sabato 8 novembre 2008

l'Unità 8.11.08
L’Onda non si ferma
a Roma la polizia carica
di Maristella Iervasi


L’Onda non si arresta, la Gelmini con il suo «pacchetto» sugli Atenei non è riuscita a fermare le proteste. Universitari e liceali, come da copione, ieri hanno paralizzato tutte le città d’Italia: da Torino a Cagliari.
A Roma la manifestazione più grossa (25mila persone), finita con gli scontri tra poliziotti e studenti alla stazione Piramide per l’occupazione simbolica dei binari ferroviari. Una mossa improvvisa, che ha spiazzato la Digos, e intesa a sollecitare Trenitalia ad organizzare treni speciali per lo sciopero del 14 novembre. Ma non appena un gruppo di universitari è riuscito a bypassare il cordone delle forze dell’ordine e scavalacare i tornelli, è partita una gragnuola di manganellate. Un ragazzo di Scienze Politiche della Sapienza è finito in ospedale per i «colpi» sulla testa; Laura Mari, cronista de «La Repubblica» ha un braccio gonfio e gli occhiali spaccati. Ma per la questura «la polizia non ha fatto alcuna carica», i manifestanti «hanno lanciato bottiglie e altri oggetti verso gli agenti che hanno respinto il corteo. Numerosi gli agenti feriti».
Chi si è trovato sotto i manganelli racconta una storia diversa. Chiara G., 21 anni, fuorisede di Taranto e studentessa di Filosofia: «Volevamo pacificamente provare ad occupare i binari della stazione, ma quando ci siamo avvicinati ci hanno aggrediti. Mi hanno buttata a terra, in un angolo - racconta la ragazza - e avevo un poliziotto addosso che mi manganellava. Mi diceva: “vattene str..”». Chiara è rientrata alla «Sapienza» a bordo del camioncino dei manifestanti e ha una busta col ghiaccio sulla testa. Sul parabrezza l’immagine taroccata di Papa Ratzinger con i baffetti di Hitler. Accanto alla giovane contusa c’è un altro ragazzo dolorante. Per l’Onda parla Giorgio F., del collettivo di Fisica: «La prima carica della polizia è partita a freddo. Non è vero che siamo stati noi a lanciare oggetti e che loro si sono dovuti difendere. Noi abbiamo avanzato verso i poliziotti con le mani alzate...». In realtà un errore gli studenti l’hanno commesso: hanno confuso la stazione Piramide con l’ Ostiense.
«Vergogna! Fascisti! Rispettiamo solo i pompieri» è stato il coro che poi ha accompagnato i manifestanti alla Sapienza, dove i ragazzi si sono riuniti in assemblea per preparare l’autoriforma sull’Università che verrà votata da tutti i collettivi degli Atenei d’Italia nella due giorni di assemblea generale il 15 e il 16.
Comunque i tre cortei hanno tenuto sotto scacco Roma dalle 10 alle 17. In piazza della Repubblica, non lontana da Termini, un gruppetto di 3 ragazzi e una ragazza di Blocco studentesco, con caschi, svastiche e croci celtiche, aveva cercato di infiltrarsi tra i liceali che aspettavano gli universitari. Giorgio, dall’alto del camioncino musicale del collettivo, ha subito urlato: «Fuori!». E la Digos li ha fatti allontanare. In via Cavour Sara e Daniela di Psicologia hanno «incollato» mutande di carte sulle vetrine delle banche, altri hanno lanciato uova contro i bancomat contro il governo «che taglia i fondi agli Atenei per darli ai banchieri. Ma noi la crisi non la paghiamo». E così fino a piazza Venezia, dove dal Campidoglio sono confluiti nella manifestazione gli studenti di Roma Tre. Prossima tappa, ministero dell’Istruzione. E invece l’Onda blocca Ponte Garibaldi e lungotevere . Poi l’ennesima beffa: la polizia indossa caschi e scudi e si schiera sui gradoni del ministero della Gelmini, l’Onda grida: «Il ministero non ci interessa, blocchiamo la città». E via verso Piramide.


l'Unità Firenze 8.11.08
Contro il governo traffico bloccato dagli studenti a Firenze, Siena e Pisa
di Galgani e Giglioli


Binari occupati ieri alla stazione centrale di Pisa, mentre a Firenze in 60 si sono incatenati alla ringhiera del Battistero e a Siena un gruppo di ricercatori precari ha lavato i vetri delle auto nei pressi di Porta Romana.
È oggi a Firenze il grande giorno dell’assemblea nazionale del movimento studentesco di protesta contro le politiche del governo su scuola e università: studenti medi e universitari da tutta Italia arriveranno alle 14 al Polo di viale Morgagni. Intanto, la giornata di ieri è stata ancora contraddistinta da iniziative di protesta.
FIRENZE
Gruppi di studenti hanno manifestato in varie zone di Firenze, improvvisando volantinaggi e mini cortei, a tratti bloccando il traffico: a Novoli, in viale Forlanini, in piazza Leopoldo, in viale Redi e a Porta al Prato (viali intasati fino al tardo pomeriggio). Il corteo è stato seguito dalla Digos, che vaglierà i comportamenti dei partecipanti. Alcuni hanno occupato simbolicamente un autobus, ma c’è anche chi si è incatenato alla ringhiera intorno al Battistero: erano almeno in sessanta delle scuole superiori. «Voi incatenate la scuola pubblica, noi ci incateniamo al Battistero» lo slogan dei manifestanti. Dopo è stato preso di mira Berlusconi per la sua gaffe su Obama, gli studenti hanno raggiunto piazza della Signoria urlando: «Non siamo abbronzati». A Empoli hanno sfilato 2mila studenti ieri in una manifestazione anti Gelmini. C’erano anche alcuni rappresentanti del Csa Intifada. Mentre ieri sera al Polo di Sesto si è svolta la lezione di fisica di Umberto Guidoni.
SIENA
Un gruppo di ricercatori precari e di studenti dell’Università di Siena ieri ha protestato contro la 133 fermando il traffico a Porta Romana dove hanno lavato i vetri alle auto. Poi, studenti e ricercatori hanno raggiunto in corteo (in tutto quasi mille persone) Porta Camollia dove hanno bloccato il traffico.
PISA
Ancora una giornata di mobilitazione a Pisa, contro la legge 133. Binari bloccati alla stazione centrale ieri mattina: occupati da circa trecento studenti, medi e universitari, che hanno preso parte al corteo da piazza XX settembre. La protesta alla stazione (presenti polizia e carabinieri) è scattata intorno alle 10,45: i ragazzi se ne sono andati poco dopo mezzogiorno, con un bilancio di 5 binari occupati per un’ora e mezzo, qualche fumogeno acceso all’esterno dello snodo ferroviario e diversi ritardi e cancellazionidelle corse dei treni (anche su Firenze), senza però nessun problema di ordine pubblico (anche se per la questura ci sono state intemperanze). L’occupazione puntava a ottenere un colloquio con i responsabili delle Ferrovie sulla trasferta a Roma per la manifestazione del 14 novembre: niente di fatto ieri, ma gli studenti avrebbero ottenuto un incontro a Firenze. Il Polo Carmignani è stato liberato ieri, dopo un mese di occupazione iniziata il giorno della prima grande assemblea. Poi, un centinaio di studenti universitari dell’Assemblea del Polo ha occupato parte del Palazzo Matteucci: una forma di protesta che «non intralcerà la didattica» ma durerà una settimana. Non si fermano le lezioni in piazza.

Repubblica 8.11.08
Gli studenti riscoprono Mirafiori "Non si vedevano da trent´anni"
Gli universitari davanti ai cancelli della fabbrica torinese. Incontro con gli operai
Solo i più anziani si fermano a parlare, i giovani scivolano muti sotto la pioggia
di Curzio Maltese


TORINO - «Guarda, gli studenti! Trent´anni che non ne vedevo uno ai cancelli di Mirafiori. Dove siete stati, ragazzi?». Patrizia, operaia al reparto cambi, esce dal turno del mattino e va incontro al drappello di studenti col megafono come andasse incontro ai suoi vent´anni. È passata tanta storia davanti al cancello 20 di Mirafiori ed è trascorsa la sua vita. «Cinquantaquattro anni, trentaquattro in Fiat. Questo, se Dio vuole, è l´ultimo». Sono tanti gli operai a fermarsi, con sorpresa, al volantinaggio degli universitari torinesi. Ma sono soltanto gli anziani. I giovani, un centinaio, si stringono nei giubbotti e scivolano muti sotto la pioggia, verso il tram, casa, letto. Da lontano sembrava una scena d´altri tempi. Il fiorire di ombrelli all´uscita del turno, gli studenti col megafono, il solito cielo livido, l´eterno odore di ferrovia, le facce stanche e quelle incazzate. Da vicino si capisce che sono passati trent´anni e una rivoluzione, anche se non quella immaginata. Allora gli studenti e gli operai appartenevano a mondi lontani, ma si parlavano. Gli studenti erano travestiti da rivoluzionari, però figli di borghesi, con accento del nord. Gli operai erano vestiti normale, parlavano dialetto meridionale fra di loro, venivano da altre storie, altri luoghi, altre famiglie. Due popoli.
Oggi sembrano tutti uguali, almeno i giovani. Hanno gli stessi piercing e tatuaggi, bluse e calzoni a vita bassa. Frequentano probabilmente gli stessi locali sul lungo Po, conoscono la stessa musica, usano un vocabolario comune. Ci sono più meridionali fra gli studenti che fra gli operai. Quelli già laureati, i ricercatori, guadagnano 1000 euro al mese, contro i 1400 di uno specializzato della meccanica, straordinari compresi. Fra gli studenti c´è qualche figlio di operaio e fra gli operai qualche figlio di capo Fiat. «Perché ormai anche per entrare in fabbrica ci vuole la raccomandazione», spiega Vincenzo, 55 anni (37 in Fiat). Le facce, quelle sono diverse. Perché un ricercatore o un fuoricorso di trent´anni ne dimostra venti e un operaio di venti ne dimostra dieci di più. In ogni caso, non riescono a parlarsi.
«Oè, Peter Tosh, fai il bravo che perdo l´autobus!», dice uno e scarta di lato lo studente con trecce rasta e megafono. Il rasta ci rimane male e un anziano operaio s´avvicina per consolarlo. Si chiama Cataldo, 58 anni, «40 in Fiat». Ancora? «È per mia figlia. Per mantenersi a Legge andava a lavorare al mercato, un mazzo così per 3-400 euro al mese. Ho deciso di rinviare la pensione. I compagni giovani, sì insomma i colleghi perché compagni magari non lo sono, rimangono dei bravi ragazzi. Ma sono sotto ricatto, hanno paura di farsi vedere a far casino, per questo tirano via.».
Studenti e operai uniti nella lotta, nella Torino d´oggi, è uno slogan fuori dal tempo. «Ma i due mondi si annusano», dicono alla Fiom «e scoprono d´avere in comune lo stesso problema: il futuro». Sono stati gli operai stavolta a chiedere la solidarietà degli studenti nelle assemblee universitarie. È venuto Epifani qualche giorno fa a dire che Torino è l´epicentro della crisi. Chi sostiene ancora che l´economia reale non è stata travolta dalla "bolla" partita dall´economia di carta della finanza, dovrebbe venire qui, farsi un giro per la città più manifatturiera d´Italia, l´angolo più "reale" del Paese. Soltanto nell´ultimo mese la Motorola ha chiuso gli stabilimenti, lasciando a casa 370 persone, Pininfarina ha 1400 lavoratori in cassa integrazione a zero ore e Bertone 1224, la Seat ha annunciato 150 esuberi su 1300 posti, Daico e Michelin hanno proclamato lo stato di crisi. La città stringe la cinghia, i negozi sono deserti, quelli di via Roma come i centri commerciali in periferia.
La città guarda con il fiato sospeso a Mirafiori, spera nella tenuta della Fiat. Viale Marconi ha deciso il raddoppio della cassa integrazione da 1600 a 3200 lavoratori. «Se viene giù la Fiat e ricomincia l´incubo di anni fa, prima dell´era Marchionne, allora è la tragedia sociale, per Torino e non solo per Torino», dice Giorgio Airaudi, segretario della Fiom. Le previsioni sono nere. Secondo gli ultimi studi commissionati da viale Marconi si dovrà aspettare il 2013 per ritornare al livello di produzione auto dell´anno scorso. «Per questo penso che l´alleanza su un nuovo progetto di futuro sia inevitabile fra studenti e operai», conclude Airaudo.
Torino è da sempre un laboratorio del futuro. Qui è nata l´unità e tante altre cose, dal cinema alla televisione, dall´editoria alla ricerca applicata. Oggi il laboratorio del futuro torinese è il Politecnico, forse l´unica università davvero internazionale che abbiamo. Ai primi posti nelle classifiche europee. Il paradosso è che il Politecnico oggi lavora più per l´America che per Torino. Qui sta forse nascendo il nuovo motore che potrebbe risolvere i problemi di mercato della Fiat. Peccato che il progetto, che coinvolge nove dipartimenti del Politecnico, sia finanziato dalla General Motors. Il gigante dell´auto statunitense ha deciso di aprire proprio qui, all´interno delle mura del Politecnico, il suo più grande centro di ricerca europeo. Come si spiega l´assurdo? Lo chiedo al rettore Francesco Profumo. «La risposta è che siamo un paese per vecchi. Ed è la vera questione posta dal movimento di protesta degli studenti. La reazione a una crisi globale può essere soltanto l´investimento nella ricerca, nel futuro. Così fu nel ´29 e anche dopo. E invece qual è la risposta della politica? Quella provinciale, culturalmente miserabile, di considerare l´università un costo, invece di una risorsa». Alle due e venti il volantinaggio al cancello 20 di Mirafiori è finito, gli studenti si fermano a discutere. Marco si avvia a piedi verso la sua facoltà, Economia, a poche centinaia di metri. «Non li avevo mai percorsi prima, ma oggi è stata la miglior lezione di economia cui ho assistito nell´ultimo anno».

