sabato 2 agosto 2014

Corriere 2.8.14
Un’altra generazione di giovani in guerra: la nostra colpa di padri
di Anshel Pfeffer


Martedì sono andato verso sud, in compagnia di un collega giornalista, con la scusa di un reportage, ma per entrambi non si trattava di un incarico come un altro: volevamo essere vicini ai nostri figli.
Senza dire una parola, sapevamo di attraversare il peggior periodo della nostra vita, i giorni della preoccupazione e della vergogna. Se sei cresciuto in Israele, porti sempre davanti agli occhi l’immagine del primo soldato caduto. Qualcuno che conosci, un parente, un vecchio amico. Quando avevo 10 anni, quel destino toccò a un ragazzo della mia scuola ucciso in Libano. Commemorato nelle esequie, nelle foto appese ai muri della scuola, il primo che riuscivo a immaginare con chiarezza: abitava nella mia stessa strada, fantasticava nelle stesse aule e giocava a basketball come me.
Man mano che diventi grande queste figure si moltiplicano, ed ecco che cominci a salire sul monte Herzl per partecipare ai funerali di ragazzi che conoscevi bene. Di colpo ti ritrovi nella seconda fase della vita di un israeliano, quando tocca a te. Per i successivi vent’anni, i tuoi amici, colleghi e conoscenti vengono spediti su tutti i fronti. Il fardello della guerra ricade sulle spalle della tua generazione, poi all’improvviso compi 40 anni e ti arriva la lettera di ringraziamento per gli anni di servizio. Cominci a pensare se non sia il caso di spostare lo zaino zeppo di uniformi, cinture, per far spazio nell’armadio, ma non lo fai. Potrebbe servire a qualcun altro.
Nulla ti prepara a quel momento, quando la guerra successiva si profila all’orizzonte, e tu sei padre. In ebraico moderno la parola horim ha un significato speciale quando si riferisce ai genitori dei soldati, che si intensifica quando si è genitori di soldati feriti per salire in un crescendo emotivo e approdare a horim shakulim — i genitori affranti dei soldati caduti. E non parlo soltanto del terrore indicibile di quel colpo alla porta e la vista degli ufficiali sulla soglia di casa che ti presentano la chiamata alla leva, no, è la consapevolezza di una profonda e tremenda responsabilità: andare in guerra e uccidere in tuo nome. Per quanto ti senta invadere da sgomento, orgoglio o senso di protezione, sai che hai fallito nel tuo compito di genitore. Anche tu fai parte dell’ennesima generazione di israeliani che non è riuscita a consegnare a quella successiva un Paese in pace con i vicini.
Quando mi sono arruolato, nutrivo ancora idee romantiche sul mio ruolo nel gigantesco rovesciamento della storia ebraica, che dopo duemila anni di morte e persecuzione era approdata alla generazione redenta, capace di combattere per la propria sopravvivenza anziché lasciarsi sterminare in qualche pogrom in Bielorussia. Toccò a mio nonno, scampato all’Olocausto e mai trasferitosi in Israele, a rovinare le mie fantasie quando, alla prima visita, fece un passo indietro vedendomi apparire in uniforme. Mi ci vollero anni per capire che la sua era stata una reazione «normale», che un nonno normale non si esalta alla vista del nipote con le armi in pugno. Anche a me ci sono voluti anni, come giornalista, come padre e riservista, per comprendere fino a che punto la vista di un soldato possa riempire la stragrande maggioranza di ebrei israeliani di fiducioso orgoglio, mentre in tanti altri scatena sentimenti opposti. Oggi, guardando i nostri figli, ci aggrappiamo a quell’orgoglio e cerchiamo di nascondere la paura, per mettere a tacere i sensi di colpa.
Israele ha vinto questa guerra contro Hamas. L’ha vinta ancor prima che l’operazione «Margine protettivo» avesse inizio, perché per quanto Hamas inciti i suoi alla distruzione dello Stato di Israele, è chiaro che non sarà mai in grado di portarla a compimento. Anzi, sono state le prime due generazioni di israeliani a riportare la vittoria definitiva, nel 1967 e nel 1973, dimostrando che i nostri vicini non avrebbero mai potuto farci sloggiare.
Non c’entra la politica, non si tratta di decidere se il miglior modo per tutelare la sicurezza di Israele sia quella di fare concessioni ai palestinesi, o di colpirli così duramente che non si azzarderanno mai più a sparare razzi o a scatenare una nuova Intifada. Si tratta di riconoscere un’amara sconfitta, abbiamo tradito i nostri figli. Possiamo gettare la colpa addosso ai palestinesi, agli arabi e a tutta la comunità internazionale finché vogliamo, resta il fatto che era nostra responsabilità evitare che andassero ad ammazzare e a farsi ammazzare. E questa colpa è solo nostra.
*editorialista del quotidiano
israeliano «Haaretz»
(traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 2.8.14
“Stavolta il dibattito interno è più intollerante che mai”, dice lo scrittore Gavron “E per il mondo siamo tutti parte del male”
Noi minoranza crediamo nella pace ma il nostro Paese non ci ascolta
di Assaf Gavron


Siamo tra l’incudine e il martello Anche da noi si vive la tragedia ma non viene riconosciuta

LA SETTIMANA scorsa sono stato invitato dai residenti di Tekoa, un insediamento in Cisgiordania, a parlare del mio romanzo Hagiva ( La Collina, ndr), la storia immaginaria di un insediamento ebraico non diverso dal loro. Alcuni hanno espresso critiche su ciò che hanno visto come una rappresentazione stereotipata dei “coloni di destra” da parte di un “autore della sinistra di Tel Aviv”, ma la maggior parte ha trovato il romanzo onesto. L’ospite mi ha chiesto la mia opinione sugli insediamenti. «Credo che siano un problema », ho detto. «Aspetta ancora qualche razzo su Tel Aviv», ha detto qualcuno tra il pubblico, «e tutti saranno convinti ». «Il problema è proprio questo», ho risposto. «Nessuno si convince mai. Qualunque cosa accada, ognuno crede ancora di più in ciò che già pensava. Voi dite: “Non possiamo fidarci dei palestinesi, vogliono ucciderci, non possiamo lasciare che si gestiscano da soli perché non fanno altro che accumulare armi e preparare degli attacchi”. E noi diciamo: “Siamo noi i responsabili, perché siamo la parte più forte, quella che occupa. Continuiamo a togliere ogni speranza ai palestinesi e non gli diamo altra scelta se non quella di usare la violenza. Dobbiamo raggiungere un accordo perché la guerra non è mai la soluzione”». Non so che cosa sia più deprimente, se la situazione attuale con questo orribile spettacolo di morte e distruzione e di morti che si accumulano, o il fatto che non sembra esserci un modo per spezzare questo cerchio senza fine. Se osservo la mia società, vedo solo una ripetizione senza fine delle stesse opinioni, un auto- convincimento infinito senza che si intraveda una svolta.
Ero un soldato a Gaza 25 anni fa, nella prima Intifada. Ci trovavamo davanti ad adolescenti arrabbiati che ci lanciavano sassi. Rispondevamo con gas lacrimogeni e sparando in aria proiettili di gomma. Ora quei giorni sembrano bei vecchi tempi innocenti. Le pietre sono state sostituite da pistole e da bombe suicide, e ora da razzi. Per me è facile da spiegare: Israele non si è sforzata di raggiungere un accordo equo e ha trovato una resistenza sempre più intensa.
La cosa ancor più deprimente della situazione attuale è la natura che stavolta ha assunto la discussione interna nella società israeliana. È la più intollerante e intransigente che abbia mai visto. Ho notato questa tendenza già nel 2008, ma diventa sempre più forte: sembra che ci sia una sola voce, orchestrata dal governo e dall’esercito, e questa voce riecheggia in tutti gli angoli del Paese. I tentativi di rappresentare una posizione diversa da quella del consenso generale sono ridicolizzati e trattati con sufficienza nei migliori dei casi, altre volte sono denigrati e attaccati. Chi non «sostiene le nostre truppe» è visto come un traditore.
Forse ciò che rende tutto molto più aggressivo è la prevalenza di Facebook. Qui non ci sono più limiti: qualsiasi sentimento di sinistra che non sia allineato con il presunto consenso (per esempio, chiedere un accordo diplomatico o esprimere compassione per le vittime civili a Gaza), viene accolto da una raffica di risposte razziste e piene di odio. Tutto ciò sta avendo conseguenze. Conosco gente che ha paura di andare alle manifestazioni. I politici all’opposizione si allineano dietro al governo e raramente contraddicono le sue iniziative. La sinistra sta diventando più debole, più piccola e inefficace. Non mi sono ancora arreso, però, perché c’è ancora un altro gradino nell’escalation della depressione ed è qui che voi entrate in gioco. Perché quando ci rivolgiamo al mondo — noi, questa minoranza di sinistra che crede nei diritti umani, nel mutuo accordo, nella pace — non otteniamo appoggio. Siamo messi insieme alla maggioranza; facciamo tutti parte del male. Siamo boicottati. Stiamo cercando di presentare una voce sana, diversa, ma la nostra voce non è ascoltata. Vediamo che la simpatia è rivolta a una sola parte e abbiamo poca simpatia per coloro che sono ciechi per le sofferenze degli altri. Sono inorridito dal migliaio e oltre di morti palestinesi e dai tanti israeliani che non sono disposti a riflettere su questo. Ma sono anche profondamente rattristato dalle decine di bambini israeliani che perdono la vita e da tutti quelli nel mondo che non riconoscono la tragedia che si vive anche dalla nostra parte. Siamo tra l’incudine e il martello.
La settimana prossima partirò con la mia famiglia per andare a vivere e insegnare negli Stati Uniti, per un anno, o forse due. Non è una fuga, era in programma da molto tempo. Tuttavia, mia moglie ed io programmiamo spesso queste pause. Abbiamo bisogno di respirare aria fresca per un po’ ogni tot anni, ma poi torniamo sempre, perché questa è casa nostra, la nostra lingua, la nostra gente. Spero di tornare dopo questo viaggio, in un posto dove sia più tollerabile vivere, con meno minacce da fuori e da dentro. Ma non ci conto.
(Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 2.8.14
Gli occhi di Farah sulla guerra
di Alix Van Buren


FARAH Baker ha 16 anni, due occhi turchesi, la pelle d’alabastro e ben 125mila iscritti al suo profilo Twitter sul quale campeggia un “selfie” di lei a occhi sgranati, a Gaza. Col nome di @Farah-Gazan è la nuova “star” dei social media. Un seguito di adolescenti, giornalisti, musicisti, le scrive dal mondo in segno di solidarietà. Lei digita pensieri semplici di una bambina che segue la guerra appostata alla finestra con lo smartphone: «Chissà cosa sono quelle strane luci», fa vedere delle curiose palle luminose che paiono lune appese al cielo. Viene da sporgersi per capire se siano razzi, illuminanti, traccianti, e attivando il volume se ne ascolta anche il suono. «Sentite una delle bombe, adesso», twitta; a dire la verità il rimbombo arriva ovattato online; però, quando lei registra un’esplosione ogni minuto la notte del martellamento di Gaza, l’inquadratura fissa sul palazzo dirimpetto, un sussulto nell’attimo della deflagrazione, il suo “candido obiettivo” — tale almeno all’apparenza — fa un certo effetto. Quando poi lei racchiude in 140 caratteri il terrore d’adolescente: «Colpiscono la mia zona. Non riesco a smettere di piangere. Stanotte potrei morire», un musicista come Gilles Zimmermann, viola da gamba, dalla Francia si dice «commosso» e le regala il download gratuito delle sue composizioni.
Tuttavia il tweet forse più efficace è una riflessione derivata da un semplice calcolo matematico: «A 16 anni ho conosciuto già 3 guerre»: 2008-2009, 2012, infine oggi. Un’indicibile tragedia in poche battute.
Qualcuno si arrischia a definire Farah “la nuova Anna Frank”, fissa alla finestra ad annotare la guerra. Qualcun altro dubita dell’innocenza. Il fatto che i suoi aggiornamenti non segnalino la posizione insinua il sospetto d’un falso. Questo finché i network televisivi, da Cnn alla Bbc a Nbc, l’hanno scovata e intervistata. Altri infine la tacciano di protagonismo: «grida lo spavento per aumentare i follower». Ed è vero che a ogni nuovo allarme, quelli crescono. Resta che lei, da ieri, non si fa sentire. Alle 16: 00 ha scritto: «Minacciano di bombardare un edificio davanti all’ospedale Shifa (vicino al suo palazzo, ndr.), stiamo evacuando da casa». Il tempo di scrivere questo articolo, e ai suoi follower se ne sono aggiunti altri mille.

La Stampa 2.8.14
Quella Striscia che l’Egitto trattava come corpo estraneo
Creata 64 anni fa, era abitata da profughi fuggiti dopo la guerra del ’48
Ma il governo del Cairo non concesse mai la cittadinanza ai residenti
di Abraham B. Yehoshua


La creazione di una striscia costiera intorno alla città di Gaza, lunga 40 chilometri e larga una decina per un’area complessiva di 365 chilometri quadrati, risale alla fine della guerra del 1948, 64 anni fa. La guerra scoppiò subito dopo l’approvazione della risoluzione dell’Onu che sanciva la creazione di due stati nell’allora Palestina, uno ebraico e l’altro arabo, di dimensioni uguali.
I palestinesi e gli stati arabi non accettarono questa risoluzione e si preparano a distruggere il neonato stato ebraico. Al termine del mandato britannico, il 15 maggio 1948, gli eserciti di tre paesi arabi invasero la Palestina: quello giordano a Est, il siriano a Nord e l’egiziano a Sud, per cercare di annientare lo stato di Israele. Dopo aspre battaglie gli israeliani riuscirono a respingere l’attacco giordano (che aveva messo sotto assedio Gerusalemme), a cacciare quello siriano dalla Galilea e a fermare quello egiziano a soli 78 chilometri da Tel Aviv. Al termine degli scontri, nelle mani dei palestinesi rimase solo metà del territorio loro assegnato dalla risoluzione Onu. In quel territorio non venne fondato un nuovo stato palestinese ma rimase sotto il controllo di due paesi: la Giordania in Cisgiordania, e l’Egitto nella Striscia di Gaza. I giordani, che consideravano la Cisgiordania una possibile parte del loro regno, conferirono la cittadinanza ai profughi palestinesi stabilitisi a est del Giordano e protessero i luoghi santi di Gerusalemme est. Poiché si sentivano vicini ai palestinesi da un punto di vista etnico mantennero con loro rapporti relativamente buoni e ne garantirono il libero transito verso altri paesi arabi.
Ma la situazione era diversa nella Striscia di Gaza. Gli egiziani trattarono con durezza i palestinesi della Striscia, isolati dai loro fratelli e dal loro popolo in Cisgiordania. Li consideravano un inutile peso, un grattacapo piombato loro addosso a causa della sconfitta subita contro Israele, del quale continuavano a non riconoscere la legittimità e con il quale avevano concordato una tregua incerta. I numerosi profughi palestinesi, cacciati o fuggiti dai loro villaggi durante la guerra del 1948 e affollatisi nella Striscia, venivano considerati dagli egiziani un popolo problematico e distaccato dalle sue radici. Va inoltre detto che la Striscia di Gaza è lontana dalle città egiziane, dalla quali è separata dal Canale di Suez e dal deserto del Sinai. Gli egiziani, quindi, non concessero mai la cittadinanza ai residenti di Gaza e, in pratica, rimasero in attesa del momento in cui si sarebbero potuti sbarazzare di questa regione che ricordava loro la sconfitta militare subita nella guerra del 1948.
La crudeltà degli egiziani contro la popolazione di Gaza risvegliò l’ostilità di quest’ultima ed echi di questo sentimento sono tuttora visibili nella guerra in corso. Nonostante infatti le melliflue parole di solidarietà, tra egiziani e palestinesi di Gaza c’è una costante tensione che oggi si manifesta con tutta la sua forza. I primi accusano i secondi di intromettersi negli affari interni del loro paese e partecipano quindi attivamente al blocco brutale a loro imposto negli ultimi anni.
La Striscia di Gaza rimase sotto il controllo dell’Egitto fino al giugno del 1967, a eccezione di un brevissimo periodo - qualche mese - dopo la campagna del Sinai, nell’ottobre 1956. Allora Israele sconfisse l’esercito egiziano e conquistò l’intero deserto del Sinai e, nell’impeto dell’avanzata, senza difficoltà e in un solo giorno, anche la Striscia di Gaza. Al termine di quella breve guerra, alla quale presero parte anche Francia e Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica imposero, congiuntamente ed esplicitamente, a Israele di arretrare entro le linee dell’armistizio del 1948. Lo stato ebraico si ritirò dal deserto del Sinai nel giro di pochi mesi. Per un brevissimo periodo esitò se ritirarsi dalla Striscia di Gaza, che in ogni caso fa parte della Terra d’Israele/Palestina, ma, obbedendo all’ordine delle due potenze e incerto su come gestire quella regione affollata di campi profughi, retrocesse e Gaza fu riconsegnata all’Egitto che non ebbe altra scelta che quella di riprenderla sotto il suo patrocinio.
Nel 1967 scoppiò la Guerra dei Sei Giorni a causa dell’incontrollata e irresponsabile provocazione del dittatore egiziano Abdul Nasser. Per sei giorni Israele combatté con successo su tre fronti: a nord, contro i siriani, dove conquistò le alture del Golan, a est, contro i giordani, dove conquistò la Cisgiordania, e a sud, contro gli egiziani, dove occupò tutto il deserto del Sinai. E, ancora una volta, nell’impeto dell’avanzata, riconquistò in un solo giorno la Striscia di Gaza.
L’incredibile facilità con cui venne conquistata la piccola Striscia nel 1956 e nel 1967, malgrado la presenza di carri armati e dell’artiglieria egiziana, si contrappone all’attuale paura e difficoltà di penetrarvi dell’esercito israeliano (diventato molto più forte negli anni trascorsi da allora) e indica principalmente l’immenso cambiamento avvenuto nella determinazione, nella forza, nell’ingegno, nell’audacia e nella disponibilità al sacrificio dei discendenti dei profughi rispetto all’atteggiamento di sottomissione dei loro padri in passato.
Non è un caso che nel trattato di pace firmato con Israele nel 1979 gli egiziani rifiutarono di riprendersi la Striscia. Accettarono con gioia il deserto del Sinai ma lasciarono questa problematica regione nelle mani di Israele. Gaza è parte della Palestina, così stabilì chiaramente il presidente egiziano Anwar Sadat, e da ora in poi sarà un problema di voi israeliani come gestirla e come ricongiungere i suoi residenti ai loro fratelli in Cisgiordania per creare un’unica entità. Dopo tutto, nell’accordo di pace, vi siete impegnati a risolvere il problema palestinese, pur non avendo spiegato come.
[1- continua]


il manifesto 30.7.14
Perché Gaza è sola?
di Luciana Castellina


Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, così vilmente attaccata — poveretta — dai terroristi. ( I palestinesi non sono mai «militari» come gli israeliani, loro sono sem- pre e comunque terroristi, gli altri mai).
Ieri ho sentito a radio Tre, che ricordavo meglio delle altre emittenti, una trasmissione cui parteci- pavano commentatori davvero indecenti, un giornalista (Meucci o Meotti, non ricordo) che conte- ggiava le vittime palestinesi: che mascalzonata le menzogne degli antistraeliani, tutti dimentichi dell’Olocausto – protestava. Perchè non è vero che i civili morti ammazzati siano due terzi, tutt’al più un terzo.
E poi il «Foglio» che promuove una manifestazione di solidarietà con le vere vittime: gli israeliani, per l’appunto.
Si può non essere d’accordo con la linea politica di Hamas – e io lo sono — ma chi la critica dovrebbe poi spiegare perché allora né Netanyahu, né alcuno dei suoi predecessori, si sia accordato con l’Olp ( e anzi abbia sempre insidiato ogni tentativo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per mandarla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo profughi della Palestina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mortificazioni, di violazione di diritti umani e delle decisioni dell’Onu, dopo decine di accordi regolarmente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pretesa di rendere la Palestina tutt’al più un bantustan a macchia di leopardo dove milioni di coloro che vi sono nati non possono tornare, i tanti cui sono state rubate le case dove avevano per secoli vissuto le loro famiglie, dopo tutto questo: che cosa penserei e farei? Io temo che avrei finito per diventare terrorista.
Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perché è così insopportabile ormai la cond- izione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l’ingiustizia storica di cui sono vittime; così filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l’oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso.
Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l’altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri.
Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobil- itare centinaia di migliaia di persone? È forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Per- ché noi — il più forte movimento pacifista d’Europa – non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato per- ché l’obiettivo non è prevalere ma intendersi? O perché – piuttosto — non c’è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell’autorevolezza necessaria ad una mobil- itazione adeguata? O perché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del
passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza? Un silenzio agghiacciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a differenza dei vecchi politici, è umano e naturale? Privo di emo- zioni, di capacità di indignazione, almeno quel tanto per farsi sfuggire una frase, un moto di comm- ozione per quei bambini di Gaza massacrati, nei suoi tanti accattivanti virtuali colloqui con il pub- blico? È perché non prova niente, o perché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipendano dal fatto che la muta Mogherini assurga al posto di ministro degli esteri dell’Unione Europea? E se sì, per far che?
Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall’estero, sento dire: «O diomio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.
Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia gener- azione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla belli- ssima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un’iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto
a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfrutt- amento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall’est, l’appoggio umano sociale e politico necessario.
Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio.
E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?
Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza della politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell’impotenza, per non abituarsi alla rass- egnazione, per aiutarci l’un l’altro «a cercare ancora».

Internazionale 1.8.14
Francesca Spinelli
“Israele non parla a nome di tutti noi”


“Sa che nella rete di cui facciamo parte ci sono anche degli italiani?”. Mi accoglie così Serge Simon, togliendomi la prima domanda di bocca. La rete, European jews for a just peace, è stata creata nel 2002 dall’Union juive française pour la paix e oggi riunisce undici organizzazioni di dieci paesi europei. In Italia ha aderito la Rete-Eco (Ebrei contro l’occupazione), anche se finora sono state soprattutto singole personalità, da Gad Lerner a Moni Ovadia, ad alimentare il dibattito sull’adesione della maggior parte delle comunità ebraiche europee alle posizioni di Israele.
Mercoledì, sul manifesto, Luciana Castellina s’interrogava sul “silenzio del movimento pacifista” in Italia intitolando il suo editoriale “Perché Gaza è sola?”. In Belgio, invece, il movimento si fa sentire de settimane, e tra le voci presenti c’è quella dell’Union des progressistes juifs de Belgique (Upjb), voce di minoranza all’interno della comunità ebraica locale, ma con decenni di impegno alle spalle. Serge Simon rappresenta l’Upjb presso la rete European jews for a just peace.
L’Upjb è nata nel 1939 per venire in aiuto agli immigrati ebrei in Belgio, poi, dal 1967, ha preso posizione sul conflitto in Palestina. Come si spiega questo impegno di lunga data, soprattutto se paragonato a quello di altre associazioni di ebrei progressisti in Europa?
Alcune figure importanti, come quella di Marcel Liebman, professore all’Université libre de Bruxelles e autore di numerosi testi sul conflitto, hanno fortemente influenzato la nostra associazione. Inoltre l’Upjb in origine era legata al Partito comunista belga, da cui si allontanò nel 1969 rimanendo però fedele ai valori della sinistra.
Quante persone riunisce l’Upjb e in che rapporti è con le altre comunità ebraiche belghe?
L’associazione ha circa duecento membri, mentre i sostenitori sono varie migliaia. Siamo considerati i “diversi” della comunità ebraica belga. Molti degli attacchi, spesso violenti, che riceviamo via Facebook o email arrivano da ebrei. Non abbiamo mai voluto far parte del Ccojb (Comité de coordination des organisations juives de Belgique) per via del loro allineamento automatico sulle posizioni d’Israele. Noi riconosciamo il popolo ebraico, le sue radici, la sua storia, ma non la centralità di Israele. Non auspichiamo nemmeno la scomparsa di Israele. La nostra associazione riunisce sensibilità diverse, ma siamo tutti a favore del rispetto del diritto internazionale, contro la colonizzazione, contro le politiche dell’attuale governo israeliano. Come Upjb non saremo mai a favore di Hamas, perché siamo contrari alla violenza, ma riconosciamo che i razzi di Hamas nascono dalla disperazione causata da un embargo illegale e da decenni di occupazione.
Domenica scorsa avete partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Palestina che si è svolta a Bruxelles. Molti mezzi d’informazione hanno messo in primo piano i disordini. Quel è stata la sua impressione?
Ero nel servizio d’ordine dell’Upjb e ho visto che c’erano dei provocatori: dieci, venti persone davvero decise a fare casino e qualche decina di adolescenti che gli andavano appresso. Erano comunque pochi rispetto all’insieme dei manifestanti. È un peccato che i mezzi d’informazione si siano soffermati su questo aspetto. Non tutti, però: la principale emittente pubblica, la Rtbf, si è mostrata più equilibrata.
In Francia le autorità hanno vietato le manifestazioni a sostegno della Palestina dopo gli scontri scatenati – come si è scoperto in seguito – da alcuni esponenti della Lega di difesa ebraica. Questo movimento è presente anche in Belgio?
C’è qualche membro, ma sono davvero pochi. Non penso che oserebbero fare nulla, per una semplice questione di numeri. Detto ciò, siamo convinti che la comunità ebraica debba fare pulizia nelle proprie fila. Va bene dire “non importiamo il conflitto, è importante dialogare”, ma bisogna anche esortare alla calma. Il Ccojb lo fa, ma non sistematicamente.
Negli ultimi comunicati sembra soprattutto preoccupato dall’aumento dell’antisemitismo.
Sì, e ovviamente la cosa preoccupa anche noi. Pensi all’attentato del 24 maggio al Museo ebraico di Bruxelles… Mia madre esponeva lì e si trovava nel museo proprio in quel momento, in un’altra sala. Ma per noi è chiaro che è spesso lo stato di Israele a favorire l’amalgama tra antisionismo e antisemitismo.
Come altri paesi europei, il Belgio ha recentemente sconsigliato a imprese e cittadini di “partecipare ad attività economiche e finanziarie nelle colonie israeliane”. L’Upjb, però, insieme ad altre organizzazioni, chiede un passo ulteriore.
L’adozione di queste linee guida è una buona notizia, ma non basta, perché si tratta di misure non vincolanti. Altro esempio: questa settimana il ministro dell’economia Johan Vande Lanotte ha annunciato che d’ora in poi l’origine dei prodotti alimentari provenienti dalle colonie potrà essere indicata sulle etichette. Non essendo obbligatoria, la misura sarà sicuramente aggirata. Con altre organizzazioni abbiamo quindi lanciato una campagna, Made in illegality, per chiedere al Belgio e al resto dell’Unione europea d’interrompere tutti i rapporti economici e commerciali con le colonie israeliane. Allo stesso modo abbiamo aderito alla campagna Boycott Désinvestissement Sanctions, anche se su un punto rimaniamo divisi al nostro interno, quello del boicottaggio accademico.
Avete molti contatti con i movimenti progressisti in Israele?
Sì, con organizzazioni come Breaking the silence, B’Teselem, Women in black e altre ancora. Cerchiamo di aumentare la loro visibilità invitando i loro rappresentanti in Belgio. A settembre, per esempio, parteciperemo a una settimana di eventi organizzata dalla piattaforma Watermael-Boitsfort Palestine. I progressisti in Israele subiscono pressioni terribili in un clima di isteria collettiva, frutto di una politica di estrema destra che dura da dieci anni. Le persone ormai hanno interiorizzato i Leitmotiv del governo.
Siete in contatto anche con i progressisti ebrei negli Stati Uniti?
Molti di noi sono membri o sostenitori di Jewish voice for peace. Personalmente mi piacerebbe provare a lanciare un Jewish voice for peace Europe, perché lo considero un movimento molto efficace.
Sul piano politico che soluzione auspicate al conflitto israelo-palestinese? In un articolo del 2006 un altro membro dell’Upjb, Michel Staszewski, si diceva a favore della soluzione di uno stato unico ricollegandola al movimento Brit Shalom, che negli anni venti e trenta del novecento difendeva il principio dell’uguaglianza completa tra arabi ed ebrei in Palestina.
Anche su questo punto siamo divisi tra chi appoggia la soluzione a due stati e chi la soluzione dello stato binazionale. La politica di colonizzazione d’Israele oggi rende sempre più improbabile la soluzione a due stati, a meno di chiedere lo smantellamento totale delle colonie, cosa che Israele difficilmente accetterebbe. In ogni caso non sta a noi decidere il quadro delle negoziazioni, il nostro obiettivo è far rispettare il diritto internazionale e ricordare che Israele non parla a nome di tutti gli ebrei. Inoltre rifiutiamo di presentare questo conflitto come una guerra di civiltà. Per noi è un conflitto classico, territoriale. È evidente che Israele non è interessato alla sicurezza, è solo un pretesto, e infatti il governo ha rifiutato la tregua di dieci anni proposta da Hamas. Non è un caso se l’attacco è cominciato quando si annunciava un principio di riconciliazione tra Hamas e Al Fatah. Un governo di unità nazionale è proprio quello che Israele non vuole, come non vuole che la Cisgiordania si militarizzi e che i palestinesi facciano ricorso alla Corte penale internazionale.
Qualche giorno fa l’avvocato francese ebreo Arié Alimi ha difeso sul sito Mediapart la sua decisione di difendere due ragazzi accusati di “violenze antisemite”. A chi lo considera un esempio di “odio di sé ebraico” risponde: “Forse. Ma allora è odio di quel sé sconsideratamente collettivo, tribale”.
Sì, l’ho letta, è una bella lettera. È un tema complesso, di cui si possono analizzare diversi aspetti. Per alcuni sarà il genocidio, per altri la diaspora, per altri ancora – è il mio caso – il fenomeno che potremmo chiamare di “simmetrizzazione”: gli israeliani cominciano ad adottare metodi simili a quelli che hanno portato al ghetto di Varsavia.
Un’attivista che ho intervistato al suo ritorno da Israele mi raccontava che nei centri per richiedenti asilo le persone sono identificate con un numero.
Già, i numeri non sono ancora tatuati, ma è una somiglianza che fa paura.
L’8 luglio European jews for a just peace ha inviato una lettera a Catherine Ashton, affermando, tra le altre cose: “Non ci si può aspettare che tutti i palestinesi si comportino sempre come Gandhi o Martin Luther King di fronte alle continue provocazioni” [di Israele]. A dodici anni dalla nascita di questa rete europea, qual è il bilancio della vostra azione?
Abbiamo creato la coalizione per mostrare che gli ebrei progressisti in Europa non sono isolati. Non è stato semplice, perché i movimenti nei vari paesi non hanno esattamente le stesse posizioni. Siamo d’accordo sugli obiettivi, è sul metodo che discutiamo. Ma la cosa evolve in modo positivo, come dimostra la lettera a Catherine Ashton. Ora vorremmo portare la nostra azione a un livello superiore, magari aprendo un ufficio qui a Bruxelles.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin


il manifesto 1.8.14Israele. Il boom dell’industria bellica: già in vendita le armi testate su Gaza
Intervista all'economista israeliano Shir Hever: «L'esercito detta le scelte del governo, ma manca una strategia di lungo periodo. Come ogni impero, anche Tel Aviv è vicino alla fine»
intervista di Chiara Cruciati


