sabato 28 ottobre 2006

Il Mattino 27.10.06
Schopenhauer, Nietzsche: «Tre conferenze» di Giametta
Quelle domande sul mondo inconoscibile
di Giuseppe Tortora

Si può conoscere il mondo? Questa la domanda al centro del volume di Sossio Giametta Tre conferenze (Palomar, pagg. 71, Euro 8). Sì, tutti crediamo sia possibile. Ma è un’ingenuità. Come mostra Immanuel Kant, ad ogni tentativo la ragione cade in affermazioni contraddittorie. Dunque, è impossibile conoscere il mondo come totalità, o tentar di coglierne razionalmente l’interna struttura. Come del resto è impossibile rispondere con ragionevole attendibilità al duplice quesito sulla sua origine e su quel che ne sarà alla fine dei tempi. Quel che ”sappiamo” del mondo è sempre una nostra rappresentazione. Anche Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche concordano nella conclusione che il mondo è e resterà una grande incognita. L’uomo immagina se stesso come un microcosmo. L’uomo a misura del mondo! Errore di prospettiva: è l’uomo la misura di tutte le cose. Conoscere il mondo significa solo decifrarlo attraverso i nostri strumenti rappresentativi, in modo da ottenere risposta ai nostri interrogativi. Schopenhauer lo afferma a chiare lettere: il mondo è rappresentazione. E quando tentiamo di andare al di là della rappresentazione, non riusciamo a scorgervi se non quello che l’uomo stesso è: volontà. Insomma possiamo immaginarlo solo in termini umani. Alla domanda su che cosa sia il mondo possiamo rispondere solo, con Schopenhauer: è volontà di vivere; o con Nietzsche: è volontà creatrice. E allora: il mondo è caos o kosmos? finito o infinito? Nessuno può dirlo. Anche la quantità, su cui si fonda la moderna scienza, ha senso solo per l’uomo: niente dice della realtà naturale. Mai riusciremo a infrangere la radicale alterità del mondo. Nulla si può dire della realtà come stabile costituzione delle cose. E conviene abbandonare l’idea di verità come corrispondenza a questa realtà. L’uomo può conoscere solo se stesso. Nietzsche è perentorio: la filosofia non può parlare che dell’uomo. Anzi: degli uomini. E aggiunge che essa deve diventare psicologia. Una psicologia come «teoria evolutiva della volontà di potenza» diventerà la via attraverso la quale si porteranno a chiarimento questioni millenare e oscuri misteri. Sicché «la storia della riflessione sul mondo - dice Giametta - è la storia di un sempre più approfondito e circostanziato scetticismo». Evidentemente «di più gli uomini non sanno e non possono fare». Certo questa incapacità «ci lascia nella scomoda, per non dire angosciosa, problematicità che avvolge tutta la nostra esistenza». Ci sentiamo sconfitti nella nostra titanica presunzione di impadronirci del mondo attraverso la conoscenza. Ma non è un male. «Quando urta contro i limiti della conoscenza, l’uomo è sanamente rinviato a se stesso e, diciamolo, al suo coraggio». E dunque potrà andare più libero. Spostando dall’esterno all’interno il proprio baricentro, abbandonati ingiustificabili pre-giudizi e insopportabili condizionamenti, attingerà, ricavandola da se stesso, dalla sua propria natura, «quella misura dell’essere e dell’agire che gli compete».

venerdì 27 ottobre 2006

Aprileonline.info 26.10.06
Sinistra Europea, un'alleanza plurale
di Alessandro Cardulli


Della fase costituente della S.E. nazionale, caratterizzata da dibattiti, iniziative e incontri con le associazioni nate quest'anno, e del progetto delle forme dell'agire politico a cui è legata la nuova formazione, abbiamo parlato con Walter de Cesaris, coordinatore della segreteria nazionale di Rifondazione e del gruppo di lavoro nominato dalla Direzione del partito

Fase costituente della "Sinistra europea": un percorso fatto di iniziative, dibattiti nel territorio in particolare, incontri con tante associazioni nate in questo anno. A Roma già si sta organizzando un "tavolo comune" fra Rifondazione e le associazioni, a partire da "Sinistra romana," che aderiscono alla fase costituente. Il 27, sempre a Roma alla Casa delle Culture, forze politiche di sinistra, associazioni, movimenti anche non aderenti al progetto "sinistra europea", si propongono di costruire una "casa delle sinistre". Lunedì prossimo nella capitale si terrà una tavola rotonda con Oskar Lafontaine e Gregor Gysi, Capigruppo Die Linke al Parlamento tedesco, e Franco Giordano, segretario nazionale del Prc: parleranno dell'esperienza unitaria che li vede protagonisti in Germania. Sabato 25 novembre sarà la volta dell'assemblea nazionale di "Uniti a sinistra". Con Walter De Cesaris, coordinatore della segreteria nazionale di Rifondazione e del gruppo di lavoro nominato dalla Direzione del partito, facciamo il punto della situazione.
Una critica che viene fatta riguarda una certa astrazione del progetto. Allora partiamo da qui, visto che la riunione della vostra Direzione ha impresso un'accelerazione al processo costituente ed ha precisato i vostri orientamenti.
Noi pensiamo alla costruzione della Sinistra Europea in Italia come a un esperimento nella direzione dell'innovazione delle forme dell'agire politico, come una risposta da sinistra alla crisi della politica, sia rispetto alla dimensione generale di questa crisi provocata dal neoliberismo sia alla forma specifica che questa assume come crisi del sistema politico italiano.
Pensiamo al superamento dell'idea che una soggettività politica nuova si costituisca per scioglimento di quelle esistenti o come semplice cooptazione dentro la forza più grande e pensiamo al superamento della divisione in compartimenti stagni tra la politica e il sociale, tra partiti e movimenti.
Lavoriamo alla costruzione di una soggettività politica nuova, in cui Rifondazione Comunista entra con la sua autonomia politica e culturale assieme ad altri soggetti, altrettanto differenti e autonomi, dentro una alleanza di carattere confederale. Una struttura a rete in cui si intrecci una maglia verticale, costituita dalle reti nazionali che aderiscono alla Sinistra Europea e una maglia orizzontale: le reti locali, costruite attraverso il rapporto di internità che si stabilisce tra associazioni, comitati, realtà di base.
Un processo vero e coinvolgente, come una vera inchiesta sul Paese e sulle energie che si battono per l'alternativa.
Oggettivamente il progetto che dovrà portare alla nascita della sezione italiana della Sinistra europea incrocia il dibattito sul Partito democratico, entra in contatto con la sinistra Ds. A Rifondazione si pone un interrogativo che riassumo così: Sinistra europea è un progetto chiuso, statico o aperto e dinamico?
Sinistra Europea e Partito Democratico sono due progetti alternativi dentro la sfida di lungo periodo sull'idea di società e sul futuro della sinistra. Sfida che non esclude una collaborazione e anche fasi di alleanza dentro lo scontro frontale con le destre.
La discussione aperta dentro la sinistra ds, e mi sembra dentro un campo più vasto e che riguarda settori e intellettualità della sinistra larghi, è molto importante.
Noi guardiamo con rispetto e interesse a questo dibattito, senza alcuna pretesa di interferire su di esso. Siamo interessati a un confronto con tutti coloro che si pongono domande analoghe alle nostre, anche al di là delle risposte che possono essere date. Penso, per esempio, all'importante riflessione che l'Ars, assieme alle altre associazioni, sta portando avanti.
Pensiamo alla Sinistra Europea come a un'alleanza plurale in cui culture ed esperienze differenti entrino in relazione, mantenendo l'autonomia del proprio profilo culturale. In questo senso, l'autonomia di un'esperienza politica che si riferisca alla cultura del socialismo europeo per rinnovarla, è un elemento costitutivo di questa prospettiva.
Il prossimo lunedì 30 ottobre saranno a Roma Gisy e Lafontaine: quello tedesco è, dentro il processo innescato dalla Sinistra Europea, un esperimento importante da cui vogliamo imparare anche per ciò che attiene l'incontro tra culture differenti dentro il movimento operaio per riattualizzare il tema arduo della trasformazione.
Un problema non facile da affrontare è quello delle forme organizzative, trattandosi di far incontrare forze diverse per formazione, culture, percorsi. A che struttura pensate e con quali tempi?
Noi pensiamo di svolgere entro la prossima primavera una prima assise di costituzione della Sinistra Europea con tutte le reti nazionali che si sono disposte in questo cammino. Tutti saranno pariteticamente rappresentati e il consenso sarà il metodo di lavoro di tutta questa fase.
Pensiamo che la fase costituente non sia chiusa lì ma che prosegua, sia attraverso i territori per la costruzione di coordinamenti unitari e la costruzione di quelle che chiamiamo "case della sinistra europea", sia a livello nazionale con un nuovo appuntamento generale entro il 2008.

Repubblica 26.10.06
Esce uno strano thriller intitolato "Critica della ragion criminale"
L'autore Michael Gregorio reinventa il grande filosofo in modo molto originale
di Piergiorgio Odifreddi

Il mistero dei ponti della città di Königsberg
sublimi omicidi a sangue freddo


La Seconda Guerra Mondiale iniziò formalmente il primo settembre 1939, quando la Germania invase la Polonia perché questa non aveva concesso a Hitler il «corridoio di Danzica», che gli avrebbe permesso di collegare la Prussia occidentale a quella orientale: cioè, a Königsberg, il porto sul mar Baltico che dopo la sconfitta dei nazisti fu assegnato dalla Conferenza di Postdam all´Unione Sovietica e assunse il nome di Kaliningrad, che conserva tuttora.
Ai filosofi il nome di Königsberg ricorda quello di Immanuel Kant, che vi nacque, studiò, insegnò, morì e fu sepolto, senz´essersi mai allontanato dalla città per più di cinquanta chilometri in tutta la sua vita. Per i matematici il nome è invece inevitabilmente associato al famoso problema dei sette ponti, che gli abitanti della città si erano posti fin dal Seicento: il percorso del fiume Pregel forma infatti un isolotto e divide il territorio in quattro parti, collegate fra loro da sette ponti, che nessuno era mai riuscito a percorrere tutti di seguito senza passare almeno due volte su qualcuno di essi.
Ai tempi di Kant il problema non si poneva più, perché era ormai stato risolto nel 1736 da Leonardo Eulero: un matematico cieco che aveva comunque visto, con gli occhi della mente, che se si vuole arrivare in ciascuna località per una strada e ripartirne da un´altra senza mai passare due volte per la stessa via, il numero di strade che confluiscono in ciascuna località dev´essere pari.
Purtroppo, questo non avviene non solo per qualcuna, ma per nessuna delle quattro località che i sette ponti di Königsberg collegano: dunque, il problema non ha nessuna soluzione.
Naturalmente i filosofi non badano alle dimostrazioni, e può succedere che ancor oggi uno di essi scriva che «prima di morire il grande matematico Eulero si chiese se fosse possibile percorrere una strada attraverso Königsberg che passasse per i nove ponti sul Pregel senza mai usare lo stesso ponte più di una volta», e che Kant avrebbe affermato: «Quando cominciai ad insegnare all´Università vinsi una scommessa con un collega che era stato molto amico del matematico. Mi disse che in realtà lo stesso Eulero non conosceva la risposta! Ebbene, ho trovato due soluzioni al problema».
Fortunatamente il filosofo in questione, che ha fatto in un solo paragrafo tre errori e si chiama Michael Gregorio, si è dato alla letteratura e ha scritto queste cose in un romanzo su Kant, che tratta la filosofia allo stesso modo della matematica.
Costringendo, cioè, il lettore all´accettazione di una finzione in cui Kant abiura la sua fede nella Ragione e nella Logica e si lascia sedurre dalla parte più sinistra del suo emisfero destro, arrivando a teorizzare il piacere di uccidere in una Critica della ragion criminale, di cui l´omonimo romanzo (Einaudi, pagg. 500, euro 15) riporta soltanto questo frammento: «Le leggi della natura subiscono un capovolgimento quando si esercita su un altro essere umano il potere che è di Dio. L´assassinio a sangue freddo apre la via d´accesso al sublime. E´ un´apoteosi senza uguali».
Nell´attribuire queste frasi e questi propositi a Kant, Gregorio non fa che adottare la «tecnica dell´anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee» che Borges aveva proposto nel Pierre Menard, autore del Chisciotte come ausilio al lettore per popolare di avventura i libri più calmi: istigandolo, ad esempio, a leggere l´Imitazione di Cristo come se fosse scritta da Louis-Ferdinand Céline o da James Joyce, per rinnovare inaspettatamente quei tenui consigli spirituali.
Puntualmente, dunque, nel romanzo vediamo addirittura Kant correre a casa: proprio lui, che era noto per passare tranquillamente ogni giorno alla stessa ora negli stessi posti, tanto che si diceva che gli abitanti di Königsberg regolassero su di lui i loro orologi. E lo vediamo scrivere apocrifamente su un album di autografi: «Due cose mi riempiono la mente di meraviglia: il cielo stellato sopra di me e le tenebre in fondo alla mia anima», parodiando l´analogo aforisma che oggi funge da epigrafe sulla sua tomba, e che contrapponeva invece il cielo stellato alla legge morale. Ma, soprattutto, lo vediamo riassumere in gran segreto il fedele servitore che aveva licenziato dopo una vita di fidata collaborazione, con una decisione tanto drammatica che nella realtà lo spinse a tenere ben in vista sulla scrivania, come promemoria a se stesso, il paradossale memento: «Ricordarsi di dimenticare Lampe».
La figura di un servitore che per decenni seguì Kant come un´ombra nelle sue passeggiate, doverosamente un passo indietro, e gli organizzò la vita come un meccanismo a orologeria, anche contro l´apparente riluttanza del padrone, solletica la fantasia dei letterati, che nella completa abnegazione di Lampe (e di tanti altri «segretari particolari», ad esempio quelli dei papi) evidentemente ritrovano i segni di una personalità deviata. Cosí, nel romanzo «Kant e la critica del servitore impuro» di José De Juan (Robin, 2001), dieci giorni dopo essere stato allontanato di casa Lampe rientra di soppiatto in cucina e uccide l´ex padrone.
Nella Critica della ragion criminale, invece, egli diventa lo strumento di cui Kant si serve per stimolare quei delitti che testimoniano l´assunto centrale della sua supposta nuova filosofia: il fatto, cioè, che come la razionalità può essere completa solo al prezzo di essere inconsistente, così la criminalità può essere perfetta solo a patto di essere gratuita.
In tal modo, Gregorio giustifica filosoficamente il suo riferimento alla Critica della ragion pura e alla Critica della ragion pratica kantiane, che era soltanto un ammiccamento in opere quali la Critica della ragione dialettica di Jean-Paul Sartre o la Critica della ragione economica di Daniel Kahneman, Daniel McFadden e Vernon Smith (Saggiatore, 2005), e una semplice citazione pretestuosa in innumerevoli altre: una ricerca su Google alla voce «Critica della ragion» rivela infatti opere che completano il titolo con aggettivi che, nelle sole prime cento voci, comprendono la ragione berlusconiana, dura, laica, mercantile, non profit, poetica, pubblica, storica, tecnologica, umanitaria, e via dicendo.
Il titolo di un romanzo è naturalmente una parte integrante del suo marketing: paradossalmente, infatti, quando un lettore sceglie di comprare o di leggere un libro non può farlo in base al contenuto interno, visto che non lo conosce ancora, e deve dunque basarsi su fattori esterni, quali appunto il titolo o la copertina. Ma anche sulle note del retro, che hanno la funzione di solleticargli la curiosità: e non c´è niente di più facile che provare a farlo appellandosi a parole, magari scritte in rosso come il sangue, quali «delitti atroci e inspiegabili», «verità sconvolgente» e «ossessione del Male», senza tralasciare qualche riferimento, magari scritto in nero come il carbone, al Diavolo e ai negromanti.
Il potenziale lettore è dunque avvisato: la Critica della ragion criminale è un buon thriller, che inizia con quattro morti già ammazzati e finisce con la sistematica eliminazione di quasi tutti i protagonisti, passando per agghiaccianti obitori e taverne malfamate. Ma è un thriller nel quale Kant viene tirato per i capelli, in maniera puramente strumentale. L´idea di usare un famoso filosofo come investigatore non è nuova, come dimostra la mezza dozzina di libri della serie di Aristotele detective di Margaret Doody pubblicati in Italia da Sellerio. Meno convincente è il voler mettere insieme il Diavolo e l´acqua santa, facendo di Kant non solo il detective ma anche l´assassino: o, almeno, il promotore sia dei delitti che delle indagini.
Anche perchè la tensione fra la reale razionalità del filosofo con una sua fittizia irrazionalità finisce per sfociare in una sistematica denigrazione della prima, che si palesa in affermazioni quali: «la Logica non ha spazio nelle faccende umane», o «l´espressione sublime della volontà, l´atto che va oltre la Logica e la Ragione, oltre il Bene e il Male, è l´assassinio senza motivo». Non esattamente ciò di cui si ha bisogno in questo mondo, che già enuncia per conto suo questi princípi e avrebbe dunque bisogno di qualcuno che proclamasse, nella finzione ma soprattutto nella realtà, il loro esatto contrario.