Repubblica 8.11.08
Ferita anche una cronista di Repubblica: urlavo fermatevi sono una giornalista, ma continuavano a colpire
Mani alzate, fughe e manganellate la battaglia della stazione Ostiense
di Laura Mari


Sono all´incirca le 15 quando gli studenti dell´Onda, dopo una giornata di cortei, arrivano alla stazione Ostiense, a Roma, per bloccare simbolicamente i binari. Stavo tentando di scavalcare i tornelli per raggiungere, assieme ai fotografi e agli altri cronisti, le banchine prima che arrivasse il resto del corteo. Ma è bastato attendere qualche frazione di secondo in più, giusto il tempo di aspettare che un cameraman oltrepassasse il tornello, per sentire le urla degli studenti dietro alle mie spalle e vedere più di una decina di agenti di polizia in tenuta antisommossa sferrare i manganelli contro di noi. Ho sentito un rumore sordo, un dolore improvviso alla testa. La prima manganellata.
Gli studenti si spintonavano per uscire dai cancelli sbarrati dalle forze dell´ordine. Urlavano agli agenti di smetterla di picchiare, tenevano le mani alzate. Ho trovato un piccolo passaggio nella ressa, mi sono coperta la testa con le mani e ho sentito il secondo colpo. Più forte, duro, secco. Sopra il gomito. Dietro di me una voce :«Di qua di qua, passate di qua» gridavano i pendolari della stazione. E mentre la polizia continuava a manganellare, sono riuscita a scappare, insieme agli studenti, dalla gabbia della stazione. Qualche ragazzo è caduto e, mentre tentava di rialzarsi, è stato colpito nuovamente dalle forze dell´ordine. A quel punto, dal corteo degli studenti che si trovavano fuori dalla stazione Ostiense sono iniziati i cori contro gli agenti di polizia. Sono volate bottiglie di plastica e di vetro, non più di una decina.
Mi sono guardata attorno: c´erano studenti che piangevano. Una ragazza si teneva la testa, un´altra si toccava il braccio dolorante. Un ragazzo perdeva sangue dalla testa. E tutto questo per aver cercato di scavalcare i tornelli e tentare di bloccare, simbolicamente, i binari di dei treni. Una decisione che gli studenti dell´Onda avevano preso almeno un´ora prima di raggiungere la stazione Ostiense. Lo avevamo capito noi giornalisti quando abbiamo visto i leader della protesta che concordavano il percorso con i dirigenti delle forze dell´ordine e ci sembrava impossibile che non lo avessero capito anche loro. Eppure, all´ingresso della stazione, gli agenti si sono schierati ai lati dell´edificio. Quasi ad attendere che gli studenti entrassero per poter poi intervenire.
Mentre mi accorgo che negli scontri mi si erano spaccati anche gli occhiali, sento una ragazza avvicinarsi e dirmi «vieni via, corri». Mi giro e mi rendo conto che gli scontri stanno ricominciando. Da fuori intravedo un fuggi fuggi davanti all´ingresso della stazione Ostiense. Poi torna la calma. E gli studenti dell´Onda tornano in corteo verso la Sapienza.

L’ipotesi di separazione si allontana, il governatore della Puglia sconfitto al congresso presenta una nuova associazione con Sd ma prende tempo. Tutto rinviato sulle liste per le Europee.
Una scissione dell’ala vendoliana di Rifondazione? Per ora l’ipotesi sembra archiviata. Lo ha fatto capire ieri Nichi Vendola, presentando a Roma l’associazione «La sinistra», che comprende oltre alla minoranza di Rc anche la Sinistra democratica di Fava e Mussi, il verde Cento, Umberto Guidoni del Pdci e numerosi intellettuali. L’associazione partirà ufficialmente il 13 dicembre, con la prima assemblea nazionale, per qualcuno (vedi Sd) dovrà diventare un soggetto politico, per altri serve per dare linfa al sogno della Grande Sinistra, ma senza troppa fretta. Anche perché tra i bertinottian-vendoliani più di uno non gradisce l’idea di una scissione e di una lista per le europee tra Vendola e Sd, uno degli sbocchi possibili dell’iniziativa. L’ha detto esplicitamente Augusto Rocchi, ma la pensano così anche Milziade Caprili («Di scissione neppure voglio sentir parlare»), Tommaso Sodano («Non sono interessato a fare un nuovo partito») e Raffaele Tecce. E Rocchi precisa: «Mi arrivano tantissime telefonate di compagni della nostra mozione che non vogliono scissioni». Non piace neppure l’idea, ribadita da Fava, che il Pd sia «alleato naturale» del nuovo soggetto di sinistra: «È un po’ più complicato», dice Caprili. Alfonso Gianni, fedelissimo di Bertinotti, ieri non c’era alla presentazione dell’associazione: «Da evitare una lista con Sd, ma Ferrero e la sua maggioranza devono ascoltare tutto il partito. Non vedo scissioni all’ordine del giorno, ma guai per tutti se ci si chiude a riccio». Lo stesso Bertinotti, in un faccia a faccia con Ferrero giovedì mattina, avrebbe rassicurato il segretario, spiegandogli che non intende sponsorizzare una scissione.
Dunque Vendola tira il freno. «Prendiamo tutti fiato», dice a Ferrero. «Io lancio un’offensiva unitaria, la scissione è un gossip». La proposta di Vendola è un «cartello elettorale» per le europee, con dentro tutta la sinistra, ognuno con la sua identità. «Ma non sarebbe la riproposizione dell’Arcobaleno». Vendola ritiene archiviato l’esito del congresso del Prc del luglio scorso, «Siamo in un’era geologica differente», e chiede al suo partito di cambiare linea con un nuovo congresso. Ferrero si rallegra: «Io la tregua la pratico da luglio, mi felicito che Vendola escluda ipotesi di scissione». Il segretario però chiude all’ipotesi di un congresso straordinario e ribadisce: «Oggi non è il momento per discutere su come andare alle europee». Poi annuncia che riunirà il parlamentino del Prc il 13 e 14 dicembre, proprio in concomitanza con il battesimo della nuova associazione. Il suo numero due Claudio Grassi è più duro: «Andremo alle europee con il nostro simbolo». Un esito verosimile: Ferrero potrebbe rinunciare all’idea di lista unitarie con il Pdci, caldeggiata da parti della sua stessa maggioranza, in cambio dello stop di Bertinotti alla scissione. Rocchi la spiega così: «Se fanno l’unità comunista allora me ne vado...».
Ieri alla presentazione l’hanno fatta da padroni i nomi della società civile, da Moni Ovadia al fisico Giorgio Parisi. Segno di quel carattere di cantiere «aperto e orizzontale» che dovrà avere la nuova sinistra. Ma Ovadia avverte: «Se fanno un altro arcobaleno non mi interessa...».

il Riformista 8.11.08
Dentro Rifondazione. Ora Bertinotti frena i suoi
«Non è tempo di scissioni»
di Alessandro De Angelis


Alfonso Gianni, uno che del "Bertinotti pensiero" è il custode, taglia corto: «La scissione non è all'ordine del giorno». Fausto è sceso in campo. Calma e gesso, ha detto ai suoi, almeno fino alle europee. Altri forzano i tempi: ieri il governatore della Puglia, presentando con il leader di Sd Fava, Paolo Cento dei Verdi e l'astronauta Umberto Guidoni del Pdci, l'associazione «La sinistra» - l'embrione del soggetto politico che verrà - ha lanciato un ultimo appello a Ferrero: un «cartello elettorale» di tutta la sinistra alle europee e un «congresso straordinario», visto che - anche grazie alla vittoria di Obama - «il quadro è cambiato». Ultimi avvisi prima di una scissione che molti - all'interno della sua corrente - preparano prima delle europee: «Se Ferrero ci dice no, ce ne andiamo».
Il "ma" si chiama: Fausto Bertinotti. L'ex presidente della Camera due giorni fa ha avuto un lungo colloquio con Ferrero. Tra i due la divergenza strategica è totale: uno vuole costruire una sinistra larga, l'altro non rinuncia alla falce e martello. Ma nel breve periodo le prospettive coincidono. Per Fausto, almeno fino alle europee, non si deve rompere. Soprattutto non serve un altro partitino tra Pd e Rifondazione. In questi mesi Bertinotti ha maturato la convinzione che i tempi per la ricostruzione della sinistra sono lunghi. E poco gli è piaciuta la gestione dell'area targata Vendola e Migliore. Pochissimo la richiesta, fatta da «Nichi», di un congresso straordinario.
Non è un caso che i suoi colonnelli sul territorio si stiano muovendo e non poco. Augusto Rocchi, ad esempio, influente in Lombardia: «Spero che nessuno pensi che l'associazione "La sinistra" sia l'embrione di una lista per le europee, o di una frazioncina subalterna al Pd. Non è il cartello elettorale l'elemento dirimente per una scissione. Dobbiamo pensare a ricostruire la sinistra. È un compito che non ha come scadenza le europee». Anche in altre regioni i bertinottiani mostrano più di una insofferenza. Tommaso Sodano, colonnello di Bertinotti in Campania afferma: «Non sono d'accordo con quel che dice Migliore. L'obiettivo di lungo periodo è costruire la sinistra, aggregando altre forze. Rifondazione serve ancora». Stessa musica tra i bertinottiani toscani. Taglia corto Milziade Caprili: «Sono d'accordo con Bertinotti per antonomasia. Non sto preparando nessuna scissione. E sbagliata è la richiesta di congresso straordinario. Se il problema della sinistra è mettere insieme Fava, Cento e Guidoni, non c'è trippa per gatti. Anche se le repliche degli uomini di Ferrero sono barbare». Fausto è tornato.

l'Unità 8.11.08
Immigrati, schiaffo della Ue all’Italia
«Contrari al principio d’uguaglianza»
Nuovo sganassone dell'Unione europea al governo italiano. Dopo la fitta corrispondenza che ha portato il ministro Maroni a una clamorosa marcia indietro sul "pacchetto sicurezza", a Palazzo Chigi e al Viminale, dove debbono aver creato speciali uffici postali per smaltire le lettere con "richieste di chiarimenti" inviate dalla Commissione, è arrivata un'altra pioggia di letterine pepate. Stavolta non è solo il ministro dell'Interno al centro dell'attenzione: ci sono anche il suo collega all'economia Tremonti, il consiglio dei ministri nella sua interezza e il garrulo titolare del dicastero dei rapporti con l'Unione europea, che non si capisce perché prenda ancora lo stipendio visto che praticamente ormai da Roma non arriva a Bruxelles provvedimento che non sia contrario alle norme dell'Unione.
Nel mirino del commissario alla Giustizia Barrot, che pure in passato ha fatto di tutto (forse anche troppo) per non litigare con il governo italiano è finita la legge 133 del 6 agosto, la manovra finanziaria che, per intenderci, ha decretato pure i tagli su scuola e università. Barrot ha fatto sapere al Parlamento europeo, rispondendo a una interrogazione della deputata Donata Gottardi (Pd-Pse), di aver "sollecitato le autorità italiane" a fornire spiegazioni su ben quattro articoli della legge (11, 20, 81 e 83) che appaiono oggettivamente discriminatòri verso gli stranieri e perciò contrari al diritto comunitario.
L'art. 11, che riguarda il cosiddetto "piano casa", stabilisce che soggetti destinatari degli interventi possano essere solo "gli immigrati…residenti da almeno 10 anni nel territorio nazionale ovvero da almeno 5 anni nella medesima regione". La limitazione - fanno notare gli uffici di Barrot - è contraria al principio dell'eguaglianza che il diritto comunitario garantisce a tutti gli "ospiti" di lunga durata nei paesi della Ue. Anche l'art. 20 (disposizioni in materia contributiva) prevede la stessa, illecita, discriminazione nei confronti di chi è in Italia da meno di 10 anni. L'art. 81 (settori petrolifero e del gas) esclude invece tutti gli stranieri da una "carta acquisti" riservata espressamente ai "residenti di cittadinanza italiana" (insomma, una specie di jus sanguinis al distributore) e l'art.83, prevedendo un programma di controllo fiscale ai residenti da meno di cinque anni, insuffla il dubbio, offensivo e soprattutto sbagliato, che gli immigrati evadano le tasse più degli italiani. Bocciato anche questo.
Che cosa succederà, ora? Sulle misure in materia di "sicurezza" Maroni ha potuto far marcia indietro, a suon di bugìe espresse e di bugìe per omissione, perché si trattava di disposizioni governative o di decreti attuativi di direttive comunitarie. Ma la 133 è una legge e modificarla alla chetichella non è possibile neppure nel paese delle facce di bronzo. L'ipotesi più probabile è che il governo Berlusconi faccia finta di nulla e rischi il procedimento di infrazione e la condanna da parte della Corte di Giustizia europea. L'Italia con il suo razzismo strisciante e l'insofferenza verso il diritto continuerà ad allontanarsi da Bruxelles.

Repubblica 8.11.08
Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet
Non sparate sui nuovi adolescenti


In un libro dello psichiatra il sorprendente ritratto di una generazione denigrata dagli adulti che invocano il ritorno alla cultura del castigo
Se vogliamo motivarli allo studio, bisogna aumentare moltissimo competenza e capacità educativa della scuola
È improbabile che si riesca a sottometterli al rispetto delle regole con lo spauracchio di inflessibili punizioni