Nessuna tregua, l’offensiva continua. L’industria bellica israeliana pubblica e privata ha già scaldato i motori: la nuova sanguinosa operazione contro Gaza porterà con sé un’impennata delle vendite di armi. Successe con Piombo Fuso e con Colonna di Difesa. Alcune aziende firmano già contratti milio- nari. Come sempre, Israele prima testa e poi vende. Ne abbiamo parlato con Shir Hever, economista israeliano e esperto degli aspetti economici dell’occupazione.
Israele è uno dei primi esportatori di armi nel mondo. Dopo l’operazione del 2012, le ven- dite toccarono i 7 miliardi di dollari. Sarà lo stesso per Margine Protettivo?
L’industria militare israeliana è uno dei settori più significativi, il 3,5% del Pil a cui va aggiunto un altro 2% di vendite interne. Israele non è il più grande esportatore di armi al mondo, ma è il primo in termini di numero di armi vendute per cittadino, procapite. L’industria militare ha un’enorme influenza sulle scelte governative. Dopo ogni attacco contro Gaza, si organizzano fiere durante le quali le compagnie private e pubbliche presentano i prodotti utilizzati e testati sulla popolazione gazawi. Gli acquirenti si fidano perché hanno dimostrato la loro efficacia. Anche questa guerra aumenterà significativamente i profitti dell’industria militare. Basti pensare che pochi giorni fa l’Industria Aerospaziale Israeliana ha lanciato un appello agli investitori privati per la produzione di una nuova bomba. Hanno già raccolto 150 milioni di dollari, 100mila per ogni palestinese ucciso: si inizia a vendere ad operazione ancora in corso.
Se l’industria militare cresce, quella civile però subisce consistenti perdite.
I costi civili dell’attacco sono tre. Primo, quelli pagati dal sistema pubblico: l’aumento del budget per l’esercito va a spese dei servizi pubblici. Ogni attacco produce sempre tagli all’educazione, la salute, i trasporti. Prima che questo round di violenza cominciasse, fazioni politiche di centro hanno tentato di tagliare il budget dell’esercito a favore dei servizi sociali. E guarda caso, poco tempo dopo è par- tita l’operazione, per l’enorme influenza che il sistema militare ha sulle politiche del governo. A ciò si aggiungono i costi diretti e indiretti all’economia civile. I missili hanno danneggiato proprietà e le persone hanno paura ad andare al lavoro, numerose fabbriche hanno sospeso le attività e le aziende agricole sono ferme. E, infine, i costi indiretti, come quelli al settore turistico. Molte compagnie avrebbero dovuto ospitare delegazioni di imprenditori stranieri che hanno cancellato le visite e sono andati a fare affari in altri paesi.
Gaza è un mercato prigioniero, costretto all’acquisto di prodotti israeliani. L’offensiva dan- neggia chi vende nella Striscia?
In realtà no. Gaza è sì un mercato prigioniero, ma garantiva molti più profitti prima dell’inizio dell’assedio nel 2007. Prima dell’embargo era molto più facile per le compagnie israeliane inviare
i propri prodotti nei supermercati di Gaza e sfruttare manodopera a basso costo. Se l’assedio venisse allentato, l’economia israeliana ne gioverebbe perché potrebbe sfruttare ancora di più un milione
e 800mila persone, una comunità che non può produrre abbastanza ma che consuma.
Questo nuovo attacco potrebbe invece rafforzare la campagna di boicottaggio?
C’è stato un incremento significativo della campagna BDS nel mondo e lo si percepisce dalle reazioni di certi politici. Il ministro dell’Economia, il colono Naftali Bennett, cerca di incrementare gli scambi commerciali con Cina, Giappone, India, e liberarsi dalla dipendenza dall’Europa, dove il boicottaggio
attecchisce di più. Eppure due giorni fa l’Istituto Israeliano di Statistica ha registrato un calo signif- icativo del valore delle esportazioni, prima che questa operazione cominciasse: all’inizio del 2014, il valore è calato del 7% e del 10% verso i paesi asiatici. Molte compagnie esportatrici hanno chiesto un meeting d’emergenza del governo per trattare questa crisi.
Molti ritengono che questo attacco sia dovuto anche al controllo delle risorse energetiche lungo la costa di Gaza.
Non credo che ci sia un collegamento diretto: Israele ha già cominciato a sfruttare i propri giac- imenti e firmato accordi di vendita con Turchia, Cipro e Grecia. Se un giorno i palestinesi saranno in grado di sfruttare il proprio gas, non troveranno mercato perché Israele si sarà accaparrato l’area mediterranea e sarà capace di vendere a prezzi inferiori. Il mondo, che in questi giorni assiste
a massacri e distruzione di infrastrutture, non immagina neanche il momento in cui i palestinesi potranno sviluppare la propria economia interna.
Da fuori sembra che il governo israeliano non abbia in mente una strategia di lungo periodo, ma tenti di mantenere lo status quo dell’occupazione.
È così. L’attuale governo non ha una strategia politica, cammina in una strada senza uscita. Sa che Abu Mazen è l’unico con cui negoziare, ma allo stesso tempo ne mina la legittimità. Nella storia tutti gli imperi hanno finito per ragionare solo nel breve periodo, per poi collassare. Dalla Seconda Inti- fada la politica non è quella di porre fine al “conflitto” ma di gestirlo. Molti israeliani pensano che non ci sia futuro e si spostano verso destra. Il livello di razzismo e violenza attuale è terribile, ma allo stesso è segno di estrema debolezza. Questo mi regala un po’ di speranza

venerdì 1 agosto 2014

Repubblica 1.8.14
Corsa contro il tempo per salvare l’Unità, ma è rottura tra Fago e il Pd
di Alberto Custodero


ROMA . Una corsa contro il tempo per resuscitare l’Unità che, schiacciata dai debiti, oggi sospenderà le pubblicazioni. Il premier è intervenuto sulla crisi del quotidiano fondato da Gramsci. «Anziché stare a discutere sulle responsabilità del passato — ha detto Matteo Renzi — dobbiamo fare una grande scommessa sul brand del giornale, sapendo che la priorità è partire dai lavoratori». Il primo a scommettere su una prossima presenza in edicola è il direttore, Luca Landò, che ieri, nell’editoriale intitolato “L’Unità è viva”, ha ammonito: «Fate girare la voce: questo non è l’ultimo numero». La direzione del Pd ha approvato un ordine del giorno con il quale il partito «si impegna ad agire per riportare l’Unità in edicola, anche valutando ipotesi di “azionariato popolare” che possa affiancare un progetto imprenditoriale per la sua rinascita».
Sul fronte delle trattative la situazione al momento non è rosea. Dopo il no a sorpresa dell’assemblea degli azionisti della “Nuova iniziativa editoriale” spa a un piano di rilancio (proposto dal socio di maggioranza, Matteo Fago, e sostenuto dai poligrafici e giornalisti), la palla, sotto forma di domanda di concordato preventivo, passerà ora al Tribunale che nominerà un commissario. Tra le varie proposte di rilancio che il commissario dovrà valutare, c’è anche quella che lo stesso Fago fa con una società al 100 per cento sua, la Editorialenovanta costituita il 6 maggio di quest’anno. Mentre però la Nie Spa era forte di un capitale sociale di 7milioni e mezzo circa, la nuova srl di Fago si espone con appena 10mila euro di capitale sociale. Sta di fatto che tra il Pd e Fago è rottura: martedì il tesoriere Bonifazi aveva bocciato il progetto dell’editore («Non garantisce una prospettiva certa per il futuro editoriale e occupazionale dell’Unità», aveva detto). Ieri Fago ha replicato sostenendo che la chiusura del giornale è stata determinata «da veti politici ed azionari incrociati». «E ora — conclude — ognuno si assuma la propria responsabilità».

Repubblica 1.8.14
Comunicato del Cdr di Repubblica

L’UNITÀ sospende le sue pubblicazioni nella sostanziale inerzia e afasia di quanti - azionisti e politica - ritengono evidentemente fisiologico che il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e una parte significativa di storia del giornalismo e della cultura italiane, possano serenamente essere sepolte all’esito di una gestione sciagurata. La voce di un giornale che si spegne è sempre una pessima notizia. Per la qualità di una democrazia, per la ricchezza del dibattito pubblico, per il diritto dell’opinione pubblica ad essere informata. La Redazione di Repubblica è solidale con i giornalisti, i poligrafici, il personale amministrativo che, negli ultimi tre mesi, non hanno percepito gli stipendi e che, da oggi, saranno messi in cassa integrazione a zero ore. E si impegna ad essergli vicina negli sforzi che intraprenderanno di qui in avanti. Nella speranza e nella convinzione che il 31 luglio 2014 non debba essere l’epitaffio di una storia di libertà e giornalismo cominciata il 12 febbraio del 1924. Perché, come strillava la sua ultima prima pagina, “L’Unità è viva”.
Il Cdr di Repubblica

Il Velino 31.7.14
Unità, Mucchetti (Pd): un giornale renziano sarebbe una testata zoppa
di com/ndl


Roma. “Ormai da anni 'l’Unità' attira investitori privati allo scopo di integrare il finanziamento pubblico e le sempre più scarse contribuzioni del partito nella copertura delle perdite di gestione dell’editrice. Investitori variamente legati alle leadership prima del Ds e poi del Pd che si succedono nel tempo. E’ ora possibile che, per sostenere il giornale, il presidente del Consiglio eserciti un’attrazione fatale su qualche industriale, commerciante o finanziere. Dopo 'l’Unità' dalemiana, veltroniana, bersaniana, lettiana, avremo infine un’'Unità' renziana?", se lo chiede oggi Massimo Mucchetti, senatore del Pd, in una lettera al direttore del giornale fondato da Antonio Gramsci, Luca Landò.
"Non lo so - continua Mucchetti - ma sarebbe comunque una testata zoppa. Il premier segretario può ben pensare che il giornale tradizionale, con una tradizionale esposizione on line, non serva più, che sia un lusso non più adatto alla attuale penuria di mezzi. Ora, se la redazione è convinta di avere un progetto adeguato ai tempi, capace di parlare al Paese, e dunque di avere un mercato reale e un equilibrio economico in prospettiva, se così stanno le cose, e’ arrivato il momento che i giornalisti de 'l’Unità' prendano nelle loro mani il destino proprio e quello del giornale costituendo una cooperativa alla quale il partito potrebbe dare la testata in affitto a costo zero. Sarebbe dura, ma non impossibile, se la cognizione del dolore che viene da una crisi vissuta in prima persona avrà l’effetto di liberare le menti dalla subalternità all’idea che i giornali debbano per forza avere un padrone, fosse pure un partito, fosse pure il Pd, e non cercarsi una strada come public company in forma cooperativa o in forma di società per azioni". Così conclude Massimo Mucchetti.

Com.Unità 31.7.14
Gramsci, l’Unità e il fallimento di una classe dirigente
di Michele Di Salvo

qui

Corriere 1.8.14
Primo giorno senza «Unità» I giornalisti: c’è ancora tempo
di Al.Ar.


ROMA — Oggi l’Unità non sarà in edicola. Non si può dire quando ci tornerà, se ci tornerà. Tecnicamente adesso il giornale fondato da Antonio Gramsci è in concordato preventivo in bianco, una sorta di pre fallimento che si tenta in tutti i modi di scongiurare: ci sono sessanta, forse centoventi giorni di tempo perché questo avvenga. In che modo? Ieri il cdr, la rappresentanza sindacale dei giornalisti, ha convocato una conferenza stampa nella redazione per garantire che il giornale aveva avuto almeno tre offerte economiche credibili, oltre a quella di Daniela Santanchè. Spiega Bianca Di Giovanni, del cdr: «Ci sono state offerte per svariati milioni di euro. Quello che è mancato è stato un accordo politico: ora chiediamo che venga raggiunto, siamo ancora in tempo». Simone Collini, un altro membro del cdr, ha ricordato come gli ottanta lavoratori de l’Unità fossero senza stipendio da aprile, quindi ha detto: «Abbiamo chiesto ai due liquidatori di lasciare aperto almeno il sito, il costo del sito web è davvero irrisorio e noi vorremmo continuare a far sentire la nostra voce». Una richiesta quella del cdr appoggiata da Franco Siddi, segretario della Fnsi, intervenuto alla conferenza stampa: «Il sito dell’Unità deve rimanere aperto. Il sindacato dei giornalisti appoggerà questa battaglia». Dal premier Renzi parole di incoraggiamento: «La priorità è partire dai lavoratori». Ieri è stata l’ultima volta che l’Unità è andata in edicola: «L’Unità è viva» il titolo che campeggia su tutta la prima pagina. «E non abbiamo avuto torto: con questo numero abbiamo venduto 60 mila copie, come per l’anniversario della morte di Enrico Berlinguer», ha detto Umberto De Giovannangeli, un altro dei membri del cdr, ieri affannati e commossi in una redazione dove ci si affrettava a riempire scatoloni per il trasloco, a disattivare le sim aziendali dei telefonini, a cercare di tenere ancora in vita le mail aziendali per non perdere subito i contatti. I lavoratori de l’Unità hanno saputo martedì, dopo l’incontro dei soci, che di lì a 72 ore sarebbero state sospese le pubblicazioni . Ma nonostante lo choc non si arrendono.

il Fatto 1.8.14
Risposte mancanti
Maramotti: il brandy del segretario Matteo all’Unità
intervista di Mimmo Lombezzi


Il suo “studio” è collocato fra il soggiorno e la cucina di una casa popolare sulle colline di Savona. Dal balcone si vede un relitto della funivia più vecchia d’Europa che ancora oggi trasporta carbone dal mare a Cairo Montenotte e la vecchia darsena sfregiata dagli ecomostri di Calce & Martello, la speculazione rossa. Da questa “tana”, Danilo Maramotti mitraglia vignette dai tempi di Cuore e gli ultimi 13 anni li ha passati lavorando per l’Unità. Le “ferie” di Danilo non differiscono molto dai giorni di lavoro. Si alza alle 7, ascolta le radio, sfoglia i giornali, poi raggiunge una spiaggia libera fra Savona e Vado e lì , sotto alla prora di una nave fantasma, si immerge in mare , unico bagnante accanto a una famiglia musulmana che entra in acqua con la sposa completamente vestita. Alle 11 lascia questo paesaggio degno di De Chirico e torna far rider l’Italia al tavolo da disegno. Oggi sul futuro di Mara-motti si allunga l’ombra di un’altra nave prossima al naufragio, l’Unità, e soprattutto quella dell’uomo che aveva promesso di salvarla prima di “battezzare” la rottamazione della Concordia: Matteo Renzi. Pure essendo, con Vauro, Giannelli, Staino ed Elle Kappa una delle grandi firme della satira nazionale Maramotti è il più schivo di tutti ma come si suol dire “anche i vignettisti nel loro piccolo s’incazzano” al punto da formulare , con la matita fra i denti , 10 domande a Renzi.
1) Quando lei ha detto che l’Unità è “un brand da salvare” si riferiva soltanto al “brand” , cioè al nome della testata, o anche al giornale e alla redazione ?
2 ) Quando è andato a fare l’inchino al recupero del Concordia sapeva che nelle stesse ore stava naufragando l’Unità? Non era meglio per la Sua immagine star vicino a un giornale ancora vivo che a una nave morta?
3) Lo slogan della sua fortunata campagna elettorale è stato SUBITO !. Valeva ancora quando lei ha detto che avrebbe salvato il giornale ?
4) Lei ha scalzato Letta proponendosi come l’uomo che avrebbe salvato l’Italia , cosa penserà chi l’ha eletto se Lei non riesce nemmeno a salvare la testata storica del suo partito ?
5 ) Lei è permaloso ? Sul suo scarso entusiasmo pesa forse il fatto che, al suo esordio alla guida del Pd, l’Unità non sia stata compattamente “Renziana”?
6) È vero che in un diverbio con un dirigente del Pd, Lei sarebbe sbottato dicendo (pare): “Me ne frego se chiudono i giornali”? E quando Lei ha detto che due testate erano pleonastiche per il Pd, si riferiva a Europa o all’Unità?
7) Le tv e la maggior parte dei giornali oggi sono “Renziani”. È questo consenso quasi berlusconiano che spiega la freddezza del Pd verso l’Unità e che ha facilitato la fine del giornale?
8) Lei ha contattato in questi giorni dozzine di manager e imprenditori stranieri. Possibile che non sia riuscito a formare neppure una cordata per salvare la testata-bandiera della sinistra italiana ?
9) Estenderà gli 80 euro anche ai redattori dell’Unità?
10) Lei ha parlato della “Generazione Telemaco”, cioè dei giovani che dovrebbero riprendere in mano il loro futuro. A quale mito dovrebbe ispirarsi mia figlia che ora dovrà rinunciare all’università?

Blitz Quotidiano 1.8.14
L’Unità sta morendo sotto il cielo del 40%. Pd sveglia
di Vincenzo Vita

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Caratteri Liberi 1.8.14
L’Unità, cronaca di una morte annunciata
di Vincenzo Vita

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Wired 1.8.14
L’Unità può rinascere sul web?
Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci esce in edicola per l’ultima volta
Ecco i suoi numeri (e quanto senso avrebbe uno spostamento in rete)
di Dario Falcini

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il Fatto 31.7.14
L’Unità del futuro
di Mirco Dondi

qui

L’Huffington Post 31.7.14
Caro Renzi, e cara Geloni, l'Unità, come tutti i giornali italiani, non è letta
di Maurizio Guandalini

qui

Europa 1.8.14
Si aprono spiragli per l’Unità
Renzi: «Una grande scommessa sul brand»
«La priorità è partire dai lavoratori e dalle lavoratrici del giornale» ha detto anche il segretario

qui

Politicamentecorretto.com 1.8.14
La sinistra italiana “archivia” Gramsci e l’Unità

qui

Linkiesta 31.7.14
L’Unità uccisa: indagine su una testata al di sopra di ogni sospetto
di Vittorio Ferla

qui

La Gazzetta del Mezzogiorno 31.7.14
Intellettuale di massa addio, sipario sull’Italia de «l’Unità»
di Michele Cozzi

qui

Affaritaliani 31.7.14
Si può piangere per L'Unità?
di Gianni Pardo

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Corriere 1.8.14
Naomi Wolf
«Tocca a noi ebrei all’estero schierarci»
intervista di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Gaza assomiglia sempre di più al ghetto di Varsavia. Non credo di esagerare nel disegnare quest’analogia davanti a civili intrappolati in una situazione ove la vita umana è stata deliberatamente resa impossibile». Naomi Wolf, ebrea, attivista, consulente politica dell’amministrazione Clinton ed autrice di bestseller quali «The End of America» e «Give me Liberty» chiama da Firenze, dove si trova in visita col figlio, per esprimere la propria indignazione di fronte a una guerra che sta dividendo gli ebrei americani. «Israele corre il rischio di ritrovarsi completamente sola — spiega — e questo è il motivo per cui ogni ebreo ha il dovere morale di prendere posizione. Criticare il proprio popolo quando abbandona la retta via è una forma di lealtà e patriottismo. L’opinione degli ebrei Usa conta enormemente».
Nell’ultimo sondaggio Cnn il 57% degli Americani fa il tifo per Israele.
«I media Usa si limitano a riportare acriticamente le tesi dell’esercito israeliano come quella secondo cui Hamas userebbe i civili come scudi umani. È irresponsabile scrivere ciò in mancanza di prove concrete. Gaza è densamente popolata ed è ovvio che ovunque si trovi, Hamas sia circondata da civili. Anche in questa guerra, la verità viene dai social media».
Ne è proprio convinta?
«Sono stati i siti di citizen news come “DailyCloudt”, da me ideato nel 2012, a fornirci reportage imparziali minuto per minuto. Così abbiamo appreso dei blackout di luce e gas o del fatto che a Gaza solo uno dei due genitori esce di casa per cercare acqua o cibo perché, nel caso venisse ucciso, un adulto resta coi figli».
Ieri sul «New Yorker» il direttore David Remnick se l’è presa con la destra israeliana che secondo lui avrebbe monopolizzato la cultura del Paese.
«Ha ragione. Sono allibita dal crescendo di esortazioni al genocidio tipo “spazziamoli via” che esce da rabbini, politici e civili. C’è un sacco di odio da entrambe le parti ma per Israele si tratta di un fenomeno nuovo che la storia ha insegnato essere molto pericoloso».
Nei sondaggi la stragrande maggioranza degli israeliani appoggia questa guerra che considera di autodifesa.
«Gli israeliani sono quotidianamente bombardati dalla propaganda estremista che propina loro scenari terrificanti e non verificati orchestrati da Hamas. Proprio come successe a noi americani quando ci paventarono l’Armageddon se non avessimo passato il Patriot Act e invaso l’Iraq. Anche noi eravamo tutti uniti, sbagliando perché imboccati con bugie. Quando dopo anni di terrore ci siamo risvegliati e i giornalisti hanno finalmente cominciato a fare il loro lavoro, era troppo tardi».
I razzi e i tunnel sotterranei di Hamas non sono una bugia.
«L’entità e la minaccia rappresentate dal “sofisticato network di 110 tunnel del terrore” di cui parla l’esercito israeliano non sono state confermate da alcun riscontro giornalistico indipendente. Legare il proseguimento della guerra ai tunnel è una violazione della legge internazionale visto che un Paese come l’Egitto distrugge i tunnel senza violenza o perdita di vite».
San Tommaso d’Aquino diceva che perché una guerra sia giusta, sono necessarie una giusta causa e una giusta intenzione. Chi è nel giusto in questa guerra?
«Non spetta a me trarre tale conclusione. L’unica cosa che conta adesso è la sofferenza umana. Mentre parliamo esiste una crisi umanitaria senza precedenti provocata da Israele. Giornalisti e medici sono bombardati mentre riportano le notizie e curano i feriti. Gli incubatori sono senza corrente, i nebulizzatori per l’asma non funzionano. Si opera a lume di candela. Senza parlare delle epidemie che stanno per abbattersi a causa della mancanza di igiene».
Secondo il rabbino Brant Rosen della Jewish Voice for Peace, Israele dovrebbe negoziare con Hamas come fece con l’Olp prima di Oslo.
«Hamas e Israele farebbero meglio a seguire la via diplomatica invece di sparare ai civili. Sedere attorno ad un tavolo e trattare è meglio in ogni relazione, personale e politica. Ma se si pongono precondizioni prima di parlare coi nostri parenti e vicini — come sono israeliani e palestinesi — nessun rapporto o famiglia alla fine ne uscirà vivo».

il Fatto 1.8.14
Meglio la prigione
Uriel: “Non voglio colpire i civili”
di Roberta Zunini


Salve, il mo nome è Uriel Ferera, ho 19 anni, abito a Beersheva. Ho già trascorso 70 giorni in prigione per aver rifiutato di fare il servizio militare e ora sto per tornarci perché non ho accettato di andare a combattere a Gaza, una guerra che considero ancora più ingiusta dato che è inevitabile colpire civili innocenti essendo la Striscia piccola e densamente abitata”. Inizia così il video che lo studente ebreo israeliano di origine argentina ha postato sul suo profilo Facebook prima di tornare in prigione dieci giorni fa. Il giorno precedente il suo rientro nella “prigione 6” vicino ad Haifa, l’aspirante ingegnere informatico ha deciso di raccontare perché questa volta, è ancora più “convinto e orgoglioso di questa scelta”. Nel video Uriel sottolinea di essere un ebreo praticante, un uomo di fede, ortodosso, ma la sua è anche una decisione politica: “Come fedele ritengo vada contro la legge di Dio, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza, uccidere, e a maggior ragione uccidere civili innocenti, colpevoli solo di essere nati nel posto sbagliato. Ma mi rifiuto di entrare nell’esercito non solo per non contravvenire alle leggi di Dio, bensì perché il nostro è un esercito di occupazione che viola quotidianamente i diritti umani dei palestinesi, umiliati e anche uccisi solo perché vogliono vivere liberi e avere uno stato”. La madre di Uriel, Ruty è una fotografa pubblicitaria nata in Argentina e trasferitasi in Israele dopo aver avuto la seconda figlia, anche lei refusnik (ma le donne non vanno in carcere). Sostiene con convinzione la scelta del figlio: lo sente al telefono ogni giorno per quattro minuti, il tempo massimo concesso. “Quando Uriel è stato convocato per la leva obbligatoria, qui non è prevista l’obiezione di coscienza, lo scorso aprile - dice al Fatto- si è presentato davanti agli ufficiali e ha spiegato di essere contrario alla logica della militarizzazione di Israele e, a maggior ragione è contro l’occupazione, una delle sue conseguenze. Non ha fatto come molti altri refusnik che preferiscono dire di avere problemi di incompatibilità psicologica per ottenere l’esenzione senza andare in carcere. Per lui è fondamentale manifestare il suo disappunto alle autorità anche se ciò significa andare in carcere tutte le volte che viene richiamato”. A ogni rifiuto trascorre 20 giorni dietro le sbarre e le convocazioni possono ripetersi nell’arco di tre anni. “Il suo spirito è saldo, io e sua sorella siamo con lui, anche se molti suoi amici lo hanno ripudiato come traditore”.

