sabato 4 aprile 2015

Corriere 4.4.15
Due bombe per battere il Giappone
Le stragi di Hiroshima e Nagasaki
risponde Sergio Romano


Ritiene che, dopo 70 anni e ricerche storiche approfondite, si evidenzino le responsabilità degli scienziati che consentirono agli Usa di disporre delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki? Quando Truman le usò, la Germania era sconfitta e Giappone era in ginocchio.
Giovanni Cama

Caro Cama,
Non era questa la percezione del presidente Truman e del gruppo dirigente americano nelle giornate che precedettero il bombardamento di Hiroshima. Il 26 luglio del 1945 Truman, Clement Attlee (il nuovo primo ministro britannico dopo la sconfitta di Churchill nelle recenti elezioni politiche) e il generalissimo cinese Chiang Kai-shek decisero d’indirizzare al governo giapponese la dichiarazione di Potsdam. Nel testo si prometteva che il Giappone sarebbe stato trattato umanamente e che le forze d’occupazione alleate sarebbe state ritirate non appena fossero state restaurate le libertà costituzionali, il Paese avesse rinunciato alla sua potenza militare e un governo «incline alla pace» fosse stato eletto dai suoi cittadini. In caso contrario la distruzione sarebbe stata «prompt and utter», pronta e assoluta. Era un ultimatum, ma redatto in modo da lasciare intendere che la persona e il ruolo dell’imperatore sarebbero stati rispettati.
A Tokyo vi fu una riunione del governo giapponese che durò una intera giornata e si concluse con una dichiarazione in cui il documento di Potsdam era trattato come una inutile ripetizione di posizioni già note. Fu quello il momento in cui si decise che il montaggio della bomba atomica sarebbe stato accelerato. Non appena i responsabili del progetto comunicarono che il lavoro era pressoché compiuto, Truman rispose: «Proposta approvata. Sganciate quando il lavoro è finito, ma non prima del 2 agosto». La conferenza di Potsdam stava per terminare e il presidente americano non voleva che l’operazione avesse luogo mentre i lavori erano in corso.
Non vi fu in quei giorni alcuna discussione sulla «moralità» della bomba. Truman era stato fortemente impressionato, nelle settimane precedenti, da una studio in cui si calcolava il numero delle vittime americane se l’esercito giapponese avesse difeso ogni isola del grande arcipelago con le unghie e coi denti. Ma gli effetti della bomba, quando venne gettata su Hiroshima il 6 agosto, sorprese anche coloro che l’avevano ideata e costruita. Un biografo di Truman, David McCullough, ricorda nel suo libro che Robert Oppenheimer aveva previsto 20.000 morti. Ma le persone immediatamente uccise dalla esplosione furono 80.000 e quelle che morirono nei mesi seguenti circa 50 o 60 mila. Sulla nave che lo riportava negli Stati Uniti, Truman apprese la notizia mentre stava pranzando con alcuni rappresentanti dell’equipaggio. Balzò in piedi e disse: «Abbiamo appena gettato sul Giappone una nuova bomba che è più potente di 20.000 tonnellate di tritolo». Le parole furono accolte con un applauso scrosciante.
I primi interrogativi furono provocati dalla constatazione che l’area di Hiroshima non sarebbe stata abitabile per molti anni. L’Ammiraglio William Leahy, per molto tempo capo di gabinetto di Roosevelt, scrisse: «Le possibilità letali di una tale arma sono terrificanti. Siamo i primi a possederla, ma è certo che in futuro verrà sviluppata da potenziali nemici e che verrà probabilmente usata contro di noi».
Ma su ogni altra considerazione prevalse la speranza che la nuova arma avrebbe permesso all’America di evitare numerosi altri sbarchi di truppe, con perdite molto più elevate di quelle subite in Normandia. Fu questa la ragione per cui, quattro giorni dopo Hiroshima, una seconda bomba fu gettata su Nagasaki dove uccise 70.000 persone. Vi fu a Tokyo un’altra riunione di gabinetto durante la quale alcuni generali sostennero che occorreva attendere l’invasione degli americani per combatterli sul suolo nazionale; ma l’imperatore Hirohito decise di accettare l’ultimatum di Potsdam.
A Stalin, molto genericamente informato da Truman nei giorni precedenti, non piacque naturalmente che gli Stati Uniti avessero un’arma di cui l’Urss era priva. Ma nel frattempo ne approfittò subito per colpire il Giappone invadendo la Manciuria con un milione di uomini. Come Francesco Ferrucci a Gavinara quando, ormai prigioniero, fu colpito dalla spada di Maramaldo, anche il Giappone avrebbe potuto dire a Stalin: «Tu uccidi un uomo morto» .
il Fatto 4.4.15
Cina
Intrighi e segreti dell’onorevole Zhou
di Cecilia Attanasio Ghezzi


QUELLO A YONGKANG (EX MINISTRO DELLA SICUREZZA, ORA DEFINITO “TRADITORE”) SARÀ IL PROCESSO PER CORRUZIONE PIÙ IMPORTANTE DALLA FONDAZIONE DELLA REPUBBLICA POPOLARE NEL 1949

Pechino Zhou Yongkang, uno degli uomini più potenti della scorsa legislatura, è stato ufficialmente incriminato: corruzione, abuso di potere e divulgazione di segreti di Stato. Il suo, per la Cina, sarà il processo più importante dal 1949, anno di fondazione della Repubblica popolare. È infatti il funzionario di più alto grado mai portato a processo dalla fine della Rivoluzione culturale. Un successo per il presidente che rompe una delle regole non scritte che hanno regolato l’avvicendarsi della leadership cinese dalla morte di Mao: non indagare i propri membri, specie se in pensione. E dal 2012 Zhou Yongkang si era infatti ritirato dalla vita pubblica. Prima sedeva nel Comitato permanente del politburo, i nove uomini alla guida di una nazione di 1,4 milioni di abitanti. Quella di Zhou Yongkang è una figura importante. Ingegnere, classe 1942, si è fatto le ossa e gli “amici giusti” lavorando per oltre trent’anni negli impianti petroliferi di Shengli. Qui ha costruito la carriera politica. Un percorso lungo che lo ha visto direttore di PetroChina, ministro della pubblica sicurezza e segretario di partito della regione del Sichuan. Se a Shengli si era dedicato agli affari, è con la sua carriera politica che si guadagna la fama di avere un pugno di ferro. Contro il Falun Gong o nella regione a maggioranza musulmana dello Xinjiang, intimidisce e reprime. Quando arriva a dirigere il vasto apparato di sicurezza della Repubblica popolare è l’uomo più temuto del paese. Petro-China, nel frattempo è cresciuta: una capitalizzazione pari a 175,61 miliardi di dollari e al controllo del 90 per cento del gas naturale del paese. Al suo vertice, come ai vertici dell’esercito, ci sono i sodali di Zhou Yongkang. Poco si sa delle dinamiche che hanno portato al potere la nuova leadership cinese a novembre del 2012. Quello che è certo è che è stata una guerra senza esclusioni di colpi. Bo Xilai, giovane e carismatico politico che avrebbe potuto rubare la scena all’attuale presidente, viene espulso dal Partito e condannato all’ergastolo.
DURANTE IL PROCESSO, siamo nel settembre 2013, afferma che avrebbe eseguito gli ordini di un’importante agenzia di Stato quando tentò di insabbiare la fuga al consolato americano del suo braccio destro Wang Lijun. L’agenzia in questione era la Central Politics and Law Commission, allora diretta da Zhou Yongkang. Da allora il potente Zhou sparisce dalla circolazione. Si mormora che sia agli arresti domiciliari. Non arriva nessuna conferma ufficiale. Ma neanche una smentita.
Nei 18 mesi che seguono vengono arrestate oltre 300 persone tra suoi parenti e sodali nell’esercito e nelle grandi imprese di stato. Si fa terra bruciata attorno a quello che era l’uomo più temuto di tutta la Cina. Neanche il grande vecchio della politica cinese, l’ex presidente Jiang Zemin, riesce più a proteggerlo. Si calcola che le autorità gli avrebbero già confiscato 14,5 miliardi di dollari. E ieri la corte di Tianjin lo ha finalmente incriminato. È una prova di forza dell’attuale presidente. Sconfiggerò la corruzione ovunque si annidi, sembra comunicare Xi Jinping. Nessuno si senta escluso.
Il Sole 4.4.15
Londra al voto
Le elezioni inglesi ostaggio del nazionalismo scozzese
L’Snp rischia di diventare terzo partito e ago della bilancia
di Leonardo Maisano


Londra Va male tutto, anche un’intramontabile gloria come il whisky. Le esportazioni sono calate del 7,4% ai minimi dell’ultimo ventennio sotto i colpi del Bourbon americano che ha sullo Scotch lo stesso effetto dello shale oil sul prezzo del barile. La caduta del liquore nazionale mima, infatti, quella della ricchezza nazionale, il petrolio del mare del Nord che avrebbe dovuto finanziare la secessione dal Regno Unito. Edimburgo l’ha scampata per un pugno di voti nel settembre scorso. Scampata proprio, alla luce di come sarebbero andate le finanze di uno Stato indipendente, fiaccate dalla congiuntura che deprime i costi dell’energia oltre ogni ragionevole previsione. La propaganda nazionalista nei giorni precedenti la consultazione popolare insisteva sulla ”convenienza della solitudine” grazie alla generosità dei pozzi off shore, unica vera garanzia di gettito per le casse dei territori oltre il Vallo. Oggi la Scozia si ritroverebbe con il cappello in mano. Ne deriva, per associazione logica, che i sostenitori della secessione dovrebbero essere in umiliante ritirata.
I sondaggi dicono il contrario: perduta la battaglia per l’addio da Londra, uomini e donne di highlands e lowlands si preparano a invadere Westminster. È l’unico dato certo di elezioni nel segno della più assoluta incertezza. Tutti gli istituti di statistica assegnano allo Scottish national party un successo senza precedenti alle elezioni britanniche del 7 maggio, in marcia verso il terzo posto alla Camera dei Comuni, alla spalle di Tory e Labour. A pagare il prezzo più alto sono i laburisti e LibDem – i conservatori eleggono un solo parlamentare nei collegi oltre il Vallo – destinati ad essere decimati da una spinta nazionalista che porterebbe, per taluni, l’Snp sulle soglie dell’en plein, conquistando 56 dei 59 deputati che si assegnano in Scozia. London school of economics è meno radicale nel suo studio sulla dinamica elettorale, ipotizzando 40 deputati per Snp, un multiplo rispetto ai 6 eletti del 2010. Il consenso per i nazionalisti è al 4% su base nazionale quindi, in termini percentuali, è molto più contenuto rispetto al moltiplicatore garantito dal sistema elettorale britannico, il first past the post. Ovvero quel maggioritario secco che, invece, penalizza Nigel Farage e l’Ukip. Il sostegno popolare per il partito eurofobo, dicono i sondaggi, sta calando dal 20% che mediamente si registrava nei mesi scorsi al 12-15 % di oggi, ma a sconfiggerli – sulla carta – è il meccanismo di calcolo del voto che agisce in modo speculare al “favore” che, il meccanismo stesso, garantisce a Snp. A fare la differenza è la concentrazione territoriale del consenso nel caso scozzese, a fronte della diffusione sul territorio nazionale dell’Ukip che così cade nella tagliola del maggioritario British style e rischia di eleggere solo un paio di Members of Parliament.
La slavina tartan è su Westminster, ben rappresentata dal contrappasso storico che si va delineando a Glasgow dove cinque dei sette seggi Labour dovrebbero passare ai nazionalisti con uno swing di cui pochi hanno memoria, visto che i laburisti non perdono un deputato nella città da più di trent’anni. La slavina farà più danni al partito di Ed Miliband in Scozia di quelli che potrà fare l’Ukip ai Tory in tutto il Regno, ma le conseguenze non finiscono qui. La crescita dell’Snp di fatto renderà ingovernabile il Paese se è vero che l’impalpabile maggioranza che Lse assegna ai Tory sul Labour (4 deputati) non basterà per mantenere David Cameron a Downing street, rendendo come ipotesi più probabile un governo di minoranza abbarbicato ai voti nazionalisti. In altre parole, un esecutivo con un premier Labour e con il sostegno esterno di LibDem e Snp. Per la City è lo scenario peggiore. E non solo perché la Gran Bretagna marcia verso un lessico politico da Italia della Prima Repubblica, inoltrandosi nei meandri dell’instabilità di governo, fatta di multiple coalizioni e patti di non belligeranza. L’impronta socialista tradizionale (rispetto alla Terza Via di Tony Blair) del Labour di Ed Miliband, infatti, coniugata con il moltiplicatore radicale dell’Snp, porterà a spinte ancor più estreme su welfare e spesa pubblica, ma anche su temi come il nucleare con i Trident al centro di un delicato dibattito che coinvolge sicurezza e difesa del Regno. I rischi sono soprattutto altri, gli stessi paventati dal dibattito secessione.
«Se Snp faràun accordo con il Labour – spiega Tony Travis scienziato della politica, esperto di dinamica del consenso alla London School of Economics - avrà influenza importante sulle scelte nazionali. Tratterà per spuntare benefici a favore di Edimburgo, innescando così la reazione degli elettori inglesi o delle altre nazioni». È il timore ultimo della dissoluzione del Regno, quello stesso che si era materializzato con il referendum scozzese e che riemerge per l’effetto perverso di un sistema elettorale inadeguato al mutare dei tempi. La debole rappresentatività del first past the post britannico funzionava, in uno scambio tacito con la stabilità politica, nel mondo bipolare di Tory e Labour. Oggi le forze in campo sono sette e il bacino dei due grandi partiti che un tempo si spartivano il 90% dei voti è al 65-68 per cento. La frammentazione avanza oltre la Manica riscrivendo la storia. Con la erre arrotata in gran voga da Edimburgo in su.
Corriere 4.4.15
La via di Mosca: ultimo ricatto di Tsipras all’Ue
di Danilo Taino