MILANO. Non è solo un intellettuale brillante, uno studioso serissimo, un clinico da sempre in trincea: Gustavo Pietropolli Charmet sembra il cantore di quella generazione così enigmatica, indecifrabile, composta da I nuovi adolescenti (secondo il titolo di un suo libro pubblicato anni fa da Raffaello Cortina). È uno psichiatra di formazione freudiana, ha settant´anni, ha insegnato per una vita alla "Bicocca", è ancora attivissimo a Milano con i suoi giovani pazienti, quelli che lui definisce tristi - con disarmante semplicità.
Di Charmet è uscito un tascabile ricco di idee inconsuete ma molto fondate, che traccia un sorprendente identikit di questi ex bambini prodigiosi, piccoli imperatori vezzeggiati e ora confusamente immersi nella lunga cerimonia dell´addio all´infanzia, ormai sulla ribalta del grande teatro della crescita. È un librino molto denso nella sua agilità, rigoroso e chiaro, destinato soprattutto ai tanti genitori e insegnanti spesso disorientati, spiazzati, allarmati dai comportamenti "normali" ma non per questo meno oscuri e problematici dei ragazzi alle prese con l´età incerta, fatta di rituali bizzarri, scarti, arresti, e poi improvvise accelerazioni: s´intitola Fragile e spavaldo. Ritratto dell´adolescente di oggi (Laterza, pagg. 126, euro 10).
Nelle conclusioni, Charmet accenna con qualche preoccupazione alle ricette sbrigative dell´attuale governo per il sistema al collasso dell´istruzione italiana. Non c´è traccia di un programma ma solo la volontà - malissimo dissimulata - di destrutturare la scuola pubblica, con quei "tagli" massicci e indiscriminati che colpiscono un ceto sociale squattrinato e debolissimo sul piano del prestigio sociale. Oltre alla trovata risibile del ritorno al grembiulino, alla riedizione di un´improbabile e non richiesta vicemamma nel ruolo di maestra unica, c´è qualcosa di più nelle intenzioni di questa cultura di destra che osanna la semplificazione contro il culto della complessità di una sinistra intellettuale percepita come parolaia e inconcludente. Intanto si cerca di ristabilire nelle aule un clima fondato sulla minaccia, dal ripristino del voto in luogo del giudizio: un numero secco per inchiodare i ragazzi alla mortificazione di un fallimento scolastico, alla bocciatura per il 5 in condotta: un provvedimento che non spaventerà i bulli - quelli veri, disperati e violentissimi.
Per Charmet, e non solo per lui, gli adulti hanno da un pezzo abbandonato il sistema educativo della colpa e oggi con affanno si chiedono se la relazione che gli adolescenti stabiliscono con l´autorità e soprattutto con la realtà sia adeguata. «Si sente parlare ovunque - scrive - di nuove regole da proporre ai giovani, di "paletti" da ricollocare negli snodi cruciali della crescita... C´è l´impressione che sia avvenuta una diserzione di tutti coloro che avrebbero dovuto sorvegliare affinché i paletti rimanessero al loro posto e non venissero divelti da branchi di giovani inselvatichiti». Il punto è se sia possibile ristabilire una comunicazione con questi adolescenti limitandosi a un puro salto all´indietro. O se questa operazione sia forse rassicurante per il bisogno di certezze che imperversa, e però del tutto illusoria. Da qui parte la nostra intervista con Charmet.
Si può tornare alla cultura del castigo - come se i "nuovi adolescenti" somigliassero anche solo vagamente a quelli degli anni Cinquanta?
«Mi sembra un discorso male impostato. Una scuola che parla retoricamente di regole, di principi, di valori ma non è capace di costruire una quotidianità fondata sulla relazione, sulla passione per la conoscenza, sulla partecipazione attiva - una scuola così non va bene. Per il momento si vedono solo "tagli" e trovate di sapore demagogico: nessun progetto culturale o di rifondazione della scuola italiana».
Sì, professore, ma in attesa di un progetto appena credibile, un po´ tutti ormai sembrano d´accordo sulla necessità di modelli educativi più forti, più severi: magari quelli di una volta, degli anni precedenti alla "contestazione" e al clima permissivo che ha prodotto...
«Non importa essere favorevoli o contrari al tentativo di ripristinare il vecchio ordine, perché comunque per poterlo fare i ragazzi dovrebbero essere disponibili a riconoscere alla scuola un significo etico e simbolico, ma non lo sono affatto: è del tutto improbabile che si riesca davvero a sottometterli al rispetto delle regole con lo spauracchio d´inflessibili castighi».
Cos´è allora che si dovrebbe fare per coinvolgere di più questi adolescenti descritti come campioni di nichilismo, senz´altro spesso indifferenti e svogliati?
«Se vogliamo recuperarli alla motivazione allo studio - e questo sì: a me sembra davvero uno dei problemi più gravi che abbiamo in Italia - bisogna aumentare moltissimo la competenza e la capacità educativa della scuola: lasciata così, non è all´altezza di uno scenario globale che proprio non consente scelte intellettualmente pigre. Della qualità degli studi, di un´adeguata trasmissione dei saperi, di questo si sente parlare poco e niente, mentre prevale la tendenza temibilissima a scivolare nelle semplificazioni più aberranti e anche pericolose perché illudono sulla possibilità di risolvere i problemi, e invece non fanno che rimandarli e dunque sostanzialmente aggravarli... È tutto un gran chiacchiericcio politico e anche mediatico rassicurante per la massa degli adulti più spenti, vuoti di ideali, perfettamente robotici».
Leggendo i suoi libri - e quest´ultimo, in particolare - sembra molto più severo con questi adulti che con i suoi adolescenti narcisisti, fragili e spavaldi. A lei, questi ragazzi fanno simpatia. E infatti scrive: "Chi conosce i giovani, finisce per apprezzarli". Lei li conosce: cosa apprezza di loro?
«A rischio di apparire buonista o anche idealizzante, non sono favorevole alla denigrazione massiccia che subiscono questi ragazzi che invece sì, io tendo ad apprezzare. Quando sono dentro una relazione con un adulto abbastanza competente, sono molto etici, s´impegnano sul piano della narrazione di sé, mostrano una grande capacità di ricognizione della loro mente. A dispetto delle apparenze, sono affettivi: ad esempio, la loro vita di coppia è molto più evoluta di quella degli adolescenti di un tempo, hanno un livello di autonomia reciproca elevato, non coltivano eccessivamente il sentimento della gelosia, magari hanno smarrito il senso della grande passione amorosa, onirica, a vantaggio però di una certa pacatezza e stabilità. Soprattutto hanno introdotto una pariteticità reale tra maschile e femminile che senz´altro avrà una ricaduta sui loro rapporti più maturi, sulla genitorialità futura, sulla vita familiare e nei rapporti con i figli... A me non sembra poco».
Ma chi è l´adulto "abbastanza competente". I genitori no, gli insegnanti neppure... Sarà lo specialista, il terapeuta, uno come lei?
«No, per questi adolescenti l´adulto competente è chiunque coltivi ed esprima una forte passione per "qualcosa". Ecco, quando individuano qualcuno che secondo loro va bene, in base a criteri anche difficili da decodificare, possono esserne soggiogati. Anche un docente un po´ svitato, ma realmente appassionato della sua materia, diventa un punto di riferimento, una risorsa. Gli altri adulti - quelli opachi - non sono contestati, non sono avversari da abbattere, semplicemente rimangono del tutto irrilevanti».
Lei sta parlando dei ragazzi "normali", non proprio di quelli che indulgono nelle varie condotte a rischio e conquistano i notiziari... Sembra invece piuttosto preoccupato da quello che definisce il fenomeno della reclusione volontaria: davvero può esserci il rischio di un rifugio difensivo nel mondo del virtuale?
«Sì, credo che il virtuale possa mettere al riparo dallo sviluppo di sintomi psichici gravi. Nessuno deve vedere l´adolescente troppo fragile per reggere lo sguardo dell´altro, mille volte meglio restare in relazione senza corpo: è la celebrazione della più radicale delle difese rispetto all´eventualità di sperimentare il sentimento sociale della vergogna. Sarà allora il caso di incoraggiare gli adolescenti a incamminarsi verso la condivisione, a non temere i traumi e le mortificazioni. Diversamente i nostri ragazzi seguiranno le orme dei loro colleghi giapponesi: un milione di ragazzi spariti dalla circolazione, chiusi nella loro cameretta a comunicare on line, come in un ospedalino da campo nelle retrovie della vita».

Corriere della Sera 8.11.08
Gli eroi sbagliati dell'Isola Nuda
Dunja Badnjevic racconta il padre stalinista che finì senza piegarsi nell'inferno di Tito Il dialogo Incontro con la scrittrice serba, che descrive in un romanzo le sofferenze della sua famiglia perseguitata in Jugoslavia per un falso ideale conversazione tra Claudio Magris e Dunja Badnjevic


«Goli Otok isola della pace, isola di assoluta libertà — dice il dépliant turistico — Mare straordinariamente pulito, ambiente immacolato, immerso nel silenzio». Quelle due isole paradisiache dell'alto Adriatico sono state per anni un inferno. Il regime titoista jugoslavo le aveva trasformate in due Lager, in cui finirono non solo ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la seconda guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto deportati politici e, in particolare, quei comunisti, compagni nella lotta di resistenza partigiana contro nazismo e fascismo, che, quando Tito nel 1948 ruppe con Stalin erano rimasti fedeli, per fede nell'idea universale marxista, al comunismo ortodosso e cioè — allora — a Stalin.Finirono così a Goli Otok, l'Isola Nuda, eroici combattenti per la causa della rivoluzione mondiale d'improvviso ferocemente perseguitati dai loro stessi compagni e dal regime jugoslavo che avevano contribuito a costruire, liberando il Paese dal nazifascismo. Fra essi c'erano anche circa duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste e i Lager nazisti, che si erano battuti in Spagna contro Franco e si erano recati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a edificare il socialismo nel Paese più vicino. In quell'inferno, sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi comunisti provenienti dall'Est e posteggiati dal Pci quali scomodi testimoni della politica stalinista del partito che si voleva dimenticare.È una storia che mi ha ossessionato per tanti anni, sulla quale ho scritto un libro, il romanzo Alla cieca; dopo essere stata a lungo rimossa e taciuta, questa vicenda è riemersa alla consapevolezza, ha dato origine a molte indagini storiche ed elaborazioni memorialistiche ed è stata resa nota soprattutto attraverso il libro di Giacomo Scotti «Goli Otok, ritorno all'isola calva» (ed. Lint), che ne documenta e illustra tutte le fasi. Anche la letteratura ha dato voce a quella tragedia, soprattutto attraverso la scrittura di testimoni sopravvissuti; fra le opere in italiano va ricordato il romanzo autobiografico Martin Muma del poeta rovignese Ligio Zanini.Ora è uscito, scritto in italiano, l'intenso, incisivo e conturbante romanzo-verità L'Isola Nuda di Dunja Badnjevic (Bollati Boringhieri), nata a Belgrado e residente da più di quarant'anni in Italia, traduttrice e promotrice nel nostro Paese di letteratura serba, bosniaca e croata, e traduttrice di autori italiani in serbo, esempio di un'identità culturale che, pur restando fedele alle proprie origini, si trasforma e si arricchisce acquisendo, attraverso l'avventura della lingua, una valenza intellettuale e umana in più. Lo specchio Adriatico, come dice un libro del poeta e saggista croato Tonko Maroevic, è stato fecondo di questi rimbalzi culturali; un altro esempio è Ljiljana Avirovic, saggista e grande traduttrice dall'italiano in croato ma anche dal croato o dal russo in italiano.L'Isola Nuda è essenzialmente la storia del padre dell'autrice, Ešref Badnjevic, comunista internazionalista e partigiano, incrollabilmente fedele agli ideali universalistici, che finisce a Goli Otok e poi in un altro Lager all'interno della Jugoslavia. Attraverso la storia del suo calvario e della diritta fierezza con cui egli lo ha affrontato, emergono, con asciutta poesia che rende più intensa una nobile e indomita sofferenza, la storia di una famiglia, in estreme difficoltà sopportate con fermezza, e la storia di tutto un Paese, che inizia a rovinare calpestando i valori che lo hanno costruito e che esso stesso mina credendo di farlo per difendersi.Lei — le dico incontrandola a Roma — ha scritto un libro forte, «vero» umanamente, storicamente e personalmente. Una testimonianza personale che diventa romanzo. Come si è posta rispetto a tale rapporto tra la bruciante verità e quel tanto di finzione necessaria per articolarla in un racconto che ha pure un suo notevole spessore letterario? È stato esistenzialmente difficile?Badnjevic — Non è stato difficile perché è un documento-verità, non c'è alcuna finzione. Era un po' come un'auto-analisi e una catarsi attraverso tutto ciò che abbiamo vissuto io, mio padre e il mio Paese. Ho perso un padre nel momento in cui ne avevo più bisogno, prima, e ho perso una patria che amavo, quasi visceralmente, dopo. Da qui il mio neologismo «apolitudine»: sentire ad un tratto cancellato tutto un vissuto e avere solo la memoria per ricordare quel che gli altri cercavano di far sparire nel nulla. Affrontare un mondo in cui le vittime di ieri oggi non si riconoscono come tali, in cui i nomi delle strade e delle città sono cambiati. Che cosa significa ora aver combattuto per la patria e per un mondo migliore, se nella storia ufficiale quello non era il mondo migliore e nemmeno la patria era più quella? La realtà dei Balcani ha superato di gran lunga ogni possibile previsione.Magris — Ciò che mi ha sempre commosso, in questa terribile vicenda, è il contrasto fra l'eroismo morale di questi uomini come suo padre e altri, pronti a sacrificare se stessi alla causa dell'umanità, e il fatto che essi si siano battuti e sacrificati (e forse pronti a sacrificare pure altri) in nome di Stalin, che, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in una Isola Nuda. Lei come sente questo contrasto? A parte l'amore personale per suo padre e l'oggettiva ammirazione per la sua dirittura, lo vede anche come in parte oggettivamente colpevole o almeno in errore?Badnjevic — Colpevole no, ha agito in totale buona fede, facendo male solo a se stesso e alla sua famiglia. Bisogna rapportarsi a quegli anni quando i comunisti di tutto il mondo credevano che Stalin dei gulag non sapesse niente, che le responsabilità fossero degli Jagoda, degli Ezov, dei Beria. Mio padre non è mai stato in Russia. Credeva, sbagliando, nell'internazionalismo che necessitava, almeno all'inizio, di uno Stato guida, in un mondo in cui tutti davano secondo le proprie capacità e ricevevano secondo i bisogni. Se il socialismo avesse vinto in Germania, diceva, tutto sarebbe stato molto diverso. L'Unione sovietica era un Paese troppo povero, arretrato e grande. Anche se in molti Paesi dell'Est, Russia compresa, ci sono ancora oggi coloro che credono di aver pagato un prezzo troppo alto per la fine del socialismo reale.Magris — Negli anni recenti c'è stato un intenso dibattito su questa storia che si voleva far dimenticare; studi storici, saggi, testimonianze, opere letterarie. C'è stato qualche testo o qualche autore importante per l'ispirazione di questo libro?Badnjevic — Sono usciti tanti saggi, ovviamente dopo la morte di Tito. Un testo letterario fu scritto ancora negli anni 70 da Dragoslav Mihajlovic, Quando fiorivano le zucche, ma ne fu vietata la diffusione. Il romanzo più fortunato sull'argomento fu Tren 2 di Antonije Isakovic. Mihajlovic era tra i più giovani «ospiti» del-l'Isola e ha pubblicato due grossi volumi di ricordi. Ci sono stati qualche tentativo di riabilitazione dei detenuti, qualche convegno e incontro ufficiale. A uno di questi ho preso parte: era veramente toccante vedere i vecchi superstiti rincontrarsi e ricordare. Poco dopo è arrivata la fine della Jugoslavia travolgendo tutto come un uragano. Che cosa poteva significare il destino di poche decine di migliaia di persone rispetto agli orrori di una guerra che si spalancavano davanti al Paese?Magris — Questa terribile storia è una tragedia del movimento rivoluzionario mondiale, un tramonto — temporaneo o definitivo? — del sole dell'avvenire ed è anche una tragedia jugoslava, quasi un lontano preludio della dissoluzione di quel Paese. Lei sente un nesso, sia pur lontano e simbolico? Come ha vissuto e come vive lei il tracollo del socialismo jugoslavo, la dissoluzione della Jugoslavia e la deformazione o cancellazione della sua memoria storica?Badnjevic — Ogni volta che tornavo mi sentivo, come dicevano le mie amiche, una rana buttata nell'acqua bollente, stupita ed esterrefatta. Loro invece erano state immerse in acqua fredda e portate all'ebollizione lentamente. Credo che il declino inarrestabile del socialismo inizi nel 1956 quando le incertezze del gruppo dirigente sovietico e la mediocrità della classe dirigente delle democrazie popolari impedirono il necessario e radicale mutamento e critica della teoria e della pratica politica del socialismo e il suo adeguamento ai tempi nuovi. Se si fossero date risposte serie e sincere ai tanti «perché» del '56, forse oggi non ci troveremmo in un mondo in cui non invidio la giovinezza delle mie figlie e dei miei nipoti. Io, figlia di un vecchio comunista, credevo «nel sol dell'avvenire». In quei principi elementari di solidarietà umana e di internazionalismo che avevano caratterizzato gli albori del socialismo. Lei nel suo Utopia e disincanto ha scritto: «Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo ».Il gulag dell'Isola Calva oggi (sopra, da un reportage di Alberto Simalan) e fotografato dal prigioniero Ante Lukateli (da «L'inferno della speranza» di Ante Zemljar)