Corriere 1.8.14
«Metto i figli in stanze diverse per salvarli»
Hassan: tutte le sere divido la famiglia
di Davide Frattini


GAZA — La sera porta l’angoscia perché Hassan deve decidere. Riunisce i cinque figli nel soggiorno e li divide nelle stanze della casa: da ovest e dal mare potrebbero arrivare i colpi di cannone delle navi, da est le raffiche dell’artiglieria. Da sopra — e vale per tutti — il missile lasciato cadere da un jet. Hassan vive al limitare delle zone che l’esercito ha ordinato di evacuare, un’area verso il centro della città di Gaza dove la sicurezza è apparente. «Fino a quando il palazzo vicino al nostro non è stato bombardato», racconta.
Samir Hamed abita a Maghazi, verso Khan Yunis e troppo vicino alla prima linea, la fascia larga un chilometro dove sono penetrati i carrarmati israeliani. Ha due figli. La bambina è andata a rifugiarsi con la mamma dalla nonna, il maschio da un parente che vive non lontano. «Voglio che la nostra discendenza continui, che almeno uno dei due si salvi. E’ l’unico modo per andare avanti». Hisham Musa ha spostato i due figli da Bureij dopo che tre giorni fa sei membri della stessa famiglia sono rimasti uccisi. Li ha affidati agli zii, lui è rimasto perché non vuole abbandonare il cubo grigio che chiama casa.
I gruppi che provano a restare uniti sono quelli degli sfollati nelle scuole gestite dall’Unrwa, l’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Oltre 230 mila persone sparpagliate in 85 istituti. Gli altri sono costretti alla tombola della morte, a scegliere come separarsi. Intuiscono quello che le statistiche dell’Onu dimostrano: restare insieme è ancora più pericoloso. Almeno 68 famiglie hanno perso tre o più componenti in un solo attacco.
Yasser Abu Jamei, che guida il Gaza Community Mental Health Program, non era a tavola con i suoi quando un missile ha centrato l’edificio di tre piani, dove viveva anche con i fratelli, i cugini, i genitori. Sono morti in 28, lui da allora non lascia più Khan Yunis, deve ancora uscire di casa. Ripete quello che dicono altri padri: «Ogni volta che vado rivolgo a tutti un addio, non sono sicuro di ritrovarli o di sopravvivere».
Gli uomini lasciano le stanze per recuperare il pane, ore di coda come al forno Al Jari dove quelli che ancora aspettano sono arrivati all’alba e sono rimasti fuori dal portale di metallo verde per sei ore. Tutti i prezzi sono aumentati in questi ventiquattro giorni di guerra: un chilo di pane è passato da 4 a 7 shekel (da quasi 90 centesimi a un euro e mezzo). Oltre il 50 per cento degli abitanti di Gaza vive al di sotto della soglia di povertà (2 dollari, un euro e mezzo, al giorno) indicata dalle Nazioni Unite. «I gestori hanno aperto solo per qualche minuto e hanno detto che non distribuiscono le pita fino a quando qua fuori non smettiamo di urlare», racconta Rami.
Gli uomini lasciano le stanze per andare a pregare in moschea e ne approfittano per ricaricare il telefonino. La luce dei cellulari e quella delle candele diventano le uniche nelle case rimaste al buio. Martedì un bombardamento israeliano ha colpito i depositi di gasolio dell’unica centrale elettrica, l’impianto non funziona più, ci vorrà un anno per sistemarlo — dicono i tecnici. Abu Safir, ingegnere della società, spiega che in questo momento l’energia distribuita da Israele alla Striscia va tutta all’ospedale Shifa, il più grande. «Stiamo lavorando per riattivare anche le linee che portano elettricità da est». Sempre fornita dall’altra parte del confine.

Repubblica 1.8.14
L’Espresso
Parla Amos Oz: “Netanyahu è caduto in una trappola”

«LEI cosa fa se il suo vicino di casa si mette seduto sul terrazzo con il proprio figlio sulle ginocchia, imbraccia la mitraglietta e comincia a sparare verso la cameretta dei suoi figli? Chiama la polizia. Ma qui non c’è polizia». Amos Oz, il grande romanziere israeliano, racconta la guerra di questi giorni tra israeliani e palestinesi in un’intervista a Wlodek Goldkorn sul numero dell’ Espresso in edicola oggi. Oz vede la guerra come una tragedia, dove torti e ragioni sono su entrambi i fronti. Sa bene che Hamas «vuole il genocidio, ha nella sua carta programmatica il dovere di uccidere gli ebrei ovunque nel mondo». Al tempo stesso considera profondamente sbagliata la politica del governo Netanyahu. «È caduto nella trappola. Hamas vince in ogni caso. Sia se ammazza gli israeliani, sia se gli israeliani ammazzano i civili palestinesi». E ancora: Netanyahu è anacronistico, ragiona come un uomo dell’Ottocento. Ma Hamas lo è ancora di più. Loro parlano il linguaggio del sesto secolo». Nell’intervista lo scrittore affronta anche il nodo degli insediamenti israeliani in territorio palestinese, gli errori compiuti delegittimando la leadership moderata di Abu Mazen, la necessità di una convivenza.

Repubblica 1.8.14
Pippo Civati
“Se il Pd rompe con Nichi difficile restare”
intervista di G. C.


ROMA. «Sono andato al Senato per vedere quale clima ci fosse, dal momento che siamo un po’ fuori dalle orbite...». A Pippo Civati, leader della minoranza dem, non piace l’«enfasi » che il governo mette nella riforma costituzionale. Ma ancora meno gli piace la rottura tra il Pd e Vendola: «Mi auguro sia una boutade estiva, se no nel Pd ci starei davvero male».
Civati, il muro contro muro non ha tregua?
«Stiamo parlando della riforma della Costituzione. Capisco che il governo l’abbia voluta iscrivere nella propria azione, ma è materia parlamentare. Il Parlamento può anche essere una cosa farraginosa, ma è la democrazia».
A rendere incandescente il clima non è l’ostruzionismo delle opposizioni?
«Se semini vento, raccogli tempesta. Se attacchi selvaggiamente i gufi, i professoroni, i parlamentari... I dissidenti del Pd hanno presentato 60 emendamenti, che servono a discutere. Ma per Renzi le critiche sono solo pregiudiziali».
E i senatori tengono alla poltrona.
«Tengono alla poltrona quelli che sono sempre d’accordo, perché chi dissente e si oppone la rischia».
D’accordo sulle modifiche annunciate da Renzi all’Italicum?
«La soglia del 4% e del 40% per il premio di maggioranza è un mio cavallo di battaglia. Alle preferenze preferisco i collegi ma rispetto alle liste bloccate è un modo per aprire. Diciamo che Renzi si “gufizza” perché dice le cose che dicevamo noi».
Nel muro contro muro rischia di naufragare per sempre il centrosinistra, di finire l’alleanza con Vendola?
«Questo è il tema politico vero. Se è una boutade estiva, se gli avvertimenti di Renzi sono una tattica determinata dal momento, è una cosa. Ma se il Pd pensasse a una scelta strategica in cui via Vendola e dentro Alfano, Verdini, Cicchitto, beh io vado in difficoltà».
Lei uscirebbe dal partito?
«Sarei davvero in molta difficoltà, ma come tutti gli elettori del centrosinistra. Vendola sta facendo la sua parte. Cambiare la Costituzione ad agosto con scadenze che ogni giorno cambiano, l’8, il 10, il 12, sembra dare i numeri del lotto. Dobbiamo rimanere mille giorni? In mille giorni il Senato lo facciamo meglio che in una settimana». ( g. c.)

il Giornale 1.8.14
Civati: "Se il Pd rompesse con Vendola sarei molto in difficoltà"
Il deputato critica l'atteggiamento del governo, che considera poco avvezzo alle critiche. Vendola via? "Spero sia una boutade"
di Lucio Di Marzo

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Lettera 43 1.8.14
Pd, Civati: «Rottura con Sel? Vado via»
Alleanza chiave per Civati: «Se cambiano Vendola con Alfano vado in difficoltà»

E potrebbe lasciare
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Il Tempo 1.8.14
I tormenti della sinistra
Smeriglio: «Sì, è vero, i dissidenti del Pd verranno con noi»
Il vicepresidente della Regione Lazio, fedelissimo di Nichi Vendola, parla del futuro di Sel e del Pd

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giovedì 31 luglio 2014

l'Unità 31.7.14
La “striscia rossa” sulla apertura della prima pagina:

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria,
non è vita. Perciò odio gli indifferenti. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere,
se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Antonio Gramsci 11 febbraio 1917

l'Unità 31.7.14
Comunicato dei poligrafici
Nella sede de l'Unità in questo ore di sconcerto, la rassegnazione rischia di prendere il sopravvento.
L'Unità oltre alla sua storia è "testarda", ed ancora una volta proviamo con una proposta di essere protagonisti attivi del nostro futuro.
Nelle ultime 24 ore la solidarietà verso l'Unità ci ha resi orgogliosi di farne parte, pensiamo di chiedere agli azionisti ed al Pd di dimostrare di voler dare un futuro a questo quotidiano.
Noi proponiamo di lavorare gratuitamente, nonostante negli ultimi tre mesi il nostro lavoro non è stato retribuito, per tutto il periodo necessario ad una soluzione positiva della vertenza e chiediamo agli azionisti e al Pd di garantire l'uscita della testata fino al raggiungimento della soluzione.
Gli attestati di stima ci piacerebbe tradurli in un percorso vero che significhi avere sempre in edicola il nostro giornale.

l'Unità 31.7.14
Il comunicato del Cdr

Questo non è l’addio, non è il segno della resa. Da domani il nostro e vostro giornale non sarà più nelle edicole. Ma noi ci saremo. E continueremo a batterci per far tornare al più presto l’Unità tra la nostra gente, tra chi si sente parte di una storia più grande, iniziata novant’anni fa e che non può finire così. È quello che ci chiedono anche in queste ore drammatiche migliaia di lettori attraverso telefonate ed email.
L’Unità è una voce che non può essere spenta perché la sua perdita rende più povera l’informazione e il dibattito politico-culturale del nostro Paese. Un riconoscimento che ci viene non solo dalle fila della sinistra, ma anche da avversari politici. Ma gli attestati più importanti per noi vengono dai volontari delle Feste dell’Unità. In tanti ci hanno detto che sarà molto doloroso per loro contribuire alla riuscita di questi appuntamenti, con il loro servizio gratuito, generoso, appassionato, senza l’Unità. Anche a loro diciamo che torneremo ad incontrarci presto.
Nel giorno in cui i liquidatori hanno decretato la sospensione delle pubblicazioni, il segretario del Pd Matteo Renzi ha affermato: «L’Unità non chiuderà. È il momento per tutti di avere molta responsabilità. Il Pd sta lavorando ad una soluzione per salvare il quotidiano». Queste parole sono state prese sul serio dai lavoratori del giornale e immaginiamo anche da tutti coloro che ogni giorno vanno in edicola a dimostrarci il loro attaccamento.
Per questo ieri il Comitato di redazione de l’Unità ha chiesto un incontro urgente ai vertici del Pd per verificare l’impegno a dare concretezza alle parole del segretario. Il confronto avuto con il presidente del Pd Matteo Orfini, il vicesegretario Lorenzo Guerini e il tesoriere Francesco Bonifazi è servito per avere una prima risposta, che ora dovrà essere verificata nei fatti.
Ci è stato detto che il Pd sta lavorando per trovare una soluzione in tempi rapidi non solo per riportare il giornale in edicola ma per garantire un rilancio del progetto editoriale. Ci è stato detto che sono già in corso incontri con imprenditori che hanno manifestato interesse a iniziare una nuova storia insieme a noi. Prendiamo atto di queste affermazioni, ma ai nostri interlocutori abbiamo ribadito che questo è il tempo dei fatti, perché le parole da sole non hanno impedito che da domani non saremo più in edicola. Occorre fare presto e bene, perché ogni giorno che passa senza l’Unità è un giorno in cui la democrazia è un po’ più povera. E la sinistra un po’ più debole.

l'Unità 31.7.14
Fate girare la voce: questo non è l’ultimo numero
Adesso inizierà una partita nuova e diversa che avrà un commissario come arbitro:
sarà lui, non più l’assemblea dei soci, a valutare le offerte per rilanciare il giornale
Una ricchezza per la sinistra,
un luogo di informazione seria, di discussione e di confronto,
uno strumento di esplorazione del nuovo
di Loca Landò


Perdonate l’ostinazione, ma quello che avete tra le mani “non” è l’ultimo numero dell’Unità. Lo dicono, lo chiedono, lo pretendono i lettori che da ieri stanno scrivendo senza sosta, ma anche le persone che ti fermano per strada per dire che non può finire così. Che non finirà così. Il più emozionato è il tecnico di Uno Mattina che ci raggiunge nei corridoi per mostrare il braccio con la pelle d’oca: se ci penso mi viene anche il groppo in gola, dice. Un altro è Giuseppe, vecchio diffusore che telefona a Rai Tre per dire al mondo intero che lui ha passato una vita a vendere copie, casa per casa, e che una notizia così non la digerisce proprio, «perché l’Unità è un giornale da difendere, non da chiudere». Luigi, psicoanalista, sa bene come gestire i mali dell’anima (altrui) eppure si arrende e confessa: io stamattina mi sono svegliato con un dolore dentro. Anche il giornalaio dell’angolo, sempre incazzoso, questa volta si scioglie: ero abituato a riceverne poche copie, è vero, ma adesso...
Già, adesso. Stando ai liquidatori, che ieri hanno incassato il no a sorpresa dell’assemblea dei soci a un piano di rilancio (proposto dal socio di maggioranza e sostenuto da poligrafici e giornalisti), la palla, sotto forma di “domanda di concordato preventivo”, passerà ora a un tribunale che nominerà un commissario. A quel punto le cose potranno soltanto peggiorare o migliorare. Sembra banale, ma è così. Peggiorare, perché se nessuno si farà avanti, la strada obbligata sarà il fallimento e addio ritorno in edicola. Migliorare, perché a quel punto verrà meno l’assurda regola del 91% prevista dallo statuto della Nie che ha paralizzato ogni tentativo di rilancio della società e della testata. Sarà il commissario e lui solo a decidere il peso e il valore delle offerte che arriveranno: niente più giochi o sgambetti e questo è già qualcosa.Arriveranno altre offerte? Ieri abbiamo saputo che Matteo Fago rilancerà la sua, quella che è stata fermata martedì dagli altri soci e che verrà ripresentata in forma riveduta e corretta (leggi “rinforzata”) perché questo chiederanno i liquidatori a chi vorrà sottoporsi, non più al giudizio di un’assemblea della Nie, ma a quello di un commissario. È una notizia importante perché apre uno spiraglio, anzi due. Il primo, che si potrebbe innescare una corsa al rialzo in cui vince chi offre di più, non solo in termini di soldi, ma anche di garanzie per lavoratori e azienda. Il secondo, da non trascurare, che in questo modo si chiuderebbe la porta a chi, giocando sul filo del fallimento, potrebbe pensare di prendere il nome della testata, e solo quello, per un pugno di euro. Una specie di asta nelle mani di un giudice o di un commissario: è questo il destino che attenderà l’Unità nei prossimi mesi? Probabilmente sì e che vinca il migliore.
Nel frattempo, da domani il giornale non sarà più in edicola. Perché così è stato deciso dopo la sciagurata assemblea di martedì che ha confermato le ormai insanabili spaccature all' interno di una società con molti debiti ma senza più un’anima. Perché solo così si spiega il “coraggio” di non accettare il piano di rilancio e mandare casa ottanta lavoratori che da tre mesi, fino a ieri, hanno lavorato senza stipendio pur di non far mancare l’Unità dalle edicole. E solo così si spiega la scelta di non far nulla di concreto per tenere viva la voce storica e di riferimento dell’intero mondo della sinistra.
Sì, martedì 29 luglio è stato compiuto un delitto, eppure siamo sempre più convinti che quello che state leggendo non sia affatto l’ultimo numero dell’Unità. Per una serie di ragioni, importanti e d’autore, che troverete in tutte queste pagine. E perché questa testata testarda ha più volte dimostrato di sapersi risollevare da crisi ancora più dure e difficili.
Spero mi perdonerete se, ancora una volta, mi fermo a citare chi, in questi mesi davvero difficili, ha reso tutto più facile e persino normale. Parlo dei colleghi giornalisti e poligrafici che da maggio a oggi hanno lavorato senza uno stipendio e nemmeno un futuro. Li abbraccio uno per uno, prima di ringraziare tutti voi che ci avete seguito e sostenuto ogni giorno con passione. E che, ne sono sicuro, continuerete a farlo. Rivediamoci presto.

l'Unità 31.7.14
C’è una sola domanda: come sarà l’Unità?
di WALTER VELTRONI


Come sarà l’Unità? Non cosa è stata e cosa è. Credo che l’ambizione che oggi deve muovere la redazione e tutti quelli che hanno a cuore il destino del giornale, a cominciare dal Pd, sia quella di guardare al futuro, non alla sopravvivenza. Lo dico non per un ottimismo di maniera ma perché questo è scritto nel dna dell’Unità e, aggiungo, nelle necessità della sinistra italiana.
Persino chi ne scrive male (anche oggi sui giornali) deve ammettere che è stata sempre una presenza indispensabile, che ogni santa mattina quel quotidiano proprio non si poteva saltare. Quando in anni lontani veniva definita come «il Corriere della sera degli operai» non lo si faceva per iperbole, perché l’Unità era un grande giornale politico, ma insieme un giornale di frontiera, il luogo di battaglie sociali e civili, la sede non formale di un dibattito culturale profondo e insieme aperto, anche nei momenti più difficili. Perdere tutto questo sarebbe grave non solo per chi ci lavora e per i lettori, sarebbe grave innanzitutto per la sinistra e per l’informazione italiana.
Sapete quanto sia forte il mio legame con il giornale: gli anni passati alla direzione sono stati una esperienza fondamentale. Anni bellissimi, di tantissimo lavoro con una redazione splendida, con un gruppo di collaboratori che messi tutti insieme sembrano il catalogo della cultura italiana di questi anni a cavallo tra i due millenni. Anni di cambiamenti radicali nella politica e nella comunicazione in cui l’Unità fu protagonista e spesso anticipatrice. Era un giornale che riusciva a vendere e ad aumentare le copie, crescevamo ogni anno di più del quindici per cento, e questo ancor prima di introdurre innovazioni come la diffusione col quotidiano delle cassette coi grandi capolavori del cinema italiano e internazionale che ci fecero arrivare quasi a cinquecentomila copie. Dentro quel giornale c’era una idea di cultura e di apertura (pubblicammo e con enorme successo i Vangeli e facemmo nascere l’Unità due, un giornale dedicato alle idee) che coglieva l’Italia nel passaggio epocale della fine della prima Repubblica. Era un giornale nuovo con radici profonde e antenne ben alzate e anche questo era insieme frutto di una innovazione ma anche di una “tradizione”, quella del giornale pensato da Gramsci come popolare e colto, che era tutto meno che grigiore.
Per una coincidenza che non richiede aggettivi, proprio oggi se n’è andato Fausto Ibba. Solo raccontare quello che ha fatto e quello che era Fausto occuperebbe un libro. Era un uomo silenzioso e forse anche tra i lettori non molti ricorderanno la sua firma, altri lo ricorderanno sul giornale, a me preme soltanto dire che c’era nella sua figura minuta di sardo (con dei capelli neri un po’ alla Berlinguer e un po’ alla Gramsci) la sintesi delle mille doti di quella storia: un intellettuale colto e serissimo, un politico persino troppo sottile per tempi così poco raffinati, una scrittura secca senza nessun orpello ma mai grigia, una storia privata tra Mosca e la rivendicazione della propria indipendenza. Ecco cos’era la storia su cui innestavamo le nostre idee e le nostre innovazioni.
L’Unità è a un passaggio difficile. Come nell’estate del 2000. Allora ero alla giuda dei Ds fummo costretti ad una chiusura resa necessaria da un flusso di debiti che rischiavano di sommergere tutto, giornale e partito. Fu una chiusura di otto mesi che permise poi una rinascita vera. Da allora e per 14 anni l’Unità è tornata ad essere protagonista con la direzione di Furio Colombo, di Antonio Padellaro, di Concita De Gregorio, di Claudio Sardo e infine di Luca Landò.
E torno da dove ero partito. Sono convinto che vi sia lo spazio e la necessità di un giornale che innovando riprenda questa storia. Una ricchezza per la sinistra, un luogo di informazione seria, di discussione e di confronto, uno strumento di esplorazione del nuovo. Senza, siamo tutti più poveri. E allora abbiamo il dovere di farci una sola domanda: come sarà l’Unità?

l'Unità 31.7.14
Giornalismo etico e leale per il lavoro e il Paese
di SUSANNA CAMUSSO


L’Unità ha rappresentato e rappresenta per noi della Cgil, per il movimento sindacale, per i lavoratori una parte della nostra storia. Ci ha accompagnato nelle nostre battaglie, nelle nostre vittorie e nelle nostre sconfitte. Ha soprattutto dato importanza e dignità al lavoro e questo ruolo è stato ancora più importante negli ultimi anni, quando gli effetti della crisi e delle politiche neoliberiste hanno operato congiuntamente per emarginare e cancellare il lavoro come valore culturale, sociale, economico. La memoria personale mi porta, poi, a ricordare l’impatto simbolico e storico dell’Unità e del Primo Maggio, dell’Unità e delle grandi manifestazioni, dell’Unità e delle lotte dei lavoratori.
Vedo nella sospensione, spero momentanea, delle pubblicazioni dell’Unità non solo un caso di crisi editoriale o aziendale, ma il segno di una svalorizzazione del lavoro e della libera informazione, come non si comprendesse che la difesa di questi principi sono tanta parte della vita delle persone. Penso che questa riflessione dovrebbe essere estesa dalla crisi dell’Unità alle difficoltà dell’editoria, fino al ruolo del servizio pubblico della Rai duramente minacciato. Si taglia e basta, si chiude e non si discute più di nulla.
Sappiamo che l’Unità, come capita ai giornali, ha avuto i suoi momenti alti e bassi, ma mi chiedo che senso ha oggi dire «chiudiamo» e stop. Come si qualifica una sinistra che non ha strumenti critici di informazione, di comprensione della realtà, che rinuncia a difendere i suoi storici giornali? Avverto nel Paese una volontà iconoclasta, si abbatte e si distrugge tutto, che produce solo danni. In una stagione così lunga di difficoltà, dove spesso viene evocata l’urgenza della pace sociale, dovremmo mettere in condizione le persone che vivono la crisi di essere partecipi, soggetti attivi del processo democratico. E in questa emergenza è importantissimo come si fa informazione, con quale attenzione con quale sensibilità si vuole raccontare il Paese e i suoi problemi. Abbiamo bisogno della concretezza di un giornalismo etico e leale, di un'informazione attenta alla verifica delle fonti rispetto alla prevalenza del gossip, di un’informazione che qualifica il suo ruolo per la trasparenza dei comportamenti e la vicinanza a chi soffre. In questi anni di crisi, l’Unità e il servizio pubblico hanno avuto il merito di condurre un lavoro difficile ma coerente d’informazione che ha evitato che le tensioni degenerassero in tragedia. Per questo la chiusura dei giornali, la sospensione delle pubblicazioni dell’Unità, i tagli alla Rai rappresentano un impoverimento del Paese. Penso anche a quanto cinismo politico c’è in chi lascia chiudere l’Unità mentre rilancia il marchio delle feste dell’Unità.
È un momento difficile, inutile negarlo, ma non bisogna mettere limiti, è possibile ancora fare delle cose, costruire una soluzione positiva per l’Unità, difendere la qualità dell’informazione ben sapendo che solo con i tagli e le chiusure si colpiscono i più deboli e si fa un favore ai potenti. Il ruolo dell’informazione è decisivo per i lavoratori e le battaglie democratiche. Basterebbe vedere cosa è successo negli ultimi giorni attorno al caso Alitalia. I sindacati sono stati accusati di essere vecchi, di ostacolare l’accordo in nome di chissà quali privilegi, ed è ovviamente giusto criticare i sindacati quando è il caso. Ma poi abbiamo scoperto che il vero problema era l’aumento di capitale da riservare alla Poste. Un'informazione attenta e non servile l'avrebbe evidenziato e denunciato, anche per questo mi auguro che chi ha grandi responsabilità nella chiusura dell’Unità trovi modo di riparare. Ai lavoratori dell' Unità va la mia, la nostra, vicinanza, solidarietà e l'impegno, per quanto in nostro potere, per accelerare il suo ritorno in edicola

l'Unità 31.7.14
Questa voce serve alla sinistra e al Paese
di ALFREDO REICHLIN


La questione dell’Unità non si può chiudere così. L’Unità non è un giornale come tanti altri. E ciò per una ragione fondamentale che qualcuno non ha ben capito. Perché non è stata solo l’organo di un partito che non c'è più il Pci ma un pezzo della storia vivente dell'Italia, la voce di quella profonda corrente politica e ideale che ha fatto della sinistra l’architrave della Repubblica. Cominciò nel 1924 per la profonda convinzione di Antonio Gramsci che il fascismo fosse figlio della debolezza del fondamento popolare dello stato unitario, e che quindi la questione fondamentale stava nel colmare la divisione profonda tra operai e contadini (allora la maggioranza del paese), tra il nord e il mezzogiorno. Da allora l’Unità non ha mai ammainato la sua bandiera: Unità e lotta, dare la parola anche alle classi subalterne, porre su basi nuove, più larghe, la rifondazione della democrazia italiana, affermare la necessità per questo paese di compiere una «rivoluzione intellettuale e morale».
Perciò la vita dell’Unità non può finire in questo modo. È l’Italia di oggi che ne ha ancora bisogno, e ne ha bisogno per far fronte alle nuove sfide dell’Europa e del mondo che sono tali da rimettere in discussione la storia, la coscienza di sé, e l’unità della nazione. Ma soprattutto ne ha bisogno il Pd, se esso vuol essere davvero quel grande partito che si assume il compito di guidare l’Italia e di portarla a superare la sua crisi più grave, ed evitare uno squallido declino. Ne sono coscienti coloro che stanno discutendo della sorte di questo giornale? Il segno politico e morale che avrebbe la morte? Il segno politico e morale che avrebbe la morte dell’Unità sarebbe molto negativo e darebbe altro fiato a forze e disegni avventuristici di destra e di sinistra. La posta in gioco è molto alta. Riguarda il dove va la democrazia italiana in questo difficile passaggio.
So benissimo che la sinistra non è una categoria dello spirito. È nata in Europa e ha fatto storia per quasi due secoli in quanto attore principale del conflitto tra le classi, cruciale nell’epoca dell’industrialismo. Quel mondo non c'è più e noi non possiamo affrontare un ruolo analogo facendo leva solo sul nostro antico patrimonio. Non è una tragedia. È un fatto. Per affrontare i nuovi conflitti di un mondo il quale esprime culture e bisogni diversissimi da quelli del 900 europeo, bisogna andare oltre i nostri vecchi confini. È tempo di incontrare altre culture e altre idee di riformismo per dar vita a qualcosa di molto più forte di una combinazione elettorale e di molto più serio di un club di comunicatori televisivi. Qui sta il ruolo di un tipo di giornale come può essere l’Unità. È prima di tutto ai compagni dell’Unità che rivolgo i miei pensieri con affetto e profonda amicizia. Essi hanno combattuto bene in tutto questo tempo, con valore e dignità. Essi hanno onorato una grande tradizione di cui sono stato anch'io partecipe e che ha segnato gran parte della mia vita. L’Unità risorgerà. Ne sono sicuro. Ne hanno bisogno i giovani italiani a cui si sta negando il futuro, ne ha bisogno il mondo del lavoro così minacciato e sfruttato, ma soprattutto ne ha bisogno la libertà degli uomini di pensare con la loro testa e di tornare a impadronirsi della loro vita.

l'Unità 31.7.14
Sempre attenti ai diritti degli ultimi
di LAURA BOLDRINI


È con particolare dispiacere che vi faccio arrivare questa mia nota di solidarietà alla vigilia della vostra chiusura. Ogni voce che si spegne nel panorama dell’informazione italiana deve essere motivo di preoccupazione per lo stato di salute del nostro pluralismo. Ma il rammarico si fa più grande per il coinvolgimento personale che mi lega a l’Unità: non dimentico come vi avevo scritto a febbraio, in occasione dei vostri 90 anni l’ospitalità ricevuta sulle colonne del giornale nei lunghi anni del mio lavoro con le Nazioni Unite, quando a farci incontrare era stata la vostra attenzione per i diritti umani e per le crisi dimenticate. Leggo in queste ore della determinazione con cui la redazione e tutti i lavoratori de l’Unità riaffermano la volontà di non accettare la chiusura come un destino definitivo e immodificabile. Sappiate che sono con voi. Spero anche io che al più presto si possano determinare le condizioni che vi consentano di tornare in edicola: come merita la vostra storia, come attendono i vostri lettori.

