Il Sole 13.2.16
I migranti di Rosi in gara a Berlino
di Cristina Battocletti
C’è
un solo italiano in gara alla 66esima edizione del Festival del cinema
di Berlino, Gianfranco Rosi, molto pericoloso per gli altri concorrenti e
non solo per le sue indubbie qualità di regista. Il suo Fuocoammare,
oggi proiettato alla rassegna tedesca, parla di immigrazione, un
argomento spinosissimo in questo momento per la Germania e la
Cancelliera Angela Merkel, che ha messo in discussione più volte negli
ultimi mesi la sua politica di accoglienza. Rosi, che nel 2013 ha vinto
il Leone d’oro a Venezia con Sacro GRA, si è immerso per oltre un anno
nell’isola di Lampedusa, che da due decenni è approdo delle carrette del
mare cariche di clandestini. Il regista italiano, nato ad Asmara e con
passaporto statunitense – si è trasferito a New York dopo il 1985,
diplomandosi presso la New York University Film School -, stava girando
sull’isola siciliana, quando i selezionatori della Berlinale lo hanno
chiamato per partecipare al concorso. La kermesse tedesca ha sempre
dimostrato una grande sensibilità per le questioni politiche: proprio
l’anno scorso ha assegnato l’Orso d’oro al regista iraniano Jafar Panahi
per Taxi, con una chiara presa di posizione nei confronti delle
limitazioni alla libertà di espressione del regime iraniano. Oggi
l’attenzione cade su un regista di comprovate capacità, ma anche sul
tema degli sbarchi in uno dei punti nevralgici dell’esodo della
disperazione. Negli ultimi mesi la Germania ha oscillato tra il
wilkommen (benvenuti) scritto sui cartelli alla stazione e la minaccia
di Frau Merkel di sospendere da Schengen i Paesi che non controllano le
frontiere esterne dell’area (Grecia in primis). I fatti di Colonia, in
cui centinaia di donne nella notte di capodanno sono state oggetto di
violenze sessuali da parte di giovani uomini arabi hanno accentuato le
contraddizioni. Spedizioni punitive sono state organizzate dall’estrema
destra nei campi profughi e la Merkel è corsa in Turchia, promettendo 3
miliardi di aiuti a Erdogan purché trattenga chi fugge dalla Siria.
Fuocoammare
- che uscirà il 18 febbraio, distribuito da 01 distribution e Istituto
Luce-Cinecittà - ha come protagonista Samuele, un lampedusano di 12
anni, la cui normale esistenza di ragazzino, con i giochi di terra, la
fionda, la caccia, è mescolata ai fantasmi di chi cerca la salvezza in
Europa. La Storia, quella con la esse maiuscola, lambisce la sua
esistenza, proprio come il mare. Sul tappeto rosso, fresco delle
impronte dei Coen, oggi assieme al regista ci sarà anche il piccolo
protagonista Samuele Pucillo, assieme a Pietro Bartolo, uno dei medici
che prestano i primi soccorsi, e il dj, Pippo Fragapane, che hanno preso
parte alla pellicola. Rosi è abituato ai viaggi tra gli invisibili,
dove spende lunghe permanenze. Nel 1993 ha portato al Sundance, rassegna
statunitense autoriale e indie per eccellenza, Boatman, ritratti di
indigeni e viaggiatori legati al fiume Gange. Nel 2008 arriva Below the
sea level: dopo anni passati tra diseredati e homeless in una base
militare dismessa a 250 chilometri da Los Angeles e quaranta metri sotto
il livello del mare, esce una fotografia esplosiva dei figli di un Dio
minore americano, che a Venezia merita i premi “Orizzonti” e “Doc/it”.
Nel 2010 con El sicario-Room 164 Rosi riprendele confessioni (è anche
contestato, ma si aggiuca il premio Fipresci al Lido)?di un pentito del
narcotraffico americano, che non lesina uccisioni e torture. Infine
Sacro GRA, panoramica su un campionario sociologico e patologico, umano e
ambientale, che si annida sul grande raccordo anulare romano. Speriamo
che la giuria, presieduta da Meryl Streep, con la complicità della
giurata Alba Rohrwacher, si faccia trascinare dalla macchina da presa di
Rosi, abile a restituire con poesia e senza retorica l’eccezionalità
dei suoi soggetti.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 13 febbraio 2016
Il Sole 13.2.16
Un’intesa fragile
Ma a dire l’ultima parola saranno i ribelli sul campo
di Alberto Negri
Hanno fatto male i conti, molto male: dove sono coloro che cinque anni fa pensavano di abbattere facilmente il regime baathista di Bashar Assad?
Annaspa alle primarie democratiche la signora Hillary Clinton, allora segretario di Stato, che il 7 luglio 2011 spedì l'ambasciatore Robert Ford, accompagnato dal collega francese, in mezzo ai ribelli islamici di Hama per mandare un messaggio esplicito al mondo musulmano: il via libera alla guerra contro il regime di Damasco.
È furibondo Tayyp Erdogan che deve piegare la testa: pensava di mettere le mani su Aleppo e attraverso l’Isis anche su Mosul per proporsi come il nuovo Ataturk. Si ritrova alle porte invece i curdi siriani, alleati di Assad e Mosca ma appoggiati anche dagli Usa, più forti che mai: ha accolto due milioni e mezzo di rifugiati siriani facendo passare ai suoi confini sull’”autostrada della jihad” migliaia di combattenti e senza ottenere una contropartita strategica. Per questo è nervoso, ma né la Nato né gli Stati Uniti hanno intenzione di fare una guerra per soddisfare le sue ambizioni neo-ottomane.
L’Arabia Saudita, priva ormai anche del senso delle proporzioni, e forse del ridicolo, vuole schierare in Siria le sue truppe con la coalizione internazionale a guida americana ma gli Usa al momento lo escludono. I sauditi sono in difesa non in attacco: nonostante 10 mesi di bombardamenti incessanti in Yemen sui ribelli sciiti Houti -anche se meno mediatici di quelli russi su Aleppo - Riad non riesce a muovere un passo nel pantano dove si è cacciata del cortile di casa, una sorta di Vietnam arabo.
Mentre l’Iran sciita, il suo arci-nemico nel Golfo, si è liberato delle sanzioni e con l’aiuto militare di Mosca si prepara a estendere la sua influenza regionale attraverso Pasdaran e Hezbollah.
Cominciata con la primavera araba e la rivolta di Daraa nel marzo 2011, quella siriana era all’inizio una legittima protesta popolare contro un regime autocratico e brutale ma si è trasformata quasi subito in una guerra per procura contro Teheran, al punto che gli Emirati per conto delle monarchie del Golfo offrirono decine di miliardi di dollari ad Assad nel giugno 2011 per troncare la storica alleanza con la repubblica islamica. Assad rifiutò perché tra l’altro negli anni ’70 furono gli ayatollah a legittimare l’appartenenza degli alauiti all’islam, considerati dai sunniti dei miscredenti.
Ricordiamo che la Siria fu l’unico stato arabo a schierarsi con gli ayatollah quando nell’80 Saddam Hussein attaccò l’Iran e a favorire l’insediamento degli Hezbollah sciiti in Libano. Da queste parti la resa dei conti tra il fronte sciita e quello sunnita è cominciata decenni fa, ancora prima che gli Usa invadessero l’Iraq nel 2003 sbalzando dal potere i sunniti e aprendo il vaso di Pandora mediorientale, lasciando poi che i governi di Baghdad emarginassero colpevolmente le altre minoranze. L’Iraq è stata la calamita del terrorismo di Al Qaeda e il regime baathista non era certo finito con Saddam: è andato underground e si è alleato con l’Isis del califfo Abu Baqr Baghdadi mettendo a segno i risultati che sappiamo.
La sanguinosa partita siriana, almeno in questo primo tempo durato 5 anni di massacri e crimini di guerra, 250 mila morti e milioni di profughi, l’ha decisa la Russia non l’Occidente con i suoi ambigui e inefficaci alleati sempre pronti a flirtare con i jihadisti i cui affiliati sono arrivati a fare stragi nel cuore della Francia. A proposito: dove sono finiti i raid punitivi di Hollande che dovevano abbattere il Califfato? Forse li riserva al prossimo round in Libia per sostenere il generale filo-egiziano Khalifa Haftar.
Ma in Siria siamo appunto al primo tempo che forse non è neppure finito perché l’arbitro, cioè l’Onu, deve ancora trovare un accordo a Ginevra tra le fazioni. La tregua la decideranno loro, non soltanto gli Usa e la Russia che a Monaco ha dato una mano a Washington a contenere gli alleati turchi e sauditi, assai frustrati nei loro obiettivi politici e militari.
Saranno le fazioni combattenti dei ribelli siriani a dire l’ultima parola sull’accordo «quando comincerà il cessate il fuoco e quando finirà», ha dichiarato George Sabra membro della Alto Consiglio dell’opposizione. Perché la questione è evidente a tutti: anche se venisse accettata, e per ora le fazioni filo-saudite l’hanno rifiutata, l’intesa di Monaco non darà inizio a una tregua totale ma soltanto parziale.
Dal cessate il fuoco sono esclusi l’Isis e il gruppo Jabat al Nusra affiliato ad Al Qaeda, ritenuti dall’Onu gruppi terroristici. Il problema è che i russi e Assad assimilano ad Al Qaeda anche altre fazioni e non esiteranno a bombardarle. Lo si è capito perfettamente alla fine di dicembre quando un raid aereo russo alla periferia di Damasco ha fatto fuori Zahar Alloush, leader del movimento Jaysh al Islam, uno dei principali gruppi sostenuti dall’Arabia Saudita.
Mosca - temono gli americani ma anche turchi e sauditi -utilizzerà la settimana prima del cessate il fuoco per aiutare le truppe di Damasco a ottenere altre conquiste territoriali: questa non è un’ipotesi ma una certezza, perché l’obiettivo strategico è quello di tagliare fuori Aleppo dai rifornimenti dei ribelli e liberare la direttrice tra il Nord e Damasco. La guerra siriana, nonostante gli annunci, n on si ferma a Monaco.
Un’intesa fragile
Ma a dire l’ultima parola saranno i ribelli sul campo
di Alberto Negri
Hanno fatto male i conti, molto male: dove sono coloro che cinque anni fa pensavano di abbattere facilmente il regime baathista di Bashar Assad?
Annaspa alle primarie democratiche la signora Hillary Clinton, allora segretario di Stato, che il 7 luglio 2011 spedì l'ambasciatore Robert Ford, accompagnato dal collega francese, in mezzo ai ribelli islamici di Hama per mandare un messaggio esplicito al mondo musulmano: il via libera alla guerra contro il regime di Damasco.
È furibondo Tayyp Erdogan che deve piegare la testa: pensava di mettere le mani su Aleppo e attraverso l’Isis anche su Mosul per proporsi come il nuovo Ataturk. Si ritrova alle porte invece i curdi siriani, alleati di Assad e Mosca ma appoggiati anche dagli Usa, più forti che mai: ha accolto due milioni e mezzo di rifugiati siriani facendo passare ai suoi confini sull’”autostrada della jihad” migliaia di combattenti e senza ottenere una contropartita strategica. Per questo è nervoso, ma né la Nato né gli Stati Uniti hanno intenzione di fare una guerra per soddisfare le sue ambizioni neo-ottomane.
L’Arabia Saudita, priva ormai anche del senso delle proporzioni, e forse del ridicolo, vuole schierare in Siria le sue truppe con la coalizione internazionale a guida americana ma gli Usa al momento lo escludono. I sauditi sono in difesa non in attacco: nonostante 10 mesi di bombardamenti incessanti in Yemen sui ribelli sciiti Houti -anche se meno mediatici di quelli russi su Aleppo - Riad non riesce a muovere un passo nel pantano dove si è cacciata del cortile di casa, una sorta di Vietnam arabo.
Mentre l’Iran sciita, il suo arci-nemico nel Golfo, si è liberato delle sanzioni e con l’aiuto militare di Mosca si prepara a estendere la sua influenza regionale attraverso Pasdaran e Hezbollah.
Cominciata con la primavera araba e la rivolta di Daraa nel marzo 2011, quella siriana era all’inizio una legittima protesta popolare contro un regime autocratico e brutale ma si è trasformata quasi subito in una guerra per procura contro Teheran, al punto che gli Emirati per conto delle monarchie del Golfo offrirono decine di miliardi di dollari ad Assad nel giugno 2011 per troncare la storica alleanza con la repubblica islamica. Assad rifiutò perché tra l’altro negli anni ’70 furono gli ayatollah a legittimare l’appartenenza degli alauiti all’islam, considerati dai sunniti dei miscredenti.
Ricordiamo che la Siria fu l’unico stato arabo a schierarsi con gli ayatollah quando nell’80 Saddam Hussein attaccò l’Iran e a favorire l’insediamento degli Hezbollah sciiti in Libano. Da queste parti la resa dei conti tra il fronte sciita e quello sunnita è cominciata decenni fa, ancora prima che gli Usa invadessero l’Iraq nel 2003 sbalzando dal potere i sunniti e aprendo il vaso di Pandora mediorientale, lasciando poi che i governi di Baghdad emarginassero colpevolmente le altre minoranze. L’Iraq è stata la calamita del terrorismo di Al Qaeda e il regime baathista non era certo finito con Saddam: è andato underground e si è alleato con l’Isis del califfo Abu Baqr Baghdadi mettendo a segno i risultati che sappiamo.
La sanguinosa partita siriana, almeno in questo primo tempo durato 5 anni di massacri e crimini di guerra, 250 mila morti e milioni di profughi, l’ha decisa la Russia non l’Occidente con i suoi ambigui e inefficaci alleati sempre pronti a flirtare con i jihadisti i cui affiliati sono arrivati a fare stragi nel cuore della Francia. A proposito: dove sono finiti i raid punitivi di Hollande che dovevano abbattere il Califfato? Forse li riserva al prossimo round in Libia per sostenere il generale filo-egiziano Khalifa Haftar.
Ma in Siria siamo appunto al primo tempo che forse non è neppure finito perché l’arbitro, cioè l’Onu, deve ancora trovare un accordo a Ginevra tra le fazioni. La tregua la decideranno loro, non soltanto gli Usa e la Russia che a Monaco ha dato una mano a Washington a contenere gli alleati turchi e sauditi, assai frustrati nei loro obiettivi politici e militari.
Saranno le fazioni combattenti dei ribelli siriani a dire l’ultima parola sull’accordo «quando comincerà il cessate il fuoco e quando finirà», ha dichiarato George Sabra membro della Alto Consiglio dell’opposizione. Perché la questione è evidente a tutti: anche se venisse accettata, e per ora le fazioni filo-saudite l’hanno rifiutata, l’intesa di Monaco non darà inizio a una tregua totale ma soltanto parziale.
Dal cessate il fuoco sono esclusi l’Isis e il gruppo Jabat al Nusra affiliato ad Al Qaeda, ritenuti dall’Onu gruppi terroristici. Il problema è che i russi e Assad assimilano ad Al Qaeda anche altre fazioni e non esiteranno a bombardarle. Lo si è capito perfettamente alla fine di dicembre quando un raid aereo russo alla periferia di Damasco ha fatto fuori Zahar Alloush, leader del movimento Jaysh al Islam, uno dei principali gruppi sostenuti dall’Arabia Saudita.
Mosca - temono gli americani ma anche turchi e sauditi -utilizzerà la settimana prima del cessate il fuoco per aiutare le truppe di Damasco a ottenere altre conquiste territoriali: questa non è un’ipotesi ma una certezza, perché l’obiettivo strategico è quello di tagliare fuori Aleppo dai rifornimenti dei ribelli e liberare la direttrice tra il Nord e Damasco. La guerra siriana, nonostante gli annunci, n on si ferma a Monaco.
il manifesto 13.2.16
Il fiorino magico a caccia di Mps
Risiko bancario. Sullo sfondo dalla già discussa riforma delle banche di credito cooperativo, il progetto delle Bcc toscane più ricche, tutte riconducibili al giglio magico renziano, di trasformarsi in spa senza troppi sacrifici economici. Con Bini Smaghi alla guida del futuro gruppo creditizio, per dare l'assalto al Monte dei Paschi.
di Riccardo Chiari
Nel risiko creditizio auspicato a destra e a manca, spazio anche alla fantapolitica bancaria: e se il boccone ghiotto per le banche di credito cooperativo vicine a Matteo Renzi non fosse la piccola, e malandata, nuova Etruria ma il terzo gruppo italiano, quel Monte dei Paschi che continua a precipitare in borsa nonostante i conti tornati, almeno rispetto alla concorrenza, abbastanza in ordine?
Per certo la riforma delle Bcc, approvata due giorni fa dal governo, non è ancora nero su bianco in un decreto ma ha già provocato polemiche. Alcune mirate. “Ora Renzi si vuole fare il fiorino magico”, ha tuonato il forzista Antonio Tajani sul Qn che vede al suo interno la toscanissima Nazione. Mentre il Fatto quotidiano ha riepilogato gli ottimi rapporti che intercorrono fra il “giglio magico” e le Bcc toscane più floride (gruppo Cabel e Chianti Banca), ipotizzando l’interesse di quest’ultime per Etruria. La nuova, s’intende, perché sulla vecchia Bpel la procura aretina ha già aperto l’inchiesta per bancarotta fraudolenta.
Dal canto suo il Corriere della sera ha segnalato le critiche (da Confcooperative a Legacoop) ad un provvedimento che la vulgata dice essere stato cambiato in corsa. Ad opera di quel Luca Lotti che di Bcc se ne intende, visto che il padre è sulla plancia di comando della Banca di Cambiano. Cioè la capofila del gruppo Cabel, in quell’Empolese-Valdelsa da cui provengono alcuni colonnelli renziani, a partire dal segretario toscano dei democrat Dario Parrini.
Fra i fatti e le ipotesi, precedenza ai primi. Ad esempio, ieri il direttore di Chianti Banca, Andrea Bianchi, ha assicurato: “A noi interessano solo altre realtà del movimento cooperativo, Banca Etruria non ci interessa”. Poi Bianchi ha annunciato che Chianti Banca approverà il bilancio 2015 – che si annuncia positivo — nell’assemblea di aprile, nel corso della quale i soci chiameranno alla presidenza Lorenzo Bini Smaghi. Altro personaggio in consolidati rapporti, da anni, con l’attuale inquilino di palazzo Chigi.
Peraltro Bini Smaghi, attuale presidente di Société Génerale ed ex del comitato esecutivo Bce, è figura autorevole nel macrocosmo bancario. La sua discesa a Chianti Banca, che è sì florida ma ancora relativamente piccola, avrebbe molto più senso nel quadro di quanto abbozzato mercoledì dal consiglio dei ministri sulle Bcc.
Diversamente dal decreto legge presentato dal Tesoro, che prevedeva una sola capogruppo per le 360 Bcc, il governo vorrebbe dare alle banche più grandi la possibilità di sganciarsi. Così nella bozza di decreto le banche con più di 200 milioni di riserve sono libere di uscire, lasciando il 20% delle riserve all’erario per poi diventare spa. Una decina sono pronte da tempo. Proprio quelle toscane, da Chianti Banca all’altrettanto florido gruppo Cabel (Bcc di Cambiano, Pisa e Fornacette, Castagneto Carducci e altre).
In realtà i passaggi tecnici della possibile uscita non sono ancora definiti. Così il presidente di Federcasse, Alessandro Azzi, dopo le prime critiche frena: “Non conosco il testo. Il fatto che finalmente ci sia un provvedimento è di per sé una buona cosa, ma per una valutazione attendo di vedere il decreto”. Sul quale interviene anche Pierluigi Bersani. Non certo tenero: “Sulla riforma delle Bcc è il caso di riflettere bene. Liberare le riserve di una cooperativa creerebbe un precedente molto serio. Si tratta infatti di colpire al cuore il concetto stesso di cooperazione”.
Nel mentre a Piazza Affari continua il calvario del Monte dei Paschi (e di Carige). Dopo aver perso il 10% mercoledì, ieri Mps è andato sotto del 5,8% quando le altre banche recuperavano in doppia cifra. “Sono arrabbiato – dice l’ad Fabrizio Viola — perché i mercati non riconoscono i risultati di quattro anni di lavoro per riportare la banca ai livelli che le competono”. Ah, i mercati. Ora il titolo vale 0,46 euro. Una miseria per il terzo gruppo italiano. E i senesi più attenti stanno vedendo una gran migrazione di clienti. Da Mps a Chianti Banca. Intanto Renzi va a Radio anch’io, e meleggia i rosiconi: “L’Europa ha pensato un po’ troppo alle banche e un po’ poco alle famiglie”. Non male questa.
Il fiorino magico a caccia di Mps
Risiko bancario. Sullo sfondo dalla già discussa riforma delle banche di credito cooperativo, il progetto delle Bcc toscane più ricche, tutte riconducibili al giglio magico renziano, di trasformarsi in spa senza troppi sacrifici economici. Con Bini Smaghi alla guida del futuro gruppo creditizio, per dare l'assalto al Monte dei Paschi.
di Riccardo Chiari
Nel risiko creditizio auspicato a destra e a manca, spazio anche alla fantapolitica bancaria: e se il boccone ghiotto per le banche di credito cooperativo vicine a Matteo Renzi non fosse la piccola, e malandata, nuova Etruria ma il terzo gruppo italiano, quel Monte dei Paschi che continua a precipitare in borsa nonostante i conti tornati, almeno rispetto alla concorrenza, abbastanza in ordine?
Per certo la riforma delle Bcc, approvata due giorni fa dal governo, non è ancora nero su bianco in un decreto ma ha già provocato polemiche. Alcune mirate. “Ora Renzi si vuole fare il fiorino magico”, ha tuonato il forzista Antonio Tajani sul Qn che vede al suo interno la toscanissima Nazione. Mentre il Fatto quotidiano ha riepilogato gli ottimi rapporti che intercorrono fra il “giglio magico” e le Bcc toscane più floride (gruppo Cabel e Chianti Banca), ipotizzando l’interesse di quest’ultime per Etruria. La nuova, s’intende, perché sulla vecchia Bpel la procura aretina ha già aperto l’inchiesta per bancarotta fraudolenta.
Dal canto suo il Corriere della sera ha segnalato le critiche (da Confcooperative a Legacoop) ad un provvedimento che la vulgata dice essere stato cambiato in corsa. Ad opera di quel Luca Lotti che di Bcc se ne intende, visto che il padre è sulla plancia di comando della Banca di Cambiano. Cioè la capofila del gruppo Cabel, in quell’Empolese-Valdelsa da cui provengono alcuni colonnelli renziani, a partire dal segretario toscano dei democrat Dario Parrini.
Fra i fatti e le ipotesi, precedenza ai primi. Ad esempio, ieri il direttore di Chianti Banca, Andrea Bianchi, ha assicurato: “A noi interessano solo altre realtà del movimento cooperativo, Banca Etruria non ci interessa”. Poi Bianchi ha annunciato che Chianti Banca approverà il bilancio 2015 – che si annuncia positivo — nell’assemblea di aprile, nel corso della quale i soci chiameranno alla presidenza Lorenzo Bini Smaghi. Altro personaggio in consolidati rapporti, da anni, con l’attuale inquilino di palazzo Chigi.
Peraltro Bini Smaghi, attuale presidente di Société Génerale ed ex del comitato esecutivo Bce, è figura autorevole nel macrocosmo bancario. La sua discesa a Chianti Banca, che è sì florida ma ancora relativamente piccola, avrebbe molto più senso nel quadro di quanto abbozzato mercoledì dal consiglio dei ministri sulle Bcc.
Diversamente dal decreto legge presentato dal Tesoro, che prevedeva una sola capogruppo per le 360 Bcc, il governo vorrebbe dare alle banche più grandi la possibilità di sganciarsi. Così nella bozza di decreto le banche con più di 200 milioni di riserve sono libere di uscire, lasciando il 20% delle riserve all’erario per poi diventare spa. Una decina sono pronte da tempo. Proprio quelle toscane, da Chianti Banca all’altrettanto florido gruppo Cabel (Bcc di Cambiano, Pisa e Fornacette, Castagneto Carducci e altre).
In realtà i passaggi tecnici della possibile uscita non sono ancora definiti. Così il presidente di Federcasse, Alessandro Azzi, dopo le prime critiche frena: “Non conosco il testo. Il fatto che finalmente ci sia un provvedimento è di per sé una buona cosa, ma per una valutazione attendo di vedere il decreto”. Sul quale interviene anche Pierluigi Bersani. Non certo tenero: “Sulla riforma delle Bcc è il caso di riflettere bene. Liberare le riserve di una cooperativa creerebbe un precedente molto serio. Si tratta infatti di colpire al cuore il concetto stesso di cooperazione”.
