sabato 11 novembre 2017

Repubblica 11.1.17
“Facebook sta cambiando il cervello dei nostri bambini”La polemica. Sean Parker, ex presidente del social, accusa: “sfrutta la parte più vulnerabile delle persone”
di Simone Cosimi


ROMA. Ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita e nella crescita di Facebook. Ne è stato il primo presidente, quando la piattaforma fondata da Mark Zuckerberg ed Eduardo Saverin aveva appena 5 mesi. Prima aveva creato Napster, il software di scambio di musica fra utenti privati che ha terremotato l’industria del settore, e lanciato altri siti come Plaxo e Causes. È membro del cda di Spotify dopo averci scommesso 15 milioni di dollari. Adesso Sean Parker — interpretato da Justin Timberlake del film The Social Network
— tuona contro la stessa creatura che ha contribuito a creare: il social blu «sfrutta le vulnerabilità psicologiche delle persone» ha detto a un evento a Philadelphia.
In alcuni passaggi Parker, oggi 38enne, multimiliardario e al vertice di un’organizzazione per la ricerca contro il cancro, ha ricostruito le tappe degli anni 2004 e 2005, quando la neonata Facebook stava diventando un’avventura rivoluzionaria. Parker ha spiegato che il meccanismo messo in piedi dal social, costruito intorno ai “Mi piace”, alle condivisioni e ai commenti, funziona di fatto come «un loop di validazione sociale » costruito intorno a una «vulnerabilità psicologica umana». Per le dimensioni e le forme che ha oggi, l’ecosistema di Menlo Park «cambia letteralmente la relazione di un individuo con la società e con gli altri. E forse interviene in modo negativo sulla produttività ». Non basta. L’interesse principale di Parker, che si dichiara “obiettore di coscienza” rispetto ai social media, sembrano essere i bambini: «Solo Dio sa cosa sta succedendo al cervello dei nostri piccoli» ha spiegato dall’evento della testata Axios. Una preoccupazione che molte indagini hanno preso di petto negli ultimi anni, pur rimanendo tuttavia nell’ambito dell’osservazione. Ansia, irritabilità, paure, isolamenti, “fear of missing out”, cioè timore di rimanere tagliati fuori dai flussi di aggiornamenti, iperesposizione, rapporti amicali e bolle politiche: gli studi sugli effetti dei social sulle persone, e su bambini e adolescenti, si sprecano. Una delle ultime ricerche è firmata dall’Università della Pennsylvania. L’ex presidente di Facebook ha raccontato come all’epoca l’obiettivo fosse fare in modo che le persone vi trascorressero più tempo possibile e spendessero il massimo dell’attenzione. Missione compiuta.

Corriere 11.11.17
Dopo la Sicilia, il Pd cala ancora e sale M5S
Al centrodestra quasi metà dei collegi
Per i dem sei punti persi in sei mesi. FI, Lega e FdI primi con 253 seggi, di cui 114 nell’uninominale
di Nando Pagnoncelli