Tra i danni collaterali che la crisi greca si trascina, c’è un cambiamento nel modo di trattare fra partner europei che in precedenza non si era mai visto. E che nei prossimi giorni potrebbe raggiungere livelli alti. Il viaggio del primo ministro ellenico Alexis Tsipras a Mosca il prossimo 8 aprile preoccupa e irrita il mondo politico tedesco. Non per il viaggio in sé: anche Angela Merkel e François Hollande hanno incontrato Vladimir Putin, di recente — come ha ricordato la cancelliera stessa. Il problema è che il vertice greco-russo è visto come volutamente minaccioso.
Il sottinteso che lo caratterizza, sia dal punto di vista di Putin sia dal punto di vista di Tsipras, è l’obiettivo di mettere in difficoltà l’Europa. La prospettiva — improbabile, ma che aleggia sull’incontro — è la creazione di una relazione speciale con Mosca che per Atene sarebbe almeno in parte alternativa a quella con Bruxelles. Per il leader russo è un’occasione per creare divisioni nella Ue, la quale nei mesi scorsi è stata inaspettatamente unita nell’imporre sanzioni al Cremlino a causa della crisi ucraina (Atene, tra l’altro, ora si dice contraria a queste sanzioni). Per Tsipras è un modo di dire: se non ci date il denaro che ci serve potremmo cambiare il quadro di alleanze della Grecia, oggi un partner dell’Occidente nel Mediterraneo e vicino al Medio Oriente.
L’iniziativa potrebbe assumere caratteri concreti se la Russia decidesse di promettere aiuti finanziari ad Atene o se, lo stesso 8 aprile, Mosca comprasse titoli a beve termine che il governo greco ha intenzione di mettere in asta quel giorno. Il 9 aprile, la Grecia deve ripagare una rata di prestito da 460 milioni al Fondo monetario internazionale, ha però problemi di cassa e il favore di Putin sarebbe utile a Tsipras per dire ai creditori che Atene ha alternative finanziarie e geopolitiche ai loro aiuti. Non è così, con ricatti avventuristici, che si tratta tra partner — dicono a Berlino. Se questo «nuovo» modo di operare diventasse frequente, l’Europa sarebbe nei guai.
Il Sole 4.4.15
Storia d’amore e d’interesse
Quella tra l’Italia e l’Iran è una lunga storia d’amore e di interesse, dai tempi di Marco Polo fino a Enrico Mattei.
di Alberto Negri

Quella tra l’Italia e l’Iran è una lunga storia d’amore e di interesse. Dai tempi di Marco Polo che sedusse una principessa iraniana per portarla in sposa all’imperatore della Cina, fino alla grande foto di Enrico Mattei dai riverberi color seppia che ancora sorride negli uffici di Teheran della Nioc, la compagnia petrolifera di Stato. Come raccontano i libri di storia iraniani il presidente dell’Eni, considerato un eroe da affiancare al primo ministro Mossadeq, voleva fare concorrenza alle Sette Sorelle. Mossadeq nazionalizzò il petrolio e fu sbalzato dal potere nel ’53 da un colpo di stato anglo-americano, Mattei morì in un misterioso incidente aereo qualche anno dopo. Il patron dell’Eni favorì persino il fidanzamento tra lo Shah Mohammed Reza Pahlevi e Maria Gabriella di Savoia ma questo grandioso lasciapassare ai pozzi petroliferi sfumò quando l’Osservatore Romano condannò le possibili nozze tra una cattolica e un divorziato, per di più musulmano.
Sull’amore non si possono fare previsioni, sugli interessi è più facile: se dopo l’accordo sul nucleare, da perfezionare entro il 30 giugno, cominceranno a togliere le sanzioni le aziende italiane saranno in prima fila, come lo sono già adesso anche se vivono un pò da sorvegliate speciali dei servizi americani e britannici che poco gradiscono questa relazione privilegiata.
Ma anche gli italiani, che pure qui hanno tenuto calde le relazioni con la visita in marzo del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, dovranno temere la concorrenza. I francesi, riluttanti nel dare fiducia gli accordi di Losanna per compiacere i clienti sauditi, hanno inviato a Teheran una missione con 100 imprese per aggiudicarsi i futuri contratti nel campo dell’energia e in ogni altro settore appetibile.
Lo stesso discorso vale per gli Usa che pure non hanno relazioni diplomatiche dal 1979. Alla Nioc mostrano le parcelle assegnate alle compagnie occidentali nel giacimento offshore di gas di South Pars, la cui produzione, a regime, vale un anno di consumi europei, oltre 500 miliardi metri cubi. Sulla mappa c’è un largo spazio bianco, il più grande: «È l’area riservata alle compagnie americane quando torneranno qui», dicono gli iraniani. C’è un precedente significativo: nel ’94 fu assegnato alla Conoco il primo contratto petrolifero accordato a una compagnia straniera dopo la rivoluzione islamica, un anno dopo cancellato da Clinton sotto pressione del Congresso che impose nuove sanzioni.
L’Italia qui ha un credito enorme. «Siete il Paese europeo per noi più importante», ripete a ogni incontro il presidente Hassan Rohani. Da 50 anni le relazioni non hanno mai avuto battute d’arresto, neppure nei momenti peggiori: negli anni ’80, quando un milione di giovani iraniani moriva nelle paludi dello Shatt el Arab contro l’Iraq, le imprese italiane furono le uniche che non abbandonarono mai la piazza.
Aiutavamo l’economia ma anche lo sforzo bellico dell’Iran: questa è una delle ragioni fondamentali che ha consentito importanti intese per l’Eni e le altre imprese italiane. L’Italia, alla fine degli anni 90, fu anche il primo paese europeo, dopo la “crisi degli ambasciatori”, a ristabilire contatti con gli ayatollah e a sostenere il tentativo riformista dell’ex presidente Mohamed Khatami.
Furono gli stessi iraniani a spingere perché Roma, nel 2004, accettasse di entrare nel gruppo Cinque più Uno del negoziato nucleare. L’Italia declinò perché intendeva mantenere una posizione di “equidistanza” tra le parti: non voleva entrare in rotta di collisione con un partner commerciale importante e allo stesso tempo rischiare frizioni con Washington.
L’Italia in Iran ha anche colto qualche significativo successo diplomatico, come Giandomenico Picco dell’Onu che ebbe un ruolo importante nel cessate il fuoco tra Iran e Iraq nell’88. Il personaggio più noto però è Andreotti: «Per noi è sempre stato un grande amico», ha detto qualche settimana fa a Teheran Ali Akbar Velayati, consigliere della Guida Suprema Khamenei, e Mohammed Larijani, fratello del presidente del Parlamento, ha dedicato in un libro otto pagine a un ritratto dell’ex presidente del Consiglio che Rafsanjani accoglieva con onori da capo di stato anche quando non era più al governo. È per questi antichi legami che l’Italia scambia informazioni con l’Iran e gli Hezbollah libanesi vitali per la nostra presenza militare in Afghanistan e nel Sud del Libano. Teheran è una delle porte del Medio Oriente dove entriamo accolti da protagonisti: non accade per la verità troppo spesso.
Il Sole 4.4.15
Storia e geopolitica
Il compromesso di Losanna lascia irrisolto il problema di sempre: la volontà iraniana di distruggere lo Stato ebraico
Le ragioni d’Israele e l’odio antico di Teheran
di Ugo Tramballi


«La distruzione di Israele non è negoziabile», diceva il giorno prima dell’accordo di Losanna, il generale Muhammad Reza Naqdi. La precisazione del comandante dei Basij, la milizia volontaria, uno dei pilastri del regime iraniano, aiuta a spiegare le reazioni altrimenti incomprensibili di Bibi Netanyahu. Molti Paesi hanno nemici pericolosi, ma nessuno è dichiaratamente minacciato di estinzione come Israele: non minacciato da un’organizzazione terroristica ma da un altro paese che siede nel consesso delle Nazioni Unite.
Per questo due settimane prima delle elezioni Benjamin Netanyahu è andato al Congresso di Washington a tenere un discorso politicamente deprecabile, e ciononostante ha conquistato il voto della maggioranza degli israeliani. Gli ex generali, gli ex capi capi di tutte le agenzie di intelligence e molti di quelli ancora in servizio, insistono sull’impossibilità di bombardare i siti nucleari iraniani; ricordano che un negoziato è necessario e che quella condotta dal 5+1 fosse una buona trattativa. Ma la maggioranza degli israeliani continua a credere a Bibi più che a loro.
C’è qualcosa di irrazionale ma comprensibile nel comportamento collettivo, data la storia che ha portato alla nascita d’Israele. C’è fortunatamente più razionalità nei vertici militari, la gran parte dei quali quando passano alla politica, entrano nei partiti di centro-sinistra e nel campo della trattativa con i palestinesi. Tuttavia, quando c’è di mezzo la sicurezza nazionale, evitano rischi e scelgono la strada più dura. Secondo Itamar Rabinovich, uno dei più importanti diplomatici israeliani, il governo «è scettico su Obama e sulle sue politiche in Medio Oriente. In particolare teme che sull’Iran non siano esercitate sufficienti pressioni». Ha’aretz, il giornale della sinistra israeliana, è più brutale sulle ambiguità americane: «Combattendo l’Iran in Siria, aiutando l’Iran in Iraq, negoziando con l’Iran in Svizzera».
Poi c’è la retorica di Bibi. Israele, diceva ieri Netanyahu, «non accetterà un accordo che permetta a uno stato che invoca la sua distruzione di acquisire l’arma nucleare». Nella dichiarazione c’è una falsità e una verità. La prima è affermare che i 5+1 ignorino la sicurezza d’Israele. Il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier, che a Gerusalemme riscuote più fiducia di John Kerry, ha invitato gli israeliani a guardare con più attenzione gli accordi di ieri, i cui punti «sono intesi a garantire la sicurezza del Medio Oriente: che migliorerà, non peggiorerà».
Ma la parte di verità della dichiarazione di Netanyahu è la politica ufficiale dell’Iran che prevede la distruzione d’Israele, armando Hezbollah e Hamas. L’affermazione del comandante dei Basij dimostra che il presidente Rohani e il ministro degli Esteri Zarif sono i titolari dell’agenda nucleare, ma non controllano le altre: il sostegno a Hezbollah, l’Iraq, lo Yemen, la democratizzazione interna e la normalizzazione delle relazioni internazionali.
L’ultimo rilancio di Netanyahu, ieri pomeriggio alle soglie della pasqua ebraica, ha un senso. «L’accordo finale» che sarà siglato a giugno, dice Bibi, «deve costringere l’Iran a riconoscere il diritto d’Israele di esistere». In qualche modo è un ostacolo, il tentativo d’imporre un capitolo estraneo alla questione del nucleare. Ma è ineludibile. L’Arabia Saudita, gli altri paesi arabi e perfino il regime siriano sono nemici d’Israele per una questione politica: hanno ripetutamente detto di essere pronti a riconoscere lo stato ebraico se nasce quello palestinese.
L’Iran no, il suo rifiuto d’Israele è a prescindere. Il rilancio più logico sarebbe di aggiungere nel negoziato la rinuncia d’Israele all’arma atomica: è l’unico ad averla in Medio Oriente. Ma i Basij, i Pasdaran e il resto dei custodi della rivoluzione khomenista non saranno mai così brillantemente flessibili.
Repubblica 4.4.15
La scommessa di Barak
di Vittorio Zucconi