Nel mentre a Piazza Affari continua il calvario del Monte dei Paschi (e di Carige). Dopo aver perso il 10% mercoledì, ieri Mps è andato sotto del 5,8% quando le altre banche recuperavano in doppia cifra. “Sono arrabbiato – dice l’ad Fabrizio Viola — perché i mercati non riconoscono i risultati di quattro anni di lavoro per riportare la banca ai livelli che le competono”. Ah, i mercati. Ora il titolo vale 0,46 euro. Una miseria per il terzo gruppo italiano. E i senesi più attenti stanno vedendo una gran migrazione di clienti. Da Mps a Chianti Banca. Intanto Renzi va a Radio anch’io, e meleggia i rosiconi: “L’Europa ha pensato un po’ troppo alle banche e un po’ poco alle famiglie”. Non male questa.
il manifesto 13.2.15
Quella spinta sociale alla trasformazione
«Storia ed evoluzione dell’islamismo arabo» di Laura Guazzone. Uno studio che offre un’ampia visione sull’ideologia contemporanea nei paesi di riferimento
di Chiara Cruciati
Mai come oggi la stampa e l’opinione pubblica italiane sono chiamate ad affrontare la galassia musulmana, le sue divisioni interne, le diverse anime religiose ed etniche. Una realtà complessa che spesso viene gestita con superficialità, proponendo visioni appiattite su stereotipi fallaci.
Ammettiamolo: di Islam sappiamo poco. Sappiamo poco degli sviluppi politici e culturali di una buona fetta di pianeta, oltre un milione e mezzo di persone, 360 milioni solo in Medio Oriente. Proviamo a muovere un passo alla volta, restringendo l’analisi all’Islam nel mondo arabo. E approfondiamolo. Un aiuto fondamentale lo offre Storia ed evoluzione dell’islamismo arabo (Mondadori, pp. 368, euro 26), un progetto universitario di ricerca curato da Laura Guazzone e che propone studi interdisciplinari del cosiddetto Islam politico.
Muoversi tra i dieci capitoli della ricerca, pubblicata a quattro anni dal fenomeno ribattezzato come «primavere arabe», è un tuffo nelle trasformazioni delle società e delle ideologie che hanno caratterizzato il Medio Oriente e il Nord Africa, dalle sue origini fino ad oggi. Dalle pagine emergono termini ormai noti, un lessico che pensiamo di padroneggiare ma di cui in realtà non ne conosciamo origini e sfaccettature: shari’a, hijab, salafismo, Fratellanza Musulmana, umma, jihad, takfir. Qual è il loro significato? Quale la loro interpretazione nei diversi paesi a maggioranza musulmana e quale la loro applicazione da parte di movimenti politici e religiosi diversi?
Lo studio offre una visione completa della questione, affrontata elaborando il concetto di «islamismo», o Islam politico, dal punto di vista storico, sociale, economico. Un approccio valido perché permette di comprendere, esempi alla mano, come tale ideologia contemporanea si sia modellata nelle società di riferimento, con sviluppi spesso diversi tra loro e conseguenze socio-politiche addirittura contrastanti. Basta guardare a due dei paesi protagonisti delle rivoluzioni del 2011, Egitto e Tunisia, e gli opposti risultati archiviati da partiti entrambi freristi, il Partito Giustizia e Libertà dei Fratelli Musulmani nel primo, Ennahda nel secondo.
Districarsi nel mondo complesso dell’islamismo non è processo semplice, tante sono le definizioni come tante sono le storture e le erronee etichette figlie della propaganda sia occidentale che interna. Un punto di partenza, però, esiste e il progetto di Guazzone lo individua nei due filoni che l’Islam politico e i suoi ideologi hanno prodotto nel corso degli ultimi due secoli: Islam come strumento di trasformazione della società, visione nel quale il movimento ha finalità missionarie e di predicazione; o Islam volto all’attività politica, dove la priorità diventa la partecipazione politica e la formulazione di un’alternativa ai regimi nazionalisti.
All’interno di tale differenziazione è possibile inserire le diverse ideologie religioso-politiche nate nel secolo scorso e la loro capacità di influenzare (ed essere influenzate) dalle società di appartenenza, scosse da trasformazioni epocali e spesso traumatiche: dalla colonizzazione europea al processo di decolonizzazione, dalla nascita degli Stati nazione e di regimi nazionalisti alla minaccia del terrorismo di matrice islamista.
Come l’Islam politico ha affrontato e affronta la modernità, le caratteristiche della contemporaneità e della globalizzazione delle idee e dei comportamenti? Merito della ricerca è incentrare la prima parte del progetto sull’analisi di alcuni elementi utili a descrivere la natura dei movimenti islamisti arabi, che siano sistemici o anti-sistemici: la compatibilità tra Islam politico e democrazia liberale; l’interpretazione della shari’a e il suo ruolo all’interno della legislazione statale; la questione della giustizia sociale; il ruolo delle donne nella società desiderata. I risultati sono tanti, quanti sono i paesi oggetto di studio perché non esiste una sola democrazia come non esiste un solo Islam. La tendenza è individuata proprio nel rapporto tra movimenti islamisti e società: l’approccio islamista tende ad essere più liberale nei paesi meno conservatori, come la Tunisia, finendo per presentarsi come prodotto stesso del percorso socio-economico affrontato dai popoli.
Non mancano elementi comuni tra i diversi islamismi arabi. Molti hanno sviluppato le proprie caratteristiche attuali a fronte di stress strutturali, fratture storiche come il movimento colonizzatore di inizio ’900 e la rivoluzione iraniana di fine anni ’70. Nel primo caso lo sviluppo di un’ideologia islamista è reazione naturale alla colonizzazione occidentale, nel secondo all’imperialismo statunitense. Si reagisce ad una penetrazione esterna con un nuovo modello politico-culturale che fonda le sue basi sull’identità islamica, negata da quegli attori esterni.
Non è un caso che l’islamismo trovi consenso e possibilità di ampliamento in società che, più o meno lentamente, riprendono in mano strumenti di «caratterizzazione» musulmana, dal ritorno del velo alla preghiera in moschea. Un percorso, quello della re-islamizzazione, affrontato da molti dei paesi che la ricerca mette sotto i riflettori. E che spiega bene sia la maggiore fortuna ottenuta da movimenti salafiti e radicali, sia lo sviluppo di movimenti islamisti liberali che vedono nel processo democratico e nel rapporto con sindacati e movimenti sociali lo strumento di trasformazione della società di appartenenza. Ovvero, l’ingresso nel processo istituzionale – tipico di uno dei più importanti gruppi islamisti, i Fratelli Musulmani – per modificare il sistema dall’interno, senza il ricorso alla violenza o alla lotta armata.
Centrale nella ricerca è quindi l’enfasi posta sull’approccio storico: la Storia come strumento di analisi e comprensione ideologica, accanto al concetto marxista di classe sociale. La natura economica e sociale, le differenze tra classi, il gap tra centro e periferia emergono prepotentemente come fattori di adesione, di ampliamento o di restrizione del consenso delle ideologie islamiste, della loro fortuna o del loro declino.
Quella spinta sociale alla trasformazione
«Storia ed evoluzione dell’islamismo arabo» di Laura Guazzone. Uno studio che offre un’ampia visione sull’ideologia contemporanea nei paesi di riferimento
di Chiara Cruciati
Mai come oggi la stampa e l’opinione pubblica italiane sono chiamate ad affrontare la galassia musulmana, le sue divisioni interne, le diverse anime religiose ed etniche. Una realtà complessa che spesso viene gestita con superficialità, proponendo visioni appiattite su stereotipi fallaci.
Ammettiamolo: di Islam sappiamo poco. Sappiamo poco degli sviluppi politici e culturali di una buona fetta di pianeta, oltre un milione e mezzo di persone, 360 milioni solo in Medio Oriente. Proviamo a muovere un passo alla volta, restringendo l’analisi all’Islam nel mondo arabo. E approfondiamolo. Un aiuto fondamentale lo offre Storia ed evoluzione dell’islamismo arabo (Mondadori, pp. 368, euro 26), un progetto universitario di ricerca curato da Laura Guazzone e che propone studi interdisciplinari del cosiddetto Islam politico.
Muoversi tra i dieci capitoli della ricerca, pubblicata a quattro anni dal fenomeno ribattezzato come «primavere arabe», è un tuffo nelle trasformazioni delle società e delle ideologie che hanno caratterizzato il Medio Oriente e il Nord Africa, dalle sue origini fino ad oggi. Dalle pagine emergono termini ormai noti, un lessico che pensiamo di padroneggiare ma di cui in realtà non ne conosciamo origini e sfaccettature: shari’a, hijab, salafismo, Fratellanza Musulmana, umma, jihad, takfir. Qual è il loro significato? Quale la loro interpretazione nei diversi paesi a maggioranza musulmana e quale la loro applicazione da parte di movimenti politici e religiosi diversi?
Lo studio offre una visione completa della questione, affrontata elaborando il concetto di «islamismo», o Islam politico, dal punto di vista storico, sociale, economico. Un approccio valido perché permette di comprendere, esempi alla mano, come tale ideologia contemporanea si sia modellata nelle società di riferimento, con sviluppi spesso diversi tra loro e conseguenze socio-politiche addirittura contrastanti. Basta guardare a due dei paesi protagonisti delle rivoluzioni del 2011, Egitto e Tunisia, e gli opposti risultati archiviati da partiti entrambi freristi, il Partito Giustizia e Libertà dei Fratelli Musulmani nel primo, Ennahda nel secondo.
Districarsi nel mondo complesso dell’islamismo non è processo semplice, tante sono le definizioni come tante sono le storture e le erronee etichette figlie della propaganda sia occidentale che interna. Un punto di partenza, però, esiste e il progetto di Guazzone lo individua nei due filoni che l’Islam politico e i suoi ideologi hanno prodotto nel corso degli ultimi due secoli: Islam come strumento di trasformazione della società, visione nel quale il movimento ha finalità missionarie e di predicazione; o Islam volto all’attività politica, dove la priorità diventa la partecipazione politica e la formulazione di un’alternativa ai regimi nazionalisti.
All’interno di tale differenziazione è possibile inserire le diverse ideologie religioso-politiche nate nel secolo scorso e la loro capacità di influenzare (ed essere influenzate) dalle società di appartenenza, scosse da trasformazioni epocali e spesso traumatiche: dalla colonizzazione europea al processo di decolonizzazione, dalla nascita degli Stati nazione e di regimi nazionalisti alla minaccia del terrorismo di matrice islamista.
Come l’Islam politico ha affrontato e affronta la modernità, le caratteristiche della contemporaneità e della globalizzazione delle idee e dei comportamenti? Merito della ricerca è incentrare la prima parte del progetto sull’analisi di alcuni elementi utili a descrivere la natura dei movimenti islamisti arabi, che siano sistemici o anti-sistemici: la compatibilità tra Islam politico e democrazia liberale; l’interpretazione della shari’a e il suo ruolo all’interno della legislazione statale; la questione della giustizia sociale; il ruolo delle donne nella società desiderata. I risultati sono tanti, quanti sono i paesi oggetto di studio perché non esiste una sola democrazia come non esiste un solo Islam. La tendenza è individuata proprio nel rapporto tra movimenti islamisti e società: l’approccio islamista tende ad essere più liberale nei paesi meno conservatori, come la Tunisia, finendo per presentarsi come prodotto stesso del percorso socio-economico affrontato dai popoli.
Non mancano elementi comuni tra i diversi islamismi arabi. Molti hanno sviluppato le proprie caratteristiche attuali a fronte di stress strutturali, fratture storiche come il movimento colonizzatore di inizio ’900 e la rivoluzione iraniana di fine anni ’70. Nel primo caso lo sviluppo di un’ideologia islamista è reazione naturale alla colonizzazione occidentale, nel secondo all’imperialismo statunitense. Si reagisce ad una penetrazione esterna con un nuovo modello politico-culturale che fonda le sue basi sull’identità islamica, negata da quegli attori esterni.
Non è un caso che l’islamismo trovi consenso e possibilità di ampliamento in società che, più o meno lentamente, riprendono in mano strumenti di «caratterizzazione» musulmana, dal ritorno del velo alla preghiera in moschea. Un percorso, quello della re-islamizzazione, affrontato da molti dei paesi che la ricerca mette sotto i riflettori. E che spiega bene sia la maggiore fortuna ottenuta da movimenti salafiti e radicali, sia lo sviluppo di movimenti islamisti liberali che vedono nel processo democratico e nel rapporto con sindacati e movimenti sociali lo strumento di trasformazione della società di appartenenza. Ovvero, l’ingresso nel processo istituzionale – tipico di uno dei più importanti gruppi islamisti, i Fratelli Musulmani – per modificare il sistema dall’interno, senza il ricorso alla violenza o alla lotta armata.
Centrale nella ricerca è quindi l’enfasi posta sull’approccio storico: la Storia come strumento di analisi e comprensione ideologica, accanto al concetto marxista di classe sociale. La natura economica e sociale, le differenze tra classi, il gap tra centro e periferia emergono prepotentemente come fattori di adesione, di ampliamento o di restrizione del consenso delle ideologie islamiste, della loro fortuna o del loro declino.
Repubblica 13.2.16
L’iniziativa A Roma
Oggi la marcia degli archeologi sull’Appia Antica
ROMA. Si svolge oggi sull’Appia Antica a Roma una marcia che apre una serie di iniziative per ricordare Antonio Cederna a vent’anni dalla morte. La marcia è organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli e parte alle 10 da Villa dei Quintili per terminare al sito di Capo di Bove e al Mausoleo di Cecilia Metella. La guida è affidata a Rita Paris, direttrice dell’Appia Antica per conto della Soprintendenza archeologica di Roma. Sono previsti gli interventi di Giuseppe Cederna, Vezio De Lucia e Vittorio Emiliani.
L’iniziativa A Roma
Oggi la marcia degli archeologi sull’Appia Antica
ROMA. Si svolge oggi sull’Appia Antica a Roma una marcia che apre una serie di iniziative per ricordare Antonio Cederna a vent’anni dalla morte. La marcia è organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli e parte alle 10 da Villa dei Quintili per terminare al sito di Capo di Bove e al Mausoleo di Cecilia Metella. La guida è affidata a Rita Paris, direttrice dell’Appia Antica per conto della Soprintendenza archeologica di Roma. Sono previsti gli interventi di Giuseppe Cederna, Vezio De Lucia e Vittorio Emiliani.
La Stampa 13.2.16
Hieronymus Bosch
Le follie di un visionario alle radici della modernità
Animali mostruosi, frati ghiottoni, suore lussuriose: in Olanda si apre oggi la mostra che celebra uno dei geni della pittura nordica. In estate sarà al Prado
di Fiorella Minervino
Hieronymus van Aken, pittore del religiosissimo Brabante Settentrionale, al calare del Medioevo nordico verso il Rinascimento aveva scelto di trasformare il nome d’arte in Bosch, dalla città natale Hertogenbosch (bosco ducale, oggi Den Bosch), fra le più antiche dei Paesi Bassi, dove nel 1450 circa aveva aperto gli occhi ai colori e alla luce, e dove nella piazza del Mercato aveva creato le fantasmagorie che lo hanno reso celebre. Sono capolavori come il Carro del fieno, al Prado, o La nave dei folli. al Louvre, piuttosto che le Visioni dell’aldilà da Palazzo Grimani a Venezia e altri dal Metropolitan, Rotterdam e dalle veneziane Gallerie dell’Accademia che ora, a 500 anni dalla scomparsa, ritornano a casa in prestito. E sono appena approdati al Noordbrabants Museum, quello della sua quieta cittadina che paradossalmente non ne possiede alcuno, essendo lui troppo famoso e ricercato dai sovrani di tutta Europa primo fra tutti Filippo II di Spagna.
Ora l’esposizione, inaugurata ieri da re Guglielmo Alessandro, offre l’occasione di ammirarli l’uno accanto all’altro; basti pensare che studiosi e specialisti, grazie alla Bosch Research and Conservation Project, lavoravano dal 2007 a questa mostra. Il risultato sono 17 dipinti sui 24 noti e 19 mirabili disegni, oltre 7 tavole dalla bottega o di allievi, mentre 70 opere raccontano l’ambiente fra ’400 e ’500; resteranno in patria qualche mese, salutati da molti eventi che cadono sotto il nome di «Bosch 500», poi approderanno al Prado, dal 31 maggio all’11 settembre.
L’omaggio porta il titolo Visioni di un genio, perché proprio di uno spirito geniale si tratta, tanto che non ha smesso mai di attrarre e scuotere intere generazioni - come i Surrealisti del secolo XX - specie per i suoi audaci incubi, le allusioni inconfessabili, le allucinazioni o le simbologie di uomo ancora calato nel Medioevo. Il tutto con tecnica prodigiosa e realismo.
Dopo secoli Bosch resta avvolto nel mistero e nelle mille interpretazioni. Fin dalla morte, fu subito celebrato come artista insigne, poi scordato fino all’800 per raggiungere in seguito la fama stellare: per taluni è il moralista fustigatore dei costumi di contemporanei e concittadini; per altri un ironico provocatore contro la Chiesa cattolica. Oggi l’enigma continua e i musei sono in allerta, la commissione della mostra, con inedite ricerche, restauri, tecnologie, illustrate dal direttore Charles de Mooij, raffronti di firme e dettagli, attribuisce al maestro due nuove opere: la tavola Tentazioni di Sant’ Antonio dal Nelson Atkins Museum di Kansas City e il disegno Paesaggio infernale di privato belga. Mentre giudica di bottega due lavori celebri del Prado fra cui La cura della follia.
La mostra nei saloni procede per temi come il pellegrinaggio della vita, i santi, la fine dei tempi. Ma molti restano i quesiti: da dove scaturivano tutti quei sozzi diavoletti dalle teste ferine intenti a infilzare i peccatori o i bizzarri angeli dalle ali diafane, se non le teste smisurate dove fuoriescono le gambette rachitiche? E da dove vengono i colossali pesci al guinzaglio, o la Santa Liberata barbuta e crocefissa come il Cristo, nel trittico dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia? E come nasce il tunnel spettacolare di luce che conduce i beati al paradiso nella Via al cielo di Palazzo Grimani, o quel guscio di noce affollato di gaudenti per la Nave dei folli? Si rincorrono bocche di rospo, orecchie trafitte da frecce, vergini incinte, frati corpulenti e ghiottoni con suore lussuriose, come nel mirabile trittico del fieno al Prado; per non parlare dell’incerto vagabondo (tondo di Rotterdam) dai calzoni stracciati, berretto in testa e cappello in mano, ciabatta al piede e stivaletto nell’altro, mentre dietro un coppia amoreggia e un gentiluomo orina.
Spirito ironico, ribelle, Bosch ha dato forma concreta a ciò che affollava la fine secolo, con fiabe, maghi, alchimia, sette, eresie o predicatori infuocati, sullo sfondo di paure millenarie. Guardava alle miniature e ai mostri scultorei nell’ambiziosa Cattedrale di San Giovanni dove egli stesso lavorò. Esplorava la natura, citava leggende e storie dei santi per i committenti, poi attingeva all’immaginazione dando vita a questa stupefacente miscela. Raffinato pittore di pale, viene ricordato per le bizzarrie inventive in tavole di impianto scenografico. Variando dai fondi sulfurei ai paesaggi chiari e armoniosi sin madreperlati, illustrava il legame fra uomo, ambiente, creatore, attraverso le tappe d’obbligo: peccato, presa di coscienza, riscatto. Poco si sa della vita, incerta la data di nascita, famiglia di artigiani pittori, sposa la ricca patrizia Aleid, sicché abita nell’agiato Nord della piazza ed entra nella Confraternita di Nostra Signora, non viaggia, dipinge tante opere scomparse. Se ne ignora la sepoltura.
Hieronymus Bosch
Le follie di un visionario alle radici della modernità
Animali mostruosi, frati ghiottoni, suore lussuriose: in Olanda si apre oggi la mostra che celebra uno dei geni della pittura nordica. In estate sarà al Prado
di Fiorella Minervino
Hieronymus van Aken, pittore del religiosissimo Brabante Settentrionale, al calare del Medioevo nordico verso il Rinascimento aveva scelto di trasformare il nome d’arte in Bosch, dalla città natale Hertogenbosch (bosco ducale, oggi Den Bosch), fra le più antiche dei Paesi Bassi, dove nel 1450 circa aveva aperto gli occhi ai colori e alla luce, e dove nella piazza del Mercato aveva creato le fantasmagorie che lo hanno reso celebre. Sono capolavori come il Carro del fieno, al Prado, o La nave dei folli. al Louvre, piuttosto che le Visioni dell’aldilà da Palazzo Grimani a Venezia e altri dal Metropolitan, Rotterdam e dalle veneziane Gallerie dell’Accademia che ora, a 500 anni dalla scomparsa, ritornano a casa in prestito. E sono appena approdati al Noordbrabants Museum, quello della sua quieta cittadina che paradossalmente non ne possiede alcuno, essendo lui troppo famoso e ricercato dai sovrani di tutta Europa primo fra tutti Filippo II di Spagna.
Ora l’esposizione, inaugurata ieri da re Guglielmo Alessandro, offre l’occasione di ammirarli l’uno accanto all’altro; basti pensare che studiosi e specialisti, grazie alla Bosch Research and Conservation Project, lavoravano dal 2007 a questa mostra. Il risultato sono 17 dipinti sui 24 noti e 19 mirabili disegni, oltre 7 tavole dalla bottega o di allievi, mentre 70 opere raccontano l’ambiente fra ’400 e ’500; resteranno in patria qualche mese, salutati da molti eventi che cadono sotto il nome di «Bosch 500», poi approderanno al Prado, dal 31 maggio all’11 settembre.
L’omaggio porta il titolo Visioni di un genio, perché proprio di uno spirito geniale si tratta, tanto che non ha smesso mai di attrarre e scuotere intere generazioni - come i Surrealisti del secolo XX - specie per i suoi audaci incubi, le allusioni inconfessabili, le allucinazioni o le simbologie di uomo ancora calato nel Medioevo. Il tutto con tecnica prodigiosa e realismo.
Dopo secoli Bosch resta avvolto nel mistero e nelle mille interpretazioni. Fin dalla morte, fu subito celebrato come artista insigne, poi scordato fino all’800 per raggiungere in seguito la fama stellare: per taluni è il moralista fustigatore dei costumi di contemporanei e concittadini; per altri un ironico provocatore contro la Chiesa cattolica. Oggi l’enigma continua e i musei sono in allerta, la commissione della mostra, con inedite ricerche, restauri, tecnologie, illustrate dal direttore Charles de Mooij, raffronti di firme e dettagli, attribuisce al maestro due nuove opere: la tavola Tentazioni di Sant’ Antonio dal Nelson Atkins Museum di Kansas City e il disegno Paesaggio infernale di privato belga. Mentre giudica di bottega due lavori celebri del Prado fra cui La cura della follia.
La mostra nei saloni procede per temi come il pellegrinaggio della vita, i santi, la fine dei tempi. Ma molti restano i quesiti: da dove scaturivano tutti quei sozzi diavoletti dalle teste ferine intenti a infilzare i peccatori o i bizzarri angeli dalle ali diafane, se non le teste smisurate dove fuoriescono le gambette rachitiche? E da dove vengono i colossali pesci al guinzaglio, o la Santa Liberata barbuta e crocefissa come il Cristo, nel trittico dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia? E come nasce il tunnel spettacolare di luce che conduce i beati al paradiso nella Via al cielo di Palazzo Grimani, o quel guscio di noce affollato di gaudenti per la Nave dei folli? Si rincorrono bocche di rospo, orecchie trafitte da frecce, vergini incinte, frati corpulenti e ghiottoni con suore lussuriose, come nel mirabile trittico del fieno al Prado; per non parlare dell’incerto vagabondo (tondo di Rotterdam) dai calzoni stracciati, berretto in testa e cappello in mano, ciabatta al piede e stivaletto nell’altro, mentre dietro un coppia amoreggia e un gentiluomo orina.
Spirito ironico, ribelle, Bosch ha dato forma concreta a ciò che affollava la fine secolo, con fiabe, maghi, alchimia, sette, eresie o predicatori infuocati, sullo sfondo di paure millenarie. Guardava alle miniature e ai mostri scultorei nell’ambiziosa Cattedrale di San Giovanni dove egli stesso lavorò. Esplorava la natura, citava leggende e storie dei santi per i committenti, poi attingeva all’immaginazione dando vita a questa stupefacente miscela. Raffinato pittore di pale, viene ricordato per le bizzarrie inventive in tavole di impianto scenografico. Variando dai fondi sulfurei ai paesaggi chiari e armoniosi sin madreperlati, illustrava il legame fra uomo, ambiente, creatore, attraverso le tappe d’obbligo: peccato, presa di coscienza, riscatto. Poco si sa della vita, incerta la data di nascita, famiglia di artigiani pittori, sposa la ricca patrizia Aleid, sicché abita nell’agiato Nord della piazza ed entra nella Confraternita di Nostra Signora, non viaggia, dipinge tante opere scomparse. Se ne ignora la sepoltura.