La Tomba dell'Orco, da A. Stenico, La pittura etrusca e romana, Mondadori:

Prima tomba dell'Orco (fine del IV sec. a.C. ): la fanciulla è Velia, sposa di Arnth Velcha... volto nobile e nitido preso di profilo, capelli liberi davanti e decorato da riccioli ai lati, fermati da una corona di verdi foglie e da un nastro sopra la nuca... porta i suoi gioielli (due collane e orecchini pendenti), sguardo di assorta malinconia, accentuata dalla bocca semichiusa... si staglia sulla caligine dell'oltretomba del fondo, rischiarata a bordo del volto... sulla parete di fronte una mostruosa figura, Charu (che sarà poi il caronte dantesco! ) livido di carnagione, dal naso a becco, anguicrinito, con grandi ali e munito di martello. Un serpente crestato si snoda davanti al livido volto. E' la prima volta che nella pittura etrusca incontriamo uno di quei mostri cho poi ebbero larga diffusione, con accentuazione di quei caratteri spaventosi che i Greci certo non amarono veder figurati neppure per ragioni religiose...

Seconda tomba dell'Orco (fine del III sec. a.C. ): a fianco, nella tomba più recente, le pitture rappresentano l'oltretomba ellenico, nel quale è mischiata la demonologia etrusca. I due signori dell'Oltretombam Aita (Ade) e Phersipnai (Proserpina) sono rappresentati con caratteri paurosi, pelle di lupo sul capo l'uno, verdi serpentelli tra le chiome l'altra... tra eroi maestosi degli Inferi greci, vediamo un albero in cui si arrampicano le figurine scure delle anime... e spicca la figura mostruosa di Tuchulcha, assai simile al terrificante Charu della prima tomba...

giovedì 26 ottobre 2006

il Riformista 26.10.06
Caino. I dati del ministero smentiscono molti luoghi comuni
L'indulto è stato davvero il disastro che si dice in giro?
di Tommaso Labate


Dopo l'approvazione dell'indulto, c'è un clima da allarme rosso. Anche tra gli elettori del centrosinistra. Siamo sicuri che sia un allarme del tutto giustificato?
Prima che l'indulto venisse approvato, associazioni come “Detenuto ignoto” si vedevano recapitare lettere come quella che un giorno arrivò direttamente dal carcere di Pordenone. «Qui siamo in sei persone in cella, mentre dovremmo essere in tre. La cella è molto piccola, a noi manca veramente il respiro. Sulle finestre ci sono le “plastiche” che tolgono ogni visuale e non fanno entrare nemmeno un filo d'aria». Dopo l'approvazione dell'indulto, il detenuto sanremese Carlo B, anni 35, finito in prigione per detenzione e spaccio di droga e scarcerato grazie al provvedimento di clemenza, si è recato ai giardini pubblici e ha rapito il figlio di un anno e mezzo, affidato per alcune ore a una baby sitter amica della moglie.
Prima che l'indulto venisse approvato, dalla II sezione del carcere di S. il detenuto L. scriveva: «Siamo chiusi in cella 21 ore al giorno, senza neanche lo spazio fisico per stare in piedi, senza corsi professionali, né scuole superiori e inferiori dell'obbligo. Siamo ostacolati in qualsiasi iniziativa, e buttati volontariamente in istituti lontani dalle nostre famiglie. Ora vi chiedo: dov'è la volontà di recuperarci?, perché non prendono forma le belle idee, che alcuni dicono di voler attuare solo nei periodi pre-elettorali?» Dopo l'approvazione dell'indulto, a Napoli, Domenico D'Andrea detto Pippotto - insieme ai fratelli Pasquale, Antonio e D. Palma (quest'ultimo minorenne) - durante un tentativo di rapina ha accoltellato a morte Salvatore Buglione, edicolante. Pippotto e uno dei tre fratelli Palma giravano tranquillamente per Napoli dopo essere stati scarcerati grazie all'indulto.
Piero Fassino, anche per la sua esperienza da Guardasigilli, conosceva benissimo la drammatica situazione delle carceri italiane prima dell'indulto. Per questo, come deputato e segretario dei Ds, è stato tra i più strenui difensori del provvedimento di clemenza. La stragrande maggioranza degli elettori e dei militanti del suo partito, invece, hanno maturato le loro convinzioni (negative) sull'indulto con quello che è successo dopo. I «compagni» che hanno contestato il «compagno segretario» alla festa dell'Unità di Roma e gli elettori che - stando alle rilevazioni demoscopiche - non voterebbero più l'Ulivo «a causa» dell'indulto, hanno ragionato, riflettuto e si sono «fatti un'idea» pensando non al respiro che manca ai detenuti di Pordenone. Né alla drammatica situazione in cui versava la seconda sezione del carcere di S. L'opinione pubblica, anche quella diessina, contesta, fischia, boccia i protagonisti dell'accordo che dato il disco verde all'indulto per il sequestro di cui si è reso responsabile Carlo B. e la morte dell'edicolante napoletano per mano di Pippotto.
Al Botteghino avvertono un allarme che Fassino ha declinato in questo modo. «I cittadini non apprezzano quei provvedimenti che appaiono espressione di un vecchio modo di governare. Così è stato per l'indulto, percepito come un provvedimento di sola emergenza, rischioso per la sicurezza dei cittadini e capace di rimuovere le cause della stessa emergenza carceraria».
Vecchio o nuovo che sia, il modo di governare (e di scegliere) di chi siede in Parlamento ha prodotto risultati. Con ricadute, almeno stando ai dossier del ministero della Giustizia, anche virtuose. La proiezione nel lungo periodo del dato provvisorio relativo ai «rientrati in carcere dopo aver beneficiato dell'indulto» (fino ad oggi il 3,5%) è non solo rassicurante, ma addirittura molto al di sotto della percentuale fisiologica. Non solo: il numero di arresti nell'ultimo trimestre del 2006 (quello dell'indulto) è diminuito rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. «Nessuno pensa che sia merito dell'indulto. Ma certo non si può dire che il provvedimento di clemenza abbia peggiorato la situazione», commenta il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi.
Sulla strada di Piero Fassino - e con lui di tutti i rappresentanti del governo, della maggioranza e dell'opposizione che hanno raggiunto l'accordo sulla clemenza - c'è un dilemma: guardarsi indietro o guardare avanti? Indietro c'era la necessaria approvazione di un provvedimento urgente ormai da anni. Davanti ci sono altri interventi legislativi che faranno fare all'Italia un passo in avanti. Sul fronte dei diritti civili (e quindi sull'emergenza carceri) e anche su quello della sicurezza dei cittadini. Tanto per fare un esempio, gli sgravi fiscali per chi fa lavorare gli ex detenuti - previsti dalla legge 193 del 2001 (nota come “legge Smuraglia”) - al momento non hanno copertura finanziaria. È solo una delle tante questioni che andrebbero prese di petto. Perché l'indulto, senza provvedimenti di sostegno, non risolve il problema. Per non tornare in una situazione di emergenza potrebbe servire un passo in avanti. Non uno indietro.

il manifesto 26.10.06
Intervista
«O noi o le avventure di Confindustria»
Franco Giordano avverte Prodi: «Se continua a dare ascolto a Montezemolo il Prc non può più starci»
Il segretario di Rifondazione: la nostra presenza nel governo è servita a limitare i danni e ad ottenere qualcosa, la Finanziaria è meglio del Dpef. Ma adesso la «fase due» vogliamo dettarla noi
Il principale fattore di instabilità per il governo è il Partito democratico. Un'avventura centrista sarebbe deflagrante per i Ds e anche per la Margherita. Adesso chiediamo risorse certe per scuola, università, pubblico impiego e abolizione dei ticket

di Gabriele Polo


«Questa è una brutta botta». L'intervista a Franco Giordano è appena finita, quando arriva la notizia della bocciatura parlamentare del decreto che avrebbe dovuto bloccare gli sfratti. Il governo è andato sotto al senato e il segretario di Rifondazione comunista incassa il colpo proprio su un tema che sta a cuore al suo partito. Notizia negativa in sé, ma anche per il quadro politico in cui si inserisce. Il governo fibrilla sulla Finanziaria, all'orizzonte si riaffaccia prepotentemente, sulle ali dell'asse Confindustria-Corriere della Sera, il fantasma centrista. E Rifondazione rischia grosso, perché ha giocato tutto sul binomio Prodi-piazza: stare nel governo per dare una svolta istituzionale all'era liberista-berlusconiana e, contemporaneamente, stare nei «movimenti» per premere sul Palazzo. Ma nonostante le cattive notizie e una quadro politico preoccupante Giordano è convinto di non essere stato messo all'angolo. Anzi.
Rifondazione è sotto tiro: Confindustria chiede che il governo tagli i ponti a sinistra e nell'Unione sono in molti ad ascoltarla. Eppure, paradossalmente, siete stati più che comprensivi per la Finanziaria, che non è propriamente un proclama dei Soviet e che alle imprese «qualcosina» ha dato. Come spieghi questa situazione?
Perché dal passaggio dal Dpef alla Finanziaria un ruolo noi lo abbiamo svolto, contenendo i danni e ottenendo cose visibili. Anche se non tutto ciò che vorremmo. L'attacco di Confindustria punta ad aprire una linea di credito per gli appuntamenti successivi: la partita sulle pensioni che è nel loro interesse diretto per i fondi pensione, e quella sulla cosiddetta competitività dove chiedono la flessibilità degli orari, cioè più precarietà del lavoro.
Sull'annunciata nuova riforma delle pensioni che farete?
Saremo netti. Nel programma dell'Unione c'è scritto che non bisognerebbe più parlare di riforma delle pensioni. Di qui una promessa: se qualcuno pensa di chiedere un aumento generalizzato dell'età pensionabile diremo no. Come siamo contrari all'abbassamento dei coefficienti che servono a determinare i rendimenti delle pensioni. Al contrario, bisognerebbe partire dall'aumento dei minimi, visto che la metà delle pensioni Inps sono di 337 euro.
Se questo è il merito, è chiaro che su di esso c'è un gioco politico che tende a escludervi. Non è che mentre nel '98 ve ne siete andati voi dal governo, oggi vi cacceranno?
Mi sembra che una prospettiva centrista sia un po' avventurista, difficile pensare che sia realizzabile, sarebbe deflagrante, soprattutto per Ds e anche per la Margherita. Ciò che è assurdo è il fatto che per la prima volta nella storia la Confindustria presenti una proposta politica chiara, centrata sul punto di vista dell'impresa, chiedendone una traduzione istituzionale. Questo è uno scenario avventuristico e ancora immaturo, ma viene usato come frusta per condizionare le politiche sociali, mettendo da parte il programma dell'Unione. Per difenderci serve una ripresa della conflittualità sociale: l'appuntamento del 4 novembre contro la precarietà è decisivo nel merito ma anche per il quadro politico e per far valere al suo interno le richieste del movimento. In questo caso quello contro la precarietà.
Eppure i partiti sembrano più attenti ai loro riassetti, dal Partito democratico a ciò che accade anche a casa vostra, con la Sinistra europea. Non è che questo autismo sociale e la centralità politicista finiranno per far implodere un governo sostenuto da una coalizione così eterogenea?
Il principale fattore di instabilità per il governo è la costituzione del Partito democratico, perché la sua natura è oggetto di tensione permanente. Quell'ipotesi trascina con sé un modello americano di società che riduce la soggettività politica delle organizzazioni sociali - in primo luogo i sindacati - cosa che costituisce la peculiarità del caso italiano. Un'operazione di questo tipo - che schiaccia l'ipotesi del Pd sul governo - rompe lo schema che ha costruito l'Unione e il suo programma. E la prima a soffrirne sarebbe proprio la base sociale, culturale e politica dei Ds. Il discorso non vale per la Sinistra europea perché la sua costruzione non è schiacciata sulla pratica del governo. Anzi, ne è completamente autonoma.
Ma per riprendere il programma dell'Unione che sta alla base della vostra presenza nel governo, che intendete fare da subito? Qual è la vostra fase due, dalla Finanziaria in poi?
Mettere in discussione la logica del cuneo fiscale, che a noi non piace nel merito, premere per ottenere più fondi per la scuola e l'università, risorse certe per il contratto del pubblico impiego, abolire i ticket, stabilizzare il lavoro precario. Se invece si continua a dare ascolto alla Confindustria, noi non possiamo più starci. Semmai ridistribuiamo il reddito facendo sì che, attraverso nuove aliquote fiscali i lavoratori dipendenti sotto i 45mila euro ci guadagnino qualcosa.
E sull'Afghanistan, l'altro nodo del dopo Finanziaria?
Sul piano internazionale questo governo ha offerto alcuni segni di discontinuità con quello precedente, a partire dalla missione in Libano. Bisogna tirarne le fila puntando a dare uno stato ai palestinesi e trainando l'Europa su questo obiettivo. Per quanto riguarda l'Afghanistan, dove c'è una guerra, dobbiamo ritirare le truppe. So che le opinioni nel governo sono diverse e allora non voglio porre la questione in termini di principio, ma pragmaticamente: restiamo in Afghanistan con la cooperazione civile, sorretta da maggiori risorse economiche e ritiriamo le truppe che servono solo a partecipare a una guerra.
Torniamo alla politica interna. Sembri più preoccupato per le pressioni di Confindustria nel merito che per la loro traduzione in una nuova maggioranza, come se il neocentrismo fosse molto lontano. Sbaglio?
No, non sbagli. Mi preoccupa la pressione esterna perché temo che in assenza di un programma moderato, qualcuno - la Confindustria in economia e la Chiesa sui diritti civili - lo fornisca dall'esterno ai moderati della coalizione. Perché da sole le forze neocentriste oggi non ce la fanno e sono sempre alla ricerca di forme di legittimazione.
Veniamo a Rifondazione: stando al governo rischiate di pagare dei costi. Vedi segnali di scollamento nel partito e di consenso nell'elettorato?
A me sembra che la nostra presenza nel governo sia servita, insisto, a limitare i danni possibili, a partire da ciò che sarebbe stato il Dpef tradotto pari pari in Finanziaria. Ora per noi si tratta di dare un profilo e un'identità sociale a questo governo e i primi mesi del prossimo anno saranno decisivi. Questa è la nostra sfida, ma non ci faremo mettere nell'angolo né dalla sindrome del «governo amico», né da quella del «governo nemico». Per noi il governo è un mezzo, non un fine. Dopodiché stiamo tentando una rivoluzione culturale per dar vita a una nuova forma della politica, a partire dal radicamento nel territorio e dalle pratiche concrete della sinistra di alternativa. E' l'opposto, anche nel metodo, di come si sta costruendo il Partito democratico.
Ma dentro questa costruzione, cosa significa partito comunista, pur rifondato?
La centralità della conquista del potere è stata superata, l'accento va sulle trasformazioni sociali, l'anticapitalismo ne deve essere l'asse. Il grande valore dell'uguaglianza va integrato con il tema della differenza e non va mai disgiunto dal valore della libertà, dalla liberazione dagli asservimenti. Ci diciamo comunisti a partire dalla critica dell'esperienza del socialismo reale e nella verifica della trasformazione anticapitalista.
Più facile farlo dall'opposizione che dal governo...
Cerchiamo di fuoriuscire dall'ossessione del governo, che ci si stia dentro o fuori.

