sandwich supporter”? Oppure che per un banale errore organizzativo siano stati mandati a Teheran anche i bus che avrebbero dovuto raggiungere Tabriz? A proposito ineccepibile l’analisi di una studentessa iraniana che vive in Italia “Non solo sandwich, davano anche riso ed olio. La gente è affamata, con salari di 300 euro al mese, magari due figli e la carne 15 euro al chilo? Oggi il regime ha speso un occhio per dar da mangiare a tutti. Succo di frutta, torte, tutto era a montagne”.

Liberazione 11.2.10
Abol Hassan Banisadr Primo presidente della Repubblica Islamica
«La rivoluzione del 1979 è stata tradita dai mullah . Dobbiamo completarla»
di Guido Caldiron


«Il regime di Ahmadinejad è ogni giorno più debole e diviso: ha sempre più paura. Così, in vista delle manifestazioni annunciate oggi dall'opposizione, le autorità hanno moltiplicato le minacce e le condanne e deciso di mettere degli altoparlanti in tutte le maggiori strade e piazze di Teheran in modo da poter coprire con i discorsi ufficiali eventuali slogan ostili che potrebbero levarsi dalla folla. Non è il solo segnale di divisione: mentre crescono le proteste in favore di una riforma democratica del paese, sono sempre più numerose le voci di esponenti dello stesso clero sciita che si levano a sostegno dell'opposizione. Si può dire che la rivoluzione del 1979 sia ancora in corso e debba ancora compiersi fino in fondo».
Abol Hassan Banisadr è stato il primo presidente della Repubblica Islamica dell'Iran, dopo la vittoria della rivoluzione che l'11 febbraio del 1979 cacciò dal potere l'ultimo ministro dello Scià Reza Pahlavi. Di formazione marxista, ha studiato economia alla Sorbona, Banisadr ha partecipato al movimento studentesco iraniano e è stato ferito e imprigionato più volte. Nel 1979 incarnò l'anima democratica e progressista della rivoluzione, rapidamente sconfitta dal potere dei religiosi: in rotta con l'ayatollah Khomeini, fu deposto nel 1981 e costretto a fuggire. Da allora vive a Parigi dove l'abbiamo raggiunto telefonicamente alla vigilia dell'anniversario della rivoluzione.


Lei è stato il primo presidente della Repubblica Islamica dopo aver contribuito alla vittoria della rivoluzione del 1979. All'epoca in molti, tra i democratici e i progressisti europei, guardarono positivamente all'Iran, poi che cosa è andato storto e ha aperto la strada a una rapida deriva totalitaria del paese?

Si deve considerare prima di tutto un elemento: la rivoluzione è sempre l'inizio di un cambiamento, non la sua piena realizzazione. Prima del 1979 la struttura del potere in Iran si basava su tre elementi: la monarchia, il clero sciita e l'economica, fondata sulla grande proprietà agraria nelle campagne e sui commercianti dei bazar nelle città. Il regime dello Scià aveva inferto un duro colpo sia agli agrari che al commercio, impostando l'economia nazionale sull'esportazione del petrolio e sull'importazione di prodotti e di servizi, in particolare dall'Occidente. Quindi delle tradizionali strutture di potere erano rimaste in piedi solo quella incarnata dalla monarchia stessa e quella del clero. Così, dopo il 1979 e la caduta dei Pahlavi, è rimasto solo il blocco dei mullah, in cui cui era maggioritaria una tendenza ideologica totalitaria, più politica che religiosa. Il problema non era l'Islam, quanto piuttosto una visione di tipo medievale del rapporto tra fede e politica.


Quando l'ayatollah Khomeini rientrò a Teheran dal suo esilio a Parigi fu accolto come l'uomo che avrebbe potutro riunire l'intero popolo iraniano nel nome della rivoluzione. Lei, come tutte la sinistra iraniana, non vi eravate sbagliati sul conto del grande leader spirituale? 
Non solo noi, il mondo intero. Ricordo che perfino le Nouvel Observateur lo definiva all'epoca come l'«ayatollah libertario». Dall'esilio Khomeini parlava più di politica che di religione e nessuno avrebbe potuto immaginare che una volta tornato in patria avrebbe subito una così rapida trasformazione. In ogni caso, nel mio libro L'espérance trahie (pubblicato nel 1982) spiego esplicitamente che abbiamo sbagliato, tutti noi iraniani, a fidarci di Khomeini, e le conseguenze di questo errore il mio paese ha continuato a pagarle fino ad oggi. Il vero problema all'epoca era però un altro: senza la mobilitazione delle moschee e il ruolo esercitato dai religiosi, la rivoluzione non avrebbe avuto alcuna chance di riuscita. Mi spiego: all'epoca avevamo fatto molti sforzi per riunire le diverse forze di opposizione allo Scià in un unico movimento, ma il risultato non era stato molto incoraggiante, perché rimanevano grandi distanze e divisioni. I mullah, invece, rappresentavano un blocco sociale forte e Khomeini era il personaggio pubblico più noto e rispettato dalla popolazione tra i diversi leader dell'opposizione.


Gli eventi del 1979 hanno però cambiato in ogni caso il paese, producendo una modernizzazione che è sotto gli occhi di tutti. I figli di coloro che cacciarono allora lo Scià potranno fare oggi la loro rivoluzione e portare la democrazia a Teheran?

Credo che in Iran non ci sia bisogno di una "nuova" rivoluzione, quanto piuttosto di realizzare fino in fondo gli obiettivi di quella che è avvenuta nel 1979 e i cui ideali sono stati poi negati dall'élite del clero sciita e dal potere militare, affaristico e mafioso che si è riunito intorno alla figura di Ahmadinejad. Certo, sul piano sociale, oggi come allora, è il potere a creare in qualche modo le condizioni per il proprio superamento. Il regime dello Scià aveva distrutto l'economia e la struttura sociale del paese creando centinaia di migliaia di disoccupati, soprattutto tra i giovani. E sono stati proprio questi giovani che, spinti dalla riforma agraria verso le grandi città del paese, hanno costituito la principale base sociale della rivoluzione del 1979. Ebbene, oggi sta accadendo qualcosa di simile: la dittatura dei mullah strangola l'economia e non solo la vita politica dell'Iran e crea ogni giorno nuovi poveri. Senza democrazia, diritti dell'uomo e dei lavoratori è difficile immaginare una qualche forma di benessere diffuso e così le strade tornano a riempirsi di giovani che manifestano per la libertà e migliori condizioni di vita. 

Nel 1979 il segno che la rivoluzione aveva vinto arrivò l'11 febbraio con la notizia che i soldati non avrebbero sparato contro la folla. Oggi è ipotizzabile qualcosa del genere nel caso il regime decida la linea dura contro l'opposizone?

All'epoca i militari erano odiati dal popolo e rappresentavano solo il potere dittatoriale e sanguinario della famiglia Pahlavi. Oggi le cose sono molto diverse, nel senso che l'esercito è sentito dalla popolazione come una parte importante del paese, non come un elemento in qualche modo estraneo. Altra cosa sono invece i Guardiani della rivoluzione, il corpo militare e politico legato direttamente ai mullah che sono visti con sospetto da molti iraniani. Eppure perfino tra i Guardiani, e penso a quanto accaduto nell'ultimo mese durante le manifestazioni che si sono svolte nei giorni dell'Ashura, è emerso un atteggiamento di attesa se non di vicinanza nei confronti dei giovani che protestavano. Sono solo segnali parziali, e talvolta contraddittori, di un clima che sta però cambiando e evolvendo a favore delle forze democratiche.


il Fatto 12.2.10
“Gaza anno zero: sopravviviamo grazie ai tunnel”
Mohammad Halabi racconta la vita della città palestinese, un anno dopo i raid israeliani di "Piombo fuso"
di Stefania Pavone

