sabato 11 gennaio 2014

l’Unità 11.1.14
Ora gli italiani avranno il cognome della madre
Ma solo con l’ok di entrambi i genitori
di Felice Diotallevi


Repubblica 11.1.14
Cognome e pastoie
di Chiara Saraceno


L’idea che ci debba essere un privilegio paterno, almeno nella continuità del cognome, continua a prevalere tra i nostri legislatori. Il disegno di legge sul cognome che può essere attribuito ai figli approvato dal Consiglio dei ministri sembra partire con il piede sbagliato, rischiando così di incorrere di nuovo nella censura della Corte di Strasburgo. Secondo le notizie di agenzia, il disegno di legge prevede che il figlio «assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori». Questa formulazione ancora una volta privilegia il cognome paterno, che verrebbe attribuito di default, mentre per attribuire il cognome materno o quello di entrambi i genitori occorrerebbe una esplicita richiesta e dichiarazione di consenso. In ottemperanza al principio di libertà di scelta nelle questioni che riguardano la vita privata e della uguaglianza tra madri e padri, la norma dovrebbe essere formulata in modo da non privilegiare alcuna delle tre soluzioni, chiedendo che all’atto della dichiarazione di nascita, eventualmente prima che essa avvenga, i genitori dichiarino quale cognome vogliono attribuire al figlio. La procedura sarebbe simile a quella richiesta oggi quando il padre non coniugato con la madre vuole riconoscere il figlio dandogli il proprio cognome.
Non è, inoltre, chiaro perché non dovrebbe essere possibile almeno aggiungere il cognome della madre ai figli nati prima dell’entrata in vigore della legge. Capisco le difficoltà burocratiche, ma anche di continuità della riconoscibilità sociale di un individuo, a prevedere un cambiamento radicale di cognome. Ma la possibilità di aggiungerlo senza dover fare lunghissime trafile burocratiche come avviene attualmente non dovrebbe presentare problemi insormontabili e soddisferebbe coloro che avrebbero desiderato farlo, ma ne sono stati scoraggiati, quando non impediti. Contestualmente si dovrebbe modificare la norma che stabilisce che all’atto del matrimonio la moglie aggiunge al proprio il cognome del marito, lasciando liberi entrambi i coniugi di aggiungere o meno il cognome dell’altro e di definire quale sia il cognome di famiglia.
Giacciono in Parlamento diverse proposte di legge che toccano questi temi, ma sembra che la presidenza del Consiglio, o chi ha formulato il disegno di legge, li ignorino. Temo che anche in questo caso siamo di fronte alla logica consueta che entra in azione in Italia quando si toccano questioni che hanno a che fare con la famiglia: si arriva con ritardo a regolare ciò che altrove da tempo fa parte dei diritti di libertà e in nome di questo ritardo si pretende di procedere lentamente, perché la società “non sarebbe pronta”. È successo con il divorzio, arrivato tardi e con vincoli (processo a due stadi, con lungo periodo di attesa intermedio) sconosciuti in altri Paesi. È successo con l’equiparazione piena tra figli naturali e legittimi, per cui ci sono voluti oltre quarant’anni, più un anno tra la modifica della legge e i decreti attuativi. È successo con la riproduzione assistita, che è regolata da una delle leggi più restrittive al mondo. Sta succedendo con il riconoscimento delle coppie omosessuali, per le quali si inizia, tra molte resistenze, a discutere di unioni civili, mentre i Paesi che le hanno introdotte da più tempo stanno passando al matrimonio. E sembra stia succedendo anche con il cognome. Nel frattempo, in società, le famiglie, i rapporti tra uomini e donne, il modo in cui si decide di generare, i rapporti tra le generazioni cambiano e in molti casi rischiano di rimanere fuori, non solo dalle regole, ma dalle protezioni. Fino alla prossima sentenza di una Corte.

l’Unità 11.1.14
È decaduto anche Cota
Il Tar accoglie finalmente il ricorso e annulla il voto in Piemonte: c’era una lista falsa
Bresso: giustizia è fatta. Il Pd: subito alle urne. Chiamparino pronto a candidarsi
articoli di Carugati, Fusani


La Stampa 11.1.14
I tempi di un Paese normale
di Luigi La Spina


C’è un Paese, nel civile e democrati - co occidente, in cui l’organo dello Stato più importante, quello che rappresenta la volontà popolare, il Parlamento, è composto, da quasi un anno, da senatori e deputati eletti con una legge contraria alla Costituzione. Nello stesso Paese, una delle più grandi regioni del nord, il Piemonte, è governata, da quasi quattro anni, da un presidente e da una giunta eletti illegittimamente.
Questo Paese è l’Italia.
La decisione con la quale il tribunale amministrativo piemontese, ieri, ha dichiarato nulle le elezioni che, nella primavera 2010, avevano deciso, per poche migliaia di voti, la vittoria dello sfidante leghista, Roberto Cota, sull’ex presidente Mercedes Bresso, ricandidata dal centrosinistra, non è certo sorprendente nel merito della questione. Dopo l’accertamento della falsità di alcune firme su una lista d’appoggio al candidato di centrodestra, la sentenza era prevedibile. Ma il verdetto è sconvolgente perché arriva quasi alla fine di una legislatura regionale e, per di più, non è ancora definitivo, dal momento che il ricorso dei perdenti al Consiglio di Stato sicuramente allungherà ancora questi tempi infiniti, con il rischio pure di un annullamento del giudizio del Tar.
Si può ancora definire «normale» un Paese nel quale ci vogliono quattro anni per verificare la regolarità di una elezione importante, come quella per una Regione? Si può ammettere che per quasi un’intera legislatura il presidente del Piemonte e la sua giunta abbiano esercitato un potere illegittimo, abbiano emanato leggi illegittime, abbiano deciso nomine illegittime? L’Italia ha dimostrato di sopravvivere, con il sacrificio dei suoi cittadini, a una crisi economica devastante per molte famiglie. Come può sopravvivere l’immagine di questo Paese quando le sue istituzioni sono esposte al rischio peggiore, quello del ridicolo? Come si può pretendere di esigere il rispetto che l’Italia dovrebbe riscuotere all’estero, quando una disputa elettorale non viene decisa nel giro di un mese, come avviene in tutti i Paesi del mondo, ma si trascina fino a quando la soluzione diventa sostanzialmente inutile. Perché la politica, come la vita degli uomini, non si può «resettare» come si dice nei linguaggi informatici.
La gravità del caso Piemonte è proprio quella dell’assoluta osservanza di leggi e procedure. Non si possono imputare speciali pigrizie ai giudici amministrativi, né particolari atteggiamenti ostruzionistici agli avvocati delle parti. Tutti hanno compiuto, con scrupolo e competenza professionale, i doveri imposti dal loro ruolo. L’inaccettabile ritardo del verdetto (quasi) definitivo dimostra, in maniera simbolicamente molto efficace, la paralisi in cui l’Italia è sprofondata da almeno vent’anni. Vent’anni perduti in dispute inconcludenti, in cui alla vicende giudiziarie di Berlusconi sono state sacrificate riforme della giustizia indispensabili, quelle che interessano davvero i cittadini. Quelli che aspettano da decenni che si concluda una causa civile, quelli che sono costretti a rinviare o a cancellare investimenti che darebbero preziosa occupazione perché ad ogni passo s’imbattono in ricorsi ostativi dalle parti più disparate, con le pretese più improbabili. Quelli che, in attesa di giudizio e magari innocenti, affollano per anni le carceri, le cui condizioni vergognose ci espongono alle condanne delle corti internazionali.
Una classe politica del tutto inadeguata come quella che ci ha governato nella cosiddetta seconda Repubblica ha condannato il nostro Paese all’immobilismo più assoluto. Una nazione in cui le decisioni, anche le più importanti, vengono delegate ai ritmi lenti e tortuosi della giustizia italiana. Così, del tutto regolarmente per carità, la Corte Costituzionale scopre, solo dopo quasi dieci anni, che la legge con la quale si elegge il Parlamento ha portato alla Camera e al Senato illegittimi rappresentanti del cosiddetto popolo sovrano. Così, dopo quattro anni, (forse) si stabilirà che Cota e la sua giunta hanno esercitato in Piemonte un potere abusivo, occupando abusivamente poltrone che sarebbero spettate ad altri.
Non servono agli italiani facili e demagogiche proteste, né ricette miracolistiche e dall’applicazione impossibile, ma una riflessione seria e severa sulle responsabilità collettive in questi anni di sciagurata dilapidazione del patrimonio nazionale non solo economico, ma soprattutto morale e civile. La battaglia di tutti contro tutti, corporazione contro corporazione a colpi di veti reciproci, ha impedito nel nostro Paese il varo di tutte quelle riforme, radicali e urgenti, indispensabili perché l’Italia torni a essere una normale democrazia dell’Occidente. A cominciare da quella sui tempi della giustizia.

La Repubblica 11.1.14
La giustizia ingiusta
di Gianluigi Pellegrino


GIUSTIZIA è fatta. Ma ingiustizia pure.
Una sentenza che ristabilisce la democrazia violata in una grande regione è sacrosanta. Ma se la giustizia arriva quando la legislatura sta quasi finendo, e quando dopo 4 anni i cittadini fanno fatica a ricordarecosa sia successo, è anche azzoppata.
Peraltro mai come questa volta la colpa del ritardo non è dei giudici ma di un sistema malato e di un ordinamento antiquato che meriterebbe riforma, per rendere efficiente la giustizia non già per imbrigliarla e ostacolarla come si è ripetutamente fatto negli ultimi anni. Tra l'altro non consentendo al giudice amministrativo in casi come questo di dare la propria risposta senza dover attendere il lungo formarsi del giudicato davanti ad altre giurisdizioni.
L'elezione di Cota a presidente della Regione Piemonte e la vittoria del centrodestra in quella regione furono clamorosamente illegittime perché rese possibili da una lista fantasma e farlocca non già per la solita manfrina delle firme posticce dei sottoscrittori ma perché proprio i candidati nemmeno sapevano di essere candidati e le loro firme di accettazione erano state grossolanamente falsificate. Vecchietti disabili, spesso analfabeti, messi in lista a loro totale insaputa per arrivare al numero minimo di candidati imposto dalla legge. Tutto questo, anche se nessuno ieri lo ha ricordato, è stato accertato da ben tre sentenze del giudice penale di primo, secondo e terzo grado, sicché il Tar altro non poteva fare che prenderne atto e sancire l'annullamento delle elezioni.
Gli scandali quindi sono ben altri di quelli inesistenti cui abbaia la Lega, confidando sulla ignoranza dei fatti da parte della gente, riecheggiando stanche litanie berlusconiane contro i giudici e senza avvedersi di quanto grottesca possa essere l'etichetta di toghe rosse affibbiata ai paludati giudici amministrativi.
Lo scandalo è piuttosto che lestofanti e ladri di democrazia come quelli che hanno orchestrato questa grave e grossolana truffa in danno degli elettori abbiano potuto più volte ripetere il loro imbroglio e abbiano trovato accogliente alleanza in forze che nel nord vorrebbero fregiarsi del buon governo, per poi franare sotto gli scandali delle mutande verdi, dei Belsito e ora delle liste farlocche. Lo scandalo è poi che in un Paese minimamente civile Cota avrebbe dovuto dimettersi non appena la truffa di quelle liste è risultata conclamata senza che ci fosse certo bisogno di attendere i lunghi tempi del triplice giudizio penale e infine della sentenza del Tar. Tempi che invece ora si vogliono ancora allungare confidando in una sospensione cautelare del Consiglio di Stato sperando che infine in un modo e nell'altro si arrivi all'approdo del 2015.
E lo scandalo è quello di non avere un sistema di giustizia che in questi casi possa tempestivamente intervenire, prevedendo che i ricorsi sulle ammissioni delle liste siano immediati senza bisogno di attendere l'esito del voto o comunque consentendo al giudice amministrativo di potersi pronunciare rapidamente senza necessità di attendere il lungo formarsi di un giudicato penale o ordinario, come invece ha dovuto fare giungendosi così quasi a fine legislatura e consentendo quattro anni di governo a chi non avrebbe avuto titolo.
Infine lo scandalo più triste è quello di una politica sempre più debole e inerte e per questo sempre più sostituita da altri poteri, come del resto è avvenuto con la Corte costituzionalesulla legge elettorale. Perché anche in questa vicenda piemontese la politica da tempo avrebbe dovuto intervenire. Nel centrodestra, proprio ove mai in buona fede come Cota reclama, si sarebbe dovuto spontaneamente prendere atto di aver sbagliato nell'accettare l'alleanza con imbroglioni e lestofanti e ritornare davanti agli elettori piemontesi per chiedere una conferma ripulita dalla truffa. Ma anche il centrosinistra è mancato di un'efficace iniziativa politica con cui avrebbe dovuto accompagnare il sacrosanto ricorso ai giudici perfare correggere un così evidente imbroglio fatto in danno degli elettori prima ancora che di una parte politica.
Comunque sia non è poco che comunque alla fine ci sia stato un giudice a Berlino a sanzionare i lestofanti e ristabilire la legalità. Se non altro per dire ai cittadini che alla fine (sia pur troppo tardi) chi sbaglia paga. Ma se come Paese vogliamo tornare a crescere c'è bisogno insieme di una politica che batta un colpo e di una giustizia meno azzoppata.

Corriere 11.1.14
I 45 mesi d’incertezza del diritto
di Aldo Cazzullo


Un Paese in cui l’elezione diretta di un presidente di Regione viene annullata dopo quasi quattro anni non è un Paese serio.
Non si tratta di difendere la modestissima prova di governo di Cota, oltretutto macchiata dalle spese personali pagate dai contribuenti. Non si tratta neppure di entrare nel merito del contenzioso che ha portato alla sentenza di ieri.
Se ci sono dubbi su un’elezione, una democrazia li risolve nei giorni successivi, e in via definitiva, una volta per tutte. È sacrosanto ovviamente far rispettare le norme, verificare se le firme di presentazione delle liste sono regolari, ordinare se necessario di ripetere il voto. Ma subito; non dopo 45 mesi e mezzo. Non è solo questione di efficienza, ma di certezza del diritto e di rispetto degli elettori. Un verdetto tardivo getta un’ombra sugli atti del presidente e della sua giunta, genera ulteriori controversie, getta altro discredito sulla politica, approfondisce la distanza, mai stata così ampia, tra i cittadini e i suoi rappresentanti. Le elezioni contestate non sono uno specifico italiano. Nel 2000 in Florida la proclamazione del presidente degli Stati Uniti restò appesa per giorni a poche centinaia di voti; fino a quando non si espresse la Corte Suprema, chiudendo la questione. Gore non ne fu certo soddisfatto, ma accettò il verdetto. Quattro anni dopo, Kerry attese una notte prima di concedere la vittoria a Bush, chiedendo di ricontare i voti dell’Ohio, fino a quando non si rassegnò alla sconfitta. Nel 2003 un governatore in carica (il democratico Gray Davis in California) venne rimosso: ma dagli elettori, con un referendum; non dalla magistratura amministrativa, con una sentenza fuori tempo massimo. Già l’Italia è il Paese della giustizia civile dai tempi infiniti e delle condanne penali vanificate dai decreti svuotacarceri. Il Paese in cui gli investitori stranieri attendono oltre un decennio i permessi per costruire un’infrastruttura. Il Paese in cui il partito più votato (senza considerare gli italiani all’estero) alle ultime elezioni considera illegittimo il Parlamento di cui fa parte.
La sentenza della Consulta che ha sancito l’incostituzionalità di una legge elettorale pessima non può ovviamente essere paragonata alla vicenda della Regione Piemonte; i giudici costituzionali si sono trovati a intervenire dopo anni in cui la classe politica dibatteva di una riforma senza avere la dignità di farla. Resta un fatto: la mancanza di certezza del diritto è una delle questioni più gravi della vita pubblica italiana, perché alimenta la sfiducia nello Stato, nel futuro, in noi stessi. Almeno le istituzioni dovrebbero restare punti di riferimento ineludibili. Se chi le governa le disonora, i cittadini lo manderanno a casa. Ma la democrazia non può essere in balia di un Tar.

