martedì 5 agosto 2014

La Stampa 5.8.14
I nostri destini sono intrecciati. Serve un dialogo fra “nemici”
Ricostruire e risanare le ferite della Striscia non è sufficiente Israele deve favorire la fine dell’isolamento dei palestinesi
di Abraham B. Yehoshua


Mio figlio minore ha 40 anni, è padre di tre figli e, in quanto ufficiale dell’esercito, è stato richiamato al fronte. E mentre la guerra a Gaza continua, scrivo queste parole in preda a una profonda ansia per la sua sicurezza e con la preghiera che i combattimenti cessino. Subito dopo lo scoppio delle ostilità ho pubblicato articoli, in Israele e all’estero, in cui sostenevo che Hamas andrebbe visto come un nemico, non come un’organizzazione terroristica.
Pertanto si dovrebbe cercare un dialogo diretto con i suoi rappresentanti, analogamente a quanto abbiamo fatto con i nostri nemici in passato. Dei cari amici mi hanno fatto notare che alcuni articoli della piattaforma politica di Hamas parlano della necessità non solo di combattere Israele, ma di uccidere indiscriminatamente tutti gli ebrei.
Nonostante questa terribile e folle dottrina ideologica, che riporta alla memoria punti simili del programma del partito nazista in Germania, rimango fermamente convinto che si debba cercare con tenacia di avviare una qualche forma di dialogo con gli esponenti di Hamas perché si convincano ad abbandonare la strada della follia suicida. E, in effetti, delegazioni ufficiali di Israele e di Hamas hanno discusso al Cairo, seppur non in maniera diretta e con la mediazione dell’Egitto, un accordo per il cessate il fuoco e forse un’intesa di maggior respiro.
Se Hamas combattesse Israele e gli ebrei lontano dai nostri territori potremmo anche accettare il principio di non avviare nessun negoziato con questa organizzazione fino a che non cambierà completamente le sue posizioni ideologiche. Ma Hamas agisce molto vicino a noi, fra il milione e ottocentomila abitanti di Gaza che lo hanno eletto e che il suo governo controlla con il pugno di ferro. Questa gente sarà per sempre nostra vicina (come ho già ricordato, Gaza dista solo 70 km da Tel Aviv), e fa parte del popolo palestinese. Un milione e mezzo di palestinesi sono cittadini israeliani, nostri associati (almeno in linea di principio), e con gli stessi diritti di tutti gli altri residenti dello Stato ebraico. Altri tre milioni vivono in Cisgiordania, alcuni sotto il controllo dell’Autorità palestinese, con la quale Israele mantiene costanti contatti, e altri sotto quello dell’esercito israeliano. Ne consegue che tutti questi palestinesi, anche chi non approva l’ideologia di Hamas, sono strettamente legati a noi e, per solidarietà con la popolazione di Gaza, si aspettano che ne miglioriamo la sorte e la salviamo dall’isolamento. Abbiamo quindi il dovere di fare tutto il possibile per aiutare questo popolo il cui destino è intrecciato al nostro e, se questo significa avviare un dialogo con Hamas, non possiamo rifiutare di intraprendere questa strada.
Alla radice dell’integralismo di Hamas c’è infatti la lunga storia che ho cercato di illustrare nei miei articoli precedenti. Una storia di emarginazione, di repressione, di blocco economico (iniziato durante il governo egiziano della Striscia), di profughi senza speranze e dell’errore degli insediamenti israeliani che hanno portato via ai palestinesi una parte del loro ristretto e povero territorio fino a che, in forza della resistenza di Hamas, Israele è stato costretto a smantellarli e a ritirare l’esercito. Ed è a quel punto che è cominciato l’isolamento degli abitanti di Gaza dal resto del loro popolo. Ed è nel sopraccitato contesto che è nato il sentimento di ostilità che si è inasprito nel tempo, fino alle sempre più pericolose missioni suicide. Chi avrebbe mai potuto immaginare, venti o trent’anni fa, che gli abitanti della Striscia, poveri e privi di mezzi, sarebbero riusciti a paralizzare con il lancio di razzi la vita quotidiana del forte e progredito Israele? E, proseguendo la guerra, c’è il pericolo che i miliziani di Gaza siano di esempio per Iran, Siria e Hezbollah, dimostrando loro che, sparando missili, si può scombussolare e anche paralizzare la vita di Israele senza che quest’ultimo possa davvero impedirlo.
Il distacco della Striscia di Gaza da una parte del mondo arabo e dai loro fratelli oltreconfine da un lato spinge la sua popolazione all’indifferenza verso le numerose vittime e l’entità della distruzione e dall’altro a commettere azioni suicide, il più grande pericolo per Israele.
Per far uscire gli abitanti di Gaza da questo vicolo cieco, o dal tunnel in cui si sono trincerati (per usare una metafora pertinente) e nel quale vogliono trascinare anche noi, occorre predisporre un piano effettivo e ingegnoso dopo il cessate il fuoco che preveda non solo la ricostruzione e il risanamento delle ferite della Striscia ma, in primis, la fine del disperato isolamento dei suoi abitanti mediante il ripristino dei legami con i loro fratelli in Cisgiordania e in Israele. E questo ripristino deve coinvolgere Hamas, l’autorità ufficiale della Striscia, e il governo palestinese di unità nazionale istituito qualche mese fa e con il quale Israele ha poco saggiamente interrotto i rapporti.
Alla base della differenza fra una visione del mondo di destra e una di sinistra è la convinzione che gli esseri umani possono cambiare. Mentre la destra parla di mentalità, di destino, di carattere nazionale immutabile, la sinistra crede che uomini e nazioni possano trasformarsi. E questa era anche la convinzione alla base del sionismo, che confidava nella possibilità di cambiare gli ebrei e di renderli sovrani nella loro madrepatria.
Dopo la distruzione e le morti, a Gaza e in Israele, lo Stato ebraico non deve accontentarsi di accordi provvisori o di intese parziali, come al termine di scontri precedenti, ma deve prendere l’iniziativa e, con l’aiuto dell’Egitto e di altri Stati, ricostruire Gaza - il figliastro amareggiato e incollerito -, smantellarne i missili, distruggerne i tunnel ma, al tempo stesso, interromperne l’isolamento e ripristinare i legami col suo popolo mediante un «corridoio sicuro» che colleghi la Striscia alla Cisgiordania, come previsto negli accordi di Oslo. Un tunnel legittimo e ben strutturato di circa 30 chilometri, sotto la supervisione congiunta del governo di unità nazionale palestinese e di Israele.
[3- fine]