Ecco Mohammad Halabi: a soli 35 anni è il responsabile delle Relazioni estere della città di Gaza. È un palestinese che ha vissuto e studiato in Egitto e, forse, avrebbe potuto essere altrove. Invece ha deciso di non tradire la sua gente ed è tornato a Gaza. Mohammad Halabi non fa parte di Hamas, anche se collabora attivamente con gli islamici, occupandosi anche di gestire le offerte commerciali della città: è rimasto umano nonostante la devastazione che un anno fa “Piombo Fuso” ha portato nella sua terra. Nessuna parola d’odio nei confronti dei nemici di sempre. Gli abbiamo chiesto di raccontare cosa accade giorno per giorno in quei gironi d’inferno in cui si è trasformata Gaza City da un anno a questa parte. Allora Mohammad Halabi, com’è è cambiata la percezione della quotidianità a un anno dalla campagna di “Piombo Fuso”? Le distruzioni inferte alla Striscia sono state terribili, Gaza è stata sostanzialmente distrutta. Durante la campagna di “Piombo Fuso” sono morte più di 1.200 persone e non riusciamo neanche a contare quanti siano i feriti. La città è rasa al suolo. La gente vive in luoghi di fortuna che non si possono chiamare neppure case e in tutto questo a rimetterci sono soprattutto i bambini. Pensa che devono andare a scuola in edifici che hanno vetri e muri completamente rotti. A Gaza manca tutto, facciamo fatica a garantire i servizi essenziali, ma si continua a vivere anche così, quotidianamente appesi all’incertezza. Ma il senso della comunità fra gli abitanti è molto forte, ci si sostiene a vicenda, c’è poi la grande gara della solidarietà internazionale. Si ha la sensazione che molti a Gaza avvertano che la vita nella città si sia sgretolata, che sia pervasa dall’insicurezza, che non esistano più riferimenti certi. Cosa fate per cambiare questo stato di cose?
L’insicurezza è sicuramente penetrata nel senso comune delle persone. Ma non solo sul terreno psicologico, ma soprattutto su quello materiale. Più di 30.000 persone hanno perso il loro posto di lavoro e “Piombo Fuso” ha inciso sul tessuto industriale agricolo e marino, distruggendoli tutti. Ma noi stiamo lavorando per restituire delle certezze anche se è molto difficile. L’insicurezza dipende anche da una considerazione di base: i palestinesi non sanno se gli israeliani pagheranno per quello che hanno fatto a Gaza. Noi tutti vogliamo la riparazione dei torti subiti in questa guerra.
E del nuovo Muro che verrà costruito tra l’Egitto e Gaza?
A oggi la nostra sopravvivenza è legata ai tunnel che passano per l’Egitto. Vuol dire che ne scaveremo di più profondi. La Palestina è ancora contro la Palestina. Mentre Netanyahu chiede una pace senza condizioni, siete divisi al vostro interno. Cosa prevedi che accadrà?
Sono nell’amministrazione della città nel 2003 prima delle elezioni che hanno dato la vittoria ad Hamas. Per il processo di pace il paese chiave della regione è l’Egitto. Solo l’Egitto si può contrapporre a Israele nel bilanciamento delle forze nella regione mediorientale, non guardate all’Iran. La pace è difficile perché da noi convivono più religioni ed etnie completamente diverse le une dalle altre, con usi e costumi divergenti, con idee diverse.
Per quel che riguarda lo specifico della questione palestinese, che speranze ci sono? Siamo sotto assedio, il rischio è che l’esplosione dei bisogni della popolazione, se trascurati per troppo tempo, produca delle tensioni difficili da contenere. Si rischia di scivolare di nuovo verso un assetto da guerra civile. Ma per il processo di pace servirebbe poco, basterebbe un’ora per mettersi d’accordo.


Repubblica 12.2.10
Così il cervello ascolta il suono del silenzio
di Elena Dusi

Quando tutto tace si attiva un circuito di neuroni. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Neuron La scoperta dei nuovi "canali" è importante per la cura della dislessia nei bimbi e per chi ha problemi di udito Silenzio Così il cervello ascolta quelle pause piene di suoni
Quando tutto intorno a noi tace, il cervello inizia a percepire il rumore del silenzio.
Che non è assenza di suono, vuoto della percezione, un interruttore spento, bensì un mattone fondamentale del nostro sistema uditivo. Tanto da avere all'interno del cervello un circuito dedicato: un gruppo di neuroni che si attiva quando tutto tace e si assume il compito di trasportare il segnale del silenzio dall'orecchio fino alla corteccia uditiva, all'interno del lobo temporale. Qui il messaggio di pausa viene registrato come uno dei mattoni del linguaggio, indispensabile per dividere una parola dall'altra e dare senso a una conversazione. La capacità del cervello di ascoltare il "suono del silenzio" è stata appena scoperta da Michael Wehr, uno psicologo dell'università dell'Oregon, insieme al gruppo di studenti con cui lavora per decifrare e correggere vari disturbi dell'udito, autismo e dislessia. I risultati, ottenuti su alcuni topolini da laboratorio monitorati con degli elettrodi nella testa, sono stati pubblicati ieri dalla rivista Neuron. «Immaginate di trovarvi in un luogo affollato, o in una festa scrive Wehr nel suo studio. Seguire chi parla di fronte a voi, distinguendo la sua voce dal rumore di fondo è un'impresa tutt'altro che banale.
I computer incontrano molte difficoltàe se il nostro cervello riesce a cavarselaè solo grazie alla capacità di tagliuzzare una conversazione negli elementi base. Riesce a inserire le pause nei momenti giusti, trovando linee di divisione corrette fra le sillabe e le parole».
Ascoltare i silenzi diventa così fondamentale per dare un senso ai suoni. E forse non è un caso che "The sound of silence" si manifesti a Paul Simon "in mezzo a 10mila persone, forse più, che chiacchierano senza parlare e odono senza ascoltare" e che anche Wehr usi l'esempio di una festa rumorosa per spiegarci quanto è importante cogliere le giuste pause fra i discorsi. Ma le similitudini finiscono qui. Perché se Paul Simon ha scritto la sua canzone in bagno al buio con il rubinetto dell'acqua aperto, Wehr ha utilizzato i piccoli roditori del suo laboratorio, sottoponendoli a suoni di frequenza e durata sempre diverse, fino a scoprire che l'inizio di uno stimolo uditivo attivava un gruppo di neuroni e la sua cessazione improvvisa accendeva una scarica in un gruppo di neuroni diverso. Segno che orecchio e corteccia uditiva sono collegati da due canali separati e indipendenti. Uno è incaricato di trasportare l'informazione "suono". L'altro svolge il compito di riferire il messaggio "silenzio". «I canalispiega Wehrlavorano indipendentemente l'uno dall'altro. Abbiamo osservato che la fine di un suono non interferisce con l'inizio di uno stimolo nuovo». Prima era opinione corrente che il rumore provocasse l'attivazione dei neuroni uditivi, e che questi si spegnessero quando il rumore cessava.
«A conferma della nostra scoperta spiega Wehr sappiamo che le persone con problemi di udito hanno difficoltà a seguire una conversazione quando il rumore di fondo è intenso. Ora, capire come il cervello processi le pause fra le parole potrà aiutarci a costruire apparecchi acustici più efficienti o ad aiutare i bambini con dislessia». Il passo successivo suggerito dalla ricerca sarà poi capire se lo stesso meccanismo a doppio canale è valido per gli altri sensi. Se cioè anche la fine di una carezza provoca l'attivazione di nuove sensazioni o se il buio è capace di accendere una luce nella nostra mente.
Quando tutto intorno a noi tace, il cervello inizia a percepire il rumore del silenzio.
Che non è assenza di suono, vuoto della percezione, un interruttore spento, bensì un mattone fondamentale del nostro sistema uditivo. Tanto da avere all'interno del cervello un circuito dedicato: un gruppo di neuroni che si attiva quando tutto tace e si assume il compito di trasportare il segnale del silenzio dall'orecchio fino alla corteccia uditiva, all'interno del lobo temporale. Qui il messaggio di pausa viene registrato come uno dei mattoni del linguaggio, indispensabile per dividere una parola dall'altra e dare senso a una conversazione. La capacità del cervello di ascoltare il "suono del silenzio" è stata appena scoperta da Michael Wehr, uno psicologo dell'università dell'Oregon, insieme al gruppo di studenti con cui lavora per decifrare e correggere vari disturbi dell'udito, autismo e dislessia. I risultati, ottenuti su alcuni topolini da laboratorio monitorati con degli elettrodi nella testa, sono stati pubblicati ieri dalla rivista Neuron. «Immaginate di trovarvi in un luogo affollato, o in una festa scrive Wehr nel suo studio. Seguire chi parla di fronte a voi, distinguendo la sua voce dal rumore di fondo è un'impresa tutt'altro che banale.
I computer incontrano molte difficoltàe se il nostro cervello riesce a cavarselaè solo grazie alla capacità di tagliuzzare una conversazione negli elementi base. Riesce a inserire le pause nei momenti giusti, trovando linee di divisione corrette fra le sillabe e le parole».
Ascoltare i silenzi diventa così fondamentale per dare un senso ai suoni. E forse non è un caso che "The sound of silence" si manifesti a Paul Simon "in mezzo a 10mila persone, forse più, che chiacchierano senza parlare e odono senza ascoltare" e che anche Wehr usi l'esempio di una festa rumorosa per spiegarci quanto è importante cogliere le giuste pause fra i discorsi. Ma le similitudini finiscono qui. Perché se Paul Simon ha scritto la sua canzone in bagno al buio con il rubinetto dell'acqua aperto, Wehr ha utilizzato i piccoli roditori del suo laboratorio, sottoponendoli a suoni di frequenza e durata sempre diverse, fino a scoprire che l'inizio di uno stimolo uditivo attivava un gruppo di neuroni e la sua cessazione improvvisa accendeva una scarica in un gruppo di neuroni diverso. Segno che orecchio e corteccia uditiva sono collegati da due canali separati e indipendenti. Uno è incaricato di trasportare l'informazione "suono". L'altro svolge il compito di riferire il messaggio "silenzio". «I canalispiega Wehrlavorano indipendentemente l'uno dall'altro. Abbiamo osservato che la fine di un suono non interferisce con l'inizio di uno stimolo nuovo». Prima era opinione corrente che il rumore provocasse l'attivazione dei neuroni uditivi, e che questi si spegnessero quando il rumore cessava.
«A conferma della nostra scoperta spiega Wehr sappiamo che le persone con problemi di udito hanno difficoltà a seguire una conversazione quando il rumore di fondo è intenso. Ora, capire come il cervello processi le pause fra le parole potrà aiutarci a costruire apparecchi acustici più efficienti o ad aiutare i bambini con dislessia». Il passo successivo suggerito dalla ricerca sarà poi capire se lo stesso meccanismo a doppio canale è valido per gli altri sensi. Se cioè anche la fine di una carezza provoca l'attivazione di nuove sensazioni o se il buio è capace di accendere una luce nella nostra mente.