La Stampa 13.2.16
Hieronymus Bosch
Le follie di un visionario alle radici della modernità
Animali mostruosi, frati ghiottoni, suore lussuriose: in Olanda si apre oggi la mostra che celebra uno dei geni della pittura nordica. In estate sarà al Prado
di Fiorella Minervino
Hieronymus van Aken, pittore del religiosissimo Brabante Settentrionale, al calare del Medioevo nordico verso il Rinascimento aveva scelto di trasformare il nome d’arte in Bosch, dalla città natale Hertogenbosch (bosco ducale, oggi Den Bosch), fra le più antiche dei Paesi Bassi, dove nel 1450 circa aveva aperto gli occhi ai colori e alla luce, e dove nella piazza del Mercato aveva creato le fantasmagorie che lo hanno reso celebre. Sono capolavori come il Carro del fieno, al Prado, o La nave dei folli. al Louvre, piuttosto che le Visioni dell’aldilà da Palazzo Grimani a Venezia e altri dal Metropolitan, Rotterdam e dalle veneziane Gallerie dell’Accademia che ora, a 500 anni dalla scomparsa, ritornano a casa in prestito. E sono appena approdati al Noordbrabants Museum, quello della sua quieta cittadina che paradossalmente non ne possiede alcuno, essendo lui troppo famoso e ricercato dai sovrani di tutta Europa primo fra tutti Filippo II di Spagna.
Ora l’esposizione, inaugurata ieri da re Guglielmo Alessandro, offre l’occasione di ammirarli l’uno accanto all’altro; basti pensare che studiosi e specialisti, grazie alla Bosch Research and Conservation Project, lavoravano dal 2007 a questa mostra. Il risultato sono 17 dipinti sui 24 noti e 19 mirabili disegni, oltre 7 tavole dalla bottega o di allievi, mentre 70 opere raccontano l’ambiente fra ’400 e ’500; resteranno in patria qualche mese, salutati da molti eventi che cadono sotto il nome di «Bosch 500», poi approderanno al Prado, dal 31 maggio all’11 settembre.
L’omaggio porta il titolo Visioni di un genio, perché proprio di uno spirito geniale si tratta, tanto che non ha smesso mai di attrarre e scuotere intere generazioni - come i Surrealisti del secolo XX - specie per i suoi audaci incubi, le allusioni inconfessabili, le allucinazioni o le simbologie di uomo ancora calato nel Medioevo. Il tutto con tecnica prodigiosa e realismo.
Dopo secoli Bosch resta avvolto nel mistero e nelle mille interpretazioni. Fin dalla morte, fu subito celebrato come artista insigne, poi scordato fino all’800 per raggiungere in seguito la fama stellare: per taluni è il moralista fustigatore dei costumi di contemporanei e concittadini; per altri un ironico provocatore contro la Chiesa cattolica. Oggi l’enigma continua e i musei sono in allerta, la commissione della mostra, con inedite ricerche, restauri, tecnologie, illustrate dal direttore Charles de Mooij, raffronti di firme e dettagli, attribuisce al maestro due nuove opere: la tavola Tentazioni di Sant’ Antonio dal Nelson Atkins Museum di Kansas City e il disegno Paesaggio infernale di privato belga. Mentre giudica di bottega due lavori celebri del Prado fra cui La cura della follia.
La mostra nei saloni procede per temi come il pellegrinaggio della vita, i santi, la fine dei tempi. Ma molti restano i quesiti: da dove scaturivano tutti quei sozzi diavoletti dalle teste ferine intenti a infilzare i peccatori o i bizzarri angeli dalle ali diafane, se non le teste smisurate dove fuoriescono le gambette rachitiche? E da dove vengono i colossali pesci al guinzaglio, o la Santa Liberata barbuta e crocefissa come il Cristo, nel trittico dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia? E come nasce il tunnel spettacolare di luce che conduce i beati al paradiso nella Via al cielo di Palazzo Grimani, o quel guscio di noce affollato di gaudenti per la Nave dei folli? Si rincorrono bocche di rospo, orecchie trafitte da frecce, vergini incinte, frati corpulenti e ghiottoni con suore lussuriose, come nel mirabile trittico del fieno al Prado; per non parlare dell’incerto vagabondo (tondo di Rotterdam) dai calzoni stracciati, berretto in testa e cappello in mano, ciabatta al piede e stivaletto nell’altro, mentre dietro un coppia amoreggia e un gentiluomo orina.
Spirito ironico, ribelle, Bosch ha dato forma concreta a ciò che affollava la fine secolo, con fiabe, maghi, alchimia, sette, eresie o predicatori infuocati, sullo sfondo di paure millenarie. Guardava alle miniature e ai mostri scultorei nell’ambiziosa Cattedrale di San Giovanni dove egli stesso lavorò. Esplorava la natura, citava leggende e storie dei santi per i committenti, poi attingeva all’immaginazione dando vita a questa stupefacente miscela. Raffinato pittore di pale, viene ricordato per le bizzarrie inventive in tavole di impianto scenografico. Variando dai fondi sulfurei ai paesaggi chiari e armoniosi sin madreperlati, illustrava il legame fra uomo, ambiente, creatore, attraverso le tappe d’obbligo: peccato, presa di coscienza, riscatto. Poco si sa della vita, incerta la data di nascita, famiglia di artigiani pittori, sposa la ricca patrizia Aleid, sicché abita nell’agiato Nord della piazza ed entra nella Confraternita di Nostra Signora, non viaggia, dipinge tante opere scomparse. Se ne ignora la sepoltura.
Hieronymus Bosch
Le follie di un visionario alle radici della modernità
Animali mostruosi, frati ghiottoni, suore lussuriose: in Olanda si apre oggi la mostra che celebra uno dei geni della pittura nordica. In estate sarà al Prado
di Fiorella Minervino
Hieronymus van Aken, pittore del religiosissimo Brabante Settentrionale, al calare del Medioevo nordico verso il Rinascimento aveva scelto di trasformare il nome d’arte in Bosch, dalla città natale Hertogenbosch (bosco ducale, oggi Den Bosch), fra le più antiche dei Paesi Bassi, dove nel 1450 circa aveva aperto gli occhi ai colori e alla luce, e dove nella piazza del Mercato aveva creato le fantasmagorie che lo hanno reso celebre. Sono capolavori come il Carro del fieno, al Prado, o La nave dei folli. al Louvre, piuttosto che le Visioni dell’aldilà da Palazzo Grimani a Venezia e altri dal Metropolitan, Rotterdam e dalle veneziane Gallerie dell’Accademia che ora, a 500 anni dalla scomparsa, ritornano a casa in prestito. E sono appena approdati al Noordbrabants Museum, quello della sua quieta cittadina che paradossalmente non ne possiede alcuno, essendo lui troppo famoso e ricercato dai sovrani di tutta Europa primo fra tutti Filippo II di Spagna.
Ora l’esposizione, inaugurata ieri da re Guglielmo Alessandro, offre l’occasione di ammirarli l’uno accanto all’altro; basti pensare che studiosi e specialisti, grazie alla Bosch Research and Conservation Project, lavoravano dal 2007 a questa mostra. Il risultato sono 17 dipinti sui 24 noti e 19 mirabili disegni, oltre 7 tavole dalla bottega o di allievi, mentre 70 opere raccontano l’ambiente fra ’400 e ’500; resteranno in patria qualche mese, salutati da molti eventi che cadono sotto il nome di «Bosch 500», poi approderanno al Prado, dal 31 maggio all’11 settembre.
L’omaggio porta il titolo Visioni di un genio, perché proprio di uno spirito geniale si tratta, tanto che non ha smesso mai di attrarre e scuotere intere generazioni - come i Surrealisti del secolo XX - specie per i suoi audaci incubi, le allusioni inconfessabili, le allucinazioni o le simbologie di uomo ancora calato nel Medioevo. Il tutto con tecnica prodigiosa e realismo.
Dopo secoli Bosch resta avvolto nel mistero e nelle mille interpretazioni. Fin dalla morte, fu subito celebrato come artista insigne, poi scordato fino all’800 per raggiungere in seguito la fama stellare: per taluni è il moralista fustigatore dei costumi di contemporanei e concittadini; per altri un ironico provocatore contro la Chiesa cattolica. Oggi l’enigma continua e i musei sono in allerta, la commissione della mostra, con inedite ricerche, restauri, tecnologie, illustrate dal direttore Charles de Mooij, raffronti di firme e dettagli, attribuisce al maestro due nuove opere: la tavola Tentazioni di Sant’ Antonio dal Nelson Atkins Museum di Kansas City e il disegno Paesaggio infernale di privato belga. Mentre giudica di bottega due lavori celebri del Prado fra cui La cura della follia.
La mostra nei saloni procede per temi come il pellegrinaggio della vita, i santi, la fine dei tempi. Ma molti restano i quesiti: da dove scaturivano tutti quei sozzi diavoletti dalle teste ferine intenti a infilzare i peccatori o i bizzarri angeli dalle ali diafane, se non le teste smisurate dove fuoriescono le gambette rachitiche? E da dove vengono i colossali pesci al guinzaglio, o la Santa Liberata barbuta e crocefissa come il Cristo, nel trittico dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia? E come nasce il tunnel spettacolare di luce che conduce i beati al paradiso nella Via al cielo di Palazzo Grimani, o quel guscio di noce affollato di gaudenti per la Nave dei folli? Si rincorrono bocche di rospo, orecchie trafitte da frecce, vergini incinte, frati corpulenti e ghiottoni con suore lussuriose, come nel mirabile trittico del fieno al Prado; per non parlare dell’incerto vagabondo (tondo di Rotterdam) dai calzoni stracciati, berretto in testa e cappello in mano, ciabatta al piede e stivaletto nell’altro, mentre dietro un coppia amoreggia e un gentiluomo orina.
Spirito ironico, ribelle, Bosch ha dato forma concreta a ciò che affollava la fine secolo, con fiabe, maghi, alchimia, sette, eresie o predicatori infuocati, sullo sfondo di paure millenarie. Guardava alle miniature e ai mostri scultorei nell’ambiziosa Cattedrale di San Giovanni dove egli stesso lavorò. Esplorava la natura, citava leggende e storie dei santi per i committenti, poi attingeva all’immaginazione dando vita a questa stupefacente miscela. Raffinato pittore di pale, viene ricordato per le bizzarrie inventive in tavole di impianto scenografico. Variando dai fondi sulfurei ai paesaggi chiari e armoniosi sin madreperlati, illustrava il legame fra uomo, ambiente, creatore, attraverso le tappe d’obbligo: peccato, presa di coscienza, riscatto. Poco si sa della vita, incerta la data di nascita, famiglia di artigiani pittori, sposa la ricca patrizia Aleid, sicché abita nell’agiato Nord della piazza ed entra nella Confraternita di Nostra Signora, non viaggia, dipinge tante opere scomparse. Se ne ignora la sepoltura.
Repubblica 13.2.16
Dalla crisi può nascere la vera Europa
di Nadia Urbinati
LE CRISI possono diventare occasioni importanti di rinnovamento e di ridefinizione di vecchi equilibri di potere, soprattutto in quelle congiunture storiche nelle quali l’ordine esistente si alimenta della rovinosa continuazione della situazione di stallo. Questa è stata per molti versi la dinamica che ha visto nascere l’ideale europeo moderno. Essa si è sprigionata dall’interno dell’Europa dei totalitarismi e dei nazionalismi; anzi, dalle prigioni e dai luoghi di confino dove quei regimi liberticidi avevano voluto mettere a tacere gli avversari politici. L’ideale di una unione politica continentale fu maturato nella clandestinità, intuizione di pochi visionari convinti che solo gettando il cuore oltre l’ostacolo si potesse sconfiggere lo status quo e dar vita all’Europa del dopo, democratica e pacifica. È importante ricordare oggi che fu all’interno di una cornice anti-nazionalistica che prese corpo il Manifesto di Ventotene, uno dei prodotti più significativi dell’ideale liberal socialista.
Nelle interviste di Eugenio Scalfari a Laura Boldrini e di Stefano Folli a Giorgio Napolitiano, ospitate su Repubblica, non si può non sentire la forza di quell’ideale, e soprattutto la consapevolezza che ci troviamo, di nuovo, in una situazione di stallo critico, di equilibrio catastrofico che può avere esiti regressivi. Perché, come allora, anche oggi i pericoli al progetto di unione vengono dal nazionalismo, populista e non. Ben inteso, da quando la crisi economica si è abbattuta sul nostro continente e le politiche europee hanno messo a dura prova le politiche economiche e fiscali nazionali, le rimostranze degli Stati membri non sono state sempre ingiustificate. Le resistenze della Grecia, che lo scorso anno si trovò pressoché sola a contestare Bruxelles e la Troika, hanno aperto tuttavia un fronte nel quale altri paesi oggi sembrano volersi identificare. Le polemiche sulle politiche monetarie e le regole bancarie, sulla mancanza di una politica comune sull’immigrazione e il rischio di sospendere provvisoriamente Schengen: tutte queste questioni aperte, e le dinamiche politiche che possono innescare, ci inducono a temere per il futuro del progetto europeo.
Chi può rompere questo stallo, questo equilibrio potenzialmente catastrofico? Sostiene Napolitano, con ottime ragioni, che solo chi sa vedere oltre le strette politiche nazionali, chi non si lascia incagliare nelle questioni locali, può vincere la battaglia europea e, quindi, anche quella nazionale. Non vi è modo per reagire a chi vuole rialzare muri e chiudere le frontiere se non portando il cuore oltre l’ostacolo, progettando una soluzione che non sia nè un ritorno al passato, con gli stati padroni (nani) in casa loro, ma nemmeno la persistenza dello status quo, magari per strappare con trattative nazionali un piccolo “parecchio”. L’Europa degli accordi intergovernativi che si è stabilizzata in questi anni di crisi rischia di aprire entrambi questi scenari, alimentando una voglia di secessione. Per contenere sul nascere questi esiti occorrerebbero grandi leader, visionari che sappiano convicere i loro cittadini e quelli europei che il vero utile nazionale si persegue con politiche anti-nazionaliste. Che si deve volere l’Europa per voler il bene delle proprie società nazionali.
L’Europa deve farsi politica, dunque; superare il livello intermedio dell’attuale costituzionalismo funzionale, indiretto e burocratico, per marcare il corso verso un costituzionalismo compiutamente politico, dove obiezioni e proposte possano godere di legittimità democratica. E che sia il presidente della Bce, Mario Draghi, a farsi propugnatore di questo salto oltre l’ostacolo, a suggerire una unione politica “più perfetta” come direbbero gli americani, a prospettare la necessità di una politica bancaria e fiscale europea, strada verso un governo continentale legittimo, rende pienamente il senso della situazione grave nella quale si trova il progetto di Ventotene. Non leader politici, ma un leader “tecnico”, responsabile di un potere neutro, sente l’urgenza di avviare un’innovazione istituzionale forte. L’Europa con un bilancio comune, con politiche fiscali comuni e cogenti, condizioni essenziali per una vera unione monetaria e bancaria: l’Europa come progetto federale.
Nell’Europa autoritaria e dei totalitarismi, nacque una visione politica e morale che aveva un respiro sovrannazionale. Il Manifesto di Ventotene rispecchiava quella visione assai fedelmente quando sosteneva che “il principio di libertà” é fondamento della società umana e la critica di “tutti quegli aspetti della società che non hanno rispettato quel principio”. In conseguenza di ciò dichiarava il nazionalismo degli Stati come il vero responsabile della Prima guerra mondiale e dell’imperialismo nazionalista che ne era seguito. Il Manifesto sosteneva inoltre che senza il superamento della sovranità assoluta degli Stati la diseguaglianza economica e il nazionalismo avrebbero continuato ad essere un rischio per la pace, anche qualora gli stati europei fossero divenuti democratici. Fino a quando non fosse stata superata la prospettiva nazionalistica, non ci sarebbe stato futuro sicuro né per la pace né per la libertà. Traducendo il paradigma di Kant in un programma politico, i visionari di Ventotene lanciavano il loro doppio progetto: una trasformazione democratica e costituzionale interna agli stati (che è avvenuta), e la creazione di una federazione europea (che stenta ancora a nascere).
Dalla crisi può nascere la vera Europa
di Nadia Urbinati
LE CRISI possono diventare occasioni importanti di rinnovamento e di ridefinizione di vecchi equilibri di potere, soprattutto in quelle congiunture storiche nelle quali l’ordine esistente si alimenta della rovinosa continuazione della situazione di stallo. Questa è stata per molti versi la dinamica che ha visto nascere l’ideale europeo moderno. Essa si è sprigionata dall’interno dell’Europa dei totalitarismi e dei nazionalismi; anzi, dalle prigioni e dai luoghi di confino dove quei regimi liberticidi avevano voluto mettere a tacere gli avversari politici. L’ideale di una unione politica continentale fu maturato nella clandestinità, intuizione di pochi visionari convinti che solo gettando il cuore oltre l’ostacolo si potesse sconfiggere lo status quo e dar vita all’Europa del dopo, democratica e pacifica. È importante ricordare oggi che fu all’interno di una cornice anti-nazionalistica che prese corpo il Manifesto di Ventotene, uno dei prodotti più significativi dell’ideale liberal socialista.
Nelle interviste di Eugenio Scalfari a Laura Boldrini e di Stefano Folli a Giorgio Napolitiano, ospitate su Repubblica, non si può non sentire la forza di quell’ideale, e soprattutto la consapevolezza che ci troviamo, di nuovo, in una situazione di stallo critico, di equilibrio catastrofico che può avere esiti regressivi. Perché, come allora, anche oggi i pericoli al progetto di unione vengono dal nazionalismo, populista e non. Ben inteso, da quando la crisi economica si è abbattuta sul nostro continente e le politiche europee hanno messo a dura prova le politiche economiche e fiscali nazionali, le rimostranze degli Stati membri non sono state sempre ingiustificate. Le resistenze della Grecia, che lo scorso anno si trovò pressoché sola a contestare Bruxelles e la Troika, hanno aperto tuttavia un fronte nel quale altri paesi oggi sembrano volersi identificare. Le polemiche sulle politiche monetarie e le regole bancarie, sulla mancanza di una politica comune sull’immigrazione e il rischio di sospendere provvisoriamente Schengen: tutte queste questioni aperte, e le dinamiche politiche che possono innescare, ci inducono a temere per il futuro del progetto europeo.
Chi può rompere questo stallo, questo equilibrio potenzialmente catastrofico? Sostiene Napolitano, con ottime ragioni, che solo chi sa vedere oltre le strette politiche nazionali, chi non si lascia incagliare nelle questioni locali, può vincere la battaglia europea e, quindi, anche quella nazionale. Non vi è modo per reagire a chi vuole rialzare muri e chiudere le frontiere se non portando il cuore oltre l’ostacolo, progettando una soluzione che non sia nè un ritorno al passato, con gli stati padroni (nani) in casa loro, ma nemmeno la persistenza dello status quo, magari per strappare con trattative nazionali un piccolo “parecchio”. L’Europa degli accordi intergovernativi che si è stabilizzata in questi anni di crisi rischia di aprire entrambi questi scenari, alimentando una voglia di secessione. Per contenere sul nascere questi esiti occorrerebbero grandi leader, visionari che sappiano convicere i loro cittadini e quelli europei che il vero utile nazionale si persegue con politiche anti-nazionaliste. Che si deve volere l’Europa per voler il bene delle proprie società nazionali.
L’Europa deve farsi politica, dunque; superare il livello intermedio dell’attuale costituzionalismo funzionale, indiretto e burocratico, per marcare il corso verso un costituzionalismo compiutamente politico, dove obiezioni e proposte possano godere di legittimità democratica. E che sia il presidente della Bce, Mario Draghi, a farsi propugnatore di questo salto oltre l’ostacolo, a suggerire una unione politica “più perfetta” come direbbero gli americani, a prospettare la necessità di una politica bancaria e fiscale europea, strada verso un governo continentale legittimo, rende pienamente il senso della situazione grave nella quale si trova il progetto di Ventotene. Non leader politici, ma un leader “tecnico”, responsabile di un potere neutro, sente l’urgenza di avviare un’innovazione istituzionale forte. L’Europa con un bilancio comune, con politiche fiscali comuni e cogenti, condizioni essenziali per una vera unione monetaria e bancaria: l’Europa come progetto federale.
Nell’Europa autoritaria e dei totalitarismi, nacque una visione politica e morale che aveva un respiro sovrannazionale. Il Manifesto di Ventotene rispecchiava quella visione assai fedelmente quando sosteneva che “il principio di libertà” é fondamento della società umana e la critica di “tutti quegli aspetti della società che non hanno rispettato quel principio”. In conseguenza di ciò dichiarava il nazionalismo degli Stati come il vero responsabile della Prima guerra mondiale e dell’imperialismo nazionalista che ne era seguito. Il Manifesto sosteneva inoltre che senza il superamento della sovranità assoluta degli Stati la diseguaglianza economica e il nazionalismo avrebbero continuato ad essere un rischio per la pace, anche qualora gli stati europei fossero divenuti democratici. Fino a quando non fosse stata superata la prospettiva nazionalistica, non ci sarebbe stato futuro sicuro né per la pace né per la libertà. Traducendo il paradigma di Kant in un programma politico, i visionari di Ventotene lanciavano il loro doppio progetto: una trasformazione democratica e costituzionale interna agli stati (che è avvenuta), e la creazione di una federazione europea (che stenta ancora a nascere).
La Stampa 13.2.16
Referendum, anche il M5S chiede che il Colle intervenga per accorpare il voto
“Spreco di soldi, solo per minare il quorum”
di Roberto Giovannini
Ieri Sinistra Italiana e Possibile, oggi il Movimento Cinque Stelle: tutti a chiedere un intervento al Presidente Sergio Mattarella sul referendum-trivelle. «Fissare il referendum contro le trivellazioni lungo le nostre coste al 17 aprile è una follia - dicono i parlamentari M5S - serve un election day per garantire il quorum e anche per risparmiare 300 milioni di euro di soldi dei cittadini». Analoga lettera è stata mandata da Arci, Coordinamento NO TRIV, Fai, Fiom-Cgil, Fondazione UniVerde, Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Pro-natura, Touring Club Italiano e WWF.
Non è un segreto per nessuno che il governo non abbia nessuna intenzione di aiutare il referendum, che propone di abrogare la norma che stabilisce che le concessioni petrolifere o per l’estrazione di gas già rilasciate durino fino all’esaurimento dei giacimenti. Una vittoria dei “sì” darebbe un gran «dispiacere» all’industria del settore. Secondo i sondaggi la maggioranza degli italiani (i pochi informati sul quesito) voterebbe «sì». Ma senza election day sarà dura mandare alle urne il 50% più uno degli italiani. Un problema è che quest’anno le spese per lo svolgimento di votazioni saranno ingenti, e risparmiare sarebbe utile: il 17 aprile il referendum sulle trivelle, il 15 e il 29 maggio le amministrative, in autunno il referendum costituzionale. L’Esecutivo ha comunque deciso di trincerarsi dietro motivazioni molto «fredde». Per l’election day servirebbe una legge di armonizzazione, ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano: per i referendum sono previsti tre scrutatori per seggio e quattro alle amministrative, e la ripartizione dei costi sui Comuni non è omogenea per referendum e amministrative.
L’ultima parola spetta a Sergio Mattarella. In base alla legge l’indicazione della data spetta al governo, e il Capo dello Stato potrebbe negare la firma solo se giudicasse il provvedimento contrario alla Costituzione. Il Colle però potrebbe intervenire in via informale, e chiedere al governo di rivedere la sua posizione. Nel 2011 – sempre per “sabotare”, peraltro non riuscendoci, i referendum su nucleare e acqua pubblica – il governo Berlusconi decise di evitare l’election day; ma nel 2009 referendum elettorali e amministrative vennero accorpati.
E c’è un altro argomento che i «No Triv» sottopongono a Mattarella: la Corte Costituzionale potrebbe infatti far «risuscitare» altri due quesiti sulle trivellazioni, stoppati dalla Cassazione che li ha ritenuti superati dopo un emendamento governativo alla legge di Stabilità. Sei Regioni hanno infatti già chiesto alla Consulta di giudicare su un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: Cassazione, Camere e governo, dicono, sarebbero andate oltre il confine dei loro poteri. Se la Corte Costituzionale desse ragione alle Regioni si dovrebbe andare a votare per altri due referendum sulle trivelle. La faccenda però sarà lunga: il 9 marzo i giudici della Consulta decideranno se la richiesta è o meno ammissibile, ma un eventuale giudizio di merito arriverebbe solo intorno a novembre.
Referendum, anche il M5S chiede che il Colle intervenga per accorpare il voto
“Spreco di soldi, solo per minare il quorum”
di Roberto Giovannini
Ieri Sinistra Italiana e Possibile, oggi il Movimento Cinque Stelle: tutti a chiedere un intervento al Presidente Sergio Mattarella sul referendum-trivelle. «Fissare il referendum contro le trivellazioni lungo le nostre coste al 17 aprile è una follia - dicono i parlamentari M5S - serve un election day per garantire il quorum e anche per risparmiare 300 milioni di euro di soldi dei cittadini». Analoga lettera è stata mandata da Arci, Coordinamento NO TRIV, Fai, Fiom-Cgil, Fondazione UniVerde, Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Pro-natura, Touring Club Italiano e WWF.