l'Unità 31.7.14
Con l’Unità le idee e i valori della sinistra
di MASSIMO D’ALEMA


Non riesco a pensare di andare in edicola la mattina e non trovare l’Unità. Di quel giornale sono stato da sempre fedele lettore ma anche direttore, in un periodo breve ma indimenticabile, quello segnato dalla grande crisi del movimento comunista, dalla svolta della Bolognina e dalla nascita del nuovo partito.
Come avrebbe potuto, la sinistra, vivere quella stagione senza l’Unità? Senza le pagine che davano voce non solo ai ragionamenti politici, ma anche ai sentimenti contrastanti di decine di migliaia di militati?
Lì ho anche compiuto il mio apprendistato giornalistico, accanto a professionisti di grande livello, rigore e scrupolo, di straordinario valore umano, capaci di conciliare giorno per giorno la condizione problematica di «giornalisti di partito» con l’ambizione di competere con grandi testate che disponevano di risorse enormemente maggiori delle nostre.
Per questo la sinistra e il giornalismo del nostro paese non possono fare a meno dell’Unità. Quello che auspico e ciò per cui mi impegno nei limiti delle mie possibilità è che il giornale torni in edicola con un progetto di rilancio, che sia tuttavia rispettoso dell’identità di un quotidiano che non può essere come gli altri e che deve mantenere il suo profilo di portavoce delle idee e dei valori della sinistra.
In questa prospettiva, sono convinto che il Partito Democratico non possa sottrarsi alle proprie responsabilità e permettere che finisca un’esperienza straordinaria come quella dell’Unità.

l'Unità 31.7.14
Sia il quotidiano di riferimento per il Pd e per i riformisti
di EMANUELE MACALUSO


Negli ultimi anni, negli ultimi mesi e negli ultimi giorni ho seguito con rabbia e amarezza la vicenda dell'Unità. Il mio, forse, è uno sfogo, ma la contraddizione che ha caratterizzato in questi anni l'Unità è il fatto che nella testata è rimasto il ricordo che il giornale è stato fondato da Antonio Gramsci, anche quando la proprietà è stata privatizzata. Si dirà che era il solo modo, dopo la chiusura, per far tornare l'Unità nelle edicole. Non conosco bene le cose, non so perché il gruppo dirigente dei Ds decise di chiudere il giornale, anziché adeguarlo ai tempi che cambiavano. Ma dal momento in cui imprenditori privati si impadronivano della testata le cose cambiavano e in effetti oggi si è conclusa quella fase: fra i proprietari dell'Unità c'è una ex parlamentare di Berlusconi e la signora Santanchè ha tentato di lanciare un'opa sulla testata in cui spicca ancora il nome Gramsci.
Ora siamo al dunque. Occorrerebbe aprire un dibattito sulle ragioni per cui il quotidiano ha perduto tanti lettori. Non si tratta solo di una perdita fisiologica che riguarda tutta la carta stampata. C'è di più e dell'altro. Questa è la questione principale. Non è l'occasione per discuterne, ma è un tema, che a me sembra centrale, e andrebbe subito affrontato. Altrimenti non si va da nessuna parte. Infatti, riguarda la sua identità. L'Unità nella pubblica opinione è considerato un quotidiano del Pd, ma questo partito non lo sa, o meglio non vuole saperlo. Il problema non è solo finanziario, ma politico ed editoriale. Oggi non basta dire che un giornale è di sinistra per avere una identità. Anche il Fatto Quotidiano dice di essere di sinistra perché ospita persone che hanno una storia nella sinistra, ma è guidato ed egemonizzato da un giornalista, Marco Travaglio, che ha una storia, anche rispettabile, nella destra. E tale era anche negli anni in cui, con la proprietà privata, era all'Unità. Tuttavia, quel giornale, giustizialista, convoglia tutto ciò che è «contro», senza preoccupazione sulla tenuta del sistema. Raccoglie ciò che una certa sinistra e una certa destra, come è il grillismo, esprimono, manifestando un'opposizione radicale, vociante, anche bugiarda e senza prospettiva. Tuttavia, in questa area, quel giornale ha oggi una sua identità. A sinistra c'è anche Vendola e il suo piccolo partito. Ci sono altri gruppi e gruppetti.
Come è noto io non ho aderito al Pd e ho una storia nella sinistra. E ad essa, forse sbagliando, penso di restare legato. Ma un giornale deve avere un riferimento chiaro e netto, come l'aveva l'Unità del Pci, l'Avanti! del Psi (dal 1896). Oggi a mio avviso, l'Unità può avere ruolo se è il giornale del Pd e al tempo stesso abbia la capacità di dare voce a tutte le aree della sinistra riformista, socialista, laica e cattolica. Ma con un riferimento chiaro, impegnato in una lotta politica quotidiana, con grinta e argomenti. A questo punto, a mio avviso, la domanda è: il Pd vuole un quotidiano di riferimento o no? Se sì, s'impegni. Un'ultima considerazione rivolta ai miei colleghi che lavorano all'Unità. Nei vostri comunicati e nella vostra lotta per salvare il giornale avete dato l'impressione che sia possibile continuare con l'Unità così com'è. Togliatti, quando rifondò il Pci disse che l'Unità doveva essere il Corriere della Sera, della classe operaia, dei lavoratori. Quella storia, nel bene e nel male, è finita. Oggi c'è il web e la carta stampata cambia continuamente per esistere in correlazione con il quotidiano online.
L'Unità non è più il giornale che diffondeva centinaia di migliaia di copie. E, a mio avviso non può più avere la struttura che ha conservato. Può assolvere un grande ruolo come quotidiano di lotta politica e culturale con una struttura adeguata a questo compito. Ma questo è compito vostro. Quel che oggi conta è l'impegno per salvare il giornale. E, a mio avviso, ripeto, la parola e al Pd e al suo segretario.
P.S. Mentre scrivo Giorgio Frasca Polara mi comunica che è morto Fausto Ibba. Lo ricordo con affetto. Una colonna della vecchia Unità: scrittura lenta ma forte, colta e graffiante.

l'Unità 31.7.14
Un baluardo contro lo scempio del territorio
di VITTORIO EMILIANI


Leggo l’Unità tutti i giorni da quando, ancora studenti all’Università, costituimmo alla fine degli anni cinquanta nella redazione del settimanale il Cittadino, a Voghera (patria di giornalisti del quotidiano del Pci quali Marco Marchetti, Gino Sala e Adriano Guerra), un gruppo di lavoro sulla stampa. Ognuno doveva leggere oltre al proprio (che a quei tempi era il Giorno) tre giornali e io ebbi da seguire, fra gli altri, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. All’epoca noi eravamo radicali o socialisti, ma coi cari colleghi che ho citato discutevamo accesamente senza mai sentirci “avversari”. Erano i tempi eroici in cui Ugo Marelli, formaggiaio di Voghera, comunistissimo, diffondeva alla domenica, comprandole, decine e decine di copie. Era lo stesso che, ospitando a casa sua Giuseppe Dozza per la chiusura della campagna elettorale gli metteva sul comodino le opere di Lenin.
Quando cominciai a collaborare, da Milano, al Mondo e all’Espresso, uno dei punti di riferimento era il mussoliniano Palazzo dei giornali di piazza Cavour dove aveva sede l’Unità milanese, la più venduta, diretta prima da Davide Lajolo, col quale non andavo d’accordissimo, poi da Aldo Tortorella al quale invece mi lega tuttora una forte e laica amicizia. Nell’edificio c’era pure il piccolo, scelto gruppo dell’Avanti!, Gaetano Tumiati, Fidia Sassano, Carlo Bonetti, Gigi Fossati, Luigi Vismara e tanti altri.
Ma vengo rapidamente a ieri e a oggi. Ho collaborato episodicamente al giornale al tempo in cui lo dirigeva Paolo Gambescia. Stabilmente dalla direzione di Furio Colombo, poi di Antonio Padellaro, Concita De Gregorio e Claudio Sardo fino all’amico Luca Landò. Mi è stato chiesto di trattare tanti argomenti, ho svolto con la massima libertà inchieste spesso polemiche, specialmente sulle tematiche della difesa del suolo, della tutela del paesaggio e dei beni culturali, sull’attacco berlusconiano ai beni comuni all’insegna del “ciascuno è padrone a casa sua” che ha ancora tanto successo. L’altra sera ho sentito uno dei due sottosegretari ai Beni culturali, nientemeno, Francesca Barracciu affermare che l’abusivismo edilizio e ambientale è frutto, principalmente, della eccessiva complicatezza delle norme legali. Con tanti saluti a quanti hanno costruito rispettando invece leggi e regolamenti. Adesso con la semplificazione in arrivo... Nemmeno un accenno al racket che sta dietro a tutta l’economia abusiva e sommersa, edilizia in testa. E ai guasti spaventosi che essa produce.
Ho capito meglio perché dell’Unità che stavano mandando in edicola e sul web Luca Landò, Pietro Spataro, Rinaldo Gianola, Daniela Amenta e tanti altri coi quali abbiamo collaborato con passione e disinteresse personale, non poteva importare a questo Pd, alla sua maggioranza almeno. Perché il giornale sui temi strategici che ho detto (sui quali penso alla tragedia della difesa idrogeologica non ho sentito spendere dal governo Renzi un’unghia dell’impegno riservato a nuove autostrade e simili) si poneva come un moderno e laico «quotidiano di sinistra». Grave colpa. Un giudizio troppo severo? Mi auguro di venire smentito dai fatti.
Mancherà molto questa Unità libera, svincolata da obblighi di partito o di leadership. Mancherà molto a un numero di persone assai più alto dei suoi acquirenti e lettori. Mi dico che in tempi non lontanissimi, in fondo, il giornale era già sparito dalle edicole. Mi dico che un azionariato popolare poteva essere tentato... Ma probabilmente è un’utopia di altri tempi. Non perdiamoci di vista, amici, compagni.

l'Unità 31.7.14
I cattivi argomenti di mercatisti e indifferenti
di MASSIMO ADINOLFI


Non vi sono solo quelli che si dispiacciono per la sospensione delle pubblicazioni del giornale. E per l’incomprensibile chiusura del sito. Ci sono pure quelli che brindano, e quelli che se la cavano, più laicamente (dicono), con un’alzata di spalle. E gli uni e gli altri non è detto affatto che siano soltanto tra coloro i quali non hanno mai accompagnato la vita del giornale, o la sinistra che questo giornale ha rappresentato: si trovano anche di quelli che invece no, qualche pezzo di strada insieme lo hanno fatto, e però ora sfoderano due argomenti. Il primo: un giornale deve stare sul mercato, se non ce la fa si chiude e amen. Il secondo: se il pubblico vi ha lasciato vi sarà un motivo, e il motivo è che la sinistra non si sente più rappresentata dall’Unità. Inutile quindi che tiriate su l’icona del fondatore, gli occhialini e tutto quanto: vi avrebbe lasciato anche lui, anche Gramsci.
Ora, io penso che entrambi gli argomenti non colgano il segno. Quanto al primo: c’è chi dice che non si capisce perché lo Stato debba metterci i soldi (col finanziamento pubblico all’editoria). Io invece lo capisco, penso anzi che rientri nei compiti dello Stato quello di contribuire a tenere viva la varietà delle voci della pubblica opinione; e difendo il principio, per quanto storte possano essere state le applicazioni. Lo difendo persino nel caso tanto deprecato del finanziamento pubblico ai partiti, così come penso che un partito è tale anche (non solo ma anche) perché si impegna sul fronte dell’informazione, della comunicazione, della formazione. E poi non penso affatto che non vi sia spazio sul mercato per un giornale come l’Unità: a condizione però di volerlo cercare. Oggi non si legge di meno: si legge di più. Non si deve confondere il mutamento degli abiti di lettura con la loro fine.
Non condivido neppure il secondo argomento. Invidio coloro i quali vogliono spiegare all’Unità dove sta la sinistra oggi: hanno certezze che io non ho. E che forse non hanno gli stessi elettori. Certo, non accade più che ci si senta di sinistra perché si compra l’Unità, ma ciò non toglie che chi compra l’Unità si considera di sinistra (figuriamoci quelli che ci scrivono). Quelli poi che hanno in testa una certa idea di sinistra che non trovano sulle colonne del giornale, di solito ne danno una rappresentazione talmente minoritaria che ben difficilmente può valere come la soluzione. Poi valgono tutte le critiche alle confusioni ideologiche di questi anni, e alcune le condivido anche, ma questo è il terreno da esplorare, non quello da sgombrare.
Ora, non ho scritto volutamente un pezzo sull’importanza di una voce come l’Unità, e sulla perdita che la sua chiusura rappresenta nel panorama dell’informazione oggi. Non l’ho fatto perché ho preferito ragionarne un po’ (poco, negli spazi dati). Credo infatti che la più profonda attitudine del giornale fosse divenuta questa: ragionare criticamente, pacatamente, liberamente. Ma ragionare.
Per il resto (e non è un resto: è tanto, quasi tutto), mi basta rimandare alle storiche prime pagine del giornale, tutti le conosciamo ma c’è da visitare un ricchissimo archivio storico che è sempre disponibile sul sito, sempre che non venga reso inaccessibile pure quello, e ancora di più basta rimandare alle foto di compagni e militanti – quelli a cui Di Vittorio aveva insegnato a non togliersi il cappello davanti al padrone – che lo leggevano nelle bacheche delle sezioni, e lo portavano con orgoglio nella tasca o sotto il braccio. Quelle bacheche quasi non ci sono più, e questo però – mi sia consentito – non è un problema solo per il giornale.

l'Unità 31.7.14
L’antica sfida di un foglio di lotta e di pensiero
di MICHELE PROSPERO


Solo l’Unità, nel corso della storia repubblicana, ha fuso mirabilmente cultura alta e sentimenti popolari. Ha cioè costruito momenti di raffinata riflessione, con la penna di scrittori, economisti, filosofi, storici, giornalisti chiamati a misurarsi con le trasformazioni del Paese. E, al tempo stesso, ha suggerito delle stringate categorie d’analisi per guidare l’azione di un esercito militante indotto a crescere, cioè a mettere più intelligenza nella interpretazione delle cose quotidiane. Un giornale unico, di lotta e di pensiero, di battaglia e di riflessione, questo è stato il marchio di fabbrica peculiare dell’Unità.
La cultura era sollecitata a scendere nelle pieghe del reale per sentirsi comunità e i ceti subalterni erano spinti a compiere degli sforzi per trascendere i residui delle mentalità arcaiche. Quando la cultura non era accademismo sterile ma si interrogava sulle tendenze della società, magari con le griglie ideologiche di chi sentiva di aver afferrato il significato della storia e decifrato il senso della sua oggettiva contraddizione, e il popolo non era ancora catturato dalla regressione populista verso il macabro fascino delle notizie spazzatura, il giornale di Gramsci univa con efficacia registri differenti. E così conquistava un cospicuo mercato di lettori affascinati dalle prove di un pensiero critico destinato a un più vasto pubblico. Solo l’Unità poteva annunciare, e mettendola in grande evidenza in prima pagina, la morte di grandi filosofi-militanti, dalla scrittura a tratti enigmatica, come Antonio Banfi o Galvano Della Volpe.
Il giornale era anche un movimento diffuso, fatto di operai che leggevano il foglio delle loro lotte, di ragazzi che diffondevano una copia con la settimanale pagina dedicata alla scuola o all’inserto libri, di giovani che piegavano con perizia la prima pagina per far mostrare a tutti il nome della testata che era il simbolo di una appartenenza. L’Unità poi era anche il nome fortunato dato a una grande festa di popolo, messa su con delle impegnative sottoscrizioni estive e con la fatica volontaria sopportata dagli attivisti per esserci, con il giornale e con le bandiere, in ogni sperduto angolo d’Italia.
Gravata da un sovraccarico di grande storia, con i successi e le sconfitte di un movimento novecentesco, e affollata dalle trame di infinite microstorie di militanti, dal vissuto di semplici famiglie comuniste, il giornale non poteva uscire indenne dalla rimozione di ogni traccia di rosso nella vicenda repubblicana. Nella catastrofe, e nello spaesamento che ne è derivato, ha saputo però ritrovare lo spazio di una nuova proposta. La caduta di ogni prestigio della politica, declassata di ogni valore e osteggiata nel senso comune come un famelico nemico da aggredire con disprezzo, non poteva che ferire un giornale politico, che alla politica conferiva il senso alto di una impresa culturale per il cambiamento.
Eppure, soprattutto per un foglio come l’Unità, ciò che deve essere (perché il giornale deve ancora essere, e recitare una parte rilevante) è connesso ai mille fili di ciò che è stato. La navigazione in rete e i giudizi scolpiti in 140 caratteri non possono a lungo esaurire lo spazio del confronto pubblico, che si alimenta con la passione e con il pensiero. La malattia mortale della democrazia italiana (di cui anche la chiusura della testata voluta da Gramsci è un macabro indizio) sarà scongiurata solo quando la politica riconquisterà il gusto della complessità. In questo lavoro per ripristinare le condizioni di una politica-progetto, ci sarà posto anche per l’Unità. Il giornale della politica ritrovata.

l'Unità 31.7.14
Una ferita terribile, ma il giornale ce la farà
di CLAUDIO SARDO


L’Unità non può morire. L’Unità vivrà. Avrà una nuova primavera. Continuerà a raccontare il Paese che cambia, le storie di chi si batte per una società più giusta, le innovazioni necessarie a una sinistra che sia all’altezza dei tempi. Continuerà a fare informazione, a dare spazio al pensiero critico in un tempo di grande omologazione, e dunque a produrre cultura. La democrazia e il giornalismo italiani non possono fare a meno de l’Unità.
Oggi è un giorno triste. Una ferita è stata inferta a tutti noi. La sospensione delle pubblicazioni è una notizia insopportabile. Dobbiamo fare in modo che lo stop sia il più breve possibile. È un impegno con noi stessi, con i lettori, con chi ha ne l’Unità una parte di cuore e con chi crede nel pluralismo anche se tante volte non ha condiviso i contenuti del nostro giornale. Soprattutto devono impegnarsi coloro che hanno le maggiori responsabilità sul destino di questa impresa editoriale. L’Unità è un’azienda, certo, deve stare sul mercato, ovviamente, ma è anche qualcosa di più. È un patrimonio che non si può privatizzare, è un bene comune per tanti cittadini e come tale va rispettato, curato, valorizzato.
Non è vero che l’Unità non ha lettori sufficienti per garantirsi una presenza come quotidiano nazionale. Lo spazio c’è, pur nella contrazione del mercato della carta stampata. Lo spazio c’è, anche se il mercato non è paritario, anche se favorisce i grandi, anche se penalizza gravemente i giornali di idee sul piano della pubblicità (quanti furiosi pregiudizi in questa campagna contro il fondo dell’editoria, mentre invece servirebbe un’equa e trasparente legge per aiutare l’intero sistema ad ammodernarsi e ridurre le posizioni dominanti). Naturalmente, sul piano del prodotto bisogna fare sempre di più e di meglio. Mettere in campo nuove idee. Sperimentarle coraggio nell’integrazione tra carta e web. Ma in questo momento la priorità è che si delinei un nuovo progetto, che il testimone della vecchia società passi a una nuova impresa, che si creino le condizioni per ripartire. I giornalisti de l’Unità hanno già dimostrato la loro passione e la loro professionalità continuando a lavorare in questi mesi senza ricevere lo stipendio e senza avere certezze sul loro futuro. È una comunità straordinaria: fare il direttore per un tratto della sua storia è stato per me un grande onore e un’esperienza umana ricchissima. Le lacrime che ho visto ieri sul volto di colleghi di grande valore sono immagini che non dimenticherò.
Ma l’Unità vivrà perché i suoi novant’anni di storia non sono nostalgia. Perché la sinistra non è il passato. Perché il giornalismo non è solo la descrizione di un presente senza futuro. L’Unità ha molte cose da dire nel tempo nuovo. L’Italia vive una crisi profonda, il governo Renzi ha suscitato speranze, le diseguaglianze sociali interrogano la sinistra e la spingono a cambiare. Bisogna liberarci dalla cappa del pensiero unico. Bisogna separare il populismo distruttivo dalle giuste domande di tanti nostri concittadini spaventati e spinti sempre più verso la solitudine e l’individualismo. Per questo ci vuole un giornale di sinistra che accetti la sfida dell’innovazione, che si ponga il traguardo di un riscatto del Paese, che sappia dare voce alle passioni civili che nella società ci sono e talvolta neppure vengono conosciute.
Il Pd deve fare la sua parte. L’Unità non può tornare a essere un giornale di partito come lo è stato per lungo tempo nella sua storia. Oggi l’autonomia di un giornale è una condizione vitale. Ma il mercato de l’Unità è quello dove vivono i democratici, la sinistra nella sua pluralità, i sindacati, le forze sociali della solidarietà. Il Pd ha una responsabilità. E deve essere un serio impegno favorire la nascita di un progetto per l’Unità.

l'Unità 31.7.14
l’Unità chiude ma non muore
di MAURIZIO DE GIOVANNI


E così finalmente l’Unità chiude.
Per la gioia di tutti quelli che sostengono che un giornale sia un’im-
presa come un’altra, che debba garantire un utile agli azionisti e svolgere una funzione primariamente aziendale; e che quindi, a meno che non serva per dar lustro o sostenere la politica dell’azienda di riferimento, debba mostrare tette e culi in abbondanza per attirare gli appetiti dei lettori. Così si vende, così si attraggono gli inserzionisti, così si fa fatturato: l’informazione al tempo del conto economico questo prevede, è la via maestra tracciata dai Grandi Gruppi, ci si deve uniformare. Chi non lo fa, deve chiudere.
E infatti l’Unità chiude.
Con la silenziosa acquiescenza del primo partito italiano, al quale per novant’anni il giornale ha fatto riferimento, che ha sostenuto e protetto e promosso e implementato per quasi un secolo. Un partito che oggi ha tante anime da non averne nemmeno una, che nell’ansia di conquistare una vittoria purchessia ha imbarcato tanta di quella gente da non distinguere più gli amici dai nemici. Un partito che non ha bisogno di una voce, perché canta tutte le canzoni che gli capitano purché attraggano gli applausi del pubblico. Un partito che meno univoco e serio è meglio è, perché gli elettori sono come i telespettatori, vogliono ridere e divertirsi alle battute e vogliono guardare al futuro da ottimisti e la verità invece è triste e seria, e dà fastidio.
E finalmente l’Unità chiude.
Saranno felici quelli che sostengono che la sinistra è morta, che la Storia l’ha sconfitta, che non ha più senso. Facendo finta di non accorgersi delle migliaia di bambini e donne e uomini e vecchi che muoiono al largo di Lampedusa nelle loro bare di legno e vetroresina; dei fantasmi che vagano scavando di notte nei cassonetti per trovare qualcosa per mangiare; dei pensionati che muoiono di fame, che non hanno più dignità di uomini e di donne; di una politica estera che consente genocidi e uccisioni indiscriminate di bambini mentre giocano e di donne al mercato. Perché la sinistra è morta, lo dice la Storia, e chi è sopravvissuto balla felice sul ponte del Titanic in smoking e cravatta a farfalla, e non sopporta la voce lugubre di chi guarda la realtà. Finalmente l’Unità chiude.
Saranno felici i grandi avversari, che ne auspicavano la morte da sempre, col loro anacronistico inestinguibile odio animato da un atavico pregiudizio. Quelli che hanno visto come il fumo negli occhi la voce di chi chiedeva attenzione allo stato sociale, all’uguaglianza e alle pari opportunità, ma sul serio, non riempiendosi la bocca di parole vuote, non cercando populistici consensi richiamando a operazioni chirurgiche da compiersi con la fiamma ossidrica. Quelli che hanno voluto un Paese basato sulla lotta, sull’egoismo, sulla prevaricazione, sul trionfo del denaro su qualsiasi altro valore. Quelli che sono garantisti a favore e giustizialisti contro. Quelli che tramano nell’ombra, e per i quali il potere può, anzi deve, essere gestito da soggetti non eletti dal popolo. Chiude, l’Unità.
E a noi che ne celebriamo il sonno viene in mente, con acuta nostalgia per un tempo mai vissuto, quanto dev’essere stato bello redigere il fondo in quel febbraio del 1924 quando il mondo era povero e straziato ma pieno di speranza per un futuro più giusto e migliore; e non possiamo fare a meno di pensare a quanto atroce sia la differenza con questo nostro tempo di tablet e smartphone, pieno di individui e vuoto di speranza. Noi che però non ci rassegneremo mai ad accettare un sistema di valori che vada contro l’uomo e che non comprenda, prima di tutto, la solidarietà. Noi che sappiamo che la Storia, a volte, si diverte a contraddirsi per un po’ ma che poi torna sempre ad affermare il proprio vero corso.
L’Unità chiude. Ma non muore. Statene certi.

l'Unità 31.7.14
L’Italia non sarà più la stessa
di PAOLO DI PAOLO


Se questo fosse davvero l’ultimo numero dell’Unità, mancherebbe un pezzo alle nostre giornate. Se questo fosse l’ultimo numero dell’Unità, mancherebbe un pezzo alla storia d’Italia. E mancherebbe un pezzo alla storia della sinistra: al presente e al futuro della sinistra. Se questo fosse l’ultimo numero dell’Unità, mancherebbero uno spazio, un cantiere di idee, mancherebbe una parte del racconto. E anche un modo di raccontare le cose, il mondo. Se questo fosse l’ultimo numero dell’Unità, sarebbe ancora più assurdo, dopo aver festeggiato il novantesimo anno, dopo avere raccolto le storie e le emozioni dei lettori, di generazioni diverse di lettori. Fissate nella memoria personale e collettiva, nelle fotografie, perfino nei romanzi. «L’Ivana detta Rosa lo aspettava ogni domenica in piazza Santa Maria Novella diffondendo l’Unità; Sesto arrivava verso le dieci e l’alleggeriva di un mezzo pacco di giornali che andava a diffondere sull’altro lato della piazza» (Tabucchi). «Papà mi ficcava nel cestone davanti alla sua bicicletta per andare a comprare l’Unità era un viaggio infinito» (Gamberale).
Se questo fosse davvero l’ultimo numero dell’Unità, si coprirebbe di polvere un immenso, prezioso archivio che riguarda tutti, chi è a sinistra e chi no; riguarda l’Italia del Novecento e di oggi, i drammi, le speranze, le conquiste. E le idee, diventate parole, diventate progetto politico, visione del mondo. Da Ingrao a Foa a Reichlin, da Ada Gobetti a Vittorini, da Lajolo a Pasolini, da Calvino a Tabucchi. Se questo fosse davvero l’ultimo numero dell’Unità, sessanta scrivanie resterebbero vuote, sessanta giornalisti privati della possibilità di fare il proprio lavoro, dopo mesi in cui hanno continuato a farlo solo per passione e per impegno, per non mollare il timone di una piccola nave nella burrasca, per tenere fede a un patto con i lettori. È stato sempre così appassionante, pomeriggio dopo pomeriggio, sera dopo sera, provare a costruire su queste pagine un racconto per tessere del Paese e del mondo la politica, l’economia, la cultura, lo sport, in una prospettiva mai neutra, mai fredda.
Se questo fosse davvero l’ultimo numero dell’Unità, ci mancherebbe anche questo l’impegno, la scelta di vita di chi firma su queste pagine. Se questo fosse davvero l’ultimo numero dell’Unità, l’Italia non sarebbe da domani la stessa. Un giornale che chiude fa poco rumore, forse è un sibilo quasi impercettibile: però è come se sparisse, di colpo, un pezzo di paesaggio. Ma questo non è, non può essere davvero l’ultimo numero dell’Unità. Questo non deve essere l’ultimo numero dell’Unità.