giovedì 11 febbraio 2010

Il Giorno 24 maggio 1964
L'autogoverno li strappa alla fossa dei serpenti






Una clinica psichiatrica senza celle, senza camicie di forza, senza infermieri, dove i malati vivono in libertà, discutono con i sanitari i loro problemi: ecco quanto si è realizzato nella "comunità" di Roma, una iniziativa per certi aspetti unica e che comunque sta tentando una strada nuova in questo campo delicatissimo.

di Stelio Martini

«I malati psichiatrici possono governarsi da soli? Sono capaci di vivere in una ordinata comunità, di assolvere a certi compiti sociali, di prendere delle "sagge" decisioni?»

Mi sembravano ipotesi assurde, e non senza scetticismo suonai alla porta della Comunità. Il cancello si aprì quasi subito e, mentre attraversavo il breve giardino che divide la villa dalla strada, mi investì il suono di un disco di Celentano.

Le note rimbalzavano anacronisticamente sulla facciata 1930, anacronisticamente per lo stile, ma ancora di più per il suo contenuto. In fin dei conti non si trattava di una clinica per malati psichiatrici? Nessuno mi venne incontro, e perciò entrai direttamente nella stanza a pianterreno, che era piena di gente. C'erano uomini e donne: chi leggeva chi ascoltava la musica chi chiacchierava, e alcuni risposero al mio saluto. La loro disinvoltura favorì la mia.

Ma mi sentivo ugualmente a disagio. Di fronte ad un malato, anche la disinvoltura è una forma di ipocrisia, e io temevo che incontrando qualcuno di «loro» il mio comportamento avrebbe tradito il mio stato d'animo, di timore e istintiva pietà. Ma si trattava di una preoccupazione ormai inutile. Quasi tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento erano membri della Comunità, cioè malati. Me lo rivelò il dottor Fagioli, Il giovane direttore, ricevendomi nel suo ufficio.

Da tre anni egli abita, mangia, dorme e lavora, insieme alla moglie che sta per avere un figlio e «senza nessuna precauzione psichiatrica » (un eufemismo per dire: senza celle infermieri, camicie di forza), in mezzo ai pazienti, e queste cose non gli fanno più effetto. Si, era un malato quel tale che usciva mentre io entravo . E anche quello che mi aveva accompagnato in ascensore. E anche quello, aggiunse, che all'ora di pranzo ritira le medicine in infermeria e le distribuisce si suoi compagni, osservando la nota consegnatagli dal medico. « Certo…» sorrise lo psichiatra all'espressione della mia incredulità. Del resto, se mi fossi trattenuto avrei potuto constatarlo di persona. «E le dirò, in tre anni non è mai successo che un paziente incaricato di questo compito sbagliasse una dose. Come un infermiere, anzi meglio di un infermiere…»

Giovane ed entusiasta del metodo di cura applicato e perfezionato dal dottor Fabrizio Napolitani, Massimo Fagioli era assistente presso l'ospedale psichiatrico di Padova quando seppe dell'esperimento che il suo collega stava conducendo in Svizzera, in un padiglione a sé del sanatorio di Kreuzlingen. Immediatamente abbandonò il posto e lo raggiunse. I suoi colleghi dissero che era matto; oggi egli può vantarsi di aver partecipato ad un'iniziativa per certi lati unica, e che comunque tenta una strada nuova in un campo molto difficile.

Alla parola «malato di mente» la gente reagisce ancora con la paura. Senza far distinzioni, questo tipo di malato è considerato un'irresponsabile per eccellenza , dal quale bisogna difendersi. La legge riflette ed esaspera questa concezione, demandando il ricovero dei malati all'autorità giudiziaria. In tal modo ci si cautela contro le possibili conseguenze, ma si sottrae alla medicina la possibilità di vagliare, distinguere ed intervenire in condizioni ideali. E se è vero che in alcuni ospedali psichiatrici si sono fatti dei passi avanti, la codificata diffidenza contro la malattia è ancora molto grande. Uno dei pregi dell'esperimento tentato con la Comunità è quello di opporsi a questa diffidenza. E proprio certe parole che sembrano le più assurde sono, almeno per il profano, le più stimolanti. Autogoverno dei malati psichiatrici. Consiglio normativo della Comunità formato da medici e pazienti. Comitato di infermi e assistenti sociali. E così via.

Una casa come le altre
Esponente della moderna psichiatria, che sta abbandonando i tradizionali sistemi per le nuove tecniche psicoterapiche ispirate alla psicoanalisi, Fabrizio Napolitani ha creato in sostanza una specie di famiglia, dove malati e medici collaborano alla cura, si fa vita di gruppo e dove tutti (salvo il veto dei medici) accettano le decisioni della maggioranza. Egli ha lavorato diversi anni a questa iniziativa. Per la prima volta ne parlò al Congresso internazionale di Montreal nel '61; ora, dopo tre anni di rodaggio in Svizzera, ha trasferito a Roma la sua «democratica» Comunità, suscitando molto interesse negli ambienti medici.
Di fuori la clinica (situata in una via quasi centrale), è una casa come le altre, in mezzo alle altre. Far sì che il malato non si senta isolato, messo al bando dalla società, è infatti uno degli scopi di questo metodo che si propone prima di tutto di socializzare il paziente. « Socializzare e motivare…», precisò il dottor Napolitani, «sono gli scopi pregiudiziali della cura...».. Bruno tarchiato, le sopracciglia folte, quasi unite, il «padre» (anche in senso affettivo) della comunità ha lo sguardo di chi è abituato a scrutare le sofferenze dell'animo umano; ma spira dalla sua persona anche la rassicurante fiducia della persona che crede nelle inesauribili risorse dell'uomo.

Il punto di partenza delle nuove tecniche cui si è ispirato è infatti quello di considerare il malato non oggetto ma soggetto di cura. Cioè capace di collaborare alla sua guarigione. Tutto sta che esista in lui una parte sana, un nucleo anche piccolo, sulla quale far leva. «Se esiste è possibile spezzare il muro dietro il quale, per paura dell'ambiente, si è chiuso, fargli riprovare il piacere di comunicare e quindi far sorgere in lui il desiderio di guarire. Se si riesce a tanto, il più è fatto. Da quel momento infatti si può iniziare con il malato, divenuto consapevole della sua malattia, un colloquio che un po' alla volta lo riporta verso la normalità…» Questo colloquio non si svolge soltanto tra il medico e paziente, ma anche tra malato e malato. Come intuì John Maxwell, i malati di mente hanno un effetto terapeutico gli uni sugli altri, e su questo principio sono basate le cosiddette «psicoterapie di gruppo», nelle quali si inquadra anche la Comunità fondata dal dottor. Napolitani.

Ma insieme al dottor. Fagioli egli ha fatto un passo di più, organizzando qualcosa che fa venire in mente la «Città dei Ragazzi». Il caso del paziente che sostituisce l'infermiere, non è un'eccezione. Qui dentro ognuno è incaricato di una certa funzione, e fa parte quindi di un certo comitato. I comitati sono quattro: di Assistenza Vitto e Alloggio, Sociale, Culturale. E se dietro questi nomi importanti (un po' i « ministeri» della comunità) si nascondono solo compiti di carattere pratico, « è sorprendente che un maniaco depressivo si occupi di tenere la corrispondenza con i pazienti dimesso, o un malato bilaureato, sia pure in via di guarigione, di stabilire le coppie di cucina, o di servire il pranzo in tavola, o la mattina di mettere fuori della porta il secchio dell'immondizia »

Sempre vicino ai suoi malati
Oltre ai comitati vi sono 3 consigli, che corrispondono idealmente ai 3 poteri dello stato democratico. Legislativo, d'azione e di riabilitazione. Ciò significa che i malati, eletti ogni 2 mesi, sono investiti anche del potere di fare e disfare le leggi della comunità? E' proprio così, anche se ai medici spetta l'ultima parola. Ma il parere dei pazienti è sempre sollecitato e ogni argomento affrontato con loro. Nelle bisettimanali riunioni di gruppo, si discute di tutto. Dei problemi comuni e di quelli individuali, in una sorta di confessione collettiva nella quale ciascuno porta i suoi casi di fronte al gruppo, racconta tutto di sé, e ci fu uno che una volta raccontò persino che si era innamorato di una paziente, e lei lo seppe solo in questa occasione.