Corriere 5.8.14
Il pessimismo di Amos Oz
«Più palestinesi uccidiamo e più vincerà Hamas»
Lo scrittore: «Sharon si è ritirato dalla Striscia, ci hanno sommerso di razzi: chi crederà più alla pace?»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Ha trascorso gran parte dei ventotto giorni di guerra in ospedale, bloccato a letto da un’operazione al ginocchio. Bloccato anche quando le sirene risuonavano a Tel Aviv: Amos Oz avrebbe avuto 90 secondi per correre dentro al rifugio. «Non ci sarei riuscito e non ci ho provato. Ho combattuto in due conflitti, ci vuole più di un allarme razzi per spaventarmi». Adesso è tornato nella casa di Tel Aviv, sta ancora recuperando, non gli manca l’energia per riaffermare quello che ha sempre ripetuto: «Non ho una soluzione per le prossime ventiquattro ore. Posso dire quale sia la via d’uscita da qui a un anno e mezzo: negoziare con il presidente Abu Mazen un accordo che porti alla nascita dello Stato palestinese, smilitarizzato, con la rimozione di quasi tutte le colonie ebraiche. La libertà e la prosperità, Ramallah e Nablus che fioriscono, spingeranno i palestinesi di Gaza a rivoltarsi e a eliminare Hamas come i rumeni hanno eliminato Nicolae Ceasescu».
Quello che potrebbe accadere nelle prossime ventiquattro ore lo ha annunciato Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano: finita la distruzione dei tunnel scavati dai miliziani, il governo è pronto a ritirare le truppe dalla Striscia senza trattare il cessate il fuoco e a rispondere con i raid dell’aviazione se i lanci di razzi dovessero andare avanti. Lo scrittore, 75 anni, preferisce le intese negoziate, in questo caso dice: «Qualunque scelta riduca immediatamente la violenza, anche senza una mediazione, sarebbe una benedizione per fermare il disastro umanitario a Gaza e la sofferenza quotidiana di milioni di israeliani costretti a scappare nei rifugi».
Avigdor Liberman, il ministro degli Esteri, ha rappresentato nel governo le posizioni più oltranziste, premeva sul premier, almeno a parole, perché desse l’ordine all’esercito di rioccupare Gaza. Adesso lancia l’idea di mettere quel corridoio stretto tra Israele, l’Egitto e il mare sotto il controllo di una forza internazionale. «Affiderei la Striscia a chiunque — dice Amos Oz — anche ai marziani. Non capisco perché Netanyahu non abbia proposto di togliere l’assedio economico imposto dagli israeliani e di legare alla smilitarizzazione la raccolta internazionale di fondi per la ricostruzione. Se Hamas respinge il piano, saranno loro (e solo loro) a dover essere biasimati».
La figlia Fania — docente di Storia all’università di Haifa, con la quale ha scritto «Gli ebrei e le parole» (Feltrinelli) — gli ha offerto una metafora per descrivere la strategia di Hamas: «Un vicino di casa che si siede sul balcone con il figlio in braccio e comincia a sparare contro il tuo asilo». Amos Oz chiede comunque a Israele «un uso più cauto della forza militare»: «I miliziani operano da dentro o molto vicino a scuole e ospedali. Così raggiungono due obiettivi: più israeliani uccidono, più vincono; più palestinesi uccidiamo noi, più vincono loro. Non è solo la questione dell’immagine internazionale del Paese, mi preoccupano i nostri standard morali. Sono abbastanza vecchio da ricordare la guerra del 1967, i combattimenti nella parte est di Gerusalemme: i giordani colpivano dalle case, si muovevano tra i civili, eppure l’esercito israeliano non ha voluto bombardare, ha scelto di combattere strada per strada, l’unico modo di evitare le vittime innocenti».
Novanta secondi, un nome arabo dopo l’altro, l’età: sono i bambini palestinesi uccisi nell’offensiva israeliana. B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, avrebbe voluto trasmettere l’annuncio a pagamento sulle radio locali, è stata bloccata dall’autorità governativa per le emittenti. La cantante Noa riceve minacce di morte dopo aver espresso compassione e dolore per i morti palestinesi. La sinistra si sente sotto assedio, zittita dalla violenza degli ultranazionalisti. «In tempo di guerra l’atmosfera in qualunque Paese — commenta Oz — diventa militarista. Ero a Londra durante il conflitto per le Falkland e le manifestazioni di sostegno al conflitto erano massicce, anche se la maggior parte dei partecipanti non sarebbe stata in grado di trovare quelle isole, e forse l’Argentina, sulla mappa.
Non vedo lo stesso clima di odio che ha portato all’omicidio di Yizthak Rabin, come altri avvertono. I fanatici, i razzisti, non sono solo un fenomeno israeliano, stanno crescendo in Europa, in Russia, in tutto il mondo».
La sinistra resta in difficoltà, sembra incapace di far passare il suo messaggio. «Per quasi un cinquantennio il movimento pacifista ha sostenuto il progetto di scambiare i territori per ottenere la pace. Otto anni fa l’allora premier Ariel Sharon ha lasciato Gaza, ha evacuato le colonie, ritirato tutte le truppe. Invece della pace e della coesistenza abbiamo ricevuto una pioggia di razzi. Adesso è difficile convincere la gente che terra per pace è un’idea ancora valida».