l'Unità 31.7.14
La tenacia del pericoloso giornale comunista
di DACIA MARAINI


L’Unità è un giornale che ho amato e su cui ho scritto, anche se saltuariamente, per anni. Mi dispiace davvero che debba chiudere. Eppure voglio credere che ce la farà ancora una volta. Deve farcela.
L’Unità ha resistito sotto il fascismo, come giornale clandestino, per vent’anni. Ha resistito altri vent’anni, insultato e maltrattato, sotto la Democrazia cristiana; ha tenuto testa, trattato da «pericoloso giornale comunista», per altri vent’anni, sotto il berlusconismo incalzante. E ora dovrebbe soccombere sotto il regime della tecnologia che penalizza la carta stampata? Anche Gramsci è stato dato per morto tante volte. Ma pure vive, col suo pensiero e le sue parole, piu di tanti politici che si credono tanto dinamici e attivi, in questa Italia rattristata, che non vuole bene a se stessa.
Certo i giornali di partito non hanno piu ragione di esistere. Certo il giornale generalista non ha piu senso. Ma per un quotidiano che approfondisca le idee, che dia informazioni dettagliate, costruite su analisi e indagini sul campo, credo sinceramente che ci sia ancora spazio. Ed è in questi termini che mi auguro che l’Unità rinasca dalle sue ceneri, come una fenice beneaugurante, e torni a farsi leggere con la gioia di un tempo.

l'Unità 31.7.14
Se i giovani prendessero in carico questa storia
di ANDREA DI CONSOLI


Scrivo quest’amarissimo articolo in Lucania, nella stanza dove sono cresciuto, nel mio paese d’origine che si chiama Rotonda.
Qui, in questa casa contadina, quando ero adolescente e sono trascorsi più di vent’anni ogni giorno leggevo L’Unità e, insieme a esso, il Corriere della Sera e Il Giornale di Indro Montanelli. Compravo tre giornali al giorno pur provenendo da una famiglia con pochissime disponibilità economiche. Risparmiavo su tutto pur di poter leggere i miei amati giornali. Oggi, invece, noto con raccapriccio e contrarietà che i giovani vogliono tutto gratis su internet, ignorando pericolosamente che i contenuti importanti costano molto, sia in termini economici che organizzativi. Eppure trovano i soldi per tutto, i nostri giovani: per bere la sera, per drogarsi, fare le vacanze, vestirsi alla moda, comprare cellulari sempre più accessoriati. Per la cultura e l’informazione, invece, riducono al minimo le spese, perché tanto si trova tutto gratis su internet. Prudenza politica e buonismo culturale indurrebbero a non chiamare mai in causa i giovani, perché essi, purtroppo, avrebbero sempre ragione. Non la penso così, e voglio dirlo proprio in questo triste giorno di commiato. Ho letto poche ore fa un commento su internet. Un orrido «utente» vi ha scritto: «Spero che dopo l’Unità chiuda anche la Rai». Costui, senza saperlo, sta giocando col fuoco, ignorando che una società senza pluralismo potrebbe nel breve periodo significare due cose: nel migliore dei casi, una società immiserita culturalmente e preda di poteri occulti; nel peggiore dei casi, una società manipolata dalle moderne, e dunque subdole, forme di autoritarismo. La subcultura che li domina li porta a sognare velleitariamente una società senza potere. Purtroppo, senza organismi intermedi e plurali, essi saranno preda di poteri ancora più grandi e inafferrabili. Ma non ci pensano e, privi di cultura storica, meditata e non cinguettante, non vedono l’ora di segare il ramo sul quale stanno seduti comodamente, perché comode sono ancora la democrazia, il benessere e la tenuta sociale costruita dai loro padri e nonni. Qualche giovane dice: «Basta con i giornali di partito, e basta con quello e con quell’altro». Benissimo, buttiamo tutto a mare. Ma sarà davvero migliore una società senza partiti, senza giornali, senza cinema, senza televisioni, senza comunità di destino di parte ma trasparenti? Perché è ovvio che questi organismi culturali, creativi e democratici sopravvivranno soltanto se ci sarà da parte delle nuove generazioni un atto di programmatica generosità e di cura nei loro confronti. Altrimenti, nella società di domani tutto si potrà scaricare gratis da internet, salvo non avere più nulla di serio da scaricare. I giovani pagheranno a caro prezzo quest’ingenuità politica e culturale, e rimpiangeranno gli anni in cui con irresponsabile disinvoltura definivano «mangiapane a tradimento» tutti coloro che avevano un briciolo di curriculum, di storia. E dico questo non in difesa del «mio» giornale. Dico questo perché sempre una società decide il proprio futuro anche attraverso i consumi, e se le nuove generazioni decidono di investire in vacanze e vestiti firmati: finisce un’epoca e noi ne prendiamo atto realisticamente. Ma si accorgeranno presto che la Libera Società di Internet diventerà un guscio vuoto non appena scopriranno che fare un film, produrre una canzone, tenere su una rete tv, fare un’inchiesta come si deve costa tempo e danaro. Che bello sarebbe se i giovani mi smentissero. Che la parte più generosa di essi prendesse sulle proprie giovani spalle questo glorioso giornale. Sarebbe bellissimo, se lo facessero, poiché il futuro di questo giornale appartiene soprattutto a loro. E sarebbe meraviglioso se intendessero questo mio atto d’accusa come un episodio della speranza o della fiducia disperata.

l'Unità 31.7.14
La libertà di scrivere senza censure
di GIANFRANCO PASQUINO


Avevo appena pubblicato, fine luglio 1977, il mio primo articolo su un quotidiano (Il Giorno diretto da Afeltra), con qualche critica al ruolo del Pci nel governo di solidarietà nazionale guidato da Andreotti che mi arrivò, durissima, la reprimenda dell’allora direttore de l’Unità, Emanuele Macaluso. Fu in un certo senso il mio incontro con il quotidiano «fondato da Antonio Gramsci». Ovvio che lo leggevo già, non tutti i giorni, ma da allora la mia/nostra interazione divenne più frequente: qualche critica in più fino all’invito a collaborare nelle pagine della cultura. Ricordo, su commissione di Ferdinando Adornato, il responsabile di quelle pagine, un necrologio di Raymond Aron nell’ottobre 1983, una recensione al libro, Io, l’infame, del brigatista Patrizio Peci e una riflessione comparata sul fattore K, la tesi di Alberto Ronchey sul perché i comunisti occidentali non sarebbero mai andati al governo in quanto tali.
Non ricordo esattamente quando venni invitato anche a scrivere editoriali, con mia grande soddisfazione e con qualche eco nel corpo dei dirigenti di partito (che leggevano l’Unità). Infatti, fui spesso chiamato dal 1985 in poi nelle federazioni a discutere del tema allora dominante (sic): le riforme elettorali e istituzionali. Poiché avevo in sede di Commissione Bozzi suggerito, non il superamento della proporzionale, ma un sistema che arrivasse alla competizione fra due coalizioni con il ballottaggio per ottenere un premio di maggioranza, fui invitato a spiegarlo e a difenderlo in tutte le salse sulle pagine del giornale. Il dibattito era apertissimo anche se la linea ufficiale fu data da due editoriali, a distanza di un anno o poco più, con lo stesso titolo «La proporzionale è irrinunciabile», firmati da Renato Zangheri e da Nilde Jotti. Qualche anno più tardi dal Presidente della Camera Giorgio Napolitano mi giunse un bigliettino autografo a chiedermi di «rettificare» le critiche che dalle pagine de l’Unità avevo indirizzato alla elaborazione del Mattarellum.
Cambiavano i direttori, D’Alema, Renzo Foa, Veltroni, Caldarola, ma, per mia fortuna, tutti continuavano a chiedermi commenti di prima pagina e interventi politici, compresa una recensione non proprio elogiativa ad un libro di Bruno Vespa sollecitatami da Veltroni. Scrivevo frequentemente e liberamente. Non mi fu mai chiesto di cambiare neppure una virgola. Quei direttori tanto diversi fra loro si limitavano a darmi il titolo dell’argomento: svolgimento libero. Nessun mio articolo fa mai cestinato e neppure messo in sala d’attesa per giorni e giorni. Come si capisce, non potrei dire altrettanto di alcune esperienze con altri quotidiani nazionali. Negli anni Duemila non tutti i Direttori che si susseguirono furono interessati alla mia collaborazione. Fui “ripescato” prima da Antonio Padellaro, con il quale intavolammo un dialogo fitto su alcuni miei editoriali, e da ultimo da Luca Landò.
Credo di avere scritto più di cento articoli per l’Unità e ne sono lietissimo. È stata un’esperienza gratificante di battaglia politica a viso aperto, di scambi e scontri di opinione, di diffusione di idee e proposte e di formulazioni, come si conviene al migliore dei giornali “politici”, di soluzioni. So che, non soltanto è troppo facile, ma è persino banale affermare che la cessazioni della pubblicazione de l’Unità impoverisce in maniera significativa il già non proprio brillantissimo panorama dei quotidiani italiani, ma è decisamente così. In non pochi di questi quotidiani, la politica la fanno i resoconti dei giornalisti intrisi di preferenze politiche e apprezzamenti di leader. Forse, una sinistra che oscilla fra faziosità e tifo e che non dimostra nessun interesse per il confronto cultural-politico si merita di restare senza l’Unità, almeno per un po’. Personalmente, ma sicuramente non da solo, ne sentirò la mancanza.

l'Unità 31.7.14
I giornalisti prendano le redini del gioco
di MASSIMO MUCCHETTI


Entriamo subito in medias res e domandiamoci perché l’Unità non riesce, da sempre, a ottenere ricavi tali da pagare i costi. La risposta è semplice, ma solo in prima battuta: il giornale vende troppo poco in edicola e raccoglie troppo poca pubblicità. Un tempo si attribuivano simili difficoltà all’emarginazione del giornale rivoluzionario nella società capitalistica. Da anni, una tale giustificazione non regge.
Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci era stato pensato per informare ed educare un partito di massa, il Pci, con i suoi due milioni di iscritti, e offrire alla leadership comunista una tribuna e un mezzo, all’occorrenza, di contro informazione. Per un partito forte, ma distante dal potere reale dell’economia, l’Unità ha a lungo costituito uno strumento di importanza cruciale, i cui costi, sempre esorbitanti rispetto ai ricavi, rappresentavano a pieno titolo un costo della politica, sempre sopportabile e finanziabile attraverso le risorse procurate dalla militanza e, non dimentichiamolo, dall’Unione sovietica. Questo schema, che fondava la necessità del l’Unità, è entrato in crisi negli anni Settanta quando Enrico Berlinguer scelse il Corriere per la celebre intervista sulla Nato, con la quale prendeva le distanze dal Patto di Varsavia, e con la lottizzazione della Rai, grazie alla quale il Pci acquisì un forte radicamento nella terza rete e non solo. Nel mezzo secolo successivo, il mondo occidentale si è aperto alla globalizzazione, ha generato la crisi della classe media e ha ridotto da ultimo anche gli spazi della democrazia e del diritto, mentre il sistema dei media cambiava piattaforme tecnologiche. Ebbene, in questa trasformazione, che in Italia ha messo alla frusta anche i “giornali dei padroni”, il giornale fondato da Gramsci non ha mai reciso davvero il suo cordone ombelicale con il partito. Ogni leader ha sempre nutrito la preoccupazione di non subire le pugnalate del leader precedente che aveva i suoi supporter tra i redattori. E, alla fine, questa esigenza ha determinato la difesa dell’esistente, la prevalenza dell’edizione cartacea prodotta da una redazione tradizionale ma sempre più povera di mezzi su più moderne forme di comunicazione on line nelle quali la conquista del fatturato passasse dalla mera informazione all’offerta di una gamma assai più articolata di servizi rivolta non più soltanto alla vecchia base, ma anche all’universo che guarda al Pd o che, semplicemente, si interessa di questioni generali avendo una certa impostazione culturale.
Da anni l’Unità attira investitori privati allo scopo di integrare il finanziamento pubblico e le sempre più scarse contribuzioni del partito. Investitori variamente legati alle leadership prima del Ds e poi del Pd che si succedono nel tempo. È ora possibile che, per sostenere il giornale, il presidente del Consiglio eserciti un’attrazione fatale su qualche industriale o finanziere. Dopo l’Unità dalemiana, veltroniana, bersaniana, lettiana, avremo infine un’Unità renziana? Non lo so, ma sarebbe comunque una testata zoppa. Il premier segretario può ben pensare che il giornale tradizionale non serva più. Può salvare il brand per rilanciare le feste di partito e, chissà, unificare l’Unità ed Europa, altra testata di area Pd a diffusione ancor più ridotta. Ora, se la redazione è convinta di avere un progetto adeguato ai tempi, capace di parlare al Paese, e dunque di avere un mercato e un equilibrio economico in prospettiva, è arrivato il momento che i giornalisti de l’Unitàprendano nelle loro mani il destino proprio e quello del giornale costituendo una cooperativa alla quale il partito potrebbe dare la testata in affitto a costo zero. Sarebbe dura, ma non impossibile, se la cognizione del dolore che viene da una crisi vissuta in prima persona avrà l’effetto di liberare le menti dalla subalternità all’idea che i giornali debbano per forza avere un padrone, fosse pure un partito, fosse pure il Pd, e non cercarsi una strada come public company in forma cooperativa o di società per azioni.

l'Unità 31.7.14
Tornare presto a raccontare il Paese
di PAOLO GUERRIERI


La fase che attraversiamo è venata da un apparente paradosso, così sintetizzabile: la fiducia di imprese e famiglie migliora, mentre il sistema economico mostra segni marcati di peggioramento. Il timore è che se il ristagno dell’economia, perdurando, possa trascinare molto presto anche le aspettative verso il basso. L'economia italiana sta dunque camminando sul filo del rasoio. Il governo dovrebbe averne piena consapevolezza e agire di conseguenza. A questo riguardo al governo e al presidente Renzi noi rivolgiamo alcune domande e proposte dalle colonne di questo giornale, che da domani cesserà le sue pubblicazioni. L’augurio è che sia solo una breve sospensione e che l’Unità possa al più presto riprendere a raccontare il Paese e i suoi problemi come ha utilmente fatto durante la sua lunga e nobile storia.
È un dato di fatto che da qualche mese le cose stanno andando decisamente male per la nostra economia. Rispetto a una previsione formulata dal governo ad aprile nel Def di un tasso di crescita intorno allo 0,8%, l’anno in corso si dovrebbe chiudere in realtà secondo le ultime stime con un sostanziale ristagno. Tutto ciò mentre sul fronte dei prezzi siamo ad un passo dalla deflazione. Tra le cause di andamenti così preoccupanti, figura certamente la brusca frenata che ha interessato l’intera area euro, inclusi Paesi come la Germania, in seguito alla persistente debolezza della domanda e alle politiche sbagliate che si continuano a perseguire in Europa. Ma il ristagno della nostra economia dipende anche e, soprattutto, da cause peculiari al nostro Paese, derivanti da mali antichi, che ci costringono da tempo nel ruolo di cenerentola dell’Europa in quanto a dinamiche di crescita e produttività. Se le cose stanno così ed è difficile poterlo negare c’è un’operazione verità che il governo deve innanzi tutto promuovere. C’è da spiegare, innanzi tutto, che i margini di finanza pubblica sono oggi non solo stretti, ma strettissimi. Per evitare quest’anno una manovra fiscale aggiuntiva a causa del deludente andamento del Pil, il nostro deficit pubblico crescerà con ogni probabilità fino alla famosa soglia limite del 3%. Ci siamo impegnati a non oltrepassarla per non incorrere in una procedura d’infrazione europea, ma anche per il timore di reazioni negative dei mercati finanziari internazionali. A questo riguardo va ricordato che lo stock del nostro debito ha continuato a crescere in questo periodo quasi 100 miliardi dallo scorso dicembre fino a oltrepassare il 135 per cento rispetto al Pil, ed è oggi secondo in Europa solo a quello della Grecia. Si dovrebbe poi parlare delle scelte ancora più difficili che ci attendono in vista della legge di stabilità da presentare a ottobre. Tra le voci di spesa più rilevanti da coprire vi è il bonus Irpef di 80 euro da rendere strutturale, i 5 miliardi circa di spese correnti indifferibili che coprono una molteplicità di voci, e ancora i 4,4 miliardi di impegni finanziari ereditati dal governo Letta da onorare perché non scattino clausole di salvaguardia di pari ammontare. Un ammontare di risorse destinato a aumentare dal momento che nel Def 2014 ci siamo impegnati con Bruxelles a migliorare il deficit strutturale (al netto degli effetti del ciclo e delle una tantum), con una manovra di finanza pubblica pari a 0,5 punti percentuali del Pil (circa 8 miliardi). A fronte di un impegno così gravoso, che oscilla tra 23 e 28 miliardi di euro, non si hanno notizie, più o meno ufficiali, ormai da tempo della cosiddetta spending review, la fonte principale di copertura. Essa prevede tagli di spesa davvero ambiziosi per 17 miliardi nel 2015 fino a 32 miliardi a decorrere dal 2016. Richiedono tempo per la loro organizzazione e elevati costi politici. Si sa che il commissario Cottarelli fornirà a un certo punto indicazioni, ma su cosa e quando non è dato ad oggi sapere.

l'Unità 31.7.14
Il killer del giornale e i soloni del web
di SARA VENTRONI


Quello de l’Unità è un funerale che non bisogna celebrare. Contravvenendo alla prima legge della psicanalisi, noi non vogliamo elaborare il lutto. Il nostro rapporto con questo giornale è vivo. È uno dei pochi rapporti sani della nostra vita. E non sarà certo la chiusura a farlo morire. L’Unità non è morta di freddo. L’Unità non è morta di fame. L’Unità non è morta per disamore dei suoi lettori. L’Unità non è nemmeno morta per le dure leggi di mercato. L’Unità è stata fatta morire, con precisione da entomologo e freddezza da killer. Una morte cercata, una morte annunciata. Una morte-in-vita procurata da qualche angelo sterminatore travestito da infermiere. La morte dell’Unità è una morte politica.
Ieri il quotidiano titolava: «Hanno ucciso l’Unità». Come in Assassinio sull’Orient Express, c’è più di una mano criminale. Molti l’hanno pugnalata alle spalle. Altri si sono messi i guanti per non lasciare impronte. C’è poi chi è rimasto a guardare e non ha fatto nulla. Anche quella è una responsabilità la più grave, la più imperdonabile perché coperta di parole rassicuranti. Se per alcuni l’ipocrisia è una virtù politica, per i lettori dell’Unità è motivo di vergogna. Ma per sentirsi in colpa bisogna avere una coscienza. Ieri il giornale è uscito con le pagine bianche. Restavano, in alto, le testatine delle sezioni: «Politica», «Italia», «Mondo», «Economia», «Comunità», «Culture», «Sport». C’era anche la pagina vuota dei programmi «Tv». C’era, insomma, il fantasma di un menabò. Così, calando l’asso della più celebre metafora, ieri l’Unità si aggirava come uno spettro intorno al Partito democratico: la voce di dentro che nessuno può zittire. I passi insonni di Gramsci sopra il tetto del Nazareno.
Qualche lettore avrà pensato che fosse iniziata la fase di Resistenza. Che la redazione avesse mandato in stampa il primo numero clandestino, scritto con inchiostro simpatico. Perché quelle pagine bianche, assordanti, non erano pagine di resa ma di lotta. L’Unità di ieri sembrava uno di quei quaderni dove prendere appunti. La moleskine che la gente compra per scrivere qualcosa durante un viaggio, ma poi non scrive niente. E riprende a leggere l’Unità per tenersi compagnia. Le pagine bianche di ieri erano soprattutto la metafora del presente, come a dire: ora fate voi. D’altronde viviamo in un mondo di onniscienti, di internauti tuttofare con un master in se stessi. Ma la colpa non è del web. La colpa è di chi citando maldestramente McLuhan come in “Io e Annie” di Woody Allen twitta, posta, commenta pensando di avere un messaggio. O peggio: di essere il messaggio. Senza però accorgersi della figuraccia che intanto si sta realmente consumando. Nel lontano 1959 Italo Calvino scrisse “Il mare dell’oggettività”, un saggio disilluso e inquietante: davanti alla massa di notizie, presuntamente oggettive, le persone sarebbero state sommerse, allontanate, arenate. Pietrificate e sole. Un naufragio di civiltà mascherato dall’oggettività dell’informazione. Un’apocalissi silenziosa. Individuale. Da caos calmo. Oggi possiamo dire che non si trattava di un mare ma di una piscina gonfiabile, dove ciascuno sguazza agitando i piedi in trenta centimetri d’acqua, fingendo larghe bracciate nel mare aperto della libera informazione. Oggi possiamo dire che l’unica oggettività possibile è quella di chi si assume la responsabilità di una visione politica. Per questo, oggi più di ieri, è necessario essere di parte. Metterci la faccia, e la firma. Le pagine bianche dell’Unità dicevano molte cose, per chi voleva intenderle. Dicevano, per esempio, che un giornale non è un hangar di detriti pescati a caso dalla rete per comporre un puzzle in forma casuale. Le pagine bianche dicevano che la morte del più grande giornale della sinistra è un naufragio nazionale. E nessuno scatti foto con dettagli di rottami. Perché con questi frammenti avrebbe detto il poeta T. S. Eliot per novant’anni abbiamo puntellato le nostre rovine.

l'Unità 31.7.14
Viene meno un caposaldo nella lotta alle mafie
di VITO LO MONACO


Chiude l’Unità, viene meno una voce storica contro la mafia. Per questo vogliamo sperare che ciò non sia per sempre. Non solo per la sinistra, ma per l’intera società moderna, ciò costituirebbe la grave privazione di uno strumento di informazione e di analisi, da sinistra.
Quale eco avrebbe avuto senza l’Unità nel secondo dopoguerra il movimento dei contadini meridionali per la terra con tutto il suo strascico di uccisi, dalla mafia o dalla polizia?
Tramite quale organo di stampa nazionale, Girolamo Li Causi avrebbe potuto spiegare il ruolo della mafia nella strage di Portella della Ginestra, del 1947, frutto del disegno antidemocratico di una parte della classe dirigente di allora che volle impedire alla sinistra di andare al Governo della Regione e che fosse cacciata da quello nazionale.
Quale risonanza avrebbe avuto nel 1976, la relazione di minoranza della Commissione Antimafia redatta da Pio La Torre e Cesare Terranova, se l’Unità non avesse accompagnato la lunga battaglia dei comunisti siciliani contro il sistema di potere politico mafioso dalla Dc di Ciancimino?
Per i caduti per mafia, per le vittime del lavoro, per i 47 capilega comunisti, socialisti, democristiani uccisi nel dopoguerra, per l’uccisione del bandito Salvatore Giuliano come per le faide interne alla mafia e alla politica, l’Unità è stata spesso l’unica fonte di informazione obiettiva. Come d’altra parte lo è stata sempre nel corso della sua storia a proposito della vita nei campi e nelle fabbriche, delle stragi terroristiche nere, rosse, mafiose. Per molti anni le istruttorie sui delitti di mafia, come poi sulle stragi, furono quasi sempre depistate, insabbiate per responsabilità politica ma anche a opera di inquirenti compiacenti. Il giornale non ha mancato mai di denunciare le deviazioni e le distorsioni.
L’Unità non fu, però, un giornale “antimafia” (nel senso specialistico di oggi). Essa è stato ed è il megafono del mondo del lavoro così come del Mezzogiorno, attraverso cui metteva a nudo tutte le ingiustizie sociali, compresa la mafia. Forte dell’invettiva gramsciana contro l’indifferenza, il giornale dell’unità del mondo del lavoro del Nord e Sud, degli operai, contadini, intellettuali e ceti produttivi, ha fatto la sua stella polare. Anche per questo è stato il giornale sul quale hanno scritto i dirigenti siciliani del Pci da Li Causi a Macaluso, La Torre, Occhetto e Parisi.
È il giornale che ha accompagnato le lotte per il lavoro, la terra, la democrazia, la pace. Basta scorrere le sue pagine degli anni ottanta, ma anche quelle recenti per leggervi delle epiche lotte per la pace contro i missili a Comiso e per intitolare l’aeroporto civile di Comiso a Pio, che quelle lotte seppe guidare e che probabilmente contribuirono a farlo uccidere tramite la mafia.
È il giornale che mise in evidenza ai funerali di Pio La Torre, la natura politico-mafiosa di quel delitto e la specificità tutta politica di quella guerra di mafia durante la quale erano stati uccisi, tra gli altri, Cesare Terranova, Pier Santi Mattarella, presidente della Regione, e poi Carlo Alberto Dalla Chiesa e Rocco Chinnici.
L’Unità è stata ed è una grande palestra di democrazia mediatica della quale farebbe molto male la nuova sinistra a privarsi per «considerazioni di mercato». C’è un altro mercato, quello delle idee e dei valori, antichi e nuovi della sinistra, dall’uguaglianza alla giustizia sociale, il cui prezzo non è valutabile se non quando vengono a mancare, privando la democrazia del suo pilastro: la libertà di informazione.

l'Unità 31.7.14
Un giornale sempre dalla parte degli ultimi
di MICHELE CILIBERTO


Non è facile oggi scrivere sul nostro giornale. Ho cominciato a collaborarci quando ero molto giovane, nel 1981, per impulso di Aldo Tortorella, quando era direttore Alfredo Reichlin: sono molti anni. Tortorella aveva sentito un mio intervento in una riunione della Commissione culturale della Federazione fiorentina del Pci, e ne aveva parlato a Reichlin, il quale mi apri le porte del giornale. I dirigenti del Pci lavoravano così: cercavano di individuare nuovi “quadri” da inserire nelle organizzazioni del Partito, compresa l'Unità che era un “organo” del Pci e il cui direttore veniva nominato dalla Direzione del Partito di cui faceva parte di diritto. Ed erano dirigenti severissimi e rigorosi: autentici, indimenticabili, maestri.
Dico questo non solo per sottolineare la mia “lunga fedeltà” a l'Unità; ma anche per ricordare a chi lo avesse dimenticato quale fosse la humus in cui il giornale era nato per volontà di Gramsci e si era lungamente sviluppato, sforzandosi di svolgere una duplice funzione: essere un momento essenziale di divulgazione a livello popolare della linea del Partito e uno strumento di informazione e riflessione su tutti gli aspetti della vita nazionale. Cultura, informazione, politica, formazione: l'Unità doveva essere «un moderno giornale di massa», capace di misurarsi con i migliori “organi” della borghesia. Dall’epoca di Togliatti tutto è cambiato: è finita la politica “di massa” novecentesca; sono entrate in crisi o si sono dissolte le grandi organizzazioni politiche; sono radicalmente mutate le forme e i protagonisti della politica; si sono imposti i nuovi mezzi di comunicazione di massa, a cominciare dalla tv. L'informazione avviene per vie, e con modalità, del tutto diverse dal passato.
L’Unità ha fatto sempre una scelta di campo precisa dalla parte delle classi subalterne, degli “ultimi”, con uno stile “classico” e assai riconoscibile: questo è stato il suo brand, se si vuole usare questo termine (perciò mi è sembrata oscena la proposta di acquisto della Santanché). E ha continuato a farlo con ostinazione anche quando i suoi classici punti di riferimento sono venuti meno. Questo non significa che non abbia cercato di rinnovarsi in modo profondo anche nel linguaggio, nella grafica, nei contenuti. Ma sempre tenendo ferma la barra della navigazione: politica, lavoro, diritti, immigrazione, nuove forme di sfruttamento, questione religiosa. Non si è mai piegata a una informazione di tipo scandalistico; né si è arresa al linguaggio violento e a volte barbarico dei nostri tempi. È stato sempre un giornale civile e, a suo modo, “aristocratico”. E questo mentre il mondo intorno andava, e va, in altra direzione.
Ora la domanda che si pone oggi è questa: ha senso mantenere vivo questo brand, sapendo che, in questo momento, può essere minoritario? Oppure occorre arrendersi alle leggi del mercato e ammainare la bandiera di questa forma di giornalismo "civile", capace di distinguere tra cultura, politica, propaganda, distante dal lessico della sopraffazione e dell'insulto? Questo è un problema che riguarda la Nazione, non i giornalisti del l’Unità, che hanno dato tutto per non ammainare questa bandiera. È un problema, in senso proprio, di "alta politica", e la risposta non può che essere di "alta politica". Un giornale è una impresa economica e bisogna assumerne le implicazioni: di qui non si esce, come dimostra la chiusura drammatica del giornale. Ma la perdita è troppo secca per non cominciare a porsi questi problemi e a lavorare subito a una riapertura de l’Unità. In forme nuove, certo, con tutti i sacrifici necessari, sapendo che il vecchio mondo non esiste più e traendone tutte le conseguenze, su tutti i piani-; ma tenendo ferma la barra del giornale dalla parte delle classi subalterne di quelle antiche e di quelli nuove -: questa è la sua missione . Altrimenti è meglio chiuderlo, in via definitiva. Sapendo però che «chi distrugge un buon libro o, aggiungo io, un buon giornale uccide la ragione stessa....».