«Con i malati», disse il dottor. Fagioli, «si discute perfino se accettare o dimettere un paziente, anche se la decisione finale è riservata a noi. La cosa importante però è abituarli a discutere, farli sentire partecipi di una comune famiglia». Di questa famiglia, mentre il dottor Napolitani che l'ha fondata è il «padre ideale», Il dottor Fagioli, accondiscendente benevolo, sempre vicino ai malati e disposto ad ascoltarli, impersona un po' la figura «materna». Dal punto di vista scientifico si potranno muovere obiezioni all'esperimento della comunità ma questo medico che vive sempre in mezzo ai malati è una prova a favore del metodo e un indubbio esempio d'abnegazione. E siccome si era fatta l'ora di pranzo, e il dottor Fagioli doveva mettersi a tavola con i suoi « pensionanti» lasciammo l'ufficio ed entrammo nella Comunità.

Nell'interno questa assomiglia ad una comune pensione, con le camere a due o tre letti, la sala da pranzo con il tavolo comune, fatto a elle, il soggiorno con la TV, le riviste, il giradischi. Le camere erano tutte aperte. In una c'era una piccola libreria, tra i cui volumi c'era anche un libro di Freud. In un'altra una ragazza si stava ravviando i capelli davanti allo specchio. In cucina mi presentarono, col suo nome e cognome, una signora che stava preparando i piatti. Alcuni pazienti erano già a tavola. C'era, malgrado tutto un'aria di famiglia. E infatti la funzione essenziale della Comunità è proprio di costituire per ciascun paziente una famiglia ideale, in sostituzione della loro che spesso è stata la causa prima della malattia.

Ogni anno il professore ritorna
Così si spiega come alcuni riescano a svolgere durante il giorno una normale attività e rientrino «a casa» la sera. E perché quelli che lasciano restino sempre legati ai loro «fratelli» da vincoli affettivi. «C'è un professore di università» diceva il dottor Fagioli « che ritorna a trovarci ogni anno», ma già sfrecciava verso i suoi pazienti e collaboratori, quasi assurdo nella sua dedizione e nella sua fiducia nelle loro risorse. Ma un po' di fiducia è necessaria; altrimenti si resta sempre fermi alle celle, agli infermieri, e alle camicie di forza.

Repubblica Roma 11.2.10
Bocciato Ceccanti, arriva D'Ubaldo Un altro ex dc nello staff della Bonino
Ruolo chiave per il senatore Popolare: responsabile del programma
La nomina dell'ex segretario del Ppi è un nuovo segnale agli elettori cattolici
di Giovanna Vitale

Sarà per fugare i sospetti di una coalizione troppo sbilanciata a sinistra, soprattutto dopo la virata a destra dell´Udc. Sarà per rassicurare l´elettorato cattolico, che potrebbe essere intimorito dalla ultra-laicità della candidata Bonino. Fatto sta che dopo aver designato come coordinatore del comitato elettorale Riccardo Milana, senatore democratico di rito diellino, ex rutelliano di ferro prima della fondazione di Api, ieri il Pd ha assegnato - e imposto agli alleati - un altro ruolo chiave a un altro ex democristiano doc. Sarà il senatore popolare Lucio D´Ubaldo il responsabile del programma dell´aspirante governatrice di centrosinistra. Dopo aver incassato l´ok delle varie anime democratiche che martedì pomeriggio si sono riunite alla Camera (presenti il segretario regionale Alessandro Mazzoli per i bersaniani, Michele Meta per l´area Marino, Roberto Morassut per Area Democratica e lo stesso D´Ubaldo), nel tardo pomeriggio è arrivato il via libera di tutti i partiti della coalizione. Così consolidando l´Opa lanciata dallo scudocrociato sulla campagna della leader radicale.
Una necessità, più che una scelta. Condivisa appieno da Emma Bonino, che martedì sera, alla fine del suo turno di presidenza a Palazzo Madama, ha voluto comunicare personalmente l´investitura al prescelto. Individuato dopo l´altolà di Pannella a Stefano Ceccanti, il costituzionalista veltroniano inizialmente suggerito dal Pd come responsabile del programma elettorale. Uno stop che ha poi favorito la convergenza su D´Ubaldo, già segretario romano del Ppi, fervido ascoltatore di Radio Maria, fra gli uomini più fedeli all´ex presidente del Senato Franco Marini. Il quale fu il primo a sdoganare la candidatura della leader radicale, benedicendone la corsa: «Non vedo un rischio di fuga degli elettori cattolici», disse all´indomani della discesa in campo della Bonino. «I moderati sanno scegliere e distinguere fra ciò che riguarda i nostri valori etici, intangibili, e ciò che riguarda invece un voto amministrativo. Del resto, non è andata così alle elezioni del 2008, non ci ha fatto perdere voti nel mondo cattolico l´alleanza con i radicali». Una risposta preventiva all´offensiva lanciata dai giornali di destra e, ieri, persino da Berlusconi: «La sinistra ha scelto la signora Bonino, ma c´è anche l´elettorato cattolico, che nel Lazio è importante e avrà il suo peso».
La contromossa non s´è fatta attendere. Da settimane lo storico segretario della Cisl manovra nell´ombra per vincere la diffidenza della galassia moderata. Ed è sempre lui ad aver suggerito una più massiccia presenza democristiana nel comitato elettorale. In questa luce va pure inquadrato l´incontro informale, avvenuto qualche giorno fa, fra l´ex ministro dell´Istruzione Giuseppe Fioroni con il cardinale vicario di Roma Agostino Vallini nella sua dimora nel viterbese. Un´azione a tutto campo. Che una probabile alleanza con l´Api di Rutelli potrebbe completare. «La discussione è in corso», ha confermato ieri Bonino. «Decideranno loro, com´è giusto che sia».

Europa 11.2.10
Con Emma va bene, con i radicali meno
di Mario Lava

Emma Bonino ha dovuto ascoltare ieri varie lamentele di esponenti del Pd riguardo alla linea tenuta dal radicale Marco Beltrandi in commissione di vigilanza Rai che - va ricordato - ha incontrato il pieno consenso della destra. E improvvisamente il barometro del rapporto Pd radicali vira sul brutto stabile. Lei, militante radicale disciplinata, ha preso atto delle obiezioni del Pd ma condivide pienamente la soluzione-Beltrandi che rischia di travolgere quelle tramissioni politiche non da oggi bersaglio degli strali di Torre Argentina.
Una volta di più, ieri Beltrandi si è scagliato contro i vari Floris e Santoro, «l`ala sinistra del regime politico italiano, profittatori del regime politico». Il relatore sulla par condicio in vigilanza non aveva neppure informato della sua proposta il presidente della commissione Sergio Zavoli, che ieri mattina, accasciato su una poltrona nella sala Garibaldi del senato, ha confidato tutto il suo rammarico e l`imbarazzo per una decisione da lui neppure lontanamente condivisa. «Un regalo alla destra, che nemmeno ci aveva pensato», commenta Vincenzo Vita. Una situazione difficile da correggere: scripta manent, no? Comunque Paolo Gentiloni ritiene che «non mancano precedenti di correzioni di regolamenti già emanati dalla commissione».
La vicenda della par condicio ripropone in settori del Pd la questione del non facile rapporto con i radicali. «La formula della "delegazione" di un altro partito dentro il nostro gruppo parlamentare si è rivelata per quella che è sempre stata: una presa in giro», ha detto fuori dai denti Enrico Farinone, deputato ex popolare che non per la prima volta esprime a voce alta dubbi sulla "coesistenza fra dem e radicali nei gruppi parlamentari.
Ma come si capirà il problema assume un rilievo particolare alla luce dell`unità raggiunta nel Lazio sotto il nome della Bonino. Superati i peraltro non numerosissimi mal di pancia iniziali, il Pd è apparso via via sempre più convinto della scelta compiuta.
Semmai sembra che sia proprio l`esponente radicale a nutrire più di un dubbio sulla effettiva capacità del Pd di muoversi adeguatamente: «A dire la verità spero che tutte le forze della coalizioni si mettano in moto», dice la Bernardini, che coordina il comitato elettorale della Bonino insieme al democrat Milana. In effetti finora per le strade di Roma, nei paesi e paesini del Lazio, la campagna di Emma non si vede moltissimo, piuttosto imperversa la frangetta di Renata.
Se è evidente che ormai Emma viene considerata dai dem una candidata animata da una sincera volontà di cooperare per vincere una battaglia che si considerava persa in partenza e che invece ora risulta, soprattutto grazie a lei, del tutto aperta, l`interrogativo riguarda invece la reale volontà di tutti i radicali di condurre una battaglia unitaria e non di partito.
Prendiamo la questione della lista civica che, secondo alcuni osservatori, rivelerebbe un Marco Pannella più attento alle fortune del suo partito che non a quelle della candidata.
Questa scelta infatti non sarebbe stata apprezzata dal leader storico, conscio del rischio di una confusione con la lista Bonino-Pannella e timoroso che la lista civica possa sottrarre voti alla "vera" lista radicale: «A me questo non risulta - dice Rita Bernardini - la lista civica non è la
lista dei radicali ma una delle varie liste a sostegno di Emma».
Bisognerà però tecnicamente risolvere il problema di due simboli con lo stesso nome, se non si vuole sfidare il rischio della confusione.

l’Unità 11.2.10
Un colpo al cuore all’informazione libera
di Bianca Di Giovanni

Il Governo conferma i «paletti» e i tagli per l’accesso ai contributi. Cento testate a rischio
Bonaiuti «scopre» solo ora la crisi: 20% di fondi in meno. Cancellato il diritto soggettivo
Il governo tira dritto sull’editoria: nessun ripristino delle vecchie regole e meno fondi per il 2010. Un colpo mortale alle testate di opinione e di idee che non accedono alla ricca torta della pubblicità.