Non è un segreto per nessuno che il governo non abbia nessuna intenzione di aiutare il referendum, che propone di abrogare la norma che stabilisce che le concessioni petrolifere o per l’estrazione di gas già rilasciate durino fino all’esaurimento dei giacimenti. Una vittoria dei “sì” darebbe un gran «dispiacere» all’industria del settore. Secondo i sondaggi la maggioranza degli italiani (i pochi informati sul quesito) voterebbe «sì». Ma senza election day sarà dura mandare alle urne il 50% più uno degli italiani. Un problema è che quest’anno le spese per lo svolgimento di votazioni saranno ingenti, e risparmiare sarebbe utile: il 17 aprile il referendum sulle trivelle, il 15 e il 29 maggio le amministrative, in autunno il referendum costituzionale. L’Esecutivo ha comunque deciso di trincerarsi dietro motivazioni molto «fredde». Per l’election day servirebbe una legge di armonizzazione, ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano: per i referendum sono previsti tre scrutatori per seggio e quattro alle amministrative, e la ripartizione dei costi sui Comuni non è omogenea per referendum e amministrative.
L’ultima parola spetta a Sergio Mattarella. In base alla legge l’indicazione della data spetta al governo, e il Capo dello Stato potrebbe negare la firma solo se giudicasse il provvedimento contrario alla Costituzione. Il Colle però potrebbe intervenire in via informale, e chiedere al governo di rivedere la sua posizione. Nel 2011 – sempre per “sabotare”, peraltro non riuscendoci, i referendum su nucleare e acqua pubblica – il governo Berlusconi decise di evitare l’election day; ma nel 2009 referendum elettorali e amministrative vennero accorpati.
E c’è un altro argomento che i «No Triv» sottopongono a Mattarella: la Corte Costituzionale potrebbe infatti far «risuscitare» altri due quesiti sulle trivellazioni, stoppati dalla Cassazione che li ha ritenuti superati dopo un emendamento governativo alla legge di Stabilità. Sei Regioni hanno infatti già chiesto alla Consulta di giudicare su un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: Cassazione, Camere e governo, dicono, sarebbero andate oltre il confine dei loro poteri. Se la Corte Costituzionale desse ragione alle Regioni si dovrebbe andare a votare per altri due referendum sulle trivelle. La faccenda però sarà lunga: il 9 marzo i giudici della Consulta decideranno se la richiesta è o meno ammissibile, ma un eventuale giudizio di merito arriverebbe solo intorno a novembre.
Repubblica 13.2.16
“Non basta l’anti-austerità serve piano Ue di investimenti”
di Eugenio Occorsio Lucrezia Reichlin
ROMA. «L’Italia è andata leggermente peggio delle aspettative, ma è l’intera Europa che sta rallentando in modo inaspettato, probabilmente come effetto ritardato del rallentamento in corso da un anno dell’economia Usa». Lucrezia Reichlin, economista della London Business School, invita a considerare la scarsa crescita un problema europeo.
Lei condivide la crociata del premier contro l’austerity?
«Un invito ai nostri partner a pensare in grande è benvenuto, ma non è utile lamentarsi genericamente dell’austerità e chiedere flessibilità delle regole. Per stare insieme abbiamo bisogno di regole e la proposta deve essere non di renderle flessibili ma di ridisegnarle in modo che siano compatibili con politiche comuni per la crescita».
L’eurogruppo è stato tranchant: rispettate i trattati.
«Purtroppo siamo entrati in un gioco di provocazione reciproca non costruttivo. Bisogna essere propositivi: aumentare la capacità fiscale a livello federale, pensare a un piano comune per fronteggiare la crisi dei migranti, affrontare in modo realistico il debito, e via dicendo. La contrattazione disordinata e individuale di singoli Paesi su varie voci di flessibilità espone al rischio di una nuova crisi dei debiti».
Perché l’intera Europa rallenta? Solo per lo stop degli Usa?
«Il ciclo economico europeo è tradizionalmente in leggero ritardo rispetto a quello degli Usa. La crisi del debito degli scorsi anni aveva interrotto questa relazione ma ora si è ripristinata. Siamo ripartiti proprio quando l’economia Usa ha cominciato a rallentare e ora l’influenza negli Stati Uniti ci ha fatto prendere il raffreddore. La ripresa c’è, ma i dati della produzione industriale per dicembre indicano un rallentamento in tutta l’area euro».
Pesa il fattore banche?
«Sulle banche la reazione dei mercati è troppo negativa. Sono in una situazione diversa dal 2008 ma a livello mondiale c’è timore sulla loro profittabilità per la prospettiva di tassi negativi e il rallentamento dell’economia. In Italia, ci sono poi i crediti deteriorati e l’incertezza sulla nuova regolamentazione. L’economia è dipendente dal credito bancario e questo è un fattore di rischio per la ripresa. Serve un’azione energica per facilitare il mercato secondario dei crediti deteriorati».
“Non basta l’anti-austerità serve piano Ue di investimenti”
di Eugenio Occorsio Lucrezia Reichlin
ROMA. «L’Italia è andata leggermente peggio delle aspettative, ma è l’intera Europa che sta rallentando in modo inaspettato, probabilmente come effetto ritardato del rallentamento in corso da un anno dell’economia Usa». Lucrezia Reichlin, economista della London Business School, invita a considerare la scarsa crescita un problema europeo.
Lei condivide la crociata del premier contro l’austerity?
«Un invito ai nostri partner a pensare in grande è benvenuto, ma non è utile lamentarsi genericamente dell’austerità e chiedere flessibilità delle regole. Per stare insieme abbiamo bisogno di regole e la proposta deve essere non di renderle flessibili ma di ridisegnarle in modo che siano compatibili con politiche comuni per la crescita».
L’eurogruppo è stato tranchant: rispettate i trattati.
«Purtroppo siamo entrati in un gioco di provocazione reciproca non costruttivo. Bisogna essere propositivi: aumentare la capacità fiscale a livello federale, pensare a un piano comune per fronteggiare la crisi dei migranti, affrontare in modo realistico il debito, e via dicendo. La contrattazione disordinata e individuale di singoli Paesi su varie voci di flessibilità espone al rischio di una nuova crisi dei debiti».
Perché l’intera Europa rallenta? Solo per lo stop degli Usa?
«Il ciclo economico europeo è tradizionalmente in leggero ritardo rispetto a quello degli Usa. La crisi del debito degli scorsi anni aveva interrotto questa relazione ma ora si è ripristinata. Siamo ripartiti proprio quando l’economia Usa ha cominciato a rallentare e ora l’influenza negli Stati Uniti ci ha fatto prendere il raffreddore. La ripresa c’è, ma i dati della produzione industriale per dicembre indicano un rallentamento in tutta l’area euro».
Pesa il fattore banche?
«Sulle banche la reazione dei mercati è troppo negativa. Sono in una situazione diversa dal 2008 ma a livello mondiale c’è timore sulla loro profittabilità per la prospettiva di tassi negativi e il rallentamento dell’economia. In Italia, ci sono poi i crediti deteriorati e l’incertezza sulla nuova regolamentazione. L’economia è dipendente dal credito bancario e questo è un fattore di rischio per la ripresa. Serve un’azione energica per facilitare il mercato secondario dei crediti deteriorati».
Repubblica 13.2.16
Daniel Gros
“Avete avuto la flessibilità ma siete rimasti poco produttivi”
Renzi sbaglia a dare tutta la colpa alla politica del rigore, il problema è strutturale
intervista di Eugenio Occorsio
ROMA. «La magra crescita dell’Italia conferma solo una cosa: che non si può dare tutta la colpa all’austerità, come fa il vostro presidente del Consiglio». Daniel Gros, direttore del Center for economic policy studies di Bruxelles, è un economista tedesco “non allineato”, però stavolta ci tiene a puntualizzare: «Nel 2015 l’Italia ha usufruito di parecche finestre di flessibilità. Eppure non è cresciuta, o quasi. Segno che c’è dell’altro».
Cosa, professore?
«C’è innanzitutto un problema strutturale, tenace, pesantissimo, di produttività. Gli investimenti si fanno, ormai la stretta creditizia è in buona parte superata, gli impulsi positivi dalla politica fiscale ci sono, eppure il valore aggiunto non cresce, non si crea abbastanza ricchezza. Così non c’è vero sviluppo industriale, i redditi restano al palo e i consumi interni non ripartono».
Perché questa catena diabolica?
«Per una serie di motivi. Si sono fatti per esempio troppi investimenti sbagliati, non si è puntato sui settori industriali più dinamici in grado di generare maggior valore. In questo anche le banche, troppo spesso lente e scettiche di fronte all’innovazione, hanno la loro parte di responsabilità. Tra l’altro, ne pagano anche loro le conseguenze, in misura in molti casi pesantissima. Non avrebbero 200 miliardi di sofferenze se avessero selezionato il credito in modo più razionale e proattivo».
Cosa potrebbe fare l’Europa?
Un grande piano per la crescita?
«Non servono grandi progetti, basterebbe un’applicazione rigorosa dei principi già esistenti. Restiamo in Italia: siamo sicuri che si stia operando con la necessaria urgenza sul fronte dei recuperi di produttività nel settore privato ma soprattutto in quello pubblico? Che ne è della spending review? Si stanno andando a stanare consiglio comunale per consiglio comunale, società partecipata per società partecipata, le piaghe di improduttività quando non di malaffare? O ci si limita agli annunci?» La politica italiana è fatta di troppi annunci?
«Intendiamoci, qualcosa si sta facendo, però me lo lasci dire, c’è anche parecchio populismo, tanti slogan vuoti, tante promesse a effetto. Viene la tentazione di pensare che il governo quasi non sia interessato alla successiva concreta applicazione».
(e. occ.)
Daniel Gros
“Avete avuto la flessibilità ma siete rimasti poco produttivi”
Renzi sbaglia a dare tutta la colpa alla politica del rigore, il problema è strutturale
intervista di Eugenio Occorsio
ROMA. «La magra crescita dell’Italia conferma solo una cosa: che non si può dare tutta la colpa all’austerità, come fa il vostro presidente del Consiglio». Daniel Gros, direttore del Center for economic policy studies di Bruxelles, è un economista tedesco “non allineato”, però stavolta ci tiene a puntualizzare: «Nel 2015 l’Italia ha usufruito di parecche finestre di flessibilità. Eppure non è cresciuta, o quasi. Segno che c’è dell’altro».
Cosa, professore?
«C’è innanzitutto un problema strutturale, tenace, pesantissimo, di produttività. Gli investimenti si fanno, ormai la stretta creditizia è in buona parte superata, gli impulsi positivi dalla politica fiscale ci sono, eppure il valore aggiunto non cresce, non si crea abbastanza ricchezza. Così non c’è vero sviluppo industriale, i redditi restano al palo e i consumi interni non ripartono».
Perché questa catena diabolica?
«Per una serie di motivi. Si sono fatti per esempio troppi investimenti sbagliati, non si è puntato sui settori industriali più dinamici in grado di generare maggior valore. In questo anche le banche, troppo spesso lente e scettiche di fronte all’innovazione, hanno la loro parte di responsabilità. Tra l’altro, ne pagano anche loro le conseguenze, in misura in molti casi pesantissima. Non avrebbero 200 miliardi di sofferenze se avessero selezionato il credito in modo più razionale e proattivo».
Cosa potrebbe fare l’Europa?
Un grande piano per la crescita?
«Non servono grandi progetti, basterebbe un’applicazione rigorosa dei principi già esistenti. Restiamo in Italia: siamo sicuri che si stia operando con la necessaria urgenza sul fronte dei recuperi di produttività nel settore privato ma soprattutto in quello pubblico? Che ne è della spending review? Si stanno andando a stanare consiglio comunale per consiglio comunale, società partecipata per società partecipata, le piaghe di improduttività quando non di malaffare? O ci si limita agli annunci?» La politica italiana è fatta di troppi annunci?
«Intendiamoci, qualcosa si sta facendo, però me lo lasci dire, c’è anche parecchio populismo, tanti slogan vuoti, tante promesse a effetto. Viene la tentazione di pensare che il governo quasi non sia interessato alla successiva concreta applicazione».
(e. occ.)
Corriere 13.2.16
I timori del premier per quegli istituti da mettere al sicuro
di Francesco Verderami
Da due anni in molti nel Palazzo cercavano «il tallone di Matteo» e ora ritengono di averlo trovato: le banche sono per il presidente del Consiglio il principale problema, un vero cruccio, e non soltanto per gli strascichi politici che il «caso Etruria» potrebbe provocare .
L’aspetto più importante e preoccupante è la tenuta del sistema creditizio italiano, se è vero che Renzi in questi giorni è tornato a esaminare insieme al sottosegretario Lotti il dossier che alimenta uno stato di ansia a Palazzo Chigi. Perché «altre dieci banche — ha rilevato il premier — stanno nelle stesse condizioni» in cui versavano i quattro istituti che hanno costretto il governo all’intervento di emergenza. Se così stanno le cose, resta da capire quanto potrebbero incidere questi nuovi casi, che poi è la domanda girata da Renzi ai suoi esperti. E la risposta in termini di costi non deve averlo sollevato, visto il sospiro che ha tirato: «Ma ce la caveremo», ha concluso.
Le banche sono «il tallone di Matteo», è sulle banche che si gioca per intero la sua credibilità. Basta ripercorrere gli ultimi mesi infatti per vedere le avvisaglie di una tempesta perfetta: è a causa delle banche se è calato il gelo tra il governo e il governatore; è a difesa della Banca che — caso unico finora — Mattarella si è esposto e si è schierato; c’entrano anche le banche nel rapporto altalenante sull’asse Roma-Francoforte; è sulle banche che gli avversari politici del premier — fuori e dentro il Pd — stanno investendo, con un occhio interessato all’inchiesta giudiziaria per il «caso Etruria» in cui è coinvolto il padre del ministro Boschi.
Quest’ultimo aspetto potrebbe rivelarsi persino marginale, qualora il sistema creditizio dovesse entrare in difficoltà: perché se alle sofferenze bancarie si unisse una nuova e imprevista fase recessiva, si allontanerebbe per Renzi l’obiettivo di accostarsi alle elezioni portando in dote al Paese la ripresa. E certo gli ultimi dati offerti dall’Istat non promettono bene, tanto da far ipotizzare al ministero dell’Economia un innalzamento del rapporto debito-Pil, magari non nella rilevazione della prossima settimana ma in quella successiva.
Immaginare però che il governo vada in default politico, è tutta un’altra storia. Non ha fondamento l’idea che Renzi possa essere sostituito a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, che possa toccargli la stessa sorte di Berlusconi. Perché «il tallone di Matteo» sarà pure vulnerabile, ma la situazione è ben diversa. Non è dato sapere se sia stato lo stesso premier a far alimentare le voci sul suo eventuale disarcionamento, così da portare allo scoperto i suoi avversari. È certo che in numerosi colloqui riservati proprio Renzi ha rimarcato l’impossibilità di essere interprete — suo malgrado — di un remake del film «2011».
Le differenze sono sostanziali. L’attuale governo italiano è più forte rispetto a quello di cinque anni fa, mentre è più debole il contesto europeo in cui maturò quella crisi: allora venne meno la maggioranza parlamentare, che oggi invece s’ingrossa quotidianamente; allora il Pd sembrava rappresentare una vincente alternativa di governo, adesso non solo il centrodestra deve ancora trovare un assetto, persino il Movimento Cinquestelle è in crisi, come dimostrano le epurazioni di massa. Insomma, se «il tallone di Matteo» è esposto, quello dei suoi avversari lo è ancor di più. Dunque non ci sono le condizioni per una crisi politica. Ci sono però i rischi di una crisi di sistema.
Ma proprio il nodo delle banche potrebbe rappresentare per Renzi un’occasione di riscatto. Perché se sull’Italia pesa il fardello del debito, sulla Germania iniziano a pesare i bilanci degli istituti di credito, e dalle gravi difficoltà di
Deutsche Bank il premier avrebbe modo di ottenere credito in Europa. Certo le battute non contano, ma ieri l’ironia con cui si commentavano le traversie tedesche («ora ci offriranno di sospendere il bail in fino al 2050») facevano da cornice a riflessioni di governo più serie: «La crisi a Berlino potrebbe segnare una svolta nella crisi dell’Europa, e dare inizio a una riforma condivisa per superare difficoltà che investono i Paesi dell’Unione». A patto che Renzi non dimentichi di avere il «tallone» scoperto.
Francesco Verderami
I timori del premier per quegli istituti da mettere al sicuro
di Francesco Verderami
Da due anni in molti nel Palazzo cercavano «il tallone di Matteo» e ora ritengono di averlo trovato: le banche sono per il presidente del Consiglio il principale problema, un vero cruccio, e non soltanto per gli strascichi politici che il «caso Etruria» potrebbe provocare .
L’aspetto più importante e preoccupante è la tenuta del sistema creditizio italiano, se è vero che Renzi in questi giorni è tornato a esaminare insieme al sottosegretario Lotti il dossier che alimenta uno stato di ansia a Palazzo Chigi. Perché «altre dieci banche — ha rilevato il premier — stanno nelle stesse condizioni» in cui versavano i quattro istituti che hanno costretto il governo all’intervento di emergenza. Se così stanno le cose, resta da capire quanto potrebbero incidere questi nuovi casi, che poi è la domanda girata da Renzi ai suoi esperti. E la risposta in termini di costi non deve averlo sollevato, visto il sospiro che ha tirato: «Ma ce la caveremo», ha concluso.
Le banche sono «il tallone di Matteo», è sulle banche che si gioca per intero la sua credibilità. Basta ripercorrere gli ultimi mesi infatti per vedere le avvisaglie di una tempesta perfetta: è a causa delle banche se è calato il gelo tra il governo e il governatore; è a difesa della Banca che — caso unico finora — Mattarella si è esposto e si è schierato; c’entrano anche le banche nel rapporto altalenante sull’asse Roma-Francoforte; è sulle banche che gli avversari politici del premier — fuori e dentro il Pd — stanno investendo, con un occhio interessato all’inchiesta giudiziaria per il «caso Etruria» in cui è coinvolto il padre del ministro Boschi.
Quest’ultimo aspetto potrebbe rivelarsi persino marginale, qualora il sistema creditizio dovesse entrare in difficoltà: perché se alle sofferenze bancarie si unisse una nuova e imprevista fase recessiva, si allontanerebbe per Renzi l’obiettivo di accostarsi alle elezioni portando in dote al Paese la ripresa. E certo gli ultimi dati offerti dall’Istat non promettono bene, tanto da far ipotizzare al ministero dell’Economia un innalzamento del rapporto debito-Pil, magari non nella rilevazione della prossima settimana ma in quella successiva.
Immaginare però che il governo vada in default politico, è tutta un’altra storia. Non ha fondamento l’idea che Renzi possa essere sostituito a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, che possa toccargli la stessa sorte di Berlusconi. Perché «il tallone di Matteo» sarà pure vulnerabile, ma la situazione è ben diversa. Non è dato sapere se sia stato lo stesso premier a far alimentare le voci sul suo eventuale disarcionamento, così da portare allo scoperto i suoi avversari. È certo che in numerosi colloqui riservati proprio Renzi ha rimarcato l’impossibilità di essere interprete — suo malgrado — di un remake del film «2011».
Le differenze sono sostanziali. L’attuale governo italiano è più forte rispetto a quello di cinque anni fa, mentre è più debole il contesto europeo in cui maturò quella crisi: allora venne meno la maggioranza parlamentare, che oggi invece s’ingrossa quotidianamente; allora il Pd sembrava rappresentare una vincente alternativa di governo, adesso non solo il centrodestra deve ancora trovare un assetto, persino il Movimento Cinquestelle è in crisi, come dimostrano le epurazioni di massa. Insomma, se «il tallone di Matteo» è esposto, quello dei suoi avversari lo è ancor di più. Dunque non ci sono le condizioni per una crisi politica. Ci sono però i rischi di una crisi di sistema.
Ma proprio il nodo delle banche potrebbe rappresentare per Renzi un’occasione di riscatto. Perché se sull’Italia pesa il fardello del debito, sulla Germania iniziano a pesare i bilanci degli istituti di credito, e dalle gravi difficoltà di
Deutsche Bank il premier avrebbe modo di ottenere credito in Europa. Certo le battute non contano, ma ieri l’ironia con cui si commentavano le traversie tedesche («ora ci offriranno di sospendere il bail in fino al 2050») facevano da cornice a riflessioni di governo più serie: «La crisi a Berlino potrebbe segnare una svolta nella crisi dell’Europa, e dare inizio a una riforma condivisa per superare difficoltà che investono i Paesi dell’Unione». A patto che Renzi non dimentichi di avere il «tallone» scoperto.
Francesco Verderami
La Stampa 13.2.16
“Pugno di ferro sull’utero in affitto”
Orlando studia l’esca per i catto-dem
Martedì un ordine del giorno per punire le false dichiarazioni In cambio l’ala anti-adozioni dovrebbe far passare la legge
di Carlo Bertini
Di qui a martedì pomeriggio, quando avranno inizio le danze sugli articoli della legge Cirinnà, tutto lo sforzo dei big Pd in Senato sarà mirato a un solo obiettivo: ritrovare l’unità del gruppo, convincendo quanti più catto-dem possibile, rispetto alla trentina di dissidenti, a votare tutta la legge Cirinnà. L’arma contundente per superare l’ostruzionismo è già pronta e più si avvicina martedì più nel Pd cresce la convinzione di volerla utilizzare: è il famigerato «canguro» firmato dal renziano Marcucci, che blinda le unioni civili, adozioni comprese, comprimendo però la discussione e inibendo il voto di molti emendamenti. La strategia è già stata disegnata e prevede un’esca ben precisa, per invogliare i senatori cattolici del Pd a rientrare in gran parte nei ranghi: la previsione è di recuperarne una buona metà, in modo da non lasciare troppi strascichi che nei mesi a venire possano comportare rischi perniciosi per i lavori d’aula.
E allora, per seguire il filo della strategia di recupero dei voti cattolici, bisogna entrare nei tecnicismi delle procedure: l’emendamento cosiddetto «canguro» contiene la sintesi di tutto il provvedimento sulle unioni civili e una volta approvato fa decadere una gran mole di altri emendamenti: insomma smina le trappole di cui è disseminato il percorso. Però, a quanto pare, stando ai tecnici, non fa decadere gli emendamenti dei cattolici per pulire il testo dai troppi riferimenti al matrimonio. Quelle limature studiate apposta per evitare rischi di incostituzionalità togliendo ogni rinvio al codice civile sull’istituto del matrimonio dagli articoli due e tre della legge. In ogni caso, «canguro» o percorso normale che sia, ai catto-dem verrà lasciata la possibilità di «emendare» la legge con una serie di richieste da loro ritenute qualificanti: contenute anche in un documento presentato nelle scorse settimane. Siccome il vero nodo sono le adozioni, gli uffici hanno fatto sapere che pure qualora fosse votata preventivamente la tagliola del «canguro», anche l’articolo sulla «stepchild» potrà essere ritoccato ed emendato. E con che cosa verrebbero allettati i cattolici del Pd? Attualmente, spiegano gli esperti dei ministeri, la maternità surrogata è un reato che prevede solo una sanzione pecuniaria. Il ministro Orlando è contrario a inserire un inasprimento delle norme penali nel ddl sulle unioni civili: perché la pena che vorrebbero i cattolici è abnorme e perché si sta facendo una legge «pro» che concede dei diritti; che nulla ha a che vedere con l’inasprimento di reati. Allora si è pensato che il governo può - attraverso una mozione o un ordine del giorno che il Senato approverà, o con una dichiarazione politica del premier o del ministro - impegnarsi a rafforzare la parte punitiva del reato dell’utero in affitto.
Non con il carcere, ma agendo sul principio di dichiarazione mendace: far concepire un figlio all’estero con la pratica dell’utero in affitto e dichiarare poi altro in Italia, può comportare un falso in atto pubblico, una dichiarazione mendace che può essere punita con una seria di interdizioni da pubblici uffici, concorsi, attività di vario segno. Insomma verrebbe introdotto un serio deterrente alla maternità surrogata. Andando incontro ai catto-dem che chiedono venga trovata quanto meno «una forma che stigmatizzi queste pratiche».
“Pugno di ferro sull’utero in affitto”
Orlando studia l’esca per i catto-dem
Martedì un ordine del giorno per punire le false dichiarazioni In cambio l’ala anti-adozioni dovrebbe far passare la legge
di Carlo Bertini
Di qui a martedì pomeriggio, quando avranno inizio le danze sugli articoli della legge Cirinnà, tutto lo sforzo dei big Pd in Senato sarà mirato a un solo obiettivo: ritrovare l’unità del gruppo, convincendo quanti più catto-dem possibile, rispetto alla trentina di dissidenti, a votare tutta la legge Cirinnà. L’arma contundente per superare l’ostruzionismo è già pronta e più si avvicina martedì più nel Pd cresce la convinzione di volerla utilizzare: è il famigerato «canguro» firmato dal renziano Marcucci, che blinda le unioni civili, adozioni comprese, comprimendo però la discussione e inibendo il voto di molti emendamenti. La strategia è già stata disegnata e prevede un’esca ben precisa, per invogliare i senatori cattolici del Pd a rientrare in gran parte nei ranghi: la previsione è di recuperarne una buona metà, in modo da non lasciare troppi strascichi che nei mesi a venire possano comportare rischi perniciosi per i lavori d’aula.
E allora, per seguire il filo della strategia di recupero dei voti cattolici, bisogna entrare nei tecnicismi delle procedure: l’emendamento cosiddetto «canguro» contiene la sintesi di tutto il provvedimento sulle unioni civili e una volta approvato fa decadere una gran mole di altri emendamenti: insomma smina le trappole di cui è disseminato il percorso. Però, a quanto pare, stando ai tecnici, non fa decadere gli emendamenti dei cattolici per pulire il testo dai troppi riferimenti al matrimonio. Quelle limature studiate apposta per evitare rischi di incostituzionalità togliendo ogni rinvio al codice civile sull’istituto del matrimonio dagli articoli due e tre della legge. In ogni caso, «canguro» o percorso normale che sia, ai catto-dem verrà lasciata la possibilità di «emendare» la legge con una serie di richieste da loro ritenute qualificanti: contenute anche in un documento presentato nelle scorse settimane. Siccome il vero nodo sono le adozioni, gli uffici hanno fatto sapere che pure qualora fosse votata preventivamente la tagliola del «canguro», anche l’articolo sulla «stepchild» potrà essere ritoccato ed emendato. E con che cosa verrebbero allettati i cattolici del Pd? Attualmente, spiegano gli esperti dei ministeri, la maternità surrogata è un reato che prevede solo una sanzione pecuniaria. Il ministro Orlando è contrario a inserire un inasprimento delle norme penali nel ddl sulle unioni civili: perché la pena che vorrebbero i cattolici è abnorme e perché si sta facendo una legge «pro» che concede dei diritti; che nulla ha a che vedere con l’inasprimento di reati. Allora si è pensato che il governo può - attraverso una mozione o un ordine del giorno che il Senato approverà, o con una dichiarazione politica del premier o del ministro - impegnarsi a rafforzare la parte punitiva del reato dell’utero in affitto.
Non con il carcere, ma agendo sul principio di dichiarazione mendace: far concepire un figlio all’estero con la pratica dell’utero in affitto e dichiarare poi altro in Italia, può comportare un falso in atto pubblico, una dichiarazione mendace che può essere punita con una seria di interdizioni da pubblici uffici, concorsi, attività di vario segno. Insomma verrebbe introdotto un serio deterrente alla maternità surrogata. Andando incontro ai catto-dem che chiedono venga trovata quanto meno «una forma che stigmatizzi queste pratiche».
Repubblica 13.2.16
A sua immagine. L’eterna sfida dell’arte alla divinità
Le religioni monoteiste hanno tutte un fondo iconoclasta. Ma dall’epoca bizantina a oggi, la formula magica per aggirare il tabù c’è: l’astrattismo
di Silvia Ronchey
Testo estratto dalla lezione di Silvia Ronchey che inaugura un nuovo ciclo delle “ Lezioni di storia” a cura di Laterza, dedicate a Islam e Occidente L’incontro domani alle 11, alla Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della musica di Roma
L’archicidio, lo sterminio di statue e di templi cui stiamo assistendo, non è un evento nuovo nella storia. Si è già prodotto diciassette secoli fa, quando il cristianesimo prese ad affermarsi come religione di stato. In alcune zone del globo, peraltro curiosamente prossime a quelle in cui oggi infuria il sedicente stato islamico, la giovane chiesa si diede ad aggredire i simboli del molteplice culto ellenico che l’aveva preceduta. «Quegli uomini vestiti di nero», lamenta nel IV secolo Libanio, un intellettuale siriano
amico di Giuliano l’Apostata, «corrono contro i templi e portano legna per arderli, pietre e ferro per devastarli, e quelli che non ne hanno si accaniscono con le braccia e con i piedi, demoliscono i muri, abbattono le statue».
Quando nel marzo 2001, su ordine del Mullah Omar, i Taliban fecero esplodere le gigantesche statue dei Buddha di Bamyan, emanarono un decreto: «Quelle statue sono state e restano dei santuari di infedeli e gli infedeli continuano ad adorare e venerare le immagini. Allah onnipotente è l’unico vero santuario e tutti i falsi santuari devono essere fatti a pezzi». Da questo proclama nasce l’opinione diffusa sulla matrice iconoclasta delle distruzioni operate dall’Is verso intere architetture sacre, chiese, monasteri, siti come quello dell’antica città di Palmira.
La menzione dell’immagine, nel Corano, era legata alla lotta cultuale contro l’idolatria. È nel contesto della predicazione di un dio unico in una società politeista che va inquadrato il famoso versetto contro «le pietre idolatriche» (V, 90), considerate opera di Satana, la cui venerazione è accomunata ad altri comportamenti riprovevoli come il consumo di vino. Non c’è nel Corano una teoria dell’immagine né una posizione definita in proposito. La condanna delle immagini come “impure” si trova nei vari corpora degli hadith, che peraltro differiscono nella tradizione sunnita, più rigorista, e in quella sciita, alla cui maggiore libertà si attribuisce il grande sviluppo nella Persia musulmana di un’arte eminentemente figurativa, ancorché profana, come quella della miniatura. Nel XIII secolo l’imam di Cordova e grande esegeta Al-Qurtubi testimonia un’apertura degli ulema alle immagini, per di più tridimensionali, proprio sulla base di brani coranici.
La verità è che nell’islam la “questione dell’immagine” non è mai stata centrale, come invece nel cristianesimo. È stata anzi proprio la tolleranza islamica verso le immagini a preservare capolavori dell’arte figurativa cristiana come le icone preiconoclaste di Santa Caterina del Sinai. Anche le immagini sacre, secondo certe regole, sono presenti lungo la storia dell’arte islamica, come attestano ad esempio le rutilanti raffigurazioni del viaggio notturno di Maometto verso Gerusalemme, della sua ascesa ai cieli e della sua visita al paradiso e all’inferno. La tradizione iconografica del Profeta esiste da otto secoli e forse anche da prima, come ha dimostrato Oleg Grabar, e nella letteratura degli hadith non c’è divieto di raffigurare né Maometto né altri profeti, contrariamente a quanto si potesse credere all’inizio del 2006, durante la cosiddetta crisi delle caricature. Gli esperti avevano già all’epoca sottolineato la natura prevalentemente sociale e politica, non teologica, del problema: le caricature di Maometto investivano meno la sfera della rappresentabilità che quella della blasfemia; e provenivano da paesi, come la Danimarca o la Francia, con un’immigrazione musulmana problematica. Si sono visti gli esiti, purtroppo, all’inizio del 2015, con il martirio di Charlie Hebdo.
Ma che cos’è realmente la cosiddetta iconoclastia religiosa? Eikones, immagini, klastia, dal greco klao, “rompere”: “rottura dell’immagine”, o “con l’immagine”. Fin dal pensiero greco, da Platone, la funzione dell’immagine, dell’eikone, era, nel mondo sensibile che le dava supporto, fornire una proiezione approssimativa dell’intelligibile puro, del mondo delle idee. Nel mito della caverna, alla fine del VII libro della Repubblica, Platone spiega che il mondo sensibile è un’immagine effimera e imperfetta del mondo delle idee, che è invece il mondo vero. L’unico rapporto tra i due piani è quello della mimesis, l’imitazione. Platone condanna dunque l’arte figurativa o “imitativa” perché allontana dalle idee: produce copie di copie, immagini di immagini, e per questo possiede il valore conoscitivo più basso.
Nella cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico si affaccia fin da subito la consapevolezza che il sovramondo — l’iperuranio di Platone, il regno dei cieli di Cristo — non può rappresentarsi se non per approssimazione. Ne emerge un problema di irrappresentabilità: del divino come dell’idea. Ma, al di qua delle vette filosofiche greche, l’aniconismo era già ebraico (pensiamo a tutta la polemica biblica contro l’idolatria) e di qui era passato all’”eresia giudaica” cresciuta per due secoli all’ombra delle sinagoghe: il cristianesimo. Sono tipicamente aniconici i simboli cristiani primitivi: la figura geometrica del pesce, quella ancora più astratta della croce. La letteratura cristiana primitiva e anche l’azione della chiesa delle origini è dominata dalla lotta contro gli idoli: gli apologeti e poi, a partire dalla seconda metà del III secolo, alcuni dei più celebri e autorevoli padri della chiesa (come Origene ma anche Eusebio di Cesarea o Clemente di Alessandria) si scagliarono contro il culto delle eikones.
Ed ecco convergere le due tradizioni — la condanna filosofica dell’immagine, la condanna religiosa dell’idolo — quando a partire dal IV secolo la teologia cristiana si costituisce all’interno di una struttura sostanzialmente platonica. Dall’iconoclastia primitiva ereditata dal giudaismo e motivata dalla lotta ai culti pagani — la stessa che accomuna anche l’islam — si passa a un’iconoclastia filosofica che proviene da Platone. La filosofia di riferimento del cristianesimo è e rimane quella platonica fino al cosiddetto iconoclasmo, un nuovo statuto dell’immagine. L’icona non sarà assimilabile all’idolo solo se non intenderà rappresentare naturalisticamente la figura sacra, ma promuovere la riflessione teologica sulla sua essenza sovrasostanziale.
L’iconoclasmo bizantino segna una svolta. L’immagine non è più vietata né permessa. Cambia, diventa un’altra cosa, che ci porterà dritti al Novecento. Il dibattito dell’VIII e IX secolo bizantino, nel sancire la non figuratività dell’immagine sacra, apre la via all’astrattismo. Alla teologia dell’icona formulata allora si richiameranno apertamente i teorici russi (Florenskij, Trubeckoj) sulla cui base l’arte astratta, in Russia e poi in Francia, si costituirà dichiaratamente «sul modello dei pittori di icone» (Matisse). L’iconoclastia, la rottura “con” l’immagine, ha permeato un’ampia quota della nostra arte: non ha nulla a che fare con la guerra alla quale assistiamo, che distrugge, invece, l’arte.
Le azioni di guerra dei terroristi radicali islamici non hanno a che fare con una dottrina immanente alla religione islamica, ma con quella che di recente viene descritta come “iconoclastia politica”, propria delle azioni rivoluzionarie e diretta alla distruzione dei simboli dell’ordine cui si oppongono. L’archicidio cui stiamo assistendo non ha a che fare con la teologia né con la filosofia dell’immagine, ma con la brutale volontà di cancellare non solo e non tanto l’archeologia ma, letteralmente, il passato.
A sua immagine. L’eterna sfida dell’arte alla divinità
Le religioni monoteiste hanno tutte un fondo iconoclasta. Ma dall’epoca bizantina a oggi, la formula magica per aggirare il tabù c’è: l’astrattismo
di Silvia Ronchey
Testo estratto dalla lezione di Silvia Ronchey che inaugura un nuovo ciclo delle “ Lezioni di storia” a cura di Laterza, dedicate a Islam e Occidente L’incontro domani alle 11, alla Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della musica di Roma
L’archicidio, lo sterminio di statue e di templi cui stiamo assistendo, non è un evento nuovo nella storia. Si è già prodotto diciassette secoli fa, quando il cristianesimo prese ad affermarsi come religione di stato. In alcune zone del globo, peraltro curiosamente prossime a quelle in cui oggi infuria il sedicente stato islamico, la giovane chiesa si diede ad aggredire i simboli del molteplice culto ellenico che l’aveva preceduta. «Quegli uomini vestiti di nero», lamenta nel IV secolo Libanio, un intellettuale siriano
amico di Giuliano l’Apostata, «corrono contro i templi e portano legna per arderli, pietre e ferro per devastarli, e quelli che non ne hanno si accaniscono con le braccia e con i piedi, demoliscono i muri, abbattono le statue».
Quando nel marzo 2001, su ordine del Mullah Omar, i Taliban fecero esplodere le gigantesche statue dei Buddha di Bamyan, emanarono un decreto: «Quelle statue sono state e restano dei santuari di infedeli e gli infedeli continuano ad adorare e venerare le immagini. Allah onnipotente è l’unico vero santuario e tutti i falsi santuari devono essere fatti a pezzi». Da questo proclama nasce l’opinione diffusa sulla matrice iconoclasta delle distruzioni operate dall’Is verso intere architetture sacre, chiese, monasteri, siti come quello dell’antica città di Palmira.
La menzione dell’immagine, nel Corano, era legata alla lotta cultuale contro l’idolatria. È nel contesto della predicazione di un dio unico in una società politeista che va inquadrato il famoso versetto contro «le pietre idolatriche» (V, 90), considerate opera di Satana, la cui venerazione è accomunata ad altri comportamenti riprovevoli come il consumo di vino. Non c’è nel Corano una teoria dell’immagine né una posizione definita in proposito. La condanna delle immagini come “impure” si trova nei vari corpora degli hadith, che peraltro differiscono nella tradizione sunnita, più rigorista, e in quella sciita, alla cui maggiore libertà si attribuisce il grande sviluppo nella Persia musulmana di un’arte eminentemente figurativa, ancorché profana, come quella della miniatura. Nel XIII secolo l’imam di Cordova e grande esegeta Al-Qurtubi testimonia un’apertura degli ulema alle immagini, per di più tridimensionali, proprio sulla base di brani coranici.
La verità è che nell’islam la “questione dell’immagine” non è mai stata centrale, come invece nel cristianesimo. È stata anzi proprio la tolleranza islamica verso le immagini a preservare capolavori dell’arte figurativa cristiana come le icone preiconoclaste di Santa Caterina del Sinai. Anche le immagini sacre, secondo certe regole, sono presenti lungo la storia dell’arte islamica, come attestano ad esempio le rutilanti raffigurazioni del viaggio notturno di Maometto verso Gerusalemme, della sua ascesa ai cieli e della sua visita al paradiso e all’inferno. La tradizione iconografica del Profeta esiste da otto secoli e forse anche da prima, come ha dimostrato Oleg Grabar, e nella letteratura degli hadith non c’è divieto di raffigurare né Maometto né altri profeti, contrariamente a quanto si potesse credere all’inizio del 2006, durante la cosiddetta crisi delle caricature. Gli esperti avevano già all’epoca sottolineato la natura prevalentemente sociale e politica, non teologica, del problema: le caricature di Maometto investivano meno la sfera della rappresentabilità che quella della blasfemia; e provenivano da paesi, come la Danimarca o la Francia, con un’immigrazione musulmana problematica. Si sono visti gli esiti, purtroppo, all’inizio del 2015, con il martirio di Charlie Hebdo.
Ma che cos’è realmente la cosiddetta iconoclastia religiosa? Eikones, immagini, klastia, dal greco klao, “rompere”: “rottura dell’immagine”, o “con l’immagine”. Fin dal pensiero greco, da Platone, la funzione dell’immagine, dell’eikone, era, nel mondo sensibile che le dava supporto, fornire una proiezione approssimativa dell’intelligibile puro, del mondo delle idee. Nel mito della caverna, alla fine del VII libro della Repubblica, Platone spiega che il mondo sensibile è un’immagine effimera e imperfetta del mondo delle idee, che è invece il mondo vero. L’unico rapporto tra i due piani è quello della mimesis, l’imitazione. Platone condanna dunque l’arte figurativa o “imitativa” perché allontana dalle idee: produce copie di copie, immagini di immagini, e per questo possiede il valore conoscitivo più basso.
Nella cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico si affaccia fin da subito la consapevolezza che il sovramondo — l’iperuranio di Platone, il regno dei cieli di Cristo — non può rappresentarsi se non per approssimazione. Ne emerge un problema di irrappresentabilità: del divino come dell’idea. Ma, al di qua delle vette filosofiche greche, l’aniconismo era già ebraico (pensiamo a tutta la polemica biblica contro l’idolatria) e di qui era passato all’”eresia giudaica” cresciuta per due secoli all’ombra delle sinagoghe: il cristianesimo. Sono tipicamente aniconici i simboli cristiani primitivi: la figura geometrica del pesce, quella ancora più astratta della croce. La letteratura cristiana primitiva e anche l’azione della chiesa delle origini è dominata dalla lotta contro gli idoli: gli apologeti e poi, a partire dalla seconda metà del III secolo, alcuni dei più celebri e autorevoli padri della chiesa (come Origene ma anche Eusebio di Cesarea o Clemente di Alessandria) si scagliarono contro il culto delle eikones.
Ed ecco convergere le due tradizioni — la condanna filosofica dell’immagine, la condanna religiosa dell’idolo — quando a partire dal IV secolo la teologia cristiana si costituisce all’interno di una struttura sostanzialmente platonica. Dall’iconoclastia primitiva ereditata dal giudaismo e motivata dalla lotta ai culti pagani — la stessa che accomuna anche l’islam — si passa a un’iconoclastia filosofica che proviene da Platone. La filosofia di riferimento del cristianesimo è e rimane quella platonica fino al cosiddetto iconoclasmo, un nuovo statuto dell’immagine. L’icona non sarà assimilabile all’idolo solo se non intenderà rappresentare naturalisticamente la figura sacra, ma promuovere la riflessione teologica sulla sua essenza sovrasostanziale.
L’iconoclasmo bizantino segna una svolta. L’immagine non è più vietata né permessa. Cambia, diventa un’altra cosa, che ci porterà dritti al Novecento. Il dibattito dell’VIII e IX secolo bizantino, nel sancire la non figuratività dell’immagine sacra, apre la via all’astrattismo. Alla teologia dell’icona formulata allora si richiameranno apertamente i teorici russi (Florenskij, Trubeckoj) sulla cui base l’arte astratta, in Russia e poi in Francia, si costituirà dichiaratamente «sul modello dei pittori di icone» (Matisse). L’iconoclastia, la rottura “con” l’immagine, ha permeato un’ampia quota della nostra arte: non ha nulla a che fare con la guerra alla quale assistiamo, che distrugge, invece, l’arte.
Le azioni di guerra dei terroristi radicali islamici non hanno a che fare con una dottrina immanente alla religione islamica, ma con quella che di recente viene descritta come “iconoclastia politica”, propria delle azioni rivoluzionarie e diretta alla distruzione dei simboli dell’ordine cui si oppongono. L’archicidio cui stiamo assistendo non ha a che fare con la teologia né con la filosofia dell’immagine, ma con la brutale volontà di cancellare non solo e non tanto l’archeologia ma, letteralmente, il passato.
Corriere 13.2.16
L’ex isola «atea» al centro dei giochi grazie a Raúl (e al doppio legame)
di Rocco Cotroneo
Il paradosso cubano colpisce ancora. Un’isola di medie dimensioni, senza risorse strategiche, con una popolazione (11 milioni) inferiore a quella di tante metropoli, è di nuovo all’attenzione del mondo intero. Come è possibile che uno Stato la cui Costituzione raccomandava l’ateismo fino a vent’anni fa diventi sede privilegiata di un incontro religioso che resterà nella storia? Prima Fidel Castro, poi con altrettanta abilità il fratello Raúl, sono sempre riusciti a trovare il modo per rendere l’isola caraibica più importante nella grande geopolitica di quello che realmente sia. E a far dimenticare ogni volta la mancanza di democrazia e lo scarso rispetto dei diritti umani. A un anno dal disgelo con gli Stati Uniti, e dopo aver benedetto la pace in Colombia tra governo e guerriglia (ponendo fine a decenni di trattative a vuoto), Rául Castro riesce stavolta, semplicemente «prestando» un aeroporto, a infilarsi in una disputa secolare come la divisione dei cristiani grazie al doppio legame che Cuba ha mantenuto con i due mondi. Con la Russia, per il passato non troppo remoto dell’asse militar-economico con l’Unione Sovietica, e con il Vaticano grazie al consolidamento dei rapporti nel fondamentale anno 2015, quello che ha visto sia la visita di papa Francesco, sia l’annuncio della pace con gli Stati Uniti e la riapertura delle ambasciate. Per i quali la mediazione vaticana è risultata fondamentale.
L’ex isola «atea» al centro dei giochi grazie a Raúl (e al doppio legame)
di Rocco Cotroneo
Il paradosso cubano colpisce ancora. Un’isola di medie dimensioni, senza risorse strategiche, con una popolazione (11 milioni) inferiore a quella di tante metropoli, è di nuovo all’attenzione del mondo intero. Come è possibile che uno Stato la cui Costituzione raccomandava l’ateismo fino a vent’anni fa diventi sede privilegiata di un incontro religioso che resterà nella storia? Prima Fidel Castro, poi con altrettanta abilità il fratello Raúl, sono sempre riusciti a trovare il modo per rendere l’isola caraibica più importante nella grande geopolitica di quello che realmente sia. E a far dimenticare ogni volta la mancanza di democrazia e lo scarso rispetto dei diritti umani. A un anno dal disgelo con gli Stati Uniti, e dopo aver benedetto la pace in Colombia tra governo e guerriglia (ponendo fine a decenni di trattative a vuoto), Rául Castro riesce stavolta, semplicemente «prestando» un aeroporto, a infilarsi in una disputa secolare come la divisione dei cristiani grazie al doppio legame che Cuba ha mantenuto con i due mondi. Con la Russia, per il passato non troppo remoto dell’asse militar-economico con l’Unione Sovietica, e con il Vaticano grazie al consolidamento dei rapporti nel fondamentale anno 2015, quello che ha visto sia la visita di papa Francesco, sia l’annuncio della pace con gli Stati Uniti e la riapertura delle ambasciate. Per i quali la mediazione vaticana è risultata fondamentale.
La Stampa 13.2.16
Il Patriarca che ama lusso e YouTube e definisce Putin un “miracolo di Dio”
Ha sostenuto la crociata del Cremlino contro gay e Pussy Riot Il suo clero lo accusa di modernismo per l’apertura al Vaticano
di Lucia Sgueglia
Dalle Isole delle lacrime all’Isola della Libertà nei Caraibi, dall’Urss all’ecumenismo, passando per la Siria. È una biografia complessa e contraddittoria, quella di Vladimir Mikhailovich Gundyayev, 69 anni, nato nell’allora Leningrado come Vladimir Putin, ordinato monaco nel 1969, in pieno ateismo di Stato, dal 1989 capo del Dipartimento delle relazioni Esterne del Patriarcato, ex Metropolita di Smolensk e Kaliningrad, salito alla guida della Chiesa russa dal 2009.
Figlio e nipote di sacerdoti, il nonno soffrì 30 anni di Gulag sulle famigerate isole Solovki. Ultra conservatore e contrario alle riforme liturgiche e dottrinali, eppure alla sua nomina fu accusato di «modernismo» e «filo-cattolicesimo» dall’ala più intransigente del suo stesso clero. Appassionato internauta, abile comunicatore e diplomatico, allineato col Cremlino sui dossier politici più importanti (con l’eccezione dell’Ucraina, Paese fratello nella fede). Ma è proprio lui ad aprire la breccia in mille anni di divisione tra la prima e la terza Roma, compiendo lo storico passo che il suo predecessore Alessio II, colui che riportò la fede in Russia dopo 70 anni di Urss, sempre rifiutò.
Vicino, troppo vicino a Vladimir Putin secondo alcuni, fedeli inclusi, avrebbe quasi annullato la separazione Chiesa-Stato. Criticato per il suo presunto amore del lusso, dal costosissimo orologio svizzero Breguet che «sparisce» dalle foto ufficiali, a sospette ville sul Mar Nero o mega appartamenti di fronte al Cremlino. Accusato di contrabbando di sigarette, e persino di legami con il Kgb, per quella sua carriera liturgica precoce, che parte da lontano.
Al fianco di Putin anche nella crociata moralista lanciata in Russia col terzo mandato: dalle leggi anti-gay (con dichiarazioni omofobe, considerò «onesti» alcuni «terroristi» dell’Isis in fuga dal «radicalismo secolare» che celebra i Gay Pride), alla condanna alla galera delle «blasfeme» Pussy Riot (di cui è considerato ispiratore), agli attacchi contro l’opposizione liberale russa, nel 2012 definì le proteste di massa in piazza contro il Cremlino «grida perfora timpani», lodando Putin come «Miracolo di Dio». In barba alla misericordia.
Ma se il leader russo si vanta di non usare la posta elettronica, il Patriarca non adora navigare sul web, e pare se la prenda molto per le critiche online, tanto che avrebbe chiesto ai popi di astenersi da commenti «aggressivi» sul web. Ha una sua pagina Facebook, un canale YouTube dedicato ai giovani, fin dal 1994 è un volto noto della tv di stato col programma settimanale «La parola del Pastore».
L’Occidente «buono»
Una chiesa non pauperista come quella cercata da Francesco, la sua. Ma in Bergoglio, per gli esperti russi, Kirill vede un Papa «non europeo» e non allineato con gli Usa, quindi il rappresentante di un Occidente alternativo, «buono». Nel 2008 Fidel Castro, inaugurando la prima Chiesa ortodossa russa all’Avana, chiamò l’allora Metropolita «alleato contro l’imperialismo americano».
L’incontro di Cuba, assicurano i cremlinologi, non sarebbe avvenuto senza la benedizione del Cremlino. E darebbe una mano a Putin per rompere l’isolamento internazionale della Russia dovuto a sanzioni, Ucraina e Siria, presentando Mosca come ultimo difensore della cristianità contro brutali selvaggi a Oriente, e «pagani decadenti» a Occidente. Con un occhio alla politica religiosa: il primo Concilio pan-ortodosso si terrà a giugno a Creta dopo 12 secoli, e Kirill col Patriarcato di Mosca punterebbe a strappare, legittimato da Francesco, la supremazia morale al rivale Bartolomeo, Patriarca di Costantinopoli, «primus inter pares» tra le chiese ortodosse mondiali. Ma a Mosca, tutti riconoscono a Gundyayev l’inatteso coraggio di un passo impopolare all’interno della sua Chiesa: molti, i più conservatori, non approvano l’abbraccio col Vaticano, in cui vedono un tutt’uno con l’Occidente «nemico». E in questo senso, si può dire, il suo è un passo «progressista».
Il Patriarca che ama lusso e YouTube e definisce Putin un “miracolo di Dio”
Ha sostenuto la crociata del Cremlino contro gay e Pussy Riot Il suo clero lo accusa di modernismo per l’apertura al Vaticano
di Lucia Sgueglia
Dalle Isole delle lacrime all’Isola della Libertà nei Caraibi, dall’Urss all’ecumenismo, passando per la Siria. È una biografia complessa e contraddittoria, quella di Vladimir Mikhailovich Gundyayev, 69 anni, nato nell’allora Leningrado come Vladimir Putin, ordinato monaco nel 1969, in pieno ateismo di Stato, dal 1989 capo del Dipartimento delle relazioni Esterne del Patriarcato, ex Metropolita di Smolensk e Kaliningrad, salito alla guida della Chiesa russa dal 2009.
Figlio e nipote di sacerdoti, il nonno soffrì 30 anni di Gulag sulle famigerate isole Solovki. Ultra conservatore e contrario alle riforme liturgiche e dottrinali, eppure alla sua nomina fu accusato di «modernismo» e «filo-cattolicesimo» dall’ala più intransigente del suo stesso clero. Appassionato internauta, abile comunicatore e diplomatico, allineato col Cremlino sui dossier politici più importanti (con l’eccezione dell’Ucraina, Paese fratello nella fede). Ma è proprio lui ad aprire la breccia in mille anni di divisione tra la prima e la terza Roma, compiendo lo storico passo che il suo predecessore Alessio II, colui che riportò la fede in Russia dopo 70 anni di Urss, sempre rifiutò.
Vicino, troppo vicino a Vladimir Putin secondo alcuni, fedeli inclusi, avrebbe quasi annullato la separazione Chiesa-Stato. Criticato per il suo presunto amore del lusso, dal costosissimo orologio svizzero Breguet che «sparisce» dalle foto ufficiali, a sospette ville sul Mar Nero o mega appartamenti di fronte al Cremlino. Accusato di contrabbando di sigarette, e persino di legami con il Kgb, per quella sua carriera liturgica precoce, che parte da lontano.
Al fianco di Putin anche nella crociata moralista lanciata in Russia col terzo mandato: dalle leggi anti-gay (con dichiarazioni omofobe, considerò «onesti» alcuni «terroristi» dell’Isis in fuga dal «radicalismo secolare» che celebra i Gay Pride), alla condanna alla galera delle «blasfeme» Pussy Riot (di cui è considerato ispiratore), agli attacchi contro l’opposizione liberale russa, nel 2012 definì le proteste di massa in piazza contro il Cremlino «grida perfora timpani», lodando Putin come «Miracolo di Dio». In barba alla misericordia.
Ma se il leader russo si vanta di non usare la posta elettronica, il Patriarca non adora navigare sul web, e pare se la prenda molto per le critiche online, tanto che avrebbe chiesto ai popi di astenersi da commenti «aggressivi» sul web. Ha una sua pagina Facebook, un canale YouTube dedicato ai giovani, fin dal 1994 è un volto noto della tv di stato col programma settimanale «La parola del Pastore».
L’Occidente «buono»
Una chiesa non pauperista come quella cercata da Francesco, la sua. Ma in Bergoglio, per gli esperti russi, Kirill vede un Papa «non europeo» e non allineato con gli Usa, quindi il rappresentante di un Occidente alternativo, «buono». Nel 2008 Fidel Castro, inaugurando la prima Chiesa ortodossa russa all’Avana, chiamò l’allora Metropolita «alleato contro l’imperialismo americano».
L’incontro di Cuba, assicurano i cremlinologi, non sarebbe avvenuto senza la benedizione del Cremlino. E darebbe una mano a Putin per rompere l’isolamento internazionale della Russia dovuto a sanzioni, Ucraina e Siria, presentando Mosca come ultimo difensore della cristianità contro brutali selvaggi a Oriente, e «pagani decadenti» a Occidente. Con un occhio alla politica religiosa: il primo Concilio pan-ortodosso si terrà a giugno a Creta dopo 12 secoli, e Kirill col Patriarcato di Mosca punterebbe a strappare, legittimato da Francesco, la supremazia morale al rivale Bartolomeo, Patriarca di Costantinopoli, «primus inter pares» tra le chiese ortodosse mondiali. Ma a Mosca, tutti riconoscono a Gundyayev l’inatteso coraggio di un passo impopolare all’interno della sua Chiesa: molti, i più conservatori, non approvano l’abbraccio col Vaticano, in cui vedono un tutt’uno con l’Occidente «nemico». E in questo senso, si può dire, il suo è un passo «progressista».
Repubblica 13.2.16
Mai più nulla sarà come prima
di Enzo Bianchi
priore della comunità monastica di Bose
TUTTE le chiese erano certe che in un futuro imprecisato il papa di Roma avrebbe incontrato il patriarca di Mosca e di tutta la Russia, l’unico primate della chiesa ortodossa che aveva sempre dilazionato il faccia a faccia con il papa.
QUESTO nonostante cinquant’anni di incontri ecumenici e di viaggi in diverse nazioni. Tutti i patriarchi e i primati delle chiese ortodosse e di quelle orientali avevano scambiato l’abbraccio con il patriarca d’Occidente, ma il patriarca russo no.
Sono stati cinquant’anni di attesa, nei quali però c’era chi continuava silenziosamente ma caparbiamente a lavorare per questo incontro: organi vaticani, centri ecumenici, vescovi ortodossi non attendevano passivamente quest’ora che diventava anche urgente, per il sorgere del problema di cristiani cattolici, ortodossi e orientali perseguitati e spesso cacciati dal Medio Oriente e per l’ormai incontestabile bisogno di una voce unanime capace di levarsi con autorevolezza nella nuova situazione europea, segnata soprattutto da secolarizzazione e indifferentismo religioso. Ed ecco che ieri l’impossibile è avvenuto grazie alla santa risolutezza di papa Francesco, disposto a rinunciare a ogni precondizione e a lasciare che fosse il patriarca Kyril a stabilire i termini dell’incontro: «Io vengo. Tu mi chiami e io vengo, dove vuoi, quando vuoi!». Parole che resteranno indelebili, come segno di una profonda convinzione e di una capacità di umiltà che rinuncia ai riconoscimenti, al protocollo, a quella che si sarebbe detta la “verità cattolica” dell’autorità del papa.
E così l’incontro è avvenuto in modo inedito: nessuno dei protagonisti ha avuto accanto a sé il suo popolo ad applaudirlo, non c’è stato nessun mega-evento ecclesiale, nessuna liturgia né sfarzose cerimonie. È avvenuto l’essenziale: il faccia a faccia tra Francesco e Kyril, l’abbraccio tanto aspettato, il dialogo di quasi due ore tra fratelli che mai si erano incontrati ed erano divisi da quasi un millennio. I temi del dialogo non coincidono pienamente con quelli della dichiarazione congiunta finale, che è un’attestazione della preoccupazione dei due capi di chiesa. Certo, hanno parlato innanzitutto dell’ecumenismo del sangue che è testimonianza, martirio da parte delle loro rispettive chiese; hanno guardato al Medio Oriente attraversato da violenze, terrorismo e guerre che fanno fuggire i cristiani; hanno discusso della testimonianza comune in un mondo non-cristiano. Ma hanno parlato anche di altri temi: dell’urgente rappacificazione tra chiese in Ucraina, del rifiuto dell’uniatismo e del proselitismo, dell’accettazione del diritto dei greco-cattolici a esistere e vivere accanto agli ortodossi, dei rapporti tra la chiesa di Roma e l’ortodossia tutta, del dialogo teologico bilaterale che procede con difficoltà… La dichiarazione comune potrebbe anche sembrare deludente, ma è un approdo al quale mai era giunta la chiesa ortodossa russa. Ed è significativo che, accanto alla difesa delle esigenze di giustizia, si trovino temi ritenuti decisivi da entrambe le parti, come l’etica familiare e la difesa della vita.
In ogni caso, ciò che è decisivo è che l’incontro è avvenuto, e ormai nulla sarà più come prima tra le due chiese. Molti riducono questo evento a un fatto di politica ecclesiale e, quando ne scrivono, non riescono a leggerlo in profondità, perché sono solo esperti di diplomazia ecclesiastica; ma in verità — e credo di dirlo conoscendo bene la situazione e le parti in causa — ciò che ha determinato l’incontro e gli dà il significato decisivo è la volontà del ristabilimento della comunione. Questa passione e questa santa ossessione ormai la conosciamo bene in Francesco; ma chi conosce Kyril sa che anche lui è convinto di tale cammino, da autentico discepolo del metropolita Nikodim morto tra le braccia di Giovanni Paolo I in Vaticano nel 1978, mentre gli esponeva la reale situazione dei cristiani nell’Urss. Non si dimentichi che Nikodim venne più volte in Occidente, e anche a Bose, per una testimonianza comune sulla pace allora minacciata, e che Kyril, sempre a Bose, ha partecipato agli incontri tra cattolici e ortodossi, sostenendoli in modo risoluto.
Un lungo cammino quello che si è concluso ieri, del quale non riusciamo ancora a valutare l’importanza e le possibilità aperte per l’avvenire. Kyril ha mostrato di essere quello che conoscevamo di lui: un primate convinto della necessità della sua azione ecumenica per tutte le chiese ortodosse, dell’urgenza di una collaborazione con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli e di una riconciliazione con la chiesa cattolica. Alcuni non possono leggere questo evento senza pensare a una regia politica di Putin e arrivano a contestare questo incontro, definendo ingenuo il papa. Ma Francesco è un visionario, non vuole che la chiesa viva di tattiche e di strategie, ma crede nella dinamica della storia e nella bontà dell’uomo su cui riposa sempre la chiamata di Dio. Perciò non teme, ma audacemente costruisce ponti anche dove profondo è l’abisso e largo il fiume che separa le due rive.
Mai più nulla sarà come prima
di Enzo Bianchi
priore della comunità monastica di Bose
TUTTE le chiese erano certe che in un futuro imprecisato il papa di Roma avrebbe incontrato il patriarca di Mosca e di tutta la Russia, l’unico primate della chiesa ortodossa che aveva sempre dilazionato il faccia a faccia con il papa.
QUESTO nonostante cinquant’anni di incontri ecumenici e di viaggi in diverse nazioni. Tutti i patriarchi e i primati delle chiese ortodosse e di quelle orientali avevano scambiato l’abbraccio con il patriarca d’Occidente, ma il patriarca russo no.
Sono stati cinquant’anni di attesa, nei quali però c’era chi continuava silenziosamente ma caparbiamente a lavorare per questo incontro: organi vaticani, centri ecumenici, vescovi ortodossi non attendevano passivamente quest’ora che diventava anche urgente, per il sorgere del problema di cristiani cattolici, ortodossi e orientali perseguitati e spesso cacciati dal Medio Oriente e per l’ormai incontestabile bisogno di una voce unanime capace di levarsi con autorevolezza nella nuova situazione europea, segnata soprattutto da secolarizzazione e indifferentismo religioso. Ed ecco che ieri l’impossibile è avvenuto grazie alla santa risolutezza di papa Francesco, disposto a rinunciare a ogni precondizione e a lasciare che fosse il patriarca Kyril a stabilire i termini dell’incontro: «Io vengo. Tu mi chiami e io vengo, dove vuoi, quando vuoi!». Parole che resteranno indelebili, come segno di una profonda convinzione e di una capacità di umiltà che rinuncia ai riconoscimenti, al protocollo, a quella che si sarebbe detta la “verità cattolica” dell’autorità del papa.
E così l’incontro è avvenuto in modo inedito: nessuno dei protagonisti ha avuto accanto a sé il suo popolo ad applaudirlo, non c’è stato nessun mega-evento ecclesiale, nessuna liturgia né sfarzose cerimonie. È avvenuto l’essenziale: il faccia a faccia tra Francesco e Kyril, l’abbraccio tanto aspettato, il dialogo di quasi due ore tra fratelli che mai si erano incontrati ed erano divisi da quasi un millennio. I temi del dialogo non coincidono pienamente con quelli della dichiarazione congiunta finale, che è un’attestazione della preoccupazione dei due capi di chiesa. Certo, hanno parlato innanzitutto dell’ecumenismo del sangue che è testimonianza, martirio da parte delle loro rispettive chiese; hanno guardato al Medio Oriente attraversato da violenze, terrorismo e guerre che fanno fuggire i cristiani; hanno discusso della testimonianza comune in un mondo non-cristiano. Ma hanno parlato anche di altri temi: dell’urgente rappacificazione tra chiese in Ucraina, del rifiuto dell’uniatismo e del proselitismo, dell’accettazione del diritto dei greco-cattolici a esistere e vivere accanto agli ortodossi, dei rapporti tra la chiesa di Roma e l’ortodossia tutta, del dialogo teologico bilaterale che procede con difficoltà… La dichiarazione comune potrebbe anche sembrare deludente, ma è un approdo al quale mai era giunta la chiesa ortodossa russa. Ed è significativo che, accanto alla difesa delle esigenze di giustizia, si trovino temi ritenuti decisivi da entrambe le parti, come l’etica familiare e la difesa della vita.
In ogni caso, ciò che è decisivo è che l’incontro è avvenuto, e ormai nulla sarà più come prima tra le due chiese. Molti riducono questo evento a un fatto di politica ecclesiale e, quando ne scrivono, non riescono a leggerlo in profondità, perché sono solo esperti di diplomazia ecclesiastica; ma in verità — e credo di dirlo conoscendo bene la situazione e le parti in causa — ciò che ha determinato l’incontro e gli dà il significato decisivo è la volontà del ristabilimento della comunione. Questa passione e questa santa ossessione ormai la conosciamo bene in Francesco; ma chi conosce Kyril sa che anche lui è convinto di tale cammino, da autentico discepolo del metropolita Nikodim morto tra le braccia di Giovanni Paolo I in Vaticano nel 1978, mentre gli esponeva la reale situazione dei cristiani nell’Urss. Non si dimentichi che Nikodim venne più volte in Occidente, e anche a Bose, per una testimonianza comune sulla pace allora minacciata, e che Kyril, sempre a Bose, ha partecipato agli incontri tra cattolici e ortodossi, sostenendoli in modo risoluto.
Un lungo cammino quello che si è concluso ieri, del quale non riusciamo ancora a valutare l’importanza e le possibilità aperte per l’avvenire. Kyril ha mostrato di essere quello che conoscevamo di lui: un primate convinto della necessità della sua azione ecumenica per tutte le chiese ortodosse, dell’urgenza di una collaborazione con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli e di una riconciliazione con la chiesa cattolica. Alcuni non possono leggere questo evento senza pensare a una regia politica di Putin e arrivano a contestare questo incontro, definendo ingenuo il papa. Ma Francesco è un visionario, non vuole che la chiesa viva di tattiche e di strategie, ma crede nella dinamica della storia e nella bontà dell’uomo su cui riposa sempre la chiamata di Dio. Perciò non teme, ma audacemente costruisce ponti anche dove profondo è l’abisso e largo il fiume che separa le due rive.
Corriere 13.2.16
La «Chiesa in uscita» verso le periferie
L’occhio al Sud del mondo. Geopolitica di un Pontefice
di Luigi Accattoli
C’è una geopolitica di papa Bergoglio? Che ci dicono le sue iniziative per il disgelo tra Cuba e gli Usa, per portare in Vaticano Peres e Abu Mazen, per il superamento del conflitto interno alla Colombia, per un accordo con la Cina, per il sorprendente incontro di ieri con Kirill a Cuba? Che idea caviamo dalla geografia dei suoi spostamenti sul pianeta?
Una prima approssimazione la potrebbe fornire l’insistenza dei suoi viaggi sull’Asia e sull’America Latina: ora è in Messico, ha toccato due volte Cuba, è stato in Brasile, in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay. In Asia ha visto la Corea del Sud, lo Sri Lanka e le Filippine, ha detto che andrebbe «anche domani» in Cina e che all’Asia si deve dedicare con particolare impegno stante la minima presenza cristiana in quel continente.
Il Papa venuto dall’Argentina guarda alle periferie mondiali, al Sud del mondo in generale e — da gesuita — con prioritaria passione mira alla Cina. In altre parole: il Papa della «Chiesa in uscita» vorrebbe che l’uscita avesse a meta le popolazioni più vaste e più lontane rispetto al centro romano della cattolicità.
Con analoga approssimazione si potrebbe dire che Karol Wojtyla, Papa slavo, guardava in primis all’Europa centro-orientale, dov’è riuscito a visitare 9 volte la sua patria e dove — caduto l’impero sovietico — ha potuto vedere in ordine di tempo Cecoslovacchia, Albania, Lituania, Lettonia, Estonia, Croazia, Slovenia, Berlino, Bosnia, Romania, Georgia, Ucraina, Kazakistan, Armenia, Azerbaigian, Bulgaria.
Il cuore di Benedetto batteva invece per l’Europa centro-occidentale: nei suoi otto anni è tornato tre volte nella sua patria ed è riuscito a vedere — nell’ordine — Polonia, Spagna, Austria, Francia, Repubblica Ceca, Malta, Portogallo, Gran Bretagna, Croazia. Egli — che è stato definito provvisoriamente «l’ultimo Papa europeo» — era preoccupato per la crisi delle Chiese del Vecchio continente e si adoperava, come poteva, a risvegliarle.
Ma in questi primi tre anni del Pontificato di Francesco c’è di più degli spostamenti sul pianeta per cogliere qualcosa della strategia che lo muove. La sua idea della Chiesa in uscita è un’idea missionaria a tutto campo, che — nell’intenzione — non sottostà a nessuna regola politica o ideologica e mira anzi a sovvertirle, o eluderle, per ottenere l’obiettivo di avvicinamento a ogni umanità. Eccolo dunque che prende iniziative apparentemente impossibili, si muove con libertà, non pone condizioni formali o di prestigio. Si preoccupa — per usare il suo linguaggio — di «avviare processi» più che di acquisire «territori», cioè obiettivi. Stabilisce contatti, propone incontri. Si espone disarmato a ogni strumentalizzazione. È convinto che ostilità ed equivoci alla fine cadranno se il cammino avviato proseguirà.
La «Chiesa in uscita» verso le periferie
L’occhio al Sud del mondo. Geopolitica di un Pontefice
di Luigi Accattoli
C’è una geopolitica di papa Bergoglio? Che ci dicono le sue iniziative per il disgelo tra Cuba e gli Usa, per portare in Vaticano Peres e Abu Mazen, per il superamento del conflitto interno alla Colombia, per un accordo con la Cina, per il sorprendente incontro di ieri con Kirill a Cuba? Che idea caviamo dalla geografia dei suoi spostamenti sul pianeta?
Una prima approssimazione la potrebbe fornire l’insistenza dei suoi viaggi sull’Asia e sull’America Latina: ora è in Messico, ha toccato due volte Cuba, è stato in Brasile, in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay. In Asia ha visto la Corea del Sud, lo Sri Lanka e le Filippine, ha detto che andrebbe «anche domani» in Cina e che all’Asia si deve dedicare con particolare impegno stante la minima presenza cristiana in quel continente.
Il Papa venuto dall’Argentina guarda alle periferie mondiali, al Sud del mondo in generale e — da gesuita — con prioritaria passione mira alla Cina. In altre parole: il Papa della «Chiesa in uscita» vorrebbe che l’uscita avesse a meta le popolazioni più vaste e più lontane rispetto al centro romano della cattolicità.
Con analoga approssimazione si potrebbe dire che Karol Wojtyla, Papa slavo, guardava in primis all’Europa centro-orientale, dov’è riuscito a visitare 9 volte la sua patria e dove — caduto l’impero sovietico — ha potuto vedere in ordine di tempo Cecoslovacchia, Albania, Lituania, Lettonia, Estonia, Croazia, Slovenia, Berlino, Bosnia, Romania, Georgia, Ucraina, Kazakistan, Armenia, Azerbaigian, Bulgaria.
Il cuore di Benedetto batteva invece per l’Europa centro-occidentale: nei suoi otto anni è tornato tre volte nella sua patria ed è riuscito a vedere — nell’ordine — Polonia, Spagna, Austria, Francia, Repubblica Ceca, Malta, Portogallo, Gran Bretagna, Croazia. Egli — che è stato definito provvisoriamente «l’ultimo Papa europeo» — era preoccupato per la crisi delle Chiese del Vecchio continente e si adoperava, come poteva, a risvegliarle.
Ma in questi primi tre anni del Pontificato di Francesco c’è di più degli spostamenti sul pianeta per cogliere qualcosa della strategia che lo muove. La sua idea della Chiesa in uscita è un’idea missionaria a tutto campo, che — nell’intenzione — non sottostà a nessuna regola politica o ideologica e mira anzi a sovvertirle, o eluderle, per ottenere l’obiettivo di avvicinamento a ogni umanità. Eccolo dunque che prende iniziative apparentemente impossibili, si muove con libertà, non pone condizioni formali o di prestigio. Si preoccupa — per usare il suo linguaggio — di «avviare processi» più che di acquisire «territori», cioè obiettivi. Stabilisce contatti, propone incontri. Si espone disarmato a ogni strumentalizzazione. È convinto che ostilità ed equivoci alla fine cadranno se il cammino avviato proseguirà.
venerdì 12 febbraio 2016
il manifesto 12.2.16
La sinistra unita in Europa la fanno plurale
Sabato a Roma un confronto per non contrapporre i processi di riaggregazione
di Paolo Ferrero
Sabato 13 si terrà a Roma, organizzato da Rifondazione comunista con il partito della Sinistra europea, un convegno dal titolo «Sinistra: in Europa la fanno plurale». Vi saranno molti ospiti europei — ed un intervento di un rappresentante del Frente Amplio uruguaiano — a testimoniare come la maggioranza delle forze politiche della sinistra antiliberista siano nate e cresciute in alternativa ai socialisti, come esperienze plurali, non come partiti monolitici.
La tesi che vogliamo proporre è semplice: in Italia serve una forza politica che diventi il punto di riferimento popolare per una alternativa antiliberista di sinistra.
Affinché questo sia possibile servono tre condizioni: che questa forza sia autonoma ed alternativa politicamente e culturalmente al Pd, al fine di costruire un polo politico , non l’ala sinistra del centrosinistra. Che sia unitaria, perché solo il tratto unitario rende credibile ed efficace la costruzione di uno spazio pubblico di aggregazione che vada molto oltre i confini di chi oggi sta nei partiti. Infine che abbia un carattere democratico e partecipativo, rifiuti la riedizione di forme pattizie che impediscono alle persone di contare effettivamente e determini un rinnovamento del personale politico, a partire dai volti più noti, come quello del sottoscritto. Ogni ambiguità su questi punti riproporrebbe errori già commessi negli ultimi vent’anni di divisioni a sinistra. Non possiamo permettercelo.
Per questo rispettiamo la proposta lanciata da Sel e di Sinistra Italiana di fare un nuovo partito, ma riteniamo dannoso che questo venga contrapposto all’avvio di un processo costituente di un soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista.
Il convegno di sabato vuole essere un momento di approfondimento e proposta sulle forme della politica.
In Italia vi sono centinaia di migliaia di uomini e donne di sinistra, impegnati su più versanti, che non fanno parte di alcun partito. L’aggregazione di questa militanza diffusa è decisiva per costruire una sinistra antiliberista che dia vita ad una organizzazione e ad un processo partecipativo popolare.
Per aggregare queste persone è necessario un processo unitario che riconosca e valorizzi la pluralità delle appartenenze e delle forme di impegno sociale, culturale, politico, nei movimenti. In cui possano sentirsi a casa comunisti, socialisti, ambientalisti o chi ritiene che queste siano definizioni ideologiche sorpassate, senza che questo venga messo ai voti. In cui le differenze siano nominate e riconosciute ma non diventino elemento divisivo perché la ragione fondativa del processo unitario è la comune lotta contro il neoliberismo.
In cui non si chiedano scioglimenti di organizzazioni o partiti purché questi accettino la piena sovranità del soggetto unitario per quanto riguarda la rappresentanza istituzionale, la definizione del programma, la scelta dei gruppi dirigenti.
Un processo unitario e non due o tre, perché l’unitarietà è la condizione della sua credibilità ed efficacia. Senza chiedere a nessuno di “accasarsi” sotto l’ala di qualcuno ma costruendo insieme la casa comune della sinistra in forme democratiche — una testa un voto — mettendo al centro la costruzione della proposta e dell’iniziativa politica.
Sabato discuteremo cioè di come fare un soggetto unitario e plurale che si concentri sul 90 per cento che ci unisce e lasci fuori dalla porta il 10 per cento che ci divide.
Da questo punto di vista, le esperienze di aggregazione, chiaramente alternative al Pd e nel contempo plurali e partecipate che si stanno costruendo in varie città italiane, sono un incoraggiante segno di speranza, testimoniato dalla bella intervista che ha dato al manifesto qualche giorno fa Giorgio Airaudo, candidato sindaco a Torino.
Noi, con quelle caratteristiche, vorremmo costruire un soggetto politico unitario.
Paolo Ferrero è il segretario del Partito della Rifondazione comunista
La sinistra unita in Europa la fanno plurale
Sabato a Roma un confronto per non contrapporre i processi di riaggregazione
di Paolo Ferrero
Sabato 13 si terrà a Roma, organizzato da Rifondazione comunista con il partito della Sinistra europea, un convegno dal titolo «Sinistra: in Europa la fanno plurale». Vi saranno molti ospiti europei — ed un intervento di un rappresentante del Frente Amplio uruguaiano — a testimoniare come la maggioranza delle forze politiche della sinistra antiliberista siano nate e cresciute in alternativa ai socialisti, come esperienze plurali, non come partiti monolitici.
La tesi che vogliamo proporre è semplice: in Italia serve una forza politica che diventi il punto di riferimento popolare per una alternativa antiliberista di sinistra.
Affinché questo sia possibile servono tre condizioni: che questa forza sia autonoma ed alternativa politicamente e culturalmente al Pd, al fine di costruire un polo politico , non l’ala sinistra del centrosinistra. Che sia unitaria, perché solo il tratto unitario rende credibile ed efficace la costruzione di uno spazio pubblico di aggregazione che vada molto oltre i confini di chi oggi sta nei partiti. Infine che abbia un carattere democratico e partecipativo, rifiuti la riedizione di forme pattizie che impediscono alle persone di contare effettivamente e determini un rinnovamento del personale politico, a partire dai volti più noti, come quello del sottoscritto. Ogni ambiguità su questi punti riproporrebbe errori già commessi negli ultimi vent’anni di divisioni a sinistra. Non possiamo permettercelo.
Per questo rispettiamo la proposta lanciata da Sel e di Sinistra Italiana di fare un nuovo partito, ma riteniamo dannoso che questo venga contrapposto all’avvio di un processo costituente di un soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista.
Il convegno di sabato vuole essere un momento di approfondimento e proposta sulle forme della politica.
In Italia vi sono centinaia di migliaia di uomini e donne di sinistra, impegnati su più versanti, che non fanno parte di alcun partito. L’aggregazione di questa militanza diffusa è decisiva per costruire una sinistra antiliberista che dia vita ad una organizzazione e ad un processo partecipativo popolare.
Per aggregare queste persone è necessario un processo unitario che riconosca e valorizzi la pluralità delle appartenenze e delle forme di impegno sociale, culturale, politico, nei movimenti. In cui possano sentirsi a casa comunisti, socialisti, ambientalisti o chi ritiene che queste siano definizioni ideologiche sorpassate, senza che questo venga messo ai voti. In cui le differenze siano nominate e riconosciute ma non diventino elemento divisivo perché la ragione fondativa del processo unitario è la comune lotta contro il neoliberismo.
In cui non si chiedano scioglimenti di organizzazioni o partiti purché questi accettino la piena sovranità del soggetto unitario per quanto riguarda la rappresentanza istituzionale, la definizione del programma, la scelta dei gruppi dirigenti.
Un processo unitario e non due o tre, perché l’unitarietà è la condizione della sua credibilità ed efficacia. Senza chiedere a nessuno di “accasarsi” sotto l’ala di qualcuno ma costruendo insieme la casa comune della sinistra in forme democratiche — una testa un voto — mettendo al centro la costruzione della proposta e dell’iniziativa politica.
Sabato discuteremo cioè di come fare un soggetto unitario e plurale che si concentri sul 90 per cento che ci unisce e lasci fuori dalla porta il 10 per cento che ci divide.
Da questo punto di vista, le esperienze di aggregazione, chiaramente alternative al Pd e nel contempo plurali e partecipate che si stanno costruendo in varie città italiane, sono un incoraggiante segno di speranza, testimoniato dalla bella intervista che ha dato al manifesto qualche giorno fa Giorgio Airaudo, candidato sindaco a Torino.
Noi, con quelle caratteristiche, vorremmo costruire un soggetto politico unitario.
Paolo Ferrero è il segretario del Partito della Rifondazione comunista
il manifesto 12.2.16
Herzog sempre più a destra propone “Piano di separazione”
Israele/Territori Occupati. Per il leader laburista non esistono le condizioni per realizzare ora la soluzione dei "Due Stati" ed occorre completare il Muro e separare decine di sobborghi e quartieri arabi da Gerusalemme. Il premier di destra Netanyahu gongola.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Sempre più a destra, superando se possibile anche il Likud del premier Benyamin Netanyahu. Il partito laburista israeliano nei giorni scorsi ha approvato all’unanimità il “Piano di separazione” dai palestinesi proposto dal suo leader Yitzhak Herzog che di fatto fissa altri chiodi nella bara in cui è ormai chiuso lo Stato di Palestina. Herzog e i laburisti affermano di aver compreso che non esistono le condizioni per realizzare ora la soluzione dei “Due Stati”. E «avendo constatato» che si è molto lontani da un accordo con i palestinesi, ritengono «opportuno» completare il Muro costruito da Israele all’interno della Cisgiordania e separare decine di sobborghi e quartieri arabi da Gerusalemme. Per il premier Netanyahu è stato un invito a nozze. «Buongiorno, Bougie», ha commentato divertito il premier durante un dibattito alla Knesset usando il soprannome di Herzog. «Sembra che tu sia l’ultimo a rendersi conto della realtà», ha aggiunto. Netanyahu è apparso persino più conciliante del capo dei laburisti quando ha affermato di essere a favore dei “Due Stati”, precisando però che non esistono le condizioni per la creazione di uno Stato palestinese a causa della «minaccia terroristica».
Da quando è cominciata l’Intifada di Gerusalemme, Herzog ha adottato un linguaggio da estrema destra: pugno di ferro, repressione, chiusura di aree palestinesi. E ha spesso accusato Netanyahu di non essere in grado di domare la rivolta palestinese e «di garantire la sicurezza dei cittadini israeliani». Infine il leader laburista ha presentato il suo “Piano di separazione” per impedire, ha detto, che il governo di destra finisca per creare, di fatto, uno Stato binazionale su tutto il territorio della Palestina storica, con ebrei e palestinesi insieme, tradendo l’impresa sionista di dare vita a uno Stato per ebrei. Non soddisfatto di aver ottenuto il via libera dell’assemblea del suo partito (alleato del partito Hatnua dell’ex ministro degli esteri Tzipi Livni), Herzog lunedì è andato a spiegare le sue idee a una conferenza organizzata dal giornale nazionalista religioso Besheva. Un incontro al quale ha preso parte anche il centrista Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, che ha colto l’occasione per esprimere, anche lui, posizioni molto vicine alla destra ultranazionalista.
Il piano di Herzog supera a destra il “ridispiegamento unilaterale” attuato nel 2005 dallo scomparso primo ministro Ariel Sharon con il ritiro da Gaza di soldati e coloni israeliani. Con la costruzione di nuovi muri e barriere e la costituzione di aree separate, senza affermarlo in modo esplicito, mira a chiudere ermeticamente le città e i distretti palestinesi sulla base solo delle esigenze territoriali di Israele, ponendole sotto un controllo militare ancora più stretto. Il docente Neve Gordon, dell’università Ben Gurion di Bersheeva, ha commentato sul sito di Al Jazeera che non siamo di fronte a un ritiro di Israele dai Territori occupati bensì «a un modo subdolo di radicare ancora di più l’impresa coloniale». Le idee di Herzog, ha aggiunto Gordon, sono un altro passo «per il consolidamento e la legittimazione del governo dell’apartheid». Il piano, ha spiegato, «promuove sfacciatamente dei bantustan» pur prevedendo in apparenza una maggiore autonomia palestinese.
Un aspetto centrale della soluzione laburista è la separazione di sobborghi e quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, a cominciare da Issawya e dal campo profughi di Shuaffat, in modo da consolidare l’annessione (non riconosciuta dalla comunità internazionale) di tutta la Città Santa a Israele e, allo stesso tempo, ridurre sensibilmente la percentuale di popolazione palestinese dentro i confini municipali di Gerusalemme. Herzog è certo che le sue idee saranno abbracciate dalla maggioranza degli israeliani che come lui vogliono «separarsi» dai palestinesi. Nel partito pochi lo contestano. Solo la sua rivale Shelly Yachimovich lo accusa, timidamente, di inseguire la destra. Anche i leader dell’Anp restano in silenzio. Forse pensano che il piano Herzog crei indirettamente le fondamenta per la nascita dello Stato di Palestina mentre davanti a loro hanno solo delle riserve indiane. Intanto ieri 40 abitazioni palestinesi sono state distrutte dall’esercito israeliano nella Valle del Giordano.
Herzog sempre più a destra propone “Piano di separazione”
Israele/Territori Occupati. Per il leader laburista non esistono le condizioni per realizzare ora la soluzione dei "Due Stati" ed occorre completare il Muro e separare decine di sobborghi e quartieri arabi da Gerusalemme. Il premier di destra Netanyahu gongola.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Sempre più a destra, superando se possibile anche il Likud del premier Benyamin Netanyahu. Il partito laburista israeliano nei giorni scorsi ha approvato all’unanimità il “Piano di separazione” dai palestinesi proposto dal suo leader Yitzhak Herzog che di fatto fissa altri chiodi nella bara in cui è ormai chiuso lo Stato di Palestina. Herzog e i laburisti affermano di aver compreso che non esistono le condizioni per realizzare ora la soluzione dei “Due Stati”. E «avendo constatato» che si è molto lontani da un accordo con i palestinesi, ritengono «opportuno» completare il Muro costruito da Israele all’interno della Cisgiordania e separare decine di sobborghi e quartieri arabi da Gerusalemme. Per il premier Netanyahu è stato un invito a nozze. «Buongiorno, Bougie», ha commentato divertito il premier durante un dibattito alla Knesset usando il soprannome di Herzog. «Sembra che tu sia l’ultimo a rendersi conto della realtà», ha aggiunto. Netanyahu è apparso persino più conciliante del capo dei laburisti quando ha affermato di essere a favore dei “Due Stati”, precisando però che non esistono le condizioni per la creazione di uno Stato palestinese a causa della «minaccia terroristica».
Da quando è cominciata l’Intifada di Gerusalemme, Herzog ha adottato un linguaggio da estrema destra: pugno di ferro, repressione, chiusura di aree palestinesi. E ha spesso accusato Netanyahu di non essere in grado di domare la rivolta palestinese e «di garantire la sicurezza dei cittadini israeliani». Infine il leader laburista ha presentato il suo “Piano di separazione” per impedire, ha detto, che il governo di destra finisca per creare, di fatto, uno Stato binazionale su tutto il territorio della Palestina storica, con ebrei e palestinesi insieme, tradendo l’impresa sionista di dare vita a uno Stato per ebrei. Non soddisfatto di aver ottenuto il via libera dell’assemblea del suo partito (alleato del partito Hatnua dell’ex ministro degli esteri Tzipi Livni), Herzog lunedì è andato a spiegare le sue idee a una conferenza organizzata dal giornale nazionalista religioso Besheva. Un incontro al quale ha preso parte anche il centrista Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, che ha colto l’occasione per esprimere, anche lui, posizioni molto vicine alla destra ultranazionalista.
Il piano di Herzog supera a destra il “ridispiegamento unilaterale” attuato nel 2005 dallo scomparso primo ministro Ariel Sharon con il ritiro da Gaza di soldati e coloni israeliani. Con la costruzione di nuovi muri e barriere e la costituzione di aree separate, senza affermarlo in modo esplicito, mira a chiudere ermeticamente le città e i distretti palestinesi sulla base solo delle esigenze territoriali di Israele, ponendole sotto un controllo militare ancora più stretto. Il docente Neve Gordon, dell’università Ben Gurion di Bersheeva, ha commentato sul sito di Al Jazeera che non siamo di fronte a un ritiro di Israele dai Territori occupati bensì «a un modo subdolo di radicare ancora di più l’impresa coloniale». Le idee di Herzog, ha aggiunto Gordon, sono un altro passo «per il consolidamento e la legittimazione del governo dell’apartheid». Il piano, ha spiegato, «promuove sfacciatamente dei bantustan» pur prevedendo in apparenza una maggiore autonomia palestinese.
Un aspetto centrale della soluzione laburista è la separazione di sobborghi e quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, a cominciare da Issawya e dal campo profughi di Shuaffat, in modo da consolidare l’annessione (non riconosciuta dalla comunità internazionale) di tutta la Città Santa a Israele e, allo stesso tempo, ridurre sensibilmente la percentuale di popolazione palestinese dentro i confini municipali di Gerusalemme. Herzog è certo che le sue idee saranno abbracciate dalla maggioranza degli israeliani che come lui vogliono «separarsi» dai palestinesi. Nel partito pochi lo contestano. Solo la sua rivale Shelly Yachimovich lo accusa, timidamente, di inseguire la destra. Anche i leader dell’Anp restano in silenzio. Forse pensano che il piano Herzog crei indirettamente le fondamenta per la nascita dello Stato di Palestina mentre davanti a loro hanno solo delle riserve indiane. Intanto ieri 40 abitazioni palestinesi sono state distrutte dall’esercito israeliano nella Valle del Giordano.
il manifesto 12.2.16
La recessione globale
Economia. Arriva la tempesta l’Italia sprofonda. E non è questione di decimali.
di Alfonso Gianni
La festa è già finita, anche se i gaudenti non raggiungevano neppure quel fatidico uno per cento che separa i ricchi dal restante 99 della popolazione mondiale. Dopo la chiusura in risalita di ieri, le borse di tutto il mondo sono sprofondate. La peggiore performance è quella di Milano. Il più 5,03% dell’altro ieri è stato polverizzato da un meno 5,6%. Perdono Parigi, Londra, Francoforte, mentre Shanghai, Tokyo e Taipei sono state salvate dalla chiusura per festività. Ma Hong Kong ha chiuso con meno 4 e Wall Street ha aperto in forte calo sulla scia negativa delle borse europee. Una botta recessiva mondiale.
Milano è stata la peggiore di tutte. Pesa la situazione disastrata del settore bancario, in un quadro europeo che lo vede mal messo da tempo. L’indice paneuropeo FTSEuro first 300 a fine mattinata perdeva il 3,5%, rimangiandosi abbondantemente i rialzi del giorno prima. Dall’inizio di febbraio l’indice ha lasciato per le terre quasi l’11%. Ci avviamo con rapido passo verso una perdita mensile quale non si era vista dal 2008. In Italia il settore bancario, di cui tutti vantavano la straordinaria solidità, dal Presidente del Consiglio al Governatore di Bankitalia, è in sprofondo rosso. Mps è arretrata del 10,5%, Unicredit del 8,9%, Mediobanca del 9,96%.
Intanto il differenziale di rendimento, lo spread, fra Btp italiano e il Bund tedesco (quest’ultimo ormai con rendimenti negativi) viaggia sui 155 punti. Più o meno a metà strada fra il luglio 2011, quando era sopra i 200 punti, e il febbraio dello scorso anno quando varcava al ribasso la soglia dei 100 punti per la prima volta dopo cinque anni di crisi. Si torna indietro quindi e di parecchio. I timori di una nuova fase acuta recessiva sono tutt’altro che infondati. Anche perché il cane della crisi si morde la coda.
Alla base del tonfo di ieri vi sono varie cause, diverse e contemporanee. Alcune più contingenti, altre più strutturali. Solo che si sommano tra loro provocando effetti shock. Certamente ha pesato la decisione della Fed di rinunciare per il momento al rialzo, seppure modestissimo dei tassi. Il che indica – ed è questo che conta – che la Yellen ha percepito dagli ultimi dati che l’economia americana non è più in fase di sicura ripresa come sembrava fino a poco tempo fa e che l’occupazione, indicatore chiave per la Fed a differenza che per la Bce, segna il passo. Lo sanno bene coloro che sono corsi a votare nelle primarie democratiche per Bernie Sanders.
Tutto diventa così più incerto a livello globale. Il petrolio continua la sua corsa al ribasso. Ne soffrono i paesi produttori e al contempo dimostra che nei paesi importatori – vedi la Cina – l’economia non riprende quota. Siamo giunti a 27 dollari al barile e per converso l’oro – la “barbara reliquia” come la definì Keynes – rispolvera i fasti di bene rifugio, riportando l’oncia a quota 1.214 dollari.
L’ottovolante delle Borse non può tuttavia essere spiegato solo con la fragilità psicologica degli investitori. Piuttosto con le contraddizioni intrinseche del mercato finanziario globale, che sono concatenate tra loro e quindi si alimentano a vicenda. Le Borse sono “vittime” di vendite forzate di titoli azionari. Ovvero non spinte da puri disegni speculativi — anche quelli intendiamoci — ma quasi obbligate dal concatenarsi di situazioni sfavorevoli. Chi ha preso denaro in prestito ponendo azioni in garanzia, ora che il mercato azionistico vacilla si trova costretto a reintegrare quelle garanzie. Lo fa con altro denaro o con altre azioni. Se non ne ha, le banche vendono le azioni in loro possesso. Visto il calo del prezzo del petrolio, molti fondi sovrani alimentati da petrodollari sono spinti a liquidare titoli in loro possesso. Si parla di 300 miliardi di dollari in pochi mesi.
I fondi pensione e le assicurazioni a loro volta per erogare i tassi minimi che garantivano (tra l’1% e il 1,5%) si sono riempiti di Bund. Ma se il rendimento dei Bund trentennali è al di sotto, devono comprare le opportune “protezioni” sul mercato finanziario. Ad esempio futures sui Bund che ne deprimono ulteriormente i rendimenti.
Dal canto loro le banche, in primis quelle italiane, si sono riempite di denaro a basso costo elargito dalla Bce. Ma non l’hanno prestato, anche per aumentare il patrimonio e in vista dall’entrata in funzione del bail in. Che peraltro sarebbe stato molto meglio procrastinare, visto anche che non vi è alcuna garanzia europea sui depositi bancari per l’opposizione tedesca. L’aumento dello spread ora le penalizza. Infatti con quel denaro hanno ricomprato titoli di stato sul mercato e ne sono piene.
Se questi sono considerati più rischiosi, la banca viene percepita come più insicura e più costoso diventa il suo finanziamento. Quindi stringono la cinghia. I mutui tornano a tassi più elevati; i prestiti a famiglie e imprese diminuiscono o si bloccano del tutto. La domanda di consumi e di investimenti si deprime ulteriormente. L’economia italiana sprofonda. E non è questione di decimali.
La recessione globale
Economia. Arriva la tempesta l’Italia sprofonda. E non è questione di decimali.
di Alfonso Gianni
La festa è già finita, anche se i gaudenti non raggiungevano neppure quel fatidico uno per cento che separa i ricchi dal restante 99 della popolazione mondiale. Dopo la chiusura in risalita di ieri, le borse di tutto il mondo sono sprofondate. La peggiore performance è quella di Milano. Il più 5,03% dell’altro ieri è stato polverizzato da un meno 5,6%. Perdono Parigi, Londra, Francoforte, mentre Shanghai, Tokyo e Taipei sono state salvate dalla chiusura per festività. Ma Hong Kong ha chiuso con meno 4 e Wall Street ha aperto in forte calo sulla scia negativa delle borse europee. Una botta recessiva mondiale.
Milano è stata la peggiore di tutte. Pesa la situazione disastrata del settore bancario, in un quadro europeo che lo vede mal messo da tempo. L’indice paneuropeo FTSEuro first 300 a fine mattinata perdeva il 3,5%, rimangiandosi abbondantemente i rialzi del giorno prima. Dall’inizio di febbraio l’indice ha lasciato per le terre quasi l’11%. Ci avviamo con rapido passo verso una perdita mensile quale non si era vista dal 2008. In Italia il settore bancario, di cui tutti vantavano la straordinaria solidità, dal Presidente del Consiglio al Governatore di Bankitalia, è in sprofondo rosso. Mps è arretrata del 10,5%, Unicredit del 8,9%, Mediobanca del 9,96%.
Intanto il differenziale di rendimento, lo spread, fra Btp italiano e il Bund tedesco (quest’ultimo ormai con rendimenti negativi) viaggia sui 155 punti. Più o meno a metà strada fra il luglio 2011, quando era sopra i 200 punti, e il febbraio dello scorso anno quando varcava al ribasso la soglia dei 100 punti per la prima volta dopo cinque anni di crisi. Si torna indietro quindi e di parecchio. I timori di una nuova fase acuta recessiva sono tutt’altro che infondati. Anche perché il cane della crisi si morde la coda.
Alla base del tonfo di ieri vi sono varie cause, diverse e contemporanee. Alcune più contingenti, altre più strutturali. Solo che si sommano tra loro provocando effetti shock. Certamente ha pesato la decisione della Fed di rinunciare per il momento al rialzo, seppure modestissimo dei tassi. Il che indica – ed è questo che conta – che la Yellen ha percepito dagli ultimi dati che l’economia americana non è più in fase di sicura ripresa come sembrava fino a poco tempo fa e che l’occupazione, indicatore chiave per la Fed a differenza che per la Bce, segna il passo. Lo sanno bene coloro che sono corsi a votare nelle primarie democratiche per Bernie Sanders.
Tutto diventa così più incerto a livello globale. Il petrolio continua la sua corsa al ribasso. Ne soffrono i paesi produttori e al contempo dimostra che nei paesi importatori – vedi la Cina – l’economia non riprende quota. Siamo giunti a 27 dollari al barile e per converso l’oro – la “barbara reliquia” come la definì Keynes – rispolvera i fasti di bene rifugio, riportando l’oncia a quota 1.214 dollari.
L’ottovolante delle Borse non può tuttavia essere spiegato solo con la fragilità psicologica degli investitori. Piuttosto con le contraddizioni intrinseche del mercato finanziario globale, che sono concatenate tra loro e quindi si alimentano a vicenda. Le Borse sono “vittime” di vendite forzate di titoli azionari. Ovvero non spinte da puri disegni speculativi — anche quelli intendiamoci — ma quasi obbligate dal concatenarsi di situazioni sfavorevoli. Chi ha preso denaro in prestito ponendo azioni in garanzia, ora che il mercato azionistico vacilla si trova costretto a reintegrare quelle garanzie. Lo fa con altro denaro o con altre azioni. Se non ne ha, le banche vendono le azioni in loro possesso. Visto il calo del prezzo del petrolio, molti fondi sovrani alimentati da petrodollari sono spinti a liquidare titoli in loro possesso. Si parla di 300 miliardi di dollari in pochi mesi.
I fondi pensione e le assicurazioni a loro volta per erogare i tassi minimi che garantivano (tra l’1% e il 1,5%) si sono riempiti di Bund. Ma se il rendimento dei Bund trentennali è al di sotto, devono comprare le opportune “protezioni” sul mercato finanziario. Ad esempio futures sui Bund che ne deprimono ulteriormente i rendimenti.
Dal canto loro le banche, in primis quelle italiane, si sono riempite di denaro a basso costo elargito dalla Bce. Ma non l’hanno prestato, anche per aumentare il patrimonio e in vista dall’entrata in funzione del bail in. Che peraltro sarebbe stato molto meglio procrastinare, visto anche che non vi è alcuna garanzia europea sui depositi bancari per l’opposizione tedesca. L’aumento dello spread ora le penalizza. Infatti con quel denaro hanno ricomprato titoli di stato sul mercato e ne sono piene.
Se questi sono considerati più rischiosi, la banca viene percepita come più insicura e più costoso diventa il suo finanziamento. Quindi stringono la cinghia. I mutui tornano a tassi più elevati; i prestiti a famiglie e imprese diminuiscono o si bloccano del tutto. La domanda di consumi e di investimenti si deprime ulteriormente. L’economia italiana sprofonda. E non è questione di decimali.
il manifesto 12.2.16
Etruria fallita, Boschi nei guai
Inchieste. Il tribunale fallimentare certifica l'insolvenza della vecchia Bpel. La procura aretina acquisisce la sentenza per indagare sulla bancarotta fraudolenta. Coinvolto fra gli altri Pier Luigi Boschi, padre della ministra delle riforme. I risparmiatori spennati pronti a costituirsi parte civile al futuro processo
di Riccardo Chiari
AREZZO Ad un anno esatto dal commissariamento di Bankitalia, ora è ufficiale: la vecchia Banca popolare dell’Etruria e del Lazio chiuse bottega in stato di insolvenza. In parole povere era fallita, quando il 22 novembre scorso il decreto salvabanche del governo mise una piccola toppa al gigantesco buco. Con lo scorporo delle attività creditizie ancora salvabili, confluite nella nuova Banca Etruria, e le sofferenze miliardarie nella bad bank comune con gli altri tre istituti di credito finiti in liquidazione coatta amministrativa: Banca Marche, CariFerrara e CariChieti.