l'Unità 31.7.14
Una sede importante del dibattito sulle riforme
di MASSIMO LUCIANI


Non sono tutti teneri i commenti che in rete si soffermano sulla vicenda de l’Unità: c'è anche chi scrive che va bene così, che quello della carta stampata è un mercato e che chi non vende abbastanza deve chiudere. Ho qualche difficoltà a comprendere chi la pensa in questo modo. A parte il fatto che la battaglia dei lavoratori del giornale per la sopravvivenza di una testata così gloriosa non puntava a ottenere aiuto pubblico, chi scrive questo fa finta di non capire che il mercato non è altro che un insieme di regole e che le regole si possono scrivere in un modo o nell’altro. Un certo regime della pubblicità o un certo regime fiscale non sono il frutto dell'asettico e «oggettivo» funzionamento dei principi dell'economia, ma sono il contenuto di precise scelte politiche. Lasciamo stare il mercato, allora. Proviamo semmai a guardare le cose nella prospettiva della democrazia.
Lo sanno tutti, ormai, che le definizioni classiche di democrazia (il potere del popolo, il governo dei più etc.) non reggono di fronte alla complessità dei sistemi politici contemporanei. Nessuno, però, si sognerebbe di escludere che fra questi elementi ci sia il pluralismo informativo. Perché le decisioni democratiche sono solide e capaci di durare nel tempo non solo quando sono volute da un'ampia maggioranza, ma quando arrivano alla fine di un vero confronto fra maggioranza e opposizioni. È per questo che i Parlamenti non sono orpelli decorativi, ma luoghi nei quali le decisioni debbono essere preparate attraverso il dialogo e l’ascolto delle reciproche ragioni: è giusto che a decidere sia, prima o poi, la maggioranza, ma è indispensabile che lo faccia confrontandosi con la minoranza, che a sua volta deve dimostrare essa pure lealtà e volontà di costruire, non solo di distruggere. Ed è sempre per questo che, fuori dai Parlamenti, vanno costruiti altri luoghi del libero confronto, che preparino il terreno della discussione parlamentare e facciano maturare le condizioni di un riflessione razionale. L’Unità è stata, è, uno di questi luoghi, e ha dato ospitalità alle opinioni più diverse, alle più diverse culture. La vicenda della discussione sulle riforme istituzionali ne è una delle prove migliori: quante volte i lettori hanno trovato posizioni addirittura opposte? E quante volte queste posizioni hanno avuto un'eco in Parlamento? Questo giornale, ha scritto il suo direttore, è stato ucciso. Ma con lui è stato colpito anche un pezzo di quel dibattito democratico che, proprio nel momento in cui si sta lavorando alla riforma della Costituzione, dovrebbe essere più aperto che mai. Le riforme servono, ma come condurle in porto?
Il primo passo è il riconoscimento sincero della loro indispensabilità. Che la legge elettorale vada cambiata lo impone la dignità del Parlamento: colpevole di aver approvato l'indifendibile legge Calderoli e di essere rimasto inerte, poi, per molti anni ora corre il rischio di essere rinnovato, alle prossime elezioni, con una legge elettorale scritta dalla Corte costituzionale. Che debba essere cambiato il bicameralismo, invece, lo impone la nostra storia degli ultimi venti anni: il meccanismo della doppia fiducia ha reso i governi più deboli e ha disorientato l'opinione pubblica, mentre la perfetta duplicazione del lavoro parlamentare da parte di due Camere di identica natura ha consentito una legislazione più ragionata, ma anche più lenta e farraginosa. Le ragioni dei perplessi non sono comunque deboli e andrebbero ascoltate. Peccato che per parlare di tutto questo non ci sia, da domani, l'Unità. Che non ci sia, cioè, il giornale che più di tutti, negli ultimi tempi, ha saputo riprodurre il variegato panorama delle varie sensibilità culturali, nel segno di quella stessa curiosità intellettuale che aveva nutrito il suo fondatore, Antonio Gramsci.

l'Unità 31.7.14
Il coraggio di trovare una nuova identità
di FRANCESCO CLEMENTI


A novant’anni esatti dalla sua fondazione, la terza sospensione delle pubblicazioni de l’Unità imporrebbe riflessioni tali da coinvolgere, inevitabilmente, molti temi. Si potrebbe ragionare, tra gli altri, dei cambiamenti dell’informazione nell’éra di internet e delle conseguenze che ciò comporta, agli usi e agli abusi del finanziamento pubblico che, anche riguardo all’editoria in spregio a qualsiasi principio di responsabilità personale, collettiva e inter-generazionale sono avvenuti negli anni in questo Paese; così come si potrebbe ragionare, dentro un generale processo di tramonto delle ideologie, delle trasformazioni intervenute nella sinistra italiana e nel suo elettorato; e poi, della necessità o meno che vi sia ancora bisogno per un partito di un giornale, appunto, di partito.
Tanti temi, insomma, meriterebbero di esser trattati quando il pluralismo di un Paese vede spegnersi una voce; a maggior ragione se così autorevole, antica e densa di storia. Tuttavia, nessuna valutazione ai miei occhi ha senso, se non si prende atto che le ragioni che portano alla sospensione delle pubblicazioni attengono a una parola che, proprio in questi giorni, è centrale, ossia «riforma». Riforma è parola vuota se non ha un verso. Se essa, cioè, non è riempita di senso. E allora il punto iniziale e forse finale dovrebbe attenere ancora una volta a quella ricerca del senso di un cambiamento che ormai non è più eludibile. Vale per l’informazione, e in particolare per l’editoria cartacea, stretta più di altri dal morso del cambiamento. Vale per un Paese da sempre stretto da vizi culturali e debolezze strutturali che lo rendono tra i più fragili di fronte a questo tempo di cambiamento, anche tra gli altri Paesi dell’Ue.
Eppure, la politica non sembra rendersi conto di ciò se la riforma costituzionale in discussione in Senato, a quasi quattro mesi dal suo inizio, ancora non vede la luce nella sua prima lettura; incapsulata dentro bugie, demagogie, strumentalizzazioni che operano in superficie, vellicando gli istinti più beceri di una piazza. Invece, basterebbe pensare allo stallo decisionale pressoché assoluto nel quale il sistema politico, partitico e istituzionale del nostro Paese si è ritrovato l’anno scorso per rendersi conto che il tempo di decidere è ora, proprio perché il testo in discussione è rappresentativo di gran parte dell’acquis consolidato nel dibattito politico (e giuridico) di questo Paese da oltre trent’anni. E il non vederlo rectius, il non volerlo vedere rischia a maggior ragione di far apparire gli oltre 8.000 testi di emendamento più dei pretesti per non decidere che dei testi per decidere meglio. E allora: cui prodest? Sembra però che questo dato di realtà non lo si voglia realmente cogliere, lasciando così spegnere pure la fiducia e la speranza di esser riusciti a trovare una classe dirigente capace di fare fronte all’accumulo di problemi lasciati irrisolti negli anni, uscendo dall’incapacità cronica di adottare le riforme costituzionali necessarie. Se allora «c’è un tempo per ogni cosa», come ricorda il Qohelet, è tempo che il cambiamento divenga realtà. E che la sinistra tutta la sinistra ritrovando se stessa nello scegliere di cambiare una parte importante della seconda parte della Costituzione, adeguandola al tempo e alle necessità sociali di oggi, trovi in sé pure quelle ragioni di cambiamento che la spinsero, ieri come oggi, ad uscire pubblicamente con le sue idee, fondando l’Unità.
D’altronde, se l’Unità tornerà, come auspico, in edicola, non potrà essere perché avrà trovato nuovi azionisti quanto, piuttosto, perché avrà trovato, nel cambiamento necessario a cui nessuno può sfuggire, una rinnovata identità.

l'Unità 31.7.14
Mi mancate. Questo non è un Paese per laici
di CARLO FLAMIGNI


Butto giù queste righe d’impeto, la notizia del delitto (hanno ucciso il mio giornale) l’ho saputa solo questa mattina, sono in vacanza ma sto lavorando e ho poco tempo per la televisione e i quotidiani. La mia prima reazione è stata, ammetto, un po’ isterica, mi sono sentito umiliato e mi sono scappate alcune parolacce. Sono sempre stato uno che ha tenuto la sinistra nel cammino della vita, l’Unità è stata, fino a oggi, la mia bandiera, se qualcuno la tua bandiera te la strappa, te la brucia o la usa per pulirsi il c*** , una crisi isterica è il meno che ti possa arrivare. Mi scuso per le parolacce, ma spero che Landò non me le tolga.
Sono certo che le persone come me, quelle che hanno sempre considerato un privilegio scrivere su questo giornale, vi spiegheranno perché l’Unità è stata sempre, più che importante, insostituibile. Lasciatemi dire le mie.
Ricordo anzitutto a chi legge che uno dei maggiori problemi di questo Paese è rappresentato dalla difficoltà di esprimere nei fatti la propria laicità: la convivenza con una religione che, non essendolo, si considera «di Stato», ha creato continue difficoltà e ripetuti e gravi imbarazzi. In effetti i laici italiani hanno dovuto accettare di essere chiamati laicisti e di veder definito «debole» il loro pensiero, mai adeguatamente rappresentato nel pensiero dominante che si trova sotto l’egida di «cilicio e martello».
C’è poca voglia di «stato laico» nel nostro paese, nella maggior parte dei dizionari, la sua definizione è in negativo, dicendo quello che lo stato laico non è: «lo stato laico è il contrario dello stato confessionale». A questo punto, basterebbe scrivere che lo stato confessionale è il contrario dello stato laico per aver chiuso il cerchio senza dedicare una riga alle spiegazioni. In effetti, la definizione “in positivo” dello stato laico non offende le orecchie di nessuno: è un sistema di governo della cosa pubblica che esige l’autonomia delle istituzioni pubbliche e della società civile dalle ingerenze di qualsivoglia organizzazione confessionale. È inoltre compito dello stato laico tutelare l’autonomia delle religioni rispetto al potere temporale, che non può imporre ai cittadini professioni di ortodossia confessionale.
Fatta la premessa, diventa facile elencare i problemi che la difficile convivenza con una parte del mondo cattolico ha creato: il problema dell’inizio e della fine della vita, che riguarda argomenti di straordinaria importanza pratica, come la contraccezione, l’educazione sessuale, l’aborto, l’obiezione di coscienza, l’eutanasia, il testamento biologico; la procreazione assistita, che vuol dire anche il concetto di genitorialità, le donazioni di gameti e di embrioni, la conservazione della fertilità, le indagini genetiche sugli embrioni prima del loro trasferimento in utero, l’assistenza ai feti prematuri; l’autonomia della scienza e regole certe ai ricercatori; il problema delle famiglie omosessuali; il nostro comune diritto all’autodeterminazione.
Questi sono i temi sui quali sono intervenuto, scrivendo sempre e soltanto sull’Unità (anche i quotidiani cosiddetti democratici non vedono di buon occhio i laici) e senza che il giornale modificasse mai un solo rigo. Non ho mai pensato di essere padrone di una verità, e ho sempre solo chiesto di considerare le opinioni di chi dissentiva dalle normative ispirate alla religione cattolica in modo laico. Non credo che tutta questa fatica sia stata inutile: la demolizione della legge 40 è anche merito di questo giornale. Un merito notevole, Abbagnano diceva che un governo che emana leggi che si ispirano alla morale di una specifica religione è fondamentalmente disonesto, e l’Unità si è schierata sempre contro tutte le disonestà. E adesso? Bene, è il momento di chiudere, almeno per me. Lo faccio dicendo ai giornalisti che sono grato a tutti loro e che sono al loro fianco. E se c’è un po’ di retorica in questo scritto, perdonatemelo, dopo ogni crisi isterica divento sistematicamente retorico.

l'Unità 31.7.14
Scienza da sempre negletta. Ora di più
di GILBERTO CORBELLINI


A questo giornale mi legano anche rapporti e affetti personali. Ho iniziato e imparato a scrivere, anche fuori contesti accademici 25 anni fa, collaborando con l’allora pagina quotidiana di scienza; che forniva «notizie» scientifiche, ma era uno spazio quotidiano di discussione critica e di qualità sulla scienza e il suo impatto sociale. Quando quella pagina fu chiusa, quei temi, ma anche lo stile usato, sono diventate chiavi di successo per la discussione intellettuale in altri spazi.
Quella storia è però esemplare di come la sinistra politica abbia abbandonato, insieme ai modi ideologici di trattare i problemi, purtroppo anche la qualità e le competenze nell’approcciare le questioni. È stato un declino intellettuale costante, che ha generato tristezza non solo a me, ma anche in giornalisti dei quali divenni allora amico. Come Romeo Bassoli, che voglio ricordare perché recentemente scomparso. È un tratto della nuova sinistra ex-Pci non azzeccare le scelte sulla posizione da tenere, in coerenza con i valori di libertà ed equità privilegiati su questo fronte dello schieramento politico. Un esempio sono gli ogm. Il mio intervento su questo giornale, la scorsa settimana, è stato seguito da commenti e repliche deludenti. Tutti se la sono suonata e cantata, ripetendo come mantra cose non vere, cioè reiterando sull’argomento specifico e sull’agricoltura italiana solo bugie convenienti, che sono l’unica informazione che passa in Italia sull’argomento, come era nel regime sovietico reale. Il che non mi sorprende, dato che alcuni di coloro che si occupano di agricoltura e di cibo biologico, facendone una filosofia politica, vengono da generazioni che si sono abbeverate di neostalinismo e settarismo. Sintomatico poi che Oscar Farinetti, mi abbia appellato come «cattivo». È un’uscita geniale da parte di chi è riuscito a portarsi appresso la pseudo-intellighenzia di sinistra che da decenni preferisce nutrirsi solo di cibo per la pancia, mandando al macero quello per la mente. Avevo preparato un puntuale replica, che pubblicherò altrove, a proposito dell’articolo di Marcello Buiatti che ritengo non c’entri nulla, ma proprio nulla, con la scienza. Gli altri interventi sono politici, e si basano appunto su falsità o mistificazioni.
Da almeno 15 anni in Italia è impossibile discutere seriamente d’innovazione in agricoltura perché la sinistra nostalgica ha imposto una visione tecnofoba e antiscientifica, lasciando il settore completamente nelle mani di Coldiretti. Cioè di un’organizzazione privata, che stranamente influenza la politica agricola nazionale e che attraverso i sindacati agricoli e i patronati condiziona le libertà di scelta degli agricoltori. È un’anomalia, per un Paese a cui serve la ripresa economica, che andrebbe subito (da ieri!) corretta.
La morte de l’Unità è una campana che suona anche per chi ancora coltivi aspettative che la sinistra si rigeneri culturalmente e recuperi una qualità della discussione che è indispensabile se la politica vuole governare le sfide economiche globali. Con le battute, l’arroganza e l’anti-intellettualismo sprezzante non si risolverà nessun problema. Anzi. La percezione di chi, per abitudine, i problemi prova a studiarli prima di parlare, è che la politica sia fatta ormai solo da mosche cocchiere, circondate da improvvisatori. Uno scenario che lascerà ai mitizzati e strumentali poteri finanziari ed economici di decidere quando e come suonare loro musica, sulle note della quale nei prossimi anni ci faranno ballare. Per andare direzioni vantaggiose per il Paese, servirebbero cultura e competenze da portare nelle discussioni politiche a sinistra: ma, se l’Unità muore, questa prospettiva si chiude subito.

l'Unità 31.7.14
Una gloriosa novantenne. Non possiamo farne a meno
di RICCARDO CHIABERGE


Non mi piace scrivere coccodrilli, anche se il più delle volte allungano la vita (nel 2000, appena arrivato al Domenicale del Sole, ne feci preparare uno per l’ultranovantenne Rita Levi Montalcini, che poi campò felicemente altri dodici anni). Ma questo che dedico oggi a un’altra gloriosa novantenne, l’Unità, non è un coccodrillo nemmeno preventivo, perché malgrado tutto mi rifiuto di credere che non si trovi un imprenditore o un gruppo di imprenditori disposti a salvarle la vita. L’Unità non è un giornale qualunque: per quelli della mia generazione, e non solo, rappresenta molto di più, un pezzo d’identità italiana, una specie di diario collettivo, una palestra di giornalismo dove ci siamo fatti le ossa un po’ tutti, militanti di sinistra, lettori di destra ed estremisti di centro come me.
Ricordo certe mattine nei primi anni Settanta, al Centro Einaudi di Torino, intorno al tavolone ingombro di quotidiani, la prima lettura era riservata proprio all’Unità, e in particolare agli irresistibili corsivi di Fortebraccio. Eravamo tutti liberali, alcuni progressisti, altri conservatori, liberisti o Thatcheriani. Figurarsi quanto potevamo condividere gli articoli di fondo di Aldo Tortorella. Ma Fortebraccio (al secolo Mario Melloni) era diverso: i suoi ritratti al fulmicotone degli odiatissimi politici dc e satelliti strappavano un applauso incondizionato. «Se qualcuno non avesse avuto l’ardire di offrirglielo fritto al ristorante, Forlani non avrebbe mai saputo dell’esistenza del cervello». «L’onorevole Cariglia (segretario Psdi) si vanta, giustamente, di essere ‘venuto su dal nulla’ e quando parla lo fa per dimostrare che c’è rimasto». «Tanassi (ministro socialdemocratico), un uomo dalla fronte inutilmente spaziosa». Perle di satira che ci divertivamo a declamare ad alta voce come sonetti, scompisciandoci dalle risate. Fortebraccio faceva dell’ironia un vettore di coscienza civile. Un’ironia mai greve, sempre rispettosa dell’avversario. È considerato il padre di tutti i corsivisti, da Serra a Gramellini, come pure dei vignettisti da prima pagina, e degli inserti satirici come il mitico Cuore dell’Unità anni Ottanta-Novanta. Ma nessuno è stato capace di uguagliarlo.
Da ragazzo avevo uno zio a Milano, alto dirigente della Snia Viscosa, liberale di destra, un uomo tutto d’un pezzo. Ogni mattina si comprava il Corriere della Sera e l’Unità. E a chi gli chiedeva cosa ci trovasse, uno come lui, in quel giornalaccio comunista, rispondeva: «Devo pur sapere come la pensano quelli là», alludendo alle tute blu, ai sindacalisti con cui doveva trattare in azienda. Informarsi senza faziosità, confrontando le varie fonti, in modo critico, come primo dovere del cittadino: una lezione che non ho mai dimenticato e che ho cercato di applicare nel mio mestiere. La democrazia liberale presuppone un’opinione pubblica educata e ben informata, non un pulviscolo di opinioni private raccogliticce, nutrite di youtube e storify, o lo starnazzamento indistinto dei talk show. Ha bisogno di una pluralità di testate autorevoli, libere, di diversi orientamenti, su carta o online, non di siti pirata che sparano fandonie sui microchip nel cervello o sul bicarbonato come cura anticancro.
Fortebraccio diceva di sé: «Sono un giornalista di élite: infatti scrivo per i metalmeccanici». Non è vero: lui e gli altri giornalisti dell’Unità scrivevano e hanno continuato a scrivere anche per quelli come mio zio, che non la pensano come loro, o la pensano in maniera opposta. Per un’élite borghese e liberale, per un’opinione pubblica che forse si sta squagliando nel guazzabuglio della Rete, ma senza la quale non si può «cambiare verso».

l'Unità 31.7.14
Quotidiano leader di riflessione sulla bioetica
di MAURIZIO MORI


La bioetica come riflessione sui problemi morali sollevati dalle accresciute capacità umane di controllare i processi vitali è cominciata in Europa negli anni ’80 e si è sviluppata su due diversi livelli. C’è la dimensione accademica costituita dall’impegno scientifico per scandagliare i problemi etici propri della bioetica (aborto, eutanasia, fecondazione assistita, ecc.) e c’è la dimensione culturale costituita dagli atteggiamenti diffusi tra la gente che a volte sono recepiti dalla politica istituzionale. La riflessione accademica si estrinseca in opere scientifiche (libri, enciclopedie e trattati, riviste scientifiche, ecc.) dedicate all’approfondimento intellettuale delle questioni bioetiche, mentre il movimento culturale si avvale di giornali, televisione e altri media che cercano d’influenzare in vario modi le opinioni e gli atteggiamenti della gente. Le due dimensioni sono connesse e, soprattutto nella fase nascente quando gli studiosi erano pochi, la bioetica accademica sembrava orientare e indirizzare la bioetica come movimento culturale, il quale tuttavia era riluttante a accogliere le sollecitazioni.
Fino alla nascita di Dolly (febbraio 1997), molti quotidiani facevano fatica a dare spazio alle riflessioni bioetiche. Nei primi anni ’90 ricordo di aver sollecitato un collega e affermato editorialista a perorare la causa di maggiore spazio per la bioetica su un importante testata e la risposta fu: «Quando parlo col direttore dei problemi di fine vita, fa un gesto scaramantico e il discorso è già chiuso!». l’Unità era una singolare eccezione: dagli anni ’80 ha subito mostrato grande attenzione per la bioetica, al punto da diventare negli anni il più autorevole quotidiano fautore della prospettiva laica (o laicista). Mentre negli altri giornali laici la bioetica appariva solo in cronaca e i giornali di sinistra la consideravano come un capitolo del processo capitalista, l’Unità ha sempre manifestato grande attenzione alla bioetica vista come esigenza di un’etica laica adeguata al nuovo mondo biomedico secolarizzato e capace di contemperare i diritti individuali con l’equità sociale. Proponendo con regolarità interventi meditati è diventata la testata leader della bioetica laica italiana. Per un’osmosi di affinità elettive, negli anni attorno a l’Unità si è raccolto un nutrito gruppo di studiosi (il cui rappresentate più illustre è Carlo Flamigni), che hanno dato vita a una riflessione laica di ampio respiro capace di individuare una prospettiva morale alternativa a quella tradizionale. Per questo l’Unità è stata di frequente bersaglio delle severe critiche di Avvenire, il quotidiano dei vescovi, che invece negli ultimi decenni sulla bioetica ha sempre mantenuto una posizione conservatrice.
Con l’avvento di Berlusconi (1994), il confronto tra conservatori e innovatori si è fatto più acceso e l’Unità è stata in prima linea a denunciare il «piglia tutto» del berlusconismo che costituiva un Comitato nazionale per la bioetica soprannominato subito «Comitato dei vescovi» per la forte preponderanza cattolica. Negli anni successivi l’Unità ha guidato il dibattito sulla fecondazione assistita e sul successivo Referendum, proponendo quelle idee che ora stanno alla base della Sentenza della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa che ha in pratica smantellato la Legge 40/2004. Ha anche ospitato un’apposita pagina mensile di approfondimento a cura della Consulta di Bioetica, che voleva essere esempio di dibattito laico in bioetica. Ha sostenuto i casi Welby e Englaro, e alla morte di Eluana ha prodotto un inserto storico: ha combattuto con fermezza contro il ddl Calabrò e sempre avanti nella difesa dell’uguaglianza di genere, ponendosi come la punta avanzata della bioetica come movimento culturale. La chiusura de l’Unità è una tragedia per la bioetica laica italiana, che perde uno dei principali punti di riferimento intellettuale.

l'Unità 31.7.14
C’è spazio per una nuova Unità libera e indipendente
di PIETRO FOLENA

Qualcuno ha ricordato che ero al timone del Partito allora i Ds quando l'Unità sospese le pubblicazioni nel luglio del 2000. La tragedia di quelle ore, documentata anche in tv e al cinema, con i giornalisti che protestavano sotto la sede delle Botteghe Oscure, dal punto di vista della proprietà pesò fortemente sulle mie spalle. Poco importava in quelle ore che negli anni precedenti ci fossero state gestioni «allegre» del giornale, e che l'immenso debito dell'Unità pesasse come voce fondamentale sul debito storico del Pci-Pds; e poco importava che sempre in quegli anni, nei tentativi fallimentari di portare privati nel giornale, fossero stati coinvolti imprenditori di dubbia fama. In quei mesi venne lasciata anche Botteghe Oscure, e cominciò la grande alienazione del patrimonio immobiliare del Pci-Pds, per pagare o consolidare un debito accumulato nella storia.
Quello che contava, nelle ore della chiusura, era il «delitto perfetto», di cui scrisse Michele Serra. Con tenacia, insieme ad Alessandro Dalai e a un gruppo di imprenditori, gettammo le basi della nuova Unità, dalla cui proprietà il Partito uscì completamente, gestendo, grazie all'apporto di un giurista della qualità di Victor Uckmar, e a un lavoro quotidiano di mesi e mesi difficilissimi, una transizione drammatica. Ma, infine, l'Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro vide la luce, e per anni -in autonomia dal Partito fu un successo editoriale straordinario. Non esito a dire che l'errore di allontanare prima Colombo e poi Padellaro -protagonista del successo del Fatto quotidiano è stata la prima ragione del declino, accompagnata dal fatto che non si è rinunciato ai finanziamenti pubblici per i giornali di partito.
Il Partito, fino al Pd, si è più preoccupato di dar voce sull'Unità agli esponenti delle sue correnti, e a usare il giornale nella lotta politica, che non a sostenere un progetto editoriale credibile. Si è scelto, nel cupio dissolvi di ogni ombra del passato che andava cancellata, di non chiamare più le feste col nome del giornale, di avere addirittura due quotidiani, di aprire una televisione di partito che non vede nessuno. Non si sarebbe dovuto mettere a sistema tutto il potenziale informativo e culturale del Pd e della sinistra?
Ho provato negli ultimi due anni, da militante che ha questo passato e che contribuì alla salvezza del giornale allora, a dare dei suggerimenti e ad avanzare delle ipotesi ai dirigenti che si sono succeduti al Partito, e alle componenti della proprietà. È stato inutile. Sinceramente ora non capisco perché i liquidatori non abbiano accolto la proposta di Matteo Fago, sicuramente incompleta e fragile, e spero davvero che non ci siano state ragioni di orientamento politico.
Ora però non c'è tempo da perdere. Ci sono forze imprenditoriali e finanziarie disponibili. Ci sono energie umane che in modo volontario e gratuito possono dare il loro contributo. C'è un quotidiano on-line bello e che funziona. C'è un «marchio», l'Unità, di cui si sente proprietario un popolo, quello dei tortellini e delle costicine, e quello di una sinistra diffusa. Questo marchio non merita di essere musealizzato, ma deve essere valorizzato nelle sue potenzialità vere. All'Unità, fondamentalmente, in questi anni non è mancata una direzione adeguata, ma una società editrice degna di questo nome, un progetto industriale e culturale.
A Matteo Renzi si può chiedere sull'Unità la stessa determinazione che ogni giorno manifesta su altri argomenti. Alla confederazione di correnti che anima il Pd un po' di generosità.
Quello che conta è sapere che c'è un grande spazio, per una nuova Unità, libera, indipendente, non di partito, ma di un'area vasta democratica e di sinistra, che vive delle sue risorse e non dei fondi per l'editoria politica.