Pietra tombale sul pluralismo dell’informazione. Il governo non salva le testate di idee, opinioni, cooperative e non profit: nessun emendamento nel decreto Milleproroghe. Nonostante le rassicurazioni di Giulio Tremonti. Dopo un pomeriggio di stop-and-go sul provvedimento in Senato, in serata è arrivato il maxiemendamento su cui è stata chiesta la fiducia che si voterà oggi. L’ennesima. Evidente che il governo non si fida della sua stessa maggioranza. Testo blindato: modifiche impossibili.
MORTE ANNUNCIATA
Anche quella sull’editoria, che pure aveva trovato un sostegno trasversale, su cui si era esposto anche il presidente della Camera Gianfranco Fini. Non solo restano in piedi le norme infilate con un blitz in Finanziaria, che cancellano il diritto soggettivo delle aziende ad accedere ai contributi diretti. C’è di più. C’è anche un comunicato di Palazzo Chigi in cui si annuncia un taglio ai contributi di circa il 20% sui fondi del 2010, che saranno erogati secondo un nuovo regolamento da stilare in estate dopo gli Stati generali dell’Editoria, convocati per giugno. Insomma, il sistema passato è cancellato. Per ora c’è l’assenza del diritto e meno fondi «per via della crisi», dichiara Paolo Bonaiuti. Un binomio mortale, che getta nella crisi decine di aziende già pronte
a chiedere cassa integrazione e stato di crisi. Se non cambia nulla alla fine dell’anno delle 92 testate finanziate dal fondo ne resteranno in piedi sì e no la metà, azzarda qualche addetto ai lavori. Con un danno grave al pluralismo dell’informazione. Tra le testate colpite compaiono infatti giornali importanti per la loro storia e la loro diffusione, come l’Unità, il loro forte rapporto con i lettori come il Manifesto. Ma anche nuove e ricche esperienze editoriali, che sperimentano nuovi modelli di comunicazione. Ci sono le cooperative e le imprese senza scopo di lucro e le testate delle minoranze linguistiche. Un universo variegato, che ha difficoltà ad accedere alla ricca torta della pubblicità. Tra questi anche giornali «finti», aperti solo per intercettare i contributi: per questo esiste la forte determinazione alla riforma del settore. Ma non certo con la spada di Damocle del rischio chiusura sulla testa.
DIRITTO SOGGETTIVO
Il rischio maggiore non sta tanto nelle minori risorse (dovrebbero scendere a circa 130 milioni, dai 170 utilizzati per il 2008), che comunque hanno copertura, come ha deliberato la commissione Bilancio del Senato. Il vero attacco sta nell’abolizione del diritto soggettivo. Grazie a quel sistema, infatti, ciascuna testata godeva della certezza di poter accedere a una somma stabilita, in base a certi criteri. Questa certezza fondata appunto sul diritto soggettivo al sostegno consentiva alla testata di iscrivere a bilancio il contributo pubblico, o di utilizzarlo come garanzia su prestiti bancari fin quando il contributo non fosse stato effettivamente erogato. I finanziamenti infatti vengono sbloccati nell’anno successivo a quello di riferimento. In questi mesi si attende il contributo relativo al 2009, che in via di principio dovrebbe essere erogato secondo il vecchio sistema, ma che il governo intende invece calcolare secondo il nuovo. Eliminato il diritto soggettivo, si adotta il sistema della «torta» da distribuire tra i vari richiedenti. Una «fetta» a ciascuna testata. Il fatto è, però, che fino a fine anno non si conosce la consistenza della «fetta», perché non si sa tra quanti soggetti si dovrà spartire la torta. Questo impedisce alle imprese di iscrivere cifre in bilancio o di accedere a crediti bancari. Ecco perché è una scelta mortale, un vero accanimento che non produce risparmi, ma solo stati di crisi. Non sembra una grande trovata per un ministro dell’Economia che voglia combattere gli effetti della crisi.
Il fronte dei giornali di opinione e il sindacato dei giornalisti non rinuncia alla battaglia parlamentare, nonostante la blindatura del governo. Ora la battaglia si sposta alla camera e se anche lì il governo dovesse tirare dritto, si utlizzerà il decreto annunciato dal ministro Scajola per lo sviluppo. Ma di quel decreto non si è vista ancora traccia. ❖

l’Unità 11.2.10
Fini chiama ancora Tremonti. Da decidere i criteri dei tagli
di Susanna Turco

La cortese pressione corre sul filo, ancora una volta. A dicembre, si era andati
in viva-voce, davanti a quattro direttori di giornale. Stavolta si è trattato di un tu per tu. Nella tarda mattinata di ieri infatti, come già aveva fatto a dicembre (per ora senza risultati concreti, nonostante le assicurazioni del ministro), il presidente della Camera Gianfranco Fini ha alzato il telefono e ha chiamato il suo nemico-amico Giulio Tremonti per perorare presso il governo la causa dei giornali di partito, colpiti dai tagli in Finanziaria fatti sui fondi all’editoria.
Con lui, il superministro dell’Economia ha confermato l’impegno di «tamponare per il 2010» la questione dell’erogazione dei contributi per le testate che ne hanno diritto. Sul come, però, pare che non sia stato più chiaro. Del resto, anche l’altra volta, all’inizio di dicembre, aveva semplicemente assicurato che i fondi tagliati in finanziaria sarebbero stati ripristinati.
Ieri, il ministro ha anche sottolineato come la sua intenzione sia quella di risolvere «per il prossimo anno», ossia per il 2011, il problema di un bacino «troppo ampio» di aventi diritto. Un «taglio drastico», finalizzato a tutelare soltanto le testate storiche, per il quale Tremonti si è rivolto a Paolo Bonaiuti, chiedendogli «a gran voce» di fare un controllo.
Nelle intenzioni del ministro dell’Economia, il sottosegretario alla Presidenza con delega sull’Editoria dovrebbe verificare quali testate posseggano i requisiti sufficienti e quali no. Un’operazione che tuttavia, a sentire le voci di Palazzo, Bonaiuti preferirebbe proprio non intestarsi. E, in effetti, a metà pomeriggio Palazzo Chigi ha diramato un comunicato per annunciare che «il governo si impegna a convocare gli stati generali dell’editoria per una riforma globale del sistema entro il giugno prossimo». A quanto pare, Tremonti dovrà attendere.

l’Unità 11.2.10
Pubblicità, mercato drogato dallo strapotere televisivo
Il 51% dell’intera torta degli spot è assegnata ai network. Le briciole a tutti gli altri
Ecco come le grandi aziende soggette a concessioni governative «preferiscono» investire
di Roberto Rossi

In Italia la televisione fa la parte del leone nel mercato pubblicitario. In Europa le cose vanno diversamente. Forse perché abbiamo un premier proprietario di tre reti e un’industria poco libera.