La fretta l’ansia di scolpire il proprio nome sulla stele del tempo strappandolo alla sabbia della cronaca è ciò che preoccupa di più i critici dell’accordo

UN UOMO sempre più solo che combatte contro il tempo del potere che gli sta scadendo, Barack Obama ottiene dall’Iran una bozza d’accordo che abbatte un altro tabù della storia americana negli ultimi 50 anni, dopo Cuba nello scorso dicembre. Il “Grande Satana” e lo “Stato Canaglia” si sono incontrati, hanno trattato, hanno firmato.
TRA la diffidenza anche degli amici, l’ostilità ringhiosa dei nemici interni, la collera degli alleati sauditi e israeliani nella regione, il presidente che ricevette un Nobel per la Pace senza avere fatto nulla per meritarlo ora cerca, nel crepuscolo della propria stagione politica, di lasciare un’eredità che giustifichi, a posteriori, quel riconoscimento, che oggi anche il New York Times sarebbe disposto a dargli.
Nel merito e nella natura del compromesso raggiunto fra il Segretario di Stato Kerry e Javad Zarif, il ministro degli Esteri iraniano, gli esperti, tanto quelli benevoli come Fareed Zakaria e David Ignatius come i nostalgici delle ingloriose guerre preventive come il neocon John Bolton, ex ambasciatore all’Onu, vedono ombre e ambiguità che si riassumono in un dettaglio importante: il testo che la delegazione americana ha letto è composto di quattordici pagine e ricco di precisazioni sui numeri, le ispezioni, le sanzioni in caso di violazione. Il documento che Zarif e Federica Mogherini, responsabile per la politica estera Ue, hanno letto insieme è una smilza pagina e mezzo. E il trattato vero e proprio non sarà firmato, si spera, che il 30 giugno. Ogni processo alle intenzioni è possibile, dunque, perché sono sempre le intenzioni reali e recondite dei firmatari, non la carta e l’inchiostro, ciò che rendono sostanziale un trattato. E il ricordo torna immediato al Patto di non aggressione fra Germania e Urss, nell’agosto del 1939, meno di due anni prima dell’aggressione tedesca all’Unione Sovietica, inarrivabile esempio di totale malafede e di inganno reciproco.
Ma nella spinta quasi disperata che Obama ha impresso ai negoziati in Svizzera, costringendo Kerry a notti bianche ai tavoli con i formidabili avversari iraniani, nelle fretta con la quale il presidente si è fiondato da solo nel Giardino delle Rose dietro alla Casa Bianca per annunciare l’accordo senza la consueta coreografia di impiegati e funzionari plaudenti c’è l’ansia che consuma tutti i capi di Stato americani arrivati alle ultime pagine della propria avventura: il desiderio di lasciare un’eredità che segni la storia. Un fatto che leghi per sempre il loro nome a qualcosa di più profondo e duraturo di una legge per la costruzione di un ponte o di una riforma della assicurazione sanitaria.
Anche presidenti giudicati mediocri o condannati dai contemporanei, come Carter e Nixon riuscirono a incidere il proprio nome nel marmo della storia del mondo, il primo con gli accordi di Camp David e la pace fra Egitto e Israele, Nixon con il riconoscimento della Cina e l’accettazione della sconfitta americana in Vietnam. Reagan, il crociato che era partito lancia in resta contro l’»Impero del Male» sovietico trovò poi in Gorbaciov il partner perfetto per liquidare la prima fase della Guerra Fredda, per trasformarsi da “guerrafondaio” a “peacemaker” e per ottenere l’abbattimento del muro. E Washington ricorda ancora la disperata, affannosa, vana maratona di Clinton negli ultimi mesi della propria presidenza insudiciata dall’affaire Lewinsky, per strappare a Ehud Barak e ad Arafat, sequestrati da lui per giorni a Camp David, l’accordo finale sui due stati.
La fretta, l’ansia di scolpire il proprio nome sulla stele del tempo strappandolo alla sabbia della cronaca, è ciò che preoccupa di più i critici dell’accordo, guidati da un Netanyahu che anche ieri ha profetizzato l’apocalisse nucleare per Israele e per tutto l’Occidente parlando di «un pericolo mortale per il mondo intero». Obama sa bene che ormai il proprio destino è legato indissolubilmente a questo negoziato. Se il regime degli ayatollah dovesse barare al gioco, se si dovesse scoprire, chissà a quale prezzo, che gli iraniani hanno carte nascoste e sono riusciti a dotarsi di un arsenale nucleare (e dei mezzi per usarlo) invece della benedizione che spetta ai portatori di pace, il suo nome entrerebbe nella “Hall of shame”, nel tempio della vergogna, accanto a quello di Neville Chamberlain che credette, o finse di credere, alle buone intenzioni di Adolf Hitler a Monaco.
Ma la voglia di pace, spesso dopo molta e inutile guerra, morde sempre i presidenti americani alla fine del proprio mandato, anche venandosi di quella utopia idealistica che ispirò Woodroow Wilson con la Società delle Nazioni dopo la Inutile Strage o Harry Truman con le Nazioni Unite dopo l’olocausto di Hiroshima e Nagasaki. La sostanza della nobile pulsione a fine partita riporta sempre al nodo cruciale di ogni negoziato e di ogni trattato: alle intenzioni di chi li conduce e alle spinte della popolazione nelle nazioni contraenti. E proprio qui, sotto la furia della opposizione politica negli Usa, esplosa nella demenziale lettera di senatori repubblicani a Teheran per ammonirli a non fidarsi di Obama e nel malumore nascosto degli avversari che sicuramente si nascondono fra i guardiani della Rivoluzione khomeinista in Iran, c’è l’indizio più incoraggiante per il futuro.
Il 60% degli americani appoggia l’accordo con l’Iran. A Teheran, la notizia della fine dell’ostracismo occidentale contro quella nazione dove la gioventù anela a ritrovare un posto nel mondo contemporaneo ha portato migliaia di persone per le strade, in un carosello di gioia da finale di un campionato di calcio. Mentre i media ufficiali, guidati dal presidente Rouhani, lui stesso negoziatore capo alle trattative sul nucleare, esternavano soddisfazione, entusiasmo e lodi per l’ex Grande Satana. Un capovolgimento totale dalle giornate oscene degli ostaggi rinchiusi nell’ambasciata americana, nel 1979.
Se anche questa giornata, come la fine dell’embargo a Cuba, la caduta del Muro, il ritiro dal Vietnam, i trattati con l’Urss per la limitazione degli arsenali nucleari, l’abbraccio fra Sadat e Begin sia la fine di un incubo e l’inizio di un altro, né le Cassandre né i Pangloss ottimisti possono dire con sicurezza obbiettiva. Nel crogiolo infernale del Medio Oriente, dove nemici dei nemici divengono amici e le alleanze di convenienza si ribaltano secondo la regione e la cancrena del fondamentalismo sunnita, nemico mortale dell’integralismo sciita iraniano, tutto è troppo angosciosamente fluido perché un pezzo di carta possa raffreddarlo. Ma Obama, il Nobel accidentale che ora vuole diventare reale, è rimasto, alla fine del proprio tragitto, fedele al principio enunciato all’inizio: si tratta con i nemici, purché siano nemici responsabili e razionali e non è la fede religiosa l’avversario da combattere, ma chi la usa per volgari intenti di potere militare e politico. E se i “boia chi molla” dell’interventismo militare, coloro che auspicano ancora bombardamenti sulle migliaia di impianti e laboratori nucleari in Iran, sognano guerre preventive, basterà mostrare loro le magnifiche sorti delle imprese militari in Afghanistan e in Iraq, per esportare la caricatura cruenta della democrazia.
Repubblica 4.4.15
Quella svolta di Obama che spaventa lo Stato ebraico
di Gad Lerner


IL MONDO esulta, Israele trema. Nella cena pasquale che ieri sera ha riunito milioni di famiglie ebraiche, quando è venuto il momento di mangiare l’erba amara della schiavitù insieme al pane azzimo dell’Esodo, è parso come se l’accordo di Losanna rinnovasse il più antico dei sapori: l’incomprensione fra gli ebrei e le altre nazioni. Per la verità sui giornali israeliani le valutazioni erano più articolate, taluni riconoscevano che i 5+1 hanno fatto un buon lavoro. Ma l’Iran degli ayatollah rappresenta nel senso comune d’Israele un pericolo di natura esistenziale: la versione contemporanea dell’antisemitismo, scaturita da quel misterioso sommovimento rivoluzionario del 1979 come una pulsione insopprimibile, quasi un evento tellurico ininterrotto da trentacinque anni. Tale visione ha assunto connotati apocalittici. La trasformazione dell’impero persiano nell’ossimoro di una repubblica al tempo stesso islamica e rivoluzionaria, con l’effetto contagioso di sospingere tutti i popoli musulmani alla contrapposizione antioccidentale, ha sbigottito Israele. La promessa di distruggere il “piccolo Satana” e il rilancio delle tesi negazioniste sulla Shoah, vengono interpretati dai religiosi messianici come segnali dell’approssimarsi di una catastrofe ne- cessaria in vista della redenzione ormai prossima. Le “doglie del Messia”, appunto. La lotta fra Gog e Magog. Accadimenti dolorosi, come la stessa dissoluzione della Siria, eppure inequivocabili: cioè necessaria preparazione all’avvento del Mondo a Venire.
Non sto esagerando. Ho appena trascorso un mese nella città mistica di Zfat, in Galilea, e di continuo mi sentivo ribadire argomenti simili. Veterani di tre guerre, che ancora oggi vivono a pochi chilometri dalla polveriera siriana e libanese, anziché soffermarsi sui pericoli che attanagliano la loro stessa esistenza, compiangevano me, ebreo di un’Europa che considerano già perduta, prossima all’islamizzazione. Davvero in tanti mi hanno ripetuto come un’ovvietà che lo stesso presidente americano Obama — come non accorgersene? — è un musulmano mascherato. Il 17 marzo scorso, davanti ai seggi in cui si votava per il rinnovo della Knesset, c’erano ragazzi che innalzavano festanti le bandiere gialle con la parola Messia sormontata da una corona, per annunciare l’irrilevanza della scelta politica quando siamo ormai giunti alla Fine dei Tempi.
Anche su presagi di questa natura si è fondata la strategia fallimentare del laico Netanyahu, che lo avrebbe già portato nel 2012, dopo la guerra informatica e gli omicidi mirati degli scienziati iraniani, a lanciare un attacco militare contro i reattori nucleari di Teheran; se non lo avesse bloccato all’ultimo momento la ferma opposizione dichiarata dai capi del Mossad e delle forze armate.
Quelle azioni unilaterali di Netanyahu non sono valse a bloccare la trattativa del quintetto con l’Iran. Ma — anche a prescindere dalle tesi apocalittiche del sionismo religioso — l’elevazione dell’Iran a nemico principale non viene contestata neanche dall’opposizione laburista. Herzog ha criticato il maldestro tentativo di Netanyahu di paralizzare Obama confidando sulla maggioranza repubblicana del Congresso americano. Lascia perplessi anche l’alleanza di fatto che collega, in chiave anti-sciita, Israele alle petromonarchie reazionarie sunnite del Golfo, prima fra tutte l’Arabia Saudita.
Eppure, se perfino un intellettuale critico come David Grossman continua a vedere nell’Iran un nemico mortale, ciò significa che è pressoché tutto Israele ad escludere la possibilità che la rivoluzione degli ayatollah possa essere contenuta e rinunci a sprigionare la sua vocazione destabilizzatrice.
Questo è il nodo, o, meglio l’azzardo implicito nella svolta voluta da Obama. Possibile che la repubblica islamica di Teheran, contraddistinta da regole elettorali democratiche a differenza dei vicini sunniti che anche per questo la temono, ma assoggettata alla supervisione teocratica della Guida Suprema religiosa, possa infine esaurire quella temibile spinta rivoluzionaria? Bastano i trentacinque anni trascorsi dal 1979 o sono ancora troppo pochi?
L’esultanza commovente con cui la società civile iraniana accoglie l’accordo di Losanna, una società non paragonabile alle nazioni tribali circostanti, evoluta nella modernità delle aspirazioni che la avvicinano alla cultura occidentale, non basta agli israeliani per sperare e fidarsi. Per quanto risulti impossibile paragonare la struttura complessa dell’Iran contemporaneo alla fanatica compattezza della Germania nazista, prevale il timore che l’Islam sciita produca ulteriori spinte di esportazione di un integralismo avulso dalle logiche razionali delle relazioni internazionali fra Stati. La storia suggerisce il contrario, induce alla fiducia: è ragionevole pensare che un paese il quale si concepisce come impero da oltre quattromila anni, dotato di una scuola diplomatica raffinata, aperto alla sperimentazione di un pluralismo interno sconosciuto ai suoi vicini (cui tuttora l’accomuna, purtroppo, il ricorso sistematico alla pena di morte), tenda certo a riacquistare una sfera d’influenza. Ma che proprio per questo sia destinato a normalizzarsi.
Tale prospettiva, agli occhi d’Israele, non trova credito. Neanche basta la distanza di migliaia di chilometri fra Gerusalemme e Teheran, l’assenza di un contenzioso geopolitico diretto: la minaccia nucleare annulla lo spazio, l’ispirazione religiosa della Guida Suprema rende plausibile l’azione dissennata. Né aiuta a rassicurare Israele il dispiegamento sui suoi confini settentrionali dell’armata sciita degli Hezbollah sciiti, per quanto il loro leader Nasrallah si dichiari contrario all’instaurazione della Sharia, la legge islamica, in un Libano per sua natura mosaico di confessioni religiose diverse.
Trova spazio così la visione apocalittica che delega al governo israeliano solo il compito di boicottare l’accordo di Losanna. Addirittura evocando il diritto a ricorrere se necessario a un’azione militare autonoma, come ha fatto di nuovo ieri il ministro Yuval Steinitz. Mentre il premier Netanyahu inutilmente si limita a porre la condizione che Teheran non accetterà: nessun accordo definitivo senza il preventivo riconoscimento del diritto all’esistenza dello Stato d’Israele.
Ora tutto dipende dalle incognite che minacciano il percorso di normalizzazione avviato con l’Iran degli ayatollah. Se la guerra al Califfato e Al Qaeda riuscirà in tempi ragionevoli a debellare il nuovo totalitarismo in espansione, usufruendo dell’aiuto decisivo dell’Iran sciita. Se l’alleanza di fatto fra le nazioni sunnite e Israele non riaccenderà una guerra frontale con Teheran, proprio quando gli Usa aspirano a recuperare l’Iran come architrave di un nuovo equilibrio regionale, come ai tempi dello Scià di Persia.
Se a vincere sarà la pulsione religiosa, l’istinto genocida alla distruzione del nemico, il tanto peggio tanto meglio che dal Medio Oriente sta contagiando regioni sempre più vaste del pianeta, allora l’amarezza e l’isolamento d’Israele troveranno la più cupa delle conferme. Verrebbe da dire che abbiamo il dovere di sperare il contrario e di esperire ogni possibile trattativa. Altrimenti — se davvero fosse impossibile un ritorno dell’Iran rivoluzionario alla normalità delle relazioni internazionali — Israele non troverebbe alcuna consolazione nell’avere ottenuto conferma del suo pessimismo.
Corriere 4.4.15
«L’inverno è finito, abbiamo vinto»