l'Unità 31.7.14
Una testata «testarda» che dobbiamo difendere
di CARLA CANTONE


L’Unità non deve e non può chiudere la sua lunga vita, perché sarebbe come far sparire una pagina di fondamentale memoria del nostro Paese.
Non una storia normale ma straordinaria perché racchiude in sé la voce che ha saputo raccontare pagine di grande importanza del ‘900, continuando su questa strada anche negli anni più poveri di questo inizio di nuovo secolo.
L’Unità ha dato voce alle lotte dei braccianti, degli edili, degli operai.
Alle lotte degli studenti, delle donne, di tanti intellettuali, di giovani e di anziani.
L’Unità ha raccontato le battaglie sindacali e civili, ha denunciato soprusi, violenze, terrorismo, criminalità organizzata.
L’Unità era ed è un giornale «di partito» ma per l’autonomia di pensiero di tutti i suoi giornalisti e la loro onestà intellettuale, è stato sempre considerato un giornale per tutti, libero, aperto, democratico e a disposizione di una informazione sincera e non faziosa.
L’Unità ha attraversato momenti difficili, in particolare negli ultimi anni, ma non si è mai abbandonata alla rassegnazione, non si è mai arresa, è sempre ripartita come sono certa ripartirà anche questa volta.
Abbiamo bisogno della sua cronaca politica, sei suoi servizi di economia e lavoro, delle sue belle pagine culturali. Abbiamo bisogno di un quotidiano di sinistra, che parli di diritti e di lavoro e che tenga insieme quanti vogliano ancora e sempre leggere parole che si ispirano alla pace, ai diritti costituzionali, alla giustizia sociale.
Abbiamo bisogno di una voce che dia continuità ad una cultura di sinistra democratica, una voce che continua ad essere l’anima di quel giornale fondato da Gramsci ed amato da Berlinguer.
Abbiamo bisogno ogni giorno di un giornale come l’Unità che ci faccia sentire meno soli in una società dove i valori fondanti delle democrazia e dell’uguaglianza sono spesso considerati antichi e superati da un modernismo sfrenato.
Per tutto questo non possiamo essere privati dell’Unità.
A Luca Landò e a tutti i giornalisti, ai tanti lavoratori impegnati ogni giorno a produrre questo nostro giornale, va tutta la solidarietà di tante persone che lo Spi Cgil rappresenta e il mio personale affetto e sostegno.
Coraggio compagni, coraggio «Testata Testarda». Non siete soli.
Non è un appello frutto di retorica nostalgia, ma è un appello frutto di un pensiero libero, e di questi tempi il pensiero libero è un bene non sempre comune.

l'Unità 31.7.14
Voce della sinistra Salviamola in extremis
di FRANCESCA CHIAVACCI
*

Chi scrive può vantare (si, vantare) di essere stata tra le migliaia di compagne e compagni che hanno diffuso L'Unità. Anche dopo la fine della «diffusione», il quotidiano fondato da Antonio Gramsci è stato uno degli «oggetti preziosi» sempre presenti nella mia vita quotidiana. È stato, e vorremmo che continui ad essere, uno degli «oggetti preziosi» che accompagnano la vita di tantissime e tantissimi compagne e compagni dell'Arci. Un «oggetto prezioso» che sarà difficile rimpiazzare sui tavoli, banconi, scaffali dei nostri circoli e delle nostre associazioni culturali.
La notizia dello stop alle pubblicazioni a partire dal primo agosto ha creato sgomento e preoccupazione in tanti di noi. E ad accrescere sgomento e preoccupazione è l'immensa incertezza sul ritorno de L'Unità nelle edicole. Perchè, in realtà, è l'incertezza sul futuro che lascia attoniti.
Non è ancora immaginabile che un quotidiano con 90 anni di cammino, che ha raccontato la vita e l'emancipazione del nostro paese, il suo viaggio verso la democrazia, storie, dolori e conquiste della sinistra italiana non abbia più un futuro.
E procura molto fastidio questa sensazione di impotenza e di ineluttabilità che sembra avvolgere tutta la vicenda. Dopo tre mesi di lotta i lavoratori dell’Unità si trovano costretti a sospendere le pubblicazioni davanti all’impossibilità di trovare una soluzione giusta e condivisa nel corso dell’assemblea degli azionisti.
In un momento di grandi tensioni per la tenuta democratica del nostro Paese la libertà di informazione è un bene ancora più prezioso e la chiusura de l’Unità, che per anni ha dato voce e sostegno a lotte e istanze di tanti cittadini e lavoratori italiani, è una notizia inaccettabile. La soluzione per un salvataggio in extremis è necessaria e deve essere trovata con responsabilità partendo dai contenuti che in questi anni L’Unità ha saputo esprimere, fuori da qualsiasi tentativo di «rinnovamento» che tradisca i valori su cui il giornale fu fondato.
Questa testata, che è stata una delle voci fondamentali della sinistra italiana, deve continuare a rappresentare oggi e in futuro un riferimento importante per la sinistra e per il movimento democratico.
Tutta l’Arci esprime solidarietà e vicinanza al direttore Luca Landò, alla redazione e a tutti i lavoratori per questo momento particolarmente difficile e si augura che la loro lotta continui e che la sospensione sia solo temporanea.
Vogliamo farvi sapere che noi ci siamo.
E siamo pronti a sostenere con forza iniziative e soluzioni che vi diano la possibilità di tornare in edicola, sui tavoli dei nostri circoli e delle nostre case del popolo, nella nostra crescita culturale e politica.
*Presidente nazionale Arci

l'Unità 31.7.14
La portavo in tasca come una bandiera
di MONI OVADIA


La mia prima Unità la comprai a 15 anni. Poco prima di quell'iniziale contatto con il foglio del Partito Comunista Italiano, avevo letto d'un fiato il Manifesto di Karl Marx e Friedrich Engels. Prima ancora nella scuola ebraica di Milano, nel periodo in cui frequentavo la prima liceo scientifico, erano stati istallati degli altoparlanti in ogni classe, per le comunicazioni di servizio e per le irritanti istruzioni disciplinari del buon preside Davide Schauman. Però, in cambio, grazie a quella primitiva tecnologia che evocava voci tonitruanti e gracidanti, di recente e sinistra memoria, fu diffusa per tutti i cittadini della scuola, studenti, professori, bidelli, personale amministrativo, una memorabile commemorazione della resistenza come lotta di popolo e lotta di classe tenuta dal professor Luciano Segre, partigiano comunista e storico marxista, nostro amatissimo insegnante di Storia. Quella lectio di 45 minuti, fu un rithe de passage, aveva dato l'avvio alla mia avventura di cittadino consapevole e di militante antifascista.
La mia identità di ebreo si saldava inscindibilmente con quella di attivista di sinistra, progressista. Per tutti gli anni del liceo, il professor Segre mi introdusse con passione ed altissima competenza al pensiero critico, gliene serbo tuttora profonda gratitudine.
Da quel momento ogni giorno per molti anni a venire ho compiuto il rito di acquistare l'Unità, ma non solo. Ostentavo con orgoglio la sua testata nella tasca della mia giacca. In quel tempo portare quella scritta in saccoccia, ebbe un significato radicale, era il tempo della guerra fredda, dell'anticomunismo viscerale, in molti ambienti venivi guardato male, era persino rischioso. Nelle fabbriche, gli operai, ai tempi di Valletta, venivano vessati, puniti e perfino licenziati per avere scelto l'Unità come loro organo di informazione. Chi lo portava come una bandiera faceva propria l'identità sorta dal pensiero di Antonio Gramsci, aderiva alle idealità e alle lotte antifasciste, del movimento operaio e a quello dei lavoratori più in generale. L'Unità è stata pilastro costitutivo di una immane storia politica, è stata energia della clandestinità, della Resistenza. In seguito è stata fucina attivatrice della democrazia italiana, spazio di idee e di dibattito, di mobilitazione. Ancora in tempi recentissimi ha subito furiosi attacchi reazionari con Berlusconi e l'ottusa repressione padronale con Marchionne che l'ha voluta espellere dalle bacheche degli operai. Dopo la presa di distanza dall'Urss ad opera di Berlinguer e il successivo crollo di quel progetto, l'Unità ha seguito variamente, ma non pedissequamente, le vicende del Pci, Pds, Ds, Pd.
Io sono stato chiamato a collaborare da Furio Colombo, uno dei suoi direttori più coraggiosi, con cadenza settimanale, come outsider e vi collaboro tutt'ora come tale. Ho goduto di completa libertà e autonomia in ogni circostanza, anche quando mi sono espresso in maniera critica, anche molto critica e difforme dalla linea mainstream del giornale. Come me hanno goduto della stessa indipendenza altri collaboratori. Le mie scelte politiche come militante e attivista hanno avuto il pieno rispetto.
Ancora pochi giorni e l'Unità chiude e, a mio parere, dev’essere chiaro che non si tratta della chiusura di una delle tante testate cartacee o digitali che aprono e chiudono per qualche rapsodico esperimento giornalistico di dubbio spessore. Anche i suoi più severi critici, gli avversari e persino i detrattori, non possono ignorare che è a rischio di estinzione una delle anime della nostra informazione.
È un grande vulnus non solo per i suoi lavoratori e giornalisti, ma per l'intero Paese.
In un momento come questo, in cui il dibattito politico si svolge nel quadro di un estrema volgarità e mediocrità, in cui il destino dell'idea stessa di sinistra è in pregiudicato, la voce dell'Unità non si deve spegnere.

il manifesto 31.7.14
Le responsabilità del Pd e degli altri soci. Parla il direttore Luca Landò
Luca Landò: “L’Unita chiude, ma tornerà in edicola. Siamo una testata cocciuta”
intervista di Luca Fazio


Luca Landò: L’Unita chiude, ma tornerà in edicola. Siamo una testata cocciuta”
La solidarietà e gli appelli e gli attestati di stima fioccano come non è mai accaduto nella storia recente del quotidiano che fu del Pci. I senatori del Pd adesso firmano appelli e si dicono pronti a fare di tutto. L’Arci esprime sconcerto: «È intollerabile». E la presidente della Camera, Laura Boldrini, scrive ai redattori. Ma basterà per far tornare in edicola il giornale fondato da Gramsci e affondato nell’era Renzi? Ci sono ex direttori che ci credono poco, come Furio Colombo, che ritiene improbabile un impegno del Pd per salvare l’Unità. Altri che non ci credono per niente, come Giuseppe Caldarola, che «nemmeno se lo vedo» crederebbe all’uomo solo al comando che si impegna per salvare un giornale di carta. Claudio Sardo, invece, si augura che il partito si assuma la responsabilità di «trovare una soluzione idonea». Il più ottimista, per dovere e per convinzione, è l’attuale direttore de l’Unità, Luca Landò: «Questa è una testata molto cocciuta e sarà difficile farla tacere». Il direttore sta preparando l’ultimo numero di una storia lunga novant’anni mentre il Cdr sta incontrando il presidente del Pd Matteo Orfini. Avevano chiesto di vedere Matteo Renzi, e prima o poi si degnerà anche il capo.
Direttore c’era una possibilità praticabile che avrebbe potuto garantire la continuità in edicola e il Pd l’ha affossata. È una lettura un po’ semplicistica o corrisponde al vero?
Non solo il Pd. Siamo arrivati alla liquidazione perché i soci della Nuova Iniziativa Editoriale hanno litigato tra loro, sono volati gli stracci. Anche nell’ultima assemblea. Questo è il motivo principale per cui in questi mesi non siamo riusciti a portare avanti il programma della mia direzione, l’integrazione tra carta e web. Una volta in liquidazione, l’idea era costituire una bad company per poi trovare una nuova società disposta a rilevare il ramo d’azienda, cioè la testata più i redattori. Sul tavolo sono arrivate cinque proposte, due folkloristiche e tre serie. La più solida è quella di Matteo Fago: voleva affittare per sei mesi il ramo d’azienda e continuare le pubblicazioni e su quella base aveva trovato anche un accordo con i lavoratori per un taglio sugli stipendi. Fino all’altro giorno sul piatto era rimasta anche l’ipotesi dell’imprenditore Massimo Pessina, più debole perché voleva rilevare solo la testata, e quella di Daniela Santanché, più seria e più pesante di quella di Pessina. Ma all’assemblea di martedì è stato un fuoco di fila e i soci hanno votato no a tutte le proposte. Non accuso il Pd per come si è comportato in questa occasione, ma denuncio il fatto che da gennaio in poi non ha fatto nulla per trovare una soluzione che mettesse l’Unità al sicuro.
Quale progetto editoriale o politico avrebbe espresso l’ipotesi Fago che è stata cassata dal Pd? Non era in linea con il partito?
L’idea che Matteo Fago sarebbe troppo di sinistra per questo Pd fa parte di un discorso montato ad arte, tanto è vero che voleva continuare con il sottoscritto alla direzione, dunque nel segno della continuità. Volevamo, e vogliamo, trasformare l’Unità da giornale di partito a giornale degli elettori, sul giornale devono trovare spazio le voci che convivono in un partito in evoluzione e pieno di contraddizioni. Tutti devono potersi esprimere, non solo la maggioranza.
Renzi ha detto che riaprirà l’Unità. Sono parole rassicuranti o significa solo che se la vuole prendere ripartendo da zero?
Adesso la palla passerà a un tribunale che nominerà un commissario, sarà lui a valutare le proposte che arriveranno. Se Matteo Fago rifarà la sua proposta e sarà ancora la più convincente, potrà farlo senza dover sottostare a veti incrociati, la stessa cosa potrà fare Daniela Santanché e anche il Pd. Dico questo perché sia chiaro che è stato bloccato il disegno di chi voleva prendersi solo la testata.
Intende il Pd?
Vale per chiunque. Dico solo che l’ipotesi Fago resta in pista e che l’idea di rilevare solo la testata non esiste più. Penso che con queste premesse l’Unità potrà tornare in edicola. Dico anche che le promesse del Pd, per trasformarsi in fatti, andavano pronunciate prima.
Cosa dovrebbe fare oggi un giornale per tornare ad essere un punto di riferimento per la sinistra frastornata? E un giornale che gravita attorno a questo Pd può ancora rivendicare il suo essere di sinistra?
La crisi sociale, economica e politica spinge alla necessità di trovare luoghi di discussione e confronto. Il giornale politico oggi questo deve essere, un punto di riferimento per coloro che vanno in edicola con l’idea di tastare il polso alle idee in cui si ritrovano. Per questo penso che il Pd dovrebbe apprezzare un luogo di discussione aperta. È evidente che questo ruolo intellettuale oggi non venga particolarmente riconosciuto e apprezzato.
Ma l’Unità tornerà in edicola?
A breve non credo, ci sono procedure che richiedono tempo. Ma sono proprio convinto di sì. Non siamo stati zitti nemmeno sotto il fascismo, per diciassette anni il giornale è uscito in clandestinità. Torneremo anche questa volta. È una testata molto cocciuta, è difficile farla tacere.

il manifesto 30.7.14
Chiude dopo 90 anni il giornale fondato da Gramsci. Il Cdr: “Hanno ucciso l’Unità”
di Luca Fazio

qui

Corriere 31.7.14
Da D’Alema a Veltroni, le firme dell’ultima «Unità»
Oggi in edicola il numero d’addio del quotidiano. L’ex leader pd: ora siamo tutti più poveri


ROMA — Oggi l’Unità sarà in edicola per l’ultima volta. Almeno per adesso. Martedì la redazione avrebbe voluto interrompere le pubblicazioni già dal 30 luglio, non appena saputo dai liquidatori del giornale che dall’assemblea dei soci non era venuta fuori alcuna soluzione per il salvataggio. Ma poi si è deciso di andare avanti fino al termine fissato dai liquidatori (il 1° agosto appunto) così da poter mandare in edicola un giornale con interventi autorevoli di molti ex direttori. Tra questi quelli di Massimo D’Alema e di Walter Veltroni. Che scrive: «Come sarà l’Unità ? Non cosa è stata e cosa è. Credo che l’ambizione che oggi deve muovere la redazione e tutti quelli che hanno a cuore il destino del giornale, a cominciare dal Pd, sia quello di guardare al futuro e non alla sopravvivenza. senza l’Unità siamo tutti più poveri». E ieri pomeriggio il comitato di redazione de l’Unità ha incontrato i vertici del Pd. Il presidente Matteo Orfini, il vicesegretario Lorenzo Guerini e il tesoriere Francesco Bonifazi hanno visto le rappresentanze sindacali dei giornalisti, gettando uno spiraglio di fiducia per il futuro. Con la chiusura de l’Unità sono un’ottantina i giornalisti che rimangono senza lavoro, oltre a tutti i poligrafici e gli amministrativi. Ma dal Pd avrebbero garantito che si sta lavorando affinché l’Unità non chiuda e che in proposito avrebbero già avuto manifestazioni di interesse. Infatti Guerini, Orfini e Bonifazi hanno spiegato al comitato di redazione che stanno valutando progetti che prevedano il rilancio del progetto editoriale complessivo nonché la tutela del copro redazionale.

Corriere 31.7.14
Peppino Caldarola
«Serve una testata nuova. Senza cedere alla retorica»
intervista di Alessandra Arachi


ROMA — Peppino Caldarola lei è stato direttore de l’Unità ...
«Si, per due volte. La prima volta, dopo Veltroni. Poi sono stato direttore dal 1998 fino alla sua chiusura. La chiusura della prima Unità ».
PrimaUnità ? Che vuole dire?
«Che nel 2000 l’Unità è stata chiusa. E dopo quella data nasce un giornale con tutta un’altra storia. La prima Unità era dentro la storia della sinistra italiana. La seconda invece è radical-liberale e non a caso il primo direttore alla riapertura del giornale è stato Furio Colombo che con la storia della sinistra nulla ha a che vedere».
E adesso? L’Unità chiude per la seconda volta. Cosa pensa?
«Beh proprio per quello che ho detto mi sembra una chiusura molto meno drammatica. Ben inteso: non mi riferisco agli ottanta colleghi che rimangono senza lavoro e ai quali esprimo tutta la mia solidarietà. Ma non per la storia del giornale. Sto sentendo troppa retorica in queste ore: il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Ma cosa c’entra Gramsci con l’Unità che usciva in edicola? La testata ha decisamente concluso la sua storia. È morta».
E dunque?
«Bisogna pensare un altro giornale, con un altro nome. Noi ci pensammo già nell’89, dopo la svolta della Bolognina. Il Partito comunista aveva cambiato nome. E noi volevamo cambiare nome a l’Unità».
Noi chi?
«Renzo Foa, che all’epoca era il direttore, Piero Sansonetti, io a Amato Mattia, l’editore. Chiamammo Piergiorgio Maoloni, un genio della grafica e gli chiedemmo di realizzare un progetto grafico per un nuovo giornale. Fece un progetto fantastico. Avevamo anche un titolo: “Novità”, così che le ultime due lettere del nome nuovo fossero uguali al nome precedente».
Ma poi? Che successe?
«Ad Occhetto non piacque e non se ne fece niente. Del resto noi avevamo agito di testa nostra senza avvisare il partito. Peccato. L’avevamo vista lunga».
E adesso?
«Adesso sarebbe davvero il caso di pensare un nuovo giornale che si porti dietro i lettori che aderiscono ad una sinistra riformista. Non c’è, pensiamoci bene. C’è il dominio della monarchia di Repubblica , ma è un altra cosa. Poi c’è il Fatto Quotidiano che non si può certo dire che sia di sinistra, basterebbe soltanto guardare il vicedirettore Marco Travaglio che di sinistra non è mai stato.
Ma adesso che l’Unità chiude cosa succede secondo lei?
«Se l’Unità muore davvero rimane un vuoto che può essere colmato. Che deve essere colmato. E non soltanto per quei 25 mila lettori che ancora sono rimasti attaccati al giornale. No ce ne sono tanti altri potenziali. Lo spazio è davvero tanto».
Come si potrebbe riempire questo vuoto?
«Ci vuole molta fantasia. Molta abilità a coniugare il giornale di carta con le nuove tecnologie. Ma soprattutto è importante cosa non ci vuole».
Cosa non ci vuole?
«Non ci vuole l’imprenditore amico di Renzi. Ci vuole un imprenditore che abbia voglia di fare l’imprenditore dell’informazione, intendendo per informazione quella fatta di pensieri lunghi. Temo che il nostro presidente del Consiglio oggi sia molto più interessato ai tweet che non alla carta stampata. E non è il solo. Mi sembra che tutto il gruppo dirigente del Pd non sia interessato all’informazione di carta. E io sono molto preoccupato dai pensieri brevi. Una classe dirigente che vuole durare deve avere pensieri lunghi».

il Fatto 31.7.14
In rosso
Unità, ultima chiamata per il Pd: un compratore per evitare la Santanchè
di Sal. Can.


Se davvero Matteo Renzi e il Pd vogliono salvare l’Unità ora è la loro occasione. Con l’uscita di scena degli azionisti la palla è nelle mani dei liquidatori che dovranno presentare un piano al commissario nominato dal Tribunale in quello che viene definito “concordato bianco”. Si tratta dell’ultimo miglio da percorrere prima del definitivo fallimento. In questo lasso di tempo, chi volesse rilevare l’Unità non ha che da presentare un’offerta giudicabile “forte” da parte del commissario. Il Partito democratico ha assicurato ieri pomeriggio al Cdr del quotidiano, incontrato dal presidente del partito, Matteo Orfini e dal vicesegretario Lorenzo Guerini, che sta lavorando per far emergere una proposta imprenditoriale con un piano editoriale credibile. Di fronte alla richiesta dei lavoratori del giornale di avere garanzia anche sul fronte dell’occupazione, la risposta è stata confortante. “C’è impegno” ha dichiarato il Cdr.
Sul fronte politico, la giornata è stata segnata dagli attestati di solidarietà. Da parte di tutti i senatori del Pd, dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, dal sindaco di Firenze, Dario Nardella, da Walter Veltroni e Roberta Pinotti, dall’Arci fino a Stampa romana. Tutti al fianco del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e tutti d’accordo nel chiedere un impegno al partito di riferimento e, soprattutto, al presidente del Consiglio.
Il “concordato in bianco”, o con riserva, permette alla società di beneficiare immediatamente degli effetti “protettivi” rispetto ai creditori dandogli il tempo di predisporre la proposta di concordato preventivo oppure di un piano di ristrutturazione. Si tratta, dunque, di capire la bontà delle offerte sul tavolo che, a differenza della fase precedente, non dovranno più essere approvate dai soci e non dovranno sottostare alla maggioranza del 91 per cento. Nel Pd si confida che l’offerta promossa dal partito possa avere i requisiti necessari e battere così quelle, probabili, di Matteo Fago, che ha avanzato un suo piano, e di Daniela Santanchè che ieri con un tweet si rammaricava della “stupidità” con cui, per pregiudizio, è stata respinta la sua proposta. Ma la sua offerta potrebbe tornare di nuovo sul tavolo. Per evitarla serve una proposta più forte e credibile. L’ultima occasione per il Pd.

Repubblica 31.7.14
Unità, incontro Cdr-Pd: “Impegno per salvare il giornale”

ROMA. Un incontro «positivo» per salvare l’Unità, che sospende le pubblicazioni. Così il cdr valuta la riunione con i vertici del Pd, al largo del Nazareno, presenti il vicesegretario Lorenzo Guerini, il presidente del partito Matteo Orfini e il tesoriere Francesco Bonifazi. I tre hanno assicurato ai giornalisti il massimo impegno per evitare la chiusura, e sarebbero già state prospettate alcune ipotesi.
Una soluzione auspicata anche dai senatori del Pd, mentre Veltroni oggi firmerà un articolo per l’ultimo numero.

Europa 31,7.14
Ultimo giorno in edicola per l’Unità. Ma la battaglia continua
Ieri i giornalisti hanno incontrato i vertici del Pd
di Fabrizia Bagozzi

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Panorama 30.7.14
L'Unità: fondata da Gramsci, affondata da Renzi
Dal primo agosto stop alle pubblicazioni. Titolo shock sull'ex quotidiano del Pci-Pds-Ds: «Hanno ucciso l'Unità». Il direttore Landò attacca il Pd
qui

Il Sussidiario 31.7.14
Chiusura dell’Unità
Attacco alla democrazia e al pluralismo?
di Giovanni Cominelli

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Orticalab 31.7.14
L’Unità, un’indimenticabile pagina di vita
“L’Unità” ha voluto essere, riuscendovi, un grande strumento di educazione politica e di cultura; si è collocata, così, sul fronte della storia
di Luigi Anzalone

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L’Huffington Post 30.7.14
L'Unità, il giorno degli scatoloni e dei veleni. Matteo Renzi pensa a un'Unità 2.0 ma nessuna certezza per i giornalisti
di Alessandro De Angelis

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Giornalettismo 30.7.14
Fu Berlinguer a segnare il destino de “L’Unità”
di Massimo Zamarion

qui

L’Avanti 30.7.14
Con l’Unità chiude un pezzo della storia della sinistra

qui

L’Avanti 31.7.14
Caldarola propone che L’Unità cambi nome

qui

L’Avanti 30.7.14
Tutti in lutto per l’Unità, ma per l’Avanti?

qui

Informa 31.7.14
L'Unità, in tre in corsa per acquisire il quotidiano

qui

PolisBlog 30.7.14
L'Unità chiude: a pagare i debiti sarà lo Stato?
di Renato Marino

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La Notizia, Il Giornale.it31.7.14
Dell’Unità restano solo brandelli
Il giornale ex comunista a un giorno dall’oblio
Del quotidiano di Gramsci si salverà solo il marchio, che Palazzo Chigi starebbe pensando di riciclare per lanciare una versione 2.0
Più smart e (magari) meno scomoda per il premier
di Alessandro De Angelis

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Il Giornale 31.7.14
L'Unità chiude, il Pd guarda Ed è scontro tra ex direttori
Polemica su crac e conti in rosso, inutili le ultime trattative
Veleni anche contro il premier: "Renzi non ha fatto nulla"
di Mariateresa Conti

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Quotidiano Net 31.7.14
Il partito si fa vivo, l’Unità spera nel miracolo

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Melty.it 30.7.14
L’Unità chiude: Perchè i giornali falliscono nonostante il finanziamento pubblico
L’Unità, giornale storico della sinistra italiana fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, ha annunciato la chiusura e interromperà le pubblicazioni a partire dal prossimo 1 agosto. Quali altri giornali rischiano la chiusura?

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Milano Post 31.7.14
Renzi ha rottamato anche l’Unità?