Se l’Unità fosse stampata in Irlanda anziché in Italia, questo articolo non avrebbe mai visto la luce. Non ci saremmo mai dovuti occupare, infatti, del mercato della pubblicità. In particolare della sua distorsione. Se fossimo a Dublino come sottolinea il rapporto statistico 2008 diffuso pochi giorni fa dall’Ofcom, l’autorità inglese che ha messo la lente su tutto il settore dei media metà delle reclame in circolazione sarebbero stampate su carta, mentre il resto sarebbe ripartito tra tv, internet e, in minima parte, radio.
Invece siamo a Roma. Con un presidente del Consiglio proprietario di tre televisioni private. E con un settore che fa la parte del leone e si mangia circa metà dell’intera torta (oltre il 51%), mentre gli altri si devono accontentare del resto: ai quotidiani la parte più sostanziosa (il 18%), qualcosa meno ai settimanali (il 15,1%), poco per Internet (8,7%) e radio (5,3%), briciole per la cartellonistica (2,5%) quasi nulla al cinema (0,6%).
UNICI
Il nostro è l’unico caso in Europa con una sproporzione così accentuata. In Francia le televisioni assorbono il 28% del mercato, in Inghilterra il 26,4%, in Germania, addirittura, si scende al 23%. Vicino a noi, si posizionano invece Polonia (43,9% della spesa finisce alla tv) e Spagna (43,9%).
In Italia la televisione, invece, gioca un ruolo preponderante. Del resto, sempre secondo quanto riportato da Ofcom, è da noi che si passa più tempo davanti al video, con 234 minuti al giorno. Al polo opposto troviamo invece la Svezia e l’Olanda, dove gli spot assorbono appena il 20%, e l’Irlanda, circa il 23%.
Questa anomalia ha anche una ragione economica. Legata al tessuto industriale del Paese. A parte Fiat, le nostre maggiori aziende sono quasi tutte controllate da Tesoro (Eni, Enel, tanto per citare un esempio) o comunque soggette a concessioni governative (Autostrade e Telecom). E visto che le aziende più grandi sono anche quelle che investono di più in pubblicità è logico pensare che alcuni settori, in questa battaglia ad armi impari, siano avvantaggiati. E in particolare alcune aziende. Ma non è solo un retropensiero. È una realtà certificata. Come spiegava un rapporto Nielsen, del giugno del 2009 ma ancora attualissimo, i maggiori 15 inserzionisti del nostro mercato, nei primi mesi dell’anno, con la crisi che già mordeva, avevano aumentato i loro investimenti su Mediaset per 30 milioni di euro circa. D’altro canto la Rai era rimasta pressoché ferma.
Ad esempio, Eni aveva versato 17,8 milioni a Publitalia, 5 milioni in più rispetto al 2007, l’Enel era passata da 10 milioni a 13, le Poste Spa negli ultimi due anni avevano moltiplicato per sei la quota per il Biscione.
La regola non vale solo per le grandi aziende private. Anche gli investitori istituzionali, cioè lo stesso Stato, avevano contribuito ad aumentare le tasche del padrone. Quando i ministeri e la presidenza del consiglio informano i cittadini con le campagne sui temi sociali (ma anche sull’anniversario della nascita di Garibaldi) la Rai non riscuote (per legge). Mediaset sì. Sempre nei primi mesi del 2009 la società era passata da 4,5 milioni a quasi 9. Con il risvolto grottesco dei 35 spot per i 60 anni della Costituzione con cui s’infarcì la programmazione di Rete4, canale sentenziato come incostituzionale.
Sarà anche per questo che la tv non soffre troppo la crisi. Al contrario dell’editoria, ancora in mezzo al guado. «Non ci sono segnali di uscita» ha detto recentemente il presidente della Fieg, il cartello che raccoglie gli editori in Italia, Carlo Malinconico. Anzi «la pubblicità va ancora male». Forse anche lui vorrebbe essere in Irlanda.❖

l’Unità 11.2.10
Media, in 4mila a rischio. La Fnsi: pronti allo sciopero
di Roberto Monteforte

La Federazione Nazionale della Stampa da lunedì stabilirà i modi e i tempi della protesta. Chiesto un incontro urgente a Letta, Fini e Schifani. «Qui non si tratta di dessert, ma del pane per centinaia di testate».

Nessuna soluzione nel Milleproroghe. Non c’è la norma per il ripristino dei fondi e del diritto soggettivo per l’editoria. Ancora un rinvio e scatta la protesta della Fnsi e del coordinamento dei cdr delle testate non profit, di idee e politiche da Avvenire al Secolo d’Italia, al Manifesto. Contro il rischio di reale chiusura per un centinaio di testate con oltre 4000 i posti di lavoro scatta lo sciopero di tutte le realtà interessate e la mobilitazione dell’intera categoria a difesa del pluralismo. Lo scandisce il presidente della Fnsi, Roberto Natale ieri in una conferenza tsmpa al Senato. Annuncia anche il blocco di «ogni interlocuzione tra il sindacato dei giornalisti e il governo sulla riforma dell’editoria e sul Regolamento». Lunedì si stabiliranno le modalità della protesta. La polemica di Natale è diretta con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti che ieri mattina aveva avvalorato la politica dei tagli. Per il sindacato sono state affermazioni «sconsiderate e irresponsabili». «Peccato commenta Natale che con una fetta più piccola i giornali già in crisi chiuderanno». Per questo, ha proseguito, «chiederemo un incontro al sottosegretario Gianni Letta e ai presidenti delle Camere». Il sottosegretario si è giocato la sua credibilità. Chiede un intervento straordinario del governo e il ripristino dei fondi anche il segretario Fnsi, Franco Siddi. «Bonaiuti deve smettere di prendere in giro il mondo dell'editoria. Due mesi fa ci ha detto che i fondi sarebbero stati confermati, oggi si accorge che in Italia c'è la crisi. E per affrontarla il governo cosa fa? Taglia orizzontalmente a tutti, invece di fare davvero una riforma che recuperi risorse moralizzando il settore». Lo dice Matteo Orfini, responsabile Informazione del Pd. La Fnsi riafferma il suo no al salvataggio delle sole testate storiche, ipotizzato da Tremonti. «Nessuna corsia di favore. La battaglia è più ampia». ribadisce Natale. Questa battaglia è a difesa del pluralismo e non può essere ritenuta «una difesa degli sprechi e dei costi della politica».
Appoggia la decisione della Fnsi per «una giornata di lotta» il segretario confederale Cgil, Fammoni che assicura «verificheremo insieme alla Slc-Cgil le modalità della nostra partecipazione».
Condivide le ragioni della protesta anche il fronte degli editori. Lelio Grassucci di Mediacoop, definisce «cattiveria incomprensibile» la scelta del governo. Spiega come non sia un problema di risorse e come il ripristino del diritto soggettivo sia indispensabile per la vita della testate. I senatori del Pd Lusi e Vita denunciano la prevaricazione del governo. Va trovata una soluzione positiva anche per i senatori Roberto Mura (Lega) e Alessio Butti (finiano del Pdl) che con l’on. Raisi assicurano la loro «battaglia parallela». Ora invitano a puntare sul «decreto sviluppo».

l’Unità 11.2.10
Elezioni, bavaglio alla Rai Il premier: «Solo un pollaio»
di Natalia Lombardo

Attacco frontale ai programmi di approfondimento. Giornalisti in rivolta a viale Mazzini
Bersani: «Da rivedere, si toccano i profili di libertà». Spallata del Cavaliere alla par condicio

«Pollai catodici da sostituire con tribune elettorali». Così il capo del governo e di Mediaset. Che silenzia la televisione pubblica prima del voto regionale. L’allarme del Pd, la rabbia dei giornalisti. Tegola sulla Rai. Oggi Cda.

«In Italia siamo sempre in par condicio, allora cosa mandiamo in onda? Le “pecorelle dell’intervallo anni 60?”: Michele Santoro, Lucia Annunziata, Giovanni Floris e altri conduttori, Milena Gabanelli, Iacona e Vianello, accorsi alla Federazione della Stampa, hanno chiesto ai vertici Rai di essere ricevuti oggi nel Cda e fermare in 48 ore il nuovo regolamento sulla par condicio, contro il quale l’Usigrai ha indetto uno sciopero. In un colpo tolti di mezzo dalla Rai i programmi di approfondimento odiati dal premier: Annozero, Ballarò, In Mezz’ora, per dire i più ascoltati. Nel mese prima delle elezioni non potranno parlare di politica, né ospitare politici. Unica possibilità: ridursi a contenitori per le Tribune elettorali e, se vogliono, spostare i loro programmi in altri giorni a patto che «parlino d’altro».
Per il segretario Pd, Bersani, la decisione della Vigilanza va rivista perché tocca profili di libertà». «Una decisione sciagurata, ne pensiamo tutto il male possibile» per Roberto Natale, presidente Fnsi che annuncia manifestazioni. Un «abuso di potere senza fondamento legale», per Santoro che dedica all’ingerenza della politica la puntata di oggi (titolo:
L’Era glaciale). Il regolamento è stato votato alle 23 di martedì dalla Commissione di Vigilanza con un blitz del Pdl che ha colto al volo (previo via libera del premier) l’occasione offerta dal relatore, il radicale Beltrandi. Il Pd è uscito dall’aula ma il numero legale c’è stato, l’Udc s’è astenuto.
Sono i parlamentari a decidere format e ospiti di un programma? Addio autonomia del giornalista; (il calendario delle Tribune lo stila la Vigilanza). Una norma «ad alto rischio incostituzionale» per la libertà d’espressione, secondo Lucia Annunziata; la sua In Mezz’ora dovrebbe rispettarla da domenica: «Rifiuto trattative private, se resta questa norma non andrò in onda»; per Santoro è un’altra prova di conflitto d’interessi che avvantaggia Mediaset; per Floris è «bulimia della politica»; tutti spingono l’azienda a verificare le strade legali. Stesso bavaglio per Bruno Vespa, che giudica «grave l’azzeramento dei programmi d’informazione». La mannaia cade anche su l’Ultima Parola del leghista Paragone, e rinvia l’esordio di Belpietro.
BERLUSCONI E IL POLLAIO
Ma a fianco di Vespa durante la presentazione del suo ultimo libro, c’è Silvio Berlusconi che tuona: «La par condicio è da abolire, è una legge liberticida», e quindi è giusto far tacere il «pollaio tv». «È una decisione del Parlamento», dice il premier che di solito lo ignora, «non vedo lo scandalo. Solo in Italia abbiamo delle trasmissioni in cui non c’è confronto ma risse da pollaio». Ha provato ad abolire la legge, per avere presenze in tv in proporzione ai voti dei partiti. Tra l’altro il regolamento chiude la bocca ai «piccoli» sotto al 4% nei primi quindici giorni.
L’EDITTO DI SAN MACUTO
È una vendetta del Pdl contro Santoro, ma anche dei radicali per il poco spazio in tv. Beltrandi infatti schernisce «l’arbitrio assoluto dei conduttori». Che s’arrabbiano.
Una tegola che cade anche sui vertici Rai; il direttore generale Masi ne ha discusso in una riunione con il vice Marano. Garimberti è preoccupato per la fuga degli spot in una fase di conti in rosso. I consiglieri d’opposizione, Rizzo Nervo, Van Straten e De Laurentis chiedono che venga «riformulato» il regolamento. Il presidente Rai ne ha parlato a San Macuto con Sergio Zavoli, presidente della Vigilanza. Che ha riunito l’ufficio di presidenza in cerca di una mediazione, ma il Pdl fa muro.
Cauta l’Authority delle Telecomunicazioni, che deve varare il regolamento par condicio per le tv private. Il Garante Corrado Calabrò ieri ha votato solo la prima parte del testo e non quella che cancella i talk show. Zavoli si dice «amareggiato» per l’esclusione dei «piccoli» e «preoccupato» per le ricadute sulla Rai, ma in una nota difende le altre norme. ❖