La decisione dei giudici del tribunale fallimentare di Arezzo era attesa soprattutto dai 1.600 fra piccoli azionisti e sub-obbligazionisti di Etruria, incastrati nei meccanismi del decreto salvabanche che non dava loro la possibilità di riavere i loro soldi. “Ora possono costituirsi parte offesa – spiega Pietro Ferrari di Federconsumatori Toscana – e noi li inviteremo a farlo, perché diventino parte civile al processo penale”. Processo che prima o poi ci sarà, con l’accusa di bancarotta fraudolenta a carico di tutti gli ex amministratori della Bpel dal 2012–13 in poi. Compreso Pier Luigi Boschi, ultimo vicepresidente della vecchia Etruria e padre della ministra delle riforme Maria Elena Boschi.
Il deposito delle 15 pagine della sentenza del tribunale fallimentare, redatta dalla presidente Galantino e dei giudici Picardi e Masetti, era atteso anche dalla procura aretina. E dal primo piano del palazzo di giustizia il documento è salito subito al terzo, nell’ufficio del procuratore capo Roberto Rossi. Che ora aprirà un fascicolo per bancarotta fraudolenta, sulla base della sentenza e della relazione del commissario liquidatore, Giuseppe Santoni. Secondo la quale il buco di Etruria ammonta in totale a 1,167 miliardi, con circa 305 milioni di euro di debito ancora a carico di ciò che resta della vecchia banca.
Più in dettaglio, nella relazione che ha accompagnato la richiesta di insolvenza è stato segnalato che la vecchia Etruria aveva 587 milioni di deficit accumulato al 30 settembre, e altri 580 al momento della liquidazione del 22 novembre. Di più: c’erano 305 milioni che la banca non era in grado di restituire sia al fondo di risoluzione interbancario (283 milioni) che ad alcune categorie di sub-obbligazionisti (22 milioni). Infine Santoni ha segnalato una serie di consulenze illegittime, o dichiaratamente illecite, per complessivi 17 milioni.
Proprio queste consulenze, insieme ai fidi concessi a clienti “eccellenti” e poi finiti nel calderone delle sofferenze, e ai compensi anche milionari degli amministratori Bpel, sono il carburante dell’inchiesta per bancarotta fraudolenta. Del resto lo stesso Santoni, nell’udienza di lunedì scorso al tribunale fallimentare, aveva evidenziato come il crack di Etruria fosse stato provocato da operazioni di dissipazione del patrimonio. Attuate, anche secondo i risultati delle ripetute ispezioni di Bankitalia, da chi era stato seduto sulla plancia di comando e nel cda della Bpel negli ultimi tre anni. Alcuni nomi: si va dall’ultimo presidente Lorenzo Rosi e dai suoi vice Alfredo Berni e Pierluigi Boschi, al commercialista “tuttofare” e membro fisso del cda Luciano Nataloni, fino ai passati esponenti di vertice Giuseppe Fornasari e Luca Bronchi.
Per il procuratore Rossi, tuttora in bilico perché il Csm sta verificando una sua eventuale incompatibilità all’ufficio per alcuni suoi “silenzi” su vecchie — e quasi tutte archiviate – indagini su Pier Luigi Boschi, quella sulla bancarotta sarebbe la sesta inchiesta su Etruria. Gli altri cinque filoni riguardano l’ostacolo alla vigilanza di Bankitalia, per il quale il 10 marzo andranno da vanti al gip Giuseppe Fornasari, Luca Bronchi e David Canestri. Poi le false fatturazioni, a carico di Fornasari e Bronchi. Ancora, il conflitto di interessi che vede indagati Lorenzo Rosi e Luciano Nataloni. Infine la truffa ai risparmiatori per le sub-obbligazioni. E l’indagine per insider trading sul caso dei 228 milioni usciti dalle casse della Bpel nelle sei settimane precedenti il decreto salvabanche.
Etruria fallita, Boschi nei guai
Inchieste. Il tribunale fallimentare certifica l'insolvenza della vecchia Bpel. La procura aretina acquisisce la sentenza per indagare sulla bancarotta fraudolenta. Coinvolto fra gli altri Pier Luigi Boschi, padre della ministra delle riforme. I risparmiatori spennati pronti a costituirsi parte civile al futuro processo
di Riccardo Chiari
AREZZO Ad un anno esatto dal commissariamento di Bankitalia, ora è ufficiale: la vecchia Banca popolare dell’Etruria e del Lazio chiuse bottega in stato di insolvenza. In parole povere era fallita, quando il 22 novembre scorso il decreto salvabanche del governo mise una piccola toppa al gigantesco buco. Con lo scorporo delle attività creditizie ancora salvabili, confluite nella nuova Banca Etruria, e le sofferenze miliardarie nella bad bank comune con gli altri tre istituti di credito finiti in liquidazione coatta amministrativa: Banca Marche, CariFerrara e CariChieti.
La decisione dei giudici del tribunale fallimentare di Arezzo era attesa soprattutto dai 1.600 fra piccoli azionisti e sub-obbligazionisti di Etruria, incastrati nei meccanismi del decreto salvabanche che non dava loro la possibilità di riavere i loro soldi. “Ora possono costituirsi parte offesa – spiega Pietro Ferrari di Federconsumatori Toscana – e noi li inviteremo a farlo, perché diventino parte civile al processo penale”. Processo che prima o poi ci sarà, con l’accusa di bancarotta fraudolenta a carico di tutti gli ex amministratori della Bpel dal 2012–13 in poi. Compreso Pier Luigi Boschi, ultimo vicepresidente della vecchia Etruria e padre della ministra delle riforme Maria Elena Boschi.
Il deposito delle 15 pagine della sentenza del tribunale fallimentare, redatta dalla presidente Galantino e dei giudici Picardi e Masetti, era atteso anche dalla procura aretina. E dal primo piano del palazzo di giustizia il documento è salito subito al terzo, nell’ufficio del procuratore capo Roberto Rossi. Che ora aprirà un fascicolo per bancarotta fraudolenta, sulla base della sentenza e della relazione del commissario liquidatore, Giuseppe Santoni. Secondo la quale il buco di Etruria ammonta in totale a 1,167 miliardi, con circa 305 milioni di euro di debito ancora a carico di ciò che resta della vecchia banca.
Più in dettaglio, nella relazione che ha accompagnato la richiesta di insolvenza è stato segnalato che la vecchia Etruria aveva 587 milioni di deficit accumulato al 30 settembre, e altri 580 al momento della liquidazione del 22 novembre. Di più: c’erano 305 milioni che la banca non era in grado di restituire sia al fondo di risoluzione interbancario (283 milioni) che ad alcune categorie di sub-obbligazionisti (22 milioni). Infine Santoni ha segnalato una serie di consulenze illegittime, o dichiaratamente illecite, per complessivi 17 milioni.
Proprio queste consulenze, insieme ai fidi concessi a clienti “eccellenti” e poi finiti nel calderone delle sofferenze, e ai compensi anche milionari degli amministratori Bpel, sono il carburante dell’inchiesta per bancarotta fraudolenta. Del resto lo stesso Santoni, nell’udienza di lunedì scorso al tribunale fallimentare, aveva evidenziato come il crack di Etruria fosse stato provocato da operazioni di dissipazione del patrimonio. Attuate, anche secondo i risultati delle ripetute ispezioni di Bankitalia, da chi era stato seduto sulla plancia di comando e nel cda della Bpel negli ultimi tre anni. Alcuni nomi: si va dall’ultimo presidente Lorenzo Rosi e dai suoi vice Alfredo Berni e Pierluigi Boschi, al commercialista “tuttofare” e membro fisso del cda Luciano Nataloni, fino ai passati esponenti di vertice Giuseppe Fornasari e Luca Bronchi.
Per il procuratore Rossi, tuttora in bilico perché il Csm sta verificando una sua eventuale incompatibilità all’ufficio per alcuni suoi “silenzi” su vecchie — e quasi tutte archiviate – indagini su Pier Luigi Boschi, quella sulla bancarotta sarebbe la sesta inchiesta su Etruria. Gli altri cinque filoni riguardano l’ostacolo alla vigilanza di Bankitalia, per il quale il 10 marzo andranno da vanti al gip Giuseppe Fornasari, Luca Bronchi e David Canestri. Poi le false fatturazioni, a carico di Fornasari e Bronchi. Ancora, il conflitto di interessi che vede indagati Lorenzo Rosi e Luciano Nataloni. Infine la truffa ai risparmiatori per le sub-obbligazioni. E l’indagine per insider trading sul caso dei 228 milioni usciti dalle casse della Bpel nelle sei settimane precedenti il decreto salvabanche.
il manifesto 12.2.16
Bergoglio torna in America latina. Ma stavolta solo “benedizioni
Messico. Non vedrà le famiglie dei 43 studenti scomparsi a Iguala
di Geraldina Colotti
Francesco Bergoglio torna in America latina. A Luglio, la sua prima visita in Ecuador, Bolivia e Paraguay ha lasciato una traccia profonda nel continente. Attingendo ai meccanismi secolari della diplomazia vaticana, il papa ha saputo parlare alle masse che sostengono la revolucion ciudadana e il socialismo andino, i cui governi si scontrano con la corporazione dei vescovi promossi da Wojtyla; e in Paraguay, dove il vento bolivariano non è ancora arrivato, ha diretto il messaggio pastorale contro la corruzione e i crimini dei “colletti bianchi”, che affliggono tutta la regione.
In Bolivia, è stato accolto dai movimenti popolari voluti da lui in Vaticano per discutere di terra, casa, lavoro e ambiente, e ha ricevuto con qualche imbarazzo la croce a forma di falce e martello che gli ha regalato Evo Morales: una scultura ideata negli anni ’70 da Luis Espinal, un gesuita spagnolo a tinte marxiste, massacrato dalla dittatura militare. Bergoglio si è raccolto nel luogo in cui venne torturato e ucciso nel 1980. E, a Santa Cruz de la Sierra, di fronte al primo presidente aymara della Bolivia, ha chiesto “umilmente perdono per i molti e gravi peccati commessi contro i popoli originari dell’America in nome di Dio”.
Difficile che nel “povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati uniti”, come diceva Porfirio Diaz, il primo papa latinoamericano della storia possa andare oltre la litania di moniti e benedizioni. Certo, dal 12 al 17, visiterà alcuni dei luoghi più colpiti dalla violenza e dalla povertà, dirà messa alla periferia della capitale, visiterà i detenuti, parlerà ai migranti nella città di frontiera di Ciudad Juarez (tristemente nota per il numero di donne ammazzate), si riunirà con gli indigeni del Chiapas e con i clerici della città coloniale di Morelia: ma non con le famiglie dei 43 studenti scomparsi a Iguala, che hanno solo ottenuto un posto in prima fila durante la messa papale. Stringere la mano a Enrique Pena Nieto ma non a loro, diventati il simbolo di quel Messico schiacciato e desaparecido, serve a ricordare i termini della questione quando “i poveri” cessano di essere gregge per farsi il proprio cammino: parametri che restano, anche a voler immaginare “la solitudine di papa Francesco” in un’istituzione che non riesce a riformare. E qui, vale l’attualità di un paragone scomodo, il Venezuela socialista di Nicolas Maduro. Bergoglio ha ricevuto Maduro in Vaticano, e alcune fonti ecclesiastiche sostengono che “il papa bolivariano” sia tutt’altro che ostile.
Tuttavia, le gerarchie ecclesiastiche ultraconservatrici, capitanate dal sacro furore del cardinale Jorge Urosa Savino e dell’arcivescovo Roberto Lückert hanno finora impedito la visita di questo papa in Venezuela. Wojtyla, il papa guerriero che, insieme a Reagan, affossò il socialismo sovietico, è atterrato due volte a Caracas, nel 1985 e nel ’96. In un paese con l’inflazione alle stelle quanto i costi pagati dai settori popolari durante le democrazie modello Fmi, il papa polacco volle visitare il carcere Reten de Catia, che ora non c’è più. Un carcere in mano alla delinquenza – uno stato nello stato governato da reclusi abbandonati a se stessi — in cui non fu possibile lasciarlo entrare. In compenso, si mise un gruppo di guardie a salutarlo dalle finestre delle celle, sostituendole ai detenuti. Ma ora, in un paese che sta cercando di far fronte alla crisi senza tagliare la spesa sociale, dopo il ritorno delle destre in parlamento, le gerarchie ecclesiastiche fanno sapere che il papa Francisco si recherà in Venezuela solo dopo l’eventuale caduta dell’insopportabile operaio del metro, Nicolas Maduro.
Anche il rapporto tra Bergoglio e l’ex presidente argentina Cristina Kirchner non è stato dei più facili all’inizio, ma in seguito un’intesa si è trovata in forza della reciproca consonanza sulle 3 t “tierra, techo, trabajo” (terra, casa e lavoro). E in questo senso pare che ora Bergoglio non apprezzi le politiche liberticide imposte dall’imprenditore Mauricio Macri. Tuttavia, , nonostante i festini “berlusconiani” che accompagnano i ricevimenti di Macri, Bergoglio gli darà udienza in Vaticano il 27 febbraio.
Anche in Messico, figure come il vescovo Samuel Ruiz, scomparso nel 2011, hanno dovuto e devono vedersela con le gerarchie ecclesiastiche e con l’orientamento prevalente della Conferencia dell’episcopado Mexicano (Cem): che comprende 170 vescovi, responsabili di 93 diocesi da cui dipendono 12.500 sacerdoti di 6.750 parrocchie, in maggioranza tradizionaliste e conservatrici per indirizzo vescovile.
Il Messico, che Bergoglio visita per la prima volta da pontefice, è il secondo al mondo per numero di cattolici, dopo il Brasile: 99 milioni su una popolazione di 115 milioni, l’82,7% (e fino a pochi anni fa, il 95%). Un paese che, secondo cifre governative, ha il triste primato delle sparizioni forzate: 27.000 dal 2006, ma – secondo organizzazioni come Amnesty International – potrebbero essere almeno 12.000 in più dall’elezione di Nieto, a dicembre del 2012. Nonostante il fallimento delle politiche per la sicurezza a guida Usa, quest’anno il governo messicano ha aumentato il bilancio per le spese militari. Nei suoi saggi, l’avvocato Sergio Gonzalez Rodriguez, che ha seguito il caso dei 43 studenti scomparsi a Iguala, ricorda che, nel paese, vi sono più di 50 basi militari ad uso esclusivo delle forze Usa, oltre 25.000 agenti dell’intelligence nordamericana che compiono operazioni armate, e che almeno nel 15% delle sparizioni forzate sono coinvolti poliziotti e militari.
E’ andata così anche nei fatti di Iguala, quando polizia e narcotrafficanti hanno attaccato insieme gli autobus su cui viaggiavano gli studenti normalistas, la notte tra il 26 e il 27 settembre del 2014. Quella notte – dice l’avvocato – sono intervenuti anche agenti Usa, e i militari hanno riconosciuto che, fra i 43, c’era un loro infiltrato nella Escuela Normal Rural di Ayotzinapa. Una vicenda in cui lo stato del Guerrero appare l’emblema delle contraddizioni del paese: povertà, disuguaglianza ed esclusione delle fasce più povere della popolazione, in cui sopravvive – come nelle combattive Scuole rurali — l’eredità della guerriglia e della resistenza contadina. Le coltivazioni illegali di droga, spesso l’unica speranza di sopravvivenza, godono dell’appoggio del governo messicano e statunitense. E, come ha ricordato l’inchiesta della giornalista Anabel Fernandez riportando documenti declassificati della Cia e della Dea sul caso Iran-Contras, i grandi cartelli criminali sono stati costruiti nell’ambito della “guerra al comunismo”. E così, dietro la facciata della lotta al narcotraffico, la presenza delle forze militari serve a reprimere l’opposizione sociale e a proteggere gli interessi delle grandi multinazionali nelle zone di estrazione mineraria e negli snodi di più alto traffico e profitto.
Una situazione che dopo la firma dell’Accordo Transpacifico (Tpp) di cui il Messico è pedina centrale in America latina, non farà che peggiorare. Per dare un segnale ai suoi terminali esterni, Pena Nieto, che ha spalancato le porte alle grandi imprese private, ha dato il benservito al suo ex protetto Emilio Lozoya, direttore generale dell’impresa petrolifera di stato Pemex: “La competitività prima di tutto”, ha detto Nieto, tirato per le orecchie dal Fondo monetario internazionale che gli ha ordinato la “riforma energetica”. Ma, a differenza dei lavoratori licenziati, dei contadini poveri e dei migranti che finiscono nelle fosse comuni, Lozoya non avrà certo a soffrirne: lo stipendio di un manager come lui si aggira intorno al mezzo milione al mese. E il miliardario messicano Carlos Slim, uno di quelli che ha organizzato la visita del papa, è il secondo uomo più ricco del mondo.
Bergoglio torna in America latina. Ma stavolta solo “benedizioni
Messico. Non vedrà le famiglie dei 43 studenti scomparsi a Iguala
di Geraldina Colotti
Francesco Bergoglio torna in America latina. A Luglio, la sua prima visita in Ecuador, Bolivia e Paraguay ha lasciato una traccia profonda nel continente. Attingendo ai meccanismi secolari della diplomazia vaticana, il papa ha saputo parlare alle masse che sostengono la revolucion ciudadana e il socialismo andino, i cui governi si scontrano con la corporazione dei vescovi promossi da Wojtyla; e in Paraguay, dove il vento bolivariano non è ancora arrivato, ha diretto il messaggio pastorale contro la corruzione e i crimini dei “colletti bianchi”, che affliggono tutta la regione.
In Bolivia, è stato accolto dai movimenti popolari voluti da lui in Vaticano per discutere di terra, casa, lavoro e ambiente, e ha ricevuto con qualche imbarazzo la croce a forma di falce e martello che gli ha regalato Evo Morales: una scultura ideata negli anni ’70 da Luis Espinal, un gesuita spagnolo a tinte marxiste, massacrato dalla dittatura militare. Bergoglio si è raccolto nel luogo in cui venne torturato e ucciso nel 1980. E, a Santa Cruz de la Sierra, di fronte al primo presidente aymara della Bolivia, ha chiesto “umilmente perdono per i molti e gravi peccati commessi contro i popoli originari dell’America in nome di Dio”.
Difficile che nel “povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati uniti”, come diceva Porfirio Diaz, il primo papa latinoamericano della storia possa andare oltre la litania di moniti e benedizioni. Certo, dal 12 al 17, visiterà alcuni dei luoghi più colpiti dalla violenza e dalla povertà, dirà messa alla periferia della capitale, visiterà i detenuti, parlerà ai migranti nella città di frontiera di Ciudad Juarez (tristemente nota per il numero di donne ammazzate), si riunirà con gli indigeni del Chiapas e con i clerici della città coloniale di Morelia: ma non con le famiglie dei 43 studenti scomparsi a Iguala, che hanno solo ottenuto un posto in prima fila durante la messa papale. Stringere la mano a Enrique Pena Nieto ma non a loro, diventati il simbolo di quel Messico schiacciato e desaparecido, serve a ricordare i termini della questione quando “i poveri” cessano di essere gregge per farsi il proprio cammino: parametri che restano, anche a voler immaginare “la solitudine di papa Francesco” in un’istituzione che non riesce a riformare. E qui, vale l’attualità di un paragone scomodo, il Venezuela socialista di Nicolas Maduro. Bergoglio ha ricevuto Maduro in Vaticano, e alcune fonti ecclesiastiche sostengono che “il papa bolivariano” sia tutt’altro che ostile.
Tuttavia, le gerarchie ecclesiastiche ultraconservatrici, capitanate dal sacro furore del cardinale Jorge Urosa Savino e dell’arcivescovo Roberto Lückert hanno finora impedito la visita di questo papa in Venezuela. Wojtyla, il papa guerriero che, insieme a Reagan, affossò il socialismo sovietico, è atterrato due volte a Caracas, nel 1985 e nel ’96. In un paese con l’inflazione alle stelle quanto i costi pagati dai settori popolari durante le democrazie modello Fmi, il papa polacco volle visitare il carcere Reten de Catia, che ora non c’è più. Un carcere in mano alla delinquenza – uno stato nello stato governato da reclusi abbandonati a se stessi — in cui non fu possibile lasciarlo entrare. In compenso, si mise un gruppo di guardie a salutarlo dalle finestre delle celle, sostituendole ai detenuti. Ma ora, in un paese che sta cercando di far fronte alla crisi senza tagliare la spesa sociale, dopo il ritorno delle destre in parlamento, le gerarchie ecclesiastiche fanno sapere che il papa Francisco si recherà in Venezuela solo dopo l’eventuale caduta dell’insopportabile operaio del metro, Nicolas Maduro.
Anche il rapporto tra Bergoglio e l’ex presidente argentina Cristina Kirchner non è stato dei più facili all’inizio, ma in seguito un’intesa si è trovata in forza della reciproca consonanza sulle 3 t “tierra, techo, trabajo” (terra, casa e lavoro). E in questo senso pare che ora Bergoglio non apprezzi le politiche liberticide imposte dall’imprenditore Mauricio Macri. Tuttavia, , nonostante i festini “berlusconiani” che accompagnano i ricevimenti di Macri, Bergoglio gli darà udienza in Vaticano il 27 febbraio.
Anche in Messico, figure come il vescovo Samuel Ruiz, scomparso nel 2011, hanno dovuto e devono vedersela con le gerarchie ecclesiastiche e con l’orientamento prevalente della Conferencia dell’episcopado Mexicano (Cem): che comprende 170 vescovi, responsabili di 93 diocesi da cui dipendono 12.500 sacerdoti di 6.750 parrocchie, in maggioranza tradizionaliste e conservatrici per indirizzo vescovile.
Il Messico, che Bergoglio visita per la prima volta da pontefice, è il secondo al mondo per numero di cattolici, dopo il Brasile: 99 milioni su una popolazione di 115 milioni, l’82,7% (e fino a pochi anni fa, il 95%). Un paese che, secondo cifre governative, ha il triste primato delle sparizioni forzate: 27.000 dal 2006, ma – secondo organizzazioni come Amnesty International – potrebbero essere almeno 12.000 in più dall’elezione di Nieto, a dicembre del 2012. Nonostante il fallimento delle politiche per la sicurezza a guida Usa, quest’anno il governo messicano ha aumentato il bilancio per le spese militari. Nei suoi saggi, l’avvocato Sergio Gonzalez Rodriguez, che ha seguito il caso dei 43 studenti scomparsi a Iguala, ricorda che, nel paese, vi sono più di 50 basi militari ad uso esclusivo delle forze Usa, oltre 25.000 agenti dell’intelligence nordamericana che compiono operazioni armate, e che almeno nel 15% delle sparizioni forzate sono coinvolti poliziotti e militari.
E’ andata così anche nei fatti di Iguala, quando polizia e narcotrafficanti hanno attaccato insieme gli autobus su cui viaggiavano gli studenti normalistas, la notte tra il 26 e il 27 settembre del 2014. Quella notte – dice l’avvocato – sono intervenuti anche agenti Usa, e i militari hanno riconosciuto che, fra i 43, c’era un loro infiltrato nella Escuela Normal Rural di Ayotzinapa. Una vicenda in cui lo stato del Guerrero appare l’emblema delle contraddizioni del paese: povertà, disuguaglianza ed esclusione delle fasce più povere della popolazione, in cui sopravvive – come nelle combattive Scuole rurali — l’eredità della guerriglia e della resistenza contadina. Le coltivazioni illegali di droga, spesso l’unica speranza di sopravvivenza, godono dell’appoggio del governo messicano e statunitense. E, come ha ricordato l’inchiesta della giornalista Anabel Fernandez riportando documenti declassificati della Cia e della Dea sul caso Iran-Contras, i grandi cartelli criminali sono stati costruiti nell’ambito della “guerra al comunismo”. E così, dietro la facciata della lotta al narcotraffico, la presenza delle forze militari serve a reprimere l’opposizione sociale e a proteggere gli interessi delle grandi multinazionali nelle zone di estrazione mineraria e negli snodi di più alto traffico e profitto.
Una situazione che dopo la firma dell’Accordo Transpacifico (Tpp) di cui il Messico è pedina centrale in America latina, non farà che peggiorare. Per dare un segnale ai suoi terminali esterni, Pena Nieto, che ha spalancato le porte alle grandi imprese private, ha dato il benservito al suo ex protetto Emilio Lozoya, direttore generale dell’impresa petrolifera di stato Pemex: “La competitività prima di tutto”, ha detto Nieto, tirato per le orecchie dal Fondo monetario internazionale che gli ha ordinato la “riforma energetica”. Ma, a differenza dei lavoratori licenziati, dei contadini poveri e dei migranti che finiscono nelle fosse comuni, Lozoya non avrà certo a soffrirne: lo stipendio di un manager come lui si aggira intorno al mezzo milione al mese. E il miliardario messicano Carlos Slim, uno di quelli che ha organizzato la visita del papa, è il secondo uomo più ricco del mondo.