E come sono stati gestiti i milioni di finanziamento pubblico?
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Il Secolo XIX 30.7.14
L’Unità chiude: in edicola ancora pochi giorni
di Fabio Luppino

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La Gazzetta dello Sport 30.7.14
Chiude pure un pezzo di storia italiana con l’Unità?
di Giorgio Dell'Arti

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Il Salvagente 31.7.14
Da domani l'Unità sospende le pubblicazioni
Bocciate tutte le ipotesi presentate ai liquidatori. Il Cdr: "Hanno voluto ucciderla".
di Angelo Angeli

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Italia chiama Italia 31.7.14
L’Unità muore, uccisa da lettori e giornalisti
di Ricky Filosa

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CronoPolitica 30.7.14
La promessa di Matteo Renzi: «Riapriremo l’Unità»

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Agorà Magazine 30.7.14
L'Unità chiude ma le feste? E chi se le ricorda?
di Roberto De Giorgi

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Globalist 30.7.14
L'Unità, il Pd e noi che non vogliamo morire democristiani
L'Unità è stata un sogno professionale e politico realizzato
Claudio Visani racconta la sua esperienza e i suoi anni passati nel giornale che venerdì non sarà più in edicola
di Claudio Visani

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Dazebao News 30.7.14
A rischio l'Unità. Non c'è tempo da perder, ci vuole un progetto industriale e culturale
di  Pietro Folena

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Repubblica 31.7.14
Suad Amiry: “Questa guerra è contro i bambini E il mondo tace”
di Antonello Guerrera


«AGAZA si è superato ogni limite umano». Di solito Suad Amiry, scrittrice palestinese e architetto, misura le parole. Stavolta, nonostante un passato da negoziatrice nella delegazione palestinese a Washington tra 1991 e 1993, non è così. Perché l’autrice del celebre Sharon e mia suocera (Feltrinelli) da Ramallah scaglia il suo j’accuse contro il governo israeliano e il premier Netanyahu, a 23 giorni dall’inizio dell’operazione “Margine protettitivo” che sinora a Gaza ha provocato quasi 1.400 morti. «Un quarto delle vittime sono bambini. Questa è una guerra contro i bambini. Bombardano ospedali, scuole, parchi giochi: non ci sono scuse».
Anche Hamas, però, ricorre spesso agli “scudi umani”. Non è allo stesso modo responsabile di questa strage di bambini?
«Io credo innanzitutto che Israele abbia perso il senso della realtà: il suo esercito dice di essere il migliore e il più preciso del mondo, ma qui si stanno attaccando deliberatamente i civili. Anche l’Onu ha condannato i bombardamenti contro le scuole. A Gaza ci sono due milioni di persone sotto assedio, stritolate in una prigione a cielo aperto. E poi ci stupiamo dei morti. È agghiacciante. Questo, sinora, nel silenzio criminale della comunità internazionale. Stati Uniti ed Europa devono saper dire basta a questi crimini di guerra».
Secondo lei la pace è possibile con in gioco un gruppo “terrorista”, a detta di Usa e Ue, che continua con il lancio dei razzi?
«Sia chiaro: io non ho mai sostenuto Hamas. Ma il suo è un governo eletto democraticamente e Israele deve rispettare il voto popolare, soprattutto per poter affrontare meglio la realtà. Dopo decenni di occupazione contro ogni legge internazionale, il blocco totale della Striscia e le offensive degli anni passati, cosa voglia che facciano gli abitanti di Gaza, lanciare fiori a chi li opprime? Quello di Netanyahu è il governo più razzista e di destra che Israele abbia mai avuto».
Israele però ha anche il diritto di difendersi, soprattutto nei confronti di chi ha più volte invocato la sua distruzione, non crede?
«Questo non giustifica un’offensiva così devastante a Gaza nei confronti dei civili. Netanyahu sostiene che il problema siano i “tunnel del terrore”. Ma l’Egitto ha lo stesso problema e non invade la Striscia. Il punto è un altro».
Quale?
«Israele non vuole la pace, né l’unione tra Hamas e Fatah. Cerca sempre un pretesto per conservare lo status quo, accentuare la divisione del popolo palestinese e non restituire i territori occupati, come ha confermato lo stesso Netanyahu due settimane fa. Prima per Israele il presidente palestinese Abu Mazen non era un interlocutore opportuno perché non rappresentava Gaza. Poi, dopo l’ultima alleanza tra Fatah e Hamas, sono stati creati altri pretesti. In 23 anni di negoziati i pa- lestinesi hanno perso sempre più terra. È un governo di bugiardi. Israele oggi ha paura dei moderati come Abu Mazen».
Ma la guerra e gli estremismi fanno comodo anche ad Hamas, non trova?
«È ovvio che negli ultimi tempi Hamas fosse in crisi di consenso a Gaza, anche perché ha perso il sostegno dell’Egitto. Non a caso, di recente ha stretto nuovamente un’alleanza con Abu Mazen. Ma la reazione militare di Israele è immorale. E non funzionerà, affatto. Perché genererà sempre più estremismi, purtroppo».
Anche nella più moderata Cisgiordania, dove lei vive?
«Assolutamente sì. E questo è inquietante. Qui la stragrande maggioranza dei giovani oramai è per la resistenza di Hamas e per rompere il blocco di Gaza che dura dal 2007. Fino a qualche anno fa non era così. Anche perché, dopo Sharon e i muri costruiti negli anni, i due popoli non si conoscono più. E così i cittadini, di entrambe le parti, sono estremamente manipolabili dai governi».
C’è ancora uno spiraglio per la pace in Medio Oriente?
«Israele deve capire che non può tenere i palestinesi sotto assedio per sempre. Noi non ce ne andremo mai da qui. Quindi, l’unica soluzione è arrivare a un accordo tra noi e gli israeliani. Ma l’accordo presuppone un do ut des. Purtroppo, però, Israele sinora ha dimostrato di non voler trattare. L’Olp nel 1993 ha riconosciuto il diritto di esistenza dello Stato di Israele. Israele non ha fatto ancora lo stesso nei confronti della Palestina».

Repubblica 31.7.14
Gaza, stragi al mercato e nella scuola dell’Onu L’ira di Ban Ki-moon “È stato Israele, vergogna”
Colpi di cannone contro le aule che ospitano i rifugiati e sulla folla in cerca di provviste: uccisi donne e bambini
L’odore di Gaza è quello dolciastro del sangue umano mescolato a quello animale, del fetore che sale dall’immondizia cotta dal sole abbandonata nelle strade, delle fognature esplose che formano pantani maleodoranti e fetidi. È l’odore della morte
di Fabio Scuto


ALEGGIA nelle strade, nei vicoli, nei mercati e nelle scuole dell’Unrwa, dove forse sarebbe meglio alzare la bandiera bianca invece di quella blu dell’Onu. Questa guerra non risparmia niente e nessuno, tutti sono ormai sono solo un bersaglio anche durante la “tregua umanitaria”. Due stragi di civili innocenti con quaranta morti sono il tragico segnale di una guerra che nessuno sembra in grado di poter fermare.
A Gaza City, dopo una notte di bombardamenti, all’alba l’ululato lacerava le strade di una città fantasma mentre il rumore cupo delle esplosioni andava avanti a ritmo continuo nei quartieri e nei rioni a nord, Shajaya, Jabalya, Rimal. Tutte le ambulanze ancora disponibili correvano verso la scuola elementare femminile di Jabalya dell’Unrwa, dove un’umanità di 3.300 persone aveva cercato scampo dall’avanzare dei combattimenti, ammassati nelle aule e nel cortile. Il piccolo istituto, che normalmente accoglie 600 alunne, è stato il teatro dell’ennesimo massacro. Sei colpi di cannone si sono schiantati all’esterno devastando un’area di cinquecento metri quadrati, polverizzando tricicli, carretti, automobili. Gli asini e i cavalli che avevano trainato sui carretti questa gente in fuga perenne, sversavano il loro sangue in mezzo alla strada. Il settimo colpo ha centrato una delle aule dove dormiva un gruppo di donne e bambini, portandosi via 23 vite innocenti, ottanta i feriti caricati su con ogni mezzo verso l’Al Shifa, l’ospedale dove medici e chirurghi lavorano su turni di 24 ore con mezzi e risorse ogni giorno più flebili, quattromila feriti sono già passati di qui.
«Cercavamo di dormire, di coccolare i bambini», racconta ancora sotto shock Kulud Al Atthama, una giovane mamma di sei figli che non riesce a fermare il tremore delle mani. «Le esplosioni sembravano lontane, poi di colpo a breve distanza ne sono cadute cinque o sei proprio dietro il muro della scuola, i bambini hanno cominciato a urlare a piangere, l’ultimo colpo è caduto dentro e ha fatto tremare tutto. Siamo usciti dalla nostra aula di corsa per trovarci di fronte questo carnaio: i ragazzini in preda a crisi isteriche, le urla disumane dei feriti, gli uomini ci tenevano lontane e spostavano le macerie con le mani». «Noi», racconta ancora Kulud, «siamo qui da una settimana con mio marito e i nostri figli, prima stavamo in un’altra scuola dell’Onu a Beit Hanoun, ma anche quella era diventata un bersaglio ed è stata sgomberata, così ci siamo spostati qui, più verso il centro, sembrava un posto sicuro».
Da New York, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon esprime la sua ira: «Nulla di più vergognoso che attaccare dei bambini mentre dormono». La Casa Bianca condanna «il bombardamento di una scuola che ha ucciso innocenti». Il direttore dell’Unrwa Pierre Krahenbuhl è chiaro nella sua denuncia: «È stata l’artiglieria israeliana a colpire la nostra scuola, dove 3.300 persone avevano trovato rifugio. Tutte queste persone avevano seguito l’avviso dell’esercito israeliano di lasciare le proprie case per mettersi in salvo ed erano sotto la nostra protezione». «Le coordinate precise della Scuola Elementare per bambine di Jabalya, insieme al fatto che stesse ospitando migliaia di sfollati », dice ancora Krahenbul, «erano stati comunicate agli israeliane in 17 diverse occasioni, proprio per assicurarne la protezione. L’ultima comunicazione è stata fornita alle 20.50 la scorsa notte, poche ore prima del bombardamento fatale». L’Agenzia dell’Onu vuole anche replicare alle accuse di Israele secondo le quali le sue scuole diventano basi di lancio per i missili sparati da Hamas. «Bisogna mettere in chiaro che non sono mai stati trovati razzi nelle 90 scuole che ospitano 220 mila civili palestinesi, quindi non ci sono scuse per attaccarle».
Se la giornata di Gaza si è aperta con un massacro, la giornata è proseguita con uno stillicidio di morti a Tuffah, a Khan Younis, e di nuovo a Gaza City con la strage al mercato ortofrutticolo. Nel primo pomeriggio dopo l’annuncio di una “tregua umanitaria”, la gente è uscita di casa. Ha iniziato a fare file interminabili davanti ai forni che hanno panificato in fretta, prima della scadenza fissata per le sette locali, di corsa al mercato ortofrutticolo del vecchio quartiere ottomano per fare qualche provvista che si è affollato di colpo. Un raid aereo ha messo fine alle loro speranze scaricando quattro bombe che sono esplose sulla folla che si accalcava attorno ai banchi seminando la morte. Sedici persone — donne, bambini, venditori e passanti — sono morte subito, centocinquanta quelle ferite. Le scene che si sono trovati davanti i soccorritori e i reporter accorsi sul posto erano insopportabili. Un fumo nero gravava come una cappa, fiamme, i feriti evacuati su barelle di fortuna verso un paio di ambulanze, su auto sgangherate, furgoni, carretti, e tuk-tuk. Altri giacevano ancora in strada, incoscienti, mentre da orrende mutilazioni il sangue usciva a fiotti sul pavimento putrido mescolandosi a quello dei polli in vendita. Coperte e stracci stesi sui corpi senza vita. Tra le persone a terra inanimate, un collega fotografo — Rami Rayan — a cui giubbotto antiproiettile e casco non hanno offerto nessuna protezione da quel diluvio di schegge. Trentasette i morti ieri, soltanto durante la “tregua umanitaria”, 70 durante la giornata. Le vittime di questa quarta guerra di Gaza sono ormai quasi 1400, e oggi dopo i bombardamenti iniziati ieri sera in tutta la zona della Striscia saranno ancora di più. Perché il premier Benjamin Netanyahu e i suoi generali sono ancora convinti di poter ottenere una vittoria militare su Hamas che continua a sparare i suoi missili e bloccare l’avanzata dei soldati dentro la Striscia, mentre i 56 militari israeliani caduti finora fanno fare un’altra riflessione al presidente emerito Shimon Peres: «Israele ha esaurito l’opzione militare, la soluzione alla crisi di Gaza deve essere diplomatica ».

Repubblica 31.7.14
Il silenzio dell’Europa
di Andrea Bonanni


ORMAI sembra quasi un luogo comune dire che, di fronte all’eterno massacro che si consuma in Medio Oriente, l’Europa è assente. Ma non è un luogo comune.
UN dato di fatto che dovrebbe pesare dolorosamente sulla coscienza di mezzo miliardo di cittadini europei incapaci di fermare la carneficina e anche solo di tentare di farlo. E dovrebbe spingerci a chiederci il perché di questa nostra impotenza che sconfina in una tragica ignavia. Mentre a Gaza la gente muore nelle scuole, nei mercati, negli ospedali bombardati, stritolata tra due poteri che sembrano aver perso di vista il più elementare senso di umanità, l’Europa se ne è andata in vacanza rinviando al 30 di agosto la scelta dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue. Non sappiamo se la titolare della poltrona tuttora in carica, lady Ashton, sia andata in vacanza pure lei. Di certo, se è al lavoro, non se ne vede traccia. Né si vede traccia di Tony Blair, inviato speciale per il Medio Oriente del Quartetto composto da Russia, Stati Uniti, Onu e, appunto, Unione Europea. Né, in questo silenzio assordante, si vede traccia di una iniziativa della presidenza italiana dell’Ue, che forse potrebbe supplire, almeno con un gesto, alle latitanze altrui, come fece il presidente francese Sarkozy ai tempi della guerra in Georgia. È vero che la creazione di una politica estera comune è forse la più appariscente tra le molte opere incompiute che costellano la costruzione europea, nonostante i titoli altisonanti che sono attribuiti al rappresentante di una diplomazia Ue che non esiste ma che conta migliaia di funzionari e costa ai contribuenti europei un fiume di denaro. Ed è anche vero che persino un’autentica grande potenza globale come gli Stati Uniti, più forte, efficiente e determinata dell’Europa, non è mai riuscita a risolvere la crisi mediorientale. Ma almeno Washington ci prova, sia pure con i propri criteri e le proprie priorità. E gli sforzi, i successi o i fallimenti del presidente americano in questa impresa vengono misurati dalla sua opinione pubblica e pesano sul risultato delle elezioni.
In Europa, che per motivi storici e geografici dovrebbe essere interpellata dalla tragedia mediorientale in modo molto più diretto, non succede nulla di tutto questo. Le innumerevoli risoluzioni votate dal Parlamento europeo restano appese nel vuoto. E ogni volta che il massacro ricomincia, i governi si presentano all’appuntamento in ordine sparso, ma tutti pronti a branÈ dire il diritto di veto per bloccare qualsiasi presa di posizione che non sia talmente generica da risultare anodina e totalmente inefficace. E tutto questo lo fanno senza dover rendere conto alle proprie opinioni pubbliche della loro impotenza collettiva, che è comunque la somma di ventotto impotenze nazionali. Eppure, se solo sapesse cosa dire, se solo avesse il coraggio di sporcarsi le mani e di guardare i torti e le ragioni delle parti in causa, l’Europa, che è il principale partner commerciale di Israele e il principale donatore di aiuti ai palestinesi, avrebbe la possibilità di farsi sentire.
Invece tace. Perché questo è il paradosso della mai nata politica estera europea. Oggi, di fronte a qualsiasi crisi internazionale, dall’Ucraina a Gaza, dalla Libia alla Siria, nessun singolo Paese dell’Ue ha alcun potere di intervento, né in campo economico né in campo militare. Eppure ogni Paese conserva un potere enorme, di cui spesso fa un uso indiscriminato e irresponsabile: il potere di veto, la capacità di bloccare, con il solo inarcamento del ciglio di un ministro, ogni azione comune dell’Europa. La prassi dell’unanimità in politica estera è talmente radicata che questo potere di veto non viene neppure esercitato in modo esplicito. Basta sapere che il tal governo è potenzialmente contrario a qualsiasi sanzione contro Israele, o che il tal altro si oppone ad un possibile taglio ai finanziamenti per i palestinesi, che la questione non viene neppure posta, né messa ai voti. E così i titolari del veto non ne devono rendere conto né all’opinione pubblica europea e al suo Parlamento e neppure alle loro opinioni pubbliche nazionali e ai Parlamenti nazionali. Che in tal modo evitano di interrogarsi su scelte che hanno gravi implicazioni etiche prima ancora che politiche.
Una simile situazione, è chiaro, non può essere cambiata dall’oggi all’indomani. Ma sarebbe bello che il governo italiano, che dice di volere «un’Europa diversa» e che pure ambisce alla poltrona, ora puramente simbolica, di ministro degli esteri dell’Unione europea, almeno ponesse il problema e costringesse le altre capitali se non altro a guardarsi in faccia. I morti bambini di Gaza pesano sulla coscienza di tutti: di chi mette i veti e di chi se li lascia mettere, di chi non fa nulla e di chi lascia che non si faccia nulla. Di chi rinvia le nomine europee e di chi subisce questi rinvii, magari nella speranza di guadagnare una poltrona che, comunque, resta per ora vuota di potere e anche di significato.

Corriere e Haaretz 31.7.14
Quell’alibi del mio Paese che spara senza piangere
di Don Futterman


Ho assistito ai primi diciotto giorni di questa guerra sanguinosa dagli antipodi, in Australia. Dall’altro emisfero. Lontani dai pregiudizi dell’opinione pubblica mondiale e liberi dai vincoli di dover dimostrare a tutti i costi la loro superiorità morale, gli australiani hanno reagito come persone normali, dotate come ognuno di noi di raziocinio e sentimenti: nessuno deve vivere nel terrore di vedersi rapire e uccidere i propri figli; nessun civile deve sopportare ogni giorno una pioggia di razzi; nessun governo può tollerare un simile stato di cose senza reagire; e ancora, nessun esercito ha il diritto di massacrare intere famiglie e centinaia di civili nel tentativo di eliminare i militanti nemici. La tv australiana ha piazzato i suoi cronisti sia a Gaza che a Gerusalemme, e con il susseguirsi incessante di immagini di bambini morti e dilaniati dalle bombe con le loro famiglie decimate, il sentimento popolare ha preso un’altra piega. Il pendolo è passato dal deciso appoggio a Israele al disgusto davanti alla carneficina di Gaza.
Proprio mentre il numero delle vittime a Gaza toccava le trecento unità, un aereo della Malaysia Airlines, diretto in Australia, è stato abbattuto da un missile in Ucraina. Per un attimo, tra irrealtà e sconcerto, le due notizie si sono accavallate, ciascuna con il suo carico di trecento morti. Mentre gli australiani reagivano con rabbia e sgomento davanti alla morte assurda dei loro concittadini, Gaza è finita in seconda fila, lontana dalle prime pagine, diventando una semplice notizia di transizione. Nel frattempo, a Gaza, il numero 300 si perdeva ormai nella lontananza. Tornato a casa, sono ripiombato in quella strana combinazione di ansia e calma, tristezza e smarrimento, sirene e funerali.
Una volta, si sparava piangendo, cantava Si Heyman. Oggi uccidiamo e ci giustifichiamo. Ne abbiamo tutti i diritti. Hamas governa Gaza ma dirotta massicci finanziamenti nella costruzione di tunnel e nell’acquisto di razzi per cercare di colpire gli israeliani. Israele, di conseguenza, non ha altra scelta che tentare il tutto e per tutto per annientare i militanti di Hamas: continuano ad attaccarci, ma Israele si rifiuta di lasciarsi terrorizzare e visto che si tratta di una guerra a tutto campo, e non di una partita di calcio, a noi non interessano scontri equi né reazioni misurate. Eppure, non ci vuole certo un esperto militare per sapere che non stiamo facendo tutto quello che potremmo fare per evitare la strage dei civili a Gaza. In questo frangente, Israele opera in virtù di un nuova strategia morale, che ci assicura carta bianca anche in caso di «danni collaterali», consentendoci di sterminare tutti i palestinesi che vengono a trovarsi sulla linea di fuoco tra noi e i militanti di Hamas. Abbiamo deciso di infliggere morte e distruzione alla popolazione di Gaza e di addossare la colpa al nemico per la nostra brutalità. E siccome un’elevata percentuale della popolazione di Gaza è composta da minori, questo significa che lo stato ebraico sta massacrando un gran numero di bambini. È un calcolo tremendo, un calcolo scandaloso e mortale, e noi non usciremo da questa guerra con la coscienza pulita.
Per molti israeliani, le cataste di morti palestinesi non presentano alcun problema, oltre a una gestione di immagine: Hamas ci costringe a massacrare i civili, compresi i bambini, perché se ne serve come scudi umani, alzando di volta in volta la posta per attentare alla reputazione di Israele, sfidandoci a colpire i loro arsenali militari, interrati sotto scuole e ospedali. Per quanto preferirebbero evitare l’uccisione dei civili, i nostri soldati siamo noi — i nostri parenti e i nostri amici — e pertanto il primo dovere dell’esercito israeliano è quello di fare tutto il possibile per minimizzare le nostre perdite. Eppure, la maggior parte degli ebrei israeliani che io conosco trova molto difficile accettare questa realtà, e sporadicamente si riaccendono i sentimenti di empatia per i morti senza volto e senza nome dal lato nemico, anche se non abbastanza da reclamare la fine delle ostilità per motivi puramente morali.
Il fatto è che non sappiamo se esiste un altro modo per proseguire la lotta contro Hamas, pur ammettendo l’atrocità di queste morti. Non penso che saremo mai in grado di confessare il nostro vero calcolo morale. Certo non lo faremo adesso, mentre corriamo nei rifugi per scampare ai razzi, mentre contiamo i nostri caduti, mentre chiunque si azzardi a esprimere sostegno ai palestinesi viene aggredito dai politici e dai social media. In guerra, il nazionalismo detta legge. Ma quando sarà tutto finito, ricorderemo l’attimo prima della conflagrazione: l’impotenza del presidente palestinese Abu Mazen; la strumentalizzazione da parte del governo israeliano del rapimento e uccisione dei tre ragazzi ebrei come pretesto per attaccare Hamas in Cisgiordania; l’impassibilità del nostro premier mentre gli ebrei davano la caccia agli arabi a Gerusalemme, che protestavano per la vendetta compiuta ai danni di un ragazzo palestinese innocente, rapito e trucidato anche lui.
Hamas non ha nulla da offrire al popolo palestinese, tranne la sua strategia fallimentare di resistenza violenta. L’orgoglio di cui si fregia nella sfida lanciata a Israele è la gloria dei perdenti, tesa solo a edificare il mito disperato di una lotta a oltranza. Se i palestinesi vorranno restituire a Gaza un barlume di speranza, dovranno deporre Hamas. Ma se noi pretendiamo qualcosa di meglio della situazione di stallo prolungato anteriore al conflitto, anche noi avremo bisogno di leader capaci di una visione diversa.
*Opinionista e direttore del Moriah Fund, fondazione per la democrazia e la società civile.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
© Haaretz

il Fatto 31.7.14
Caso Shalabayeva, l’Italia è peggio del Kazakistan
La Cassazione accoglie il ricorso della mglie del dissidente contro il Viminale
“Ignorato il diritto d’asilo, anomalo il blitz notturno”
di Valeria Pacelli


Maltrattamenti, detenzioni non registrate, giornali bollati come “estremisti” e fatti chiudere. E torture con getti di acqua fredda e bastonate per chi finisce in carcere. È la situazione presentata nell’ultimo rapporto di Amnesty International del 2013 sul Kazakistan, dove la dittatura di Nursultan Nazarbayev è insediata da 20 anni. Condizioni di diritti umani violati che l’anno scorso non hanno spaventato le autorità italiane che lì ci ha spedito Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, prelevata a Roma assieme a sua figlia di 6 anni e rimpatriata con un jet privato. Adesso che quella espulsione fosse illegittima lo ha detto la Corte di Cassazione nella sentenza depositata ieri che ha accolto il ricorso della Shalabayeva contro il decreto del giudice di Pace di Roma del 31 maggio 2013. Già il tribunale del riesame di Roma si era pronunciato in maniera contraria alle perquisizioni fatte nella casa della donna.
TUTTAVIA la sentenza della Cassazione rappresenta un colpo molto più forte per la gestione che c’è stata del caso. I giudici spiegano come le decisioni prese in quei giorni non tenevano conto del diritto d’asilo di Alma che la notte tra il 28 e il 29 maggio 2013 vide una cinquantina di agenti fare irruzione nella sua casa di Casal Palocco, dove si trovava con la figlia. L’obiettivo era cercare il marito, destinatario di un mandato di cattura internazionale per i reati di frode commessi nel suo Paese. Il caso, tra le polemiche e le responsabilità politiche sollevate e mai prese, ha occupato le pagine di giornali per mesi. C’è stata in quei giorni una relazione del capo della polizia Alessandro Pansa che spiegò come “il flusso informativo non è pervenuto all’attenzione del Ministro dell’Interno”. E quindi mentre Alfano non sapeva, cadde la testa di Giuseppe Procaccini, ex capo gabinetto del ministro dell’Interno Alfano. Procaccini è l’uomo che il 28 maggio ricevette l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov e il suo primo consigliere. Mentre succedeva tutto questo però nessuno si rendeva conto che Alma Shalabayeva aveva dei documenti che adesso la Cassazione definisce validi. Ma sono anche altre le anomalie rilevate dai giudici in merito: c’è stata troppa fretta da parte delle autorità italiane nelle procedure di espulsione (che presenta “manifesta illegittimità originaria”) e nel trattenimento di Alma al Cie (anche questo annullato ieri senza rinvio dai giudici della Cassazione); inoltre non sono neppure state adottate le traduzioni linguistiche affinché la donna potesse chiarire le condizioni del suo soggiorno in Italia. Mancanze quindi che hanno avuto anche le autorità che avevano conoscenza “dell’effettiva identità” della donna, della “validità ed efficacia anche del passaporto diplomatico centroafricano oltre al possesso di ben due titoli di soggiorno (Regno unito e Lettonia, ndr) in corso di validità”. “Peraltro - continua la sentenza - il controllo della sussistenza di due titoli validi di soggiorno intestati ad Alma Shalabayeva sarebbe stata operazione non disagevole, attesa la conoscenza preventiva della sua identità che ha costituito una delle ragioni determinanti il sospetto (rivelatosi errato) dell’alterazione del passaporto diplomatico in quanto intestato non ad Alma Shalabayeva ma ad Alma Ayan”. Queste le ragioni che hanno spinto i giudici anche a condannare il ministero dell’Interno a pagare in favore di Alma Shalabayeva 5.200 euro per le spese relative alla fase di convalida del suo fermo (1.100 euro) e a quelle per le spese del giudizio innanzi alla stessa Cassazione (4.100 euro ). Solo ad aprile scorso, Alma Shalabayeva ha ottenuto con la figlia il diritto di rifugiato politico ed è tornata a vivere in italia, mentre il marito si trova ancora in Francia che ha autorizzato l’estradizione in Russia o in Ucraina del dissidente kazako. Intanto in Italia quando è scoppiato il “caso Shalabayeva” il premier era Enrico Letta e il suo successore Matteo Renzi ha confermato Alfano come ministro dell’Interno . Anzi è stato fatto di più: il 12 giugno Renzi era presente quando veniva siglato l’accordo strategico tra Eni e la compagnia petrolifera kazaka Kaz-MunayGas, con tanto di stretta di mano con il presidente Nursultan Nazarbayev, lo stesso presidente troppo spesso rimproverato dalle associazioni di diritti umani per le violazioni che ci sono nel loro Paese.

La Stampa 31.7.14
“Shalabayeva, il Viminale calpestò i suoi diritti”
La Cassazione: espulsione illegittima, deve essere risarcita
di Guido Ruotolo


Dall’aprile scorso le è stato concesso l’asilo politico. Riconoscendole, il governo italiano, una sorta di risarcimento morale per quello che ha subito, senza aspettare alcuna sentenza della Cassazione. Che invece è arrivata ieri: una durissima condanna nei confronti delle autorità italiane, a partire dal prefetto di Roma che firmò l’espulsione di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako ed ex banchiere Muktar Ablyazov, ancora oggi detenuto nelle carceri francesi, perché in Francia fu arrestato.
La Cassazione ha annullato senza rinvio il provvedimento del giudice di pace di convalida del trattenimento della donna e della piccola Alua, oggi sette anni, al Cie di Ponte Galeria a Roma. Provvedimento che successivamente fu sospeso dal ministro dell’Interno Angelino Alfano.
I supremi giudici della Sesta sezione civile della Cassazione sono stati molto espliciti mettendo sul banco degli imputati le autorità italiane: «È stato ignorato il diritto di asilo e per questo spetta ad Alma Shalabayeva un risarcimento». E ancora: «Il titolo espulsivo è del tutto privo delle condizioni di legittimità come lo è il successivo ordine di accompagnamento coattivo e trattenimento presso il Cie».
Si legge nelle motivazioni della Cassazione: «L’irruzione notturna nell’abitazione di Casal Palocco dove risiedeva Alma Shalabayeva, effettuata dalle forze dell’ordine, era stata fatta per cercare suo marito e non per finalità di prevenzione e repressione dell’immigrazione irregolare».
La mattina del 28 maggio del 2013, l’ambasciatore kazako a Roma avvertì il Viminale e la questura di Roma che a Casal Palocco, alle porte di Roma, si nascondeva un ricercato pericoloso, il marito della Shalabayeva, Muktar Ablyazov, oppositore al regime kazako. Nella notte, la questura di Roma fece irruzione nella casa non trovando l’uomo.
I funzionari della questura ritennero però che il documento di riconoscimento della donna fosse contraffatto e per questo decisero di trasferirla (con la piccola Alua) nel Cie di Ponte Galeria e, con il via libera del giudice di pace, il 31 maggio imbarcarono donna e bambina su un aereo diretto in Khazakistan.
Scrivono i giudici della Cassazione: «La contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento», nel quale è stata tenuta Alma Shalabayeva «dall’irruzione alla partenza, hanno determinato nella specie un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa».
Soddisfatti della sentenza della suprema Corte, i legali della donna, Riccardo Olivo e Vincenzo Cerulli Irelli: «La Cassazione ha accertato definitivamente la grave e manifesta illegittimità del procedimento di espulsione».
Ripercorrendo i motivi del ricorso, i giudici ne condividono la sostanza, sottolineando che le autorità conoscevano l’effettiva identità della donna, che il suo passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana era valido come erano validi i due permessi di soggiorno della Lettonia e del Regno Unito.
I legali della donna hanno detto che intendono chiedere il risarcimento. Anche perché la Cassazione scrive che «il trattenimento illegittimo determina il diritto al risarcimento del danno per la materiale privazione della libertà personale, non giustificata dalla sussistenza delle condizioni di legge».