l’Unità 11.2.10
Intervista a Mehdi Khalaji
«Regime moribondo, Khamenei e Ahmadinejad sono sempre più soli»
di Gabriel Bertinetto

Lo studioso iraniano: «Quelli di oggi ricordano gli ultimi giorni dello Scià L’opposizione cresce ed è unita nel chiedere il rispetto dello Stato di diritto Siamo stanchi di violenze, l’Onda verde punta a un cambiamento pacifico»
Un regime in agonia. E situazione attuale ricorda gli ultimi giorni dello Shah».
Cos’è la crisi iraniana, prof. Khalaji? Un conflitto fra linee politiche (riformisti contro conservatori, duri contro moderati), o fra diverse visioni del sistema politico stesso? In altre parole l’opposizione mette in discussione le basi stesse della Repubblica islamica?
«Il movimento verde, eterogeneo, è unito su alcuni obiettivi di fondo. In primo luogo chiede un nuovo sistema di voto che garantisca elezioni corrette in futuro. La richiesta deriva dalla valutazione che le presidenziali di giugno non siano state manipolate solo al momento dello spoglio, e che l’intero processo elettorale vada perciò cambiato. Altra rivendicazione comune riguarda il rilascio dei detenuti politici e garanzie di piena libertà democratica. L’opposizione esige anche la punizione dei funzionari rei di violenze, torture, stupri ai danni degli arrestati, l’applicazione delle più elementari norme di uno stato di diritto. Ma nel movimento verde ci sono anche opinioni divergenti. Per alcuni la radice dei problemi iraniani sta nella mancata applicazione della Costituzione e delle leggi vigenti. Per altri la Costituzione stessa è parte del problema, perché poggia sul principio dell’autorità assoluta della Guida suprema, e perché giustifica discriminazioni di religione e sesso. In ogni caso però anche i fautori di un cambiamento di regime vogliono perseguire l’obiettivo in modo pacifico. Abbiamo sperimentato la violenza dei gruppi più diversi: islamisti, di sinistra, filo e anti-governativi. Ne abbiamo abbastanza».
Un numero crescente di dirigenti politici e religiosi si aggregano all’opposizione. Ahmadinejad e Khamenei sono isolati?
«È così. Nelle fasi di declino, le ideologie perdono significato e subentra il culto della personalità. Accade oggi in Iran con Khamenei, per il quale l’adesione all’ideologia islamica è ormai cosa secondaria rispetto alla lealtà personale nei suoi confronti. La sua regola di giudizio è: o sei con me o sei contro. Così finiscono sotto attacco anche rivoluzionari della prima ora, che passano all’opposizione perché non possono accettare quella persona come rappresentante autentico dell’ideologia in cui credono. Cresce un fossato fra Khamenei e chiunque osi criticarlo».
E Ahmadinejad?
Lui verso Khamenei si accredita come colui che, fra tante fazioni, è a capo di quella a lui più fedele. Ecco perché la Guida suprema ritiene che il proprio destino politico sia ormai legato al presidente, lo appoggia in maniera incondizionata, e non tollera obiezioni alle sue scelte. Molti degli stessi conservatori tentano invano di fargli capire che in quel modo danneggia se stesso e la Repubblica islamica. Il cerchio di sostenitori si restringe sempre più intorno a Khamenei, che è sempre più solo. Legandosi strettamente ad Ahmadinejad e facendone quasi l’essenza della Repubblica islamica, la Guida suprema, al di là delle proprie intenzioni sta rimpolpando i ranghi avversari».
È vero che il regime sopravvive soprattutto grazie al sostegno degli apparati militari e di sicurezza? «Khamenei non è mai stato popolare negli ambienti religiosi, perché non era lui il successore naturale di Khomeini. Quando ha visto che non poteva contare nemmeno su un largo appoggio politico, ha cercato una sponda fra i militari, dando loro molto potere, anche economico. Un terzo dell’economia nazionale è in mano ai Pasdaran. La legittimità di Khamenei è offuscata, il suo potere limitato. La scelta elettorale pro Àhmadinejad è stata un errore pericoloso, ed ora sta perdendo potere. La situazione è simile a quella che ci fu negli ultimi anni dello Shah, che aveva le forze armate più sviluppate di tutto il Medio oriente, ma sbagliò nel puntare unicamente sul loro aiuto. Non bastano truppe e prigioni per governare. Anche le istituzioni religiosi e politiche hanno il loro peso. Khamenei sta vivendo in un castello di illusioni».
Si può dire che Pasdaran e milizie Basiji siano insieme il punto di forza e di estrema debolezza del regime? «Esatto. Tanto più che non tutti i militari sono pronti ad obbedire a qualunque ordine. Il 27 dicembre, giorno dell’Ashura, molti ufficiali e soldati si sono rifiutati di sparare sulla folla. Li hanno arrestati e processati. Se la crisi si aggrava, non so fino a quando Khamenei e Ahmadinejad potranno contare sui generali per reprimere la protesta. La loro disponiblità non è illimitata, così oggi come ai tempi dello Shah. Tra l’altro a un certo punto i Pasdaran potrebbero valutare se sia più importante quello che Khamenei dice loro di fare, oppure la cura dei loro interessi economici privati». Inizialmente Ahmadinejad aveva seguaci in parte dei ceti popolari, i poveri delle periferie urbane, gli abitanti delle aree rurali, le persone meno istruite etc. La crisi attuale sta intaccando gli schieramenti sociopolitici tradizionali? «Qualcosa sta mutando. Il populismo di Ahmadinejad ha funzionato nei primi anni della sua presidenza. Ora però gli iraniani vedono che le promesse non sono state mantenute. Il prezzo del carburante è salito, certi sussidi sono stati eliminati, crescono inflazione e disoccupazione. La formula populista ha prodotto illusioni e delusioni. Così l’opposizione guadagna terreno ben oltre i confini del ceto medio urbano. Il malcontento si estende». La comunità internazionale discute nuove sanzioni economiche contro Teheran a causa del suo programma nucleare. Che effetto potrebbero avere sull’economia iraniana e sugli assetti politici interni?
«Dipenderà dal tipo di sanzioni. Se fossero a tutto campo avrebbero un impatto negativo. Diverso l’effetto se venissero indirizzate su bersagli specifici, in particolare i Pasdaran, per indebolirne la forza economica e militare. I Verdi non sono ostili ai Pasdaran come istituzione, ma al ruolo politico ed economico che sono venuti ad assumere. L’opposizione vuole che le Guardie rivoluzionarie facciano il loro dovere nella difesa del territorio, ma non si impiccino nelle faccende politiche e nella gestione di attività economiche, perché questo aumenta la corruzione e indebolisce l’imprenditoria privata. Se le sanzioni vengono ben mirate, saranno efficaci». Cosa riserva il prossimo futuro? Una rivolta violenta, un repressione ancor più feroce, l’implosione del regime? «È poco probabile un compromesso fra Khamenei e i Verdi. Le autorità possono scatenare un attacco indiscriminato all’opposizione. Oppure il regime si sfascia, e in tal caso o emergono i Pasdaran attraverso un colpo di Stato, oppure si impone l’opposizione. In ogni scenario comunque è certo che Khamenei perda potere. Già ora di fatto non è più la Guida suprema, è sempre più un soggetto politico fra tanti altri. Chiunque vinca, lui ha già perso. Ora io penso che l’Occidente abbia un ruolo importante da svolgere nel dare forma al futuro dell’Iran. Se intacchi la forza dei Pasdaran, calano le probabilità che possano prendere il potere. Se le forze armate sono indebolite, avranno spazio i civili, sia quelli vicini al governo che gli avversari».
Khamenei sconfitto in ogni caso. E Ahamdinejad può svolgere un ruolo autonomo? «No. Sono i Pasdaran a comandare. Per ora hanno bisogno di lui e di Khamenei per trarne rispettivamente legittimità politica e religiosa. Ma nel momento in cui quella doppia legittimità vacilla, i Pasdaran non avranno esitazioni a mettersi in proprio».❖

l’Unità 11.2.10
Yehoshua: «Pace con i palestinesi per fermare gli ayatollah»