Selfie e canzoni: primavera a Teheran

All’aeroporto di Teheran il ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif viene accolto come un eroe, si sporge dal tettuccio apribile dell’auto e la gente grida il suo nome: «Zarif, grazie!». Nei video diffusi su Facebook, le braccia sono sollevate in una marea di «V» di vittoria e di pace — e di telefonini. «L’inverno è finito, la primavera è fiorita», canta la folla con una sola voce tra i tricolore della Repubblica Islamica. «Il sole è spuntato come una rosa, e la notte è fuggita via...».
«L’inverno è finito», si legge pure su Twitter. In farsi: «Sar oomad zemestoon». E’ una canzone che si sentiva in strada nel 2009 quando l’«Onda Verde» sfidò invano Ahmadinejad (versi in realtà vecchi di quarant’anni scritti da un poeta comunista anti Scià). Ma oggi per i riformisti è arrivata una vittoria, almeno parziale, spiega Noushin, giornalista di Teheran (un nome falso, non vuole rivelare il suo). «La vittoria può arrivare passo dopo passo. Le riforme sono un processo, non un progetto. Ma dobbiamo stare attenti, perché i radicali hanno abbastanza potere e denaro da cambiare direzione».
Gli iraniani celebrano la fine delle sanzioni. L’accordo si chiuderà solo a fine giugno e c’è chi dice che gli effetti veri si vedranno tra non meno di un anno. Ma questo non frena le sinfonie di clacson all’una del mattino sulla via Vale-e-Asr, né i selfie con Obama — ovvero gli autoritratti davanti allo schermo della tv che ha trasmesso (senza precedenti) il discorso di un presidente americano. «Sì abbiamo festeggiato e stasera si continua», ride Mojgan Ilanlou, documentarista e madre 43enne.
A obiettare pubblicamente sulla bontà dell’accordo sono in pochi. «Abbiamo venduto un cavallo e ci hanno dato in cambio delle redini rotte», tuona Hossein Shariatmadari, il direttore del giornale ultraconservatore Kayhan , cui fa eco un gruppetto di parlamentari. Ma quel che conta è ciò che pensa la Guida Suprema Ali Khamenei, e per capirlo basta ascoltare il sermone del venerdì dell’ayatollah Imami Khashani. «Losanna è stato un successo. Dovremmo congratularci con Zarif. Il mondo finalmente ha accettato che l’Iran abbia un programma nucleare per scopi pacifici», ha detto il religioso conservatore 78enne — sebbene da un podio su cui spiccava la vecchia frase di Khomeini «Calpesteremo l’America».
«Vittoria» è una parola ricorrente. Torna nel discorso del presidente Rouhani, che risponde così alle accuse di «resa» dei conservatori, ma anche alla fiducia che gli hanno dato gli iraniani. «Siamo vincitori perché ora siamo parte del mondo», dice Behrang Alavi. Una terza via, tra la resa e la guerra, è quello che oggi promette Rouhani. «Vogliamo la fine delle sanzioni e delle tensioni sul programma nucleare — ci spiega Mohsen Jeirudi, trentenne— ma non significa che l’Iran sia pronto ad accettare ogni richiesta dell’Occidente. Siamo il Paese più importante del Medio Oriente».
L’inverno è finito, ma la primavera non è priva di dubbi e di amarezze. In piazza non c’è l’Onda verde — «drenata» tra prigioni, processi ed esili — ma solo una canzone che ne è stata il simbolo. I leader Mousavi e Karroubi sono agli arresti domiciliari, mentre per Mohammed Khatami — primo presidente che aprì all’America — ieri era un giorno triste: piange la madre morta mentre a Losanna si arrivava all’intesa.
E’ arrivata non in una data qualunque, ma in occasione di Sizdah-Bedar, l’ultimo giorno nei festeggiamenti del Nuovo Anno persiano. Tradizione vuole che la gente esca di casa per scacciare «la maledizione della siccità» chiedendo la pioggia. «Alla sera si diceva: “La maledizione è passata”», racconta Farahmand Alipour, studente. Oggi si esce in realtà per fare i picnic. Eppure la maledizione delle sanzioni sembra svanita. Per capire se è vero, bisognerà aspettare l’estate.
La Stampa 4.4.15
Schianto dell’Airbus
Lubitz accelerò durante la discesa
La seconda scatola nera conferma: atto volontario
di Tonia Mastrobuoni


Anche l’esame della seconda scatola nera conferma la tesi di un disastro provocato volontariamente, di un piano premeditato. Martedì 26 marzo Andreas Lubitz ha modificato le impostazioni del pilota automatico per far scendere l’Airbus 320 con destinazione Duesseldorf da oltre undicimila metri a 30. E «più volte, durante la discesa», il copilota tedesco «ha cambiato il pilota automatico per aumentare la velocità del velivolo». Lo ha comunicato ieri il Bea, l’ente francese che indaga sugli incidenti aerei. I lavori, comunque, proseguono, anche per «determinare la dinamica esatta del volo».
L’ultima prova
È stata Alice Coldefy, una «new entry» ma anche l’unica donna nella squadra che sta setacciando la zona dell’incidente da dieci giorni, a trovare giovedì la seconda scatola nera. Ieri la poliziotta francese ha raccontato di aver rinvenuto la prova che non lascia quasi dubbi sull’intenzionalità del gesto di Lubitz scavando, in mezzo a vestiti e altri resti, in una zona dal terreno friabile. «L’obiettivo era trovare la scatola nera, siamo partiti dall’alto. Abbiamo spostato dei rottami. Ora sono contenta - ha detto - perché sono contenuti importanti».
Intanto il ministro dell’Interno francese, Cazeneuve ha deposto ieri una corona di fiori davanti alla lapide che ricorda le centocinquanta vittime della tragedia sul luogo del disastro e ha ringraziato nuovamente i soccorritori e la popolazione locale.
Giovedì la procura di Duesseldorf aveva reso noto di aver trovato, su un Ipad di Lubitz, tracce di ricerche internet che risalgono al periodo immediatamente precedente alla strage delle Alpi e che riguardavano sia modi per suicidarsi sia dettagli sui sistemi di sicurezza delle porte delle cabine di pilotaggio. Ormai i dubbi su una discesa accidentale sono ridotti al lumicino; sin dall’esame della prima scatola nera, quella con le registrazioni audio, si sapeva che il copilota Germanwings aveva respirato fino all’ultimo istante, tranquillo. E non aveva mai risposto ai segnali di allarme degli enti di controllo che avevano visto la traiettoria anomala dell’aereo, né aveva mai lanciato un S.o.s.
Perquisiti gli studi medici
Sembra che gli inquirenti tedeschi abbiano inoltre perquisito «almeno cinque studi medici» dove Lubitz si sarebbe fatto visitare. Lo sostiene «Spiegel» nel nuovo numero che uscirà lunedì in edicola. Secondo fonti vicine alle indagini citate dal settimanale, il copilota avrebbe cercato neurologi e psichiatri. «Per essere un ragazzo giovane, ha consultato un numero sorprendente di medici» ha commentato una fonte.
Il ventisettenne aveva sofferto sei anni fa di manie suicide, hanno rivelato nei giorni scorsi i magistrati tedeschi. Lufthansa ha ammesso soltanto di essere stata messa al corrente, in quel periodo, che l’uomo della strage, allora allievo pilota, soffrisse di depressione. Ma l’amministratore delegato della compagnia, Cartsen Spohr, non ha specificato, finora, se era stata informata nello specifico che il pilota fosse affetto da manie suicide. La differenza non è minima, soprattutto ora che comincia il doloroso capitolo dei risarcimenti.
Corriere 4.4.15
Il 25 Aprile senza Brigata ebraica «È Shabbat e ci sono i palestinesi»
Polemiche a Roma. Pacifici: «Durante la guerra erano alleati dei nazisti»
di  Claudia Voltattorni


ROMA del settantesimo, «una giornata speciale di allegria e serenità». Invece a Roma il 25 Aprile 2015 rischia di diventare il giorno dello strappo, quello tra l’Anpi, l’associazione dei partigiani, da una parte, e la Brigata ebraica e gli ex deportati dell’Aned dall’altra. Perché a Porta San Paolo quest’anno loro non ci saranno. Per gli ebrei è Shabbat, il riposo del sabato che non perm e t te l a p a r te c i p a z i o n e a d eventi, ma, spiega il presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, «non ci saremo anche perché i palestinesi che chiedono di essere al corteo durante la guerra erano alleati dei nazisti», e «sulla Rete scrivono che se ci saremo ci picchieranno». Già lo scorso anno, al corteo volarono paro- lacce e spintoni davanti a ban- diere palestinesi e israeliane, ricorda Pacifici: «Le organizzazioni pro Palestina pretendono che non ci sia il simbolo della Brigata ebraica che liberò l’Italia dal nazifascismo con Alleati e partigiani». E allora meglio rimanere a casa, «perché così non si può più andare avanti, da troppi anni in piazza ci sono infiltrati che con la Liberazione non c’entrano nulla». Anche se l’an- niversario è uno di quelli importanti. Tanto che l’Anpi qualche giorno fa aveva invitato tutti alla Casa della Memoria proprio per organizzare un bel 25 Aprile 2015. Lì è avvenuto lo strappo. Spiega Eugenio Iafrate, vicepresidente Aned: «A quel tavolo c’erano delle associazioni che con la Resistenza non hanno nulla a che fare, sono volate parole grosse: noi che rappresentiamo gli ex deportati, i sommersi e i salvati, non possiamo accettare che lo spirito e i significati del 25 Aprile vengano così snaturati: è una scelta dolorosa presa anche per motivi di sicurezza, ma è una situazione che va avanti da anni». Fronte Palestina, Rete Romana Palestina, Rappresentanza Palestina in Italia, centri sociali pro Palestina e infine Patria So- cialista: ecco chi era al tavolo a organizzare la festa della Liberazione a Roma con l’Anpi, l’Aned, la Brigata ebraica e gli storici movimenti antifascisti. «Non erano invitati ma una volta lì mica potevo mandarli via no?», dice oggi Ernesto Nassi, presidente dell’Anpi Roma. «Non capisco — è incredulo —: il 25 Aprile è la festa di tutti e merita rispetto come lo meritano i 60mila morti partigiani e di questo si deve parlare, chi partecipa deve rispettare questi morti, se altri invece vogliono venire per fare casino è meglio che vadano a farsi una passeggiata». A Pacifici risponde di «fare come vuole», ma «all’Aned e alla Brigata ebraica fraternamente dico: non potete non venire, è un brutto messaggio, ripensateci».
Forse, però, dicono alla Comunità ebraica, «sarebbe meglio che la festa del 25 Aprile la organizzasse il Campidoglio più che l’Anpi che non riesce più a gestirla». E l’assessore capitolino Paolo Masini che ha la delega alla Memoria, ricorda: «Festeggiare il 70° anniversario della Liberazione senza la Brigata ebraica significa cancellare un pezzo di storia».
Repubblica 4.4.15
La sfida dei sindacati
Nei nuovi contratti aumenti superiori al bonus di 80 euro
di Roberto Mania


ROMA Cinque euro per fare la differenza. Almeno simbolicamente. Da una parte gli 85 euro di aumento previsti dai rinnovi contrattuali del commercio e dei bancari, dall’altra i famosi 80 euro del bonus Renzi, diventati strutturali con l’ultima legge di Stabilità nelle buste paga dei lavoratori dipendenti con un reddito annuale sotto i 26 mila euro lordi. Cinque euro di differenza su cui si sta consumando una evidente sfida a distanza tra sindacalisti e governo: chi fa di più per rafforzare le fragili retribuzioni degli italiani finite da anni in fondo alla classifica dei paesi dell’Ocse? Il bonus Irpef fu anche una risposta di Renzi all’immobilismo e conservatorismo sindacale. Ma nello stesso tempo un modo per superare e indebolire il ruolo dei soggetti intermedi che si frappongono tra la politica e i cittadini. Per dire ai sindacati: non sapete fare il vostro mestiere. Tre giorni fa è così arrivata la replica di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, a conferma della disfida: «Sono cifre (gli 85 euro ottenuti nei due contratti, ndr ) superiori a quelle erogate con il bonus fiscale da 80 euro. Lo dico perché mi ricordo che qualcuno diceva “solo noi abbiamo dato queste cifre...”». E pare che al tavolo dei bancari, chiuso dopo quello del commercio, fosse chiaro a tutti che l’asticella degli 80 euro andasse comunque oltrepassata. Se non altro per ragioni simboliche. Così è stato.
Ma hanno vinto i sindacati? Apparentemente sì, in concreto no. La risposta più onesta la diede inconsapevolmente Maurizio Landini, leader della Fiom, quasi un anno fa, quando ancora era in atto la strana “luna di miele” tra lui e il premier. Disse Landini: «Io da sindacalista non sono mai riuscito ad ottenere un aumento di 80 euro in una volta sola». Ed è esattamente questo il punto. Perché i sindacati hanno strappato cinque euro in più ma in un tempo assai dilatato non in una volta sola come sono, invece, gli 80 euro. I tre milioni di dipendenti del commercio (dal lavoratore della grande distribuzione a quello del piccolo negozio di prossimità) riceveranno gli 85 euro lordi in cinque tranche: la prima il primo aprile 2015 e l’ultima il primo agosto del 2017. Per i circa 300 mila bancari gli scatti di anzianità sono stati salvati ma gli aumenti nelle buste paga arriveranno i tre tappe: 25 euro dal primo ottobre del 2016, altri 30 euro dal 30 ottobre del 2017 e gli ultimi 30 euro dal 30 ottobre del 2018.
Questo è accaduto in settori complessivamente meno esposti alla competizione globale rispetto all’industria dove non è affatto detto che i sindacati possano ottenere almeno una vittoria simbolica. Nell’industria, in tempi di deflazione, la partita si presenta ancora più complicata. Tanto che dalla Federchimica, l’associazione di categoria a cui appartiene anche il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, e con una tradizione di “colomba” nello schieramento imprenditoriale, a dicembre è partita una lettera all’indirizzo dei sindacati per chiedere la restituzione di 79 euro (a un passo dagli 80 di Renzi) perché con la deflazione i precedenti incrementi non sarebbero più giustificati. In Confindustria si sta facendo strada l’idea di una moratoria contrattuale per oltre due anni. E allora per Cgil, Cisl e Uil superare l’asticella degli 80 euro si trasformerebbe più o meno in un miraggio.
Il Sole 4.4.15
Il flop del 2 per mille ai partiti
Raccolti in tutto 325mila euro
Finanziamento della politica. Appena 16mila contribuenti hanno aderito con le dichiarazioni 2014
Per il Pd 10mila sostenitori con 200mila euro, a Forza Italia 24mila euro da 829 supporter
di Marco Mobili e Mariolina Sesto


ROMA Solo 4 contribuenti su 10mila hanno sostenuto con i 2 per mille dell’Irpef il loro partito politico di riferimento. A barrare la casella di Unico o del modello 730 targato 2014 sono stati soltanto 16.518 cittadini sugli oltre 41 milioni che hanno presentato la dichiarazione la Fisco. Il tutto assicurando agli undici partiti e movimenti in corsa (non è presente il M5S che ha dichiarato di non volere né «finanziamenti pubblici né quelli del due per mille dei contribuenti») un finanziamento di poco superiore ai 325mila euro. Briciole rispetto ai 7,750 milioni accantonati in un apposito fondo dal Governo Letta che introdusse il 2 per mille dell’Irpef ai partiti politici, in fretta e furia, a febbraio dello scorso anno per tener testa alle polemiche sui finanziamenti pubblici alla politica ritenuti troppo esosi per le casse dello Stato, soprattutto in un periodo di profonda crisi economica.
La domanda che ci si pone adesso è: che destinazione avranno i finanziamenti originariamente destinati ad attivare il 2xmille che è rimasto inoptato? Si tratta di un tesoretto di 7,4 milioni di euro. Non poco per le casse ormai disastrate della politica. La grande fame dei partiti, quasi tutti con bilanci in rosso da anni e con i dipendenti in cassa integrazione, potrebbe allora convincere più di qualcuno a ritornare al finanziamento pubblico. Come ha già più volte sostenuto l’ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti.
Quanto ai dati, sorprende il primo posto del Pd, partito che dubitava della norma paventando un grande flusso di fondi privati ai partiti del centrodestra generalmente sostenuti da una fascia sociale finanziariamente più cospicua. Nella speciale classifica del 2xmille i democratici sono al primo posto con circa 2 terzi delle somme complessivamente erogate (199.099 euro). A sostenerli sono stati 10.157 fedelissimi che hanno devoluto uno spicchio della loro Irpef. Al secondo posto, ma con poco più di 28mila euro, si posiziona la Lega seguita con 24.712 da Forza Italia. Fuori dal podio si colloca Sel con poco più di 23mila euro, mentre le opzioni dei 511 sud tirolesi hanno assicurato al Sudtiroler Volkspartei 16.600 euro. Oltre 6mila euro in più rispetto ai 9.326 euro destinati da 510 sostenitori di Fratelli d’Italia, e comunque oltre il doppio di quanto raccolto da Scelta civica con i 7mila 102 euro optati da solo 156 cittadini.
Il valore medio delle opzioni non arriva ai 20 euro (19,7 euro) e se riguarda all’intera griglia la classifica delle scelte si ribalta. E proprio i sostenitori di Monti si dimostrano finanziariamente più quotati: il valore medio per Sc si attesta sui 45,5 euro. A seguire il Sudtiroler con i suoi 32,5 euro medi e ancora al terzo posto Forza Italia che riceve un finanziamento medio di 29,8 euro. Sinistra ecologia e libertà, sempre secondo i valori medi delle opzioni, si dimostra il partito con i sostenitori dall’Irpef più bassa visto che chiude questa classifica delle medie con soli 14,6 euro a finanziatore.
Anche se i dati sono ritenuti ancora provvisori, tanto che il decreto di accreditamento dei fondi per l’anno 2014 è ancora in corso di perfezionamento, la fotografia fornita dal 2xmille sembrerebbe fare emergere una forte disaffezione dei cittadini per la politica. Il 2xmille volontario dei cittadini ai partiti politici avrebbe dovuto sostituire gradualmente l’intera fetta di finanziamento pubblico che il provvedimento azzera a partire dal 2017, mentre fino ad allora i contributi statali rimangono seppure anno dopo anno decurtati in maniera sensibile.
La politica, dunque, non ha convinto i contribuenti italiani. Al di là dei tempi stretti tra l’arrivo del 2xmille e gli adempimenti dichiarativi dello scorso anno , anche i partiti e movimenti più strutturati come Fi non sono riuscita a mobilitare il proprio elettorato dal punto di vista del sostegno finanziario. Ecco perché quest’anno Fi è già corsa ai ripari con un grande battage pubblicitario online a favore del 2xmille. Mentre il Pd sembra puntare sempre più sulle cene di autofinanziamento e sul contenimento delle spese che paiono aver portato in attivo i conti 2014 del partito non ancora pubblicati ma in dirittura di arrivo.
Il Sole 4.4.15
Urne ed economia
Il test di primavera di Renzi
I primi dati economici incroceranno il voto regionale
di Lina Palmerini


La prova della verità per il premier è subito dopo le vacanze pasquali. E incrocia – forse pericolosamente – i primi risultati economici dell’era Renzi con l’appuntamento delle regionali.

La prova della verità per Matteo Renzi non è solo quella fatta a uso e consumo degli equilibri interni del Pd, cioè la battaglia sulla legge elettorale. Piuttosto ce n'è un'altra che è tutta fuori dal Parlamento e che interessa molto di più gli elettori di quella, minoritaria, sui capilista bloccati. Un test che attraverserà la campagna elettorale di primavera e il voto delle regionali. Parliamo dei risultati economici, i primi dell'era Renzi. È la prima legge di Stabilità firmata dal premier per l'anno in corso e, dunque, si vedrà l'effetto che fa. E se, davvero, incrocerà quelle previsioni di crescita, 0,7-0,8%, che cambiano verso alla recessione ma comunque restano piuttosto anemiche. E neppure sono scontate come dimostrano i dati altalenanti sull'occupazione o i numeri Istat sulla pressione fiscale arrivata al 50,3% (al netto del bonus 80 euro) o ai profitti delle imprese ai minimi dal 1999.
A guardare bene, l'unica cifra positiva arriva grazie all'Europa, grazie all'effetto di Mario Draghi, che si concretizza per noi in un risparmio della spesa sugli interessi del debito calcolato in 5 miliardi nel 2015. Il famoso spread che cala. Tutto il resto dei benefici del bazooka Bce è da vedere perché la nostra economia resta quella più pesante dell'area dal punto di vista fiscale e burocratico. Come ha fatto notare il Wall Street Journal qualche giorno fa indicando la bassa crescita dell'Italia come il vero nodo dell'euro, “l'elefante nella stanza”, cioè una verità evidente ma che viene finora minimizzata o coperta dal caso Grecia.
È con questa sfida che Renzi deve fare i conti, più della “trentina di kamikaze” della minoranza Pd pronti ad affossare la legge elettorale e anche il suo Governo. Turbolenze comunque da gestire come quelle in Ncd e – adesso - anche in Scelta civica che, vedendo le resistenze del partito di Alfano sul rimpasto, prova a fare lo stesso. E mette sul piatto quei 25 voti del gruppo alla Camera per spuntare posti al Governo o marcare una linea programmatica che non li schiacci da subito sul Pd renziano ma lasci una porta aperta sul post-berlusconismo.
Insieme alla messa a punto del rimpasto, la prossima settimana il Governo deve scrivere il Def, il documento di programmazione economica nel quale indicare le grandi linee di intervento per il 2016, e già in quel testo si troveranno alcune risposte. La prima riguarda quella sul possibile aumento dell'Iva e altre accise che vale 16 miliardi: dunque è caccia aperta a questi soldi per bloccare altre tasse. E certo questo sarà un argomento della campagna elettorale che inevitabilmente riguarderà le prime verifiche sullo stato dell'economia e dell'occupazione. Questo sarà l'epicentro dello scontro tra partiti: la verifica dei risultati o delle prime delusioni.
Se al voto si andrà a fine maggio, l'incrocio tra i primi dati e le urne sarà fatale. E verosimilmente vedrà Renzi impegnato in prima linea in tutte le piazze e in particolare in quelle del Veneto, della Liguria, delle Marche, regioni nelle quali il test per il Pd è più in bilico che nelle “rosse” Toscana e Umbria. E comunque in tutte le regioni, dalla Puglia al Veneto, i voti si prenderanno o perderanno solo se resta la fiducia nella ripresa. Non se i capilista saranno o no bloccati. O se Renzi avrà vinto il braccio di ferro con Bersani o Alfano.
Repubblica 4.4.15
La tentazione pericolosa della fiducia sull’Italicum
Sarebbe rischioso approvare la riforma con una ristretta base parlamentare
L’ipotesi tradisce la fretta del premier sulla legge elettorale
Palazzo Chigi non farà concessioni sia alla minoranza pd sia a Alfano
di Stefano Folli


LE elezioni regionali di fine maggio si preparano a essere, come da tradizione, un “test” di rilievo per misurare la stabilità politica e i rapporti di forza. È vero che le regioni coinvolte sono solo sette (Veneto, Liguria, Toscana, Campania, Marche, Umbria, Puglia), ma a loro si aggiunge un discreto numero di comuni, fra cui diciotto città capoluogo di provincia (tra le principali, Venezia, Trento, Bolzano, Mantova, Arezzo, Chieti, Macerata). È una scadenza che magari non produrrà un terremoto, ma nemmeno sarà insignificante. Non è un caso se Renzi vuole arrivarci avendo chiuso in Parlamento il capitolo della riforma elettorale. Avrebbe in mano la carta decisiva per gestire qualsiasi evenienza, compresi gli incidenti di percorso che nessuno può escludere. Del resto, senza il cosiddetto Italicum il progetto politico-elettorale del premier non è in grado di decollare. Con l’Italicum invece tutto è possibile, anche che la legislatura vada avanti fino al 2018, come afferma la “vulgata” ufficiale; ovvero che si crei un imprevedibile cortocircuito tale da suggerire l’anticipo delle elezioni generali (una volta completata, negli auspici, anche la trasformazione del Senato).
In ogni caso è fondamentale per la logica renziana che la riforma sia approvata prima del 31 maggio e che il testo non contenga altre modifiche, da cui deriverebbe la necessità di un ulteriore passaggio parlamentare. Ottenuto tale risultato, il presidente del Consiglio assisterebbe con maggiore tranquillità ai sussulti politici prossimi venturi. Per esempio al travaglio del partito centrista di Alfano, da tempo sull’orlo di una crisi che l’esito del voto di maggio potrebbe accentuare. Già oggi la lacerazione interna è evidente: c’è chi difende l’autonomia di una forza che i sondaggi danno intorno al 3-3,5 per cento; chi invece, senza dirlo, si prepara a entrare nel futuro “listone” renziano imposto dall’Italicum; e infine chi progetta un ritorno a destra, dove oggi c’è il vuoto ma domani, chissà, si dovrà pur ricostruire un perimetro politico.
Certo, tre anime per un piccolo partito sono troppe. E tuttavia le regionali sono il terreno adatto a fare chiarezza: soprattutto in Campania, dove l’Ncd subisce la tentazione di sostenere il candidato berlusconiano, il presidente uscente Caldoro. Si capisce allora che Renzi segua con curiosità le angosce dell’alleato, ma preferisca farlo avendo la riforma elettorale in tasca. Tutto si può dire tranne che la posizione di Palazzo Chigi sia ambigua. È una linea che prevede zero concessioni sia alla minoranza Pd (appunto sulla legge elettorale) sia al partito centrista (sugli equilibri nel governo dopo il caso Lupi). Ad Alfano si lasciano giusto alcuni giorni di riflessione, fra il giuramento di Delrio alle Infrastrutture e il momento in cui l’Ncd dovrà accettare la proposta del premier. È come se Renzi non ritenesse questi due gruppi in grado di destabilizzare il governo con le loro richieste o pretese. Ovvero, al contrario, che mettesse nel conto un’eventuale instabilità: la quale potrebbe persino tornare utile al suo progetto, a patto che l’Italicum sia al sicuro e con esso lo sbocco delle elezioni anticipate.
Come è evidente, a questo punto solo una buccia di banana in Parlamento potrebbe complicare lo scenario. Ma la minoranza bersaniana è giunta tardi e male all’appuntamento cruciale con la riforma del sistema elettorale. Ciò nonostante Renzi deve guardarsi dalla cupidigia di voler stravincere. C’è un argomento, infatti, che gli anti-Renzi del Pd agitano come una bandiera e su cui non hanno torto: la sola ipotesi, talvolta accarezzata dal premier, di chiedere il voto di fiducia sull’Italicum sarebbe aberrante. La riforma passerà con una base parlamentare ristretta, se fosse imposta attraverso la fiducia - come un qualsiasi decreto legge - sarebbe inquietante. Ma non accadrà, naturalmente. Al pari di Teddy Roosevelt, Renzi agita un nodoso bastone, ma non sempre intende calarlo sulla testa dei suoi avversari. Se non è proprio necessario.
il Fatto 4.4.15
Quell’ultima carta chiamata Mattarellum
I dissidenti dem convergono sulla vecchia legge elettorale per fermare l’Italicum
Ma hanno bisogno di alleati
di Luca De Carolis


L’ultima carta. Prima dell’apoteosi renziana e di una frattura dentro l’ex ditta: forse definitiva. Si chiama Mattarellum, la risorsa finale dei dissidenti dem per tentare di fermare l’Italicum “e rimettere assieme il Pd, proprio come ha fatto il presidente Mattarella da cui prende il nome”. Pensieri e parolediGiuseppeCivati, chechiama a raccolta le minoranze democratiche “perché ora più che mai o la va o la spacca per il Pd”.
MA IL DEPUTATO guarda anche altrove, in direzione Cinque Stelle. Perché come sempre conteranno i numeri, anche nella Camera dove l’otto aprile il ddl approderà in commissione, iniziando così l’iter verso quello che potrebbe essere il suo ultimo passaggio parlamentare. Servirebbe un’ alleanza trasversale per ottenere una sterzata di Renzi all’ultimo binario della legge elettorale. Niente più Italicum, con i suoi cento capilista bloccati e il premio di maggioranza alla lista vincente. E ritorno alla legge elettorale ante Porcellum, quel Mattarellum maggioritario al 75 per cento con i suoi collegi e il restante 25 per cento dei seggi assegnato in via proporzionale. Ipotesi dell’irrealtà, ad oggi. Ma le minoranze non possono che insistere. Pier Luigi Bersani lo ha detto al Corriere della Sera già il 30 marzo scorso: “Se Renzi ha fatto Mattarella potrà ben fare il Mattarellum”. Poche ore dopo nella Direzione dem è piombato il renziano Roberto Giachetti, apostolo della legge con i collegi: “Bersani dice che la voterebbe subito? Fatico a non incazzarmi, nel maggio 2013 la mia mozione per il ritorno al Mattarellum venne bocciata anche da una parte rilevante del Pd”. A stretto giro, replica di Bersani: “Non avevamo i numeri per farla, e poi i grillini ci avrebbero mandato sotto”. A bocce ferme, Civati: “Prendo spunto proprio da Giachetti, che in direzione ha attaccato duramente l’Italicum, un Porcellum con le ali come lo definisco io. Lo scenario dice che Bersani ha rilanciato il Mattarellum e Berlusconi non è più un alleato di Renzi. Ricordo poi che Grillo, dopo la sentenza sul Porcellum, disse che la legge Mattarella era la migliore possibile”. Citazione non casuale: “Tiro in ballo i Cinque Stelle perché le opposizioni hanno il dovere di farsi sentire di fronte alle incertezze del Pd. Uniamoci per il Mattarellum, con il doppio turno”. Ma la capogruppo del M5S alla Camera, Fabiana Dadone, non apre: “Per ora la linea del Movimento non cambia, la nostra legge elettorale rimane quella che abbiamo costruito con i cittadini, prevalentemente proporzionale. Ma cercheremo di modificare l’Italicum, innanzitutto togliendo i capilista bloccati”. Il tema rimane delicatissimo, dentro i 5 Stelle. Non ci si vuole esporre, dopo l’arenarsi della trattativa in streaming con il Pd sulla legge elettorale. Di certo il M5S peserebbe con i suoi 91 deputati, potenzialmente da unire a 50, forse 60 dissidenti dem e ai 26 di Sel, da sempre favorevole al Mattarellum. Sommando, Renzi avrebbe comunque la maggioranza dei 630 deputati. Ma la partita si farebbe aperta.
IL BERSANIANO Miguel Gotor: “Archiviato Berlusconi, il Mattarellum sarebbe una buona soluzione: ha collegi piccoli e induce i partiti a scegliere i migliori. Se Renzi dovesse andare dritto con l’Italicum, sceglierebbe di fare le riforme istituzionali con una base politica troppo ridotta, senza una parte del Pd e senza le opposizioni. E sarebbe un serio problema”. I bersaniani voteranno comunque per il Mattarellum? “Certo, lo abbiamo sostenuto anche in Senato. Ma ci si può ancora confrontare”.
Corriere 4.4.15
Renzi non teme la fronda interna Aperture solo sul nuovo Senato
Italicum intoccabile
di Maria Teresa Meli


ROMA «La situazione si sta stabilizzando»: Matteo Renzi ne è convinto. In questi ultimi due giorni, prima di partire per le vacanze pasquali a Pontassieve, il premier ha fatto il punto con i collaboratori e i ministri più fidati.
«La congiuntura economica — è stato il succo dei suoi ragionamenti — sta cominciando a essere favorevole. Il centrodestra è diviso, non parliamo poi della nostra minoranza. I grillini in Parlamento continuano ad avere dei problemi. Perciò, avanti così fino al 2018».
Il che significa, naturalmente, «tirare dritto» sull’Italicum. Anche perché i suoi avversari dentro il Pd sembrano sempre meno propensi a seguire la linea di Bersani, il quale, peraltro, sta meditando di chiedere di essere sostituito in commissione Affari costituzionali dove l’8 febbraio approderà la riforma elettorale. E comunque, una parte considerevole della minoranza sta riflettendo sull’opportunità di fare dell’Italicum la madre di tutte le battaglie, visti quelli che il presidente del Consiglio definisce «gli ampi margini» della maggioranza su questa legge.
I toni, comunque, fatta eccezione per coloro che ormai vengono considerati dai renziani «già con le valigie in mano», si sono fatti meno aspri. Dentro Area riformista si moltiplicano le voci di chi propone una tregua. Persino un bersaniano doc come Davide Zoggia osserva: «Bisogna abbassare anche da parte nostra i toni». Nella minoranza si sta facendo pure strada l’idea di puntare più sul ddl costituzionale che sull’Italicum, pur senza rinunciare alla richiesta di modificare la legge elettorale.
Al Senato, infatti, i margini sono più risicati e secondo la minoranza sarebbe più facile ottenere delle modifiche. Ufficialmente, per la verità, la linea del segretario è di non toccare nemmeno quel provvedimento, ma c’è chi dice che, alla fine, potrebbero arrivare delle aperture, ma solo dopo che l’Italicum è passato.
Insomma, la legge elettorale non sembra turbare i sonni del presidente del Consiglio, il quale è convinto di «portare a casa il risultato» prima delle regionali.
Anche l’ultimo sondaggio riservato della Swg, che arriva settimanalmente al Nazareno e sul tavolo di Renzi, parrebbe confortante. Come ha spiegato il premier ai collaboratori non sembra «registrare nessun effetto negativo» degli ultimi scandali giudiziari. Secondo quei dati il Partito democratico è in crescita rispetto alle ultime settimane. Mentre i giudizi sull’efficacia dell’esecutivo sono immutati e lo stesso dicasi della fiducia degli intervistati nel governo (che è al 37 per cento).
Stando così le cose, il premier potrebbe procedere alla nomina del sostituto di Graziano Delrio già nel Consiglio dei ministri di martedì prossimo. Usando, come nello scopone, la tecnica da lui più volte utilizzata dello «spariglio», Renzi ha ristretto la scelta del futuro sottosegretario alla presidenza del Consiglio a tre nomi che nulla hanno a che vedere con il mondo a lui più vicino. Non è una mossa casuale la sua. Se prima il premier e i fedelissimi formavano una sorta di truppa d’assalto che doveva combattere praticamente contro tutti (i grandi burocrati, innanzitutto) per impratichirsi dei meccanismi del governo, adesso che, per dirla con Renzi, «la situazione si sta stabilizzando», le cose sono cambiate.
Il presidente del Consiglio ora può strutturare la squadra con maggiore tranquillità. Ecco perché i nomi di Valeria Fedeli, ex Cgil, vice presidente del Senato; Claudio De Vincenti, vice ministro allo Sviluppo Economico, che in passato non aveva fatto mistero delle sue simpatie bersaniane; Ettore Rosato, il vice vicario di Speranza, franceschiniano, che per Renzi ha svolto un grandissimo lavoro nel gruppo.
Quanto alla scelta del segretario generale di Palazzo Chigi, quella sembra già cosa fatta. Sarà Paolo Aquilanti, attuale capo dipartimento del ministero delle Riforme, gran conoscitore di tutti i meccanismi legislativi, proveniente anche lui, come Fedeli e De Vincenti, da un’esperienza di sinistra. Più spariglio di così...
Repubblica 4.4.15
“Nei Quaderni di tenebra la maledizione di Heidegger”
Nelle sue tesi ‘nere’ le affermazioni contro gli ebrei pretendono di avere carattere filosofico ma sono espressioni di un risentimento stereotipato
I testi antisemiti, le polemiche su un’eredità scomoda: confronto tra Ferraris e Günter Figal
colloquio di Maurizio Ferraris con Gunter Figal


UNA maledizione che non finisce. Una scia nera che arriva dal passato nazista e razzista di uno dei più grandi pensatori del Novecento e che mette in crisi studiosi e ricercatori di oggi. Continuano far discutere i Quaderni neri di Martin Heidegger, i suoi testi fortemente antisemiti rimasti a lungo inediti. Günter Figal, titolare della cattedra di fenomenologia che fu di Heidegger prima e di Husserl poi, dopo la pubblicazione dei Quaderni si è dimesso dalla carica di presidente della Società heideggeriana, definendo «disgustose e terribili» le affermazioni contenute nei taccuini. Un gesto clamoroso a cui sono seguite, qualche giorno fa, le dimissioni della vicepresidente Donatella Di Cesare, che ha accusato di provincialismo la comunità di studiosi.
«Figal — ha dichiarato — considera quei brani rivoltanti, io al contrario ritengo che proprio i Quaderni neri impongano di approfondire e ampliare il dibattito su quello che rimane il più importante pensatore del Novecento, per capire le origini filosofiche del suo antisemitismo». Un dibattito acceso che sarà ripreso a Siegen, in Germania, in un convegno internazionale dal 23 al 25 aprile. In questo dialogo tra Figal e Maurizio Ferraris ne anticipiamo alcuni temi.
Maurizio Ferraris: Cosa ha provato leggendo i Quaderni neri, dopo una vita a contatto con i testi di Heidegger? Mi chiedo anche come si sarebbe sentito nel leggerli Pietro Chiodi, il primo traduttore di Essere e tempo, che aveva alle proprie spalle la lotta partigiana.
Günter Figal: Non sono mai stato un fan di Heidegger, ma mi ha molto impressionato quando l’ho sentito dal vivo, una volta sola, a Heidelberg. Venne all’ultima lezione di Gadamer e improvvisò un breve discorso: Che cos’è propriamente la fenomenologia? Scoprirne il rigido antisemitismo è stata una grande delusione. Per me del suo pensiero a questo punto resta non la filosofia nell’insieme, ma solo delle parti. Non quelle degli anni Trenta e Quaranta, che considero profondamente ideologiche, ma la fenomenologia.
M. F.: Come giudica il fatto che lui avesse disposto la pubblicazione di questi Quaderni alla fine dell’edizione completa delle sue opere? Forse pensava che sarebbero stati resi noti in un contesto storico di nuovo favorevole al nazismo?
G. F.: Mi chiedo se Heidegger credesse ancora al nazismo, in senso stretto, quando ha stabilito il piano: ci possono essere molte ragioni per la sua decisione di pubblicare così tardi i Quaderni neri . Ad esempio, il carattere “privato” dei testi. Mentre nei suoi scritti filosofici evita di parlare di sé, qui è alla ribalta: potremmo considerare i Quaderni neri l’ Ecce homo di Heidegger. Pensiero e vita personale si intrecciano in modo complesso. Quanto alle affermazioni antisemite, pretendono di avere carattere filosofico, ma sono solo manifestazioni di un risentimento stereotipato. La cosa peggiore è che cerchi di spiegare quelli che considera i limiti della filosofia di Husserl riferendosi alla sua origine ebrea. E trovo scioccante che nei primi anni Quaranta Heidegger lamenti che sia consentito a chi vuole allontanarsi di lasciare la Germania: implicitamente, significa che avrebbe preferito tenere chi voleva emigrare in patria, nei campi di concentramento. Giustifica cioè quello che è stato fatto al popolo ebraico.
M.F.: Già negli anni Trenta Emmanuel Lévinas definì quella di Heidegger una “filosofia dell’hitlerismo”, ma per la nostra generazione è stato diverso. Quando ero studente si diceva che Heidegger era stato solo per breve tempo, e per ingenuità, nazista, quando assunse il rettorato dell’Università di Friburgo. Poi nel 1987 è uscito il libro di Victor Farias che mostrava come Heidegger fosse rimasto nazista fino alla guerra. Ora i Quaderni mostrano che non ha mai smesso di esserlo, il che spiega perché non abbia mai riconosciuto la propria colpa.
G.F.: Benché nei tardi anni Trenta e negli anni Quaranta Heidegger critichi la realtà storica del nazismo, la stolta idea nazionalista del privilegio filosofico della Germania continua a dominare. Lui continua a credere nella peculiare importanza della Germania, senza neppure prendere in considerazione i crimini commessi dalla sua patria. Ignora tutto ciò che non si adatta alla sua costruzione di una Storia dell’Essere, che di fatto è una storia priva di qualsiasi base empirica.
M. F.: In Dello spirito ( 1987) — libro che si fa carico della contraddizione che comporta, per un grande pensatore ebreo, aver lavorato tanto sui testi di un pensatore antisemita — Jacques Derrida osserva che il nazismo non è l’irruzione di qualcosa di estraneo al mondo dello spirito, e che affonda le sue radici nei punti più alti della cultura europea. Ad esempio si possono trovare affermazioni antisemite in Fichte e nella tradizione della cultura tedesca (per non parlare, ovviamente, dell’antisemitismo cristiano). Ma restano due punti critici: l’antisemitismo non è prerogativa dello spirito tedesco (il caso Dreyfus è avvenuto a Parigi, non a Berlino); poi un conto è essere antisemiti nel Seicento, altro nell’Ottocento, altro ancora nel Novecento, nel momento in cui gli ebrei vengono sterminati.
G.F.: Sono d’accordo. Heidegger sapeva perfettamente ciò che accadeva ai suoi colleghi, allievi e connazionali ebrei. La sinagoga di Friburgo, che fu devastata e bruciata il 9 novembre 1938, era vicinissima all’Università.
M. F.: Invece insistere sul fatto che l’antisemitismo ha una radice culturale significa introdurre una sorta di determinismo: il che è assurdo. Thomas Mann, che nella prima guerra mondiale era stato nazionalista, si oppose fermamente al nazismo e fu costretto all’esilio. Insomma, decidere di diventare rettore nazista non è un destino, e la cultura non giustifica la sottomissione al nazismo, anzi, insegna la resistenza e la ribellione.
G. F.: Ho sempre guardato al coraggio politico e alla svolta democratica di Thomas Mann con il massimo rispetto e ammirazione. Ma come fenomenologo, come autore di Essere e tempo Heidegger è stato un autore di livello internazionale, e lo rimarrà nonostante la sua vicenda complessiva. Gli studiosi devono tutelare i veri successi filosofici di Heidegger proteggendoli dalle sue aberrazioni politiche e filosofiche.
Il convegno sui Quaderni neri di Heidegger si terrà a Siegen dal 2-3 al 2-5 aprile. Tra i partecipanti Maurizio Ferraris, Emmanuel Faye, Markus Gabriel e Richard Wiolin

L’AUTORE Jan Brandt, nato nel 1974, ha pubblicato in Italia Contro il mondo ( Bompiani)

venerdì 3 aprile 2015

Repubblica 3.4.15
“Quid est veritas?” Da Pilato a Carrère l’enigma che ci ossessiona
“Il Regno”, i romanzi ritrovati di Elena Bono, raccolte di testi protocristiani
In libreria spunti diversi per indagare sulla più misteriosa delle biografie
Gesù
di Sivia Ronchey


Il processo che subì ha ispirato autori come Renan, Bulgakov e Robert Graves Nei racconti su di lui echi mistici comuni ad altre civiltà: ebraica, indiana, tibetana