l'Unità 26.10.06
Umano, poco umano
è la natura a vincere
di Giovanni Jervis


SCIENZE UMANE Non ci sono più l’antropologia e la psicologia di una volta: oggi sono la biologia, la zoologia e persino l’economia ci spiegano il comportamento dell’uomo. Lo psichiatra Giovanni Jervis lancia l’allarme ai colleghi

Se prendiamo in considerazione, in via del tutto generale, il panorama internazionale delle scienze umane, ci rendiamo conto di un profondo cambiamento sopravvenuto negli ultimi decenni.
Si può ben dire che sia cambiata l’antropologia di base: l’immagine della natura umana si è modificata perché ha dovuto fare i conti con un nuovo naturalismo. Sul terreno scientifico, gli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo hanno visto il progressivo consolidarsi delle prospettive neo-darwiniane; su un terreno più genericamente culturale, la media cultura ha registrato il sentimento pervasivo di una maggiore vicinanza, di un maggiore coinvolgimento reciproco, fra il destino storico dell’uomo e le vicende della natura. Sul terreno filosofico, infine, la crisi dell’idealismo si è accentuata col vanificarsi dell’antropocentrismo metodologico.
Una profonda ristrutturazione di temi e di categorie ha caratterizzato le discipline psicologiche, cioè la psicologia scientifica e applicativa, la psicoanalisi, la psichiatria. Le tematiche psicoanalitiche sono scomparse dal dibattito scientifico internazionale, pur persistendo all’interno di alcune zone culturali nazionali; la psichiatria è stata riassorbita nelle scienze mediche; infine, sono stati soprattutto i fondamenti di ricerca e di metodo della psicologia a perdere una fisionomia classicamente riconoscibile. Da un lato la psicologia, vista nel suo insieme, sembra scomparire, riassorbita in varie zone all’interno di due grandi raggruppamenti disciplinari, cioè le scienze cognitive e le scienze del comportamento. Da un altro lato, non ha precedenti lo straordinario incremento di conoscenze proprio sui temi classici della psicologia: la costruzione del comportamento (animale e umano), lo strutturarsi primario di conoscenze e ricordi, le vicende della soggettività. Tutte le carte sono state rimescolate, e lo prova il fatto che alcune fra le più importanti acquisizioni degli ultimi decenni non sono merito di psicologi ma di zoologi, biologi e genetisti, studiosi del cervello, linguisti, sociologi, economisti.
Fino agli anni ’80 i problemi più complessi e difficili della psicologia non erano ancora stati affrontati a fondo e meno che mai chiariti da parte della ricerca sistematica: per esempio e tipicamente, la struttura della coscienza, le emozioni e gli stati disposizionali (come le aspettative e le credenze), i meccanismi di inganno e di autoinganno, gli errori della memoria, la nascita e lo strutturarsi dei sentimenti di obbligazione e degli obblighi morali, la natura dell’ altruismo. A lungo era stato dato per scontato che temi del genere non potessero essere investigati in modo soddisfacente dalle scienze sperimentali: era stato quindi lasciato un ampio spazio a ricerche empiriche non sistematiche, come quelle degli psicoanalisti, nonchè a rielaborazioni più astrattamente intellettuali, come quelle classiche del lavoro «di biblioteca e di poltrona» dei filosofi.
Da alcuni anni, però, tutto è cambiato: la ricerca scientifica si è impadronita di campi che in precedenza sembrava che non fossero di sua competenza e ha prodotto non solo risultati ma anche, e soprattutto, nuove prospettive.
Esiste certamente in questa rivoluzione epistemologica il rischio di un nuovo più sofisticato riduzionismo: con questo si rafforzano i dubbi e le inquietudini di coloro che temono il trionfo di una razionalità tutta strumentale, orientata verso un futuro dominato dai tecnocrati. Il concreto timore che il trionfo della specie umana su questa terra conduca verso la distruzione delle risorse ambientali e verso rischi crescenti di immani stragi di guerra si lega alla sensazione che la nuova antropologia scientifica, perdendo ogni contatto con i valori che hanno caratterizzato la cultura umanistica, prepari scenari di universale cinismo. È probabile che esista questo pericolo, ed è bene che se ne discuta: occorre però che questa discussione avvenga fra persone che posseggono un minimo di informata consapevolezza circa le caratteristiche delle nuove ricerche.
Che ci piaccia o no le scienze umane, e dunque in primo luogo la psicologia, la sociologia e in qualche misura anche la scienza economica, non sono più quelle di vent’anni or sono. Il mutamento principale rispetto all’impostazione tradizionale consiste probabilmente in questo: è giunto oggi al suo più radicale compimento il processo di decentramento della soggettività che aveva avuto le sue tappe storiche in Copernico e Galileo, in Darwin, in Freud. Un presupposto metodologico che era stato dato per autoevidente, quello dell’ assoluta diversità della natura umana rispetto a quella animale, e che in quanto postulato indiscusso aveva costituito uno dei pilastri della filosofia occidentale da Aristotele a Heidegger, è andato definitivamente in frantumi.
A questo proposito credo occorra convenire sull’ ipotesi che la cultura italiana, presa nel suo insieme, accusi un ritardo rispetto al dibattito internazionale. Nel nostro Paese scontiamo l’assenza di una diffusa cultura scientifica, la marginalizzazione delle nostre università nel panorama mondiale, una tradizione filosofica poco attenta ai problemi epistemologici e ancora oggi pesantemente segnata dall’idealismo, una saggistica non priva di compiacimenti retorici, un dibattito etico dominato dallo spiritualismo cattolico.
Persiste il disinteresse di molte persone intelligenti e istruite per le conoscenze scientifiche. Ci si potrebbe chiedere se si tratti solo di una competizione fra grandi tradizioni di pensiero (umanisti contro scienziati) ma non pare che sia esattamente così: il problema consiste, almeno in parte, in una questione pura e semplice di aggiornamento. I grandi classici del Novecento hanno sempre qualcosa da insegnarci ma sono rapidamente divenuti più remoti: ormai né Freud né Jung o i loro allievi, né Husserl né Piaget, nè i primi etologi, come Lorenz, e neppure i pionieri della sociobiologia, come il Wilson degli anni ’70, ci forniscono tutte le idee di cui abbiamo bisogno, gli stimoli critici più attenti e utili a capire noi stessi e il procedere attuale delle scienze umane. Negli ultimi decenni nuove generazioni di ricercatori hanno imposto i loro temi e la loro intelligenza.
Il problema ha, peraltro, un aspetto più generale. Riguarda infatti il rapporto fra le culture specialistiche (soprattutto in ambito scientifico) e i discorsi comuni, a carattere non specialistico e a sfondo intuitivo o «di buon senso». La psicologia scientifica giunge talora a risultati anti-intuitivi e perfino apparentemente paradossali. Molti umanisti non realizzano che la psicologia intuitiva è come l’astronomia intuitiva: così come siamo inclini a credere che il sole giri intorno alla terra e che la terra stia al centro dell’ universo, anche l’autocoscienza umana viene presa intuitivamente come un dato primario, e ormai non è più sufficiente a correggere questa ingenuità il ricorso all’inconscio di Freud. Esistono ancora, da noi, umanisti più affezionati alle idee del Seicento (quelle di Descartes beninteso, non quelle di La Fontaine) di quanto siano interessati ad aggiornarsi, così come esistono persone dalle molte letture che credono ancora che la differenza fra l’uomo e gli animali stia nel fatto che il primo ha l’esclusività assoluta della coscienza, della morale e delle previsioni razionali.
Per discutere in modo tale da poter imparare gli uni dagli altri occorre liberarsi di alcuni pregiudizi.
Anziché svalutare la società e l’ambiente storico a favore del tradizionale determinismo biologistico, i nuovi indirizzi scientifici dimostrano che il comportamento umano e le vicende della soggettività emergono come un mondo complesso, non linearmente deterministico ma legato a fattori fluidamente probabilistici, dove le stesse predisposizioni genetiche, anziché essere segnali di meccanica fatalità, manifestano i loro effetti sulla vita concreta in via strettamente subordinata a variabili ambientali.
Anche fra chi è immerso ogni giorno nelle indagini di laboratorio non vi è chi dubiti che, in quanto esseri umani, noi tutti siamo impregnati di cultura e plasmati dalla storia dei secoli. E peraltro, ogni giorno la ricerca ci mette di fronte a scoperte straordinarie sui meccanismi della vita e nuovi dati confermano la verità di quel che pensava Darwin, e cioè che anche noi siamo fondamentalmente una specie animale. Questo non significa però che le nostre disposizioni di base siano egoisticamente ferine: come hanno dimostrato una serie di ricerche affascinanti, noi siamo naturalmente predisposti alla cooperazione, e in taluni casi anche all’altruismo; e se è vero che siamo una specie sociale, l’evoluzione della socialità umana ha dato luogo a fenomeni nuovi nella storia del mondo e nel panorama della natura.
Si tratta però a questo punto di capire meglio i rapporti che intercorrono fra socialità e naturalità, ed è ovvio che molto rimanga ancora da indagare e da chiarire.
Nei prossimi anni le scienze umane dovranno tenere conto della sfida che proviene dal nuovo naturalismo, e intervenire con rinnovata vigilanza sui più evidenti punti di pericolo: scientismo acritico, tendenza alla manipolazione incontrollata della natura umana, perdita di contatto con la grande tradizione umanistica. Ma la prima condizione è che si conoscano gli aspetti principali delle attuali acquisizioni sul terreno della ricerca sperimentale.

l'Unità 26.10.06
Giovani, non perdetevi in un bicchiere
di Giovanni Bollea


L’adolescenza dagli 11 ai 18 anni è l’età più problematica di tutta l’età evolutiva e attualmente la più disturbata. È il momento del distacco dal nucleo familiare, dei nuovi amici, della maggiore difficoltà scolastica. Delicato il primo distacco dalla famiglia, le prime amicizie, i nuovi compagni, gli amici del cuore, le prime esperienze amorose, le prime delusioni: è il periodo classico dei vari tipi di depressione.
A 18/19 anni c’è la paura del distacco, per l’entrata nella vita adulta. L’adolescente deve essere perciò aiutato, guidato, indirizzato.
Anche se abitualmente si dedica a interessi positivi come lo sport e la musica, bisogna capire e indagare se rincorre anche la droga sia come divertimento e curiosità iniziali, sia come «medicina» alle sue frustrazioni. Ma in Italia l'adolescente, dopo i 15/16 anni usa già l'alcool nelle sue varie forme.
Invano abbiamo gridato per anni che l'alcool è un distruttore delle cellule cerebrali: ricordando che nell'individuo normale ogni giorno vengono distrutte 50.000 cellule mentre nell'alcolista ne vengono distrutte più di 100.000. Ma purtroppo l'alcool è comunque entrato nelle abitudini dell'adolescente, che ne prova un finto e rapido sollievo, ne blocca la depressione e i pensieri negativi, dando gioia, allegria, speranza, coraggio e voglia di comunicare. Così l'alcolismo adolescenziale è fortemente aumentato negli ultimi 3-4 anni ed è salito alla ribalta in forma imponente sia come sostituto delle droghe o anche in seconda battuta dopo averle usate o contemporaneamente ad esse; e questo per tre ragioni principali: è a portata di mano, costa meno e ahimé non è illegale.
Non giunge all'etéreo della marijuana o al flash euforico dell'eroina ma dà ugualmente un senso di disinibizione sessuale, di liberazione dall'ansia e dalla depressione.
La lieve dissoluzione dell'io che ne procede aiuta a dimenticare le «cose brutte» e a prendere coraggio.
Oggi l'alcolismo adolescenziale è già un fenomeno grave. Secondo statistiche francesi il 20% degli adolescenti fa uso di alcolici in quantità nettamente superiore alla media. In passato si trattava di ubriachezza isolata, parossistica, prevalentemente individuale o a coppie; era un fenomeno della tarda adolescenza e della prima gioventù. Ora il fenomeno è più esteso, in alcuni paesi ha guadagnato generazioni più giovani, da individuale diventa di gruppo continuando nel tempo e quindi ci troviamo di colpo di fronte a gravi forme di lenta intossicazione data l'estrema vulnerabilità all'alcool delle cellule sia nervose che epatiche.
I ragazzi bevono in gruppo, il quale si forma spontaneamente: composto da adolescenti ora comprende anche molte presenze femminili. L'ambiente di provenienza è prevalentemente la media borghesia, mentre alcuni studi segnalano l'importanza del gruppo nel determinismo di questi fenomeni e le motivazioni che ne sottendono l'attività non hanno quelle forti implicazioni socioculturali o di rivolta che caratterizzavano un tempo il gruppo dei drogati i quali sono quasi sempre fortemente disturbati sul piano della personalità con un'intelligenza medio-normale nel quadro di forti disarmonie evolutive e immaturità dell'io la loro caratteristica è una mancanza di impegno nelle relazioni sociali, familiari e scolastiche e sembra contenere un'identità e una operatività dell'io che si esplicano, sotto l'effetto dell'alcool, in varie forme stimolando le competizioni del bere perché l'alcool stimola calore affettivo, spirito di corpo ed eventuale antisocialità.
Si ha così un mutuo rafforzamento tra gli effetti dell'ubriachezza e le intenzioni della banda; si aggiunga che in molti di questi giovani la sessualità affiora solo in un primo momento sotto l'effetto dell'alcool e ciò è un incentivo a continuare sino a raggiungere un'inevitabile dipendenza alcolica.
Tale dipendenza non è stata fin ora adeguatamente studiata come vorrei. Perché l'alcool come apparente sostituto della classica droga è una pericolosissima rincorsa verso quei 40.000 morti all'anno che le statistiche stanno ampiamente già superando.
E ricordiamoci che inizialmente sembra privo di grandi conseguenze ma rappresenta invece un pericolo che vede crescere esponenzialmente la sua nocività nel momento in cui sta diventando una moda patologica, soprattutto perché in molte subculture è ipoteticamente utilizzato come un antidroga.
Cosa aspettiamo a studiare una legge che possa anche solo per il 50% diminuirne le conseguenze letali? Proibirne la vendita ai ragazzi fino ai 21 anni eviterebbe un'enorme quantità di reazioni delinquenziali.

Liberazione 26.10.06
La repressione sovietica in Ungheria e il dibattito nostrano
1956-2006, quelli che cinquant’anni non bastano
di Anubi D’Avossa Lussurgiu


Anno 1956. Anno 2006. Una distanza di mezzo secolo, o dieci lustri, o cinquant’anni. Un lasso temporale tra i più densi di differenze, nel senso di mutamenti intervenuti tra la scena di allora e quella di oggi. E’ pensabile che sia una distanza discretamente storica, cioè sufficiente ad un certo distacco critico. Persino ad una qualche condivisione di verità retrospettiva.