l’Unità 11.1.14
«Renzi è una speranza Questo governo lo logora»
«L’idea di una federazione con i democratici mentre sostengono Letta e Alfano è surreale
L’unico collante dell’esecutivo è l’austerity»
intervista di Rachele Gonnelli


Repubblica 11.1.14
L’intervista
Il capo di Sel tende la mano al segretario democrat: “Rompe la separatezza del Palazzo e pone questioni che esplodono nella società”
Vendola: “Un progetto comune con Renzi demolire le larghe intese e battere Grillo”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Lavoreremo per ricostruire un centrosinistra che sia l’alternativa credibile nei Comuni, nelle Regioni ovunque si vota in primavera». Nichi Vendola, alla vigilia del secondo congresso di “Sinistra ecologia e libertà”, tesse la tela del centrosinistra.
Vendola, Sel si scioglierà al momento opportuno, lei ha detto.
Non è arrivato il momento?
«Più che interessato al partito sono interessato a riaprire la partita in Italia, noi abbiamo lavorato per fare vincere il centrosinistra. Tra noi e il Pd c’è oggi un muro che si chiama governo di coalizione con un pezzo della destra.
C’è stata l’uccisione politica di “Italia Bene comune”: è stato per noi spiazzante trovarci con un esito così paradossale e nefasto, lo schianto cioè di una uscita da sinistra dalla crisi del berlusconismo. È stato anzi dato un salvagente al Cavaliere, e poi ai diversamente berlusconiani, nel nome dell’emergenza economica e dell’austerity».
Però Renzi restituisce al Pd una diversa prospettiva?
«Trovo vitale lo stile di Renzi che quotidianamente cerca di rompere la separatezza del Palazzo e di porre nell’agenda politica le questioni che esplodono nella società. Sul Job Act la discussione dobbiamo ancora cominciarla, ma in qualche maniera ci spinge a ragionare finalmente di penuria di lavoro, di precarietà del lavoro e di democrazia sui luoghi di lavoro. Discuteremo. Ci confronteremo ma si ha la sensazione che, vivaddio, il lessico della politica provi a interpellare la vita. Se posso dirlo a favore di Renzi, non si comporta come un pugile suonato di fronte alla virulenza dei populismi ed è in grado di sfidare e spiazzare Beppe Grillo. Però...».
Però?
«Renzi rischia il logoramento, perché uno non può essere la giovane e brillante immagine di una alternativa possibile e il capo del principale partito di un governo avvitato in mille contraddizioni. La levatrice del populismo europeo è l’austerity, quella specie di superstizione ideologica che ha asfaltato di povertà le strade dell’Europa, come ben dice Barbara Spinelli, voce meravigliosamente fuori dal coro».
Quale è a questo punto l’orizzonte in cui si muove Sel?
«Non è la bottega, il nostro orizzonte, né ottenere lo 0,... per cento in più. Ma come ricostruire una speranza e quindi fare un’alleanza di forze democratiche e di progresso. Credo sia finita malamente la storia dell’autosufficienza del Pd, e che sia realistico immaginare una coalizione di centrosinistra ».
Ma se alle politiche si votasse col maggioritario, fareste listecomuni con il Pd?
«Siamo dentro il passaggio cruciale della riforma elettorale, dobbiamo metterci in massimo impegno e energia: il Mattarellum è una soluzione a disposizione. A Renzi dico: lavoriamo insieme per consentire ai cittadini italiani di potersi scegliere una coalizione e un programma di governo».
Una coalizione “modello Unione” con un simbolo comune?
«Oggi è una discussione prematura. Questa è la stagione politica in cui il sogno che avevamo assaporato di essere maggioranza di governo e di provare a sperimentare gruppi parlamentari unitari con il Pd, si è infranto. Però quando Renzi parla di “civil partnership” per le unioni civili io penso: bene, è un passo avanti, ma io ho il diritto di battermi per i matrimoni gay. Non rinuncio a nessuna delle mie differenze».
Alle europee con chi correrete? Più vicini a Schulz o a Tsipras?
«Lavoriamo nello spazio aperto tra le diverse culture politiche europee, le culture ambientaliste e libertarie. Sono un vantaggio gli accenti critici di Schulz contro l’austerity per tutta la sinistra in Europa; Tsipras è tutt’altro che euroscettico, ma parla della rifondazione dell’europeismo. Sulle liste non abbiamo ancora deciso, ne discuteremo al congresso».

l’Unità 11.1.14
Cuperlo stoppa Fassina: «Nel Pd non ci sono dittatori»
di Vladimiro Frulletti


il Fatto 11.1.13
Così vicini, così lontani
Renzi va a Palazzo Chigi, ma i due non sono d’accordo su niente
di Wanda Marra


Alle otto in punto Matteo Renzi varca spedito la soglia di Palazzo Chigi. E così, l’incontro con Enrico Letta, semi-annunciato, poi smentito, poi fatto trapelare, prende il via. “Sei venuto ad annunciarmi che ti candidi alle elezioni?”, chiede il premier. “No, sono venuto a dirti che mi candido a sindaco di Firenze”. Già decodificando le battute, il tono dell’incontro è chiaro: Enrico chiede tra le righe a Matteo se ha deciso di farlo cadere. L’altro non dice né sì, né no. Il segretario democrat ha effettivamente deciso di correre a Firenze, ma la campagna elettorale inizierà a fine marzo. Fino a quel momento può sempre cambiare idea e farne un’altra di campagna. Per un’ora e mezzo i due parlano di legge elettorale, riforme, lavoro. Dal premier una disponibilità dichiarata su tutte le questioni, anche a mediare su Bossi Fini e unioni civili. Ma la distanza resta: se è per il lavoro, Palazzo Chigi vuole essere certo che il piano renziano sia condiviso da tutto il Pd. Se è per la legge elettorale, Letta vuole avere l’assicurazione che si parte dalla maggioranza, ma Renzi ribadisce che lui parla con tutti. Fa freddo fuori e freddi sono i toni dentro.
IL PREMIER vuole stringere sul patto di governo (chiudendolo il 21), il segretario non si vuole impegnare al buio, vuole essere certo che l’esecutivo produca “fatti” e mantenere la carta delle elezioni. Enrico ha ottenuto che Matteo andasse da lui, dopo che giovedì gli aveva praticamente sbattuto la porta in faccia, restandosene a Firenze. Tattica. A parte la “photo opportunity” a favore dei media, rispetto agli scorsi giorni è cambiato davvero molto poco. I commenti ufficiali sono tutti del governo. A caldo l’incontro viene definito “molto utile e positivo”. Poi nel pomeriggio in un’intervista a Rainews Letta chiarisce che “con Renzi siamo entrambi determinati ad andare avanti”. Sostiene che sul lavoro “c’è moltissima sintonia”. Apre ufficialmente al rimpasto. E però, torna a chiedere “un cambio di passo”, auspica addirittura un “codice di comportamento” per ministri e forze politiche. E affonda: “Per la legge elettorale si deve partire dalla maggioranza”.
Matteo Renzi ufficialmente non dice neanche una parola. Dopo l’incontro fila diritto al Nazareno, dove rimane per tutto il giorno. Per quella che è a tutti gli effetti la prima giornata da segretario riceve prima i ministri Delrio e Franceschini, poi Gianni Cuperlo, il capogruppo al Senato Zanda. Parla al telefono con Speranza, capogruppo alla Camera. Si intrattiene con Maria Elena Boschi e Lorenzi Guerini. Alla sua porta c’è una processione: si vedono anche vecchie conoscenze come Roberto Reggi.
DAL SUO ENTOURAGE si racconta che Matteo non condivide l’entusiasmo del premier per la buona riuscita dell’incontro, che sulla legge elettorale è ancora tutto aperto, e rimane possibile un incontro con Berlusconi. D’altra parte, non c’è ancora una proposta definitiva neanche nel Pd. Per Matteo la priorità sono i tempi. Il Nuovo centrodestra vuole il doppio turno di coalizione: un modello che potrebbe dare nelle due Camere due maggioranze diverse. E dunque, per farlo, bisognerebbe prima abolire il Senato. Con i tempi che si allungano e le armi spuntate rispetto alla minaccia di elezioni. B. spinge per il sistema spagnolo, ma l’altroieri, nella riunione dei deputati democratici della commissione Affari costituzionali, alcuni, dalla Bindi in poi, hanno chiarito che non lo votano. Per alcuni il fatto che le liste siano molto corte lo rende incostituzionale dopo la bocciatura del Porcellum da parte della Consulta. E allora, Renzi spinge per un Mattarellum corretto in senso maggioritario che ad Alfano e a molti nel Pd non piace. Il tutto in attesa delle motivazioni della Consulta attesa per la prossima settimana. La quadra è evidentemente lontana. Renzi ieri ha istruito la pratica per guidare il partito ai prossimi passaggi: martedì c’è la riunione con i senatori, mercoledì la segreteria, giovedì la direzione, il 21 la riunione con i deputati. Che non controlli del tutto i gruppi di Camera e Senato è noto. In serata Franceschini precisa: “Facciamo una buona legge elettorale senza far cadere il governo”. Una variabile: se la legge si fa, il governo può cadere per andare al voto. Se non si fa, il governo può cadere per manifesta incapacità di portare a termine un compito prioritario.

Repubblica 11.1.14
Da Merola a Emiliano cresce la richiesta di fare l’Election day il 25 maggio. De Luca: spezzare il blocco politico
I sindaci renziani bocciano le larghe intese “Meglio andare al voto a maggio”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Non tanto un consiglio, piuttosto una sentenza collettiva. Di condanna: «Si approvi una nuova legge elettorale, poi si torni già a maggio ad elezioni». È la carica dei sindaci renziani, pattuglia agguerrita e in rapida ascesa. Hanno messo nel mirino Palazzo Chigi. Senza giri di parole, perché chi vive sul territorio è abituato a viaggiare spedito verso il cuore del problema. E il problema, ad ascoltarli, è l’esecutivo guidato da Enrico Letta.
Il primo a suonare la carica, nell’assalto lanciato contro il fortino governativo, è il primo cittadino di Bologna Virginio Merola: «Suggerirei a Matteo di non perdere tempo. Sono stufo di essere preso in giro. Non ci sono le condizioni per fare un patto di coalizione. E dunque - sostiene - invece di cincischiare l'unica cosa da fare è impegnarsi a fare subito una legge elettorale e andare a votare il 25 maggio con le Europee. Approfittiamo del grande consenso che ha il nostro segretario».
Il partito dei sindaci renziani scaglia macigni contro il premier. Come Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno che si tiene spesso alla larga dai concetti felpati: «Continuiamo a vivere in una situazione di blocco politico. Io resto dell'idea che, una volta approvata la riforma elettorale, si debba tornare a votare ed avere un governo stabile». Parole che pesano, soprattutto perché pronunciate da un viceministro dell’attuale esecutivo.
Come se non bastasse, anche Michele Emiliano si schiera con i colleghi per invocare una svolta. Con tanto scetticismo: «Ho sempre sostenuto che dopo l'approvazione della legge elettorale bisognerebbe tornare alle urne sefosse chiara l'impossibilità di approvare altre importanti riforme entro il 2015». Né intravede grandi spazi di manovra, il primo cittadino di Bari: «Senza un patto di governo che consenta di adottare provvedimenti rilevanti per la vita del Paese - a cominciare dalla cancellazione del bicameralismo perfetto - non avrebbe senso portare avanti questa legislatura».
Dal cuore del Meridione al simbolo del Nord est, la ricetta dei sindaci renziani non cambia. Sentite Giovanni Manildo, che guida Treviso: «La legge elettorale va fatta nel tempo più veloce possibile, poi si può andare al voto per portare quel cambio di marcia di cui ha bisogno l’Italia. Anche perché sottolinea - una maggioranza più chiara può essere un vantaggio per tutti». Ed Emilio Del Bono, primo cittadino di Brescia: «Legge elettorale e poi elezioni? Più pragmaticamente - sorride - mi auguro che il governo ci garantisca il gettito della Tasi, altrimenti è meglio che vada a casa. Seriamente, stimo Letta e penso che il governo possa recuperare, ma certo un po’ di delusione c’è».
Ufficialmente non esiste una regia, di certo però l’attacco appare concentrico. Gli argomenti, poi, ricalcano quelli della prima fila renziana. Merola, per dire, spera in un rapido accordo «con chi ci sta, ovviamente anche con Berlusconi », per seppellire il Porcellum. E non risparmia neanche Fabrizio Saccomanni: «Non è il ruolo del tecnico quello giusto per fare una sana politica economica. Vi pare possibile che da otto mesi questo governo non risolva il problema delle risorse che mancheranno ai Comuni per il passaggio dall'Imu alla Tasi? Una pazzia». Decidessero loro, Letta dovrebbe iniziare seriamente a preoccuparsi.

Repubblica 11.1.14
Il Partito democratico
Primarie regionali, è di nuovo scontro nel Pd
Il leader le vuole il 16 febbraio, no di Cuperlo. Fassina: non ci serve un dittatore
di G. C.


ROMA — Il primo test del Pd renziano sarà il 16 febbraio: di nuovo primarie, e questa volta per l’elezione dei segretari regionali del partito. Renzi ne ha voluto fare un appuntamento tutt’altro che marginale e ha immaginato un election day: dappertutto in Italia il popolo delle primarie sarà chiamato ai gazebo per i leader locali. Ma la minoranza dem non ci sta.
Gianni Cuperlo, presidente del partito che ieri ha avuto con il segretario un lungo colloquio su tutti i temi all’ordine del giorno, usa toni pacati: «Trovo ragionevole che ciascuna Regione fissa in modo autonomo la data del proprio congresso senza scegliere di centralizzare tutto». La contro proposta quindi qual è? «Un range di un mese in cui consentire a ciascuna regione di organizzarsi ». I bersaniani sperano ancora di più che ci sia flessibilità: «A me è stato detto che non sarebbe stato tutto così perentorio - spiega Alfredo D’Attorre -Comunque il fronte principale di tensione all’interno del partito in questo momento è l’atteggiamento nei confronti del governo e la riforma elettorale». I renziani avevano anche cercato una semplificazione delle regole, e quindi di abolire il voto degli iscritti che è fissato un paio di settimane prima delle primarie. Magli attuali segretari regionali hanno fatto muro. Tutto è rimasto com’è.
Lorenzo Guerini, il portavoce della segreteria, getta acqua sulle polemiche: «Il 16 febbraio è la data che proponiamo alla direzione, che è l’organo deputato a decidere». Però ad alzare i toni ci ha già pensato Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia dimissionario. ARepubblicaTv,Fassina attacca: «Serve una leadership forte, ma va evitato il rischio di far diventare il Pd un partito personale. Ci vuole un partito che torni a essere un partito. Non abbiamo bisogno di un dittatore, ma dobbiamo essere un soggetto politico». Rincara: «Mi sono dimesso per le ambiguità del Pd verso Letta. Percepisco in modo netto che il segretario del mio partito oltre a mettere in evidenza gli errori del governo si lascia andare sistematicamente a caricature distruttive: abbiamo avuto fase in cui era “il governo delle marchette”, e non ho mai sentito una parola di apprezzamento anche su misure importanti che pure abbiamo raggiunto ». Bersaniano di ferro, l’ex vice ministro si candida a guidare l’opposizione interna e a creare un “correntone” dem. Non ci stanno i “giovani turchi”. Il ministro Franceschini lo rimprovera: «Fassina usa parole esagerate, anche perché queste accuse preventive a Renzi sono sbagliate».
Cuperlo a sua volta prende le distanze: «Non serve un dittatore e non credo ce ne sia uno. C’è un segretario scelto a larghissima maggioranza». E Fassina precisa: «Con la parola “dittatore” non mi riferivo a Renzi». Sultavolo c’è anche il dibattito sulla ricostituzione del centrosinistra. La prima tappa saranno le amministrative e le europee della prossima primavera. Il presidente del Pd, che è stato lo sfidante di Renzi alle primarie, afferma: «Si ragiona di una possibile federazione tra il Pd e Sel alle prossime elezioni europee. Riaprire il cantiere, unire e allargare la sinistra, prendere atto che dopo la crisi molto è destinato a cambiare: a me pare ilsentiero giusto». Un apprezzamento viene anche da Vannino Chiti, presidente della commissione Ue del Senato: «È importante che tutte le forze progressiste si trovino unite, anche in Italia, a sostegno della candidatura di Martin Schulz alla presidenza della commissione europea. Quindi, ben venga una casa comune con Sel di progressisti e riformisti».

La Stampa 11.1.14
Governo, le ultime decisioni
Al via l’esercito light. meno uomini, più addestramento
Parte la riforma che taglierà i ranghi di 30 mila unità in 10 anni
di Francesco Grignetti

qui

l’Unità 11.1.14
Il mercato non basta subito un «New Deal»
Vogliamo fare un passo avanti, oltre le parole?
Renzi e il Pd ci diano una mano ad approvare oggi la legge sulla rappresentanza sindacale
di Giorgio Airaudo


Corriere 11.1.14
La svolta sulla rappresentanza
Sindacati, vale la soglia del 5%
Intesa tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil
di Roberto Bagnoli


ROMA — Accordo Confindustria-sindacati sulle nuove regole per la democrazia in fabbrica. Dopo anni di discussioni e sette mesi dalla firma (31 maggio) per una intesa quadro ieri sera i tre leader sindacali Susanna Camusso (Cgil), Raffaele Bonanni (Cisl) e Luigi Angeletti (Uil) hanno inviato per email a viale Astronomia la loro firma all’ultima versione del testo di 26 pagine — datato 23 dicembre scorso — dopo alcune piccole modifiche. In pratica viene introdotta anche nel privato la soglia minima del 5% di accesso alla contrattazione — come già avviene nel pubblico impiego — e l’esigibilità degli accordi di fabbrica e dei contratti presi a maggioranza. Chi non rispetta gli impegni, sia sigle sindacali che imprenditori, potrà subire delle sanzioni stabilite da un organismo arbitrale. Toccherà all’Inps (col quale dovrà essere stipulata una specifica convenzione) e al Cnel la certificazione delle degli iscritti al sindacato e delle votazioni in azienda.
L’accordo, voluto con grande tenacia soprattutto dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e seguito tecnicamente dal responsabile delle relazioni industriali Pierangelo Albini, dovrebbe sanare il vulnus all’articolo 39 della Costituzione che impone «l’efficacia obbligatoria per tutte le categorie alle quali il contratto si riferisce». Ieri in tarda mattinata Squinzi si è recato al Quirinale per un lungo colloquio (oltre un’ora) con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ufficialmente è stata una visita di cortesia per discutere la situazione economico e politica del Paese ma l’incontro è servito anche al presidente di Confindustria per preannunciare al capo dello Stato i termini dell’accordo definitivo cui Napolitano teneva moltissimo.
In una nota Confindustria ha precisato che l’intesa «misura la rappresentatività degli attori e garantisce la piena attuazione degli accordi raggiunti contribuendo a migliorare il quadro di riferimento per tutti coloro che vogliono investire nel nostro Paese». Susanna Camusso si augura che «presto anche con le altre associazioni datoriali si possa raggiungere questo importante traguardo che costituisce il modello per dare finalmente piena attuazione al dettato costituzionale». L’accelerazione verso la firma conclusiva, dopo l’impasse avutasi il 13 dicembre scorso per alcuni ripensamenti di Angeletti cui seguì un ultimatum di Squinzi, si spiega anche con la crescente volontà politica di intervenire con una legge non molto gradita dalle Parti sociali gelose della loro autonomia. Per il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni quella raggiunta ieri «è una svolta epocale che cambia decisamente nel nostro Paese il volto delle relazioni industriali che passano da un sistema antagonistico e conflittuale, ad un sistema partecipato, moderno e ben governato». Bonanni è convinto che ora «si apre una stagione che può favorire la buona economia».
Per l’associazione di viale Astronomia «l’accordo costituisce un vero e proprio testo unico composto da quattro parti che regolano: la misurazione della rappresentanza sindacale a livello nazionale e aziendale; la titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale ed aziendale; le modalità volte a garantire l’effettiva applicazione degli accordi sottoscritti nel rispetto delle regole concordate».
Così, mentre il Jobs Act di Matteo Renzi comincia, almeno a parole, a fare capolino sulla scena del dibattito politico, imprese e sindacati si portano avanti per modernizzare le relazioni sindacali ed evitare in futuro un nuovo caso Fiat-Fiom. Il leader degli imprenditori ieri ha sfruttato la giornata romana anche per incontrare il vicepremier Angelino Alfano e i ministri “economici” dell’Ncd e per tenere una relazione all’Accademia dei Lincei sullo «scenario europeo sotto la presidenza italiana». Squinzi si è impegnato a realizzare un «manifesto per le elezioni europee» per tracciare le linee che «permetteranno all’Italia di essere autenticamente protagonista». Il 2014, secondo la tesi sostenuta dal patron della Mapei, «segna un punto di non ritorno e sarà una sfida decisiva per costruire una nuova visione per i cittadini e i governi europei».
Il decreto Destinazione Italia, pur riconoscendone le molte valenze positive, è stato criticato ieri, nel corso di una audizione alla Camera, dal delegato confindustriale per gli investitori esteri Giuseppe Recchi, secondo il quale la norma sul credito di imposta per ricerca e sviluppo «è poco incisiva perché limitata al 50% della spesa effettiva». In genere, per quanto riguarda le misure fiscali «si tratta di una occasione mancata».

il Fatto 11.1.14
A motori spenti
Fiat, piano-Italia coi fichi secchi
di Salvatore Cannavò


La storia più curiosa nell’ampia intervista concessa ieri da Sergio Marchionne al direttore di Repubblica, Ezio Mauro, è l’esistenza di “capannoni-fantasma, mimetizzati in giro per l’Italia, dove squadre di uomini preparano i nuovi modelli Alfa”. Quella più concreta è che il gruppo che nascerà dalla fusione tra Fiat e Chrysler avrà la testa negli Usa, sarà quotato a New York e, soprattutto, non vedrà un centesimo uscire dalle tasche degli Agnelli. E sarà un gruppo fondato su una gamma di modelli diversa da quella storicamente conosciuta: via le auto come la Punto o la vecchia Uno, la strategia di Marchionne prevede due modelli per il segmento medio-basso, la 500 e la Panda e poi un salto nel segmento di lusso, il Premium, valorizzando Alfa Romeo e Maserati.
ANCORA una volta, l’amministratore della Fiat-Chrysler ha spiazzato tutti. Solo il giorno prima, i dirigenti della Fiom, ricevuti al Lingotto per la trattativa sul contratto, si erano sentiti dire che le comunicazioni sulle linee strategiche sarebbero arrivate solo ad aprile con il piano illustrato dal “capo supremo”. Ieri, invece, le due pagine di Repubblica hanno squadernato un’ampia gamma di novità e di progetti solo in parte conosciuti. Come le “fabbriche fantasma” in cui, spiega Marchionne, si preparano di nascosto nuovi modelli che poi saranno annunciati al mercato. In Cisl ammettono che qualcosa sapevano e al Fatto Ferdinando Uliano della segreteria Fim-Cisl spiega che “allo stabilimento della Vm di Cento, appena acquisito, circolavano i modelli camuffati della nuova Maserati”. È anche probabile che a questi progetti siano stati chiamati tecnici e operai di altri paesi, visto che, come spiegano al Lingotto, “la Fiat è una fabbrica globale”.
La cosa, però, non è piaciuta alla Fiom secondo cui la Fiat allestisce solo “fabbriche fantasma” e l’Italia rischia di diventare “la Repubblica delle banane” dove gli annunci sulle strategie vengono fatti sui giornali. Landini continua a chiedere una convocazione ufficiale da parte del governo in cui Fiat illustri ufficialmente i suoi piani.
Nell’intervista, comunque, Marchionne conferma quello che tutti temevano: la quotazione del nuovo gruppo, “che avrà un nuovo nome”, avverrà “dove ci sono i soldi” e oggi il “mercato più fluido è quello americano”. La collocazione della direzione, poi, “ha un valore puramente simbolico, emotivo”. “Quindi perché non confermare Torino?” chiede il responsabile Auto della Fiom, Michele De Palma. Anche la Uil preme perché la direzione, e soprattutto la progettazione, resti in Italia. Il punto più delicato, però, è che Marchionne conferma l’indisponbilità ad aumenti di capitale. “Sarebbe una distruzione di valore”, spiega a Mauro, confermando l’intenzione di ricorrere al prestito “convertendo”, del valore di 1,5 miliardi, che permetterà ai sottoscrittori di diventare azionisti del nuovo gruppo. Ma Fiat è già indebitata per oltre 28 miliardi e il rating suoi suoi titoli è “junk”, spazzatura. Riuscirà senza mettere mano al portafoglio a dare vita all’ambizione di “uscire dal mass market”, cioè dal segmento storico delle auto medie, come la Punto, e puntare tutto sul Premium, le auto di lusso? L’idea, infatti è questa, giocarsi i marchi Alfa (“i tedeschi se la sognano”) e Maserati come sta avvenendo a Grugliasco, che dai 1096 occupati è salito a 2000 assorbendo gli operai di Mirafiori. L’Alfa, quindi, dovrebbe “salvare” Cassino che andrà ristrutturata. Solo qualche mese fa, l’ad Fiat diceva che avrebbe potuto “costruirla ovunque nel mondo”. Quello che Marchionne non dice, però, è che a Cassino la cassa integrazione ordinaria scade a marzo e ci vorrà una cig straordinaria per ristrutturare le linee, sfornando i primi prodotti, spiega ancora la Fim-Cisl, a settembre del 2015. A Pomigliano, invece, potrebbe arrivare una seconda auto, con grande soddisfazione dei sindacati che hanno firmato gli accordi.
LA SVOLTA annunciata è dunque impegnativa. È dai tempi di Valletta, dal dopoguerra, che la Fiat è specializzata in auto di piccole dimensioni. Ora si cambia tutto. Lo scontro sarà con le Bmw, la Mercedes e altri campioni. Il mercato mondiale, però, vede ancora in primo piano modelli come la Toyota Corolla (la più venduta al mondo), Ford Focus (2ª), Golf (settima), Ford Fiesta (8ª). La svolta permetterà di riassorbire tutti gli operai, come ha promesso Marchionne nell’intervista? Secondo la Fiom per dare lavoro ai 30 mila dipendenti (un terzo dei quali è in cassa integrazione), la Fiat dovrebbe produrre 1,4 milioni di vetture l’anno. Ora ne produce circa 600 mila.
Intanto a Palermo gli operai hanno bloccato l’A19 contro l’ipotesi di licenziamenti collettivi dopo il 30 giugno, quando scadrà la cig per gli operai dello stabilimento abbandonato. Il vero stabilimento fantasma.

Repubblica 11.1.14
L’intervista
“Solo fabbriche fantasma Che fine hanno fatto le promesse del 2009?”
Landini: assicurati dividendi agli Agnelli
di Roberto Mania


ROMA — «Non si può dire che non si capisca quello che pensa Marchionne ». Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, ha appena letto l’intervista aRepubblicadelnumero uno della Fiat-Chrysler.
E allora, con il senno di poi, non ritiene di aver perso un’occasione? Perché non condividere il piano di rilancio Fiat?
«No, anzi. Un’occasione persa? Non c’è stata alcuna occasione, purtroppo. A me rimangono tutte le preoccupazioni del caso: sul piano della forma e sul piano dei contenuti. Il giorno prima a Torino la Fiat ci ha detto che il piano industriale non sarebbe stato pubblico prima di aprile e che comunque non lo avrebbe discusso né con il governo né con i sindacati. A Termini Imerese stanno chiudendo le aziende dell’indotto dopo che la Fiat se n’è andata. Tra qualche mese salteranno migliaia di posti. E invece di un tavolo di confronto, siamo alle solite: relazioni sindacali fatte sui giornali. Quanto alla condivisione del rilancio, vorrei ricordare che nessun sindacato ha mai fatto un accordo sui piani industriali».
Ci sono delle intese. Per quanto Marchionne abbia sempre detto che non cerca l’accordo a tutti i costi.
«Beh, con il governo americano l’ha dovuto fare. Ha dovuto dire che tipo di tecnologia avrebbe portato, quali modelli avrebbe realizzato. Dunque, resto dell’opinione che il governo debba convocare un tavolo per discutere di tutto questo».
Non crede che gli altri sindacati siano oggi più forti?
«Gli altri sindacati sono gli stessi che nel 2009 credevano al piano di investimenti da 20 miliardi e che la Fiat avrebbe prodotto in Italia 1,4 milioni di auto l’anno, mentre siamo sotto le 400 mila. Sono gli stessi che pensavano che da Mirafiori sarebbero uscite 280 mila vetture, mentre si è fatta solo cassa integrazione. Oggi è il sindacato che prende atto degli annunci di Marchionnefatti via intervista».
Proprio nell’intervista Marchionne risponde a molte obiezioni. Per esempio che è sbagliato fare investimenti con un mercato calante. Le difficoltà della Peugeot lo dimostrerebbero.
«Già. Si dà il caso, però, che Volkswagen ed altri hanno continuato ad investire e che, lo dico con preoccupazione, la Fiat ha perso quote di mercato. In più Volkswagen non è affatto uscita da alcuni segmenti, mentre Marchionne ha annunciato che intende uscire dal segmento basso, quello che garantisce più occupazione».
Ha detto che però manterrà le produzioni di 500 e Panda.
«Ho capito, ma la 500 non si fa in Italia».
La Panda sì, però.
«Sì, con metà dei lavoratori in cassa integrazione...».
Marchionne dice che ci sarà un nuovo modello.
«Quale? E darebbe lavoro a chi?».
Senta, ma non siete stati sempre voi a chiedere alla Fiat di alzare laqualità, di non competere sui costi con i paesi di nuova industrializzazione. Ora che lo fa non vi va bene?
«Noi abbiamo proposto soprattutto di essere presente su tutti i segmenti. Sa cosa ci hanno detto i sindacati tedeschi che siedono nel consiglio di sorveglianza della Volkswagen? Che per i prossimi cinque anni sono previsti 50 miliardi di euro di investimenti. In Fiat l’unica cosa certa è che la famiglia continua a incassare i dividendi e a non sborsare un euro. E si riaffaccia l’ipotesi del convertendo che vuole dire un aumento dell’indebitamento».
Insomma, non crede che terminerà la Cig alla Fiat?
«Verificheremo. Ma intanto ricordo che per lanciare un nuovo modello ci vogliono 18-24 mesi. Vuol dire due anni di cassa».
Marchionne dice che ci sono capannoni- fantasma che stanno preparando i nuovi modelli Alfa.
«Chiederemo al ministro degli Interni e ai servizi segreti di trovare le fabbriche fantasma... »
Non crede che ci siano?
«In un Paese serio, se non vogliamo sembrare una repubblica delle banane, queste discussioni non si fanno sui giornali. Dov’è il governo italiano?».
Che pensa dello spostamento della sede e della possibile quotazione del titolo a New York?
«Mi preoccupo perché lo spostamento della sede vuol dire anche lo spostamento della progettazione. Mi sembra di vedere un americano che ha fatto brillantemente il suo lavoro assicurando i dividendi agli Agnelli e che ora dagli Usa valuta cosa fare per l’Italia».
Non le sembra di essere un disco rotto che ripete sempre le stesse cose, senza che nessuno l’ascolti?
«Purtroppo no. Mi sento uno che aveva previsto quello che sarebbe accaduto».
Ma la Fiom quanti iscritti ha perso nelle fabbriche Fiat?
«Ne avevamo 11 mila ora siamo intorno alla metà. Ma non dimentichiamoci che a Pomigliano non venivi assunto se eri iscritto alla Fiom. Volevano cancellarci, ma l’operazione non è riuscita».

l’Unità 11.1.14
Precari dei beni culturali: un esercito appeso a un filo
I professionisti del settore oggi al Pantheon a Roma
Quanti sono in Italia? Decine di migliaia
di Stefano Miliani


Repubblica 11.1.14
Oggi a Roma
Per la prima volta in piazza i precari dei Beni Culturali


ROMA — Archivisti, bibliotecari, storici del-l’arte, architetti, archeologi. Il vasto mondo di chi lavora, in condizioni precarie, con compensi di fame, per la tutela dei beni culturali si dà appuntamento stamattina a Roma, alle 10,30, in piazza del Pantheon. Per la prima volta si radunano una quarantina di organizzazioni che chiedono regole per professionisti senza i quali il sistema della tutela sarebbe al collasso. Sono alcune migliaia i lavoratori precari nei beni culturali, persone molto qualificate con studi in Italia e all’estero e con anni di lavoro sul campo. Fra i bersagli della protesta, la legge “Valore cultura” che prevede un tirocinio annuale per 500 under trentacinquenni a 400 euro al mese. Costo: 2 milioni e mezzo. «Non serve ulteriore formazione sottopagata e che formerà altre sacche di precariato », dicono gli organizzatori. «Serve una seria politica per la buona occupazione».

l’Unità 11.1.14
Arance rosso sangue
Gentile ministro Kyenge: riconsegni una vita degna ai migranti di Calabria
Ricordate la ribellione dei raccoglitori di agrumi nel 2010?
Da allora le loro condizioni non sono migliorate: sono ancora sfruttati e vivono in tendopoli improvvisate senza servizi igienici. Una giovane scrittrice solleva il problema
di Angela Bubba


l’Unità 11.1.14
Lager o non lager la realtà è questa
di Marco Rovelli


il Fatto 11.1.14
Risponde Furio Colombo
Arruoliamo gli immigrati?


CARO COLOMBO, il ministro dell’Integrazione Kyenge ha proposto che giovani immigrati potrebbero essere ammessi a far parte delle Forze armate italiane. In cambio diventeranno cittadini. Ci sono state reazioni rabbiose. Tu da che parte stai?
Anna Rita

CONVIENE per prima cosa esaminare le reazioni, che sono state molto diverse, da La Russa al “Manifesto”, passando per un’ampia zona di scetticismo, dubbio o fastidio. Comincerò con La Russa. Da post-fascista ne fa prontamente una questione di amor di patria. Tu servirai la patria solo se la ami, altrimenti sei parte di una “Legione straniera”. La Russa sembra dimenticare la differenza fra militare volontario e militare professionista. Il primo tipo di militare può esistere solo se e dove c’è ancora il servizio militare obbligatorio. Tutti gli “abili” rispondono a una chiamata che non si può evitare. Alcuni, benché non tenuti a farlo, si arruolano volontari. È giusto pensare che tutti amino la patria, ma i volontari rendono questo sentimento più visibile, anche perché non compensato da alcun premio. Molti Paesi però (e certo gli Stati Uniti) hanno sempre accettato volontari non cittadini. E ovviamente hanno sempre offerto la cittadinanza a chi aveva servito con onore nelle loro forze armate. Da quando il militare è un “professional”, il problema è più semplice. Si tratta di un normale e onorevole lavoro. Non si vede perché gli immigrati interessati a vivere e restare in Italia e accettati in ogni altra attività, dovrebbero essere esclusi da questa. E appare del tutto naturale che, dopo un periodo prestabilito di buon servizio, possano diventare cittadini come gli altri soldati con cui hanno svolto gli stessi compiti e corso gli stessi rischi. Ripeto: avviene in molti Paesi rispettati e democratici. Quanto al rischio di creare degli “ascari” denunciato dal “Manifesto”, anche qui c’è un errore. Per avere gli ascari devi avere i fascisti, posizionati, dall’uso di tremende armi chimiche in combattimento, dalla conquista del territorio degli “ascari”, che i “bianchi” andati a occupare in casa d’altri, dalla pretesa e proclamata superiorità razziale non solo di chi comanda ma di tutti i soldati “bianchi”, che dunque, tutti, sono in grado di comandare i soldati “neri”, di giocarci, di umiliarli. Un corpo militare integrato (di nuovo molti Stati lo insegnano) non prevede alcuna deroga razziale (e ormai neppure di genere) alle strutture organizzative, ai compiti, alle specializzazioni e ai livelli gerarchici. Se non ci sono “ascari” in fabbrica come potrebbero essercene in corpi militari professionali di persone che, per funzionare, sono tenuti a lavorare insieme in base a un unico set di regole? Non è vero che nel mondo del lavoro certe cose sono più umane. Ai tempi delle “colonie”, i camionisti italiani non fraternizzavano affatto con gli “aiutanti” africani (non gli italiani, non quelli di ogni altro Paese). Tutto dipende dalla cultura. Ciò che teme il “Manifesto” riguarda un mondo (vi abbiamo appena vissuto) governato dalla Lega Nord e dalla Bossi-Fini. La proposta del ministro Kyenge è un’altra spallata alla Bossi-Fini che il Parlamento, misteriosamente, continua a non abrogare subito.

La Stampa 11.1.14
L’italiano vero non esiste
Gli italiani? Sono 57 tipi diversi
Studio di quattro università sul Dna nazionale
Non c’è un’etnia ma una varietà unica al mondo
C’è più distanza genetica all’interno del nostro Paese che tra Spagna e Ungheria
«La nostra unicità dipende anche dalla geografia e dall’isolamento locale»
di Stefano Rizzato


A tenerli insieme ci sono il passaporto e una bandiera. A dividerli quasi tutto il resto. Lingua e tradizioni, ostacoli naturali e colore degli occhi. E, più in profondità, anche il patrimonio genetico: tutto il codice nascosto tra le eliche del Dna e destinato a passare di padre in figlio. Eccoli qua, i 57 diversi tipi di italiani. Diversi tra loro più di quanto lo siano uno spagnolo e un ungherese. Siamo il Paese con la biodiversità umana più estesa d’Europa e a ricordarcelo ora c’è uno studio specifico, che ha coinvolto quattro atenei: la Sapienza di Roma insieme alle università di Bologna, Cagliari e Pisa.
Il lavoro è partito nel 2007 e ha unito genetica e antropologia. Da una parte, la raccolta di campioni di saliva, poi catalogati e confrontati, nei luoghi più isolati d’Italia. Dall’altra, di pari passo e incrociato, un meticoloso studio linguistico, culturale ed etnografico. «Abbiamo sfruttato l’aspetto genetico per mostrare in tutta la sua ricchezza la diversità umana del nostro Paese», spiega Giovanni Destro Bisol, antropologo della Sapienza che ha coordinato il team di scienziati.
«In pochi sono a conoscenza di questo patrimonio. Pochi sanno che esistono comunità d’origine croata tra Abruzzo e Molise, oppure che ci sono dodici minoranze linguistiche italiane tutelate dalla Costituzione».
Guardando ai geni, i ricercatori hanno posato la loro lente su due elementi: il Dna mitocondriale, ereditato esclusivamente per via materna, e il cromosoma Y, localizzato nel nucleo delle cellule ma ereditato solo nella linea maschile. «Sono due indicatori molto sensibili, che tengono traccia anche di variazioni ed evoluzioni recenti spiega l’esperto ma l’unicità italiana dipende molto dalla geografia: in un Paese lungo e stretto, con una miriade di habitat diversi, la biodiversità umana non è meno accentuata di quella che riguarda piante e animali».
In gran parte dei casi, è stata la combinazione tra isolamento geografico e linguistico a proteggere l’unicità di popolazioni che ancora oggi risultano diversissime persino da quelle confinanti.
«In Europa – conclude Destro Bisol – un melting pot comparabile c’è solo nei Paesi balcanici. Pensi che, messe insieme, le minoranze presenti sul territorio sono il cinque per cento degli italiani. Sono comunità sempre più piccole, che tendono a spopolarsi e vivono la loro identità con intensità e orgoglio. Ma anche con la profonda consapevolezza di essere parte della stessa nazione».

La Stampa 11.1.14
Un’eredità genetica che ci fa ricchi
di Marco Malvaldi


La biodiversità tra le diverse popolazioni italiane è il segnale di un passato glorioso: un passato in cui, favorito dalla geografia, il Paese era un autentico crocevia dei popoli, delle culture e delle ricchezze del mondo. Così, un tempo, forti della nostra importanza, importavamo ricchezza genetica, con i metodi più diversi.
Talvolta accoglievamo, talvolta schiavizzavamo, altre volte ci invadevano. Spero sinceramente che
noi italiani tutti, eredi di questo rutilante patrimonio genetico, non facciamo l’errore di fare sfoggio in modo molto italico di tale diadema: facendo vedere al resto d’Europa la nostra incredibile varietà genotipica, frutto come si diceva di un glorioso tempo che fu, mentre intanto il presente va a rotoli. Avere un patrimonio intrinseco così vasto è un’ottima base di partenza; però, a chi fosse convinto che la genetica basti a garantire ottime prospettive, vorrei rammentare un piccolo esempio.
Nel 2003, alcuni ricercatori annunciarono di aver scoperto il segreto della velocità degli sprinter giamaicani. Il nocciolo della scoperta risiedeva nel fatto che particolari variazioni in un gene chiamato Actn3 favorivano la funzionalità delle fibre muscolari «veloci», e che il 98% circa della popolazione giamaicana mostrava ta-
le variazione. Molto interessante, no? Peccato che ulteriori ricerche abbiano mostrato che i keniani (i quali, pur mietendo allori da decenni nelle competizioni di lunga durata, non hanno mai vinto nemmeno una gara condominiale sulle gare veloci) hanno una frequenza di tale variazione superiore a quella dei giamaicani stessi. Il fatto che gran parte della popolazione keniana corra più di dieci chilometri al giorno tutti i giorni per andare a scuola, evidentemente, deve avere qualche importanza. (Attenzione: le righe che precedono sono ispirate dalla convinzione che la diversità genetica sia ricchezza e che nella biodiversità risieda intrinsecamente la robustezza di un ecosistema. Se qualcuno pensasse il contrario, temo ci voglia ben altro che un articoletto del Malvaldi per cambiare idea).

il Fatto 11.1.14
I deputati Pd ispirati dal “Supremo”
La rete di lobby del re dei rifiuti, Cerroni, con i democratici
Anche ventimila euro a Edo Ronchi
di Valeria Pacelli e Nello Trocchia


Nel sistema di relazioni e contatti del Supremo, Manlio Cerroni, il re dei rifiuti di Roma e del Lazio, ci sono finiti in molti. Anche deputati del Pd ed Edo Ronchi, attuale sub-commissario del governo Letta al risanamento ambientale dell'Ilva. La fondazione di Ronchi ha ricevuto anche 20 mila euro da Cerroni. Emerge dall'inchiesta della Procura di Roma sul malaffare nel sistema dei rifiuti. Non solo funzionari, amministratori e commissari. L'avvocato, finito ai domiciliari insieme ad altre sei persone per associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, non amava delegare e quando aveva un problema, scendeva in campo esercitando influenza e il potere di lobby. Nel 2008 l'inceneritore programmato ad Albano Laziale rischiava di restare fuori dai Cip 6, gli incentivi che solo in Italia premiano chi produce energia bruciando rifiuti. Il Supremo si attiva e avvia la fitta rete di telefonate e incontri. Il Gip Massimo Battistini sottolinea: “Gli incontri e le conversazioni tenute dal Cerroni con alcuni politici del Parlamento nazionale, aventi a oggetto l’inclusione dell’impianto di Albano Laziale nell’ambito degli incentivi”. Tra questi si registrano incontri anche personali con diversi parlamentari “Beppe Fioroni, Ermete Realacci ed Edo Ronchi e un generoso contributo – scrive il giudice – di 20 mila euro alla fondazione ‘Sviluppo Sostenibile’ (gestita da Ronchi)”. A novembre arriva l'inserimento in un decreto legge di un emendamento che estendeva a tutti gli impianti in costruzione i Cip 6.
IL GIP BATTISTINI, però, precisa: “Alla data di emanazione della norma, la maggioranza parlamentare era di segno opposto ai politici di riferimento, circostanza che non consente di ascrivere disvalore penale a una attività apparentemente di mero lobbying”. Insomma la maggioranza parlamentare era di centrodestra e quella di Cerroni viene bollata solo come esercizio lobbistico. Nella fondazione, presieduta da Ronchi, nel comitato di presidenza, siede anche la figlia di Cerroni, Monica, che fa anche parte del cda di Gesenu, la società mista pubblico-privato di gestione dei rifiuti a Perugia, dove il socio pubblico è il comune e quello privato, neanche a dirlo, è l'anziano avvocato con il gruppo Sorain Cecchini. Edo Ronchi, ex verdi e Pd, presidente della fondazione destinataria del finanziamento, dal giugno scorso, con decreto del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando, è stato nominato sub-commissario del governo Letta per il piano ambientale all'Ilva. Ronchi ha spiegato la sua posizione in una nota: “Non ho ricevuto nessun condizionamento da una delle tante donazioni liberali utilizzate per finanziare studi e ricerche. Da quando presiedo la fondazione non ho alcun incarico istituzionale e ho cessato l'attività politica”. Il Fatto ha contattato anche il deputato Ermete Realacci, Pd, attuale presidente della commissione Ambiente della Camera, che non ricorda il contenuto degli incontri con il Supremo: “Non rammento assolutamente i contenuti dei miei incontri con Cerroni. Anzi sono rimasto molto sorpreso quando ho saputo di questo riferimento. Lo avrò visto tre, quattro volte in tutto. Ma non ho mai partecipato alle scelte della politica sui rifiuti romani. Scelte che comunque non ho condiviso, alla fine Cerroni ha fatto il suo mestiere, la politica, invece, non ha lavorato bene”. Sul fronte dell'inchiesta giudiziaria, dopo l'esecuzione delle misure cautelari, la prossima settimana sono previsti gli interrogatori di garanzia davanti al gip

Corriere 11.1.14
Marino: su rifiuti e trasporti a Roma è ora di cambiare
Tolleranza zero per gli abusivi
«Nessun cerchio magico, non sto mai chi uso in ufficio»
intervista di Paolo Conti


ROMA — Sindaco Ignazio Marino, l’arresto di Manlio Cerroni, il padrone di Malagrotta, segna la fine di un’era per i rifiuti a Roma. Ma la Capitale resta ancora molto sporca.. .
«Ho un rispetto sacrale della magistratura e non mi permetto di commentare le sue azioni. So che è esistita per decenni un’immensa fossa di 240 ettari per rifiuti indifferenziati, dai materassi al cibo, un’immensa ferita per l’Europa. E sono fiero di averla chiusa il 30 settembre. Per sempre. Ho discusso con l’avvocato Cerroni fino al 27 settembre, e duramente, per ore intere. Sosteneva che sarebbe stato impossibile chiudere Malagrotta come volevo io. Invece così è stato. Il piano alternativo è stato studiato per tutta l’estate. Roma non sarà sommersa dai rifiuti, lo assicuro»
L’orrore di Malagrotta resta. Come farete per cancellarlo?
«C’è un piano per un’area verde con centomila alberi. Nascerà un gran parco»
Costa 100 milioni. Chi li tirerà fuori?
«La proprietà di Malagrotta ha fatturato immense cifre, in questi decenni. Ritengo abbia i fondi e il dovere di procedere all’interramento»
Roma, sotto Natale, è esplosa dai rifiuti. La foto dei maiali tra i sacchetti a via Boccea ha fatto il giro del mondo.
«Quell’immagine ha ferito molto me, i romani, le romane. Il piano ferie dell’Ama, l’azienda comunale dei rifiuti, era assolutamente inadeguato. Io stesso il 1 gennaio, con disappunto di mia moglie e mia figlia, ho girato per la città e ho capito che la raccolta era ferma da giorni. Da tempo pensavamo a un ricambio del vertice, sempre col sistema con cui abbiamo nominato tutti i vertici delle aziende: curricula e colloqui. Non avevo mai visto né sentito nominare prima Ivan Strozzi, nuovo presidente-amministratore delegato dell’Ama. E così per il nuovo capo della Polizia locale di Roma, Raffaele Clemente. L’unico caso in cui conoscere il sindaco sarebbe stato un handicap... Sono molto soddisfatto di queste nomine. Così come lo sono per l’operazione Fori, per la lunga chiusura sotto Natale, per i seicentomila che hanno attraversato quella strada nella notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio del nuovo anno. Sono fiero dell’operazione Fori, probabilmente più compresa all’estero che qui in Italia e a Roma»
Ma proprio i Fori, durante la chiusura, erano invasi da ambulanti illegali. Roma sembra davvero il regno dell’illegalità: banchetti per le strade, merci contraffatte, il nodo dei tassisti e degli autonoleggiatori abusivi...
«Ho già incontrato il nuovo questore, Massimo Mazza, e presto ci vedremo tutti col prefetto Giuseppe Pecoraro. Il 2014 sarà l’anno della tolleranza zero per tassisti, autonoleggiatori, venditori di merce che siano abusivi. Un’azione che interesserà stazioni, aeroporti, strade e piazze ma anche chi controlla il traffico di merci contraffatte»
I vigili urbani sembrano mal tollerare il nuovo comandante “esterno” Raffaele Clemente, che viene dalla Questura. Minacciano sciopero il 27 aprile, quando Giovanni Paolo II verrà proclamato santo, con 5 milioni di visitatori.
«Ho incontrato i sindacati, che hanno un grande orgoglio di corpo. Solo una sigla con 570 iscritti su 6.200 vigili ragiona così. Gli altri vogliono sinceramente cambiare, lavorare per la città»
In quanto al disastro dei trasporti pubblici, cioè dell’Atac?
«Il piano della mobilità risale al 1999 e urge rivederlo. Cambieremo e sveltiremo il sistema di acquisto dei biglietti del controllo del pagamento, che potrà avvenire sulla porta anteriore. Una grande novità sarà il Tram 1: useremo binari già esistenti e collegheremo, spero entro dieci mesi, Termini a Trastevere passando via Aventina e Porta Portese. Sono felice di annunciare il progetto in questa occasione.»
Si parla di un «cerchio magico» che la circonderebbe. Cresce il ruolo dell’assessore Alessandra Cattoi, definita la sua «zarina», nominata coordinatrice della giunta...
«Ma quale cerchio magico? Non sto mai chiuso in ufficio, sono io a girare per le stanze. Ho chiesto ad Alessandra Cattoi di seguire, dal punto di vista politico, il controllo dell’attuazione del programma affidato tecnicamente a Mattia Stella. In quanto al programma, uno dei migliori risultati recenti è l’accordo tra ministero dell’Economia, Cassa depositi e prestiti, Demanio e noi per la rigenerazione urbana dell’area delle ex caserme di via Guido Reni. Nascerà la Città della Scienza su 27 mila metri quadrati. Ma un’altra parte verrà trasformata in abitazioni residenziali e un’altra in alloggi sociali. Il progetto che muoverà, nei prossimi anni, circa 400 milioni di euro»
La sua maggioranza appare agitatissima. Il rapporto giunta-partiti è complesso. Lo stesso Pd romano è in tensione, con i renziani all’attacco del segretario Lionello Cosentino.
«Invece mi ritengo fortunato di poter contare su capigruppo di grande professionalità e serietà, tutti impegnati al lavoro per la città. Sono amico personale del segretario del Pd romano, Lionello Cosentino. Non credo sia sotto tiro. So però che si debba tenere conto della netta vittoria di Matteo Renzi, che ho decisamente sostenuto. Ritengo che il partito debba rapidamente muoversi nella sua direzione comprendendo che non esistono più i grigi ma solo il bianco o il nero. Per dirla con chiarezza. Il Pd non può più essere un partito di correnti. Riti che appartengono al passato...»

il Fatto 11.1.14
Lo share e la bufala delle Maldive Casaleggio attacca Santoro
di Pa. Za.


È il giorno dei sondaggi contro i giornalisti Rai, della battaglia contro “i colpevoli dello sfascio dell’Italia”. Mario Orfeo, Marcello Masi, Bianca Berlinguer: i direttori dei tg del servizio pubblico, tuona Beppe Grillo, sono i garanti “dell’informazione dei partiti”. E alla Rete chiede che fare: non pagare il canone? boicottare le aziende che fanno spot prima e dopo i tg? denunciare tutto in Europa? E via con le soluzioni che secondo il leader dei Cinque Stelle dovrebbero farci risalire nella classifica della libertà di stampa. Ma informazione vogliono farla anche quelli del Movimento. E ieri, riprendendo un articolo di Dagospia, sono incappati nell’errore che rimproverano sempre ai “pennivendoli” di regime: mancata verifica delle fonti. Nel mirino ci sono gli ascolti di Servizio Pubblico, il programma che va in onda su La7 e di cui Il Fatto è azionista. Al rientro dalla pausa natalizia sono più bassi del solito (7,8 per cento, comunque tra i migliori nella categoria talk show) così il sito Tze Tze (di proprietà della Casaleggio Associati) dedica un pezzo al “tonfo di Michele Santoro”. La colpa sarebbe da attribuire al fatto che il giornalista “è rimasto in vacanza alle Maldive” fino a pochi giorni prima della messa in onda e avrebbe messo in piedi “una diretta che sembrava una replica”. Peccato che le foto che dovrebbero dimostrare le ferie di Santoro (pubblicate inizialmente da Chi con la data corretta) siano del gennaio 2013, un anno fa. La polemica con Santoro era già esplosa nelle settimane scorse con la pubblicazione di alcuni sms tra la redazione di Servizio Pubblico e alcuni 5 Stelle romani, che accusavano la trasmissione di aver usato materiale trovato da loro senza mai citarli.

Corriere 11.1.14
Il dibattito (annebbiato) sulla libertà di cannabis
I rischi di un entusiasmo fuori luogo
di Giovanni Belardelli


Il disegno di legge Manconi sulla legalizzazione della cannabis, da una parte, le recenti decisioni in tal senso dell’Uruguay e degli Stati americani di Colorado e Washington, dall’altra, hanno riaperto anche in Italia un dibattito che si trascina da decenni. Il fatto che questa volta le posizioni non abbiano seguito meccanicamente l’asse destra-sinistra dovrebbe essere salutato come un dato positivo; non fosse che la discussione ha assunto subito un carattere poco limpido, soprattutto per opera di chi, volendo fornire argomenti in favore della legalizzazione, ha mostrato qualche entusiasmo di troppo nei confronti della «marijuana libera». C’è poco da entusiasmarsi, infatti, in una materia come questa, che riguarda comunque il consumo di una droga, sia pure leggera.
L’opportunità di modificare la legge Fini-Giovanardi, che ha contribuito a riempire le carceri di consumatori di spinelli, mi pare difficilmente contestabile. Ma per il resto, il principale argomento in favore della legalizzazione sembra essere quello avanzato, tra gli altri, da Roberto Saviano, che la considera il male minore se si vuole combattere efficacemente il narcotraffico, cosa che fin qui le politiche proibizioniste non sono riuscite a fare (la Repubblica , 9 gennaio). È una posizione che si può prestare a obiezioni: siamo davvero sicuri, ad esempio, che la legalizzazione non porterebbe a un incremento del consumo? Ma è sicuramente una posizione su cui riflettere con attenzione, fondata com’è su considerazioni pragmatiche senza indulgere ad alcuna rivalutazione delle droghe leggere (che Saviano dichiara di detestare esattamente come quelle pesanti).
Non è questo, però, ciò che è generalmente avvenuto nei giorni scorsi. Alcuni hanno banalizzato l’effetto sulla salute della marijuana sostenendo che «non è più nociva di un bicchiere di vino» (così Vittorio Feltri sul Giornale ). Basterebbe visitare il sito dell’Organizzazione mondiale della sanità o quello del nostro Istituto superiore di sanità per apprendere come le cose stiano diversamente e in particolare come la cannabis possa danneggiare anche in modo duraturo le funzioni cognitive, soprattutto quando consumata da adolescenti. Per di più la cannabis oggi in circolazione è stata modificata geneticamente, con la conseguenza che la presenza del principio attivo è ormai notevolmente maggiore rispetto alle piante di qualche decennio fa (e questo può essere un elemento in favore della legalizzazione, che implicherebbe un controllo sul tipo di cannabis in circolazione).
La discussione dei giorni scorsi, seguendo una pessima abitudine che affonda le radici nella nostra cultura, non solo ha generalmente ignorato dati di fatto come quelli appena citati. Ha anche proposto più o meno obliquamente l’idea di una sostanziale equivalenza tra legalizzazione della droga (che implica un consumo sotto il controllo dello Stato) e liberalizzazione di qualcosa che è stato troppo a lungo vietato. In questa seconda prospettiva, si fa intendere, la sua diffusione andrebbe anzi incoraggiata perché la cannabis «lascia che un’aria nuova rinfreschi la mente» e, figlia com’è della controcultura degli anni 60, «allude a una società solidale, in pace con se stessa, tollerante, inclusiva e libertaria». Così nelle parole deliranti di Fabrizio Rondolino, in un articolo su Europa forse scritto solo per épater le bourgeois come si sarebbe detto un tempo. Anche altrove, però, magari solo implicitamente, è stato tutto un ammiccare pseudolibertario e pseudoprogressista alla cannabis finalmente libera, alla libera erba in libero Stato, alla droga che non fa male e rallegra la vita. Nel sito dell’Unità , un articolo informativo sul ddl Manconi era accompagnato dalla foto di una coppia di giovani che fumavano sorridenti e contenti. Sono messaggi irresponsabili, che oltretutto rischiano di fornire un alibi ai proibizionisti più intransigenti, riportando la discussione, come in un eterno gioco dell’oca, alla casella di partenza.

Corriere 11.1.14
Laurea con tesi su Sant’Agostino, il mago Otelma diventa filosofo
di E. D.


GENOVA — Marco Amleto Belelli, più noto come mago Otelma (Amleto letto a rovescio), parlerà di dei, angeli e demoni ma non in un programma televisivo. Per il dottor Belelli questa infatti è l’ennesima laurea, la «discussione della tesi terrena del Divino Otelma — si legge nel cartoncino di invito intestato all’Università di Genova — avrà luogo mercoledì 15 alle 15 nella sala del gran consiglio in via Balbi 4, ingresso libero ad esaurimento dei posti». Il relatore Daniele Rolando docente di Filosofia della Storia un po’ si preoccupa: «Spero che non venga troppa gente e di non ritrovarmi in una bolgia. Non è uno spettacolo, questa è una tesi di laurea serissima. Un buon lavoro, ne parlerò bene come parlo bene degli elaborati di tutti gli studenti che si impegnano. Il pregio maggiore è la ricchezza della documentazione, ci sono molte citazioni dai testi di Agostino». In latino, ovviamente. Duecentocinquanta pagine, argomento «Dei, angeli e demoni nel pensiero di Agostino d’Ippona» e lunga citazione latina («Nec verum illum atque omnipotentem summum deum curare opinaretur ista terrena» De Civitate Dei -3,1). Addirittura entusiasta il co-relatore Paolo Aldo Rossi, docente di Storia del pensiero scientifico, accademico e saggista, che ha definito la fatica del Divino Otelma «di grande interesse scientifico». Il professor Rossi è uno specialista nello studio dei rapporti tra scienza e magia nel Medio Evo e nel Rinascimento (ha scritto «La strega, il teologo, lo scienziato»).
Il Divino Otelma, Primo demiurgo della Chiesa dei Viventi nonché Gran Maestro dell’Ordine Teurgico di Elios, nella sua «tesi terrena» (difficile comprendere se ci sarà una tesi ultraterrena e come sarà discussa) ha affrontato, spiega il professor Rolando, il modo con cui Sant’Agostino «tratta o bistratta» la teologia pagana e le sue tradizioni. Resta la curiosità di vedere se a discutere la tesi mercoledì sarà il Divino Otelma — vestito da Primo Demiurgo — o il dottor Marco Amleto Belelli in giacca e cravatta.

l’Unità 11.1.14
Commercio, è svolta: la Cina batte gli Usa
Nel 2013 Pechino supera il giro d’affari statunitense
Il commercio parla cinese
Il primato globale e la nuova aggressività nel Pacifico
di Gabriel Bertinetto


l’Unità 11.1.14
Netanyahu, la colonizzazione avanza: altre 1800 case negli insediamenti


Repubblica 11.1.14
Davos, il vertice dei nemici: ci saranno Netanyahu e Rouhani


GINEVRA — Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente iraniano Hassan Rouhani, considerato da Israele l’“arcinemico”, parteciperanno entrambi al Forum mondiale dell’economia in programma a Davos, in Svizzera a fine mese. Lo conferma Michèle Mischler, la portavoce del Forum. Circa 2500 personalità in arrivo da oltre 100 Paesi convergeranno sulla cittadina svizzera: l’occasione può favorire un incontro fra i dueleader, dietro le quinte di un vertice blindato dalla sicurezza e al riparo dalle indiscrezioni.
Se Rouhani approfondisce il dialogo con America e Gran Bretagna (proprio ieri l’ex ministro degli Esteri Straw è tornato da Teheran convinto che l’iraniano sia sincero nella volontà di cambiamento), e moltiplica i gesti di apertura nei confronti dell’Occidente, con messaggi rivolti anche alla pubblica opinione, dal canto suoNetanyahu insiste nel diffidare delle vere intenzioni dell’Iran, definito «una minaccia alla sopravvivenza di Israele » a causa del programma nucleare.
Il summit di Davos si terrà dal 22 al 25 gennaio: sono le stesse date previste per Ginevra 2, la Conferenza di pace per la Siria. L’Iran non è ufficialmente invitato. Ma Kerry, il segretario di Stato Usa, ha di recente prospettato «un ruolo iraniano» nella soluzione della guerra siriana.

l’Unità 11.1.14
Il caso-immigrati nello Stato d’Israele
di Moni Ovadia


il Fatto 11.1.14
Benvenuti nelle Olimpiadi del Gulag
di Leonardo Coen


“Welcome to Gulag Olympics!” è lo slogan che campeggia su un manifesto virtuale molto ciccato nel web russo. La traduzione è superflua. I 5 cerchi dei Giochi Olimpici sono disegnati come manette. Il fotomontaggio mostra sullo sfondo una torma di deportati dietro le reti metalliche, sguardi da Arcipelago Gulag, da racconti di Kolyma. In primo piano un Patriarca ortodosso in grande addobbo tiene a bada la gente imprigionata. L’allusione è palese: i deportati sono gli abitanti di Sochi, sede delle Putiniadi, la grande ossessione di Vladimir Vladimirovic Putin. Le “sue” Olimpiadi devono dimostrare che la Russia è tornata una superpotenza. Guai a rovinargli la festa. Guai ad infrangergli la vetrina. E tuttavia, il grande cruccio di Putin è che i ribelli del Caucaso, i terroristi islamici radicali salafisti che sognano “il califfato della Russia”, hanno promesso di rovinare i Giochi. D’altra parte, nel maggio del 2012, il servizio federale di sicurezza (Fsb, erede del Kgb) ha scoperto parecchi nascondigli d’armi e munizioni nelle montagne attorno ai siti olimpici e negli ultimi mesi c’è stata un’escalation degli attentati, culminati con la doppia strage di Volgograd. L’allarme non è affatto campato per aria. Sochi è a rischio terrorismo. E la Russia ha dichiarato “guerra totale” al Male.
LA SCELTA DI SOCHI come sede di Olimpiadi è dunque un azzardo? L’opposizione russa ne è convinta. E pure le autorità, come dimostrano le imponenti misure di sicurezza approntate. Per garantire spettacolo e tranquillità, si è trasformata Sochi in una gigantesca prigione sorvegliata da 50mila poliziotti e soldati. Uno ogni 7 abitanti. A Londra 2012 le forze dell’ordine rafforzate dai militari contavano su 20mila uomini, in una città venti volte più grande. Il risultato è grottesco. A Sochi la vita è diventata impossibile, una sofferenza. Tutto è sotto controllo e quasi tutto è vietato. La paranoia antiterrorista però ha un risvolto inquietante: con la scusa di prevenire, si reprime. “L’Fsb “sembra preoccuparsi di più della sicurezza del regime che non quella dei cittadini”, è stato il commento di Gazeta.ru, un sito d’informazione indipendente. Figuriamoci, poi, se a qualcuno venisse in mente di protestare o di manifestare, come è sempre successo in ogni Olimpiade, palcoscenico globale. Una legge appena varata dalla Duma, su indicazione del Cremlino, stabilisce multe di 10mila dollari e 2 anni di prigione per chi partecipa a marce o cortei non autorizzati. Un’altra legge imbavaglia la Rete. Basta la richiesta della procura per imporre al-l’hosting provider la chiusura di un sito se pubblica materiale ritenuto potenziale causa di “disordine”.
Disordine, per esempio, è raccontare che all’inizio di dicembre, a causa di una nevicata, è crollato il tetto della pista di bob. Disordine è documentare il disastro ambientale che ha colpito il fiume Mzymta, fonte principale di acqua potabile per la città. Scavi selvaggi che hanno devastato l’alveo, analisi che hanno rivelato concentrazioni di prodotti petroliferi, arsenico e fenolo oltre i livelli ammissibili. E poi, crolli delle costruzioni, spesso edificate su terreni instabili, per di più in una zona ad alto rischio sismico. E i parametri di resistenza anti-sismica di parecchi edifici sarebbero stati innalzati senza tanti studi.
MOLTE CRITICHE sono alimentate dall’insoddisfazione degli abitanti di Sochi: “Le opere realizzate per i Giochi hanno ben poco a vedere con il resto della città”, si lamentano i cittadini, “hanno eretto monumenti al lusso, centri commerciali a iosa, nuovi grandi alberghi, mentre si sono limitati a ridipingere le facciate degli uffici municipali...”. Cantieri blindati, concorsi pubblici solo formalmente, ha osservato Yuri Koriakin, membro della Società degli esperti dell’Unione russa degli architetti.
Le Putiniadi hanno già ottenuto tre record mondiali: sono i Giochi più costosi di tutti i tempi. Anche quelli più controllati, nemmeno a Berlino 1936 e a Pechino 2008 sono stati concepiti con un rigore altrettanto poliziottesco. Il terzo primato è quello della corruzione. I Giochi delle mazzette. Giochi sporchi. A Vancouver, nel 2010, la media dei costi per gara era stata di 107 milioni di dollari. A Sochi, 520 milioni. E se ti permetti di contestare, finisci in guardina: zitti e... Mosca.

Corriere 11.1.14
Se Erdogan soggioga la giustizia


La democrazia turca scricchiola sotto i colpi del governo Erdogan che, messo in difficoltà da un’inchiesta su tangenti e corruzione che ha portato alla sostituzione di quattro ministri, tenta di prendere il controllo della magistratura dopo aver decapitato i vertici della polizia (sono stati più di duemila i dirigenti e i funzionari rimossi nelle ultime due settimane).
L’Europa, gli Stati Uniti ma anche gli investitori stranieri hanno già manifestato la loro preoccupazione per una situazione di un Paese che, fino a poco tempo fa, era additato come un modello di stabilità e democrazia nel mondo islamico. Ad allarmare è soprattutto «lo stile autoritario del premier», come lo ha definito il Financial Times , che ha reagito alla tangentopoli turca esattamente come aveva reagito alle proteste di Gezi Park del giugno scorso: gridando al complotto, alla trama di qualche nemico della Turchia, in questo caso impersonato dall’ex alleato della confraternita islamica dell’imam Fethullah Gülen che dal suo rifugio negli Usa tirerebbe le fila della rivolta contro Erdogan. Ieri il Supremo Consiglio dei Giudici e dei Procuratori (il Csm turco, Hsyk ) ha definito «incostituzionale» e «contro lo Stato di diritto» il disegno di legge che darebbe al ministro della Giustizia ampi poteri nella nomina di magistrati e giudici. E il capo dell’opposizione, il socialdemocratico Kemal Kiliçdaroglu, ha parlato di «un Paese governato da una gang». «Con la scusa di promuovere la democrazia — ha scritto in un commento sull’Hurriyet Yusuf Kanli — avanza l’autocrazia e il governo diventa un tribunale». Ma al di là delle dichiarazioni per la Turchia parlano i fatti. Lo scandalo ha già avuto effetti negativi sull’economia: in tre settimane la lira turca ha perso il 7,2% e la borsa di Istanbul il 10%. E questo in un Paese in cui il disavanzo nelle partite correnti è finanziato da investimenti a breve e non a lungo termine rendendo il Paese vulnerabile alla minima percezione di rischio politico. Il 2014 sarà un anno denso di appuntamenti elettorali, tra cui le elezioni presidenziali. I sondaggi mostrano l’Akp in calo, 42,3% rispetto al 50% delle ultime politiche ma comunque ben avanti al Chp di Kiliçdaroglu, dato al 30%. E Erdogan teme che un’allargarsi della tangentopoli possa nuocere al suo potere che dal 2002 è incontrastato. Si vocifera che un filone dell’inchiesta coinvolga addirittura il figlio del premier, Bilal. Per questo, tra l’altro, l’Akp ha presentato in questi giorni un disegno di legge per controllare l’accesso e i contenuti di Internet. «I social media — disse Erdogan lo scorso giugno durante la rivolta di Gezi Park — sono una minaccia per la società».

Repubblica 11.1.14
Crescono i contagi fra i giovani così l’Aids torna a fare paura
Allarme degli esperti: i ragazzi non usano preservativi
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — Nel paradosso della vittoria si nasconde il rischio della sconfitta, al tempo in cui finalmente la comunità scientifica può dire di aver battuto o comunque messo sotto controllo l’Aids arrivano numeri che raccontano un mondo alla rovescia: i contagiati crescono a ritmi vertiginosi tra i giovani. L’allarme parte dagli Stati Uniti, ma è una tendenza globale, tocca Canada, Australia, Francia, Inghilterra, Olanda e in Cina i ricercatori parlano addirittura «di un’epidemia tra gli studenti».
Negli Usa la comunità più colpita è quella dei gay sotto i 25 anni che vede il virus in ripresa a ritmi del 22% rispetto alle ultime rilevazioni ufficiali di 12 mesi fa: tra gli afroamericani si arriva a quota 48%. Ma anche i dati sui ragazzi etero preoccupano: «Non ci sono statistiche aggiornate attendibili, ma alcuni studi indicano un aumento addirittura superiore al 20%»: spiega John Schneider dell’Università di Chicago e poi aggiunge: «Vedo sempre più spesso adolescenti tra i 13 e i 16anni contagiati».
Quella in corso è una vera e proprio controrivoluzione sessuale: con il virus ai suoi minimi storici e ormai messo sotto controllo dalle cure farmacologiche, i giovani di oggi sono la prima generazione che cresce senza l’incubo del contagio. Finita l’emergenza, le campagne di prevenzione si attenuano, i fiocchetti rossi non brillano più sui vestiti delle star, molte storiche associazioni devono chiudere per mancanza di fondi. I “millennials”, quelli che hanno tra i 18 e i 30 anni, non hanno mai visto un amico morire in un letto d’ospedale dopo mesi di sofferenza, non hanno memoria delle immense coperte colorate con i nomi delle vittime, non hanno pianto guardando il filmPhiladelphia e dunque non pensano di correre un pericolo tutte le volte che fanno sesso non protetto. Oltre il 20% ammette candidamente di non usare il preservativo, ma nei sondaggi ufficiosi la cifra triplica. Uno su tre, anche tra gli omosessuali adulti, non ha mai fatto un test Hiv e di sicuro non lo ha fatto negli ultimi 12 mesi: «In queste condizioni è come giocare alla roulette russa: mettono senza pensarci in pericolo la loro vita», dice alNew York TimesThomas Frieden che dirige il Centers for Disease Control and Prevention, l’ente federale che vigila sulla sanità pubblica.
Oltre all’ignoranza, pesa anche il cambio di percezione della malattia, vissuta ormai con un disturbo cronico, poco più di un fastidioso raffreddore con cui si può convivere prendendo qualche farmaco: «Molti sono convinti che basta prendere antivirali per non ammalarsi e dunque si credono immuni dal contagio: ma non è così»: dice ancora Frieden. Ogni anno ci sono 50mila pazienti e nonostante gli investimenti dell’amministrazione Obama non si riesce ad abbattere quella soglia proprio per i nuovi casi. Così i programmi federali e le Ong si concentrano adesso sui giovani, da New York a Chicago, da San Francisco a Washington nascono applicazioni per gli smartphone e le campagne di pubblicità progresso inondano isocial network, i furgoni colorati dei volontari si fermano nel fine settimana davanti a bar e locali notturni: consegnano preservativi e invogliano a fare subito l’esame. Nei campus universitari si lancia “la giornata del test” provando a trasformare l’appuntamento in una sorta di party collettivo, si organizzano spettacoliteatrali e concerti a tema.
«Ma è difficile, il problema è proprio l’educazione sessuale. Da noi si concentra sempre di più solo su astinenza e prevenzione della gravidanza. Quasi nessuno si azzarda a parlare di Aids, figuriamoci di omosessualità» spiega adUsa Todaylo psicologo Robert Garafalo. Poi conclude amaro:«Viviamo dentro una contraddizione: mai come ora i nostri ragazzi sono bombardati da messaggi sessuali espliciti, modificano le loro abitudini, hanno rapporti sempre più precoci, cambiano spesso partner e affrontano tutte queste esperienze nella più totale ignoranza».

l’Unità 11.1.14
La lezione di Caffè sugli «incappucciati»
di Vittorio Emiliani


l’Unità 11.1.14
Nomi di battaglia Visone e Sandra
Una storia di amore e Resistenza
di Daniele Biacchessi


l’Unità 11.1.14
Sperimentazione sui corpi umani tra scienza e letteratura
Dagli studi anatomici sui cadaveri in età vittoriana alle salme usate nei crashing test in Germania
di Enzo Verrengia


La Stampa 11.1.14
Venduto on line
Se il libro di Hitler è un best-seller
Domande
a cura di Matteo Alviti


BERLINO Il «Mein Kampf» (La mia battaglia), il manifesto politico del dittatore nazista Adolf Hitler, sta scalando le classifiche britannica e statunitense dei libri in edizione digitale dei principali negozi online, come Amazon e iTunes. Perché?
Il boom digitale è stato rilevato per primo da un giornalista e blogger statunitense, Chris Faraone, e subito ripreso dalla stampa internazionale, in particolare britannica. Secondo Faraone il trend positivo nelle vendite del «Mein Kampf» in versione ebook è paragonabile al successo del best seller erotico «Cinquanta sfumature di grigio» della scrittrice britannica E.L. James (pseudonimo di Erika Leonard), tanto che si potrebbe parlare di un effetto Cinquanta sfumature di grigio.
Cos’è l’«effetto Cinquanta sfumature di grigio»?
Per Faraone ci sono libri che i lettori preferiscono non leggere in pubblico, per una sorta di pudore, o vergogna. Per ragioni completamente diverse, anche il «Mein Kampf», come «Cinquanta sfumature di grigio», sarebbe uno di quei testi. Ciò spiegherebbe ha considerato il giornalista in un post sul suo blog Vocativ la ragione per cui le vendite della versione cartacea del manifesto politico hitleriano siano state bassissime per molti anni, mentre sono esplose in versione digitale. «La gente potrebbe non aver finora voluto comprare il “Mein Kampf ” in una grande libreria, o magari farselo spedire a casa e tenerlo in salotto, o leggerlo in metropolitana ha scritto Faraone ma a giudicare dalle centinaia di commenti dei clienti online, ai lettori piace che le copie digitali possano essere lette e poi messe tranquillamente in una cartella e cancellate».
Quanto successo sta avendo davvero il «Mein Kampf»?
Il manifesto politico di Hitler ha sempre avuto una larga diffusione in Rete, dove si possono trovare facilmente centinaia di versioni digitali in diversi formati, anche gratuiti. Attualmente il libro è al terzo posto della classifica «Referenze» e all’undicesimo posto nella classifica generale di «Storia» di Amazon in Gran Bretagna. Il «Mein Kampf» compare persino al diciottesimo posto nella classifica «Storia dell’Olocausto» di Amazon britannico, che vede terzo classificato il «Diario» di Anne Frank e quarto il fumetto «Maus», di Art Spiegelman. Nella versione statunitense di Amazon, il «Mein Kampf» è al primo posto della classifica «Propaganda e psicologia politica». Su iTunes due versioni differenti del testo si trovano al dodicesimo e al quindicesimo posto della classifica statunitense «Politica e eventi contemporanei».
Da quando il «Mein Kampf» si può acquistare su Amazon?
La prima versione Kindle del manifesto hitleriano risale alla fine del 2008, ed è stata messa in vendita a 1,60 dollari. Attualmente ci sono oltre cento versioni del testo in formato digitale o audio solo sul sito. A favorire l’attuale diffusione del testo potrebbe essere stata anche una recente versione, del febbraio 2013, pubblicata dalla casa editrice Montecristo Editora al costo di poco più di un euro.
Chi detiene i diritti del manifesto di Hitler?
Con la fine della Seconda guerra mondiale e il suicidio del Führer, nel 1945, lo Stato libero della Baviera, in Germania, ha «ereditato» tutti i lasciti del dittatore nazista, compresi i diritti di pubblicazione del «Mein Kampf», per settant’anni. Da allora, per limitare la diffusione del testo ed evitare usi impropri a scopo propagandistico, i governi bavaresi che si sono succeduti hanno autorizzato la diffusione di pochissime edizioni. Tutte le versioni pubblicate con il placet del governo bavarese sono corredate da saggi e commenti critici da parte di storici accreditati, e sono state concepite per scopi esclusivamente scientifici. Attualmente il governo bavarese ha annunciato per il 2015 la pubblicazione di una nuova edizione commentata del «Mein Kampf», tentando così di togliere il terreno sotto i piedi agli editori che vorranno approfittare della scadenza dei diritti per rimettere in commercio il testo.
Come mai, se la Baviera ha limitato la diffusione del testo, se ne trovano tante versioni online?
Non è solo la Baviera a detenere i diritti del «Mein Kampf». Con la fine della Seconda guerra mondiale due delle potenze alleate che hanno sconfitto il nazismo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, hanno ottenuto speciali diritti di pubblicazione del manifesto politico hitleriano.
Cosa c’è scritto nel Mein Kampf e quando è stato scritto?
Il «Mein Kampf», intriso di deliri razziali e antisemiti, contiene i fondamenti dell’ideologia e del programma del partito nazista ed è stato scritto da Adolf Hitler in due parti, tra il 1924, quando era in carcere, e il 1925. In particolare il primo dei due volumi divenne nella Repubblica di Weimar, fino al 1932, un best seller molto discusso. Dal 1936, tre anni dopo la conquista del potere da parte dei nazisti, il «Mein Kampf» era diventato il regalo di nozze del «Reich millenario» a tutte le coppie che si sposavano.

Corriere 11.1.14
Sotto il tallone della forza
Così l’Iliade parla di oggi
Il viaggio di Simone Weil alle fonti della violenza
di Pietro Citati


La rivelazione greca di Simone Weil (pubblicata dalla Adelphi, con eccellente traduzione e commento di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta) è un libro senza paragoni.
La parola Grecia ha un’estensione quale non aveva mai avuto nella storia, assai più che nell’Umanesimo e nel Rinascimento. Comprende l’Iliade , i testi orfici, pitagorici, Eschilo, Sofocle, Platone, i platonici; e Cristo e i Vangeli e la tradizione cristiana dove è più pura. Una frase di Platone risuona sulle labbra di Cristo; un detto di Cristo spiega una pagina o un dialogo di Platone; l’Iliade avvolge tutte le cose come una grande coltre materna; un tessuto fittissimo di risonanze e di echi colma secoli di vita, che a Simone Weil appaiono miracolosi. Questa vita non è scomparsa: la Grecia non è una civiltà meravigliosa e irrimediabilmente finita, come appare anche ai più appassionati studiosi. La Grecia è viva, attuale: è il nostro irradiante presente; se immaginiamo una tragedia che parli al nostro cuore, dobbiamo pensare all’Antigone o all’Edipo re di Sofocle; se sogniamo un poema che comprenda la vita e la morte, il destino di chi vince e di chi è sconfitto, solo l’Iliade soddisfa i nostri desideri.
Il primo e centrale di questi scritti, composti tra il 1936 e il 1943, è l’Iliade, poema della forza .
Il 4 dicembre 1934 Simone Weil era entrata in fabbrica, come ouvrière sur presses . Non vi era entrata per ragioni umanitarie o politiche: ma per provare sulla sua carne, con quel coraggio furibondo che non l’abbandonò mai, cosa fosse la mossa ferrea della necessità. Là dominava la macchina, senza rivali: come nei versi di Baudelaire, regnava la sventura moderna, dei grandi occhi muti; lei voleva fissare lo sguardo in quella orribile apparizione. Conobbe la costrizione assoluta, la sinistra ripetizione, l’umiliazione profonda. Qualcuno le diceva all’orecchio, di minuto in minuto, senza che lei potesse rispondere: «Tu non sei nulla qui. Tu non conti. Tu sei qui per piegarti, subire tutto e tacere». Imparò cosa significa ciò che aveva letto nei libri: diventare una cosa, un pezzo di legno o di ferro.
Quelle esperienze di fabbrica diventarono, grandiosamente trasformate, l’esperienza di lettura dell’Iliade , dove scoprì la prima apparizione scritta della forza nel mondo. Nell’Iliade , la forza ha due aspetti, secondo che la si veda con gli occhi di chi la subisce o di chi la impone.
La forza fa di chiunque le sia sottomesso una cosa: cadavere e oggetto. Se egli è vivo, ha l’anima; e tuttavia è una cosa. Ci sono esseri sventurati che, senza morire, sono diventati cose per tutta la vita. Nelle loro giornate, non c’è alcun margine, alcun vuoto, alcun campo libero, per un soffio che venga da loro stessi. Non sono uomini che vivono più duramente di altri: si tratta di una diversa specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere.
Chi ferisce, violenta, uccide, comanda, impone non è più libero dalla forza di chi ne è distrutto. Egli non la possiede: vi fa troppo affidamento e ne è inebriato, travolto dalla propria hybris . Va al di là di ciò di cui dispone. Va inevitabilmente al di là, perché ignora cosa è limitazione e misura: viene abbandonato senza rimedio al caso, e le vicende non gli obbediscono più.
La storia greca aveva avuto inizio con un crimine atroce: Troia era stata distrutta e arsa; nella notte i guerrieri troiani erano stati massacrati, i bambini sfracellati contro le rocce; le donne prese prigioniere e portate in esilio. Allora, era nato un immenso rimorso, che aveva pesato su tutta la civiltà greca e, come suggerisce la Weil, su tutta la storia che gli uomini fabbricarono dopo di allora.
Le lacrime di Andromaca dopo la morte di Ettore sono le lacrime che piangiamo su noi stessi come attori e vittime della storia.
* * *
La creazione del mondo non è stata — secondo la Weil — un atto di pienezza, di espansione e dilatazione di Dio, come racconta la Genesi. È stata una follia. Per darci spazio, Dio ha rinunciato a se stesso; si è limitato; si è nascosto negli abissi più remoti; si è ritirato dall’universo, come diceva Itzhak Luria. Nel luogo vuoto, che prima della creazione occupava, egli ha lasciato lo schermo tremendo della necessità: le leggi meccaniche dell’universo, il male, la miseria, l’angoscia, il lavoro, la guerra e la forza dell’Iliade , la morte violenta, la malattia, l’oggettività mostruosa della fabbrica moderna. Come uno schiavo, Dio si è incatenato con le catene della necessità, sulla quale non interviene.
Ora, nel mondo, non c’è alcuna traccia di misericordia divina; e questa assenza è il segno di Dio. A causa di questa rinuncia, egli non è più l’Uno, come i filosofi troppo ottimisti avevano creduto. È lacerato tra i suoi due volti opposti e contradditori, che tuttavia costituiscono il suo unico volto: diviso tra bene e necessità, come noi siamo. Nessuno, mai, nemmeno uno gnostico, aveva portato la lacerazione e la follia, che sono cose proprie dell’uomo, così addentro il volto segreto di Dio.
Il mondo è la conseguenza di questo paradosso divino. Da un lato Dio perduto, lontano, assente dalla sua creazione, dove possiamo rintracciare soltanto qualche lievissimo barlume di lui. Ma, d’altro lato, egli è onnipresente nella creazione, come nei Salmi. Tutte le cose sono una metafora e un riflesso multicolore della sua presenza. Egli è dovunque: nella bellezza, nell’ordine e nell’armonia del mondo, schiave della necessità, che la Weil celebra con gli accenti di una stoica o di una cristiana del quarto secolo. Egli è presente in ogni cosa che avviene nell’universo: nei fatti mostruosi che sono accaduti, nei fatti orribili che stanno per compiersi, i quali per l’uomo sono tutti carezze delicate e discrete della mano di Dio.
L’incarnazione e la passione rappresentano il culmine della follia e dello strazio di Dio. Appena parla di Cristo, ogni traccia gnostica e manichea scompare dalla mente della Weil: Cristo è colui che si è incarnato e ha patito con un reale corpo umano. Ma in lei non c’è nemmeno una traccia del Cristo salvatore e trionfatore della tradizione cristiana: Cristo non salva nessuno. Come Osiride, è il Dio fatto a pezzi, simbolo «dello spirito disperso attraverso lo spazio e la materia». Sulla croce, egli viene abbandonato da Dio, che verso di lui diventa gelido come la necessità; non c’è parola nei Vangeli che abbia tanto colpito la Weil quanto il grido di disperazione del Dio abbandonato. Come diceva Eschilo, «mediante la sofferenza e la conoscenza». «La croce del Cristo — ribadisce la Weil — è l’unica forza della conoscenza». Il solo pensiero umano degno di questo nome è lacerato, contradditorio, aguzzo, aforistico, come i due pezzi di legno levati inutilmente contro il cielo.
La tragedia della croce si ripete nella sventura — l’esperienza essenziale che ogni uomo fa di se stesso. Non c’è nessuna sensazione o sentimento che la Weil abbia espresso con tanta lucidità e intensità, con tanta appassionata partecipazione e orrore e riconoscenza come se per tutta la vita, malgrado le dolcezze discese dal cielo e gli sguardi innamorati alla natura, non fosse stata che «un poco di carne nuda, inerte e sanguinante, abbandonata senza nome sull’orlo di un fossato».
La sventura è una di quelle presse che la Weil aveva conosciuto in fabbrica: un meccanismo freddo, metallico e implacabile che domina il corpo, ostacola l’immaginazione, incatena il pensiero, ghiaccia tutti coloro che tocca. Come con un ferro rosso, imprime nello sventurato il disprezzo, il disgusto, la repulsione di sé, una sensazione di colpa e di lordura più grave di quella che suscita il delitto. Lo rende succube e complice, inietta un veleno di inerzia, si fa amare e desiderare, uccide le parole che potrebbero esprimerla; martella l’anima, la degrada, la riduce a una cosa, l’annienta.
In quei momenti di desolazione, Dio abbandona chi soffre, come aveva abbandonato Giobbe e Cristo: «Egli è più assente di un morto, più assente della luce in un carcere completamente tenebroso».
Ma, subito dopo aver descritto con parole terrificanti la sventura, grazie a uno di quei capovolgimenti totali che costituiscono la chiave del suo pensiero — la Weil intona l’elogio della sventura. Con una specie di empietà nella voce, afferma che a causa della sofferenza «l’uomo è superiore agli dei». «Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire per non essere inferiore all’uomo». «Se in questo mondo non ci fosse sventura, potremmo crederci in paradiso, orribile possibilità». Se sappiamo scendere in fondo alla sventura, come Omero e Sofocle, senza cercare consolazioni o illusioni, senza parole vane e bugiarde — lì, proprio in fondo all’abisso, in quelle profondità dove stanno le cose supreme, ritroveremo la sofferenza redentrice, la verità, la bellezza, la misericordia e l’amore di Dio.

Corriere 11.1.14
Le «miracolose» cure di Kerste, medico di Himmler, capo delle SS
risponde Sergio Romano


Avevo letto che Folke Bernadotte, dal 1943 vice presidente della Croce Rossa svedese, durante la guerra si dedicò al soccorso degli internati civili riuscendo a salvare circa 15.000 persone, tra cui migliaia di ebrei, dalla deportazione nei campi di concentramento. Domenico Vecchioni nel suo libro intitolato Il medico di Heinrich Himmler ridimensiona i meriti di Bernadotte, quasi rimproverandogli il fatto di essersi gloriato dell’impresa, e attribuendone il maggior merito al medico Felix Kersten. Quest’ultimo si era guadagnato la stima del Reichsführer grazie alla sua bravura nell’alleviargli i dolori al ventre che lo affliggevano. Quale giudizio può esprimere al riguardo?
Alberto Cotechini

Caro Cotechini,
Nel suo libro sul Medico di Heinrich Himmler (Greco e Greco ed., 2014) Domenico Vecchioni ricorda che Felix Kersten era un tedesco del Baltico. Paradossalmente la sua vita, agli inizi, non è molto diversa da quella di Alfred Rosenberg, filosofo dell’antisemitismo, direttore del Völkischer Beobachter (il giornale del partito nazista), ministro dei territori orientali occupati dal Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale. Entrambi erano nati in Estonia (Rosenberg nel 1893, Kersten nel 1898), parlavano russo, avrebbero fatto la loro carriera in Germania. Ma Rosenberg avrebbe avuto una parte decisiva nella politica genocida della Germania di Hitler e sarebbe stato giustiziato a Norimberga nell’ottobre del 1946; mentre Kersten combatté con i finlandesi contro i bolscevichi, divenne cittadino della Repubblica di Finlandia, studiò in Germania e negli ultimi mesi della guerra avrebbe salvato non meno di 800.000 ebrei. Vi riuscì perché aveva appreso a Berlino l’arte del massaggio scientifico e l’aveva perfezionata grazie agli insegnamenti di un medico cinese che, a sua volta, aveva studiato le tecniche della guarigione tradizionale in un monastero del Tibet. Stimato e ammirato, Kersten ebbe la buona sorte di conquistare un cliente eccezionale nella persona di Heinrich Himmler. Sembra che soltanto i suoi massaggi riuscissero ad alleviare i terribili dolori addominali di cui il Reichsführer delle SS soffriva sin dalla gioventù.
Kersten seppe sfruttare i suoi poteri in molte circostanze, evocate da Vecchioni nel suo libro, ma il vero miracolo avvenne quando persuase Himmler, nel marzo del 1945, mentre l’Armata Rossa avanzava da est, a revocare alcuni ordini precedenti. I lager non sarebbero stati distrutti e da quel momento nessun ebreo (nei campi ve n’erano ancora 800.000) sarebbe stato giustiziato. Non basta. Kersten persuase Himmler a dare l’annuncio del “contratto” in un incontro con un esponente del mondo ebraico. L’incontro ebbe luogo nella notte tra il 20 e il 21 aprile 1945 in una villa a circa 70 km da Berlino e l’interlocutore ebreo a cui Himmler dette la notizia fu Norbert Masur, rappresentante della Svezia al Congresso ebraico mondiale.
I massaggi di Felix Kersten fecero miracoli. Ma Himmler non avrebbe ceduto alle preghiere del medico finlandese se gran parte del suo tempo, nell’ultima fase della guerra, non fosse stata dedicata a fare gesti concilianti e a preparare vie di fuga. Vi sono notizie interessanti a questo proposito nelle memorie di Fey von Hassell (I figli strappati , Edizioni dell’Altana, 2000). Dopo il fallito attentato contro Hitler del luglio 1944, la figlia di uno dei congiurati (l’ambasciatore von Hassell) fu internata nel campo di concentramento di Buchenwald. Ma quando i sovietici raggiunsero il cuore della Germania, fu trasferita in altri campi, sempre più lontani dal fronte, insieme a un gruppo di personalità che Himmler considerava utili per il suo futuro: l’ex premier francese Léon Blum, un giovane nipote del ministro degli Esteri sovietico Molotov, il «barone dell’acciaio» Fritz von Thyssen, l’ex cancelliere austriaco Kurt von Schusschnigg (l’uomo che si era opposto all’Anschluss), il pastore luterano Martin Niemöller.
Il loro «padrone» non riuscì ad usarli come merce di scambio. Catturato dagli inglesi nei pressi di Amburgo, si suicidò con una capsula di cianuro inserita fra due denti. Era il 23 maggio 1945.

Repubblica 11.1.14
Bernardo Bertolucci “Il mio cinema nato a fumetti”
Il regista racconta la sua passione coltivata fin da bambino
Il regista: un mix tra letteratura e cultura visuale
“E ricordo come la Valentina di Crepax venne influenzata da Godard”
“I cartoon moderni sono opere d’arte”
di Tiziana Lo Porto


«Una sera ero stato invitato a una proiezione di Io e te organizzata da Massimo Ammaniti per la Spi, la Società Psicoanalitica Italiana. Dopo il film avrei dovuto parlare con gli psicanalisti, ma avevo troppo dolore alla schiena per andare. E allora ho chiamato Ammaniti per dirgli che avrei rinunciato. E lui: e che fai? Mi guardo il film sui supereroi della Marvel». È quasi mezzogiorno e Bernardo Bertolucci sta facendo colazione nel soggiorno di casa sua. Ma poi il film sui supereroi gli è piaciuto? «Un po’ deludente ». Con i supereroi è sempre così, spiega. «Forse quello fatto da Sam Raimi, cos’era? Spiderman, era un po’ meglio». Si ferma di nuovo, ci pensa: «È strano come un film che viene da un fumetto, realizzato con molti soldi ed effetti speciali, alla fine ti sembri sempre meno gratificante di un fumetto. Il fumetto ti fa sognare di più».
Parla dei fumetti che ha letto, di quelli che gli piacciono, racconta che ultimamente legge molte graphic novel: «Sull’argomento ho come due pensieri paralleli. Uno è: oh che bello, il fumetto è stato in qualche modo nobilitato. E dall’altra parte però mi dico che le graphic novel non sono altro che la derivazione diretta del fumetto. Sono il tentativo di avvicinare ulteriormente il fumetto alla letteratura. I vecchi giornalini, mi chiedo io, non contenevano dentro quello che poi sarebbero state le graphic novel?».
La sua graphic novel preferita, tra le ultime lette, è Black Hole di Charles Burns. «Mentre leggevo c’era un costante senso di pericolo». Poi torna indietro, e racconta dei fumetti letti da bambino, quelli che il padre Attilio gli permetteva di leggere ritenendoli «una forma popolare ma importante».
Dice Bertolucci: «Da bambino ho letto moltissimi giornalini, come li chiamavamo allora. Mio padre era molto favorevole al fatto che li leggessi, ed era molto permissivo sul-la scelta. Non solo fumetti di Walt Disney, ma anche fumetti d’avventura e d’azione, di quelli che si leggevano a fine anni Cinquanta, inizio Sessanta. Poi a volte, siccome ero piccolo, facevo vedere i fumetti a mio padre, e mi ricordo, o non mi ricordo e l’ho inventato io, che lui mi diceva, “beh, in fondo anche la storia di Francesco dipinta da Giotto ad Assisi è un fumetto”. Avendomi sdoganato i fumetti mio papà, avendoli avvicinati a Giotto, li ho sempre accettati, non ho avuto mai quello sguardo un po’ trasversale che hanno gli intellettuali nei confronti dei fumetti. Non so come siano nei confronti della graphic novel. Non so se sia stata accettata come arte nobile anche quella. È stata accettata?».
Dipende. I più illuminati l’accettano, e anzi trattano le graphic novel come romanzi. Altri no. E lui: «Adesso che leggo graphic novel, che del fumetto sono un po’ la sublimazione in senso letterario e grafico, il distillato, capisco perché mio padre avesse in simpatia il fumetto. È come il discorso sui generi: bisogna giudicare un’opera, un film per esempio, a seconda del genere? O bisogna liberarsi del pensiero che appartiene a un genere? Per esempio, c’è un film di vampiri che si chiama Lasciami entrare, credo sia svedese. Ed è un vero film di vampiri. È di genere, ma è bellissimo. Le graphic novel, quantomeno quelle che ho letto io, mi sembra contengano tutte il tentativo di sfuggire a un genere, di liberarsi dei generi».
Le graphic novel sono vicine al cinema? Lo sono più del fumetto? «Sì, alcune volte. Alcune volte ci sono delle soluzioni che fanno pensare al cinema. Anche nel tuo su Scott e Zelda, ci sono dei passaggi che mi fanno venire in mente il cinema. Ed è importante tutto il fuori campo, quello che non si vede, ma si sente che è accaduto, o che accadrà. In Superzelda c’è sempre questa pienezza del fuoricampo. Ma io raramente sono riuscito a vedere il cinema in un fumetto. Negli anni Sessanta un pochino lo sentivo in Crepax, e nelle storie di Valentina».
«Lì per esempio mi divertiva molto vedere che su Crepax c’era l’influenza di Godard. C’era moltissimo. Valentina è una Anna Karina che imita Louise Brooks inLulù. Valentina è come Anna Karina in Vivre Sa Vie, è identica. Ed è evidente come Crepax fosse influenzato da Godard non solo nell’avere creato un personaggio che somiglia a quello diVivre Sa Vie,ma proprio nel montaggio, nel taglio delle inquadrature. Il suo lavoro è come una elaborazione su Godard. Eppure ai suoi tempi quella di Crepax non era considerata arte. Quantomeno non da tutti. Solo alcuni, appunto illuminati, la consideravano una vera e propria forma d’arte».
Si domanda se non sia stata l’invenzione della parola “graphic novel” a sdoganare quelle storie, ad avvicinarle all’arte. Chiede chi l’abbia inventata la parola. La risposta è Will Eisner, che è stato il primo a mettere insieme la parola “graphic” e la parola “novel”. E che sì, forse l’invenzione della parola è stata più importante del disegnarle.
E le sue influenze? Lui ci pensa, poi cita
Sciuscià,un fumetto che leggeva da bambino. «Lo leggevo a otto, nove e dieci anni. Era un’unica striscia. E dentro la striscia c’erano a volte vari disegni, a volte uno solo, più spettacolare. Era la storia di tre ragazzi che dalla Sicilia salivano verso Milano nel ’43-44, edera scritto poco dopo. Quando ho visto Paisà di Rossellini ho pensato, ma guarda, è come quel fumetto che leggevo da piccolo, in cui anche questi tre ragazzini, molto avventurosi, salivano piano piano, portavano la liberazione dal sud al nord. E poi c’era Tex Willer, personaggio che ho conosciuto negli anni Cinquanta, e col passare del tempo non è mai invecchiato. Come personaggio dei fumetti, lui non invecchia. Cambia nel tratto ma non invecchia. E l’ho messo nel mio film Io e te. Jacopo Olmo Antinori, il ragazzino che interpreta Lorenzo, lo leggeva, e allora a un certo punto l’ho usato».
E da Tex Willer si ritorna alla distanza tra fumetto e graphic novel, al fatto «che il fumetto è seriale, la graphic novel no. Questa è una cosa che in fondo mi manca un po’. Nella sua purezza, nel suo essere conclusa in sé, la graphic novel viene un pochino a mancare di un aspetto che era enormemente importante quando ero bambino, ossia che aspettavo con trepidazione il giorno in cui sarebbe arrivato un nuovo episodio di Tex Willer».