Corriere della Sera 8.11.08
Simboli Un originale percorso proposto dallo storico della Normale di Pisa nella «Giustizia bendata»
Così la legge divenne cristiana
Nessun dualismo tra peccato e reato, Adriano Prosperi replica a Paolo Prodi
di Alberto Melloni


Il velo e lo sguardo hanno una relazione potentissima, capace di evocare i più diversi significati da un tempo remotissimo fino all'oggi.Il velo è uno strumento di seduzione, di allusione: come quello grezzo e morbido che copre l'intera testa dei protagonisti di alcuni celeberrimi ritratti di Magritte, i cui connotati rimangono nascosti e semplicemente intuiti da uno sguardo che non incontra l'altro sguardo. È un velo, anzi, una veletta quella forma secolarizzata di pudicizia che per moda deve togliere l'immediatezza allo sguardo femminile del Novecento, ponendolo al di là di una soglia alla quale dà accesso il matrimonio («salute your wife», dice il celebrante ammettendo al bacio lo sposo). Ed è un velo quello che copre i capelli e il volto delle monache bizantine che la morale islamica guarda con uno spirito di emulazione da cui evolveranno tutta una serie di simboli religiosi, dal hijab al burka. Ma il velo sugli occhi è anche la metafora di una ignoranza invincibile, incolpevole, inescusabile. È quello che nasconde la rivelazione agli increduli e che l'arte medievale caricaturerà (in senso antisemita) nel passo della seconda lettera ai Corinzi, rappresentando la sinagoga come una vecchia bendata, a fronte della bellezza di una giovane dallo sguardo chiaro e profondo che dovrebbe rappresentare l'ecclesia.Nella letteratura — perfino nel suo volgarizzamento lirico, come ci ricorda la benda con cui viene beffato Rigoletto — il velare gli occhi, sigillando la conoscenza nella interiorità, diventa il momento in cui la verità ultima diventa inaccessibile. E la Bibbia ebraica e cristiana offre altre velature simboliche, come quella di Mosè il cui viso divenuto radiante nell'incontro con l'Onnipotente viene celato perché non fulmini i suoi, o quella fornita dalle nubi delle teofanie che impediscono che la purezza dell'eterno stecchisca di colpo ciò che è mortale, o il velo pietoso che copre il volto del condannato immortalato dall'icona della veronica che imprime il viso di Gesù sulla tela, o quell'ancora più celebre del sudario che, come reclama la devozione alla sacra sindone, vela e svela l'umanità del cadavere del crocifisso.Ma c'è un velo molto particolare, specifico, al quale Adriano Prosperi s'è dedicato con l'erudizione e il senso storico che sa cavalcarla con eleganza: ed è il velo che copre gli occhi della giustizia nella rappresentazione di alcune culture. Giustizia bendata. Percorsi storici di un'immagine (Einaudi, pp. 259, e 34) cerca infatti con successo le origini di una figura che condivide con tutte le altre declinazioni la polisemia del rapporto sguardo-velo. Prosperi ha trovato l'origine di questa immagine: Basilea, 1494. Da lì, dalla bottega di un incisore né celebre né bravo, questa figura «frutto dell'umor nero di un uomo di legge e della collaborazione di un pittore o di un tipografo, in una città universitaria geograficamente centrale ma appartata » (p. 54) trova vie inattese. Alla giustizia bendata tocca il compito di interpretare un desiderio nuovo attorno ad una entità che già gli egizi avevano rappresentato con la bilancia in mano. Prosperi, infatti, è convinto che quella figura e il suo successo dipendano dalle trasformazioni che entrano nel mondo della giustizia, nella sua amministrazione, dopo la rivoluzione del diritto consumatasi con l'arrivo del diritto romano e di quello canonico al cuore delle nascenti università.Il nodo, al fondo, è la «modernità» in senso largo: quella che inizia ben prima del 1789 e della quale la teologia cristiana è assai più la balia che non la vittima. Basta leggere le pagine per Prosperi più facili (più facili perché riprendono i risultati delle sue monumentali ricerche sui tribunali della coscienza) per capire come, dietro discussioni apparentemente tecnicissime (il condannato a morte deve ricevere i sacramenti o no? e perché nel suo patibolo è iscritta così spesso, dopo la fine del Trecento, la figura stessa della passione di Cristo alla quale viene assimilato?) ci siano questioni immense.E se non mi sbaglio Prosperi in questo volume suggestivo, ricco di immagini da tutti i punti di vista, prende le distanze da un'altra opera di enorme importanza dedicata alla Storia della giustizia da Paolo Prodi alcuni anni fa, appena citata in una nota. Prodi aveva insistito sul dualismo profondo, permanente, inserito dalla fede cristiana nella civiltà giuridica europea: il dualismo fra foro esterno e foro interno, fra peccato e reato, spiegavano in quella grande ricerca movimenti, scarti, crisi della giustizia dell'Occidente. Prosperi non polemizza con quel quadro, la cui vastità in fondo esclude le coerenze dei dettagli: ma si posiziona in modo diverso. Nota cioè come «l'idea cristiana di giustizia pervenne a legittimare il potere politico e la tradizione giuridica romana conferendo loro una investitura divina» (p. 84). Al di là di tutte le ortografie dualiste, sarebbe dunque un potente motore storico quello che spinge il bisogno di giustizia sopra alle teologie della giustizia, per fornire alla società un regolatore — la giustizia, appunto — di cui la benda evoca l'imparzialità e il limite, la cecità e l'incorruttibilità, il fascino, l'ignoranza. A far da contrappeso resta solo l'angelo della storia, quello di Klee dagli occhi di infantile, apocalittica enormità. Perché come diceva Massimo il confessore «perfetta è quella mente che, in suprema ignoranza, conosce il supremo inconoscibile».L'autore Adriano Prosperi (1939) insegna Storia moderna alla Normale di Pisa. Tra i suoi libri più recenti, Dare l'anima, Einaudi (2005)

Corriere della Sera 8.11.08
Medicina I temi di oggi rivisitati con il padre fondatore
Ippocrate a confronto con l'eutanasia
di Marco Nese


Immaginiamo di chiedere a Ippocrate la sua opinione riguardo ai supremi interrogativi che oggi tormentano le coscienze. Sì o no all'eutanasia? È cosa buona e giusta prolungare le sofferenze di un corpo ridotto a vegetale? Che ne direbbe il sommo padre della medicina? Un cardiologo (Massimo Fioranelli) e un giornalista (Pietro Zullino) hanno provato a investigare gli antichi testi e a ipotizzare quali ammaestramenti avrebbe offerto la sapienza di Ippocrate (Io, Ippocrate di Kos, Laterza, pp. 140, e 19). Ne hanno ricavato un testamento fittizio nel quale il grande maestro non pronuncia sentenze decisive, ma dispensa consigli che denotano una sua saggia «way of life».Ippocrate non si sente di dire che il medico debba insistere con l'accanimento terapeutico, ma nemmeno gli riconosce il diritto di sopprimere una vita umana. Combattere il dolore è una buona missione. Quanto a ognuno di noi, il vecchio maestro sembra ammonirci a «fare amicizia con la morte», a non averne paura perché «la morte è il giusto compimento della vita» e «l'immortalità non è lo scopo della medicina». Al di là della finzione, questo libro può anche essere letto come un sorprendente testo di storia. Ippocrate si muove su uno sfondo reale: Atene e Sparta si dissanguano in guerre fratricide, i Persiani premono alle frontiere, mentre fiorisce un'epoca straordinaria di cervelli destinati a influenzare le generazioni nei secoli avvenire, Socrate, Democrito, Platone ( sopra), Tucidide, Aristofane. E lui, Ippocrate, che per primo liberò la medicina dalle pratiche magiche e dagli oracoli ai quali i sofferenti chiedevano sollievo. Invece di ricercare l'origine dei malanni negli influssi nefasti degli astri, insegnò a interrogare il corpo, ad auscultarne le pulsazioni, affidandosi al metodo empirico.

Corriere della Sera 8.11.08
Nicla Vassallo processa il mito di Simone de Beauvoir
di Antonio Carioti


Dimenticare Simone de Beauvoir? Non basta. Non è sufficiente chiarire che «non ha più nulla da dirci ». Bisogna smascherarla, denunciarne «l'alterigia, l'indifferenza, la competitività nei confronti delle donne». E soprattutto evidenziarne l'incapacità di coniugare l'universo femminile al plurale, la deleteria insistenza sul «concetto di donna» al singolare, quasi a definire un'essenza immutabile, la quale altro non è che «una finzione al servizio del maschilismo ». A stroncare in questi termini Il secondo sesso, celebre e ponderosa opera di Simone de Beauvoir ora riedita dal Saggiatore, è Nicla Vassallo, docente di Filosofia dell'Università di Genova. Il suo articolo, pubblicato dall'Indice dei libri del mese lo scorso ottobre, è un'autentica filippica, rivolta anche contro i francesi che hanno celebrato in pompa magna la loro connazionale nel centenario della nascita, da Elisabeth Badinter a Bernard-Henri Lévy. Altrettando duro il giudizio sul compagno di Simone, il filosofo Jean-Paul Sartre: la celebre coppia viene definita moralmente «infida», oltre che «priva di un'effettiva originalità intellettuale ». D'altronde certe espressioni spregiative verso le lesbiche che Nicla Vassallo cita da Il secondo sesso lasciano sgomenti, tanto da far ritenere che, firmato da un'altra autrice, quel libro sarebbe una bestia nera del mondo gay. Comunque i casi sono due. O queste accuse sono infondate, ma allora non si capisce perché nessuno finora abbia cercato di confutarle. Oppure Nicla Vassallo coglie nel segno, ma allora viene da chiedersi perché per tanto tempo il testo più noto di Simone de Beauvoir sia stato presentato come il contrario di quello che è. Urge qualche spiegazione.

Repubblica Torino 8.11.08
L'ateo Odifreddi si scopre leader Applausi alla controinaugurazione
"Il vero problema della riforma è l'ingresso dei privati che sarà devastante"
"I tagli della Gelmini valgono mezzo miliardo, l'ora di religione ci costa il doppio"
di Federica Cravero


Pochi ma buoni. Non è riuscita a mobilitare le folle la contro-manifestazione organizzata di fronte al Politecnico come risposta all´inaugurazione ufficiale dell´anno accademico che si teneva all´interno. Ma quelli che c´erano, circa trecento tra studenti, ricercatori e anche qualche docente, hanno seguito con attenzione gli oratori che dal palco parlavano in maniera critica delle trasformazioni che scuola e università sono destinate a subire con il piano di tagli previsti dal governo. Colpa forse del tempo piovigginoso, o forse del programma fiume che prevedeva appuntamenti dalle dieci del mattino a mezzanotte, incluso il monologo «teatro per ingegneri» dell´attore Beppe Rosso e un concerto di vari gruppi torinesi tra cui i Fratelli Sberlicchio, mentre Giulietto Chiesa, atteso nel pomeriggio, ha dato forfait.
Verso mezzogiorno è arrivato anche il corteo di solidarietà partito da Palazzo Nuovo occupato, che si è sistemato ai piedi del palco dove una bara con tanto di fiori e ceri simboleggiava la morte dell´università. Stesso palco da cui ha parlato anche Ciro Argentino in rappresentanza dei lavoratori Thyssenkrupp uniti nella lotta degli studenti e una rappresentante dei genitori.
A scaldare i presenti ci ha pensato Piergiorgio Odifreddi, matematico e docente di Logica, oltre che scrittore. «L´università è veramente in una situazione disastrata e va riformata ma non certamente utilizzando gli strumenti previsti da questa legge - ha detto a proposito della 133 - Il vero problema è voler fare una trasformazione verso il privato in modo indiscriminato. Ci sarà una spaccatura fra cultura scientifica e cultura umanistica, perché quale azienda vorrà investire su una ricerca nel campo della glottologia ad esempio?». Poi il discorso è finito sulla Chiesa: «I tagli di quest´anno ammontano a mezzo miliardo di euro, mentre pagare l´ora di religione nelle scuole costa allo Stato il doppio. D´accordo che non si può modificare con una legge un accordo con un paese straniero e non si può abolire quell´insegnamento, ma almeno potrebbe pagarselo la Chiesa». E poi è stato il momento della critica mirata al ministro Gelmini «che chissà come è arrivata lì, non facciamo polemiche... Ma sì facciamole, anche uno di Forza Italia come Guzzanti ha parlato di mignottocrazia». Applausi e risatine. È stato lui il «big» della mattinata, ha firmato qualche autografo, si è fermato a chiacchierare con gli studenti che lo avvicinavano, così come ha fatto con il rettore Francesco Profumo, passato a salutare, come un padre premuroso, i suoi ragazzi radunati sotto il monumento al Fante d´Italia. «Grazie per aver organizzato questo evento, per aver scelto la strada del dialogo e del confronto, anche duro, se è il caso - ha detto il rettore - Mi auguro che il governo ascolti e dia delle risposte. In questo momento ci vuole un fronte comune delle posizioni, dove si possa sentire la voce di tutti».

Il Messaggero 8.11.08
Il voto delle religioni: Barack conquista i cattolici


WASHINGTON Barack Obama, nonostante le sue posizioni a favore della libertà di aborto, ha conquistato l'elettorato cattolico statunitense: dai dati sugli exit poll diffusi dal Pew Forum on Religion and Pubblic Life (uno dei maggiori istituti statistici americani), il senatore afro-americano ha ottenuto il voto del 54% dei cattolici degli States, mentre il suo avversario repubblicano, John McCain, si è fermato al 44%.
Un salto in avanti notevole: nel 2004, il 52% dei cattolici avevano infatti votato per George W. Bush, e il 47% per il democratico John Kerry (cattolico, ma osteggiato dai vescovi perché troppo filo-abortista). Il senatore nero è avanzato anche tra i protestanti: il 45% di loro lo ha votato, anche se la maggioranza è rimasta repubblicana; nel 2004 Kerry aveva ottenuto il 40% del voto protestante.
I cristiani rappresentano la religione dominante negli Stati Uniti, ovvero circa l'82% di una popolazione di oltre 300 milioni di abitanti. Alle varie chiese protestanti tradizionali, divise in una decina di denominazioni (dai battisti agli anglicani, dai luterani ai metodisti) appartengono oltre il 50% degli statunitensi; i cattolici costituiscono il 25% circa della popolazione (un dato in continua crescita grazie ai latinos) e i restanti cristiani a comunità minori, come ad esempio i Testimoni di Geova.
Il dato interessante, sia nel caso dei protestanti che dei cattolici, è che il senatore di origine africana ha conquistato consensi tra i bianchi, anche se il guadagno più consistente è stato tra gli altri gruppi etnici. Obama è avanzato del 5% tra gli evangelici bianchi, tradizionalmente repubblicani, e del 4% tra i bianchi cattolici.
Sulla Cns, agenzia di stampa della Conferenza episcopale cattolica statunitense, si ammette che gli elettori hanno basato il loro voto in primo luogo su questioni come l'economia, l'assistenza sanitaria e la guerra in Iraq, anzichè su temi su cui tradizionalmente si incentrano le preoccupazioni religiose, come l'aborto o le unioni tra persone dello stesso sesso. Negli Stati dove i vescovi hanno martellato di più sulle questioni etiche, ad esempio in Missouri o in Pennsylvania, i cattolici hanno dato il loro voto in percentuale maggiore a McCain.
Stavolta la Conferenza episcopale americana, nella sua dichiarazione pre-elettorale Faithful Citizenship, aveva sì sottolineato l'importanza dell'aborto tra i criteri di scelta, lasciando però alla fine libertà di coscienza ai propri fedeli. Evidentemente nè il “laico” McCain nè l'ultraconservatrice Sarah Palin davano sufficienti garanzie.
Contro Kerry, invece, i presuli erano stati molto più duri, favorendo, nonostante le divergenze sull'Iraq, la vittoria di Bush junior.