Non che sia finita l’era delle guerre, anzi. Non che siano estinte le forme di oppressione e dominio, anzi. Non che, di converso, nel mondo si sia più uguali. E nemmeno tanto più liberi, globalmente. Anzi. Ma c’è che sono accadute alcune altre cose, in questo frattempo. Ossia da quel 1956 segnato, fra un’Olimpiade e una guerra-lampo anglofrancese a Suez contro l’Egitto di Nasser, a febbraio dal “rapporto Kruscev” sullo stalinismo e a novembre dall’invasione sovietica dell’Ungheria in rivolta.

Adesso nel 2006 non c’è più, ad esempio, quel che si chiamava «il campo socialista» oppure «il blocco del socialismo reale». E pare non sia finito sotto i colpi di aggressioni in armi. Né che sia morto di raffreddore.

Dopo è successo qualcosa di più, addirittura. Si dice infatti sia entrata in crisi la politica. E le promesse di sicurezza e appagamento che tra i venti e i quindici anni fa erano pronunciate dalla voce sovrastante tutte le altre, quella del mercato e della sua globalizzazione, sono diventate altro. Spesso il contrario. Mentre la politica, appunto, di quella voce s’è fatta semplice tono: o ancor meno, un’eco.

Per non dire di altri fatti intervenuti intanto. Come l’insorgere sul campo delle relazioni e dei rapporti sociali, dunque del conflitto e del potere, dunque della politica, di un’interferenza tutt’affatto nuova e dirompente. Quella della consapevolezza delle donne. Quindi dei generi. Dando un altro senso alla libertà, togliendo di mezzo la mediazione degli aggettivi, sostantivandola: e così portando ad un salto di qualità un problema già aperto, quello del rapporto tra libertà e uguaglianza.

E ancora, in questo frattempo non solo il partito-stato del comunismo sovietico e i suoi satelliti, ma l’intero movimento operaio con le sue interne barricate ha conosciuto la contestazione. E un’erosione di senso. Fino ai salti mortali di chi tra sé e il comunista che era, invece di rendiconti storici e personali, ha messo un “post”. E fino al riformismo finito all’incanto dei listini di Borsa, stressato fra terze vie anglosassoni, nuovi centri renani e boreali tramonti scandinavi. Si dice, pensate, che la stessa forma-partito abbia mostrato le corde, in questo frattempo.

Uno pensa, dunque: tanto, ma ancor meno, può bastare a rendere piuttosto scontato il senso delle commemorazioni, delle celebrazioni, dei ritorni di dibattito storico. Di quel 1956, dopo questi cinquant’anni. Uno può azzardare pure un certo impulso al disinteresse. Considerato che del presente mondiale si occupano intanto due soli “pensieri forti” apparentemente dominanti: quello di chi con George W. Bush ha riscoperto la ferrigna categoria di «Nazione-guida» per gestire il disordine globale; e quello di chi i rapporti di potere vuole sovvertirli, sì, ma in nome del “Regno dei Credenti”. Considerato che il 1956 a prima vista può servire ben poco ad affrontare problemi come stato d’eccezione contro terrorismo, polizia globale contro assedio delle migrazioni, scontro di civiltà contro fondamentalismo. Considerato che sembrerebbe altrettanto per proprietà intellettuale, beni comuni, crescita o decrescita. E anche per i più prosaici problemi delle pensioni, della leva fiscale, dei parametri di Maastricht, della precarietà e del reddito non garantito. O degli sfratti. Considerato pure che oggi di nuovo la Cina è vicina, con il Partito comunista tuttora al potere: ma si tratta del maggior serbatoio di mercato e sviluppo industriale del pianeta, tra qualche milione di morti - soprattutto di fame - intercorsi con “Grandi Balzi in Avanti” e “Rivoluzioni Culturali” e gli altri dei quali oggi non è dato sapere.

Ma, armati di queste pessime intenzioni a distarsi dai cigolii degli armadi della Storia e lasciarli alla passione delle pagine culturali del Corsera di Mieli, si finisce infallibilmente per essere smentiti. In Italia, nella “sinistra italiana”, s’intende. Così uno si sveglia la mattina e legge - con dovizia di notizie, ovviamente, sul Corriere - che un discorso ufficiale anzi che no del presidente della Camera dei deputati Fausto Bertinotti alla seduta solenne dell’Aula per il cinquantenario della rivolta ungherese di quel 1956, è stato contraddetto. Non tanto dal rimprovero di Stefania Craxi di non aver proclamato che Pietro Nenni e (soprattutto) il padre Bettino erano quelli che avevano ragione. Non tanto dal deputato forzista irrefrenabilmente prorotto nel grido «Nagy l’avete ucciso voi!». Ma da altri comunisti, quelli “italiani”, quelli del Pdci: che per bocca del capogruppo Pino Sgobio hanno seccamente opposto alla riflessione bertinottiana sugli «insorti d’Ungheria protagonisti di una rivoluzione democratica repressa dall’Urss con l’inganno», sui «vinti di ieri vincitori di oggi» e sul «potere mai difendibile con le armi contro il volere popolare», che no: anzi, che invece «il giudizio definitivo sui fatti d’Ungheria sarà la storia a darlo». Addirittura. E allora uno, che aveva pensato questi cinquant’anni fossero storia, eccome, si dice: evidentemente c’è un problema.

E proprio per questo uno è portato anche a non liquidare con una semplice risata un’altra notizia che gli salta all’occhio, sulla stessa pagina del giornale di Mieli, ça va sans dire: che lo spiritoso organo del Pdci la Rinascita ha dedicato un titolo a tutta pagina ad altri cinquant’anni, quelli compiuti dal segretario Oliviero Diliberto (auguri, per inciso). E il titolo era questo: «Auguri Diliberia». Dove il Beria sta per Lavrentij: il ministro degli Interni e capo della polizia segreta dell’Urss di Stalin, per intenderci. L’organizzatore ed esecutore di migliaia di processi collettivi, purghe, deportazioni, internamenti, liquidazioni fisiche. Con un’altissima responsabilità in quell’ecatombe. Uno per cui, oltrettutto anche nel profilo personale, difficilmente si può trovare una definizione più efficace di quella adottata da Massimo Bordin, che commentava ieri a Radio Radicale: «un autentico criminale». Liquidato subito dai suoi compagni del vertice del Pcus all’indomani della morte di Stalin, nel 1953, tre anni prima che Kruscev presentasse al congresso del partito il suo rapporto “segreto” sul culto della personalità e i crimini dello stesso Stalin, per poi lanciare a sua volta mesi dopo i carri armati su Budapest. La direttora de la Rinascita, Manuela Palermi, trova che sia un’evidente prova d’ironia l’uso di quell’appellativo, richiamantesi a un simile personaggio. Il punto è che invoca quest’ironia rivendicando una prova d’affetto. Non che il riflesso condizionato della piaggeria al leader sia perfettamente sconosciuto al resto della sinistra nostrana, e nemmeno a Viale del Policlinico. Ma uno si dice: vorrei vedere se su Liberazione fosse mai uscito «auguri Fausto Stalinotti», affettuosamente...

Per capire come ciò sia possibile, però, non serve il sarcasmo. E nemmeno concentrarsi sul singolo fenomeno del partito di Diliberto. Soprattutto per non finire a ignorare del tutto il significato retrostante ad episodi che sono quel che sono. Il significato è che i conti con la storia, c’è poco da dire, bisogna farli tuttora. Almeno in politica, nella sinistra, in quest’ambito così provato.

Tant’è che ben altro luogo e ben altre storie, come le pagine de il manifesto e le vite di chi l’ha fondato e lo anima, si sono ben diversamente occupati del 1956, di quella rivolta e di quella repressione in Ungheria. Anche qui con un dibattito, che aiuta a svincolarsi dalla dimensione delle battute. Perché anche qui, nello “speciale” di domenica scorsa, ci sono state a stridere due voci, anzi due penne. Quella di Rossana Rossanda, tornata a proporre «un “Se” che è utile porsi» e cioè cosa sarebbe successo del campo comunista e della sinistra se Togliatti avesse condannato l’invasione sovietica di quell’anno e poi anche se Enrico Berlinguer avesse “strappato” con l’Urss ben prima del 1980, all’indomani dell’altra invasione, quella del 1968 nella Cecoslovacchia del “socialismo dal volto umano” di Dubcek. E la penna di Valentino Parlato, proteso a polemizzare che è «troppo comodo pentirsi, 50 anni dopo»; ma anche ad argomentare, com’è tornato a fare ieri pungolato da Rossanda in una prosecuzione del dibattito, che sia stata «realistica» cinquant’anni fa «la scelta del Pci e di Togliatti di non condannare e di non rompere con l’Unione Sovietica perché sarebbe stata disastrosa per il Pci, per l’Italia e per quello che, allora, chiamavamo il mondo socialista». Insomma che quella avanzata di Rossanda «era un’ipotesi dell’impossibilità».

E’ uno spunto, questo, per poter dire che il problema è (per fortuna) di ben altro spessore rispetto a quello suggerito dalle “sortite” del Pdci: ma c’è, il problema. E riguarda proprio la concezione della «possibilità» della politica, delle sue scelte, di fronte alle sue responsabilità. E anche la qualificazione delle responsabilità stesse, il loro orizzonte: di fronte, ad esempio, all’evidenza di una contraddizione e di un disastro storico, come quello che il 1956 squadernò. Riguarda il perché quei «se» di Rossanda non ci furono, punto non risolvibile certo con i disegni politici dell’Amendola ricordato da D’Alema a Ingrao. Riguarda, insomma e al fondo, la concezione della politica, proprio quella intesa in senso “rivoluzionario”, che si dia il compito della trasformazione generale e si nutra di quest’aspirazione.

Tanto per stare al merito di quel 1956, sarebbe allora utile dibattere degli ulteriori spunti, storici e fattuali stavolta, offerti da un libro che quell’anno lo ricostruisce: il nuovo volume di Gyorgy Dalos, che lo visse da ragazzino ma ebbe poi modo di soffrire la dissidenza e l’emigrazione, “Ungheria, 1956”, edito da Donzelli. Dove si mostra tutto il tragico spessore dell’eversione dei fini del “socialismo” che quella rivolta, costata 3mila morti e centinaia di migliaia di esuli nella repressione, precedette e fondò, fin dal processo e dall’esecuzione di Lazslo Rajk nel 1949 in frettolosa imitazione della purga a sfondo «anti-sionista» (di mira i dirigenti d’origine ebraica) scatenata nell’ultimo tratto dell’era di Stalin. Fin dall’insostenibile vita quotidiana sotto l’imperio del partito-Stato. Pagine che suggeriscono un binomio, per volgersi a rileggere quel problema di concezione della politica. Tra un insorto quale Itsvan Angyal, 27 anni, reduce bambino di Auschwitz, operaio capocantiere e intellettuale, comunista fino all’ultimo, fino al patibolo riservatogli dal partito malgrado avesse salvato decine di agenti della polizia politica dal linciaggio, e che il 7 novembre innalzò la bandiera rossa accanto al tricolore della democrazia ungherese mentre resisteva ai thank dell’Urss. E quei dirigenti che cofirmarono anche la sua condanna scrivendo a Mosca, come Togliatti, che il governo Nagy rivelava «una deriva controrivoluzionaria». Magari nemmeno Angyal, oggi, ha vinto: ma si può ben dire una volta per tutte chi e cosa partecipò, e come, a produrre una sconfitta rovinosa. Per l’umanità.

Liberazione 26.10.06
L’altro ieri al Residence Ripetta a Roma, D’Alema, Bertinotti e Castellina alla presentazione del nuovo libro di Ingrao “Volevo la luna”. La polemica con Napolitano sulla Resistenza
Una sera a raccontare gli anni del Pci con Pietro, Fausto, Massimo e Luciana
di Stefano Bocconetti


La storia di un “tarlo”. Scritta in prima persona da quello strano tarlo che si fa anche un po’ cronista. La storia di un secolo, allora, quello breve. Qui reso ancora più breve: dal 1915 al 1978. Sessantatrè anni. La guerra, la Resistenza, il primo dopo guerra, la “guerra fredda”, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, la guerra infinita. Tutto scritto da quell’insetto piccolo, piccolissimo che scava e arriva in profondità. O forse no, le cose sono più complesse: perché il “tarlo”, a ben vedere, non è il vero protagonista. Chi scrive, chi fa, chi detta i tempi della storia è una persona. Un dirigente comunista. Che con quel “tarlo” si misurerà tutta la vita. Spesso assecondandolo, qualche volta bloccandolo. Ma rimpiangendo di non averlo lasciato libero. E soprattutto quell’uomo ancora continua a farlo, ancora continua a misurarsi con quell’animaletto che scava.

Come definire, allora quel tarlo? Ida Dominjanni, che l’altra sera al Residence Ripetta ha introdotto il dibattito sul libro di Pietro Ingrao, “Volevo la luna” - perché è lui il dirigente comunista di cui si parla - ha usato una formula efficace: quell’insetto è il contrasto fra lui, Ingrao, che sognava un futuro da regista e che invece scelse la via dell’impegno militante mosso dall’ansia di libertà e “la gabbia d’acciaio della politica novecentesca”. Il tarlo che ha scavato dentro chi, a metà del secolo scorso come pochi anni fa, ha saputo cogliere la “molteplicità” delle forme in cui si esprime il bisogno di liberazione. E invece la riduzione ad uno, ad un unicum della politica. Della Politica, quella che per troppo tempo è stata incaricata di scrivere la storia.

Con quel “tarlo”, con quelle obiezioni di fondo al modo stesso di concepire le lotte, Ingrao ha dovuto sempre fare i conti. Lo dice, lo racconta, in questo suo ultimo lavoro. Trecentosettanta pagine così lontane dai suoi ultimi libri. Dai suoi ultimi saggi. Massimo D’Alema - c’era anche lui alla presentazione - dirà che è «un’autobiografia del vissuto». Non un libro politico. Non un libro politico tout court. O almeno non nel senso abituale. Perché “Volevo la luna” ha un incedere narrativo lento, accorto ai dettagli, «quasi minimalista», dirà ancora Ida Dominjanni. Come può farlo chi ha sempre teorizzato la lentezza, il diritto alla lentezza, contrapposta ai ritmi imposti dalla società capitalista. Un racconto personale, allora, che parte dai suoi avi, da suo nonno. Garibaldino. Un racconto di Lenola, quel piccolo centro dei Monti Lepini dove si affaccia alla vita. Un racconto della sua vicenda personale che s’intreccia, che accompagna la vicenda sociale di un secolo. Sempre seguito dallo stesso “tarlo”. Che si muove e scava anche quando Ingrao è alle prese con le cose minute, con la vita di tutti i giorni. Anche nel rapporto con sua moglie Laura - la compagna di una vita - con i suoi figli. Tarlo che sta sempre lì, a domandargli, a fargli domandare se quel che fa sia giusto, se anche le emozioni, l’amore debbano entrare dentro la coerenza di una vita.

Storia personale e sociale, insomma, di un «comunista della libertà», stavolta la definizione è di Fausto Bertinotti, presidente della Camera, anche lui l’altro giorno al residence Ripetta. Un “comunista della libertà” che è riuscito a non farsi omologare - allora da un’ortodossia totalizzante, oggi da un revisionismo interessato - grazie ad un metodo. Semplice eppure straordinario: «In lui ha, e ha sempre avuto, un ruolo essenziale il dubbio. Dubbio che non depotenzia l’agire umano ma ti immunizza dal fondamentalismo».