Repubblica 5.7.14
Zygmunt Bauman.
L’amarezza dell’intellettuale polacco di origini ebraiche
Sfuggito all’Olocausto, non risparmia critiche ad Hamas e a Netanyahu: “Pensano alla vendetta, non alla coabitazione
Purtroppo sta accadendo ciò che era ampiamente previsto”
“Gaza è diventata un ghetto Israele con l’apartheid non costruirà mai la pace”
intervista di Antonella Guerrera


«CIÒ A cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto ». A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all’Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939. Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l’aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell’abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest’intervista a Repubblica .
Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all’offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili?
«Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell’apartheid — nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi — che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l’ 8 luglio, prima dell’invasione di Gaza, Israele pratica l’apartheid ricorrendo a “due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi ‘fuorilegge’. Del resto, quando l’esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell’omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi”. E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri».
Come anche lei sottolinea, tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C’è chi, come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma necessaria. Chi la giudica eccessiva e “sproporzionata”. Lei che ne pensa?
«E come sarebbe una reazione violenta “proporzionata”? La violenza frena la violenza come la benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide l’impegno di non spegnere l’incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è accecata dalle passioni) ci ricorda: “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione. Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le parti del conflitto fa comodo la violenza dell’avversario per rinvigorire le proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano, avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero avere entrambi ragione».
Cosa pensa, nello specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo?
Ha commesso errori?
«Netanyahu e i suoi sodali, e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché temono che l’odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non sono “errori”. I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l’arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. L’insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull’odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire».
Lei in passato è stato critico nei confronti del sionismo e dell’uso che Israele fa della tragedia dell’Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
«Raramente la vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso, invece, provoca un’unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele, nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un’eccezione. Quello a cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni). Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro».
A questo proposito, cosa pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso a Gaza?
«Innanzitutto, non esiste la “comunità internazionale” di cui parlano americani ed europei. In gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il centenario dell’inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente che “un’eccessiva” reazione come quella all’omicidio di Francesco Ferdinando ha portato alla catastrofe “che nessuno voleva o si aspettava”».
Lei ha scritto in passato che la società moderna non ha imparato l’agghiacciante lezione dell’Olocausto. Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
«Le lezioni dell’Olocausto sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in considerazione. E ancor meno sono state apprese — per non parlare di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è: l’Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad altri umani in nome dei propri interessi. Un’altra lezione è: non mettere un freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali. Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente multicentrico, ricopre ancora un’importanza universale, applicabile a ogni antagonismo locale. Ma non c’è una soluzione a breve termine per lo stallo attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che dietro alle due categorie di “aggressori” e “vittime” della violenza c’è un’umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz, l’ultima ondata di violenza nell’area “ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica».