sabato 17 novembre 2007

Agi 16.11.07
PENA DI MORTE: BERTINOTTI, LA MORATORIA E' UN RISULTATO STORICO


(AGI) - Roma, 16 nov. - "Indubbiamente e' giusto mettere l'accento su quello che resta da fare, pero' io credo che bisogna fissare questo momento cosi' importante. Il risultato e' davvero straordinario, troppe volte sciupiamo delle parole importanti, ma questo e' davvero un avvenimento storico". Cosi il presidente della Camera Fausto Bertinotti commenta, ai microfoni di Radio Radicale, il voto favorevole alla risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali espresso ieri dalla commissione diritti umani del'Onu.
"Conquistare una risoluzione sulla moratoria della pena di morte - spiega Bertinotti - vuol dire introdurre in un mondo attraversato dalla violenza, dalla guerra e dal terrorismo, una conquista di civilta' intanto nella cultura e nella volonta' di grandi organizzazioni come l'Onu che puo' lavorare nel fondo delle societa' per almeno far si' che gli stati non dispongano piu' della possibilita' di uccidere, e quindi in qualche modo costituisca un argine alla violenza. E' un risultato molto importante. Comincerei con il riconoscimento di una lunga azione, mossa da Marco Pannella e dai Radicali, che ha agito da fertilizzazione del terreno, e nel momento in cui si consegue un risultato cosi' emozionante e' giusto riconoscerlo. E' giusto riconoscerlo anche perche' e' una lezione per la politica, per come si puo' costruire un contagio positivo".
"Il secondo elemento - aggiunge il presidente della Camera - riguarda le istituzioni e le forze politiche che si sono lasciate contagiare, e che per quello che ci riguarda anche qui alla Camera dei deputati hanno costruito un impegno comune ,anche questo un po' straordinario in un periodo nel quale non ci si mette d'accordo su niente. Su una cosa come questa sin dall'inizio il Parlamento ha svolto una funzione di sollecitazione anche sul governo. Poi credo che vada riconosciuta al governo una capacita' di iniziativa politica intelligente - sottolinea Bertinotti - che ha guadagnato un consenso in Europa senza rinchiudere nell'Europa il protagonismo di una battaglia che e' stata vinta fin qui solo grazie al fatto che non si e' configurata come un'esclusiva europea e che invece ha saputo attivare tutte le forze disponibili nel mondo perche' si conseguisse questo risultato".
"Adesso - conclude - si tratta di portarlo a compimento, ma mi pare davvero che si possa dire che un risultato molto importante e' acquisito". (AGI)

l’Unità 17.11.07
La «Cosa rossa» si prepara alla battaglia del welfare
Mussi: il voto sul protocollo non è scontato. Giordano: indispensabili le modifiche. E si lavora all’unità
di Simone Colini


BENE l’approvazione della Finanziaria, ma ora con Prodi e con gli alleati vanno ridiscusse le priorità di questo governo. L’ala sinistra dell’Unione si prepara alle prossime battaglie, a cominciare da quella sul protocollo sul welfare. Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Comunisti italiani si sono dati appuntamento a Napoli, all’indomani del voto del Senato. I vertici della «Cosa rossa» cantano vittoria per il via libera al Senato di una manovra di bilancio che, per dirla con Fabio Mussi, «arriva al traguardo migliore di come era partita» e che, per dirla con Franco Giordano, «nonostante Dini ha portato alla stabilizzazione dei precari nel pubblico impiego». E questo, dicono sia il coordinatore di Sd che il segretario del Prc, grazie al fatto che le forze di sinistra hanno fatto fronte comune per tutta la battaglia parlamentare, dalla presentazione di emendamenti unitari fino alla dichiarazione di voto con lo speaker unico.
«Abbiamo sperimentato l’effetto benefico del primo passo di unità a sinistra», dice Mussi intervenendo all’iniziativa pubblica organizzata alla Città della scienza di Bagnoli. Ora però si apre una fase decisiva per il centrosinistra, avverte il ministro dell’Università. «Dobbiamo chiedere a Prodi e agli alleati di sedersi attorno a un tavolo per rimettere in ordine le priorità. E poi dobbiamo lavorare sodo per realizzarle. Il governo può anche cadere. Guai se cadesse per responsabilità della sinistra. Il nostro impegno è perché faccia bene e faccia meglio». Mussi cita tra le priorità il lavoro e il problema del precariato, per poi buttare lì una frase che lascia prefigurare scenari di diverso tipo: «Il voto sul protocollo non è scontato».
È questo il prossimo fronte sul quale giocherà le sue carte e verrà messa alla prova la sinistra unitaria. Come si è visto alla manifestazione del 20 ottobre, alla quale aderirono Prc e Pdci ma non Verdi e Sd, le posizioni sulle strategie non sono coincidenti. Non a caso, se Mussi oltre quella sibillina frase non va di fronte alla platea riunita a Napoli, Giordano invece calca la mano proprio sul protocollo, definendo «assolutamente necessarie» le modifiche al decreto nella conversione in disegno di legge. Come però, d’altro canto, non è un caso se il segretario del Prc sta attento a non creare lacerazioni all’interno del soggetto «unitario e plurale» che dovrà nascere: sa che Mussi e i suoi alla manifestazione di un mese fa non hanno partecipato proprio perché preoccupati di una piazza che potesse dar voce a posizioni antisindacato, e di fronte al ministro dell’Università e alla platea dice che alle modifiche ci si può arrivare «con il consenso del movimento sindacale»: «Nessuna contrapposizione», assicura anche a beneficio di Alfonso Pecoraro Scanio (per il Pdci c’è il capogruppo alla Camera Pino Sgobio).
L’asse tra Giordano e Mussi, i due più propensi a vedere nella nascente federazione un semplice passo intermedio verso un soggetto sì plurale ma veramente unitario, non dovrebbe insomma essere incrinato dalla battaglia sul protocollo. Anche perché se Giordano vuole «impedire che l’agenda politica sia dettata dal Pd», Mussi fa notare che, «non può continuare ad esistere un arcipelago a fare da corona al Pd» e che «solo una sinistra unita, a due cifre, può incidere». Sull’abolizione del «job on call» e sul fatto che i contratti a termine non possano superare i 36 mesi l’intesa c’è, e verrà presentata agli alleati in un vertice che si preannuncia tutt’altro che semplice. Se Dini fa sapere che se il protocollo viene «annacquato» è pronto anche a far cadere il governo, Mussi spera che l’ex premier rifletta: «Buttare tutto all’aria senza sapere dove si va non sarebbe un atto di ragionevolezza politica».

l’Unità 17.11.07
Berlinguer? Un solitario in mare
Il nuovo libro di Pietro Ingrao


Le passioni, le battaglie e le scelte degli ultimi anni

Il piacere e la pratica del dubbio, l’Occidente e l’Oriente, il Vietnam e l’Afghanistan, il carcere e la pena di morte, la militarizzazione della politica internazionale, gli Usa e il comunismo raccontati da Pietro Ingrao in un intenso dialogo con Claudio Carnieri. Questo, in sintesi, è La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri di Pietro Ingrao, di prossima uscita per i tipi della casa editrice Manni (pagine 88, euro 10,00), del quale pubblichiamo in anteprima, in questa pagina, un brano nel quale Ingrao racconta del suo rapporto con Enrico Berlinguer.
La vita politica di Pietro Ingrao (gran parte della quale lui stesso ha raccontato nel bellissimo Volevo la luna, Einaudi) coincide con i destini del comunismo e attraversa i grandi avvenimenti del Novecento: dalle due guerre mondiali, al Nazismo, allo Stalinismo, al crollo del muro di Berlino, fino ad oggi. Sulla sua pelle bruciano le passioni, le battaglie e le scelte di intere generazioni che, con i loro sogni hanno dovuto fare i conti con la storia, e la sua figura incarna le ragioni e le speranze che hanno tenuto insieme un popolo più che un partito. Il dialogo nel libro è la storia di un percorso di vita vissuto da protagonista, un libro «scomodo» in cui non si risparmiano critiche severe, analisi lucide e appassionate del secolo rifuggendo sia dalla retorica politica, sia da giudizi sommari.

UN LUNGO DIALOGO tra il leader politico e Claudio Carnieri «riempie il vuoto» lasciato dall’autobiografia Volevo la luna: comincia infatti là dove il racconto
termina, dagli anni Ottanta a oggi ed è raccolto nel libro La pratica del dubbio

Ricordandolo provo orgoglio per il suo legame alla causa di liberazione dell’umano, e simpatia per il suo essere stato vagabondo e silente

Aveva una capacità straordinaria di comunicare. Forse perché non era mai finto
Il suo limite, non abbandonarsi alla fantasia

Il piacere e la pratica del dubbio,
l’Occidente e l’Oriente, il Vietnam e
l’Afghanistan, il carcere e la pena di
morte, la militarizzazione della politica
internazionale, gli Usa e il comunismo
raccontati da Pietro Ingrao in un intenso
dialogo con Claudio Carnieri. Questo, in
sintesi, è La pratica del dubbio. Dialogo
con Claudio Carnieri di Pietro Ingrao, di
prossima uscita per i tipi della casa
editrice Manni (pagine 88, euro 10,00),
del quale pubblichiamo in anteprima, in
questa pagina, un brano nel quale Ingrao
racconta del suo rapporto con Enrico
Berlinguer.
La vita politica di Pietro Ingrao (gran
parte della quale lui stesso ha
raccontato nel bellissimo Volevo la luna,
Einaudi) coincide con i destini del
comunismo e attraversa i grandi
avvenimenti del Novecento: dalle due
guerre mondiali, al Nazismo, allo
Stalinismo, al crollo del muro di Berlino,
fino ad oggi. Sulla sua pelle bruciano le
passioni, le battaglie e le scelte di intere
generazioni che, con i loro sogni hanno
dovuto fare i conti con la storia, e la sua
figura incarna le ragioni e le speranze
che hanno tenuto insieme un popolo più
che un partito. Il dialogo nel libro è la
storia di un percorso di vita vissuto da
protagonista, un libro «scomodo» in cui
non si risparmiano critiche severe, analisi
lucide e appassionate del secolo
rifuggendo sia dalla retorica politica, sia
da giudizi sommari.

L’autobiografia di Pietro Ingrao, Volevo la luna, si fermaa
una fase cruciale della sua vita, lamorte di Moro
e il rifiuto di fare il presidente della della Camera
per la seconda volta.Da qui, dalla fine degli anni 70,
parte la conversazione tra ClaudioCarnieri e il leader
politico raccolta nel libro La pratica del dubbio, della
quale proponiamo qui di seguito uno stralcio.
E tu che pensavi? Quali erano a tuo avviso i
limiti della linea berlingueriana?
«Lo direi con una parola: l’Europa. Le carenze del
Pci su questo nodo erano antiche. Persino con i
compagni francesi la nostra intesa era spesso turbata
da quella loro ostinata gelosia, emersa già -
loavevovissuto di persona - in alcuni degli incontri
fra i partiti comunisti avvenuti a Mosca. Con
quei compagnifrancesi da anni ci giuravamo fratellanza;
poi scattava la loro gelosia irrefrenabile.
Già a metà degli anni ’70 Berlinguer aveva cercato
di allargare lo schieramento comunista inOccidente,
dando vita a una alleanza tripolare con i
«rossi» di Francia e di Spagna, e i loro leader (Carrillo,
Marchais): sotto la formula dell’euro comunismo.
L’intesa a tre fracomunisti italiani, francesi
e spagnoli, s’era compiuta soprattutto per l’impulso,
e l’autoritàdiEnrico,moltoappoggiato innanzituttodai
compagnispagnoli,daCarrillo prima
di ogni altro. La durata di quella stagione fu
breve, fino al 1977, quando si aprirono contrasti
soprattutto con i francesi e con Marchais.Il tema
più importante che avevamo dinanzi era però
l’intesa con i socialdemocratici e con le correnti
cattoliche avanzate, che erano di nuovo fortemente
presenti sulla scena d’Europa. Berlinguer
stesso cominciò a lavorare in quella direzione,
manon senza qualche esitazione che venne meno
solo nei primi anni ’80. Poi venne la tragedia
che ci sconvolse e commosse tutti. Berlinguer lavorava
freneticamente in quegli anni: nel suo
sforzo di collegamento con i comunisti d’Europa,
e con le correnti innovatrici del Paese, dove
non s’era affatto consumato il veleno del terrorismoe
poiperseguendoquelle suenuoveattenzioni
verso la sinistra europea e il Terzo mondo.
Quel leader stava in piazza. Entrava nella lotta
quotidiana. Girava l’Europa. Quando fulminea
precipitò la sventura. Stava tenendo un comizio
a Padova.Mentreparlavadaunatribunetta di fortuna,
nel vivo diunafrase, fu coltodaunictus fulminante.
Crollò di schianto a terra. Tra lagrime e
sgomento fu trasportato di corsa in ospedale. E
là, a Padova, visse giorni disperatidi lotta tra la vita
e la morte: senza mai riuscire a pronunciare
una sola parola.Mi precipitai in quell’ospedale, e
vissi quella sua agonia ora per ora. Venne anche
Pertini, e si fermò giorni accanto a quel malato
muto,chesembrava fermo a scrutareunorizzonte
lontano e indicibile. Poi venne la fine. E i pianti
dirotti deicompagniprostrati sulla salma, le invocazioni
senza speranza, con un dolore che era
pari all’amore per lui che era grande. Infine quella
salma coperta da manti e da fiori cominciò il
suo dolente viaggio per la penisola: con soste in
decine di stazioni, gremite da un popolo in lacrime:
e infinenelle strade di quella capitale dove lo
accompagnò fino a piazza San Giovanni un fiumedi
folla mai visto, impietrito in un incredibile
silenzio.Vennero a salutare quella salma persino
avversaridisempre:GuidoCarli, conservatoredichiarato…»
E oggi, da così lontano, come ti appare quel
leader? Come lo leggi? Che senti?
«Prima di tutto provo un senso di orgoglio umano.
Orgoglio per quel suo legame ad una causa:
quella causa storica di liberazione dell’umano. E
poi simpatia per le sue passioni singolari: come
vagava solitario nel mare, quasi a interrogare
l’orizzonte. Vagabondo e silente. Vederlo crollaredaquelpodiodoveparlava
del futurodel continente,
mi parve una violenza crudele».
Tu però non sei mai stato «berlingueriano».
Non avesti mai un rapporto confidenziale
con lui. Perché?
«È difficile dire. La memoria di quella persona è
troppo vicina. L’immagine stampata nella mia
mente è quella di lui in una barca, che avanza
scrutando l’orizzonte. Un solitario in mare… E
come mischiate nella sua vita, nel profondo del
suo sentire, una sete di solitudine e al tempostesso
una capacità di comunicazione straordinaria
con la gente. Forse perché non era mai finto.
Con un limite forse: pesava ossessivamente tutto.
Non si abbandonava mai (almeno così mi
sembrava) alla fantasia. Fra noi due ci furono stimagrande
e rispetto reciproci. Confidenzano. In
fondo, i nostri vocabolari erano diversi».
Torniamo agli inizi degli anni ’80, quando vai
a lavorare al Crs. Che facevi? Che cercavate?
Prima di tutto dove eravate allocati?
«Ricordi quella strada circolare che a Roma dalla
fine di via Nazionale porta a Piazza Venezia? In
una rientranza c’era un breve spiazzo, dov’era sita
una fontanella, a cui spesso ci abbeveravamo.
La sede del nuovo Crs stava proprio di fronte a
quella fontanella e al palazzo in cui fino al ’56 era
stata la sede dell’Unità: là - in quel gomito di strada
- io avevo lavorato furiosamente per circa dieci
anni: prima come capo cronista e poi come direttore
dell’Unità. In quello stesso edifizio c’era
unpiccolo eprelibatonegozioche amavamotanto:
la libreria Tombolini. La rividiquandoda BottegheOscurepassai
a lavorarealCrs. Era gradevolissimo
scendere dalle nostre stanze e - dopo aver
preso l’agognato caffè - andare a frugare fra i banchi
di quel libraio intelligente, sperando sempre
di metteremanosu qualchenuovapista interpretativa
di quell’ardente Novecento».
Era insomma il ritorno ad una
frequentazione più antica. Ecco. In quei
viaggi fra gli scaffali, nei tuoi anni giovanili,
che ti incuriosiva? Che cercavi?
«Prima di tutto cercavo testi che riguardavano le
mie passioni di sempre: cinema, poesia. Ma anche
classici della politica, o testi eretici per i quali
il fascismo stranamente aveva lasciato qualche
pertugio, se mai da case editrici impensate come
Corbaccio, per esempio. Quanto alla letteratura
cercavo non tanto autori italiani che da tempo
stavanonegli scaffali di casamia (Ungaretti,Montale,
Quasimodoe tutto il gruppo di quella rivista
di poesia Circoli impiantata in Liguria e diretta da
AdrianoGrande).Ora mi avvincevano autori del
Novecentoeuropeo odella letteraturaamericana
roosveltiana: Faulkner soprattutto e Steinbech, i
suoi testi più giovani: Uomini e topi per esempio,
quel libro singolare e ambiguo. In cima a tutti
c’erano però perme i grandi autori che avevano
mutato, insieme con il vocabolario e il catalogo
delle parole, la lettura dell’umano: Joyce innanzi
a tutti, e Kafka che ci parlava da quella città indimenticabile
che era Praga. Impallidiva il piacere
del fraseggio letterario a cuimi aveva trascinato il
cenacolo fiorentino. Agivaunanuovalingua che
si interrogava sul senso della vicenda dell’uomo».

l’Unità 17.11.07
Spagna, boom di divorzi lampo. La Chiesa contro Zapatero
A due anni dalla nuova legge aumentati del 74%. Separazioni
in calo. La Conferenza episcopale: così si distrugge la famiglia
di Franco Mimmi


AUMENTO del 74,3 per cento di divorzi, l’anno scorso in Spagna, dopo la legge del cosiddetto «divorzio express» varata nel 2005 dal governo socialista. Per questi dati statistici la chiesa spagnola ha subito alzato le grida al cielo: «Il governo – ha dichiarato padre Leopoldo Vives, della Conferenza episcopale – si è proposto di distruggere le basi della società spagnola per impiantare un nuovo modello a misura dei suoi interessi, per questo bisogna distruggere la famiglia e in questo si sta impegnando». Ma in realtà il divorzio express sembra avere soprattutto un risvolto positivo: infatti i coniugi che hanno deciso di rompere la loro unione lo fanno sempre più in modo consensuale. E un’analisi meno superficiale mostra che l’aumento è quasi inesistente, perché la nuova legge rende facile divorziare quanto lo era prima separarsi e infatti le separazioni sono diminuite del 70%. Altri dati statistici: in media, la rottura del vincolo avviene dopo circa 15 anni, e i coniugi - il 55% dei quali con figli - hanno tra 40 e 50 anni. Il divorzio è stato introdotto in Spagna nel 1981, pochi anni dopo il ritorno alla democrazia, e da allora il numero di casi mostra una curva ascendente. Fino a due anni or sono, però, esso richiedeva che prima vi fosse stata una separazione legale, che per questa fosse stata addotta una causa (come «l’infedeltà coniugale, la condotta ingiuriosa o vessatoria o qualsiasi altra violazione grave o reiterata dei doveri coniugali»), e che dal matrimonio fosse trascorso più di un anno. Insomma: le solite clausole dissuasive per cercar di evitare la rottura definitiva del vincolo. Ma tutto ciò serviva solo a perpetuare situazioni generatrici di grandi sofferenze e ad aumentare il costo del divorzio, sicché la legge del 2005 ha eliminato tutte quelle barriere: il divorzio può essere chiesto senza separazione previa e senza identificazione della causa, con una richiesta unilaterale e dopo soli tre mesi dal matrimonio (il che ha portato alla nascita del matrimonio express, tanto che nel 2006 c’é stato un migliaio di unioni (330%) che è durato meno di un anno). Come conseguenza, oggi il 70 per cento delle pratiche di divorzio arriva alla meta in meno di sei mesi, e vi sono compagnie che in internet offrono assistenza per tutta la procedura per meno di 500 euro Iva inclusa.
La legge fu introdotta assieme a quella che consentiva il matrimonio di coppie omosessuali, e sollevò la fiera opposizione sia della Conferenza episcopale sia della destra rappresentata dal Partido popular (quest’ultimo, timoroso di perdere i voti degli omosessuali, in una vertigine di ipocrisia sosteneva di non essere contrario a simili unioni ma solo a che si chiamassero matrimonio). I vertici della chiesa spagnola accusarono il governo socialista di Zapatero di praticare «misure antifamiliari», e invitarono i cattolici a usare tutti i mezzi legittimi «in difesa del matrimonio, della famiglia e dei bambini». Si poté così assistere allo spettacolo di vescovi manifestando nella pubblica via insieme con i vertici del Pp sebbene si fossero ben guardati dal fare altrettanto nei quarant’anni della dittatura franchista, non per nulla definita «nazional-cattolicesimo». Per i vescovi, il cosiddetto divorzio express introduceva «la figura del ripudio nella nostra legislazione», e il matrimonio gay voleva «annullare il significato antropologico della differenza sessuale e imporre la «teoria del genere», contraria alle vera natura dell’uomo».
Il Vaticano stesso entrò nella polemica, e non ha perso occasione per rinnovare lo scontro con il governo Zapatero. La protesta ecclesiastica, ormai trasformata in pretesto per fare campagna politica contro il governo socialista, è andata dalle leggi di cui si è detto all’insegnamento della religione nelle scuole, che i vescovi vorrebbero obbligatorio, fino alla recentissima beatificazione di 498 sacerdoti «martiri» della guerra civile spagnola uccisi dai repubblicani. Dimenticando beatamente i molti sacerdoti e monache uccisi dalle truppe franchiste con l’aiuto dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani.

Repubblica 17.11.07
1968. Quel giorno in cui tutto cominciò
di Guido Crainz


La protesta studentesca dilagò poi in tutto il paese, mentre molti elementi facevano sì che i conflitti fossero sempre più radicali
Il 17 novembre di quarant´anni fa veniva occupata la Cattolica a Milano. Poi sarebbe stata la volta di Palazzo Campana a Torino

Iniziava quarant´anni fa l´anno accademico 1967-68 e il movimento studentesco si annunciava già a novembre, occupando il 17 l´Università Cattolica di Milano, e il 27 Palazzo Campana a Torino. Era il primo sbocco di una incubazione precedente e ad essa occorre guardare per comprendere il largo coinvolgimento di una generazione. Nella radicalizzazione successiva esso sembra dilatarsi al massimo ma si avvia poi al declino lasciando il campo a esperienze più ristrette, condizionate in modo crescente dai gruppi extraparlamentari sviluppatisi sull´onda e sulle ceneri di quel movimento.
Nella scuola era cresciuta più che altrove la tensione fra le trasformazioni della società italiana e istituzioni rimaste chiuse e arcaiche. Fra il 1962 e il 1968 gli studenti universitari erano raddoppiati, mentre gli istituti superiori erano frequentati allora dal 40 per cento dei giovani di quell´età: erano il 10 nel 1951, poco più del 20 nel 1961. La scuola, invece, era rimasta uguale a se stessa. «Lo studente è un sacco vuoto da riempire, dall´alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: non lo dice un volantino del ´68 ma Gioventù, periodico dei giovani di Azione Cattolica, all´inizio del 1966. Quel 1966 in cui è processato il giornale degli studenti del Liceo Parini, La Zanzara, per una inchiesta su "cosa pensano le ragazze d´oggi". Si diffondono in modo informale nuovi fermenti culturali, e Michele Serra ha evocato bene quel clima ricordando Fabrizio De Andrè: «Era il compagno di banco a imprestarti i suoi dischi, lo stesso che ti aveva fatto leggere Masters o Majakovskij». Nel 1967 i Nomadi portano al successo Dio è morto di Guccini, una denuncia dei miti di una "stanca società" e una speranza: «nel mondo che faremo dio è risorto».
È un annuncio di ´68, in qualche modo, come quelli che avvertiamo nelle critiche crescenti al permanere della miseria nell´Italia del "miracolo" o alle contraddizioni della modernità. Non a caso i due libri centrali del ´68 italiano sono la Lettera a una professoressa di don Milani, una denuncia delle molte forme di emarginazione dei poveri, e l´Uomo a una dimensione di Marcuse, che ha un avvio fulminante: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata». Entrambi escono da noi nel 1967, e nel settembre di quell´anno Giorgio Bocca parlava così di una figlia di amici: «Mi sforzo di capire i caratteri distintivi della sua generazione. Ebbene direi, per cominciare, un rinnovato, prepotente bisogno di ideologia. Il nostro agnosticismo diretto all´utile e al comodo, il nostro tirare a campare non li soddisfa. A Roberta piace il Fidel che dice "voglio dare alla gioventù il disgusto per il denaro", e le piace Guevara che combatte in Bolivia, si interessa ai neri in rivolta, ai vietnamiti in guerra e a ciò che si muove nell´India e nel sud Africa. Ed è questo l´altro carattere che distingue lei e quelli della sua età: l´interesse ai problemi del mondo e ai poveri del mondo». Nello stesso anno Umberto Eco descriveva nuove forme di impegno dei giovani: eppure, osservava, sono cresciuti a televisione e fumetti, «immersi in un bagno di comunicazione indistinta che – a detta degli esperti - doveva renderli insensibili ai valori».
Gli articoli comparivano rispettivamente su Il Giorno e su L´Espresso, e questi stessi giornali fanno cogliere bene quel che si sta muovendo nelle Università. «Sono stanchi di copiare il Partenone», scriveva nel 1965 Camilla Cederna soffermandosi sulle Facoltà di Architettura, ove si avvertiva precocemente il contrasto fra una realtà in tumultuosa trasformazione e insegnamenti inadeguati. Un evento a sé apparve nel 1966 l´occupazione dell´Ateneo romano, mossa dall´indignazione per l´assassinio del giovane Paolo Rossi da parte di gruppi neofascisti, ma all´inizio del 1967 le agitazioni si diffondevano in molte altre città. «Non vogliono diplomi, vogliono una scuola», scriveva Il Giorno, e riferiva poi le ragioni degli studenti pisani di Fisica: «"Noi non vogliamo diventare degli scienziati che inventano l´atomica e poi si pentono". La frase è drammatica ma assolutamente concreta. Sottoposti all´autorità del professore di ruolo gli studenti si applicano a una certa ricerca scientifica, ma non sanno a cosa serve. E vogliono saperlo». A Trento l´occupazione ha al centro il piano di studi della nuova Facoltà di Sociologia, e la discussione si allarga al ruolo del sociologo: "re-filosofo", "consigliere del re" o ricercatore indipendente e critico? Spigolando fra i volantini del 1966/67: «Cittadini, lottiamo perché l´Università vi dia medici migliori»; «Imparare e insegnare argomenti vivi e attuali»; «Partecipazione degli studenti alla ricerca».
Si delinea una inedita politicizzazione che si orienta a sinistra soprattutto perché la destra si identifica con la chiusura culturale, e che rifiuta le organizzazioni universitarie esistenti. Vi contrappone l´assemblea, il rifiuto della delega e un´ansia di partecipazione destinata a diffondersi. In questo processo si delineano però anche nuove, potenziali élites politiche: spesso con una formazione precedente, variamente segnata dal marxismo o dai fermenti che attraversano il mondo cattolico post-conciliare.
All´aprirsi dell´anno accademico 1967/68 ci sono tutte le premesse per l´esplodere del movimento, e sin le sue parole d´ordine: «Contro l´autoritarismo accademico potere agli studenti», proclama il manifesto dell´occupazione di Palazzo Campana a Torino. I germi di involuzioni successive rimangono per ora in ombra ed emergono invece comunità studentesche che ridisegnano modelli e relazioni interpersonali, con modalità che appariranno anche altrove: una generazione «caratterizzata da una sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di cambiamento», per dirla con Hannah Arendt. Nel dilagare del movimento si dissolvono le organizzazioni precedenti, si svuotano le federazioni giovanili dei partiti, si delineano linguaggi inediti.
Molti elementi contribuiscono alla radicalizzazione. In primo luogo l´incapacità dei docenti di rispondere alle domande degli studenti, il susseguirsi di irrigidimenti autoritari, balbettii e arbitrii che provocano la dissacrante e allegra ironia del movimento. «In pochi mesi – annotava ancora Bocca - si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata». Si aggiungano i limiti della riforma universitaria allora in discussione, che oltretutto veniva affossata non tanto dalle proteste studentesche quanto dalla resistenza conservatrice dei "baroni", ben rappresentati in Parlamento. Si opponevano ad alcuni degli aspetti innovativi della "legge Gui": l´introduzione del tempo pieno e il divieto «a fare altri dieci mestieri oltre a quello per cui sono regolarmente pagati», come annotava L´Espresso.
A far precipitare la situazione contribuiva l´irrigidimento repressivo predisposto da una circolare del ministro degli Interni Taviani, che disponeva: «Non appena si ha notizia di una occupazione – o della decisione in tal senso - da parte di organismi o gruppi di studenti, il Prefetto deve subito prendere l´iniziativa di mettersi in contatto con il Magnifico Rettore e comunicargli che la Polizia procederà all´impedimento dell´occupazione o allo sgombero, qualora essa sia già avvenuta». Con questa circolare l´unica forma efficace di agitazione negli Atenei veniva messa di fatto fuori legge: e, in reazione, la mobilitazione studentesca si estendeva e inaspriva. Più elementi contribuivano dunque alla radicalizzazione ed essa toglieva progressivamente spazio alle aspirazioni a migliorare l´Università, vista sempre più come mero luogo di organizzazione del consenso. L´Italia d´allora offriva poi molti argomenti ai gruppi più politicizzati, che vedevano nella scuola solo lo specchio di più generali autoritarismi e ingiustizie sociali e su questi aspetti spostavano l´attenzione: con estremizzazioni ideologiche e semplificazioni ma contribuendo anche a innovazioni feconde, e più in generale a nuove sensibilità e a una più ampia concezione dei diritti. Su questi versanti l´Italia sarebbe cambiata in meglio.
L´inasprirsi dei conflitti, con il susseguirsi degli interventi di polizia e i primi scontri di piazza, si inseriva nel tumultuoso diffondersi del movimento in molti altri paesi, in un panorama internazionale segnato - per fare qualche esempio - dall´attentato al leader studentesco tedesco Rudi Dutschke, dagli assassinii di Martin Luther King e Bob Kennedy, dal maggio francese, dall´invasione di Praga, dai massacri di studenti in Messico. «Se non nei fatti, almeno nelle intenzioni, è l´ora della violenza», scriveva Pier Paolo Pasolini dopo la condanna a morte del giovane Panagulis nella Grecia dei colonnelli. Cresceva al tempo stesso la denuncia della violenza quotidiana, esplicita o occulta, della società occidentale, e il tema era al centro del convegno su La violenza dei cristiani che faceva affluire centinaia di giovani alla Cittadella di Assisi. La discussione era alimentata sin da un passo della Populorum progressio (1967) che condannava fermamente l´insurrezione rivoluzionaria «salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata, che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona»: e così indubbiamente era in larga parte dell´America Latina. In quel clima sembravano trovare qualche parvenza di legittimità riflessioni sulla violenza malamente desunte dalla tradizione marxista e leninista o da testi maturati in tutt´altri scenari: da I dannati della terra di Franz Fanon agli scritti di Guevara, e ad altro ancora. Parole, o poco più, ma di lì a non molto, nel rifluire del movimento, avrebbero trovato continuazione in gruppi molto più ristretti e sempre più rinserrati nell´ideologia, in un quadro drasticamente mutato: segnato da forti tensioni sociali, e reso torbido dall´intensificarsi dello squadrismo neofascista e da una stagione di stragi e trame eversive annunciata da Piazza Fontana. Quelle parole avrebbero assunto allora un altro significato, e portato ad altro. Avrebbero contribuito anch´esse a condurre in un cupo tunnel.

Corriere della Sera 17.11.07
Paziente killer, psichiatra colpevole
di Francesco Battistini


Condannato il medico: sbagliò cure. Lui: un attacco alla legge Basaglia
Imola La categoria protesta. Ma i familiari della vittima: «Ci fu negligenza nel suo comportamento»
Quattro mesi di carcere per omicidio colposo, mentre il suo cliente è stato ritenuto non imputabile

MILANO — Condannate me? No, signori della corte: senza volerlo, voi condannate la legge 180, la riforma Basaglia, un'intera stagione della psichiatria italiana. «Di più: si sta condannando la libertà del medico di curare un paziente come meglio ritiene». Quattro mesi di carcere che cancellano quarant'anni di certezze. Una pena per omicidio colposo che gli sembra un ergastolo a quel che ha studiato, creduto, vissuto. Euro Pozzi è uno psichiatra noto, ambulatorio a Bologna. Giovedì, la Cassazione l'ha definitivamente giudicato un killer. Anche se lui, con le sue mani, non ha mai ammazzato nessuno. Il 24 maggio 2000, a Imola, fu un suo paziente schizofrenico grave (Giovanni Musiani, morto qualche anno fa) a uccidere con due coltellate Ateo Cardelli, un assistente della comunità Albatros per ex degenti psichiatrici. Tre lunghi processi, tre sentenze uguali. Per stabilire — caso unico in Italia — che quando l'assassino è un pazzo non imputabile, in galera al suo posto ci va lo psichiatra che l'ha curato male. Cioé Pozzi: «Il mio giornalaio stamattina m'ha chiesto: è possibile che lei debba rispondere d'un reato doloso commesso da terzi? Già. Dopo questa sentenza, per tutti gli psichiatri sarà meglio non esporsi più a inutili rischi. Meglio tornare alla "psichiatria difensiva", a quando il malato di mente era solo un individuo pericoloso. A quando non c'era la legge 180. Meglio riempirlo di farmaci e lavarsi la coscienza».
Processo chiuso, dibattito aperto. Secondo i giudici, la colpa di Pozzi fu d'avere pasticciato col trattamento farmacologico, prima diminuendo il Moditen, poi sopprimendolo, quindi risomministrandolo. Un'altalena di dosaggi «non improntata a criteri di prudenza, diligenza e perizia». Pericolosa in un soggetto come Musiani. «Non è una sentenza contro la Basaglia — contesta Massimo Iasonni, avvocato della famiglia di Cardelli —. È contro chi, la Basaglia, l'applica male. Dimostra lo stato drammatico in cui oggi sono abbandonati questi malati. Musiani era già stato quattro anni in due manicomi criminali, altri medici l'avevano giudicato pericolosissimo. Eppure Pozzi lo visitava di rado, ogni quattro mesi, senza verificare puntualmente gli effetti dei diversi dosaggi. All'Albatros, tutti dicevano che andava disposto il trattamento obbligatorio. Il povero Cardelli scrisse perfino a Piero Marrazzo, Mi manda Raitre, per denunciare i rischi che gli assistenti come lui correvano lì dentro. Tutto inutile. Fu un omicidio annunciato».
Cose da pazzi, va da sè. Ma la domanda resta: fin dove arriva il giudice a valutare una cura? Ordine dei medici e Società di psichiatria protestano. «Il rischio è togliere al malato ogni speranza di riabilitazione — dice Pozzi —. Farmaci, ricoveri prolungati. E addio percorsi riabilitativi, che passano anche per una maggiore responsabilità e autonomia del paziente. Addio articolo 32 della Costituzione, che sancisce diritto alla salute e volontarietà delle cure. Per lo psichiatra, è preferibile non esporsi più». Ma non sarebbe ora di rivedere anche la 180? «Per me, è e resta una conquista di civiltà. Dopo trent'anni, forse serviva qualche ritocco. Ma questa sentenza è definitiva anche per un altro aspetto: chiude una stagione della psichiatria italiana. Una volta per tutte ».

Corriere della Sera 17.11.07
L'intervista «Basta con lo scontro sulla 180»
Andreoli: sentenza giusta la pericolosità va fermata
di Giusi Fasano


MILANO — Quattro mesi per omicidio colposo allo psichiatra che non curò in modo adeguato un suo paziente schizofrenico diventato poi omicida proprio perché, dicono i giudici, il medico non usò con lui «criteri di prudenza e diligenza».
Professor Vittorino Andreoli, questa sentenza apre la strada alla responsabilità degli psichiatri, chiamata in causa raramente.
«È una sentenza anomala perché in materia psichiatrica ci sono sempre una serie di possibilità giustificative. La rarità di questi addebiti è perché la nostra è una scienza infelice, vaga. È difficile trovare criteri che si possono dimostrare. Con questo non è che noi psichiatri siamo privi di responsabilità, anche gravi».
Può uno psichiatra essere responsabile di un'azione di un suo paziente?
«La psichiatria può mancare ai propri compiti istituzionali e quindi anche curativi. In quel caso deve pagare».
Quindi i giudici hanno fissato un principio condivisibile?
«Io cerco di capire, non di condannare. Direi che in questo caso riemerge il concetto della pericolosità, abbandonato con la legge Basaglia che impose la chiusura dei manicomi. Prima il folle era uno pericoloso, poi con la 180 di Basaglia si ritenne che di fatto non era più pericoloso. Ora questa sentenza dice che la pericolosità va prevista».
Hanno ragione i giudici? Si può prevede?
«Esistono delle patologie, in particolare quella delirante, e fra queste la schizofrenia paranoidea, in cui la pericolosità fa parte del quadro. Bisogna che lo psichiatra prenda consapevolezza che fra i sintomi di alcune patologie esiste la pericolosità e che va curata».
C'è il rischio che questa sentenza spaventi gli psichiatri e diventi un incentivo per l'uso dei farmaci?
«Nei casi gravi non è che si possa decidere se usare o no i farmaci. Il vero problema è usarli bene o male. Un paziente in stato delirante bisogna per forza controllarlo con i farmaci. È un errore toglierli, perché torna la forma di delirio. In quanto agli psichiatri, il 15 % dei medici ha una qualche grana giudiziaria nella sua vita professionale e la psichiatria è all'ultimo posto della lista. Quindi non credo che ci sia da preoccuparsi».
Lo psichiatra condannato dice che la decisione dei giudici è contro lo spirito della legge 180.
«Sono passati 30 anni. Finiamola di parlare sempre in termini di pro o contro la 180. Cogliamo una buona volta l'occasione per parlare di psichiatria scientifica o non scientifica».

Corriere della Sera 17.11.07
Un errore l'intervento dei giudici
di Dino Messina


Il caso Saranno in molti ad applaudire alla sentenza con cui la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per omicidio colposo contro il dottor Euro Pozzi.
Finalmente, si dirà, è stata raggiunta una certezza: sappiamo chi è il responsabile ultimo della morte di Ateo Cardelli, l'operatore sociale ucciso a Imola da un paziente schizofrenico. Lo psichiatra ha commesso un grave errore tecnico, diminuendo la dose di psicofarmaci al paziente che credeva parzialmente recuperabile e che invece era un killer potenziale. Naturale che paghi. Noi non siamo d'accordo con questa impostazione. Lo diciamo con tutto il rispetto per la vittima e per il dolore dei suoi famigliari, dalla madre al figlio che si è ritrovato orfano a dieci anni, e anche con la massima considerazione per il lavoro rigoroso svolto dai giudici.
Non vogliamo negare infatti l'evidenza, come spesso avviene in Italia, per un pregiudizio ideologico.
Sì, l'errore c'è stato, ma siamo sicuri che il problema della malattia mentale si risolva passando dal «modello Basaglia», culminato nella legge 180, che alla fine degli anni Settanta aprì i cancelli dei manicomi, al «modello Imola» che prefigura in ultima analisi le manette per il medico? Alzi la mano lo psichiatra che anche con pazienti seguiti a lungo, come sembra in questo caso, non abbia mai sbagliato diagnosi. Non abbia forzato l'equilibrio su quel filo del rasoio in cui si svolge il rapporto psichiatra-malato mentale. Certi errori si commettono non per negligenza ma per eccesso di ottimismo. Di solito si diminuisce la dose di psicofarmaci a un paziente anche grave per dare dignità a una vita che non è tale se non ha un briciolo di autonomia e libertà. Il rischio che si corre è di sottovalutare la pericolosità del paziente verso se stesso e verso gli altri. Come si vede, è un problema clinico ed etico di grande complessità.
Non crediamo che la via giudiziaria partita dall'Emilia Romagna, regione d'eccellenza anche nel campo dell'assistenza psichiatrica, sia quella giusta per risolverlo.

Corriere della Sera 17.11.07
Con i poveri della terra rinasce il comunismo
di Stéphane Courtois


I no global scoprono le ideologie «prima di Marx»
Caduto il leninismo, l'estrema sinistra adotta forme primordiali: tutto il male sta nel denaro e nel profitto

Il crollo, tra il 1989 e il 1991, del sistema comunista mondiale dominato dall'Urss ha consentito il riaffiorare di correnti comuniste soppiantate, dopo il 1917, da un'unica visione leninista. È dunque fiorito un "neocomunismo", una nuova forma di pensiero e di azione per avvicinarsi alla realtà "mondializzata". I fautori dell'anticapitalismo hanno dovuto imprimere una variazione al loro linguaggio, optando in qualche caso per l'"antiglobalismo" o "altermondialismo". Si è verificato uno slittamento delle aspirazioni comuniste verso la nebulosa "alter".
Composta da una moltitudine di gruppi — di cui l'organizzazione Attac è uno dei più rappresentativi —, e coltivando una visione pessimistica dell'evoluzione economica ed ecologica del mondo, tale nebulosa designa un nemico comune, il "neoliberalismo", e manifesta la volontà di staccarsi dai partiti tradizionali con un comportamento militante innovativo. Per estendere la propria sfera d'azione — dai sans papier ai senza terra, passando per i disoccupati, gli omosessuali, le donne, eccetera — i neocomunisti hanno deciso nel 2000 di indire regolarmente un forum sociale mondiale dichiaratamente anti-Davos. Il primo è stato ospitato nel 2001 a Porto Alegre, in Brasile.
La morte del comunismo industriale e l'indebolimento della sua dottrina — marxismo e poi marxismo-leninismo — hanno favorito questo slittamento, alimentato dalle pratiche del capitalismo finanziario anni '90. Occorre, inoltre, tenere conto dell'ideologia dominante dell'altermondialismo, che coincide con le forme primordiali del comunismo — quella premarxista e prebolscevica — ossia la designazione del profitto, o addirittura del denaro, come fonte di ingiustizie e dei mali della società. Tale ritorno alle origini ha favorito una rilettura del corpus marxista-leninista, il riposizionamento della logica rivoluzionaria sugli esclusi o i discriminati — i "senza" — e una designazione del "nemico" che ha le sembianze del ricco, incarnato da organizzazioni e multinazionali occidentali. Il povero si vede concedere le prerogative virtuose del proletario, al contempo forza distruttrice e araldo di una buona società. L'idea di una necessaria redistribuzione egualitaria delle ricchezze mondiali tra Nord e Sud ha riavvicinato — con l'eccezione di qualche fautore dell'ortodossia leninista — istanze a prima vista inconciliabili — marxiste, neomarxiste, libertarie e anche cristiane — disperse sotto i molteplici stendardi del multiculturalismo, della decrescita, del terzomondismo, trotzkismo, neozapatismo nonché di alcune frange dell'islamismo radicale.
Quanti vengono identificati come marxisti ancora leninisti, in particolare, si riuniscono attorno alla Lega comunista rivoluzionaria, ai Rinnovatori del Partito comunista francese, al Partito dei lavoratori brasiliani, al Socialist Workers' Party in Gran Bretagna o a Rifondazione comunista in Italia. Essi ripongono le proprie speranze nei movimenti sociali, a livello nazionale e mondiale, percepiti come espressione di una medesima sofferenza, e dunque come attore collettivo radicale. Se è vero che hanno esteso la propria sfera d'azione ai poveri e agli esclusi, nondimeno essi salvaguardano le tesi escatologiche di una rivoluzione redentrice che deve necessariamente passare per la presa di potere. La loro adesione al movimento "alter" mira anzitutto a trasformare quest'ultimo in internazionalismo, o addirittura in una Quinta Internazionale che possa radunare sotto l'epiteto di "lavoratori" tutti i "diseredati".
I neomarxisti reinterpretano il corpus marxista alla luce di Michel Foucault, Gilles Deleuze, Rosa Luxemburg, Walter Benjamin o Pierre-Joseph Proudhon. Per federare i gruppi, ieri nemici, senza rompere con il retaggio comunista, essi privilegiano nella famiglia marxista i partigiani del materialismo storico che hanno rifiutato l'ideologia del progresso e il terrore. Ma l'unico innovatore sotto il profilo teorico è stato Antonio Negri, con la consacrazione della "moltitudine" — i "senza", gli esclusi, i disperati, gli errabondi — quale nuovo soggetto rivoluzionario, garante di una buona società.
Gli adepti della spartizione comprendono una frangia del neocomunismo più diversificata, perché collocata al crocevia di solidarismo, anarchismo e comunismo. È il caso del francese José Bové, ex portavoce della Confederazione contadina, che avvicina i neozapatisti messicani ai contadini del Larzac e al loro progetto di patrimonio collettivo. Non si parla, in questo caso, di riappropriazione diretta dei mezzi di produzione, ma di spartizione e di rinuncia a determinati privilegi per correggere lo squilibrio tra Nord e Sud e proteggere l'ambiente. Vicino alle posizioni di Bové, l'inglese John Holloway si ispira alla guerriglia neozapatista del subcomandante Marcos per rifiutare le rivoluzioni e le sperimentazioni del XX secolo, imperniate sulla conquista dello Stato, e per promuovere la dissoluzione di tutte le strutture di oppressione. Diversi esperimenti realizzati in America Latina fungono, infatti, da riferimento per l'invenzione di una società egualitaria ed emancipata; in particolare la «rivoluzione bolivariana» guidata da Hugo Chavez, presidente del Venezuela dal '98, che simboleggia per i neocomunisti il «socialismo del XXI secolo». Alcuni gruppi anarchici cavalcano l'onda "alter" per accelerare la decostruzione di un sistema odiato, sulla scia dei Black bloc o di alcuni «obiettori di crescita».
Il movimento "neo" comprende anche seguaci del cristianesimo, alfieri di una dottrina sociale che ha come priorità la pace e il riflusso della povertà. Se è vero che sono piuttosto inclini ad avvicinarsi alla linea solidarista favorevole alla cancellazione del debito dei Paesi poveri e alla tassazione delle rendite a vantaggio dei diseredati, alcuni di essi si identificano tuttavia con i poli di radicalità sulla questione della spartizione delle ricchezze del pianeta. I più attivi sono alcuni gruppi cristiani del Sudamerica, che si fanno portavoce di una teologia della liberazione, nuova utopia veicolata dalla figura cristica di chi nulla possiede.
Sebbene i riferimenti ideologici del neocomunismo appaiano estremamente eterogenei, essi convergono per fare della sofferenza e della rabbia del povero le leve di una redenzione della società, dinanzi a un mondo occidentale chiamato al pentimento e alla condivisione.
(Traduzione di Enrico Del Sero)

Liberazione 17.11.07
Buona finanziaria. Montez furioso
Destra divisa. E ora si riapre tutto
I due poli non esistono più: Ipotesi sul futuro
di Rina Gagliardi


Giovedì sera, in Senato, alla quattordicesima ora (e al quindicesimo giorno) di permanenza nell'aula, abbiamo tutti tirato un grande sospiro di sollievo: la Finanziaria era passata, il centrodestra - e anzi Silvio Berlusconi - aveva perso, la maggioranza, nonostante tutto (e nonostante Lamberto Dini) aveva tenuto,come si usa dire. Non solo: era passato un provvedimento tutto sommato dignitoso e perfino con qualche punto innovativo. Certo, non è detto che si tratti della "migliore Finanziaria possibile" a questo mondo e non è detto che, alla fine del suo percorso parlamentare, essa non subisca qualche arretramento. Ma sarebbe sciocco sottovalutare quello che per ora c'è e che è stato ottenuto grazie alla indefessa battaglia politica della sinistra: sulla salute (l'abolizione dei ticket), sull'ambiente (Cip 6 e moratoria della privatizzazione dell'acqua) la stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione), sui nuovi diritti (la Class Action), sulla lotta ai privilegi (il tetto sui salari dei manager di Stato). Alcune di queste conquiste valgono soprattutto come affermazione di un principio, o come avvio (magari imperfetto) di un nuovo istituto di difesa collettiva dallo strapotere (e dall'impunità) di banche e imprese - ma neanche questo è da considerare un risultato di poco conto. Basti, sulla Class Action, la reazione scomposta e rabbiosa di Confindustria (e dei parlamentari che stanno sul libro-paga dei poteri forti), per capire che si è davvero disturbato il manovratore, là dove (i soldi) il manovratore stesso manifesta per solito la sua massima sensibilità. Insomma, ci sono - ci sarebbero - alcune ragioni forti per rispondere positivamente alla domanda che Piero Sansonetti ha posto su queste colonne, poco tempo fa: che cosa ci sta a fare la sinistra al governo? Ci sta non solo per difendere quel (non molto) che resta del quadro democratico (dal berlusconismo, dal sicuritarismo, dall'emergenzialismo), ma per ottenere quel (non molto) di redistribuzione sociale e tutela dei diritti che però, altrimenti, si ridurrebbe a zero. Ci sta, insomma, per arginare l'egemonia dei valori della destra - quella eversiva e quella, ancor più pericolosa, confindustriale e vaticana - che avanza con forza non solo nella politica, ma nella società civile. Tuttavia, questa risposta, pur concretamente fondata, è a sua volta insoddisfacente. Non solo è parziale, ma è datata: appartiene ad un ciclo che, se non si è già concluso, è comunque alle nostre spalle. La verità è che si è già aperta una nuova fase politica, ancora più instabile di quella che l'ha preceduta: essa
pone a noi - alla sinistra - domande e compiti di tipo nuovo. Proviamo intanto a cercar di capire quel che è già successo e quel può succedere.
***
Primo: il governo Prodi, e la maggioranza che lo sostiene, hanno ottenuto un considerevole successo politico, ma, paradossalmente, questo successo non consolida il quadro attuale, già destabilizzato dalla nascita del Pd e dall'ascesa di un leader politico, Walter Veltroni, che svolge una funzione di fatto di "contropremier". L'annuncio di Lamberto Dini è chiarissimo: la piccola pattuglia moderata che sta per nascere al Senato è perfettamente in grado di far venir meno all'Unione la (faticatissima) maggioranza numerica di cui dispone. E sembra evidente che lo farà non appena avrà valutato che è arrivato il momento opportuno o l'occasione propizia - o prima della fine dell'anno, sul collegato Welfare, ove il provvedimento nel frattempo fosse stato seriamente migliorato (dal nostro punto di vista) o peggiorato (dal punto di vista di Dini stesso e di Confindustria), o subito dopo, a gennaio, magari sulla prima mozione di sfiducia che capita. In questa luce, si capisce perchè Dini, alla fine, pur dopo tanti annunci apocalittici, pur obtorto collo, la Finanziaria l'ha votata: perchè non aveva alcun interesse a far cadere Prodi in una fase in cui, ancora, era molto forte la spada di Damocle delle elezioni anticipate a primavera, l'obiettivo su cui il solo Berlusconi ha puntato tutte le sue carte. Mentre a tutt'oggi, Lambertow, come lo chiamano, gode di un altissimo potere di condizionamento (sembra incredibile, ma un uomo solo, o poco più, può contare più di un partito e di una coalizione: ecco in soldoni la crisi della politica), sul piano elettorale lo stesso Lambertow vale molto poco.
Il suo interesse primario, perciò, come ha onestamente dichiarato giovedì sera in aula, è quello di "superare l'attuale quadro politico", non necessariamente favorire le sbruffonate del Cavaliere. Traduzione: concorrere alla nascita di un altro governo, fondato su altre formule politiche, e su altri equilibri, fondato cioè sull'esclusione della sinistra: Quel che chiedono, da mesi, poteri forti, "Corriere della sera" e così via.
Secondo: la coalizione di centrodestra si va scomponendo e, dopo due anni di opposizione inconcludente, matura al proprio interno la prospettiva di rientrare nel gioco politico. La lettera di Gianfranco Fini, pubblicata ieri sulla prima pagina del "Corriere" ha del clamoroso: una tale dissociazione da Berlusconi, il leader di An non l'aveva ancora compiuta, a nostra memoria. La Lega, a sua volta, scalpita. L'Udc, da molti mesi, persegue il proprio autonomo disegno neocentrista. In buona sostanza: Berlusconi appare isolato, perfino dai suoi alleati più fidi e tradizionali, la Cdl appare oggi come una ex-Casa. Se le cose stanno, all'incirca, così, c'è una novità di cui bisogna pur prendere atto: i due Poli, i due schieramenti che si sono fronteggiati il 9 aprile 2006, non esistono più . Non esistono più nella forma e negli equilibri interni che li hanno fin qui contraddistinti. L'instabilità politica, perciò, è destinata ad accrescersi. In tale instabilità, si riaffaccia con forza il disegno neocentrista da molti accarezzato. Ma riprende fiato, soprattutto, l'ipotesi di un governo di transizione con il compito di realizzare la riforma elettorale, e qualche altra "riforma" costituzionale, in termini tali da consentire il ritorno alle urne nel 2009. Naturalmente, non essendo nelle nostre prerogative l'arte divinatoria, non facciamo previsioni: gli scenari o le soluzioni possibili sono molte, e non tutte certo equivalenti. Non si può escludere, per esempio, che sia lo stesso Prodi a succedere a se stesso, se trovasse la forza di ricomporre il governo in modo innovativo e di rilanciare davvero lo spirito originario, e la metodologia, che ha retto l'alleanza di centrosinistra - anche se le difficoltà di un'operazione che non sia un semplice "rimpasto" sono evidenti e rinviano quasi tutte ai problemi strategici (e numerici) dell'Unione. Non si può non sapere che vi sarà il tentativo di varare un vero e proprio governo dei poteri forti, travestito da governo tecnico e gradito a Montez. Non si può, infine, sottovalutare il fatto che la formula più "gettonata" - quella di un governo istituzionale - non ha alcun precedente concreto, nella storia repubblicana, e non è per nulla chiaro, allo stato, la sua possibile articolazione. Comunque vadano le cose, questo è il refrain che dominerà la vicenda politica, da qui ai prossimi mesi. Dentro di essa, la sinistra ha già, e sempre di più non potrà che avere, una priorità: la capacità di far nascere davvero una nuova soggettività unitaria, e una proposta più forte e credibile di quella che ha finora guidato le sue diverse componenti. Tra i meriti della Finanziaria, last but not least, c'è stato quello di aver fatto crescere l'azione comune della sinistra alternativa, anche in termini visibili e "simbolici": giovedì sera, quando il verde Natale Ripamonti ha pronunciato la dichiarazione di voto a nome dei senatori di tutta la sinistra (Rifondazione comunista, Verdi-Pdci, Sinistra Democratica), ha corso sui banchi un piccolo brivido di commozione. Quel drappello di donne e di uomini, credetemi, ha lavorato - da tre mesi a questa parte - quasi fino allo sfinimento fisico, e no, non è stato "per niente". Purtroppo, se ne sono accorti anche gli altri, anche i nostri avversari - e non è l'ultima delle ragioni che determinano il paradosso del "puzzle Prodi". Ma su questo sarà bene tornare a riflettere.

venerdì 16 novembre 2007

l’Unità 16.11.07
Rumeni, Strasburgo censura Frattini
Sbagliate le dichiarazioni del commissario Ue: i diritti
di movimento non si negano né ai poveri né ai rom
di Sergio Sergi


ALLA VIGILIA, forse su richiesta, era corso in suo aiuto il portavoce del presidente Barroso. Frattini? «Non fa politica di parte, agisce sulla base del diritto comunitario e delle politiche dell’Ue». Non è bastato. E così Franco Frattini, vice presidente e commissario per la Sicurezza e Giustizia, è «caduto» nell’aula del Parlamento europeo, a Strasburgo. Una caduta fastidiosa e imbarazzante, e proprio su quel diritto comunitario e quelle politiche Ue di cui gli si attribuisce la più stretta osservanza. Caduta fastidiosa perché avvenuta sul tema sensibilissimo, in Italia e nelle istituzioni comunitarie, della libera circolazione dei lavoratori e sull’onda delle vicende che hanno interessato Roma e il governo di Bucarest dopo l’omicidio Reggiani a Tor di Quinto. L’aula di Strasburgo ha, infatti, approvato una risoluzione (306 a favore, 186 contro e 37 astenuti) proposta da Pse (socialisti), Gue (sinistra unitaria e verde nordica), Verdi e Alde (liberal-democratici) che ribadisce la validità della famosa direttiva n° 38 del 2004 che disciplina la circolazione dei cittadini e dei lavoratori nel territorio del Paesi Ue e che precede la possibilità di un allontanamento a condizioni «ben precise». Insomma, senza espulsioni immotivate (salvo che per ragioni di ordine pubblico, di sicurezza o di sanità) o automatiche. È proprio su questo punto che la risoluzione - nonostante il disperato tentativo del forzista Tajani e del capogruppo Ppe, il francese Joseph Daul - ha individuato una falla nel comportamento del vicepresidente.
Il Parlamento ha stigmatizzato il contenuto di alcune interviste che Frattini ha rilasciato a quotidiani italiani nei giorni caldi dell’omicidio Reggiani. I commenti del commissario sono «contrari allo spirito e alla lettera direttiva 38/2004, direttiva che gli si chiede di rispettare pienamente». Questa parte della risoluzione è stata approvata con 290 sì, 220 no e 21 astenuti. Da segnalare il sì anche di Borghezio (l’esponente della Lega si è sbagliato o doveva togliersi un sassolino dalla scarpa?) e l’astensione di Cocilovo (Pd). Un giudizio pesante per un commissario che si occupa esattamente di queste materie. In effetti, i testi delle interviste – solo parzialmente rettificati – mostravano un commissario a testa bassa contro il governo e il centro-sinistra. Tutto proteso in difesa dell’operato del precedente governo di centro destra nel quale ricoprì l’incarico di ministro degli esteri. Frattini, in serata, ha affermato di aver «avuto confermata poche ore fa la fiducia e la solidarietà» da parte della Commissione. In verità, il Parlamento non ha votato alcuna richiesta di sfiducia al presidente Barroso per Frattini. Il quale la mette così: il Parlamento si è diviso, mentre la Commissione deve stare in equilibrio tra il rispetto di uno straordinario diritto alla libera circolazione e il diritto alla sicurezza, «altrimenti la gente non capirebbe». Frattini sostiene d’aver «continuamente sottolineato l’importanza e la rilevanza della direttiva» e annuncia un prossimo incontro con la comunità Rom.
Ma diceva Frattini (Il Messaggero): «Si va in un campo nomadi e a chi sta lì gli si chiede: tu di che vivi? Se quello risponde non lo so, lo si prende e lo si rimanda in Romania. Così funziona la direttiva europea». Invece non funziona così ma i provvedimenti di espulsione devono essere proporzionati e fondati esclusivamente sul comportamento personale dell’individuo, il quale deve essere informato, in modo circostanziato e completo, sui motivi del provvedimento, riportando l’indicazione dell’organo dinanzi al quale opporre eventuale ricorso. E anche la possibilità di espellere a causa di un onere eccessivo a carico dello Stato, deve essere subordinata ad un esame di ogni caso individuale, non può giustificare l’allontanamento automatico. Diceva Frattini (Il Sole 24 Ore): «Il governo Berlusconi decise una moratoria sugli ingressi per lavoro subordinato…il governo Prodi ha deciso di non reiterare quella moratoria per romeni e bulgari… paghiamo il prezzo di un’eccessiva tolleranza del passato… ci si è accorti tardi di una situazione sfuggita di mano…Veltroni ha capito che sono i cittadini più deboli i più esposti alla criminalità ed è un elettorato che vota a sinistra ma che potrebbe cambiare idea di fronte all’inerzia del governo». Sono dichiarazioni di un commissario «bipartizan»?

l’Unità 16.11.07
Nuova inchiesta per gli ss. La testimonianza del sottotenente Muhlhauser resa a Monaco di Baviera: «Gandin rifiutò la benda prima dell’esecuzione»
«Gli italiani a Cefalonia? Traditori, ecco perché li fucilammo»
di Franco Giustolisi


Freddo, misurato, impassibile, ma anche stupito. Così Otmar Muhlhauser, l’ex sottotenente dei Cacciatori delle Alpi. Fu lui a comandare il plotone di esecuzione che il 24 settembre del 1943 fucilò a morte, in quel di Cefalonia, il comandante della divisione Acqui, generale Antonio Gandin, ed altri ufficiali: «Sono un po’ sorpreso del fatto che dopo così tanto tempi si facciano ancora delle indagini». Stupore legittimo, perché la Germania del dopoguerra, paese degli assassini nazisti, ha condotto inchieste concludendole però con un nulla di fatto. Meglio, tuttavia, del paese degli assassinati, vale a dire, l’Italia, dove tutto finì nell’armadio della vergogna, sia i fascicoli delle stragi ai danni dei civili, come Sant’Anna di Stazzena, Marzabotto, Fivizzano, Capistrello ecc. con un numero imprecisato di vittime, forse 20mila, sia quelle che colpirono i nostri militari dopo che avevano alzato bandiera bianca, non solo a Cefalonia, ma anche a Rodi, Spalato, Coo, Lero, Korijza. Si, è vero, qualche processo è stato fatto. Stazzema, Marzabotto e altri conclusioni nel nulla perché nel frattempo imputati e testi erano deceduti. Ma niente per Cefalonia, «il più arbitrario e disonorevole delitto di tutte le guerre» come fu detto a Norimberga.
Riprendiamolo l’interrogatorio di Muhlhauser. L’ex ufficiale nazista che oggi ha 87 anni e fa ancora il pellicciaio, è stato interrogato tre volte dalla procura di Monaco di Baviera il 27 giugno del 1967, come lui stesso ha ricordato, e il 24 e il 30 marzo del 2004. «Dopo circa un quarto d’ora di viaggio, eravamo partiti dal capoluogo Argostoli, raggiungendo una zona, presumibilmente verso sud. Non ricordo su fummo noi ad arrivare lì per primi. Mi sembra che gli ufficiali italiani fatti prigionieri furono portati con dei veicoli in più riprese. Per primo fu condotto da solo davanti al maggiore Klebe (vicecomandante del distaccamento che assalì Cefalonia, ndr), il generale Gandin. Non so se lui fosse in divisa, sono passati tanti anni da allora... Il maggiore Klebe lesse una sentenza della corte marziale (non si sa quale fosse e se ci fosse stata, ndr) nel quale Gandin veniva condannato a morte tramite fucilazione».
Gli inquirenti chiedono a Muhlhauser di indicare le singole posizioni. «Il maggiore Klebe lesse la sentenza proprio vicino al generale. Il maresciallo Dehm presumibilmente era un po’ spostato in avanti. Come dalle borme previste, io mi trovavo sul lato sinistro del maggiore. Dopo la lettura della sentenza lui chiese al generale se volesse essere giustiziato con gli occhi bendati. Il generale rifiutò la benda. Allora il maggiore si rivolse direttamente a me dicendomi “attenda al suo ufficio”... Io sentii solo un altro ordine (probabilmente allude a quello del maresciallo Dehm, ndr) che diceva “alzate i fucili... puntate... fate fuoco”. Immediatamente prima dell’ordine di far fuoco, il generale disse a voce alta “Viva l’Italia, viva il re”. Subito dopo crollò a terra».
Aggiunge: «Ricordo di aver visto una volta personalmente l’ordine scritto da Hitler che esigeva la morte dei traditori. Ma può darsi che l’abbia visto quando, forse, lo tirò fuori dal risvolto della manica il maggiore Klebe». Probabilmente il momento più difficile per persone quasi normali, quello dei rimorsi di coscienza. Ma l’indagato risponde: «Se io nella trasmissione dell’ordine provi dei rimorsi? Sapevo che questi ordini dovevano essere eseguiti, io non feci obiezioni (...). In fondo Gandin era il comandante di unità che nei giorni precedenti avevano causato numerose perdiote tra i miei connazionali (che avevano preso d’assalto Cefalonia, va precisato, ndr)... Io, per esempio ero presente personalmente sulla spiaggia quando l’artiglieria italiana fece fuoco contro i nostri traghetti da trasporto, vidi anche dei compagni colpiti in pieno e fatti a pezzi o feriti gravemente. Vorrei dire ero adirato contro il generale e i suoi ufficiali. L’aria nei confronti degli italiani non era certamente di quelle buone. Comunque la disposizione data per l’esecuzione era per me un ordine superiore irrevocabile».
Va ancora oltre l’assassino: «Tra di noi ufficiali si parlava degli uomini della divisione italiana solo come traditori. Con l’ordine del furer era già chiaro che gli italiano andavano trattati completamente da traditori. E al tradimento vi era un’unica risposta: l’esecuzione».
Ecco perchè le conclusioni del procuratore generale August Stern, contro le quali Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri massacrato a Cefalonia, ha presentato ricorso, sono, al minimo, singolari. Premesso che a certi ordini, come quelli ricevuti da Muhlhauser, in stridente contrasto con le leggi di guerra, non si deve ubbidire sostiene: «L’accusato non è scusato per aver agito in seguito ad un ordine, la cieca obbedienza non viene riconosciuta come esimente». Ma aggiunge: «I militari italiani non erano normali prigionieri di guerra. Prima alleati dei tedeschi, si sono trasformati poi in nemici combattenti divenendo traditori, per usare il gergo militare». Allora niente paura per il mastropellicciaio: ha ubbidito certamente ad un ordine ingiusto, ma dato che non si ravvisano, secondo Stern, aggravanti, il delitto di omicidio viene prescritto visto che sono passati da allora ben più di vent’anni. Ma Stern - nella sua sentenza del 27 luglio 2006 che tanta indignazione sollevò - dimentica il vero e proprio eccidio che decimò i militari della Acqui; non c’era solo il generale Gandin e i cinque o sei ufficiali di cui minimizza Muhlhausen a Cefalonia; oltre duemila militari italiani morirono in combattimento, contrassegnando - come ha ricordato l’ex presidente Ciampi - il cammino della nuova Italia. Dai 4.500 ai 6mila furono massacrati dopo la resa. Altri tre mila circa moriranno da prigionieri sulle navi tedesche bombardate dagli alleati.
Ora, dopo lunghi anni di silenzio non si sa da cosa motivato, la procura militare di Roma - con a capo Intelisano - ha riaperto l’inchiesta sulla mattanza di Cefalonia. Lo ha fatto a seguito di una lettera aperta di Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri trucidato a Cefalonia, e mia, inviata al presidenti della Repubblica e al premier. A questa lettera ha fatto seguito un esposto alla procura militare di Roma. Gli inquisiti sono appunto Mulhauser, indagato e precritto a Monaco assieme ad altri 6 che hanno avuto stessa sorte processuale a Dortmund: il tenente Max Kurz, il capitano Alfred Schroppel, il tenente Helmut Vogtle, il sottotenente Karl Weisbacher, il sottotenente Anton Wimmer e il tenente Fritz Thoma.

l’Unità 16.11.07
Pena di morte, l’Onu dice sì alla moratoria
Via libera della terza Commissione alla proposta sponsorizzata dall’Italia: 99 i paesi a favore
52 i contrari, 33 gli astenuti. D’Alema: Italia in prima linea per la difesa dei diritti umani
di Umberto De Giovannangeli


UNA GRANDE BATTAGLIA di civiltà. Condotta voto su voto. Quattro «emendamenti-killer» bocciati. Manovre ostruzioniste sconfitte. Una tappa storica la cui importanza è data anche dall’accanita opposizione del «fronte del patibolo». È notte fonda
in Italia quando la Terza commissione delle Nazioni Unite approva la risoluzione per la moratoria universale della pena capitale. A favore si sono espressi 99 paesi, 52 quelli contrari, 33 gli astenuti. «L’Italia - ha commentato subito dopo lo storico voto il ministro degli Esteri Massimo D’Alema - è in prima linea nel mondo in materia di tutela dei diritti umani».
La maggioranza anti-boia di stato ha dimostrato la sua compattezza quando è chiamata a bocciare 14 emendamenti scritti e altri presentati in modo orale dai Paesi più oltranzisti del campo anti-moratoria: Egitto, Singapore, i Paesi caraibici. Gli emendamenti orali esortano al rispetto del diritto alla vita equiparando aborto e pena capitale. Nel corso della discussione intervengono pronunciandosi favorevolmente il rappresentante degli Stati Uniti e del Vaticano. La Santa Sede all’Onu non ha diritto di voto ma rango di osservatore. Ma anche questa volta il fronte pro-moratoria tiene e respinge gli emendamenti. Uno dei più insidiosi era quello che tendeva a richiamare all’interno della risoluzione l’articolo 2 comma sette della Carta dell’Onu in cui si fa riferimento alla «Domestic Jurisdiction», cioè alle prerogative in tema di sovranità degli Stati membri.
Sono ore di trepidazione al Palazzo di Vetro e a Roma. L’Italia ha giocato un ruolo, unanimamente riconosciuto, di primissimo piano nella presentazione della risoluzione prima e successivamente nel mettere in campo una strategia del consenso che ha fatto sì che i Paesi co-sponsor della risoluzione raggiungessero il numero di 87, la maggioranza dei Paesi membri dell’Onu. Il filo (telefonico) corre tra Roma e New York. L’«ultimo miglio» sta per compiersi. Nella giusta direzione. Non nasconde la sua soddisfazione l’ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, Marcello Spatafora. ««Siamo soddisfatti per il grosso successo del Paese, del governo, del parlamento e della società civile», afferma Spatafora, osservando che questa «è anche una soddisfazione concettuale per aver individuato la strategia giusta in un gioco di squadra perfetto». Secondo il rappresentante permanente dell’Italia «tutto è andato come da copione. Siamo alle ultime battute di una strategia studiata a tavolino, di una sceneggiatura perfettamente recitata e osservata da tutti». A New York, per supportare l’azione della nostra rappresentanza diplomatica, c’è il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti. «È stata premiata la coesione europea, perchè i Ventisette sono rimasti uniti. Ed è stata premiata la capacità dell’Italia e dell’Europa di costruire una vasta coalizione», osserva Vernetti. Secondo il sottosegretario Vernetti si tratta di «un grande successo per il governo italiano. Oggi (ieri, ndr.) l’Onu ha scritto una pagina importante per il diritto internazionale». Vernetti è convinto che il voto di ieri avrà effetti concreti nei Paesi dove la pena di morte è in vigore: «Penso agli Stati Uniti e alla Cina dove è in corso un dibattito proprio sulla moratoria». Un’aspettativa che trova subito una importante conferma: a poche ore dall’esecuzione, La Corte Suprema americana ha fermato il boia della Florida che ieri notte avrebbe dovuto mettere a morte Mark Dean Schwab, un killer condannato all’iniezione letale. per l’uccisione di un bambino di 11 anni.
Una giornata storica. Lo si percepisce dal clima di febbrile attesa che si respira al Palazzo di Vetro e nelle sedi di tutte le organizzazioni per i diritti umani che hanno supportato la diplomazia degli Stati. «È stato fatto un grande lavoro», rimarca Palazzo Chigi. Nella Terza commissione Onu, rimarca il ministro degli Esteri Massimo D’Alema, sono avvenuti «due cose molto importanti: innanzitutto la coalizione dei paesi sottoscrittori si è allargata fino a 87 e poi tutti gli emendamenti che sono stati presentati volti a svuotarne il significato ed indebolire la risoluzione sono stati respinti. Il che - riflette il titolare della Farnesina - dimostra che questa coalizione internazionale che si è formata a partire da una nostra iniziativa è davvero forte e unita». A far sperare per il definitivo via libera alla risoluzione da parte dell’Assemblea generale, c’è anche un altro dato. Che il vicepremier italiano mette in risalto: ««Nelle occasioni precedenti - dice D’Alema - gli emendamenti erano sempre passati. Stavolta non è accaduto, un segno di una coesione notevole».

l’Unità 16.11.07
Trentacinque milioni di americani fanno la fame
Secondo i dati del Ministero dell’Agricoltura sono circa il 20 per cento le famiglie nere o ispaniche costrette a digiunare
di Roberto Rezzo


Basso livello di sicurezza alimentare non è una definizione per mettere in guardia contro coloranti e conservanti. Nel linguaggio pittoresco della burocrazia significa fame. Un problema che tocca trentacinque milioni di persone - di cui 12,6 milioni sono bambini - in America. Non l’intero continente, solo gli Usa. La prima potenza mondiale. Il rapporto annuale appena pubblicato dal dipartimento all’Agricoltura Usa dice che nel 2006 35,5 milioni di americani, principalmente a causa della disoccupazione - sono arrivati a patire la fame. In ribasso rispetto ai 35,1 milioni del 2005. Kate Houston, sottosegretario per la nutrizione e i servizi ai consumatori nell’amministrazione Bush, sostiene che è «un dato incoraggiante, anche se c’è ancora molto lavoro da fare. Perché nessuno in America dovrebbe essere affamato». E invece alla vigilia delle feste tocca leggere che il 12,1% della popolazione - per periodi più o meno lunghi - nell’arco dell’anno non ha abbastanza da mangiare. Se si prendono in considerazione i nuclei familiari anziché gli individui, risulta che ci sono 12,6 milioni di famiglie così povere da avere problemi a procurarsi persino il cibo. Il 10,9% di tutte le famiglie americane. E il 36,3% di quelle ufficialmente considerate povere e che quindi ricevono sussidi pubblici. È lo stesso governo ad ammettere che proprio non bastano.
Il problema della fame riguarda in modo sproporzionato le minoranze: il 21,8% delle famiglie afroamericane e il 19,5% di quelle ispaniche. Gli Stati più colpiti sono Mississippi (18,1%); New Mexico (16,1%); Texas (15,9%); e South Carolina (14,7%). Una categoria a parte sono le ragazze madri che rappresentano un anacronistico 30,4 per cento. Quando qualcuno in famiglia digiuna completamente per almeno un giorno, il governo parla di «livello di sicurezza alimentare molto basso». Sino al 2004 i tabulati del dipartimento all’Agricoltura completavano l’espressione «associato a fame», poi la dizione è misteriosamente cambiata, forse pareva poco elegante o per mancanza di spazio. In ogni caso nel 2006 ci sono passati 11,1 milioni di persone. Attenzione però che le statistiche sono basate sui dati del Census Bureau e che pertanto non includono chi è senza fissa dimora. Il numero dei senzatetto stabili nel 2005 era stimato dal governo federale in oltre 750mila persone. Da allora non l’hanno più aggiornato. Nel 2006 il dipartimento all’Agricoltura ha distribuito alle famiglie americane sussidi alimentari per 59 miliardi di dollari. America’s Second Harvest, The Nation’s Food Bank Network è la più grande organizzazione che si occupa di raccogliere eccedenze alimentari da produttori e commercianti per distribuirle ai bisognosi. Lo scorso anno ha fornito 90mila tonnellate di cibo a livello nazionale. E non riesce a tenere testa alle richieste. «Mentre aumentano i prezzi per gli alimentari, l’energia, la casa e i salari sono stagnanti o diminuiscono - spiega Jim Weill di Food Reasearch and Action Center - sempre più famiglie si trovano in serie difficoltà. E nel 2007 mi aspetto che andrà ancora peggio».

l’Unità Firenze 16.11.07
Gramsci? Una questione nazionale
di Tommaso Galgani


Firenze celebra i settant’anni dalla morte del fondatore de «l’Unità» con un convegno lungo tre giorni

Come mettersi sul lettino dello psicanalista: ogni qual volta gli intellettuali di sinistra parlano di Gramsci, non mancano le effervescenze. Figurarsi se il tema è “Gramsci e la questione dell’identità nazionale”: il convegno, organizzato dall’Istituto Gramsci in occasione del 70esimo anno dalla morte del fondatore del Pci, ha avuto il suo battesimo ieri a Firenze, in Palazzo Vecchio, mentre oggi e domani si sposta a palazzo Strozzi. Dopo l’apertura dei lavori del critico letterario Giulio Ferroni, che ha fatto luce sui rapporti tra Machiavelli e Gramsci («ispirato ad una lettura del “Principe” come organismo collettivo, fusione di individuo e popolo»), a dare pepe alla discussione di ieri, davanti a un centinaio di persone, è toccato a Federico Sanguineti, docente di linguistica all’università di Salerno. Che, assodata «la perdita dell’egemonia culturale», ha accusato la sinistra di oggi di inseguire i temi cari alla destra. Come l’ansia di sicurezza: «I delitti e i crimini sono in calo, ma i sindaci di sinistra sono ossessionati da lavavetri e rom». Piuttosto, ha aggiunto Sanguineti, servirebbe «quella che Gramsci avrebbe chiamato riforma intellettuale e morale», ovvero «una forte volontà popolare contro le mafie e la madre di tutte le discriminazioni, quella femminile». Di qui la proposta di quote rosa obbligatorie nelle antologie letterarie («almeno metà degli autori sia donna»), mentre Ferroni gli dava del «demagogo narcisista che va fuori tema dal convegno». L’importante, ha precisato Bartolo Anglani prima di parlare dei modelli letterari europei del giovane Gramsci, è «non strumentalizzare un classico per forzare sul presente». Piuttosto, va studiato in modo storicistico, ha ventilato Umberto Carpi, e magari così si scopre che «Gramsci non parla di identità nazionale, ma di formazione dello stato: e in Italia in tal senso i problemi maggiori sono sempre quelli che diceva lui, ovvero questione meridionale e riforme mancate». La giornata di ieri è stata chiusa dall’intervento di Gaspare Polizzi sulle affinità tra Gramsci e Leopardi, prima dello spettacolo “Buttar via il rospo dal cuore” che l’Istituto e il Teatrino dei fondi hanno inscenato al teatro l’Affratellamento. Tra oggi e domani arrivano invece a palazzo Strozzi Tullio De Mauro, Stefano Gensini, Michele Maggi ed Emma Fattorini.

Repubblica 16.11.07
Reduci, boom di suicidi il male oscuro uccide più della guerra in Iraq
Inchiesta choc di Cbs su tutti i veterani Usa


NEW YORK - Tornano dall´inferno iracheno con immagini indelebili di stragi e cecchini, di bombe e cadaveri. Molti di loro sono invalidi, tanti altri soffrono di turbe psichiche. Trovano un´America più pessimista, più povera, più avara, più contraria alle guerre di Bush. E in questa atmosfera un numero crescente di ex-combattenti si toglie la vita. «C´è una epidemia di suicidi», denuncia la rete televisiva Cbs che al termine di una inchiesta durata cinque mesi ha mandato in onda un servizio da brivido sul fenomeno.
Nel 2005, secondo gli ultimi dati, ci sono stati 6256 ex-militari che si sono uccisi: una media di 17 al giorno e, nel complesso, più (quasi il doppio) di quanti sono morti dal 2003 a oggi nelle strade irachene (il pallottoliere delle vittime americane è ora a 3863). Certo, le statistiche si riferiscono a tutti gli ex-combattenti (25 milioni), non solo a quelli mandati in Afghanistan e in Iraq (1,6 milioni). Ma si tratta pur sempre del doppio della incidenza dei suicidi sulla popolazione degli Usa e il fenomeno colpisce duramente la fascia d´età più giovane, che ha un tasso di suicidi di 22,9 su 100mila, quattro volte più della media dei coetanei.
«Non tutti tornano dall´Iraq feriti, ma la realtà è che nessuno torna come se nulla fosse successo», dice Paul Rieckhoff, un ex-marine che ha fondato un gruppo all´interno dell´associazione Veterans of America che si occupa specificamente dei reduci dall´Afghanistan e dall´Iraq. Tra i quali ce ne sono molti senza casa: non trovano lavoro e si riducono a dormire per strada. Un homeless su quattro è un ex-combattente della guerra al terrorismo.
(ar. zamp.)

Corriere della Sera 16.11.07
Tra i 498 beati spagnoli c'è anche un torturatore


MADRID — La denuncia arriva dai blog: uno dei 498 martiri della guerra civile spagnola, beatificati poco più di due settimane fa in piazza San Pietro, era stato un torturatore. Si tratta del sacerdote agostiniano di origine basca Gabino Olaso Zabala che nel 1896, missionario nelle Filippine, aveva partecipato all'interrogatorio di un confratello, prete filippino simpatizzante della rivolta contro il dominio spagnolo. È proprio il racconto della vittima, padre Mariano Dacanay, a rivelarlo. Dacanay riferisce che Olaso non solo aveva incitato i soldati a torturarlo, ma gli aveva anche sferrato un calcio alla testa, facendogli perdere coscienza. La testimonianza è ritenuta attendibile dalla Chiesa, ma non ha inficiato la beatificazione: anche un peccatore può diventare santo.

Corriere della Sera 16.11.07
L'excursus di Giorgio Cosmacini
Scienza e fede nella medicina
di Armando Torno


Le prime forme conosciute di terapia furono religiose. Anche gli antichi egizi, che avevano un medico per l'occhio destro e uno per quello sinistro, praticavano cure permeate di teologia. In Grecia è Asclepio, figlio di Apollo, il dio che guarisce: i suoi sacerdoti sono semplici emissari. I malati vengono ricevuti e trattati seguendo precisi riti, dei quali il serpente e il gallo sono i simboli. E anche oggi molti sperano più nei miracoli che non nei medici.
Giorgio Cosmacini ha ora affrontato l'argomento (e i suoi interessanti dintorni) in un accattivante saggio: La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi (Laterza, pp. 214, e 18). In esso cristianesimo, ebraismo, islamismo e anche l'atteggiamento agnostico e ateo si confrontano con i rimedi che l'uomo ha scoperto nei secoli. Il titolo del libro richiama alla mente una piccola opera dell'epicureo Thomas Browne, Religio medici, pubblicata a Londra nel 1642. In essa l'autore, che si era ritirato in uno sperduto paesello dello Yorkshire, anticipava di una ventina d'anni la pubblicistica inglese — che causò una rivoluzione paragonabile a quella in politica legata al nome di Cromwell — sull'anatomo- fisiologia del fegato, del cervello, del cuore, del trattamento delle febbri, nonché buona parte di quel che oggi consideriamo una condotta laica dinanzi alla malattia.
Cosmacini offre storie e profili che vanno dai curatori ebrei ai grandi trattati arabi, via via risalendo le epoche sino alla Bibbia: in ogni secolo la bontà di Dio e la sapienza del curatore sembrano dividersi il soccorso al malato. Del resto la parola «medico» compare nel libro del profeta Geremia (è rofè in 8,22), ma essa si può trovare già nella prima parte della cosiddetta rivelazione greca, di poco anteriore al testo profetico: l'Iliade. Il termine ietèr, riferito a Macàone, si legge nel IV libro (verso 194). Ma è altresì vero che la lingua greca confessa un rapporto che si perde nella notte dei tempi, mostrando l'intimo legame tra medicina e religione: isótheos, ovvero simile a Dio: è il medico guaritore. La dimensione religiosa e quella strettamente scientifica non riescono a distinguersi nemmeno con Paracelso, in pieno XVI secolo: egli brucia sulla pubblica piazza i testi di Ippocrate e Galeno, considerati obsoleti, ma le sue cure risentono sovente di concezioni alchemiche. Ci vorrà ancora qualche anno per consentire a William Harvey di scrivere il De motu cordis et sanguinis e dare inizio alla desacralizzazione del sangue.
Gli esempi si moltiplicano se si getta lo sguardo nei rapporti tra progresso delle cure e cristianesimo, dove gli scontri non mancano. Come provano, per esempio, i problemi sollevati dall'innesto del vaiolo nel XVIII secolo. Si parlò di imponderabile salto nel buio, di diavolerie barbare, di peccaminoso
vulnus. La pratica, prima di evolversi nella inoculazione di «pus vaccino» attuata nel 1798 dal naturalista inglese Edward Jenner, diventò un problema che, come sottolinea Cosmacini, «non solo richiedeva un netto pronunciamento tra scienza e religione ma che, soprattutto, costituiva un momento di confronto con le correnti più avanzate della cultura illuministica». Papa Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, aperto e tollerante, consultò medici e teologi e alla fine si persuase che «non era giunto ancora il tempo» di far «adottare un tal preservativo». La questione impose a tutti una scelta. Se l'imperatrice Maria Teresa d'Austria si convinse della liceità dell'innesto, che considerò un utile mezzo nelle mani del medico e una pratica voluta da Dio, nel 1763 la facoltà di teologia di Parigi si dichiarava contraria sentenziando: «È sufficiente che questa inoculazione sia una novità per essere reputata condannabile».
Oggi stiamo vivendo l'epoca nella quale la scienza sta compiendo miracoli, anche se — come nota Georges Conguilhem nel denso libretto Sulla medicina (appena uscito da Einaudi, pp. 120, e 12) — siamo circondati da guaritori che vivono e prosperano appena oltre la soglia degli istituti clinici più attrezzati. Ma sia la ricerca avanzata che la medicina selvaggia rimandano a problemi morali, gli stessi che interagiscono da secoli con competenze e speranze dell'uomo.

Corriere della Sera Roma 16.11.07
L'invito al Papa divide i professori della Sapienza
Lectio magistralis? Solo una gaffe
di Edoardo Sassi


17 gennaio: inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza. Benedetto XVI ci sarà, dopo la cerimonia ufficiale. Poi l'inaugurazione della cappella restaurata. Protesta dei laici

Marcello Cini, accademico di fama, fisico, professore emerito ha accusato il rettore Guarini di «incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università»


«La Sapienza chiama il papa e lascia a casa Mussi». Così titolava mercoledì il quotidiano Il Manifesto, in testa a un'infuocata lettera aperta indirizzata al rettore del primo ateneo pubblico di Roma, Renato Guarini, e firmata da Marcello Cini: accademico di fama, fisico, laico, professore emerito della stessa università nonché membro del «comitato promotore nazionale» di Sd, Sinistra Democratica, raggruppamento di forze guidato dallo stesso ministro dell'università Fabio Mussi.
Il papa che inaugura ufficialmente l'anno accademico numero 705 di un'istituzione «simbolo del progresso scientifico»? L'idea ha fatto infuriare Cini e, con lui, parte del fronte laico degli accademici «sapientini». Ma una delle notizie, da ieri, è che in realtà Fabio Mussi all'inaugurazione ci sarà, e ci sarà, in qualche modo, anche il papa, che però arriverà dopo (e forse, non è ufficiale, ci sarà anche Veltroni).
Val la pena ricostruire la storia dall'inizio. Durante il Senato accademico del 23 ottobre il rettore comunica il programma dell'annuale inaugurazione ufficiale dell'anno accademico. Data prevista, 30 novembre (tutto è poi slittato al 17 gennaio). Come da consuetudine, il copione prevede l'intervento del rettore, del rappresentante degli studenti, del personale e una (vera) lectio magistralis di un docente (Mario Caravale) sul tema scelto quest'anno, contro la pena di morte. C'è anche, da prassi, l'invito a Mussi. Che però per il 30 novembre farà sapere di non poter partecipare per impegni precedenti. Non è stato «cacciato» dunque? Ieri, ospite della stessa Sapienza, Mussi ha comunicato che, considerato il cambio di data, lui ci sarà. Tutto chiarito? Insomma. Almeno un equivoco in realtà c'è stato, per la «distrazione» (così definita in ambienti vicini al rettorato) di Guarini, che al Senato effettivamente comunicò, a fine inaugurazione, un saluto di Benedetto XVI, definendolo però «lectio magistralis ». L'intervento viene verbalizzato e l'espressione, almeno formalmente impropria, resta. Solo un problema terminologico? Cini, dal punto di vista dello scienziato, si arrabbia e scrive la sua lunga lettera in cui cita anche i fatti di Ratisbona parlando di «incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università». «Non posso non esprimere pubblicamente la mia indignazione per la sua Proposta — dice a Guarini — goffamente riparata successivamente con una toppa che cerca di nascondere il buco e al tempo stesso ne mantiene l'obiettivo politico e mediatico. Non commento il triste fatto che lei è stato eletto con il contributo determinante di un elettorato laico. Non riesco a capire le motivazioni che possono averla spinta a formulare una proposta tanto improvvida e lesiva dell'immagine della Sapienza nel mondo. Il risultato della sua iniziativa, anche nella forma edulcorata della visita ("un saluto alla comunità universitaria") subito dopo una inaugurazione inevitabilmente clandestina, sarà comunque che i giornali titoleranno "Il Papa inaugura l'Anno Accademico"».
Ieri, replica del rettorato: «Papa Ratzinger non inaugurerà l'anno accademico, né potrebbe in quanto l'inaugurazione è prerogativa del rettore, e non pronuncerà una lezione magistrale. Il programma della giornata non è cambiato in corso d'opera (...). La manifestazione si svolgerà regolarmente secondo tradizione». E il papa? Ci sarà, considerato l'argomento scelto (pena capitale): «Come è noto si tratta di un argomento sul quale anche la Chiesa ha posizioni molto nette. Benedetto XVI, che intendeva compiere una visita pastorale alla Sapienza, ha quindi espresso la volontà di incontrare la comunità universitaria in questa occasione». Il pontefice giungerà sì in aula magna, ma «interverrà dopo il termine dell'inaugurazione, rivolgendo un saluto ai presenti, senza influenzare lo svolgimento della cerimonia accademica. Con l'occasione visiterà la cappella universitaria da poco restaurata».

Corriere della Sera Roma 16.11.07
All'Ara Pacis esposti 30 scatti del più grande fotografo turco vivente
Nebbia e neve sui minareti Güler, l'altro volto di Istanbul


La magia di Istanbul nell'obiettivo di Ara Güler. Trenta scatti in bianco e nero per raccontare la stratificata città turca negli anni '50 e '60 esposti nel moderno spazio del Museo dell'Ara Pacis. Trenta scatti del fotografo che ama definirsi un «cronista» e che partendo da questa impostazione congela volti, nebbie, strade e quartieri riuscendo a comunicarci un'immagine di Istanbul quasi bucolica, artigianale.
L'occhio sensibile ed esperto del grande maestro, che prima di dedicarsi completamente alla fotografia è stato giornalista in importanti quotidiani internazionali, supera gli stereotipi della Istanbul immaginata in Occidente e per la prima volta ce la presenta com'è. Fu l'incontro con Cartier-Bresson che lo spinse a mettere a fuoco le sue visioni attraverso l'obiettivo della Leica.
Guardando le foto di Güler si percepisce lo scorrere del tempo, si sentono i secoli che sulla città han lasciato incredibili tracce artistiche e culturali. Strati di storia si incontrano e convivono. Lingue diversissime si intrecciano e si contaminano.
Volti di ieri scavati dal vento e dalla fatica del duro lavoro a bordo delle barche da pesca o sui carretti carichi di mercanzie, si sovrappongono ai volti di oggi che osservano il futuro sapendo che è già arrivato. Struggenti attimi di vita quotidiana, così vicini al nostro passato.
Guardando gli scatti di Güler si percepisce chiaramente come la distanza fra le nostre radici e quelle dell'antica Costantinopoli non sia poi così ampia, e si intuisce il valore culturale del lavoro che in tanti stanno facendo per agevolare e sostenere l'inserimento della Turchia moderna nella Comunità Europea.
Ma Istanbul ha mille volti e andando avanti nel percorso espositivo si arriva a quello che è il contributo di altri quattro fotografi turchi: Ercan Arslan, Coskun Asar, Kutup Dalgakiran e Erdal Yazici. Ed ecco la Istanbul di oggi con i suoi colori accesi così come i profumi che investono il turista che si trova a passeggiare per quertieri come Ortaköy, che Güler ha fotografato quando era ancora zona non sviluppata, con le reti dei pescatori stese ad asciugare, mentre negli scatti di Ercan Arslan la si vede com'è oggi: un romantico luogo sul Bosforo ricco di caffè e ristorantini, dove si può passeggiare all'ombra di una moschea barocca.

alteredo.org 16.11.07
Giulio Giorello contro il settarismo del fondamentalismo religioso
un'intervista di Edoardo Semmola


L’intervista. Ragionando di massimi sistemi con il filosofo milanese: politica e religione, diritti civili, caso Welby, fede e ragione, family day: “Penso che la sinistra dovrebbe collocarsi nella grande tradizione dell’Illuminismo: nella rivendicazione dei diritti e in particolare di un diritto, quello della ragione umana di poter liberamente cercare la verità senza dovere chinare la testa di fronte a questa o quella autorità”

Professor Giorello, cominciamo da una premessa generale: l’anno 2007 si è caratterizzato più di ogni altro per i temi che hanno diviso laici e cattolici in politica: è l’anno del caso Welby e del caso Nuvoli, l’anno dei pacs che poi sono diventati dico e poi cus, e l’anno del family day e dello scandalo dei preti pedofili. Tra laici e cattolici abbiamo assistito ad una vera e propria guerra. Ma chi ha iniziato questa Guerra? Rocco Buttiglione, rispondendo a questa domanda, mi ha detto: “Perché i cosiddetti laici si erano abituati ad un tipo di cattolico che aveva paura della sua ombra, che non testimoniava con coraggio la sua fede, e che si guardava continuamente la punta delle scarpe invece di guardarli negli occhi. È cresciuto, con Giovanni Paolo II, un altro tipo di cattolico: un cattolico che rispetta gli altri però chiede rispetto per se stesso, che non ha paura, che è convinto della ragionevolezza della sua fede, e vuole discutere. È partito dal fatto che alcuni (e cita esplicitamente Gianni Vattimo) hanno preso male che questi cattolici vogliono sentirsi cittadini liberi, come tutti. Quelli che si erano abituati ad un cattolicesimo che non aveva il coraggio della propria identità, quelli che erano abituati a pensare che la fede fosse un residuo del tempo passato destinato a scomparire”.

Bene, innanzitutto cominciamo dal dire che ci sono diverse accezioni del termine laicità. Non ho mai creduto a quella che chiamo la favola della secolarizzazione. Le religioni tendono a riemergere anche all’improvviso, anche quando la maggior parte degli intellettuali si aspetta che la dimensione religiosa sia in qualche modo sfocata. E può riemergere non necessariamente con i tratti che aveva nel passato, ma può avere un aspetto nuovo e – come spesso capita – la novità è anche inquietante. Nel largo pubblico, prima della rivoluzione iraniana con Khomeyni, si dava abbastanza per scontato che l’Islam era una costellazione di idee, valori e pratiche arcaiche, destinata ad essere superata da altre modalità del politico e da altre forme di vita. Si pensi al nazionalismo arabo o alla rinascita di alcuni paesi del cosiddetto Terzo Mondo, orientati chi verso il modello capitalistico, chi verso quello socialista. E poi invece c’è stato appunto Khomeyni, la svolta fondamentalistica in Algeria, la rinascita di uno spirito combattivo anche nell’Islam sunnita e non soltanto in quello sciita, oltre a tutta un’altra serie di fenomeni che conosciamo molto bene. Anche in Israele, d’altra parte, se 30 o 40 anni fa lo consideravamo tutti un paese laico, si è scoperto poi che ruolo giochino i partiti religiosi, anche estremisti… Perché non pensare lo stesso anche del Cristianesimo? Perché il Cristianesimo non dovrebbe avere i suoi apparenti momenti di spegnimento e poi una scintilla che porta di nuovo a risplendere ciò che covava sotto la cenere, anche magari provocata da un vento piuttosto effimero? In questo senso le religioni non sono diverse da altre esperienze umane: quante volte abbiamo sentito parlare della morte della filosofia, della morte dell’arte, della fine della storia… Perché dovremmo dare così scontata la morte di Dio? E in questo senso Buttiglione secondo me ha profondamente ragione. Poi c’è da domandarsi se questa forma di risveglio di un cattolicesimo combattivo sia un bene o sia un male.
E ora veniamo all’accezione di laico. Prendiamo uno dei più grandi filosofi dell’Illuminismo e tra le più grandi figure della modernità – che però di solito non viene inserito nei nostri manuali di Storia della Filosofia – che risponde al nome di Thomas Jefferson, uno dei grandi estensori della Dichiarazione di Indipendenza americana. Jefferson, per tutta la sua vita, fin da quando rappresentava gli interessi della sua terra di origine, lo Stato/colonia della Virginia, fino a quando divenne terzo Presidente degli Stati Uniti, aveva ben chiaro un elemento molto significativo: il laico, per Jefferson, è colui che lascia dispiegarsi qualunque dimensione religiosa – sia nel privato ma anche nella sfera pubblica – purché i cittadini di una particolare confessione religiosa non sequestrino dei diritti che sono invece di tutti. Ed è proprio questo il rischio di certe rinascite religiose: di certo cattolicesimo integralista e certo fondamentalismo protestante, per non parlare della deriva estremistica dei paesi musulmani. Sono fenomeni in sé diversissimi ma che hanno una radice comune nel settarismo. E il laico è contro il settarismo, non è contro la religione in quanto tale. Dunque bisognerebbe che la frase di Buttiglione fosse riqualificata in questo modo: quando si ripresentano cattolici, protestanti, musulmani, wooduisti e quello che cavolo vuole, che vogliono sequestrare i diritti degli altri, è compito dei laici intervenire con tutti gli strumenti che hanno a loro disposizione.

Il 2007 è stato soprattutto l’anno dell’infinito dibattito sui Pacs. Cosa lo ha generato? Forse una sorta di effetto Europa, il confronto con gli altri paesi?

Il dibattito sulla natura del matrimonio, della famiglia, dei pari diritti di chi ha relazioni più o meno stabili con altre persone, è un dibattito che va visto all’interno di una cornice – come minimo – europea.
In Italia bisogna ben tener presente che chi si trova in una relazione stabile ma non è riconosciuto nella sfera della cosiddetta “famiglia naturale” (e ci metta un po’ di virgolette a quel naturale), può trovarsi svantaggiato economicamente e magari bloccato a livello giuridico. Dunque, il dibattito sui pacs non riguarda la religione in quanto tale ma è incentrato su un problema di garanzie economiche e giuridiche. È in questa ottica che andrebbe, secondo me, affrontata la questione: la religione non dovrebbe entrarci proprio. Infatti, nessuno impedisce a chi pensa che la famiglia abbia un’origine sacrale e che il matrimonio sia un sacramento, di vivere questa loro convinzione. Ma l’esperienza europea non è andata in questa direzione: ammette che la famiglia non sia perpetua e che il matrimonio non sia altro – dal punto di vista dello Stato – che un semplice contratto. La natura contrattuale del matrimonio è stata rivendicata in Inghilterra nel Seicento dal poeta, per altro puritano e cristianissimo, John Milton. Non da un ateo, dunque. E Milton teorizzava lo scioglimento del contratto – quello che noi chiamiamo tecnicamente divorzio – anche per ragioni di incompatibilità caratteriale. Non esistono contratti eterni, e anche il contratto politico è tutt’altro che eterno: non sarebbe nato Israele, e nemmeno gli Stati Uniti, se il contratto politico non potesse essere rescisso. E anche questo è un insegnamento jeffersoniano.
È dunque sul piano delle scelte di vita delle persone che si pone la discussione sui vari pacs e poi dico. E la religione secondo me non c’entra assolutamente nulla: sta su un altro piano. Anzi, se si traduce immediatamente un’esperienza religiosa su un piano politico, si finisce per asservire la spiritualità al mondano. E questo è – secondo me – quanto di più anti-cristiano ci sia.
Poi, quanto al fatto che qualcuno – anche a sinistra, se a sinistra si può dire: diciamo nel Partito Democratico – dica che i pacs non sono urgenti perché sono relativamente poche le persone che ne usufruirebbero, questo è un modo molto curioso di ragionare. Perché, se un domani un governo facesse delle leggi discriminatorie nei confronti di quelli che hanno i capelli rossi – per esempio escludesse dai pubblici uffici quelli che sono di pelo rosso o dicesse che due persone con i capelli rossi non si possono sposare – sarebbe una grave violazione alla libertà individuale anche se la comunità delle persone dotate di capelli rossi è piuttosto piccola rispetto agli altri colori di capigliatura di questo Paese. Quindi, attenzione: se anche si tratta della violazione dei diritti di pochi, non è che la violazione sia poco importante. Bisognerebbe infatti spiegare ai nostri politici che in una società liberale, democratica e aperta, non è che contano solo i numeri, ma conta come bene imprescindibile l’autonomia del singolo. Ed ecco che da questo punto di vista una lezione di sana laicità ci viene da filosofo Karl Popper quando diceva che i primi che devono essere salvaguardati sono proprio i diritti delle minoranze, e la prima minoranza con cui noi abbiamo a che fare è quella fatta da un individuo singolo. Ed è quindi sul piano del singolo che dobbiamo impostare la questione, più che in nome della tradizione sia essa religiosa sia etnica sia linguistica. Questo sì che sembrerebbe un modo tribale di porre la questione. La società aperta nasce proprio dalla dissoluzione del tribalismo. E una delle funzioni principali della democrazia è proprio quella di garanzia contro i ritorni di tribalismo.

Ma oltre a questi argomenti di natura generale abbiamo anche un problema ben più specifico che è l’acuirsi della questione omosessuale. Ho chiesto all’onorevole Franco Grillini quanto questo abbia inciso e lui mi ha dato due diverse letture: 1) esiste una contraddizione non risolvibile tra omosessualità e Chiesa Cattolica. Perché la Chiesa cattolica si basa sulla verità rivelata, si compone di dottrina-tradizione-scrittura, ed è ovvio che la questione omosessuale è contraddittoria con la dottrina con la tradizione e con la scrittura. Non ci possiamo fare niente. 2) Più cresce il ruolo della comunità omosessuale italiana, più esce allo scoperto, e più ovviamente diventa forte la reazione contraria. Perché il pregiudizio, il razzismo, la stupidaggine e l’ignoranza sono ancora molto forti. Quindi Grillini dà alla Chiesa un ruolo di risposta…

Cominciamo dalla prima questione: non so se ci sia una incompatibilità di fondo tra omosessualità e aderenza ai principi della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Rispondano i cattolici su questo: guardino i testi base della loro tradizione e consultino le loro autorità. Non sta a me giudicare su questo punto. Mi pare però che ci siano dei fatti piuttosto curiosi: vorrei ricordare per esempio che nella Chiesa Cattolica Apostolica Romana le donne sono state curiosamente piuttosto emarginate. Va bene che tirano sempre fuori la figura di Maria Vergine, anche se non credo che la figura della donna possa esaurirsi né nell’essere madre né nell’essere vergine (e tra l’altro essere entrambe le cose è un po’ difficile). Vorrei poi ricordare che altre tradizioni del Cristianesimo, diverse dal Cattolicesimo, sono state molto più aperte per quanto riguarda la questione femminile: la Free Presibiterian Church ordinava donne sacerdote, nel senso funzionale e non solo sacramentale, come è tipico del Protestantesimo, già nel 1911. Mentre nel Cattolicesimo la questione femminile è ancora fortemente problematica. La struttura gerarchica cattolica è basata su una predominanza netta del maschile sul femminile e qualche critico cattivo potrebbe dire che è una struttura tipicamente omosessuale. E non so se questa struttura possa essere la più indicata nel censurare scelte sessuali diverse e prendersela con gli omosessuali. Molte tradizioni religiose – ma non tutte – hanno sempre colpevolizzato gli omosessuali vedendoli come peccatori: a mio avviso sono semplicemente delle persone che hanno dei gusti diversi da altri. E anche per quanto riguarda la questione della famiglia, tutto dipende da cosa si intende con questa nozione: se accettiamo che il concetto di famiglia sia legato alla finalità procreativa, è evidente che due omosessuali non possono formare una famiglia. Ma chi ci dice che una famiglia – intesa nel senso laico del contratto – debba essere per forza indirizzata alla procreazione? Questo non lo dice nessuno. Di nuovo, è una scelta. E come tale è rispettabilissima. Ma se si impone agli altri la propria scelta, questa diventa settarismo, e torniamo al discorso generale di prima.
Dopodiché, secondo me ha fatto benissimo il movimento gay a uscire fuori, a fare outing, e difendere le proprie scelte. E a mostrare che l’omosessualità non è affatto un peccato ma semplicemente una scelta di vita. E ritengo che non sia minimamente responsabile dell’inasprimento moralistico che una certa parte del mondo cattolico ha mostrato nel campo sessuale.

Il caso Welby ci ha fatto iniziare (in ritardo rispetto agli altri) a parlare di eutanasia e testamento biologico… Silvio Viale, medico, e presidente di Exit Italia ha commentato dicendo: “L’argomento è chiaramente tabù. E negli ultimi 10 anni è venuto alla ribalta grazie ai casi concreti. Perché parlare in astratto è difficile, nessuno pensa mai alla morte, alla sofferenza, a quello che potrà capitare. Coloro ai quali capita di affrontare questi argomenti, cercano poi di risolvere i problemi in qualche modo. Negli ultimi 10 anni i casi eclatanti hanno fatto sì che l’opinione pubblica si spostasse. Se negli anni ’80-’90 soltanto il 27-30% degli italiani si dichiarava favorevole – quindi una percentuale ideologica – oggi è il 70% degli italiani a dichiararsi favorevole e i contrari sono scesi al 27%”. C’è stata una rivoluzione, dunque. E anche in questo caso sia la Chiesa che la politica si trovano a rincorrere un fenomeno che avevano sempre ignorato… Lei cosa ne pensa?

Direi che soprattutto la politica si trova fortemente in ritardo rispetto a un cambiamento di sensibilità molto forte, che mi sembra ben colto dalle parole di Silvio Viale con la sua lettura che mi sembra seria e ben documentata.
Uno degli aspetti che forse si dimenticano è che questo è dovuto anche all’impatto della scienza e della tecnologia sulle nostre condizioni di vita, e di morte. L’accanimento terapeutico è frutto anche di una conquista della scienza che ci permette oggi di prolungare l’esistenza anche in condizioni estreme: e questa, di per sé, non è una cosa di cui dobbiamo aver paura. Si tratta poi di gestirla in modo responsabile, questa conquista. E non di lavarsene le mani. E anche qui gioca di nuovo la nozione di responsabilità individuale: quella di Welby è stata la scelta di un individuo coraggioso e responsabile. E da questo punto di vista mi pare un caso esemplare: né Dio né uno Stato deve impicciarsi nel modo in cui io decido di morire. Per quanto riguarda Dio, si tratta di un dialogo tra lui e la coscienza del singolo quello che conta, e non dell’intromissione di una struttura esterna, nemmeno di una burocrazia religiosa.
Sul piano pratico – capisco che questa visione individualista estrema possa sembrare troppo radicale – una buona garanzia potrebbe essere data a tutti da una ragionevole legge sul living will, cioè su quello che è stato mal tradotto in italiano come testamento biologico. Recentemente ho visto delle proposte estremamente condivisibili formulate da Umberto Veronesi ma non so se le nostre forze politiche hanno il coraggio di affrontare temi così difficili, perché questi sono tempi in cui è necessario trovare un equilibrio di ragioni contrapposte… anche tenendo conto della sensibilità dell’opinione pubblica cattolica, che tra l’altro su questo aspetto non è affatto compatta ma estremamente variegata.
Capisco sia un compito difficile ma penso che un politico vero dovrebbe occuparsi di questi problemi di vita civile seri e difficili, invece pare che si divertano di più a discutere del Partito Democratico o di Mastella, piuttosto che di Berlusconi… Però questo secondo tipo di politica, a me non interessa. Una politica che facesse i conti con il comitato scientifico del nostro Paese, invece, mi interesserebbe. Una politica che si occupasse di un rinnovamento vero della scuola di ogni ordine e grado, compresa l’Università, mi interesserebbe. Ma non è questo che leggo sui giornali o che vedo in televisione.

Lei giustamente ha citato il lungo dibattito sul Partito Democratico. Riguardo a questo c’è un aspetto tutto italiano che mi ha sempre incuriosito tantissimo: il fenomeno dei teodem e di Paola Binetti. Chi sono, politicamente, i teodem? Nel resto del mondo esistono i teocon, e stanno tutti a destra. Solo noi abbiamo la versione “di sinistra”, i teodem appunto… Sono andato a chiedere spiegazioni al principale interessato, che è appunto Paola Binetti, che mi ha risposto: “La nuova sinistra, senza più Marx, senza più materialismo, è la nostra del cattolicesimo sociale. Non c’è altro”.

Intanto, il mondo cristiano è un mondo estremamente variegato. E anche il sottoinsieme del Cattolicesimo è altrettanto diversificato e variegato. Penso a grandi prese di posizione politica contro l’oppressione, contro lo sfruttamento, contro l’imperialismo, che provengono da grandi figure di teologi e di vescovi della Chiesa Cattolica. In America latina, per esempio. E penso al teologo della liberazione Leonardo Boff in Brasile. Penso al vescovo Romero in Salvador, che ha pagato con la vita il suo coraggio. Come si fa a dire che un cattolicesimo di sinistra esiste sono in Italia? Però bisogna stare attenti a come usiamo le parole: penso che la Teologia della Liberazione e le posizioni coraggiose contro le dittature prese da rappresentanti di spicco della Chiesa Cattolica, siano stati un bellissimo esempio di impegno civile. Ma più che di sinistra lo chiamerei un cattolicesimo libertario, estremamente importante. E tra l’altro non sempre Roma, nel senso del Vaticano, lo ha guardato con simpatia.
Quanto ai cristiano-sociali italiani, il loro mi sembra un fenomeno piuttosto provinciale e non lo considero così importante a livello del dibattito internazionale e della dimensione europea. In Italia invece sono importanti perché da noi si sono unite – talvolta in modo curioso – due tradizioni per molti aspetti ostili alla tradizione liberale: un certo tipo di socialismo di certe aree del Partito Comunista, e un certo cattolicesimo che guarda, sì, alle questioni sociali, però con poco rispetto per l’autonomia individuale. Si tratta di un mix di culture che io non amo, e non nutro un eccessivo entusiasmo nemmeno per Don Milani, se devo essere sincero. Non amo l’enfasi cristiano-sociale sugli svantaggiati: non vedo perché gli svantaggiati debbano essere in assoluto privilegiati nella valutazione delle utilità dei vari individui coinvolti nell’interazione sociale. Quindi ritengo che sia meglio optare per un sano liberalismo piuttosto che per le posizioni cristiano-sociali.
Non so se questa è la sinistra… Se la vera sinistra è questa qui, beh, allora me ne vado: do le dimissioni dalla sinistra. Penso invece che la sinistra dovrebbe collocarsi nella grande tradizione dell’Illuminismo: nella rivendicazione dei diritti e in particolare di un diritto, quello della ragione umana di poter liberamente cercare la verità senza dovere chinare la testa di fronte a questa o quella autorità. Se vogliamo dirlo in un altro modo: il diritto di donne e uomini di perseguire la felicità a loro modo, senza doversi mettere in ginocchio di fronte a qualsiasi Dio. Come diceva il grande profeta protestante scozzese John Knox: “Possiamo anche prendere in piedi la cena del Signore”, e parlava ovviamente dell’eucarestia. Ciò vuol dire che si può coltivare la propria esperienza di fede e grazia anche rimanendo in piedi… senza inginocchiarsi.

Lei ha usato il termine “ragionevolezza”. Ed è un termine che, recentemente, così come è accaduto per la patola “laicità”, è stato anche preso dall’altra parte. Si parla di ragionevolezza della fede ed è a mio parere la nuova frontiera della confusione linguistica e intellettuale, e la punta di diamante della filosofia ratzingeriana. Paola Binetti cita per esempio la Fides et Ratio e Benedetto XVI che si appella alla razionalità laicale “che rende tutti noi molto più duttili nel dialogo e nella comprensione reciproca”. Che succede, la Chiesa perde colpi e cerca di rientrare dalla finestra (quella della “ragione”)?

Sinceramente, non riesco a trovare nella Fides et Ratio una grande valutazione della razionalità. Perché si tratta di una razionalità sempre vincolata alla necessità di trovare un fondamentum inconcussum, come recita il latino di quel testo. Io sono abituato ad un altro tipo di razionalità: quella scientifica, dove liberamente può dispiegarsi il conflitto delle opinioni, dove non ci sono altre autorità se non quelle dell’esperienza della buona matematica, dove le verità di oggi possono diventare le bugie di domani, andando quindi oltre il livello raggiunto, dove le fondamenta inconcussa non si raggiungono mai, e dove le soluzioni trovate portano anche delle utilità alle persone. Quando ci sono gli tsunami, sarà interessante che la gente si metta in ginocchio a pregare Dio o Allah o quello che vuole, ma la cosa migliore secondo me è cominciare a studiare la tettonica a zolle, la dinamica delle acque, ecc… in modo da predisporre degli apparati tecnologici che possano impedire il riprodursi di queste disgrazie.

Ultima domanda: come ha letto il fenomeno del Family Day?
Come un disperato bisogno di identità da parte di persone che si trovano un po’ spaventate dalla libertà richiesta da altre persone. Quindi come un fenomeno essenzialmente dettato dalla paura e dal bisogno di rivalsa. Non ho una grande simpatia per quelli del Family Day...
E se da questo viene fuori una politica settaria, sono dell’idea che sia necessario rispondere con tutti gli strumenti che sono a disposizione di donne e uomini che preferiscono invece essere liberi.