Ansa 7.11.08
Cinema: Anteprima di "Contamination", il dramma dei malati psichiatrici

FIRENZE, 7 NOV - Il regista russo Rodion Nahapetov e l’attore americano Eric Roberts, fratello di Julia, hanno presentato oggi a Siena il film ’Contamination’ proiettato in anteprima al «Terra di Siena Film Festival». «Contamination’, è stato spiegato, è un thriller basato su eventi realmente accaduti che illustra ciò che è avvenuto e continua ad avvenire nelle cliniche psichiatriche. In Russia, come in molti altri paesi, milioni di persone, in seguito all’esperienza della clinica psichiatrica, perdono ogni diritto fino a non poter più lavorare, viaggiare, guidare un auto. Il film vuole contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica in merito ai pericoli degli istituti di igiene mentale, rivendicando diritti per il paziente e l’approvazione di leggi che permettano al malato di essere reintegrato a pieno nella società. La madre dello stesso Nahapetov, Galina Proponenko, ha raccontato il regista, è stata tra le vittime di torture psicologiche avvenute nel corso di esperimenti psichiatrici. »Ma non è un film biografico - precisa il regista - È un thriller e come tale rispetta delle regole proprie. Riguardo a mia madre va detto che nell’epoca sovietica la psichiatria era considerata come massimo strumento di punizione. Mia madre diceva che Lenin aveva sbagliato nel fare la rivoluzione e per questo motivo fu ricoverata in un istituto psichiatrico«. (ANSA). YME-GRO 07-NOV-08 16:14 NNN

venerdì 7 novembre 2008

l’Unità 7.11.08
Nitto Palma cambia versione: «Piazza Navona, la destra ha aggredito»
di Claudia Fusani


I numeri dell’Onda
Da metà settembre sono state 650 le manifestazioni degli studenti. Sono 134 gli istituti e 10 le facoltà occupate, 29 gli istituti medi autogestiti. 190 i giovani denunciati in tutta Italia.

Il procuratore di Roma Giovanni Ferrara ha già ricevuto due informative dalla Digos. Gli investigatori stanno ancora esaminando video e filmati sulle violenze. Accertata l’identità di oltre 30 persone coinvolte.
«Le riprese hanno evidenziato che appartenenti al Blocco Studentesco, intorno alle 11, hanno alzato cinghie verso altre persone». E’ stato il blocco di destra, quindi, ad attaccare per primo quello di sinistra. Ad accendere la miccia che ha incendiato piazza Navona. Il sottosegretario all’Interno Francesco Nitto Palma torna davanti al Parlamento per la seconda volta in una settimana per spiegare come sono andate le cose la mattina del 29 ottobre mentre il Senato faceva diventare legge il decreto Gelmini sulla scuola dell’obbligo e l’Onda degli studenti, fuori, cercava di impedirlo. Per il sottosegretario è il secondo tentativo di ricostruzione in meno di una settimana. Ma ancora una volta inciampa in una racconto parziale e frettoloso. Con questo clima, che vede il ritorno di opposti estremismi in piazza, forse, anche pericoloso.
Ha detto ieri Nitto Palma: «Uno del Blocco (la destra, ndr) spalleggiato da un altro, ha colpito una persona ripresa di spalle anch'essa in possesso di una cinghia. Contemporaneamente altri giovani studenti si sono allontanati spaventati. Le immagini inoltre - ha aggiunto - documentano che quelli del Blocco Studentesco, avanzando con atteggiamento aggressivo, si sono avvicinati al camion dei Cobas presente in piazza Navona determinando l'allontanamento degli studenti».
Ecco come il sottosegretario aveva raccontato gli stessi fatti venerdì della scorsa settimana: «Ad attaccare sono stati gli studenti di sinistra» ed è «usuale che durante le manifestazioni i mezzi con altoparlanti raggiungano piazza Navona». Che in quel mezzo (del Blocco Studentesco ndr)ci fossero poi nascoste mazze e bastoni, è stata probabilmente una sottovalutazione da parte delle forze dell’ordine «che però hanno agito con equilibrio e prudenza».
Sono, come si vede, due versioni opposte. Figlie, entrambe, di informative della Digos e del Dipartimento della Pubblica sicurezza ancora però «parziali, non complete». Perché questa fretta nel voler attribuire la colpa degli incidenti?
E’ come se il governo avesse fretta di chiudere, di passare oltre, di non tenere più questa roba sui giornali. Meglio archiviare e parlare d’altro. Ma l’esclation di tensione dell’ultima settimana lo impedisce. E somma errori ad errori. Nitto Palma condanna come «inqualificabile» l’aggressione a Chi l’ha visto. Dai banchi del Pd e della sinistra radicale si alzano richieste di non sottovalutare quello che sta accadendo, «dagli assalti squadristi» alle «minacce».
L’unica cosa certa è che la Digos di Roma sta ancora visionando video e filmati. E i paletti non sono ancora tutti fermi. Tutto comincia poco dopo le 10 e 30 quando qualcuno del Blocco si leva la cintura dei pantaloni, la impugna come insegna il video Cinghiamattanza e la fa esplodere sulla testa di un giovane di 37 anni di sinistra. E’ la prima battaglia. Poi si ferma tutto, all’improvviso, così come era cominciato. E sempre all’improvviso riprende verso mezzogiorno, con la sinistra che affronta la destra. Il procuratore di Roma Giovanni Ferrara ha già avuto due informative.

l’Unità 7.11.08
Escalation fascista. «Succederà qualcosa»
Minacce a giornalisti e in televisione
di Claudia Fusani


È ormai un’escalation quella dell’estrema destra. L’altro ieri a «Matrix» l’avvertimento. Dopo l’irruzione a «Chi l’ha visto?» poco dopo la trasmissione. E quel che è accaduto una settimana fa.
«Noi vi stiamo avvisando: sta per succedere qualcosa. Se continuate a soffiare sul fuoco succederà qualcosa». Interno di Casa Pound, il centro sociale di estrema destra, centro di Roma, nei pressi della stazione Termini. Gianluca Iannone, il leader quarantenne in piazza Navona la mattina del 29 ottobre e nel commando che lunedì sera ha violato la sede Rai e la redazione di Chi l’Ha visto, risponde alle domande del giornalista di Matrix. Voce tranquilla, espressione concentrata di chi sa che le parole possono essere pietre. Il tema è sempre lo stesso: chi ha dato il via, di chi è la colpa degli scontri. Ma soprattutto, il tipo di informazione, quelle che Iannone chiama le “campagne mediatiche” della sinistra. Il leader di Casa Pound attacca e precisa: se si continua così,con «la faziosistà di Chi l’ha visto», a criminalizzare l’occupazione «simbolica, momentanea ultraveloce e futurista» di via Teulada o «il nostro diritto a voler stare in piazza», c’è il «rischio che succeda qualcosa di più grave». Che si ritorni, precisa Iannone, al clima di contrapposizione violenta tra gli estremismi politici, «a quello che è successo in Italia per sessant’anni». A un passato mai passato.
«Noi vi avvisiamo», dice. Dirà il tempo se è una minaccia, un’ intimidazione, una bravata. Oggi però questa frase va letta insieme ad altre dichiarazioni e ad altri fatti tra i quali non è ancora dimostrato il nesso di causalità. Ma che siano uno conseguenza dell’altro appartiene alla sfera delle cose probabili.
Agli analisti dei fenomeni eversivi non sfuggono alcuni dati di fatto che parlano di un crescendo preoccupante. Contro gli organi di informazione, prima di tutto. Martedì mattina dopo il blitz di Casa Pound in via Teulada alla redazione di Chi l’ha visto sono arrivate almeno quattro telefonate di minacce pesanti. Una diceva: «Questa è la segreteria nazionale di Forza Nuova e faremo su di voi, su tutti voi (giornalisti ndr)come ha fatto la trasmissione Chi l’ha visto. Chi ha visto voi, chi lavora con voi, dove abitate, nome e cognome. E poi verremo sotto le vostre case». Forza Nuova ha smentito la paternità della telefonata. L’europarlamentare Roberto Fiore, alla cui utenza è stata attribuita, nega. Tra Fn e Casa Pound, pur nella galassia di destra, non corre buon sangue. «Siamo come guelfi e ghibellini», precisa Iannone. Ed è sempre Forza Nuova che notte tempo ha firmato uno striscione proprio sotto casa, a Roma, del direttore di Repubblica Ezio Mauro. «Direttore - hanno scritto - basta odio e falsità». Ancora una volta Fiore ha dovuto respingere e negare: «E’ una provocazione, noi non c’entriamo, Fn ripudia le minacce ai giornalisti».
C’è un deja vu in questo crescendo. Un già-visto nei modi. E nei mezzi. Ha a che fare con certo squadrismo del tifo violento, dentro e fuori gli stadi. Certi fotogrammi di piazza Navona - le cinghie che roteano nell’aria a mo’ di mazza col peso della fibbia - ne ricordano altri, sempre scontri tra tifosi. Ci sono due ultras della Roma tra i 12 identificati nel blitz di via Teulada. «Cinghiamattanza» è la colonna sonora di un macabro gioco cult della destra capitolina. E’ disponibile sul web. Sembra d’essere in piazza Navona. Non c’è differenza.

l’Unità 7.11.08
Da «Militia» a «Forza Nuova»: la galassia dell’ultradestra
di Mariagrazia Gerina


Il libro Fascisteria li riunisce tutti sotto un'unica rubrica: I fascisti del Duemila. Dalla fine degli anni ‘90 nella capitale hanno ricominciato a moltiplicare sedi e luoghi di ritrovo. Prima lo stadio. E poi i pub, le sezioni di partito, i punti vendita di merchandising. E, ultime, le «occupazioni non conformi», che rifanno il verso ai centri sociali. Una galassia sparsa, che sa quando ricompattarsi. O nascondersi dietro una nuova sigla.
MILITIA
L’ultima metamorfosi si chiama «Militia». Nome che pesca nell’immaginario nazista. E si rifà all’omonimo libro di Leon Degrelle, belga votato a Hitler e alle SS. Dalla estrema destra romana viene utilizzata come firma fantasma, a cui affidare scritte fortemente razziste e antisemite. Dietro, ci sono «giovani con le teste rasate», qualcuno li ha visti il 24 settembre fuggire dopo aver attacchinato lo striscione contro Schifani ad Auschwitz. Ma una scritta meno nota («Noi fascisti, voi i soliti infami») campeggia ancora sui muri di una scuola in via Ungarelli, dove pochi anni fa sorgeva una sede di Forza Nuova.
FORZA NUOVA
Fondata dall’ex Terza Posizione Roberto Fiore nel 1997, Forza Nuova conta oggi a Roma 7 sedi e una sigla “amica” («In basso a destra») che continua a fare proseliti nella curva laziale. Decisa a sbarcare in periferia, nel 2004 tentò l’assalto a Centocelle e si scontrò con le forze dell’ordine. Il quartier generale è piazza Vescovio, dove, a due passi dalla sezione di via Montebuono, sorge il pub Excalibur. Da lì nell’estate del 2007 partì il raid contro il concerto della Banda Bassotti. Episodio che riunito ad altri e all’assalto alle caserme dopo la morte del tifoso laziale Sandri ha fatto scattare 20 rinvii a giudizio.
CASAPOUND
Architetture fasciste. Nell’atrio il Pantheon: da Mussolini a Capitan Harlock. Al primo piano accanto a Radio Bandiera Nera, la carta d’Europa con segnate le postazioni conuistate. Casapound, enclave neofasista nel multi-etnico quartiere Esquilino, è la roccaforte Gianluca Iannone e del Blocco studentesco. Ultima invenzione di Iannone, che lasciata a presidio della curva giallo-rossa la sigla «Padroni di casa», due anni fa ha deciso di sbarcare nelle scuole, dopo aver dato vita negli anni a un gruppo rock, gli Zetazeroalfa, un pub, il Cuttysark, 6 occupazioni non conformi (da Casamontag a Casa d’Italia) e svariate imprese politiche. L’ultima, fallita, con la Fiamma e Storace. Tra Fn e Casapound non corre buon sangue. Ma dopo gli scontri di piazza Navona, la formazione guidata da Fiore si è schierata con i militanti del blocco.

l’Unità 7.11.08
Il governo ci ripensa. Per gli Atenei sblocco del turn over e dei concorsi
di Maristella Iervasi


Pacchetto università: un decreto facciata e linee guida-spot di riforma. Al Cdm braccio di ferro sui concorsi anti-baroni. Poi vince la linea morbida di Fitto, Brunetta e Alfano. Parziale sblocco del turn over.
L’unico dato certo è che non ci sarà il blocco dei concorsi universitari. A poche settimane dallo svolgimento di quelli già banditi per (1800 per 3700 idoneità da professore e 320 da ricercatore) cambierà il meccanismo per la composizione delle commissioni di valutazione. Le prove slitteranno a gennaio per via dell’introduzione del sistema del sorteggio. «Nuove regole anti-baroni», lo spot. «Questa è la motivazione - sottolinea la ministra Maristella Gelmini in conferenza stampa dopo l’approvazione del Consiglio dei ministri, «salvo intese», al decreto e all’annuncio-spot sulle linee guida di riforma da tradurre in ddl condivisi - è la motivazione del ricorso alla decretazione d’urgenza». In realtà, la tanta auspicata trasparenza nei concorsi sarà solo di facciata.
Per ogni concorso ci saranno sempre 2 vincitori: uno che prenderà possesso della cattedra bandita e l’altro che potrà essere chiamato da altri atenei. Dunque, la protezione del «cocco» del barone non viene eliminata. La Gelmini, pressata dalla lobby accademica ma anche da quella trasversale di governo (i ministri Brunetta, Fitto e Alfano in testa), non ha avuto il coraggio di portare avanti il cammino intrapreso dall’ex ministro Mussi; non ha introdotto da subito il sorteggio di tutti i membri delle commissioni per le discipline di bando: ha solo triplicato l’elezione dei componenti, portandoli a 12. Tra questi ne verranno poi estratti 4 da una lista nazionale che giudicheranno i candidati. Regole «morbide» che di fatto non cancelleranno le distorsioni sui bandi univeristari. Come spiega Giuliano Cazzola (Pdl), vice presidente della Commissione lavoro della Camera: «Perché ci facciamo ancora del male? Il combinato disposto tra elezione e sorteggio finirà solamente a complicare le procedure. Senza mutare la sostanza delle stesse».
Pacchetto università. Un decreto di soli 3 articoli che il Cdm ha approvato dopo un lungo braccio di ferro tra ministri: La Russa e la Meloni per il sorteggio integrale. Poi la mediazione e l’ok ma suscettibile di modifiche dai ministeri competenti. Il decreto ieri sera non era ancora scritto e alla stampa è stato diffuso solo una breve sintesi. Tra i punti certi, l’annuncio che le università con i bilanci in rosso non potranno assumere personale. Al contrario, è previsto il parziale sblocco del turn over per gli Atenei virtuosi: inizialmente era al 20% rispetto ai pensionamenti, ora passa al 50% con un vincolo di spesa: il 60% dei fondi dovranno essere usati per assumere i giovani ricercatori. Per ogni docente in pensione, insomma, entrano 2 nuovi assunti. Dal blocco sono esclusi totalmente gli enti di ricerca. Ci saranno finanziamenti per chi «elimina corsi e sedi distaccate» e infine ci sono i fondi per le università virtuose: 500 milioni di euro (cioè il 5% del fondo del finanziamento ordinario) saranno distribuiti agli atenei con la produzione scientifica, l’organizzazione e la qualità didattica migliore. Ma rimane il taglio delle risorse per le Università previsto per il 2010: «C’è un anno di tempo per realizzare risparmi e rendere il taglio meno doloroso», ha chiosato la Gelmini all’osservazione di un cronista. Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in commissione Cultura a Montecitorio, prende in castagna il ministro: «Mariastella maestra unica si fregia di aver trovato 500 milioni di euro aggiuntivi per gli Ateni virtuosi ma quei fondi sono quelli che il governo Prodi - sottolinea la parlamentare - aveva inserito nella Finanziaria dello scorso anno per il triennio 2007-2009 per dare seguito al “Patto per l’Università” siglato nell’agosto 2007. Il decreto lascia inoltre aperto il problema dei tagli».
Infine il capitolo borse di studio: è previsto un incremento di 135 milioni di euro che sarà destinato ai ragazzi capaci e meritevoli. «180mila ragazzi avranno una borsa - ha detto Gelmini - tutti gli aventi diritto». Previsti anche 65milioni per nuovi alloggi: 1700 posti letto in più per studenti universitari e residenze universitarie. Ma con quale copertura finanziaria?

l’Unità 7.11.08
Sabina Guzzanti, show in piazza tra gli studenti: «È un regime conclamato»
di Silvia Casagrande


«Lezione» su satira, politica e mezzi di informazione. «Nel nostro Paese si può dire che Mangano è un eroe e Saviano un rompiscatole, vogliono restaurare uno Stato semidittatoriale».
«Fuori dalle palle. Sono qui per loro, non per voi». “Loro” sono gli oltre 2mila studenti accorsi in piazza della Signoria. “Voi” i fotografi e i cameraman che si accalcano attorno. Sabina Guzzanti, chiamata a Firenze per tenere una lezione su “Satira, politica e mezzi di informazione”, fa capire da subito cosa pensa dei media e della situazione politica del nostro Paese. «Siamo in un regime autoritario conclamato», dove «si può dire che Mangano è un eroe e Saviano un rompiscatole» e «c’è un disegno criminoso per restaurare uno Stato semidittatoriale».
Parla di censura narrando i suoi inizi di carriera. E ricorda il primo faccia a faccia con Silvio Berlusconi. «Mi trovai davanti a una macchina per fare soldi, senza principi, senza cultura, senza niente». Davanti a un sorriso di Sabina, l’allora presidente Fininvest commentò: «Ah, finalmente, mi sembrava di essere a un’assemblea del ‘68». «Ridiventai seria immediatamente - ricorda - Era la prima volta che sentivo parlare così del ‘68». I tempi sono decisamente cambiati, ma «non in meglio». E la Guzzanti individua nella «discesa in campo» dell’attuale premier uno dei momenti più tristi per la libertà di informazione in Italia. Perché «l’opposizione non impedì la candidatura di un soggetto in palese conflitto d’interessi» e «risorse il problema con la par condicio, una legge che ha tappato la bocca agli oppositori di Berlusconi ed è stata poi estesa dalla politica alla satira e a tutte le forme di libera espressione».
A lezione finita, l’attrice incoraggia gli studenti ad «andare avanti» per la loro strada, «senza cercare la visibilità dei media», perché «un’iniziativa ha valore per i suoi contenuti, non a seconda di quanto se ne parla». Risponde alle tante domande del pubblico, ma si irrigidisce quando un ragazzo chiede di fare una domanda su suo padre, “censurando” la domanda: «Se avete domande da fare a mio padre invitatelo, lui adora parlare in pubblico».

l’Unità 7.11.08
Rc, Vendola rivuole il congresso
Ferrero replica: così si muore
di Andrea Carugati


Nel Prc sono tornati i venti di tempesta. Come a fine luglio, nel torrido congresso di Chianciano che ha visto i vendoliani sconfitti di misura da Paolo Ferrero. Allora la scissione venne esorcizzata, ora, dopo 3 mesi da «separati in casa» (l’espressione è di Vendola), l’argomento è tornato in agenda. Naturalmente i vendoliani dicono di non volerla. Ma non escludono affatto che questo possa essere l’esito delle scontro. Ora il nodo della discordia sono le liste per le europee: i vendoliani vogliono un «cartello» di tutte le sinistre, candidati scelti con le primarie. Ferrero replica che «l’argomento oggi non è all’ordine del giorno». Vendola reagisce agitando un congresso straordinario, il segretario replica: «Ne abbiamo appena concluso uno, se facciamo altri 4 mesi di congresso demoliamo Rifondazione». Per Ferrero «oggi dobbiamo fare l’opposizione, se non ricostruiamo i rapporti con la società è inutile discutere sulle liste, prima bisogna creare le condizioni per prenderli, i voti». Però Ferrero non chiude del tutto la porta: «Al congresso abbiamo deciso di andare alle europee con il simbolo del Prc, ma ne discuteremo a tempo debito». Insomma, il segretario non vuole dare alcun alibi a chi pensa a una scissione. Però mena fendenti: «Sulle europee più che una proposta vedo una minaccia, ma non è la minoranza che detta l’agenda di un partito».
Oggi l’area del governatore pugliese, insieme a Sinistra democratica, il verde Cento e una nutrita pattuglia di intellettuali (tra cui Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Luciano Gallino e Margherita Hack) presenta il manifesto dell’associazione «La sinistra», che nascerà ufficialmente il 13 dicembre, avrà i suoi aderenti e li consulterà per un paio di mesi per scegliere simbolo e carta d’identità. «Dal congresso di luglio il mondo è cambiato, il Prc deve riflettere su questo», dice il vendoliano Gennaro Migliore. «C’è un onda di rivolta nel Paese e il partito non incrocia questo movimento». La replica di Claudio Grassi, numero due di Ferrero: «Volete fare un Arcobaleno-bonsai, è un errore». I due gruppi si muovono ormai come due partiti. In alcune realtà locali si sono già di fatto separati, come al Comune di Firenze, al Consiglio provinciale di Torino e tra poco anche a Bari: da una parte gruppi di «sinistra» con vendoliani e Sd, dall’altra il Prc ufficiale. Ma Ferrero non crede alla scissione: «Mi sembra fuori dal mondo che chi vuole unire tutta la sinistra faccia un altro partitino».

il Riformista 7.11.08
Rifondazione comunista
Curzi boccia la scissione: «Cambia tutto tranne noi»
di A.D.A.


«Questa scissione non ha senso»: l'ex direttore di Liberazione Sandro Curzi guarda quel che sta succedendo dentro Rifondazione.
Che idea s'è fatta?
Questa vicenda mi sta turbando. Leggo Liberazione. Titolo: «Sarà scissione nel Prc? Il dado non è tratto ma...». Poi leggo il pezzo: «tutto intorno il mondo sta cambiando». Mi chiedo: e noi stiamo allo stesso punto? Qualcosa non torna.
Che cosa?
Vendola, Ferrero... è politicismo puro. Parlare di scissione è da matti. Anche se credo che la faranno.
C'è un errore a monte?
L'errore, secondo me, è nel modo in cui siamo andati al governo senza un dibattito approfondito. Poi, e non per colpa di Rifondazione, ci sono stati due anni di tira e molla. Per farmi tornare il sorriso c'è voluto Obama.
Anche lei obamiano?
Non come dice Berlusconi. Dietro Obama c'è un movimento vero. In America, dopo la vittoria, non calcano la mano sui "democratici" ma sul movimento nella società. Bastava vedere la Cnn l'altra sera, mentre le tv italiane erano piene di chiacchiere. Il movimento è innanzitutto generazionale. È un fatto nuovo, straordinario.
Serve un Obama italiano?
In Italia più che un Obama serve un movimento nuovo.
E invece ci si accapiglia sulla falce e martello.
Appunto. Questo dibattito sul comunismo per come è stato impostato anche da Bertinotti mi ha fatto allontanare. Le pare una scoperta l'antistalinismo? Anche il Pci lo denunciò. Non è questo il punto.
Il punto è il fatto nuovo.
Esatto. Ho seguito questa vicenda della scuola. In molti l'hanno rappresentata usando il vecchio schema degli opposti estremismi senza capire nulla. Vedo troppo racconti vecchi in giro.
Anche nel Prc?
Questa scissione non ha senso. Se ho ben capito bene, quelli che la vogliono fare, cioè Vendola, la fanno in nome di una sinistra più grande. E intanto si scindono e ne fanno una più piccola. Non è un controsenso? Sd è ceto politico puro. Perché non guardiamo ai fatti di popolo come il Circo Massimo? Lì c'erano tanti compagni.
Ferrero però non vuole un'alleanza col Pd.
È un errore. Forse non è questo il momento di parlare di alleanze, ma la mia idea è sempre stata quella di un centrosinistra a due ruote: un partito riformista alleato con un partito della sinistra.
Nel frattempo Berlusconi ringrazia.
Esatto. E parla di Obama. Da comunista dico a Ferrero e Vendola: che si mettano da parte rancori, fatti personali, odi. In fondo, siamo tutti nello stesso filone. Ma dico io: ci rendiamo contro che la crisi del capitalismo produce fatti nuovi?
Consigli ai duellanti un libro.
Gli articoli di Gramsci sull'Ordine nuovo su massimalismo e voglia di scissione. E consiglio pure di guardare alla Cnn i volti di quei giovani che hanno votato Obama e capire cosa vogliono dire.

l’Unità 7.11.08
La lettera inedita
Gramsci, 1926. E Tatiana scrisse: «Lo libereremo»


Miei cari,
ho ricevuto la lettera della mamma e di Julia e la cartolina di Asja. Meno male che da voi le cose stanno migliorando, speriamo che tutto finisca bene e i bambini tornino a casa. Penso che Julia abbia già ricevuto la lettera di Nedolja (?) nella quale comunicava alcune cose sugli avvenimenti politici di qui. Per ora non si sa nulla di quale sarà l’accusa per i deputati arrestati. Antonio non è riuscito a partire per un caso sfortunato. Era partito per Milano la sera del giorno dell’attentato a Mussolini a Bologna. Non ne avevamo avuto notizia perché il fatto era accaduto di domenica, inoltre i redattori dei giornali di opposizione già da qualche tempo erano stati esclusi dalla sala stampa. Di giorno Antonio aveva pranzato da me, come al solito, dato che negli ultimi giorni l’aria non era del tutto tranquilla e non volevo che egli andasse in giro per la città; poi passò ancora da me prima della partenza e uscì così presto che, come mi ha raccontato in seguito, per mezz’ora camminò con un compagno accanto alla stazione e non sentì dire niente sull’attentato, altrimenti non sarebbe certo partito. E così, all’arrivo a Milano, alla stazione, gli fu comunicato che doveva o tornare a Roma o presentarsi alla Questura. Lo fecero tornare a Roma; voi avete certamente sentito parlare delle scelleratezze che si sono compiute qui per diversi giorni; Antonio per otto giorni non è andato in nessun posto, pranzava e cenava da me, anche il giorno in cui lo arrestarono era stato da me fino alle dieci e un quarto, uscendo disse l’ora. Lo stavano già aspettando nell’appartamento, sicché s’imbatté direttamente negli amici. Noi lo abbiamo saputo la mattina del giorno dopo. Io naturalmente mi sono preoccupata di fargli avere del cibo, lo ha portato Marietta. Caffè, zucchero, frutta, uova, una gallina. Da ieri abbiamo deciso di ordinare per lui il pranzo al ristorante e di mandarglielo nelle ore di ricevimento. Così sarà meglio come precauzione. Speriamo che l’avvocato riceva finalmente il permesso di vedere i detenuti e allora gli trasmetterò le notizie di casa sulla guarigione di Delio, ecc. Può anche darsi che li rilascino prima che siano trascorsi i 15 giorni richiesti per presentare l’accusa, e forse quando l’avvocato avrà il diritto di vederli. Forse il loro arresto rientra nella definizione di «fermo», li hanno presi alla vigilia dell’apertura del Parlamento. Penso che Antonio si senta forte e vivace perché capisce perfettamente la situazione e aveva previsto la possibilità dell’arresto e della perquisizione. Nel corso di tutta la settimana si era «ripulito» ed era riuscito a portar via le ultime cose prima dell’arresto. Avevano organizzato l’aiuto materiale per tutti, sicché non debbono mancare di nulla. Non appena saranno liberi, ve lo comunicheremo. Da noi, in vista delle paure diffuse, non c’è quasi lavoro, e mi hanno detto che forse io non ne avrò per niente tra un paio di settimane. Io non mi preoccupo particolarmente perché spero di organizzare qualcosa non so se qui stesso o in qualche altro modo. Dicono che per il posto di plenipotenziario debba venire Kamenev e che sua moglie è una persona molto interessante che forse si occuperà della questione dell’Istituto internazionale. Naturalmente io ho ancora del denaro, solo permettetemi di non mandarvi nulla per questo mese, poiché avendo la riserva della mamma mi sentirò più tranquilla e non mi agiterò inutilmente, ma forse tutto si sistemerà ancora bene. Se Antonio fosse libero potrei lavorare per lui, ma non ho neppure avuto il tempo di comunicargli la mia conversazione con i capi, avvenuta proprio la mattina del giorno in cui siamo venuti a conoscenza del suo arresto. Ho già il passaporto e da noi è tutto tranquillo, in casa non ci sono state seccature. Quanto al denaro vi prego di avere pazienza perché naturalmente ho dovuto spendere parecchio anche per Antonio e versare sul suo conto in prigione in modo che abbia la possibilità di comprarsi qualcosa; ripeto, il partito si interessa di loro e penserà a loro anche in seguito in senso materiale e in altri modi sicché può darsi che vi vediate presto. E così, se questo non vi crea troppi problemi per ora terrei qui il denaro, invece di mandarvelo. Io, come sapete, spendo molto poco e se per qualche tempo resterò senza lavoro, questo non mi turberà molto dato che ho una piccola scorta. Ma naturalmente spero di sistemarmi presto e forse avrò anche qualche lavoro subito. Allora vi manderò immediatamente il denaro. Da noi, dopo la tua partenza, lavorava ancora la Glebova. Lei è già stata licenziata, come pure Janson Stefan è partito per Mosca, Abram partirà presto e tra circa tre mesi partirà anche la dattilografa. Per le traduzioni può farmi concorrenza solo Chusik. Non so cosa faranno i dirigenti: daranno il lavoro a lui o a me? Beh, sono sciocchezze, in un modo o nell’altro me la caverò. Peccato che a voi, miei cari, invece di incontrare già adesso Antonio a Mosca, sia toccato apprendere notizie non molto allegre, ma anche questo passerà; si preoccupano di tutto, per esempio, non permetteranno che i suoi libri vadano perduti, li porteranno da noi in modo che siano al sicuro. Su, Julka, fatti coraggio ricorda che mandiamo ad Antonio il cibo che gli piace e io ho anche deciso di mandargli una medicina, il glicerofosfato, non gli farà certo male. Ma speriamo anche che lo possano rilasciare in qualsiasi momento, come hanno già rilasciato molti compagni, di quelli che erano stati arrestati nello stesso periodo.
Deljulka, sei diventato moscovita? E Juliancik chi è? Scrivimi se ti ricordi della ricotta, adesso si trova, e Tatan’ka qualche volta l’ha comprata. E dimmi un po’, dove sono i tuoi ricci? Cantami a chi sono toccati i ricci, i biondi ricci. E che fa il tuo cavalluccio con le mele? E dimmi anche che cosa guardi adesso, e che cosa non guardi? E li ricordi i piccioni e le barchette nere. Ne hai parlato a mamma Lula? E le zanzare le ricordi? Come le acchiappavamo, e battevamo sul muro con la scarpa, e accendevamo dei bastoncini che le facevano addormentare.
Ti bacio forte. T.
Bacio forte mammina e papino.