La pace con i palestinesi come arma strategica per togliere ossigeno alla propaganda iraniana e disinnescare la minaccia alimentata dai piani nucleari del regime degli ayatollah e dal suo odio antisemita. A invocarla al fianco delle sanzioni e in alternativa a ipotesi di azioni militari dagli esiti potenzialmente devastanti è Abraham Yehoshua, scrittore di fama e voce controcorrente in Israele, in un articolo affidato ieri alle colonne di Haaretz. Un'analisi nella quale l'autore di «Fuoco amico», coscienza critica dell'anima liberal del Paese, non sminuisce la sensazione di pericolo avvertita dagli israeliani di fronte all'incubo di un Iran dotato di armi atomiche. Ma si smarca dalla convinzione del governo e di quasi tutto l'establishment di Gerusalemme secondo cui la sfida iraniana non può che relegare in secondo piano i faticosi tentativi di rilancio del negoziato con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) o con la Siria. Convinzione fin troppo sbrigativa, se non alibi frutto di cattiva volontà, lascia intendere Yehoshua. Lo scrittore è persuaso, al contrario, che proprio un accordo israelo-palestinese possa essere se mai raggiunto l'elemento in grado di «neutralizzare il velenoso contagio dell'odio (della nomenklatura iraniana) contro Israele e di frantumare il meccanismo politico-propagandistico per il quale il «piccolo Satana» (sionista) va distrutto ad ogni costo».
Yehoshua ricorda come la dirigenza dell'Anp abbia di recente invitato Teheran a non immischiarsi e a non strumentalizzare la propria causa. E come in fondo l'Iran in questi ultimi anni si sia limitato a sobillare l'estremismo di Hamas, salvo lasciare che fossero poi gli abitanti della Striscia di Gaza a pagare il conto della «dura risposta israeliana». Di qui la convinzione che ci sia il modo di sottrarre spazio ai pretesti retorici dell'Iran. Come? Attraverso un progetto di pace fra israeliani e palestinesi ❖

il Fatto 11.2.10
L’11 febbraio dell’Iran:
Storia di una rivoluzione tradita
Nell’anniversario della cacciata dello Scià, Ahmadinejad intima gli oppositori a non manifestare. Sanzioni Usa contro le aziende dei pasdaran
di Mauro Mauri

P er il mondo occidentale oggi è l’11 febbraio, mentre il calendario persiano indica che è il 22° giorno del mese di Bahman, data in cui l’Iran celebra il 31° anniversario della Rivoluzione islamica, concretizzatasi quando, acclamato da milioni di persone, l’Ayatollah Khomeini tornò dall’esilio parigino per salire al potere detronizzando lo Scià Reza Pahlavi. Ma questa volta tutto è completamente diverso rispetto agli anni scorsi: sono irreversibili le conseguenze del broglio elettorale di giugno e si è raggiunto il punto di non ritorno. L’impressione è che nulla sarà più come prima e che il regime si sia messo in un cul de sac. Ora Mir Hussein Moussavi e Mehdi Karrubi, i due ex sfidanti di Ahmadinejad, non conducono più l’Onda Verde ma sono trasportati da lei. Paradossalmente, c’è un valore condiviso dall’intero establishment religioso, Ahmadinejad e Khamenei in testa,e dai leader riformatori: l’importanza per la società iraniana della Rivoluzione islamica. Però regime e riformisti sulla rivoluzione hanno due visioni che sono agli antipodi: ma cos’è stata, o meglio, cosa voleva essere? Dissidenti e intellettuali sostengono che gli ideali, le teorie su cui era basata, in occidente siano stati recepiti in modo completamente distorto a causa dell’American Propaganda, la vendetta mediatica delle compagnie petrolifere cacciate via a malo modo dal suolo persiano. A conferma, è sconosciuta la figura del suo ideologo, non Khomeini – come quasi tutti pensano – ma Ali Shariati: laico, laureato in Sociologia, brillante studente di Filosofia a Parigi, scomparve nel 1977 a Londra, dov’era rifugiato da poche settimane. I referti medici sostennero che fu colpito da un infarto, ma in Iran tutti puntarono il dito alla Savak, l’odiata intelligence dello Scià. Terzomondista di simpatie marxiste, l’intento di Shariati era plasmare una società laica e democratica ispirata da moralità e valori tradizionali dell’islam persiano – diverso da quello arabo – affrancando il paese da influenze politiche esterne, restituendoil potere al popolo.Insintesi intendeva costituire una via intermedia tra socialismo e capitalismo.
Non a caso, durante i moti antecedenti la fuga dello Scià, accanto agli esponenti del clero sciita scesero in piazza studenti e rappresentanti della sinistra, convinti che una volta abbattuto il regime, i mullah, disinteressati al potere politico, sarebbero tornati nelle moschee. Ma non andò così. “La Rivoluzione ha fallito, è morta sul nascere. La dittatura laica dello Scià venne sostituita da una dittatura di matrice religiosa che calpesta i veri valori islamici”. Queste le dure parole del Gran Ayatollah Ali Hussein Montazeri, che poco prima di morire, dopo aver definito illegittimo e fascista il regime di Ahmadinejad, paragonò la situazione sociale dell’Iran odierno, a quella antecedente la fuga di Reza Pahlavi.Un’altra voce critica è quella dell’Ayatollah Hussein Khomeini, nipote dell’imam per antonomasia, che tuona “La Rivoluzione è uscita dai binari divorando i suoi figli migliori”. Negli anni scorsi finì agli arresti domiciliari per aver provocatoriamente invitato mr Bush ad invadere l’Iran per liberare il paese dalla dittatura dei mullah. Se non fosseper il cognome che porta probabilmente sarebbe finito nella lista dei dissidenti deceduti per un improvviso arresto cardiaco, identico a quello che fulminò Shariati.
In Iran è proibita qualsiasi manifestazione antigovernativa, ma l’Onda Verde per oggi ha previsto un mobilitazione possente (tre milioni di persone in tutto il paese). Anche per questo è arrivata la risposta pronta del capo della polizia iraniana, Esmail Ahmadi-Moqaddam, che ha avvertito: “Saranno impedite manifestazioni dell’opposizione”. E, minacciosamente, ha detto che alcune persone che cercavano di organizzare raduni di protesta sono già state arrestate. Sempre ieri, il sito in italiano della radiotelevisione di Stato iraniana è tornato ad attaccare il governo Berlusconi in una lettera aperta al ministro degli Esteri Frattini. “La polizia iraniana – si legge – ha impedito danni alla vostra ambasciata e ha solo acconsentito che gli studenti intonassero i loro slogan come è giusto che avvenga in una democrazia; vuole che impediamo le manifestazioni?”. Frattini, ha detto: “E’ tempo di sanzioni nei confronti dell’Iran. A Teheran abbiamo visto provocazioni inaudite e gesti inconsulti. Credo che per
la comunità internazionale oggi sia una prova di credibilità: se non riusciamo a ragionare in fretta su un pacchetto di sanzioni condivise dimostriamo la nostra debolezza”. Ieri mattina, sul New York Times, un editoriale (facendo riferimento alle ambizioni nucleari di Ahmadinejad) ha premuto un acceleratore in materia di sanzioni. Il tempo per esercitare pressioni sull’Iran “sta per scadere”, si legge sull’autorevole quotidiano americano. Se il Consiglio di Sicurezza temporeggia o fa compromessi “gli Stati Uniti e i loro alleati devono andare verso a pesanti sanzioni individuali”. Gli Usa hanno annunciato l'inasprimento delle misure già prese nei confronti di aziende legate ai pasdaran. Anche la Russia, attraverso il viceministro degli Esteri, Sergei Ryabkov, sostiene che una dura politica di sanzioni contro l’Iran sia diventata ormai necessaria.