Dubbi, il metodo del dubbio, che ancora si porta appresso. Che lo fanno ancora riflettere, criticamente, sul perché non abbia portato a fondo il suo contrasto con Togliatti, nel ’56, nei giorni successivi all’invasione dell’Ungheria. Che lo fanno riflettere, criticamente e amaramente, sul perché, nel ’68, abbia votato, nel comitato centrale del Pci, per l’espulsione del gruppo del Manifesto. Del perché quel “tarlo” per tanto tempo si sia infranto davanti ad una parola: disciplina. Che comunque per lui - è raccontato nel libro; raccontato comunque non scritto, come fosse la narrazione di un particolare fra tanti - comunque per lui, si diceva, disciplina non voleva dire solo regole, rispetto delle regole. Era qualcosa di più. Era il senso di appartenenza, era la scelta di un vincolo. Stretto volontariamente, rinnovato sempre, ma che già di per sé, già nell’atto stesso del contrarlo, definiva una risposta alle barbarie del secolo scorso.

Il voto a favore dell’espulsione del Manifesto, allora, di quel gruppo di “ingraiani”. L’espulsione di quel gruppo di militanti che rivendicava quella definizione. Definizione che comunque a lui, al protagonista, non piace del tutto. Tanto che in alcune pagine si mostra ancora titubante, addirittura dubbioso, come se qualcuno potesse anche oggi accusarlo d’aver organizzato una frazione. Voto per l’espulsione che in ogni modo neanche i protagonisti di quella stagione gli rimproverano. Luciana Castellina - «Vedi Pietro, magari fossimo stati una frazione. E non lo siamo stati proprio perché te ti ritraevi sempre» - alla presentazione del libro dice che nessuno del Manifesto si aspettava che Ingrao uscisse dal Pci e li seguisse. No, non è al ’68 che bisogna guardare, se di rimproveri si vuole parlare. Piuttosto, e lo dice esplicitamente, occorre guardare al ’91, al ’92. Quando il Pci sceglie di sciogliersi. «E’ lì che non ci sei stato». E’ lì che forse Ingrao è mancato, quando tutti - tanti - si aspettavano di cominciare, di ricominciare. Una ricerca, una difficile ricerca, guidati da quel “tarlo”. Da quei dubbi. Ma invece la storia prese un’altra strada.

Già, la storia. Anche questa con la maiuscola. Quella che ha segnato il secolo drammatico che abbiamo alle spalle. Sarebbe potuta essere diversa? Sarebbe potuta andare in un altro modo? Una delle parti più dettagliate del libro (se ha senso dire così, in un volume dove l’incedere è assai diverso dai modelli tradizionali, dove si torna indietro o si va avanti nella cronologia, seguendo un altro ordine, quello personale) riguarda il ’56, i carri armati sovietici a Budapest. Che Ingrao difese su l’Unità. Umiliando, annullando, all’epoca, il suo tarlo. Ma si dilunga soprattutto sugli anni successivi. Il libro ricorda come Ingrao, direttore de l’Unità, provò a sollecitare qualche riflessione nel gruppo dirigente del partito. Trovando un muro, un muro sempre più spesso in Togliatti. Un Togliatti ondivago - e perché non dirlo? qui antipatico come mai è stato raccontato - ma che alla fine sceglie sempre da che parte stare. Con la polizia polacca, coi regimi. E dopo, un po’ dopo viene l’XI° congresso, dieci anni dopo l’Ungheria. Quello in cui il dissenso di Ingrao - accolto con un boato dalla platea, «per me minuti indimenticabili», ma con malcelato fastidio da chi sedeva alla Presidenza, «che restò con le mani visibilmente ferme sui tavoli» - si rese evidente. Con quella lunga perifrasi, ormai celebre: «Non sarei sincero con me stesso se dicessi d’essere stato persuaso…». Il tutto per chiedere che fosse reso pubblico almeno il dibattito, lo scontro di posizioni che portava all’elaborazione di una linea. Fermo restando l’accettazione del principio del “centralismo democratico”, quello per cui anche se non si è d’accordo, una volta decisa una linea, la si difende in ogni caso. Ingrao chiese solo questo e fu punito.

Ma quell’XI° congresso segna qualcosa forse di più importante nelle vicende della sinistra. D’Alema, parlando di quegli anni, trova il modo di dire che forse all’epoca Ingrao non capì l’opportunità che una posizione come quella di Amendola offriva al Pci: la possibilità cioè di un’uscita da sinistra dallo stalinismo. Ma forse questa denuncia sull’ingenerosità verso Amendola, verso la destra del Pci, è servita a D’Alema a formulare un’altra obiezione: che riguarda gli anni dello scioglimento del Pci. Anni che il libro non affronta. Anni in cui - dice il ministro degli esteri - «sei stato ingeneroso anche verso di noi, dirigenti di una generazione dopo la tua, che pure cercavamo dopo il crollo del muro di dare ancora un senso nazionale alla sinistra in questo paese». Obiezione che resterà senza replica, come se quei trecento stipati, seduti o in piedi, al Residence Ripetta non ne avessero bisogno.

Ma resta il tema: l’uscita da sinistra dallo stalinismo. L’uscita da sinistra dalla cultura del partito omnicomprensivo, dalla cultura della disciplina. E’ su questo che Bertinotti insiste molto. E dice che l’XI° congresso, la sconfitta di Ingrao, chiude definitivamente la possibilità di un’uscita da sinistra dallo stalinismo, per quanto riguarda il Pci. Che non ha significato, però, rinunciare all’obiettivo: perché da allora, la ricerca, la ricerca di una via d’uscita dalle tragedie del secolo scorso, investirà altri soggetti. Soggetti sociali, non più solo il partito. Uno fra tutti: i metalmeccanici.

Ed è ancora su questo che Ingrao scrittore si sofferma a lungo. Il ’68 operaio, i delegati, il sindacato dei consigli. Mancano le foto nel libro ma nei suoi racconti non c’è solo la “classe”, questa nuova classe operaia. Ci sono le persone, gli individui, le donne, gli uomini costretti alla catena di montaggio ma capaci di produrre controcultura. Contropotere. In quelle pagine c’è la moltitudine, ci sono le diverse soggettività politiche, irriducibili ad un’unica forma. Ci sono, ancora, i tarli di sempre. Che qui si fanno intuizioni del futuro.

“Volevo la luna” termina nel ’78, perché dirà - lo stesso Ingrao - «lì c’è la vera cesura nella storia del paese», con l’assassinio di Aldo Moro. In realtà, dopo, c’è un altro capitolo, dove Ingrao parla del libro di Nuto Revelli, “Il disperso di Marburg”. Scrive di un soldato tedesco che ogni giorno usciva a cavallo, sempre diretto ad un prato. Dove sostava sdraiato nell’erba. Fino ad un brutto giorno, quando il cavallo tornerà da solo in caserma.

E questo capitolo, intitolato all’isola (all’isola di verde che il soldato cercava ogni mattina all’alba) finisce con una domanda: «Perché chiedere di salvarsi da soli?».

E’ l’invito, forse, a continuare a cercare. Forme comuni di emancipazione. Cercare, ripartendo da dove? Fausto Bertinotti entra nel merito. E risponde citando un’altra poesia, sempre di Nuto Revelli. Sono versi in dialetto di un contadino che si rifiuta di sparare ad un nemico che non conosce. Di un contadino che non capisce che senso abbia uccidere un altro uomo. Si riparte da qui, allora, dalla “non violenza”. E Ingrao ci sta. Chiude la serata rivendicando la sua storia. Rivendicandola e attualizzandola. Anche polemicamente. Come quando accusa «qualcuno - che siede molto più in alto di questa sala» - di aver troppo frettolosamente espresso solidarietà a chi denigra la Resistenza. Non lo cita - un retaggio del vecchio secolo, forse - ma tutti, anche i distratti capiscono che ce l’ha con Giorgio Napolitano, sceso in campo a difesa di Gianpaolo Pansa e del suo libro sui misfatti dei partigiani. Qualcuno pensa all’ennesimo round fra due dei protagonisti dell’XI° congresso. Ma Ingrao non ha tempo solo per i ricordi. E incalza la platea, meglio: chi sta fuori da questa platea, parlando di guerra. Di guerra infinita. Di guerre dimenticate. «E’ possibile che nelle stanze istituzionali non si parli come necessario di pace, di disarmo?». Lui le ha viste le barbarie, sogna un mondo dove non ci siano più. E sa che non è facile. La ricerca continua.

Repubblica 26.10.06
Storia di un genio dimenticato
Esce un volume di Vittorio Benussi che raccoglie per la prima volta i suoi scritti
di Umberto Galimberti


Rigoroso psicologo sperimentale fu anche il maestro di Cesare Musatti
Esponente della scuola di Graz divenne un interlocutore significativo della psicoanalisi
Il suo merito maggiore fu quello di aver avviato un dialogo tra Husserl e Freud

Non so se sia una specialità solo italiana, certo noi eccelliamo nel trascurare i nostri uomini di genio quando sono in vita e nel dimenticarli del tutto quando sono morti. E´ il caso di Vittorio Benussi (1878-1927), esponente di spicco della scuola psicologica di Graz e fondatore della scuola di psicologia di Padova.
Rigoroso e geniale psicologo sperimentale del suo tempo, Benussi anticipò la psicologia fenomenologica e divenne significativo interlocutore della psicoanalisi. Indirizzi di pensiero che noi in Italia conosceremo quarant´anni dopo la sua morte, grazie alle traduzioni di Husserl, Jaspers, Sartre, Merleau-Ponty, Freud e Jung, rese possibili dopo la fine del monopolio culturale dell´idealismo di Croce e Gentile che, oltre ai loro indiscussi meriti, ebbero anche il demerito di bloccare quanto di nuovo la cultura europea stava producendo prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale.
Nato a Trieste, allora austriaca, Benussi si trasferì diciottenne all´Università di Graz dove incontrò il grande psicologo sperimentale Alexius Meinong, il quale riconobbe la genialità del suo giovane allievo senza riuscire a conferirgli un insegnamento a Graz perché «italiano» e, quando si aprì una possibilità a Praga, perché considerato «di sentimenti tedeschi». A cosa si ricorre per escludere le teste pensanti dalle accademie. Allora come ora.
Senza cattedra e senza insegnamento, Benussi fu il primo a condurre per dodici anni le prime ricerche sulla «psicologia della percezione». Ottenendo ampi riconoscimenti al VI Congresso di psicologia sperimentale di Gettingen nel 1914. In quegli anni andavano affermandosi Max Wertheimer (1912), Wolfgang Kehler (1913), Kurt Koffka (1913), le cui opere sono considerate testi classici della «psicologia della forma» tuttora in circolazione grazie alle edizioni Feltrinelli e Bollati Boringhieri, mentre di quel grande anticipatore che fu Vittorio Benussi non uno scritto, non una memoria.
A colmare questa enorme lacuna culturale ha oggi provveduto Raffaello Cortina che coraggiosamente, perché con questi libri non si fa cassetta, ha assegnato a Mauro Antonelli, professore di psicologia all´Università di Milano e libero docente all´Università di Graz, il compito di raccogliere gli scritti di Benussi dal 1905 al 1927 in un grosso volume preceduto da un saggio introduttivo di 120 pagine dello stesso Antonelli, eccezionale per il rigore della ricostruzione storica e per la chiara esposizione delle teorie psicologiche di Benussi, il quale, finita la guerra, con l´annessione di Trieste all´Italia, fu dispensato dal servizio presso la Biblioteca universitaria di Graz, con cui lo psicologo triestino si guadagnava il pane.
Tornato in Italia come ricercatore sconosciuto, Benussi trovò lavoro come bibliotecario al Segretariato generale per gli affari civili di Padova, e all´Ufficio centrale per la costituzione delle nuove province. A interessarsi di Benussi fu Sante de Sanctis, titolare della cattedra di psicologia sperimentale all´Università di Roma che convinse la facoltà di Lettere e Filosofia di Padova a istituire una cattedra di psicologia sperimentale da assegnare a Benussi per «chiara fama». L´Accademia padovana non oppose resistenza, anche perché ancora si sentiva l´influenza dell´insegnamento di Roberto Ardigò la cui Psicologia come scienza positiva (1870) può essere considerata l´atto di nascita della psicologia sperimentale in Italia.
Naturalmente la psicologia sperimentale necessità di laboratori e di strumenti che Benussi fece costruire da un´officina meccanica padovana. Ce lo ricorda Cesare Musatti che, ancora in divisa militare in quanto reduce dalla guerra, assistette insieme a Silvia De Marchi, futura compagna di vita, alla prima lezione di Benussi. Ne rimase affascinato. E fu proprio in quella circostanza che maturò la sua vocazione per la psicologia contro le sue iniziali inclinazioni.
Musatti scrive che: «Benussi si presentò in quell´occasione ai suoi due uditori con uno scatolino pieno di gessetti colorati, affermando che quello costituiva per il momento il suo laboratorio». Nel 1922 Musatti divenne assistente volontario non retribuito di Benussi, intorno al quale si creò una cerchia di intellettuali tra cui il latinista Concetto Marchesi, lo slavista Giovanni Maver e i colleghi Manara Valgimigli, Giovanni Bertacchi e Diego Valeri.
Per la mancanza di un istituto di ricerca attrezzato (costituito solo da tre stanzette) e di adeguati strumenti da laboratorio, Benussi indirizzò la psicologia sperimentale verso una nuova direzione: la suggestione e l´ipnosi come mezzi di analisi psicologica. Non per scopi terapeutici come Charcot a Parigi, ma per isolare le funzioni della vita psichica: gli stati intellettivi e quelli emotivi, nonché quelli respiratori che, accuratamente osservati e analizzati, consentono di stabilire chi mente e chi dice il vero. Del resto «psiche» vuol dire «respiro», e fu proprio Benussi, nell´ambito della psicologia forense, a fornire quel lavoro pionieristico che titola: I sintomi respiratori della menzogna.
Ma il merito maggiore di Vittorio Benussi, a mio parere, è quello di aver avviato con un secolo di anticipo quel dialogo che, solo oggi e con molti sospetti e difficoltà, incomincia a instaurarsi tra fenomenologia e psicoanalisi, cioè tra Husserl e Freud, che insieme avevano ascoltato a Vienna le lezioni di Brentano (1838-1917). Grazie a Brentano Husserl supera il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, e sempre grazie a Brentano Freud attribuisce non solo alla coscienza ma anche alle pulsioni una loro intenzionalità.
Partendo da Brentano Benussi stabilisce che i fenomeni psichici sono non solo intenzionali, ma accessibili alla percezione interna e quindi «coscienti». Inoltre, sulla traccia di Husserl e anticipando la fenomenologia di Merleau-Ponty, lo psicologo padovano rifiuta la posizione empirista secondo cui la nostra percezione è «passiva» in quanto pura recezione di stimoli esterni, e ne afferma l´«attività», dovuta al fatto che, quando percepiamo, conferiamo un «senso» a ciò che percepiamo, che a sua volta dipende dai vissuti della nostra esistenza.
Il giorno che, sulla traccia delle intuizioni di Benussi, la psicoanalisi si aprirà alla fenomenologia forse tanti problemi ancora oggi irrisolti potranno trovare la loro spiegazione. Il problema infatti non è tanto quello di oltrepassare Freud per trovare un briciolo di originalità, ma di tornare con Freud e Husserl alle lezioni di Brentano che Benussi ben conosceva.
L´interesse di Benussi per la psicoanalisi fu mediato dalla sua amicizia con il triestino Edoardo Weiss (1889 - 1970) allievo di Paul Federn e Sigmund Freud, il quale scrisse la prefazione agli Elementi di psicoanalisi di Weiss che costituisce la prima opera di divulgazione in Italia del pensiero freudiano, a cui seguì Struttura e dinamica della mente umana, pubblicato a Londra nel 1960 e tradotto in Italia nel 1991 da Raffaello Cortina «quale tardivo riconoscimento ad una figura illustre con cui la cultura psicoanalitica e psicodinamica ha contratto un debito significativo solo a tratti riconosciuto».
Nel 1926 Benussi tiene il primo corso di psicoanalisi in un´università italiana che ancora oggi, nelle facoltà di psicologia cresciute come funghi, ancora non ospita un insegnamento che nomini esplicitamente la psicoanalisi preferendo annacquare questo sapere nella generica titolatura di «psicologia dinamica». Non fosse stato per l´editoria che ha pubblicato le opere di Freud, Jung, Reich, Ferenczi, Lacan, per l´università la psicoanalisi dopo cento anni di storia, ancora non esiste.
Quel che si propone Benussi col suo corso universitario: «Elementi di teoria e di tecnica della psicoanalisi» è di «dare alla psicoanalisi una base sperimentale che ancora le manca, togliendole il carattere di arte fondata sull´intuizione, e così trasformarla in un metodo scientifico basato su leggi assicurate sull´esperimento».
In questa direzione Benussi intraprende l´approccio sperimentale sui processi associativi inaugurato in Svizzera da Bleuler e da Jung, e gli studi sulla dissociazione prendendo posizione nei confronti della désagrégation di Pierre Janet e della Zerspaltung di Eugen Bleuler. Con questa operazione Benussi mette in contatto psicoanalisi e psichiatria, che Freud tendeva a tenere rigorosamente distinte, e a Greningen entra in contatto con Jaspers e Binswanger che, da psichiatri, con la psicoanalisi già interloquivano in termini ora critici ora polemici, ma sempre con grande attenzione.
Nel 1927 si sarebbe dovuto tenere il Congresso nazionale di psicologia a Padova come riconoscimento esplicito del lavoro e del magistero di Benussi che però, qualche giorno prima, come riferisce Musatti: «Per ragioni ignote, a 49 anni, si diede la morte». Cesare Musatti ne raccolse l´eredità coltivando sia la psicologia sperimentale sia la psicoanalisi, mantenendone però separati gli ambiti, che invece Benussi voleva raccordare per dare base scientifica alle intuizioni psicoanalitiche.
Non ci fu il tempo per quest´«uomo senza qualità» come lo definì Sante De Sanctis quando lo chiamò a Padova. Il riferimento a Musil non è casuale. Anche Musil infatti si era occupato di psicologia sperimentale con una tesi di dottorato (1908) che aveva suscitato l´interesse del maestro di Benussi, Meinong, il quale gli aveva offerto la carriera accademica a Graz, che però Musil rifiutò per dedicarsi alla letteratura. A differenza di Musil, Benussi proseguì con linee di ricerca che ancora oggi attendono sviluppi, soprattutto nell´ambito delle neuroscienze che, a sentire Mauro Antonelli, Benussi avrebbe anticipato in snodi cruciali.
Resta solo da ringraziare Raffaello Cortina per aver sollevato il velo dell´oblio su questo grande pioniere della psicologia in Italia, pubblicando Sperimentare l´inconscio (Scritti dal 1905 al 1927, pagg. 500, euro 39). Dopo aver fatto 15 anni fa analoga operazione con l´amico di Benussi, Edoardo Weiss, ancora troppo ignorato dalla cultura psicoanalitica italiana che, un po´ distratta e assetata di originalità, forse non si è ancora resa conto che il declino della psicoanalisi non dipende dal suo mancato sviluppo, ma nel non aver ancora risolto problemi apparsi da subito alla sua origine, e che Benussi aveva ben individuato nella carenza di scientificità, a cui le sue ricerche avevano tentato di offrire un contributo e di segnalare la direzione.