Repubblica 11.4.14
Nata per correre
Storia di Samia, l’olimpionica finita su un barcone di migranti
Il romanzo di Giuseppe Catozzella ripercorre la vicenda dell’atleta somala dalle strade di Mogadiscio all’ultimo viaggio della speranza
di Roberto Saviano


ESISTE ancora possibilità di romanzo nel nostro tempo? Domanda solita perenne identica che si pronuncia ormai da un secolo. La risposta chiave che annulla la sua ridondanza venne da Goffredo Parise: «Il fatto romanzesco come categoria il romanzo come tecnica – lo ripeto ancor una volta – penso non sia interessante. Quello che è interessante è scrivere un libro che si sente necessario di scrivere».
Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, pagg. 240, euro 15) è un libro necessario. Giuseppe Catozzella ha scovato e scritto con l’imperativo della narrazione necessaria questo libro. È una storia che nessuna fantasia avrebbe potuto creare. Una storia che crea vertigine per quanto ci si senta colpevoli a non averla raccontata ovunque fosse possibile. Al tavolo da pranzo, a scuola, in radio, tra amici, a letto prima del sonno o dopo l’amore. È la storia di Samia Yusuf Omar, storia che i giornali di tutto il mondo narrarono ma che poi scomparve nel solito silenzio che segue qualsiasi vicenda consumata tra click e commenti di un’ora. Samia è una ragazza somala nata per correre. Vive a Bondere, quartiere di Mogadiscio, un dedalo di stradine di sabbia e polvere schiacciate fra abitazioni in muratura, lame di acacie, svettare rado di eucalipti. In mezzo alla polvere di quelle straduzze fra piccoli mercati, scuole coraniche, corrono i ragazzini. Anche Samia Yusuf Omar ha cominciato a correre lì. Samia appare nel romanzo quando il talento della corsa la sta rivelando a se stessa e le sue gambe secche e forti le chiedono consapevolezza, leggerezza, ritmo. L’amico Alì ne cronometra il tempo, ne registra i progressi, con strumenti non perfetti, ma con una sensibilità degna del più acuto degli allenatori. La famiglia non ha paura di capire quel talento e la sostiene. Tanto basta perché in Samia metta radici l’ambizione di redimere la fatica, la povertà, l’ostilità, il volto severo del suo paese, il silenzio in cui sono nascoste le donne, la minaccia che quelle stesse gambe secche possano fermarsi. Per niente al mondo si fermerà, la piccola Samia.
Catozzella dinanzi a questa storia non riesce solo a riportarne traccia. Non vuole solo mettere i piedi nelle orme già pestate. Prende Samia e la accende dentro la sua storia di ragazzina prima e poi di giovane donna. Lo fa dandole voce, immaginandosi la voce che può avere una ragazza che non ha paura di trovarsi da sola con il suo talento e con la sua anima. Non è trucco, non è gioco di prestigio. A volte succede che la realtà sappia dirsi con la semplicità dei pensieri di una fanciulla. Catozzella sembra accordare la voce di Samia alle sfumature di Anna Frank, dei diari di Etty Hillesum. La Samia di Giuseppe Catozzella va a cercare quella trasparenza, quella tonalità cilestrina, quella malinconica tolleranza che solo l’adolescenza visitata dalla speranza e dalla tentazione del futuro sa trovare con naturalezza, con gentilezza. Samia è protetta da una famiglia che riesce a costruire uno spazio di affetto miracoloso intorno a lei mentre la Somalia cede all’integralismo, si insanguina di repressione, e viene lacerata dal terrorismo. Samia non è ciecané ottusamente ottimista: perde il suo più caro amico, vede morire il padre, e lascia partire la sorella per l’Europa ma tutto ciò non sembra spezzare la possibilità di raggiungere una forma di felicità. È il lascito più prezioso della sua famiglia. Che cosa può fare una piccola atleta contro tutto questo? «Tutti si chiedevano come fosse possibile che una ragazzina magra come un’acacia appena piantata e con due gambine che sembravano ramoscelli di ulivo potesse vincere. Il fatto era che vincevo e basta. Ero più veloce degli altri. Almeno, di quelli che mi era capitato di incontrare. Con i mesi, ho capito che la mia specialità erano i duecento metri». Eccola Samia. Concentrata su se stessa. Concentrata sul corpo. Fuori c’è il silenzio, il sole a picco, la morsa del caldo. Dentro il giovane corpo dell’atleta macina il futuro. Un futuro che si alimenta di preghiera, una preghiera laica che si celebra alzando gli occhi sulla foto che tiene sopra il letto. Mo Farah somalo, campione olimpionico e tre volte campione del mondo di mezzo fondo. È lui il dio benigno che accompagna Samia. E riesce da sola senza sponsor, senza allenatori professionisti, senza medici e massaggiatori a qualificarsi alle Olimpiadi diPechino. Il miracolo di Samia ha inizio.
A Pechino si fa appena notare ma conosce l’arena, il campo, il luogo dove ci si batte. Sa che il vero traguardo è Londra, perché è là che Samia avrà gli occhi sereni e appagati. Per averli si allena di notte, si affoga nel burqa, testimone della sua corsa solo il cielo stellato, e quando nascondersi non basta più, quando il suo paese non le offre il vessillo di una identità, quando le donne somale alle quali volentieri avrebbe offerto le sue vittorie sembrano entrate nella notte della loro storia, è allora che Samia entra nella favola epica del suo destino. Il corpo che l’integralismo vorrebbe coperto. Il corpo che non esprime più talento ma solo resistenza, e si asciuga, si consuma, si infiacchisce, si rattrappisce, si lascia violentare, svuotare, sfinire. Samia sa che per vivere deve correre, per correre deve allenarsi, per allenarsi dev’essere libera per riuscire a vivere deve provare ad allenarsi in Europa deve raggiungere l’Europa altrimenti tutto finisce. Sono pagine fra le più potenti quelle in cui si narra il “Viaggio”, lo spaventoso viaggio che porta Samia e tutti i migranti del Corno d’Africa su per le vie dei deserti da Addis Abeba verso il Sudan e la Libia, per arrivare infine al mare. Per viaggiare, 72 ore nel cassone di un fuoristrada, i trafficanti chiedono di alleggerire il bagaglio. Nessuno vuole lasciare le proprie cose ma l’alternativa è restare ad Addis Abeba. «Davvero volevo restare ad Addis Abeba? Per quanto tempo? Tutta la vita? Ho aperto la borsa e ho preso la fascia di aabe, la foto di Mo Farah, un qamar e un garbasar, e ho lasciato il resto nell’angolo ». Safia si spoglia e si prepara al grande duello. In quei momenti sembra un’eroina omerica. Ma ogni tentativo della mente di trovare dimensioni note per capire quei momenti è destinato a fallire.
Da quel momento in poi, la spoliazione è una spoliazione che arriva fino alla pelle dell’anima, eppure proprio da quel momento la voce di Samia ci dice che il corpo e indebolito esiste appena, anzi che quanto più si infragilisce tanto più forte è il sogno di arrivare, di varcare il mare, di vincere. «Ho trattenuto le lacrime, mordendomi forte le labbra. Ho chiuso gli occhi in mezzo a tutte quelle braccia, spalle, gomiti, e ho pregato aabe e Allah. Che mi facessero trovare la via. La mia via». La via di Samia. Dopo un viaggio come quello non c’è più cerbiatto, non c’è più farfalla, e bisogna ancora attraversare il mare. Cosa sia quel mare, lo sappiamo sin troppo bene – è il mare dei migranti, il mare fatale, ma quando Samia sale sul gommone è ancora il mare del sogno. Com’è finito il viaggio di Samia lo si apprende dalle parole del primo grande atleta somalo Abdi Bile campione del mondo dei 1500 metri a Roma nell’87. Bile celebra il trionfo di Mo Farah alle Olimpiadi di Londra e in quel momento ricorda Samia, morta nelle acque di Lampedusa mentre cercava di raggiungere l’Europa per qualificarsi alle Olimpiadi.
La storia della giovanissima atleta ha cominciato a girare il mondo e a lasciare tracce. Giuseppe Catozzella è riuscito ad affacciarsi sull’abisso della cronaca senza cedere alla tentazione del patetico. Catozzella ha ascoltato (in Finlandia è riuscito a contattare la sorella di Samia, ad averne la confidenza). Quanto più è vivo il sogno di Samia, quanto più soave è la voce che lo canta, tanto più, come in una visione dall’alto, il destino è visibile, l’ingiustizia incide, il dolore strazia. «Presto nel Viaggio si imparano il silenzio e la preghiera. Presto nel Viaggio si impara a dimenticare il motivo per cui sei lì, e a praticare silenzio e preghiera». Così dice Samia, ma infine il “motivo” torna. Ricominciare a correre, ad allenarsi. A vincere. Ma qui, dopo questo romanzo, la vittoria è il sentimento che non ci riconcilia, che ci lascia stupefatti davanti alla bellezza perduta,al futuro che non arriva.

IL LIBRO Non dirmi che hai paura, di Giuseppe Catozzella, Feltrinelli pagg. 240, euro 15

Repubblica 11.1.14
L’enigma di Enea. Eroe o disertore?
Maurizio Bettini e Mario Lentano sulle tracce del personaggio virgiliano
di Marino Niola


«La fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia, due quarti alla sorte e l’altro quarto ai loro delitti». La frase che Ugo Foscolo fa pronunciare a Jacopo Ortis è profondamente vera, ma solo a metà. Perché a fare una buona pasta d’eroe non bastano le materie prime. Ad essere decisivo è il loro assemblaggio, il modo in cui l’officina del mito ne costruisce la figura. E la ricostruisce. Dandole connotati e significati che mutano col passare dei tempi. Un esempio perfetto del funzionamento della macchina mitologica ce lo offrono Maurizio Bettini e Mario Lentano in uno splendido libro dedicato a Enea, un personaggio che più mitico non si può (Il mito di Enea. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi,Einaudi).
Coprotagonista dignitoso dell’Iliade omerica, il figlio di Venere e Anchise diventa, al termine di una lunga serie di peripezie, il primattore dell’Eneide di Virgilio. Che ne italianizza la figura facendone il lontano progenitore di Roma.
Gli autori ci guidano abilmente attraverso la complessa partitura mitografica decostruendola nelle sue innumerevoli varianti, poetiche, letterarie, iconografiche, musicali. Ciascuna delle quali aggiunge o toglie qualcosa al ritratto dell’eroe virgiliano. Che per noi resta l’immagine madre, quella che ha tuttora il volto delpio Enea. Ma chi Enea sia veramente è difficile dirlo perché più lo si guarda da vicino più l’immagine si scompone in mille particolari. Che non raccontano tutti la stessa storia. Anzi ciascuno è l’indizio e l’inizio di una controstoria, dove le materie prime della ricetta foscoliana, audacia, sorte, delitti, vengono rimescolate ogni volta in modo diverso, con effetti spesso opposti. Risultato, Enea è uno nessuno e centomila. E finché resterà un mito, capace di parlare alla nostra mente e ai nostri cuori, continuerà a mutare pelle. Ed è proprio grazie a questa incessante metamorfosi che le storie degli antichi continuano a vivere nel nostro immaginario.
In realtà l’Enea che nasce da quel big bang dell’universo mitologico antico che è la guerra di Troia, ha un destino che va in senso opposto a quello di Achille, Ettore, Aiace. I diversif ront manomerici sono esseri per la morte, per dirla con Heidegger. E la loro fine segna appunto il tramonto dell’età eroica. La loro dimensione è il passato. Tutto il contrario di Enea che comincia la sua vita proprio dalle ceneri della città di Priamo, prendendo il largo verso il futuro. Bettini e Lentano si mettono sulle sue tracce, si calano nella profonda spirale del mito sottoponendo a un’affascinante interrogazione le voci greche, romane e cristiane. L’indagine finisce per gettare non poche ombre sulla condotta morale del padre di Ascanio. E perfino sul suo ardore guerriero. Secondo Tertulliano, Lattanzio e sant’Agostino che, da intellettuali cristiani, avevano tutto l’interesse a screditare uno dei simboli identitari della Roma pagana, l’eroe sarebbe stato così poco coraggioso da abbandonare Troia prima della battaglia finale. Così l’immagine edificante del grande guerriero che porta in salvo il vecchio padre, viene oscurata da quella infamante del disertore. E perfino del traditore. Della patria, ma anche delle donne che egli incontra nel suo viaggio e dalle quali ha spesso figli: un nome per tutti, Lavinia, moglie italica del troiano errante, nonché madre primigenia di una stirpe che arriva a Romolo e Remo.
Ma l’affaire più celebre resta quello con Didone, che gli autori ricostruiscono in un avvincente capitolo intitolato «Aeneas in love». Il transfuga, fresco vedovo di Creusa, arriva a Cartagine dove conquista i favori e le grazie della bella regina. E poi la molla per correre dietro alla sua missione. Sedotta e abbandonata, l’infelice sovrana si uccide per il dolore. Mentre Enea non si lascia sfuggire una sola parola d’amore per la donna. Come si addice a un uomo duro e impuro. La storia comunque ha fatto giustizia. Il lamento di Didone è sopravvissuto all’afasia di Enea. Volando fino a noi sulle ali iridescenti della musica di Henry Purcell. E ci spezza ancora il cuore. Perché alla fine la passione vince su ogni missione.
IL LIBRO Il mito di Enea di Maurizio Bettini e Mario Lentano (Einaudi pagg. 347 euro 30)