l’Unità 7.11.08
Antonio e la cognata, ovvero l’odissea di un prigioniero
Una missiva che cancella le leggende su un presunto ruolo dei compagni di partito nella vicenda della reclusione
di Giuseppe Vacca


La lettera di Tania Schucht che qui si pubblica è stata ritrovata di recente da Antonio Gramsci jr. nell’archivio della famiglia. È scritta in russo e la sua traduzione è opera di Rossana Platone. Indirizzata ai familiari, in realtà è rivolta a Giulia, salvo le ultime espressioni dedicate a Delio, il figlio maggiore di Gramsci, al quale Tania ricorda le emozioni della recente visita a Venezia, compiuta insieme a lei e all’altra zia, Eugenia Schucht, poco tempo prima del loro ritorno a Mosca nel settembre del 1926. Tania scrive da Roma nei giorni successivi all’arresto di Gramsci, avvenuto nella notte fra l’8 e il 9 novembre. La sua lettera costituisce un documento importante perché contiene notizie inedite sulla vita di Gramsci nei giorni immediatamente precedenti l’arresto e sulla reazione del partito alla sua cattura; perché illumina aspetti a noi ignoti della vita di Tania e del suo rapporto con Gramsci fra il 1925 e il 1926.
Finora l’unico documento noto sui giorni precedenti la cattura e sull’arresto di Gramsci era la lunga lettera di Camilla Ravera a Togliatti del 16 novembre 1926, pubblicata da Franco Ferri su Rinascita il 5 dicembre 1964. Quella che qui si pubblica è la prima lettera di Tania ai familiari in cui si parli degli stessi argomenti. La lettera è senza data, ma dal suo contenuto si evince che fu scritta pochi giorni dopo l’arresto di Gramsci. Essa ci consente di precisare innanzi tutto la ragione per cui, malgrado il terrore squadrista scatenatosi immediatamente dopo l’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, Gramsci partì ugualmente da Roma, alla volta di Milano, per recarsi alla riunione clandestina del Comitato Centrale del Partito indetta per il 1° novembre nei pressi di Genova: il giorno dell’attentato, il 31 ottobre, era domenica e, scrive Tania, «i redattori dei giornali di opposizione già da qualche tempo erano stati esclusi dalla sala stampa» di Montecitorio. Gramsci quindi partì per Milano «la sera» del 31 perché non era informato dell’attentato, avvenuto poche ore prima, «altrimenti non sarebbe certo partito». Subito dopo Tania scrive che «all’arrivo a Milano, alla stazione gli fu comunicato (evidentemente dai questurini) che doveva o tornare a Roma o presentarsi alla questura». I compagni che lo attendevano «lo fecero tornare a Roma», e qui, data la situazione, «Antonio per otto giorni non è andato in nessun posto, pranzava e cenava da me». Le informazioni di Tania sono evidentemente attinte da Gramsci e quindi costituiscono la fonte più diretta sugli eventi che gli impedirono di partecipare alla riunione della Valpolcevera (in quella riunione si decise la posizione del Pci sulla lotta in corso nel partito russo fra la maggioranza guidata da Stalin e le opposizioni capeggiate da Trockij) e condussero al suo arresto. Sono informazioni di notevole valore sia perché fanno chiarezza su un episodio su cui le versioni tramandateci non sono del tutto collimanti, sia perché confutano alla radice ricostruzioni fantasiose come quella contenuta nella più recente biografia di Gramsci (Antonio Gramsci. Storia e mito, di Luigi Nieddu, Marsilio 2004), nella quale si insinua che il suo rientro a Roma sarebbe stato orchestrato dai compagni dell’Esecutivo del partito per impedirgli di partecipare alla riunione del Comitato centrale in quanto la sua presenza era sgradita a Stalin, e si sostiene che, nei giorni seguenti, gli stessi compagni (Grieco, Scoccimarro e la Ravera) avrebbero deliberatamente favorito il suo arresto.
Molto importanti sono poi le notizie riguardanti l’azione del partito subito prima e subito dopo l’arresto di Gramsci. Per quanto riguarda i giorni precedenti l’arresto, Tania scrive che Antonio l’aveva previsto e aveva previsto anche la perquisizione, per cui «nel corso di tutta la settimana si era “ripulito” ed era riuscito a portar via le ultime cose prima dell’arresto». Fra queste c’era anche il manoscritto dell’articolo sulla «questione meridionale», non ancora pubblicato, che Grieco fece richiedere a Tania tramite Camilla Ravera pochi giorni dopo l’arresto di Gramsci.
Dal seguito della lettera si deve ritenere che le carte di cui Gramsci s’era «ripulito» fossero state portate nell’ambasciata sovietica. Ma ancora più importanti sono gli accenni alla possibilità che Gramsci venisse liberato subito, grazie all’intervento del governo sovietico. Come è noto, nei giorni precedenti il suo arresto Gramsci aveva programmato di recarsi a Mosca per prendere parte ai lavori del VII Plenum dell’Internazionale comunista, convocato per il 22 novembre, e ne aveva avvertito sua moglie. Com’è noto il partito italiano, d’intesa col governo sovietico, aveva predisposto che, dopo la partecipazione al VII Plenum, Gramsci si trattenesse in Russia perché in Italia la situazione era divenuta troppo pericolosa. Quindi il viaggio a Mosca equivaleva al suo espatrio. Tania mostra di ritenere che, sebbene Gramsci sia stato arrestato, tale possibilità non fosse venuta meno: innanzi tutto perché aveva notizie, sia pur vaghe, che fosse solo in stato di «fermo», in secondo luogo perché riteneva che potesse essere rilasciato con il semplice intervento degli avvocati del partito, ma soprattutto perché i compagni (tanto il Pci, quanto l’ambasciata sovietica) «si preoccupavano di tutto». In particolare, parlando dell’azione svolta dal partito in favore degli arrestati, Tania scrive: «Il partito si interessa di loro e penserà a loro anche in seguito in senso materiale e in altri modi, sicché può darsi che vi vediate presto». Ci sembra fondato dedurne che Tania alluda ad una iniziativa del partito, forse al momento solo adombrata, volta ad ottenere la liberazione di Gramsci attraverso un intervento del governo sovietico su Mussolini. La sua lettera aggiunge quindi un tassello importante al puzzle dei tentativi di liberazione di Gramsci che, com’è noto, si susseguirono per l’intero decennio della sua detenzione. In base alla lettera di Tania possiamo ritenere che le iniziative volte a ottenere la liberazione e l’espatrio di Gramsci a Mosca cominciarono subito dopo l’arresto e l’intera vicenda della sua liberazione costituì un problema sempre aperto e non una possibilità originata di volta in volta da circostanze ritenute favorevoli dal partito o da Gramsci stesso.
Il secondo ordine di motivi per cui questa lettera costituisce un documento importante riguarda la situazione di Tania e il suo rapporto con Gramsci al momento dell’arresto. Dai brani finora citati risulta inequivocabilmente che Tania lavorava da tempo presso l’ambasciata sovietica ed era già stata inserita nel suo apparato politico. Noi sappiamo che Tania fu accolta nelle file del partito bolscevico solo nel 1927 mentre, quando Gramsci era riuscito a incontrarla, nel febbraio del 1925, simpatizzava per i Socialisti rivoluzionari e non aveva alcuna affiliazione partitica. Altri documenti conservati all’Istituto Gramsci dimostrano che nel corso del 1925 Tania, che si sostentava dando lezioni all’Istituto Crandon, aveva allacciato con Gramsci un rapporto tanto stretto da collaborare, per esempio, alla traduzione di alcuni capitoli del Manuale di Bucharin che dovevano probabilmente servire per le dispense della scuola di partito.
Evidentemente Tania aveva cominciato a lavorare presso l’ambasciata sovietica grazie a Gramsci e, al momento del suo arresto, era temporaneamente senza lavoro perché, come risulta anche da questa lettera, l’ambasciata stava riducendo sensibilmente i suoi organici a causa della inclinazione sempre più invasiva del regime di Mussolini. Ma gli elementi più significativi della lettera, per quanto riguarda Tania, sono sia la notizia che, perduto il lavoro all’ambasciata, avrebbe potuto lavorare per Gramsci e per il partito italiano, sia la prova evidente che dalla conoscenza di Gramsci erano scaturite una frequentazione quotidiana e una totale fiducia politica. Sotto questo aspetto la lettera costituisce il documento più rilevante, a nostra conoscenza, delle ragioni per cui, dopo l’arresto di Gramsci, Tania ne divenne il tramite naturale con il mondo esterno: il mondo politico, e quello affettivo e familiare.

Corriere della Sera 7.11.08
Il biologo si confessa: farò registrare le mie ultime parole, qualcuno potrebbe attribuirmi una conversione in punto di morte
Il sacerdote dell'ateismo: «Ho fallito»
Richard Dawkins: il mio saggio contro l'esistenza di Dio non ha intaccato la fede dei credenti
di Decca Aitkenhead


Ora che Richard Dawkins va in pensione, lasciando la sua cattedra di Oxford dopo il grande successo ottenuto dal suo libro L'illusione di Dio, ci si potrebbe aspettare che veda avviata al successo la causa laica e scientifica a cui ha dedicato la carriera. Giorni fa, alcuni attivisti hanno annunciato l'intenzione di lanciare una campagna per pubblicizzare l'ateismo, mettendo sul fianco dei bus britannici uno slogan che dice: «Probabilmente Dio non esiste, smettete quindi di preoccuparvi e godetevi la vita». La campagna, lanciata dalla sceneggiatrice televisiva Ariane Sherine, che ha un blog sul Guardian, sperava di raccogliere 5.500 sterline dai sostenitori, e Dawkins aveva promesso che ne avrebbe personalmente aggiunte altrettante, ma le donazioni hanno già superato le 96 mila sterline.
Intanto il ministro dell'Immigrazione Phil Woolas prevede che entro 50 anni vi saranno riforme costituzionali che estrometteranno i vescovi dalla Camera dei Lord, e il numero di studenti che si iscrivono alle facoltà di matematica e scienze è in aumento. Anche in America la destra religiosa sembra stia perdendo terreno.
Ma quando si chiede a Dawkins, che ora ha 67 anni, se pensa che la comprensione delle scienze sia migliorata, lo si vede dubbioso. «Direi piuttosto che quando ho cominciato la carriera accademica c'era probabilmente la stessa ignoranza, ma meno opposizione attiva verso la scienza. Se si gira per scuole e università, si troverà un discreto numero di ragazzi che, pur non sapendo perché, disapprovano la teoria evoluzionista: lo fanno perché è il punto di vista che hanno ricevuto dalla famiglia». Attribuisce questo fatto ai bassi standard di istruzione scientifica o all'ascesa del fondamentalismo?
«Beh — dice senza esitazione — penso sia dovuto a una maggiore influenza della religione».
Secondo Dawkins in Gran Bretagna è in corso una battaglia tra le forze della ragione e il fondamentalismo religioso, e la ragione è lontana dall'uscirne vincente.
Dawkins è uno dei combattenti più famosi e attivi, ma non è detto che sia tra i più efficaci. Lo scopo dichiarato del suo L'illusione di Dio era «convertire» i lettori all'ateismo, ma Dawkins ammette di aver fallito. «Sì — dice sorridendo — penso sia stato un obiettivo poco realistico. Importante, ma poco realistico».
In effetti Dawkins è stato definito «il miglior alleato della causa creazionista in Gran Bretagna». I critici lo accusano di non comprendere la tendenza della natura umana a desiderare il conforto del pensiero irrazionale. Dicono che la sua arroganza intellettuale gli aliena le simpatie della gente.
Quando Sherine lo ha interpellato per la campagna sui bus, lo slogan che Dawkins avrebbe preferito era «Quasi certamente Dio non esiste». Ma non è forse uno slogan che avrebbe irritato i credenti e allontanato chi poteva avere simpatia per l'ateismo? Alla fine optarono per «Probabilmente Dio non esiste».
«Lo so — dice Dawkins — si dice che io sia antipatico e irritante». E ha una spiegazione abbastanza convincente in proposito: «Siamo tutti cresciuti pensando che la religione abbia una posizione privilegiata, che non la si possa criticare, e quindi se lo si fa, anche in misura modesta, si viola questo principio e si diventa arroganti».
Ma perché allora non cerca di essere più conciliante, anche solo per una questione di opportunità? Se la gente è perplessa dinanzi al suo approccio intellettuale, perché non si sforza di essere un po' meno aggressivo? «Beh, effettivamente, questo è un aspetto che mi dà da pensare. È una critica che mi viene rivolta spesso, ed è senz'altro la più intelligente. Suppongo che la questione possa essere affrontata in due modi diversi, e mi fa molto piacere che qualcuno si dimostri, diciamo, più seducente. Potrei farlo anch'io, ne sarei capace». Fa una pausa per riflettere. «Ma mi sembra di non aver più la pazienza necessaria».
Crede che il livello degli studenti sia in calo da quando l'università è diventata più accessibile? «È un argomento sul quale devo stare molto attento a non sembrare un vecchio bacucco. Quando ho cominciato a insegnare, negli anni Sessanta, per me era una grande gioia avere studenti entusiasti, molto interessati e appassionati, l'insegnamento era un vero momento di confronto, uno scambio di idee. Questo tipo di rapporto è andato gradualmente scomparendo. Ma esito a dar la colpa di ciò agli studenti, forse sono io che un po' alla volta ho perso lo slancio».
Come quasi tutti i razionalisti, Dawkins tende ad appellarsi all'intelligenza innata degli altri e ad attribuire all'ignoranza, piuttosto che alla stupidità, un modo errato di pensare. «Ma non ho prove — ammette —. Potrei sbagliarmi. È una posizione ideale». La gente potrebbe semplicemente essere stupida, gli suggerisco. «Già, potrebbe esserlo. Ma almeno, dando la colpa all'ignoranza, mi difendo dall'accusa di essere arrogante. Se dicessi che la gente è stupida, di certo non me la farei amica né la convincerei».
Prima di incontrare Dawkins, ero preoccupata che potesse essere così intellettualmente insofferente da mettermi in imbarazzo. L'impressione, invece, è più quella di un leone che si è dato la precisa regola di comportarsi da gatto, e questo è tranquillizzante, ma anche un po' deludente.
Non ha mai invidiato, gli chiedo, la gente che crede in Dio? «No», risponde, scuotendo il capo con decisione. Anche se si dice che la fede sia un grande conforto? «Vede, lo sarà anche, ma ci tengo ad aggiungere: e con questo? Ho il sospetto che per ogni persona che viene confortata dalla fede, ce ne sia un'altra che ne è mortalmente spaventata ». Non ha invidia di chi riesce a non trovare Dio mortalmente spaventoso? «Se li invidiassi, dovrei allora invidiare chi si droga per sentirsi bene...».
Dawkins ama dire scherzosamente che le persone anziane vanno in chiesa come gli studenti «che si preparano per l'esame all'ultimo momento ». Non pensa di potersi svegliare un giorno, da vecchio, e scoprire di essere attratto dalla fede? Se così fosse, lo considererebbe un segno di demenza senile. Sembra più preoccupato che qualcuno dei suoi nemici diffonda, dopo la sua morte, la falsa notizia di una sua tardiva conversione. Probabilmente non scherza affatto quando dice: «Voglio essere sicuro che quando pronuncerò le mie ultime parole ci sia un registratore acceso».