mercoledì 25 ottobre 2006

LaStampaweb 25.10.06
Crainz, storico ed ex di Lotta Continua: sulla Cecoslovacchia noi figli insensibili come i padri del Pci nel '56

«Noi del ‘68, miopi come Togliatti»
di Jacopo Iacoboni

I figli spesso fanno gli stessi errori dei padri, con l’aggravante che presumono di criticarli, e si considerano quasi sempre migliori. «Successe anche a noi, la generazione di Lotta Continua», dice Guido Crainz, oggi affermato storico e autore di libri importanti sulla storia oscura d’Italia (su tutti Il Paese mancato), da ragazzo membro del direttivo di Lc. «Anche noi fummo ciechi dinanzi alla repressione sovietica che colpiva i nostri coetanei», lamenta autocritico Crainz, i figli insensibili di fronte all’invasione di Praga proprio come i padri lo erano stati dinanzi alla repressione in Ungheria.

«Quel giovane movimento intellettuale, che rivendicava a gran voce “l’impossibile”, ebbe poco tempo e sguardi solo fuggevoli per altri giovani, per i quali l’“impossibile” era – come per gli studenti ungheresi del 1956 – libertà di parola e di stampa, di associazione e di voto. Ebbe una solidarietà superficiale e distratta per la Cecoslovacchia, vibrò di poche passioni per essa ed ebbe molte diffidenze per il suo “nuovo corso”, pur condannando l’invasione sovietica». Il j’accuse di Crainz arriva inaspettato nella prefazione di un libro di Gyorgy Dalos, Ungheria, 1956, appena uscito da Donzelli. E ha una forza dirompente, perché a prima vista parrebbe ardito rivolgere (anche senza nominarli) ai Sofri, Viale, De Luca, Boato, Rostagno - quelli che di lì a un anno fonderanno il più famoso gruppo extraparlamentare della storia italiana - la stessa accusa che si indirizza solitamente a uomini come Palmiro Togliatti, Pietro Ingrao, Luigi Longo, o al vecchio Pajetta che ancora nell’88, trentadue anni dopo l’Ungheria, rimproverò Piero Fassino di aver detto parole «troppo chiare» su quel crimine.

Crainz la prende alla lontana: «Per più versi fare i conti con il 1956 sembra diventare simbolo di un continuo fare i conti con il proprio passato e con il proprio futuro. Costringe a interrogarsi su se stessi». Un interrogarsi tanto più pressante per chi sente di appartenere a quella famiglia che ancora, all’alba del 2006, può definirsi “di sinistra”. «Forse non vale solo per chi ha vissuto direttamente l’ottobre ungherese», osserva lo storico-ex militante. Questo interrogarsi «riguarda anche chi, lontano da quelle speranze e da quei drammi, preferì acquietare la propria coscienza con giudizi deformanti e infondati, o con smemoratezze e rimozioni».

E voilà, la Rimozione. Finora era un luogo comune letterario usato a larghe mani nel vasto filone dell’autocritica di scuola Pci: da Ingrao, che scrive di Budapest come il suo grande errore, l’Errore, al presidente Giorgio Napolitano, che pure nell’86 fu il primo comunista a pronunciare una radicale autocritica pubblica. Ora vien fuori che ci sarebbe stata anche una rimozione operata dal Movimento. I figli uguali ai padri.

Certo Crainz ricorda come il Pci, che pure nel ‘68 espresse il suo «grave dissenso» per l’invasione della Cecoslovacchia marcando una cesura rispetto al ‘56, subito dopo arretrò, accettando la normalizzazione voluta da Mosca. Ma fu «molto più grave» l’arretramento dei futuri ragazzi di Lc e Potere operaio: «È difficile oggi comprendere appieno le ragioni di quell’arretramento, così come ci appare del tutto incomprensibile la flebile sensibilità a questi temi dell’area culturale e politica emersa in quei mesi alla sinistra del Pci: la “generazione del Sessantotto”, la generazione e il movimento di cui ho fatto intensamente parte». Poi sì, eccezioni ci furono. Leo Huberman denunciò la sordità della “nuova sinistra”, inascoltato, dice Crainz. Il manifesto (illuminato titolo di Rossana Rossanda) scrisse Praga è sola, come lo era stata Budapest. Ma molti se ne fregarono. «Vi fu anche qualche piccola frangia che approvò la repressione, come la approvarono Cuba e il Vietnam, presi in quegli anni a simbolo di un comunismo alternativo». Converrebbe, forse, riparlarne. «Quella cecità, quella insensibilità intellettuale e umana segnalano le crepe profondissime di una cultura che si voleva libertaria e innovativa ed era invece soffocata sul nascere da una arcaica ideologia», quasi una coazione a ripetere freudiana, nella storia della sinistra italiana.


Tempo Medico n. 814 7 ottobre 2006
Ipocondriaci a prova di rassicurazione
I pazienti con sintomi inspiegabili al vaglio in uno studio tedesco
di Simonetta Pagliani


I sintomi inspiegabili sono manifestazioni fisiche prodotte dalla mente a dispetto della ragione e alla ragione resistono, blindati nella loro pretesa di organicità.
Le parole di rassicurazione del curante sulla natura non patologica delle sue sofferenze, anche quando conseguono a referti negativi di molteplici indagini diagnostiche, non convincono il paziente; anzi, non sono affatto da lui recepite in tal senso, ma vengono fraintese ed equivocate, in quella che è stata chiamata "amplificazione somatosensoriale".
Se non si fidavano delle loro esperienze personali, i medici possono ora contare su una prova documentale di questa propensione ipocondriaca, sotto forma di una ricerca firmata da Winfried Rief, psicologo dell'Università di Marburg, Germania, apparso su PLoS Medicine.
I pazienti che iniziano da giovani adulti ad accusare indistinti dolori o fastidi in sedi sempre diverse e, in caso di remissione, sempre rimpiazzati da altri, sono una minoranza importante nell'economia del lavoro ambulatoriale di un medico di famiglia e una potenziale fonte di spreco di risorse nella rincorsa di una diagnosi sfuggente o inesistente. Secondo alcuni studi, il 30 per cento di tutti i sintomi presentati al medico non troverà mai una spiegazione organica, dando luogo alla loro classificazione come "psicosomatici"; nella decima revisione dell'International Classification of Diseases, uno dei requisiti di tale denominazione è proprio la mancanza d'effetto della rassicurazione medica.
Il metodo della ricerca è stato questo: a tre gruppi di soggetti, con sintomi non spiegati, con depressione maggiore e apparentemente sani, sono state fatte sentire registrazioni di una voce che proponeva spiegazioni per manifestazioni patologiche (dolori addominali), per eventi sociali (mancato invito a un barbecue) o per accadimenti di significato neutro (guasti alla macchina). Le registrazioni contenevano 10 tipi di messaggi, variabili dall'assoluta affermazione di un giudizio a una certa ambiguità della spiegazione. A parità di capacità di comprensione, di memoria e di livello d'ansia, rispetto sia al gruppo dei sani sia persino al gruppo dei depressi, quello dei somatizzatori ricordava con maggior frequenza solo le spiegazioni che attribuivano cause mediche al sintomo proposto, persino quando il messaggio le negava definitivamente, mentre recepivano correttamente le diverse spiegazioni in campo sociale o neutro.
A conclusione dello studio, gli autori raccomandano ai medici di tenere a mente questo bias nei loro tentativi di rassicurare pazienti somatizzanti, invitandoli a riepilogare con le loro parole quanto credono di aver capito.
L'argomento dei sintomi inspiegabili è una spina nel fianco del medico di famiglia e ciò rende ragione del successo che ha avuto, durante il recente congresso europeo di WONCA a Firenze, il workshop che se ne è occupato.
Nel suo ambito c'è stato anche chi, come Daniel Lucassen di Nimega, ha, in realtà, proposto di ribaltare il paradigma che vuole il paziente smanioso di una diagnosi organica e il medico alla ricerca della spiegazione psichica. Pur riconoscendo che esiste una coorte di persone che coltiva i propri disturbi medicalizzandoli e fornendo loro il supporto di letture specialistiche su internet o sulla stampa di settore, dopo le quali pretendono sempre più approfonditi interventi medici, Lucassen ha sposato il risultato di alcuni studi secondo i quali sono i medici a offrire più spiegazioni somatiche di quante i pazienti ne chiedano e ha aperto la caccia alle motivazioni di tale comportamento.
Se, a volte, esiste davvero una sorta di rifiuto del curante di addentrarsi nei meandri delle cause mentali per mancanza di tempo oppure di competenza, altre volte il medico prevede, sulla base di una conoscenza diuturna, che giocare la partita sul versante psichico ed emotivo porterà alla negazione da parte del paziente e che solo il viatico di una diagnosi di patologia consentirà l'uso di una medicina con ruolo di placebo, richiudendo così il circolo soma-psiche.
Fonte: Plos Medicine 2006; 3:1266


Il Riformista 24.10.06
Cari laici, ecco perché possiamo dirci non cristiani
di Alberto Abruzzese


Uno strano neo-ecumenismo uno spirito ecclesiale alla rovescia sembra conciliare l'evangelismo amencano di Bush e quello cattolico del vigente Papa. E' in atto non una apertura tra chiese di diverso credo, ma una ricomposizione del mondo cristiano a fronte di altre religioni che cristiane non sono. Le conseguenze di questa decisione - letteralmente taglio, spaccatura - sono varie, possono andare dalla rivendicazione della propria identità rispetto alle migrazioni di altre dentro casa propria, ma anche spingersi ad assumere un nuovo slancio evangelizzatore in casa d'altri. Di fronte alla sempre più difficile convivenza tra diversi contenuti di fede, molti commentatori, anche laici, stanno invece condividendo l'idea secondo la quale chi è nato in nazioni in cui la storia ha sedimentato un sentire cristiano non può dirsi non cristiano.

Noi sosteniamo al contrario che il campo su cui si confrontano queste nuove tendenze dello spirito occidentale presuppone innanzitutto la dichiarazione opposta: dirsi innanzi tutto non cristiani. Infatti, nel ritenere presunta professione di cristianità l'educazione ricevuta e la memoria vissuta in un determinato contesto, protestante o cattolico o evangelico che sia, si rinuncia alla natura stessa del dirsi appartenente a una religione piuttosto che a un'altra. Si rinuncia alla libertà di scegliere la religione per cui ci si sente votati. E' un dio ben misero quello che conta su fedeli che si dichiarino tali per eredità ricevuta o per convenzione e dunque per qualcosa di non dipendente da una libera scelta,da un desiderio di appartenenza (appartenenza ben diversa da quella geopolitica o persino familiare a cui ci e dato nascere).

E' difficile condividere la voce di quei laici che si sono sollevati in difesa della divisione tra gli orizzonti della cristianità e quelli che della cristianità non hanno avuto la storia e la cultura e i luoghi. Questi laici certamente non sanno il principio che è alla base di ogni professione di fede: quello della conversione. E per essere convertiti nel proprio credo bisogna prima essere liberi di accettare il vincolo di una religione piuttosto che un'altra. Se proprio bisogna rivendicare tratti di civiltà occidentale da opporre al resto del mondo umano, allora è proprio la concezione di un catechismo che nei recinti del cristianesimo si preoccupa di allevare il giovane attraverso una serie di riti di iniziazione (di cui il battesimo è soltanto il gesto inaugurale): riti che verrebbero svuotati di ogni significato se non fossero appunto lo strumento per un graduale passaggio da un essere umano non credente a un essere umano credente nel dio da cui si è sentito chiamare o che cerca di raggiungere.

Noi dunque ci diciamo non cristiani perchè pretendiamo di essere nella facoltà di scegliere un dio qualsiasi o di non sceglierlo affatto. Un essere umano non nasce ateo ma essere umano, che può diventare religioso. Così anche il contrario: può restare o tornare ad essere soltanto un essere umano che si intrattiene civilmente con le religioni degli altri. E se ci si deve difendere da esseri umani incivili non lo si fa da cristiani ma soltanto da civili.