«NESSUNO saprà mai chi fosse Gesù, né, a differenza di Paolo, che cosa abbia detto veramente» è il punto di partenza del Regno di Emmanuel Carrère (Adelphi), una rêverie sulla religione cristiana che «ha cercato di zoomare, come si fa con Google Maps, sul preciso punto dello spazio e del tempo in cui fa la sua comparsa» una voce diretta sul culto di Cristo: quella di Paolo, appunto. La foto del satellite è appannata, imprecisa, circostanza probabilmente inevitabile in un approccio non storico, né teologico, ma puramente letterario; e inoltre ambiguamente confessionale, o postconfessionale: credente nella giovinezza, poi ateo, poi di nuovo affascinato dal cristianesimo come dal buddismo, l’autore ha fatto, scrive, la comunione tutti i giorni allo stesso modo in cui è andato dall’analista due volte a settimana; durante il lavoro ha avuto un altro prezioso consigliere, l’i Ching.
Anche se a Carrère si può applicare quanto scrive dei suoi contemporanei «orfani di ideali collettivi, ai quali è rimasto l’io come unico punto di riferimento» — nel suo caso, l’ego — , Il regno è piaciuto a molti non solo perché ha una scrittura simpatica, a volte spiritosa, altre volte anche intelligente (lo sono per esempio la prima definizione di regno dei cieli e gli appunti sul volto di Cristo), ma anche perché nomina alcuni grandi libri (le Origini del Cristianesimo e la Vita di Cristo di Ernest Renan, pazienza se la ritiene «invecchiata male»; la Vita felice di Seneca; i Racconti di un pellegrino russo ) e soprattutto perché è utile il suo punto di partenza. Che cosa Cristo abbia detto, non lo sappiamo. I Vangeli, cosiddetta parola del Signore, sono testi bellissimi (come sosteneva Oscar Wilde, vale la pena di imparare il greco già solo per leggerli), ma tardi, con una tradizione scritta che non si consolida prima di due o tre secoli dalla sua morte, a partire da raccolte di detti più volte manipolati e mescolati. Sono più antichi gli Atti degli apostoli, ma sempre non anteriori agli anni 80 del I secolo. Su Cristo, la cosa più vicina a una testimonianza storica sono in effetti le lettere di Paolo; anche se non sono ancora un’attestazione del cristianesimo come religione distinta dall’ebraismo, che nasce solo nella seconda metà del II secolo. Ed è solo nel IV-V che il canone evangelico si forma, escludendo per un soffio testi della predicazione protocristiana come il Pastore di Erma o la Lettera di Barnaba , interpretazioni vertiginose, allegoriche e visionarie dell’ancora fluido magma di parabole, comandamenti, vaticini che si coagulerà nei Vangeli. Li pubblica ora la Fondazione Valla in un volume che getta luce sulla cosiddetta “sequela di Cristo” dei primi due secoli ( Seguendo Gesù , a cura di E. Prinzivalli e M. Simonetti, Fondazione Valla, pagg. 680, euro 30).
Storicamente, Cristo è un punto minuscolo nel mare di parole della letteratura antica: poche sillabe in Giuseppe Flavio, Tacito, Svetonio; due righe della lettera di Plinio il Giovane a Traiano; l’accenno nel De morte Peregrini di Luciano; frammenti del perduto Celso. Un ebreo chiamato Yeoshua e soprannominato Christos, l’”unto”, calco dell’ebraico mashiah, “messia”; o forse di nome Chrestos, in questo caso magari uno schiavo grecizzato; che si definì “figlio dell’uomo”; un altro profeta, per le altre due religioni del libro, che a quella cristiana somigliano abbastanza da comporre quasi un’unica religione, che più volte politici e filosofi, come Nicola Cusano, hanno sognato di riunire.
Cristo morì a trentatré anni, o forse a trentanove o a quarantuno, crocifisso perché finito in conflitto, probabilmente involontario, con l’autorità statale romana. Lo condannò Ponzio Pilato, governatore della Giudea, prefettura della provincia romana di Siria, un funzionario incompetente, crudele e corrotto secondo Filone d’Alessandria; forse, ma non necessariamente, fiancheggiato da alcuni vertici religiosi ebraici di Gerusalemme e da autorità politiche giudaiche come Erode Antipa.
Ma le narrazioni evangeliche della vicenda giudiziaria sono frutto di un’interpolazione a posteriori, che ricorre alle scritture ebraiche per alimentarne la dimensione profetica e l’implicazione escatologica; è più affidabile, forse, quella extracanonica del Vangelo di Pietro, uno dei magnifici apocrifi riemersi alla fine dell’Ottocento. L’indagine sul processo di Cristo ha ossessionato per millenni la cultura occidentale, ipnotizzato la poesia celtica, la speculazione islamica e la filosofia tedesca, strappato milioni di pagine alla ricerca storico- giuridica e prodotto nella modernità libri memorabili come la già citata Vita di Gesù di Renan, Il Maestro e Margherita di Bulgakov, Jesus Rex di Robert Graves. Fino a un’appartata autrice italiana, Elena Bono, di cui sono ripubblicati in questi giorni, a un anno dalla morte, alcuni racconti ( La moglie del procuratore , Marietti, pagg. 208, euro 12; Morte di Adamo, Breviario digitale, pagg. 812, euro 8,80) in cui ricorre ostinata la storia della Passione. Anche Bono è stata affascinata dall’oriente prima che dal cristianesimo, ma è ferrata in studi classici e teologici. La sua rêverie è colta, i suoi personaggi sono Seneca, Lucano, Pisone, Petronio; lo scenario, come per Macrobio, la Roma dei Saturnali. Anche qui c’è Paolo, «piccolo reziario scattante», e c’è il non-volto di Cristo, umanità senza individualità; anche qui si esita sulla resurrezione («una forma tipicamente orientale di apoteosi») e la si ridefinisce filosoficamente come stato interiore (la metamorfosi della protagonista, Claudia, vedova appunto di Pilato) e condizione psichica di partecipazione al dolore cosmico («soffro il mondo, le pene degli altri») che appare ispirata, oltre che ai misteri pagani e alla mistica cristiana, alla letteratura buddista. La dolorosa trance della matrona romana è un’immersione nel profondo di sé che ricorda l’estasi esicasta, quella corrente mistica transconfessionale che come un fiume carsico scorre sotterranea e riemerge in epoche diverse nelle diverse zone del globo: in India e nel Tibet come nell’Alessandria di Filone e delle sette platoniche elleniche o nel deserto egiziano dei Padri, per riemergere nella scuola gnostica di Konya, ai tempi di Rumi e del sincretismo tra sapienza cristiana, sufi ed ebraica, per diffondersi nel monte Athos, nelle steppe mongole e nella Madre Russia dei “pazzi in dio”, fino ai Racconti di un pellegrino russo , il diario ottocentesco che folgorò Tolstoj e che anche Carrère cita con devozione. All’ancestrale tecnica della respirazione diaframmatica presupposta dalla preghiera continua, cui si riferisce anche Paolo («pregate ininterrottamente ») nella prima lettera ai Tessalonicesi, si ricollega forse il più oscuro dei moniti evangelici, quello di Matteo 5.3: «Beati i poveri di spirito. È loro infatti il regno dei cieli». Considerando la teoria mistica della respirazione, si può intendere pneuma nel senso sacramentale, cioè letterale, di “alito”: i poveri di spirito saranno allora i “poveri di fiato”, che attraverso l’espirazione hanno raggiunto il Regno, se è vero che «il regno dei cieli è uno stato dell’anima», come scriveva già nel IV secolo Evagrio Pontico, uno degli autori inclusi poi nella Filocalia .
Quid est veritas?, «che cos’è la verità?», è la famosa domanda con cui Pilato ribatte, in Giovanni 18.38, alla dichiarazione processuale di Cristo: «Chiunque è per la verità ascolta la mia voce sulla verità». Secondo Bacone «il nobile disprezzo di un romano davanti all’uso sfacciato della parola verità ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica frase che vi possieda valore». Sia Bono sia Carrère la menzionano ampiamente, ma non ricordano la soluzione fornita in anagramma, si dice, da Agostino: quid est veritas? = est vir qui adest, «è l’uomo che è qui». Se il regno dei cieli non è un luogo ma una condizione psichica, non una promessa futura ma una possibilità presente, il Regno è l’esserci, l’essere ora e qui.

Repubblica 3.4.15
Anthony Giddens: “Ridistribuire la ricchezza e riportare la grande industria in Europa”
“La Terza via è morta travolta da tecnologia e globalizzazione”
intervista di Enrico Franceschini


LONDRA PROFESSOR Anthony Giddens, lei è stato il teorico della Terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi? «Significa avere determinati valori. Promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi».
Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos’è cambiato rispetto al passato?
«È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l’abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo. Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile ».
La Terza via, di nuovo?
«No, perché quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato».
Ce ne dia un esempio.
«Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità ».
Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra?
«Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto».
Cos’altro potrebbe fare, Renzi?
«L’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l’Europa».
Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato?
«Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L’altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all’industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».
Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra.
«Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l’ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi».
Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti.
«Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo».
Repubblica 3.4.15
Sinistra
Perché è debole e divisa la grande eredità del ’900
La sconfitta in Francia e le polemiche in Italia riaccendono il dibattito su cosa resta di un patrimonio di concetti e di battaglie messo in crisi dall’offensiva neoliberista
di Massimo L Salvadori


NEL riflettere su ciò che costituisce il nucleo vitale della sinistra — insieme il suo valore fondante e il fine che essa non può non perseguire salvo negare se stessa — occorre tenere per punto fermo che esso è l’egualitarismo. Tutte le correnti della sinistra sono sempre state concordi nell’alzare come propria bandiera l’egualitarismo. Sennonché una tale concordia è costantemente venuta meno in relazione sia al tipo e al grado di egualitarismo sia ai mezzi per conseguirlo. A mio giudizio per chi voglia chiarirsi le idee resta prezioso il saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra, ripubblicato dalla Donzelli nel 2014.
Qui parte essenziale dell’analisi è dedicata a mostrare come la sinistra unita intorno all’egualitarismo si è aspramente divisa al proprio interno circa il “quanto” di egualitarismo da conseguire e come ottenerlo; tanto che la storia della sinistra è nelle sue linee dominanti storia di due assai diverse sinistre: da un lato la rivoluzionaria, la radicale, dall’altro la moderata, la riformista; da un lato i comunisti Winstanley, Babeuf, Marx, Lenin, Mao; dall’altro i riformisti Owen, Blanc, Bernstein, il “rinnegato” Kautsky, arrivando a Palme. La prima corrente aspirava all’egualitarismo integrale da assicurarsi mediante la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la dittatura dei proletari, la seconda a un egualitarismo — cito Bobbio — «inteso non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza (…) a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali» in forza dell’affermazione dei diritti sociali e nel quadro del rispetto della democrazia e dei diritti di libertà di tutti.
Questa la tavola dei valori e degli obiettivi delle due sinistre. La storia è stata implacabilmente impietosa con la sinistra comunista: prima l’ha portata ai massimi trionfi in termini di potere e poi l’ha fatta precipitare nella negazione pratica di tutti i suoi ideali culminata in un degradante totalitarismo. La sinistra socialista riformista ha avuto un migliore destino, raggiungendo nel Novecento con il “compromesso socialdemocratico” da cui sono venute le istituzioni del welfare , risultati importanti, che hanno contribuito in maniera determinante a ridurre le diseguaglianze, a dare maggiore dignità al mondo del lavoro, ad assicurare protezione agli strati sociali più deboli. Questa è l’unica sinistra che rimane, ma non versa affatto in buona salute. L’offensiva neoliberista l’ha svuotata, al punto che appare ridotta a un’esistenza residuale. Certo, è ancor sempre in Europa una forza elettorale tutt’altro che trascurabile. Ma, come sta dimostrando la Francia, non morde, si limita a resistere in una condizione di crescente affanno. A indebolire la socialdemocrazia sono fattori come il cedimento dei modi di produzione basati sulle grandi fabbriche e sulla concentrazione in queste ultime delle masse dei lavoratori metalmeccanici e siderurgici, l’avvento delle tecniche produttive legate all’automazione e all’informatica, l’indebolimento dei sindacati; il che ha privato i partiti socialdemocratici di quelli che erano i suoi tradizionali ancoraggi. Aggiungasi che questi partiti operavano in Stati in cui le decisioni politiche ed economiche erano nelle mani di Parlamenti e governi nazionali che poggiavano su sistemi di “economia nazionale”. La globalizzazione economica ha spostato tali leve a favore delle oligarchie sovranazionali, capaci di dettare legge in campo economico, orientare politica ed economia, di influenzare l’opinione pubblica e il corpo elettorale. Qui sta la radice dello svuotamento della sinistra socialdemocratica, costretta a una difensiva difficile e inconcludente.
Difficile e inconcludente perché incapace di elaborare una cultura politica all’altezza di sfide che non era ed è preparata ad affrontare. Essa sopravvive come può, leva una “grande lamentazione” contro l’inesorabile avanzare delle diseguaglianze abissali in crescita esponenziale tra i pochi grandi ricchi, coloro che stentano a campare e i tanti poveri e poverissimi, ma non riesce a coordinare le proprie forze a livello internazionale, si affanna a difendere i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.
Marx una cosa davvero giusta l’aveva detta: che gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica. Orbene, la sinistra odierna è corrosa da questo contrasto: mentre è indotta dalle mostruose diseguaglianze alla grande lamentazione in nome di un umano egualitarismo, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere che lo contrastano. L’inevitabile domanda è se essa sarà in grado di risalire la china che sta trascinandola verso una crisi profonda.
Di fronte alle enormi ingiustizie contro i diritti degli strati più deboli, una serie di eminenti filosofi politici e intellettuali — mi limito a citare, oltre a Bobbio, Michael Walzer, Tony Judt, Colin Crouch — hanno insistito a ricordare le conquiste della socialdemocrazia nel Novecento e ad affermare di non vedere altro soggetto che possa invertire la rotta segnata dal neoliberismo trionfante. Così si carica la socialdemocrazia di un compito tanto pesante quanto nobile. Resta il fatto che la critica al mondo che genera le diseguaglianze è una premessa di per sé incapace di produrre il fare.
Questo appare, dunque, lo stato delle cose: la sinistra è gravemente malata e non può illudersi di vivere di protesta ideale. Cercare di vedere la situazione costituisce la necessaria premessa per qualsiasi passo in controtendenza. Vedremo se essa saprà ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni.
Un’ultima considerazione. In Italia dove sta la sinistra? In casa di Renzi, di Landini, di Vendola?
Per ora nessuno lo ha spiegato in maniera comprensibile. Cerchino di farlo se ne sono all’altezza, così i cittadini potranno capire e regolarsi di conseguenza. Tutta la storia italiana è piena di sinistra, sempre boriosa, che nei momenti cruciali ha perduto la partita. Provino i Renzi, i Landini, i Vendola a mettere insieme le loro idee, i loro programmi in paginette ben scritte. È una questione di responsabilità politica. Vederli un giorno sì e un giorno no gridare dagli schermi televisivi: sinistra, sinistra, la mia è la sola vera sinistra stanca, delude e allontana.