Repubblica 7.11.08
Se la vita diventa consumo
di Zygmunt Bauman


Anticipiamo un brano da Consumo, dunque sono di (Laterza, pagg. 199, euro 15) in libreria da oggi.

Gran parte dell´economia si mantiene perché i bisogni di ieri sono svalutati e sostituiti. Da cosa? Da altri bisogni che, in ogni caso, devono durare il meno possibile
Le ricette manageriali per esercitare un dominio assoluto sui dipendenti
Uno "stato d´emergenza" che favorisce una specie di "tirannia del momento"

Al giorno d´oggi la prassi manageriale di provocare un´atmosfera di urgenza o di presentare come stato di emergenza una situazione probabilmente normale è considerata un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di vita. «Dichiara lo stato di emergenza e continua a comandare», sembra essere la ricetta manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli e devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non si vuol più tenere, lavoratori in esubero a causa delle operazioni di «razionalizzazione» o scorporo delle attività che si susseguono.
Forse nemmeno l´apprendimento e l´oblio sfuggono alle conseguenze della «tirannia del momento», favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso in una successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente (ma ingannevolmente) scollegati tra loro. La vita di consumo non può essere altro che una vita di apprendimento rapido, ma ha anche bisogno di essere una vita di oblio altrettanto rapido.
Dimenticare è importante come, se non più, che imparare. C´è un «non si può» per ogni «si deve», e quale di questi due aspetti riveli il vero obiettivo del ritmo vertiginoso di rinnovamento e rimozione, quale dei due sia invece solo una misura ausiliaria per assicurare che l´obiettivo sia raggiunto, è una questione cronicamente opinabile e irrisolta. (...)
Siamo di nuovo alla questione dell´uovo e della gallina... Devi «buttar via» il beige per preparare il viso a ricevere i nuovi, vivaci colori, oppure sono questi ultimi che stanno inondando il reparto cosmetici dei supermarket per garantire che le scorte inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate via, immediatamente»?
Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per riempire la borsetta di cosmetici a colori vivaci direbbero molto probabilmente che cestinare il beige è un effetto secondario, deprecabile ma inevitabile, del rinnovamento e miglioramento del make-up, un sacrificio triste ma necessario per stare al passo con il progresso. Ma tra le migliaia di direttori di negozio che stanno inviando ordini per il nuovo assortimento qualcuno ammetterebbe, in un momento di sincerità, che se gli scaffali dei cosmetici si sono riempiti di colori vivaci ciò è accaduto per la necessità di abbreviare la vita utile del beige, facendo in modo che il traffico nei grandi magazzini rimanga intenso, che l´economia continui ad andare avanti e che i profitti crescano. Il Pil, indice ufficiale del benessere della nazione, non si misura forse dalla quantità di denaro che passa di mano? La crescita economica non è for-se alimentata dall´energia e dall´attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da fare per liberarsi di cose consumate o obsolete (o, meglio, di tutto ciò che rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come un vento che non soffi o un fiume che non scorra...
Sembra che entrambe le risposte di cui sopra siano giuste: esse sono complementari, non contraddittorie. In una società di consumatori e in un´era in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che veramente fa andare avanti l´economia, è il ciclo del «compra, godi e butta via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione.
La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel l´acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l´altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento.
Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l´etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev´essere il rimanere insoddisfatti. (...)
Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare? Niente da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c´è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi? Una situazione di questo tipo ? di breve durata, si spera ? si può chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano l´Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre ? i ricordi delle cose, animate o inanimate ? che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena... (...)
L´economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai obsoleti, e ancor più è l´idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni a essere screditata. Il trucco beige, che la scorsa stagione era segno di sicurezza, ormai è solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e per giunta un marchio di disonore, segno di ignoranza, indolenza, inettitudine o complesso di inferiorità; l´atto che fino a poco tempo fa denotava generalmente ribellione e azzardo e confermava che si era «un passo avanti a chi fa tendenza» diventa ben presto sintomo di pigrizia o codardia («Non è trucco, è una coperta di sicurezza»), segno che ci si trova ormai in coda, che si è persino al verde...
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si accontentano di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano di avere bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei consumatori. La minaccia e la paura dell´ostracismo e dell´esclusione aleggiano anche su chi è soddisfatto dell´identità che possiede e su chi si accontenta di ciò che i suoi «altri che contano» lo portano a essere.
La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo sono imperniati sulla svalutazione delle loro precedenti offerte, in modo da creare nella domanda del pubblico uno spazio che sarà riempito dalle nuove offerte. Essi alimentano l´insoddisfazione nei confronti dei prodotti usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento verso l´identità acquisita e verso l´insieme di bisogni attraverso i quali viene definita. Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio.

Repubblica 7.11.08
L'intervento di Sergio Givone a UmbriaLibri
La filosofia tace sul male
di Sergio Givone


Una dimensione che sembra intrecciata al sentimento della colpa

"In fondo al male" è il tema di UmbriaLibri. Pubblichiamo parte dell´intervento di in programma per domani.

Diceva David Foster Wallace, lo scrittore americano da poco scomparso: anche l´aragosta "sa" il male, quanto meno lo sente. Basta prestare orecchio al rumore sordo delle chele che sbattono contro i bordi della pentola in cui è stata gettata viva. E non si dica che il suo è un sentire elementare, rozzo. Se l´aragosta non ha le parole per dire la sofferenza che prova e il tormento che le viene inflitto, forse noi le abbiamo? Si pensi alla filosofia. Di fronte al male è stata reticente, ha balbettato.
Vero è che tutte le tradizioni da cui proveniamo traboccano di riferimenti al più inquietante dei molti misteri che ci circondano. Non c´è male che sia stato risparmiato a Giobbe. «Appena temo un male, questo mi colpisce». Inutile chiedere perché, avverte Qohélet. Tutto è inutile. Tutto è vano. E questo forse è anche peggio del male. «Sarebbe opportuno che noi ci radunassimo a piangere la casa nella quale qualcuno sia venuto alla luce, pensando ai molti mali della vita umana, ma a chi con la morte ha posto fine a gravi sofferenze, gli amici con lode e con gioia dovrebbero dare sepoltura», aveva scritto Euripide, rievocando l´antica sentenza del Sileno (...) per cui la cosa migliore sarebbe non nascere, e in subordine morire al più presto.
Ma siamo sicuri che in quei testi si stia parlando del male e non di qualche cos´altro? Qualcosa che ha bensì a che fare col male, ma che nulla dice circa la sua natura? Certamente le sciagure che senza tregua colpiscono gli uomini, con il loro corteo di sofferenze afflizioni pene e tormenti vari, per non parlare della morte e del nulla, sono dei mali. Ma non lo sono necessariamente. Tant´è che hanno potuto presentarsi talvolta come forme di liberazione o di sollievo. Il male sfugge alla presa. E si rifugia in una dimensione dov´è difficilissimo stanarlo.
E´ la dimensione in cui il male appare strettamente legato alla colpa. Anzi, non appare se non come colpa. Ossia come qualcosa di cui l´individuo deve rispondere. Non importa a chi: se a Dio, alla propria coscienza, agli altri uomini. Né importa se ciò di cui deve rispondere è un che di fatale, addirittura un destino. C´è autentico male dove c´è assunzione (o rifiuto) di responsabilità per una colpa. Ma quale colpa? A questo proposito i greci hanno parlato di amartia. I cristiani invece di peccato.
Si coglie qui la differenza nel modo in cui gli antichi e i moderni hanno concepito il male. Per gli antichi la colpa appartiene all´ordine delle cose. E´ una specie di marchio, è il retaggio della nostra finitezza, come sostenne Anassimandro. Siamo mortali; lo siamo poiché ci siamo separati dall´uno-tutto e siamo precipitati nel mondo della vita e del divenire. Questa separazione è la nostra colpa. Da espiare con la morte. Come se ci dicessero: sei venuto al mondo, hai goduto della luce del sole, e allora paga.
Anche per il cristianesimo la colpa è tutt´uno con la nascita. L´uomo nasce portatore di un peccato d´origine. Però questo peccato non appartiene all´ordine delle cose, come nel mondo classico, ma a quel principio spirituale che è l´anima. Donde la questione come possa essere imputabile all´anima un peccato non commesso. Il cristianesimo introduce allora l´idea della solidarietà nella colpa. Ricevendo la vita, ciascuno è tenuto a farsi carico di tutto ciò che la vita comporta, non solo nel bene ma anche nel male. Un po´ come quando si riceve un´eredità. Se la si accetta, i debiti connessi devono essere onorati.
C´è dunque differenza, ma anche profonda affinità fra la nozione di colpa tragica e quella di peccato originale. (...) Ma che cosa accade nel momento in cui, come oggi, la colpa perde credibilità filosofica? Chiaro che se la colpa è sempre e soltanto della società, o non è che senso di colpa, di cui è bene disfarsi per igiene mentale, allora tanto vale rinunciare ad essa. Salvo che, tolta la colpa, è tolto anche il male. Non è certo un caso se la filosofia contemporanea, tranne pochissime eccezioni, sul male ha taciuto.

Ansa 7.11.08 ore 16.01
Nasce “Costruire la sinistra”, ora nuovo soggetto politico
Fava (Sd) No ad un accordo tra gruppi dirigenti davanti al notaio

ROMA, 7 nov - ’Costruire la sinistra, il tempo è adesso'. Il nome scelto rappresenta i due obiettivi a cui punta la nuova associazione che raccoglie pezzi della Arcobaleno insieme ad associazioni e movimenti, e cioè mettere in campo nel più breve tempo possibile un nuovo spazio della sinistra. Seduti in prima fila ad assistere alla presentazione del nuovo cantiere ci sono Claudio Fava, leader di Sd e Nichi Vendola, governatore della Puglia a capo della minoranza di Rifondazione oltre a Paolo Cento dei Verdi e Umberto Guidoni eurodeputato del Pdci. A presentare l’iniziativa però è Moni Ovadia che si definisce «un cittadino appassionato di politica». «L’Italia - ammonisce - ha bisogno di sinistra, un nuovo soggetto politico che interpreti la realtà». Un invito a non perdere tempo arriva anche da Maria Luisa Boccia ex senatrice di Rifondazione: «L’associazione - precisa - deve essere uno strumento per un’ambizione politica all’altezza delle sfide». Guai però a ripetere gli errori del passato. E la memoria corre subito alla disfatta della Sinistra Arcobaleno: «Abbiamo creduto - osserva ancora Boccia - che si dovesse fare politica con una delega credendo che questa avrebbe trovato credito nella realtà». Un errore che non sarà ripetuto. Ed infatti il 13 dicembre si riunirà l’assemblea nazionale della nuova associazione e poi a gennaio si terranno quelle che Paolo Cento chiama «le primarie delle idee». Una consultazione di massa del popolo della sinistra vincolante per le scelte future. «Tutto quello che c’è - dice ancora l’ex senatrice del Prc - lo riteniamo insufficiente. Ora dobbiamo ricostruire una soggettività». Un nuovo spazio della sinistra da costruire insieme con un «nuovo vocabolario». È questa l’idea che ha in mente Nichi Vendola. «Non vorrei - è l’avvertimento - che tutti ci sentissimo nella coda infinita dei congressi che si sono conclusi con il seme del veleno. I congressi - sottolinea - non segnano la storia del mondo, è il contrario». Serve però una sinistra che «sia contaminata da nuovi soggetti». Claudio Fava mette l’accento sulla necessità che la nuova sinistra: «Non sia un accordo chiuso tra gruppi dirigenti davanti ad un notaio. Oggi - dice - la sinistra è un suono ma è meglio che torni ad essere un luogo della politica». (ANSA). KWR 07-NOV-08 16:01 NNN

Ansa 16.53 ore 16.53
Sinistra: Fava, ora soggetto nuovo, l’alleato naturale è il Pd

ROMA, 7 nov - «Abbiamo messo in campo le sinergie tra me, Nichi Vendola, Umberto Guidoni e Paolo Cento per dare vita a un soggetto politico nuovo, 'la Sinistra'. Il Pd è il nostro interlocutore principale e stabilendo un’attenta piattaforma programmatica, il nostro alleato naturale, a partire dalla situazione in Abruzzo». Lo afferma Claudio Fava, coordinatore di Sinistra Democratica in un’intervista a Red. (ANSA). COM-KWR 07-NOV-08 16:53 NNN