Corriere della Sera on line 23.10.06
L'avanzata dei nuovi atei Tre scienziati di Oxford portano avanti il pensiero del New Atheism, contro l'oscurantismo delle religioni in materia scientifica
di Alessandra Carboni


REGNO UNITO «Dal momento che accettiamo il principio per cui la fede religiosa deve essere rispettata per il semplice fatto che si tratta di fede è difficile negare rispetto anche alla fede di Osama e dei kamikaze». Questo è ciò che afferma Richard Dawkins biologo, evoluzionista e divulgatore scientifico britannico nel suo ultimo libro, intitolato The God Delusion. Si capisce subito che, come molti altri uomini di scienza, Dawkins ha un approccio del tutto particolare all'argomento religioso. E come lui anche Sam Harris e Daniel Dennett, noti «scienziati della mente» di Oxford, appartengono a quello che può essere definito il movimento dei nuovi atei, ovvero la corrente di pensiero di chi condanna non solo la fede in un Dio, ma anche la tolleranza nei confronti di chi ha un credo religioso.
NESSUNA NEUTRALITA' - Dalla capitale della ragione, Oxford, i tre scienziati lanciano la sfida al mondo: «è tempo di prendere posizione ed esorcizzare finalmente questa calamità debilitante che è la fede». Secondo loro, infatti, Dio è solo una menzogna creata dall'uomo per controllare le menti degli individui, e la scienza sarebbe in grado di provarlo: «la scienza, in definitiva, gioca con le probabilità, e la probabilità che dio esista - spiega Dawkins - se non nulla, è infinitesimale». Quella dell'ateismo non è certo una corrente di pensiero recente, ha camminato fianco a fianco con lo sviluppo della società e con il diffondersi delle religioni. Ma i tre cervelloni sono andati oltre la semplice negazione dell'esistenza di una divinità, negando di fatto il diritto di chiunque a una presa di posizione neutrale. Nel mirino dei nuovi atei non ci sono in realtà i fedeli, quanto piuttosto i non praticanti, tutti coloro che non credono ma non si pongono criticamente nei confronti di chi crede: potenziali proseliti del Nuovo Ateismo.
IL CASO USA - E secondo Dawkins, la massa di potenziali nuovi atei sarebbe davvero imponente: «negli Stati Uniti ci sono almeno 30 milioni di persone non religiose: più del totale di ebrei nel mondo. Gli atei sono più numerosi di quel che si pensa. Molte persone intelligenti sono atee. Ma i conti non tornano, perché nessun membro del Congresso americano ammette di esserlo. Quindi le cose sono due: o si tratta di persone stupide o di bugiardi». E il fatto che negli Usa l'ateismo è praticamente un tabù sarebbe di per sé una buona ragione per mentire. Secondo Sam Harris, inoltre, finché l'uomo non rinuncerà alla fede sarà impossibile impedire che le violenze religiose portino alla distruzione della nostra civiltà. Il percorso mentale necessario per staccarsi dalla fede e giungere a quella che Harris definisce la religione della ragione è lo stesso che ha portato alla fine dello schiavismo. Ciò che nell'800 era considerato moralmente accettabile (uccidere, rapire intere famiglie, ridurle in schiavitù, costringerle a lavorare e vendere i loro bambini) oggi è visto con disgusto e disapprovazione. Così, liberandoci oggi dalla schiavitù della fede, «la ragione riuscirà a soggiogare la superstizione, l'intelligenza avrà la meglio sulle illusioni e saremo in grado tenere a bada la demoniaca tentazione della fede». E la religione diventerebbe così un semplice ricordo della nostra natura primitiva.

Corriere della Sera on line del 24.10.06
RSF: Italia 40esima per la libertà di stampa


Corea del Nord, Turkmenistan ed Eritrea sono i peggiori. Alcuni Paesi del Nord Europa (Finlandia e Norvegia), insieme a Svizzera, Olanda, Irlanda e Islanda sono in prima posizione. È la classifica stilata dall'associazione Reporters sans frontières nel quinto rapporto sulla libertà di stampa nel mondo, dove l'Italia si piazza 40ª, salendo di due posizioni rispetto al 2005. Manca nelle posizioni di vertice la Danimarca, a causa della pubblicazione delle famose vignette su Maometto. «Sfortunatamente non cambia niente tra i peggiori predatori delle libertà nel mondo», commenta l'organizzazione per la difesa della stampa e dei giornalisti, riferendosi agli ultimi tre, stabili rispetto al 2005.
STATI UNITI - Cambiano invece le cose, ma in peggio, in alcuni paesi come Giappone, Stati Uniti e Francia che continuano a «precipitare» nella lista che comprende 168 Paesi. In un anno gli Usa passano dal 44° al 53° posto. Nel 2002 occupavano addirittura il 17°. Una situazione «preoccupante» secondo Reporters sans frontières. «L'atmosfera tra la stampa e l'amministrazione di Bush si è nettamente deteriorata - scrive l'associazione -, dopo che quest'ultima, facendo appello alla sicurezza nazionale, sospetta tutti i giornalisti che mettono in discussione la sua guerra contro il terrorismo».
VIGNETTE SU MAOMETTO - Drammatica discesa del Giappone, che perde quattordici posizioni piazzandosi 51° in classifica. Anche la Francia perde punti: 5 in un anno e 25 in cinque anni, posizionandosi nel 2006 al 35° posto. La causa, secondo Rsf, è la «moltiplicazione delle persecuzioni nei media e del numero di giornalisti indagati». La Danimarca, 19ª, perde invece il primo posto della classifica rispetto allo scorso anno dopo la vicenda della caricature di Maometto scoppiata, insieme a un mare di polemiche e minacce, nell'autunno 2005. In questo Paese «per la prima volta, alcuni giornalisti sono stati messi sotto protezione della polizia perché minacciati per il loro lavoro» denuncia l'associazione. Il primato quindi se lo dividono Finlandia, Irlanda, Islanda e Paesi Bassi dove «non è stato registrato alcun caso di censura né di minaccia o intimidazione» ai danni dei giornalisti.
MIGLIORA L'ITALIA - La situazione italiana «migliora leggermente» dopo il periodo Berlusconi. Il Belpaese si piazza al 40° posto, seguito dalla Spagna, che resta stabile. Ma la vera notizia è che l'Italia è superata in classifica da alcuni Paesi del sud del mondo. Una «buona notizia» per Rsf: «Anche se molto poveri, questi paesi si mostrano particolarmente rispettosi della libertà di espressione». Un particolare elogio va alla Bolivia (16ª), al Benin (23°), all'isola di Mauritius (32ª), al Ghana (34°). Anche la Bosnia-Erzegovina (19ª) continua a salire comportandosi meglio di altri paesi dell'Unione Europea, come Grecia (32ª) e Germania (23ª).
GUERRA NEMICO NUMERO UNO - A «sotterrare la libertà di espressione» resta prima di tutto la guerra. Iran, Siria, Sri Lanka, Nepal, Arabia Saudita si confermano tra gli ultimi della classifica. Vi si aggiunge quest'anno il Libano che in cinque anni è sceso dal 56° al 107° posto. La situazione non cambia per Etiopia (160ª) e Cuba (165ª). Al contrario, il cambio di regime si è mostrato salutare per il Togo (da 95° a 66°), Haiti (da 125° a 87°) e per la Mauritania (da 138ª a 77ª).

Notizie radicali 351 25.10.06
Infanzia violata: Emma Bonino presenta con Dolcenera e Stella Pende il libro shock di Somaly Mam "Il silenzio dell'innocenza"


Roma. Somaly Mam è una straordinaria donna cambogiana che da vent'anni lotta nel suo paese e a rischio della vita, contro lo sfruttamento sessuale di donne e bambine. Un fenomeno di cui non si hanno stime precise, ma che riguarda diverse migliaia di ragazzine, vendute per pochi soldi dalla propria famiglia all'età di cinque o sei anni e costrette a prostituirsi. Il libro, "Il silenzio dell'innocenza", già pubblicato in Francia e Spagna, è un'autobiografia in cui l'autrice racconta la sua storia di "sopravvissuta" a questa tortura e il suo impegno quotidiano attraverso AFESIP, l'associazione che è riuscita a mettere in piedi nove anni fa. Emma Bonino, Ministro per il Commercio Internazionale e le Politiche Europee, con Stella Pende, Daniela Rosati ed altri personaggi del mondo della cultura, della moda e dello spettacolo, saranno al fianco di Somaly Mam e della sua battaglia, e presenteranno il suo libro mercoledì 25 ottobre alle ore 18.00, al teatro Flaiano. Dolcenera canterà, accompagnandosi al pianoforte, la sua canzone dedicata ai bambini cambogiani: "L'Amore (il mostro)".

l'Unità 25.10.06
Ingrao, applausi e stoccate
L’ex leader del Pci: «Provo collera per i silenzi istituzionali
sugli attacchi alla Resistenza e sulla tragedia delle guerre». D’Alema a Ingrao: graziema con noi sei stato ingeneroso
di Bruno Gravagnuolo


«La nostra generazione ti deve tanto, per averci consegnato un Partito, il Pci in cui tragedie di coscienza come sull’Ungheria non ci sarebbero più state. Però sei stato ingeneroso quando abbiamo fatto la svolta del 1989. Non solo non ci hai aiutato, ma ci hai riempito di critiche pesanti. Anche se cercavamo di ridare un ruolo alla sinistra in questo Paese e di salvarla...». Le parole di Massimo D’Alema a Pietro Ingrao sono state il vero clou politico della serata. Quando appunto il Ministro degli Esteri, convenuto con Bertinotti e Luciana Castellina a presentare Volevo la luna di Pietro Ingrao (Einaudi), si è rivolto direttamente al vecchio leader, concludendo proprio su questo «affondo» la sua disamina dell’autobiografia ingraiana.
E che non sarebbe stata una serata banale lo si era capito sin dall’inizio. Dallo scroscio di applausi che aveva accolto Pietro Ingrao al suo ingresso nella Sala del Residence Ripetta di Roma. Sala gremita, posti in piedi o seduti fra le poltrone e ai lati. Ad
ascoltare Ingrao e i «discussants», come li chiama Ida Dominjanni: cariche istituzionali importanti. E testimoni diretti come Luciana Castellina di una vicenda politica, «l’ingraismo» che evidentemente appassiona ancora, e tanto.
Si comincia con Dominijanni che tratteggia il filo del libro tra i luoghi fisici della memoria- Lenola, gli avi siciliani e garibaldini- e lo scenario della «storia mondo» del Novecento, con le sue grandi tragedie. La tesi di lettura è: «un racconto della soggettività». Quella di Ingrao certo. E quella delle grandi masse, schiacciate dalla «forma politica». Dalla «gabbia d’acciaio della politica novecentesca». Un contrasto di fondo insomma, tra «il molteplice» in lotta per la liberazione e le durezze della Grande politica totalitaria. Domanda a Ingrao: «la sconfitta è irreversibile, e occorre ritirarsi dalla Politica, malgrado omologazione e «servitù volontaria» della società di massa del terzo millennio? E ancora. «perché il tuo libro non parla del 1989 e si ferma all’assassinio di Moro?».
Tocca a D’Alema, che non segue il questionario di Dominjanni, ma concorda su un punto: «è un’autobiografia del vissuto, non un libro politico». Un affresco testimonianza, in cui l’autore si narra come dall’esterno, benché implicatissimo. Ma allora, «perché Ingrao rinunciò a incidere di più? Perché contrastò l’idea amendoliana di un partito unico della sinistra? Perché non ci fede vedere se e come era possibile uscire da sinistra dal capitalismo?». Sì, anche grazie a Ingrao «il Pci fu diverso, e con Praga non fu come con Budapest». E nondimeno incalza D’Alema, come mai Ingrao non capì che «egli era già fuori della tradizione comunista, statalista per eccellenza..?». Poi la notazione: «non sono mai stato ingraiano, bensì storicista e togliattiano. Eppure le aperture culturali di Ingrao sul mondo mi hanno aiutato, e grazi a lui c’è stato un incontro di prospettive che ha fatto la forza di quel Pci». Infine l’affondo: « con la svolta dell’89 ti sei tenuto fuori, lontano, laddove noi volevamo dare un nuovo volto alla sinistra, e salvare il suo ruolo in Italia».
Tocca alla Castellina, che rievoca gli inizi ingraiani sul cinema, al Centro sperimentale. «Un comunismo il suo, e il nostro - spiegavo sempre ai miei amici americani - che era nato a... Hollywood!». Poi traccia un nesso ideale tra l’Ottobre 1917, con la sua «carica liberatoria» deragliata e il tentativo ingraiano di indicare «un altro modello economico nei punti alti dello sviluppo capitalistico». Contro l’idea di «un’Italia provinciale dai mille rivoli, che fosse necessario normalizzare e basta». E ancora: «Tu scrivi che eravamo una frazione. Magari! Avremmo dovuto esserlo sul serio, e invece ti ritraevi dal capeggiarla, anche per civetteria. Questo ti rimprovero, ben più che aver votato per la nostra radiazione come Manifesto. Noi non volevamo la luna, ma la terra. O almeno la nostra luna era in terra». Bertinotti concorda sul tratto «esistenziale» dell’esperienza ingraiana. Sostiene che « l’idea di un altro comunismo fu battuta in Italia nel 1966, quando Ingrao col suo modello di sviluppo viene sconfitto». Ma lì nasce anche un’altro «baricentro della liberazione: gli operai, i movimenti». E di lì per Bertinotti si riparte anche oggi, coi no global, la pace, la non violenza, i temi mondiali dell’esclusione e dell’oppressione per miliardi di persone. Replica Ingrao, che non risponde direttamente ai rilievi di D’Alema. Ma spiega «il paradosso» di aver guardato nella bufera del secolo all’Urss, «gigante leninista incarnato, travolto da crimini e tragedie». Critica «le stanze istituzionali». Che «lasciano passare tanti attacchi alla Resistenza». E non parlano di pace, «in un mondo dove la guerra è ormai a scala planetaria inaudita, massiva e feroce». Dov’è, si chiede Ingrao, la parola «disarmo»? Già, dov’è? E la serata si chiude tra altri applausi.

Liberazione 25.10.06
Il dibattito alla Camera nell’anniversario della tragedia ungherese del ’56. L’intervento di Franco Giordano, segretario Prc
«Budapest parla di noi. II fine non giustifica i mezzi»
di Franco Giordano


Signor Presidente, stiamo ricordando una tragedia, una repressione sanguinosa e terribile che ha sbarrato la strada ad una possibile innovazione democratica. Nessun giustificazionismo storicista può cancellare questa cruda realtà. Quando lavoratrici e lavoratori scendono in piazza e danno vita ad un movimento di massa per chiedere riforme, giustizia sociale e spazi di democrazia, una forza che si richiama agli ideali del socialismo non può non stare con loro. Lo comprese bene, allora, un sindacalista come Giuseppe Di Vittorio ma sbagliarono, comunisti italiani compresi, tutti coloro che approvarono o, semplicemente, giustificarono quella repressione. Essa ci parla della costruzione di un modello di socialismo che nel suo inveramento statuale si separa e si contrappone ai soggetti che sono stati protagonisti della rivoluzione, soggetti resi muti e deprivati di ogni strumento di partecipazione. Il fine non giustifica mai i mezzi, signor Presidente; anzi, quei mezzi interrogano i fini e ne rovesciano il senso. Quella forma di socialismo reale ci parla di una occupazione del potere che si separa dalla trasformazione sociale e diventa dominio burocratico. Ci siamo costituiti e ci nominiamo comunisti a partire dalla critica di quelle forme di oppressione prive di vitalità democratica con cui si è caratterizzata l’evoluzione nei paesi dell’Est. La centralità esponenziale del primato del politico, il partito, la macchina dello Stato, fino al partito-Stato, sono lo snodo teorico e pratico di una parabola di una parte della storia del Novecento: la conquista dell’uguaglianza si è infranta ed è rovinosamente crollata in una drammatica sconfitta, nel suo rovescio. Oggi, sappiamo che quel termine “uguaglianza”, pur messo a dura prova dalle profonde trasformazioni sociali, mantiene intatta la sua attualità ma non può essere mai disgiunto dalla parola “libertà”. Uguaglianza e libertà sono per noi una coppia indissolubile. Libertà intesa come superamento di ogni forma di alienazione, di ogni modalità di asservimento psicofisico delle lavoratrici e dei lavoratori e come pieno dispiegamento e crescita della soggettività; libertà intesa come critica di ogni logica produttivistica e di potenza, come valorizzazione pratica delle differenze. Dopo Budapest, Praga. » paradossale che le celebrazioni di un grande evento di popolo avvengano oggi, a Budapest, senza popolo e con le violenze che sono oggi per le strade della stessa città. La nostra scelta culturale e politica per la non violenza critica esattamente il concentrato autoritario e violento delle forme prevaricanti del potere, cerca di disvelare le forme del dominio e dello sfruttamento attuale della natura dei corpi e delle menti. La tragedia di Budapest e, dopo, quella di Praga, oggi, parlano di noi, signor Presidente, di un’idea della trasformazione che è non solo inconciliabile ma nemica di quella come di ogni altra forma di autoritarismo, di dittatura e di repressione. Non si può mai esportare con le armi un modello di società, non c’è mai alternativa alla partecipazione e alla democrazia.

il manifesto 25.10.06
lettere
Ottobre '56. Caro Valentino, Cara Rossana
Rossana Rossanda
Valentino Parlato


Caro Valentino,
non sono d'accordo. Che cosa c'è stato di magari brutale ma geopoliticamente necessario, nell'invasione dell'Ungheria, che tu ritieni giustificata allora e valida ancora oggi? Non il socialismo, ammetti, non aveva niente a che vedere. Dunque con la sicurezza dell'Urss? Non mi consta che l'Occidente stesse per invadere l'Est, salvo che con il mercato, così come è una favola che l'Urss volesse arrivare all'Atlantico. Era in gioco l'egemonia sul modello sociale europeo. Nel 1945 l'Urss l'aveva e nel 1948-1949 l'ha perduta. Un paese, e tanto meno un campo, non si tiene con la repressione e soltanto militarmente. In questo modo si coltiva l'odio e appena si apre un pertugio, passa una insorgenza. Che può anche essere manovrata. E' un errore clamoroso.
Una delle ragioni della crisi dell'Urss è proprio l'incapacità di egemonia sia nell'Europa dell'est, sia nelle sue zone di influenza fuori del continente. Diventa evidente proprio nell'allargarsi del «suo campo». Mi fece inviperire Francois Furet quando scrisse che mentre la rivoluzione francese aveva lasciato dietro di sé un lascito decisivo, Lenin nulla aveva lasciato. Aveva ragione. Ma la devastazione seguì il 1945. Prima, malgrado il sangue sparso all'interno, i popoli dell'Urss costruirono un avvenire e si difesero con le unghie e con i denti dal nazismo, dandogli il colpo fatale a Stalingrado. E' la gestione del dopoguerra che è stata disastrosa. Che resta in Russia, in Polonia, in Cecoslovacchia, eccetera? Non una minoranza dei comunisti, nessun comunista, né socialista, né idea di progresso. O guardiamo la Gorgone in faccia, o pestiamo l'acqua nel mortaio.
Quanto alle recenti conversioni dei dirigenti comunisti, sono d'accordo con te. Ma non è certo che, se nel 1956 avesse detto «no» come Di Vittorio, Napolitano oggi non sarebbe presidente della Repubblica. Lo sarebbe stato anche prima. Ma è secondario. Un «no» ragionato del Pci - ragionato significa che non balzava a piedi uniti dall'altra parte come nel 1989 - ci avrebbe rafforzato. Così la famosa barricata, nota come il Muro di Berlino, non ha retto che venti anni - che storicamente parlando è un battito di ciglio.
Rossana

Cara Rossana,
innanzitutto grazie per l'attenzione e aggiungo che qualche diverso parere si può avere in quasi quaranta anni di lavoro comune, e nei momenti più difficili siamo stati sempre uniti, così come ora, pur dissentendo.
Forse nel mio scritto mi sono espresso male. L'intervento dei carri armati sovietici a Budapest non lo ho affatto condiviso, ma ho ritenuto realistica, e quindi politicamente giusta, la scelta del Pci e di Togliatti di non condannare e di non rompere con l'Unione Sovietica perché sarebbe stata disastrosa per il Pci, per l'Italia e per quello che, allora, chiamavamo il mondo socialista.
Ma poiché la storia si fa con i se, tu hai scritto che se il Pci avesse trovato la via di un dissenso senza rotture sarebbe stato meglio per tutti.
Forse hai ragione tu, in quel caso tutto sarebbe andato per il meglio. Ma nella situazione data - sempre a mio parere - quella era un'ipotesi dell'impossibilità.
E non è un caso, ma per una scelta razionale che siamo rimasti nel Pci.
Altro era il contesto ai tempi di «Praga è sola», quando non rimanemmo nel Pci e Enrico Berlinguer fece passare un bel po' di anni prima di dire che la «spinta propulsiva» si era esaurita.
Pensando a Furet e alla rivoluzione del 1789, mi viene da dire che siamo nella stagione della Restaurazione, quando sembrava che il lascito della rivoluzione fosse stato distrutto. Cercare ancora, ci diceva Claudio Napoleoni, anche la luna.
Ma questo, forse, è un altro discorso.
Un abbraccio
Valentino

il manifesto 25.10.06
Ingrao e la resistenza «riscritta»: in alto troppi silenzi
Presentato a Roma il libro di memorie dell'anziano leader comunista. Schermaglie nel nome di Togliatti tra D'Alema e Bertinotti. Il ministro degli esteri polemico sulle critiche alla Bolognina: «Un tentativo liquidato senza generosità»
di Andrea Fabozzi


«Io non sono mai stato ingraiano», dice Massimo D'Alema a un certo punto del suo intervento davanti a una platea di compagni e amici piena d'affetto per i novantuno anni di Pietro Ingrao. E Ingrao si sporge un po' ad ascoltarlo dall'angolo sinistro del tavolo, le mani serrate sui revers della giacca, davanti a lui una copia di Volevo la luna, il suo libro di memorie che si sta presentando. Nel Pci si è sempre detto che tutti - almeno da giovani, almeno per un po' - sono stati ingraiani. D'Alema no, lui era togliattiano già da pioniere e Togliatti infatti fece in tempo ad apprezzarlo.
Con Togliatti Ingrao ci litigava, dice Fausto Bertinotti, perché nonostante tutto credeva nel partito che Togliatti rappresentava. E ha continuato a crederci fino all'XI congresso, quando tutti i delegati applaudirono in piedi il suo intervento di critica alla «linea» e il gruppo dirigente restò immobile per iniziare subito dopo a punire e allontanare tutto quanto sapesse di ingraismo. Era quarant'anni fa. Dopo, secondo D'Alema, Ingrao cominciò un progressivo allontanamento dal centro dell'azione politica. Diventando «un testimone testardo e non più un leader in grado di costruire una risposta politica». D'Alema è appunto togliattiano. Non perché - oggi - faccia troppi sconti a quel capo «che incarnava il drammatico intreccio tra la funzione nazionale e democratica del partito e il rapporto con lo stalinismo». Ma perché ne perpetua lo schema logico, la «matrice culturale». Ingrao, dal '66, a D'Alema (che aveva 17 anni, ma ha letto attentamente il libro) appare «rinchiuso» perché «rinuncia a influire». Vive il comunismo come «rapporto con i movimenti sociali» e «sguardo al mondo degli oppressi» mentre il comunismo si è concretamente presentato come tutt'altra cosa, cioè «progetto politico-statuale che ha sempre guardato con sospetto i movimenti sociali». Ingrao insomma, secondo D'Alema si è collocato «al di fuori della storia comunista» rinunciando ad incidere anche di fronte «al tentativo di Berlinguer di stabilire un rapporto con il mondo cattolico» eppure proprio Ingrao aveva capito per primo l'importanza del rapporto con quella cultura, molto prima (e diversamente) del compromesso storico. L'accusa è netta e persino irrituale per una serata in onore, ma è nelle corde dell'attuale ministro degli esteri. Per il quale, in sostanza, nel libro e nella vita politica di Ingrao «colpisce l'incapacità di delineare un'uscita a sinistra dallo stalinismo». E alla fine - riprendendo un'osservazione di Ida Dominijanni che nell'introduzione aveva detto che sarebbe stato interessante poter leggere nel libro di Ingrao anche qualcosa sugli anni Novanta, sulla liquidazione del Pci e quella scelta di dire di no ma restando «nel gorgo» - D'Alema tira fuori anche l'ultimo sassolino: «La mia generazione ha vissuto come ingenerose le tue critiche» alla Bolognina e a quello che ne seguì. Mentre tutto al contrario Rossana Rossanda sul manifesto di ieri ricordava come quando in quel fatale 1990 si radunarono attorno ad Ingrao le speranze di chi voleva ricominciare fuori dal Pds, lui non se la sentì.
Forse perché, è il ricordo di Luciana Castellina, lei sì «ingraiana doc», chi seguiva Ingrao non si è mai sentito come una frazione «e forse avremmo fatto meglio ad organizzarci». E di nuovo il rammarico non è per il '69 quando Ingrao compì il suo «errore più grave» votando per la radiazione del gruppo del manifesto perché secondo Castellina «eravamo gli estremisti dell'ingraismo». Il rammarico è per la mancata scelta di vent'anni dopo.
Secondo Fausto Bertinotti, invece, dopo l'XI congresso la ricerca di un'uscita da sinistra dallo stalinismo non si è interrotta, come sostiene D'Alema. Solo si è spostata altrove «non più dentro il Pci». Per Bertinotti nelle memorie di Ingrao - il «comunista della libertà» - in quegli anni c'è il segno di quello spostamento, dai dialoghi con i dirigenti del partito a quelli con i sindacalisti dei consigli: «Il tema del comunismo dal '68-'69 non si declina più a partire dalla centralità del Pci ma da quella delle masse».
E' ancora la dimensione cui Ingrao si sente più vicino, anche se intervenendo «emozionato» al termine della serata riavvolge il filo del suo «personale», quello che Dominijanni all'inizio aveva indicato persino come un rischio di «congedo» dalla politica. Ritorna agli anni della formazione, la resistenza: «Peccato che io non sappia scrivere così bene per rappresentare i nostri sentimenti quando il mondo era sull'abisso». Allora e oggi. «Vorrei che nel mio libro si leggesse una domanda 'a che punto siamo?'». Ed è curioso per un libro di memorie che si fermano al '76. Ma Ingrao riprende il filo di quel suo battesimo del fuoco e si cala nella polemica di oggi. Ci viene in mente il revisionismo alla Giampaolo Pansa e, magari, anche la difesa che ne ha fatto il presidente della Repubblica mentre sentiamo il vecchio comunista chiudere «in collera» perché «sento parlare in questo modo della resistenza su certi giornali e da certi giornalisti. Dovrebbe rammaricarsi anche chi sta in stanze più in alto di questa, dove forse si tace troppo».

Repubblica 25.10.06
L'anziano leader della sinistra alla presentazione del suo libro "Volevo la luna" critica anche Giampaolo Pansa
Ingrao e la Resistenza: "Neanche il Colle la difende"
di Alessandra Longo


ROMA - Collera. Pietro Ingrao usa la parola collera, unita al «disgusto», per definire il suo stato d´animo di fronte a coloro che liquidano «in quel modo» la guerra partigiana quasi fosse un peso sulla strada della cosiddetta pacificazione, quasi si trattasse di un capitolo imbarazzante. Una denuncia «di certi giornali e certi giornalisti» (ad essere evocato è chiaramente Giampaolo Pansa) ma anche un monito a «chi, in stanze che stanno più in alto di quella dalla quale stiamo parlando», sceglie di non intervenire nel merito (qui il riferimento è, con ogni evidenza, al presidente della Repubblica). A novant´anni, solo la voce è diventata un po´ fragile ma le parole sono affilate, scelte accuratamente davanti alla platea romana che è venuta a sentir parlare del suo ultimo libro «Volevo la luna». Ci sono Fausto Bertinotti, «addirittura presidente della Camera», come ironizza amabilmente Ingrao, il ministro degli Esteri Massimo D´Alema, «uno che gira il mondo», e Luciana Castellina, «che è quel che è, Luciana», l´amica prediletta, ingraiana doc. Dunque «collera», dice il leader comunista, le mani strette sul microfono: «Non capisco il silenzio di chi sta in alto, si tace forse troppo rispetto a quel che accade, al modo con cui viene oggi descritta da taluni la guerra di liberazione». E poi anche un´altra accusa: «Si tace troppo sulla guerra. Tutti quelli che hanno in mano le chiavi del potere la praticano, con più o meno saggezza. E la speranza della pace sembra cancellata. Io vi chiedo, chiedo ai presenti: la parola pace è stata bandita?».
Ecco la zampata di Ingrao, «il vecchietto», come lui si autodefinisce per civetteria. Ascolta senza prendere appunti, anche cose per nulla compiacenti, come le riflessioni di D´Alema, divise in due, prima le lodi, poi la critica: «A te, Pietro, va la nostra gratitudine generazionale. Hai accettato la disciplina del partito con sofferenza personale, hai vissuto sulla tua pelle l´intrecciarsi drammatico tra la vocazione democratica del Pci e il rapporto con lo stalinismo, hai vissuto un´idea di comunismo come strumento di riscatto degli oppressi e degli umili, un comunismo che è il più distante possibile da quello realizzato. Sei rimasto nel partito, testardamente, al limite dell´eroismo, e il tuo permanente conflitto con lo stalinismo ha offerto a noi giovani dei varchi, ci ha consentito di vivere nel Pci senza dover passare per i tuoi traumi, per le tue prove. Il nostro ´56 fu il ´68, l´invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ma in molti, dentro il partito, furono capaci di dire di no...». Testardo, «cultore del dubbio che immunizza dal fondamentalismo, comunista della libertà», come lo chiama Bertinotti, però anche «ingeneroso», dice, alla fine, D´Alema, pensando agli anni della Bolognina: «Abbiamo sentito il peso di una critica spesso ingenerosa nei confronti dei nostri tentativi di continuare a far vivere l´idea di una sinistra capace di rinnovarsi e cambiare».
Ingrao, il viso impassibile, registra l´affondo di D´Alema, sempre lui, che pensa sia stato più uno splendido testimone che non «un leader in grado di dare una risposta politica» alla crisi dell´esperienza comunista. Segue, a compensazione, l´analisi affettuosa di Fausto Bertinotti. Il presidente della Camera riconosce al vecchio leader di aver avuto quell´intuizione che «dà un senso nuovo» all´essere comunisti, oltre l´Urss, oltre il Pci: la scelta della nonviolenza, il rapporto con i movimenti che criticano la globalizzazione capitalistica. Per ultimo, tocca a lui. Non risponde a nessuno. Ha qualcosa che gli preme dire. Qualcosa contro «certi giornalisti che in questi giorni» si occupano della guerra partigiana «in quel modo». Qualcosa contro chi, «nelle stanze alte», potrebbe parlare ma «tace troppo». E dall´alto dei suoi 90 anni, guarda avanti, non indietro: «Vi sono zone del pianeta che bruciano. Agli amici che sono qui io dico: vorrei che nelle aule dove voi lavorate parlaste meno di eventi epocali e più di quel che sta succedendo, del ritorno alla guerra. Vi faccio una domanda: la parola pace ha ancora un senso?».