C’era molta attesa per le elezioni regionali siciliane, l’ultimo importante evento elettorale prima delle politiche del prossimo anno. Un’attesa elevata non solo per il risultato, ma per le indicazioni politiche che avrebbero potuto essere tratte in prospettiva nazionale, in termini di posizionamento politico, di alleanze e, soprattutto, di conseguenze sulle opinioni degli elettori.
Nonostante le elezioni amministrative abbiano una valenza prevalentemente locale, motivazioni di voto in larga misura legate a temi specifici e al profilo dei candidati e una diversa legge elettorale rispetto alle politiche, dobbiamo farcene una ragione: da molti anni invariabilmente ogni elezione rappresenta un test nazionale. Gli stessi italiani in larga misura (50%) ritengono che il voto alle regionali siciliane potrà avere rilevanza nazionale e conseguenze significative sullo scenario politico; al contrario solo il 35% lo considera solo una consultazione a carattere regionale. Gli elettori di centrodestra, galvanizzati dall’esito vincente, sono ancor più convinti della valenza nazionale del voto siciliano.
La consultazione siciliana è stata seguita da quasi la totalità degli italiani (95%, di cui 43% con grande attenzione): è un dato che fa da contraltare alla scarsa affluenza alle urne che si è fermata al 46,8%. L’esito elettorale tuttavia non ha destato grandi sorprese: due italiani su tre (66%) se lo aspettavano, mentre il 15% pronosticava un risultato diverso. I meno sorpresi sono risultati gli elettori del Pd e di Forza Italia (entrambi 83%), i primi rassegnati alla sconfitta, i secondi molto ottimisti grazie anche al coinvolgimento in prima persona di Berlusconi a supporto di Musumeci.
Le opinioni degli elettori italiani sul risultato elettorale in Sicilia sono piuttosto nette, vediamole in dettaglio: il 50% ritiene che Renzi ne esca indebolito e non possa più essere il candidato premier del Pd mentre per il 32% il segretario non ha responsabilità e rimane il principale riferimento alle prossime elezioni. Nettamente più severi nei confronti dell’ex premier gli elettori dei partiti avversari. Il 52% è convinto che il centrodestra è unito solamente in campagna elettorale ma è destinato a dividersi sui programmi di governo nazionale, mentre il 30% prevede che sarà in grado di portare avanti un comune programma di governo; anche in questo caso le opinioni dei diversi elettorati divergono nettamente: fiduciosi gli elettori di centrodestra, scettici gli altri.
Il 51% pensa che il M5S non sia in grado di vincere e difficilmente potrebbe governare a livello nazionale, mentre il 33% considera il risultato siciliano un voto regionale che non preclude il successo alle politiche.
Insomma, nello scenario tripolare prevalgono nettamente i giudizi negativi: Renzi è indebolito e non può essere il candidato premier, il centrodestra è profondamente diviso, il M5S non è in grado di vincere e governare. Queste sono le opinioni prevalenti.
Le intenzioni di voto rilevate dopo il voto siciliano fanno segnare qualche sorpresa rispetto a ciò che avviene di sovente all’indomani di una consultazione elettorale, quando gli elettori cambiano gli orientamenti premiando i vincenti e penalizzando gli sconfitti. Le polemiche sugli «impresentabili» e l’arresto per evasione fiscale del neo deputato siciliano De Luca eletto con Musumeci non fanno aumentare i consensi per il centrodestra vincente (che ha nel complesso il 36,5%), con l’eccezione di Fratelli d’Italia che aumenta lievemente passando dal 4,5% al 5,1%. Per gli stessi motivi (l’indignazione per gli impresentabili), nonostante la sconfitta il M5S aumenta di quasi 2 punti (ha il 29,3%), e non sembra risentire delle polemiche sulla mancata partecipazione di Luigi Di Maio al confronto televisivo con Matteo Renzi. Il Pd limita i danni, attestandosi al 24,3%, in flessione di 1,2%: la sconfitta era largamente attesa e i dem negli ultimi tempi avevano già subito una flessione nei consensi passando al 30,4% di maggio al 25,5% di fine ottobre. Lo stesso dicasi per Alternativa popolare, il partito di Lupi e Alfano alleato del Pd in Sicilia, che fa segnare una lieve flessione a livello nazionale (2,6% da 3,1%) e dei partiti alla sinistra del Pd (Mdp è al 2,8%). E l’astensione aumenta di un punto, sfiorando il 37%. Da ultimo la simulazione dei seggi che, va sottolineato, rappresenta un’approssimazione dato che non sono stati ancora definiti i collegi uninominali (abbiamo considerato circa 56.000 interviste distribuite nei collegi senatoriali del Mattarellum) e non sono state decise né le coalizioni né le candidature. Cionondimeno l’analisi fornisce una fotografia degli attuali rapporti di forza tra i soggetti in campo.
Secondo i dati Ipsos elaborati da Paolo Natale dell’Università di Milano, oggi il centrodestra (FI, Lega e FdI) conquisterebbe 253 seggi, di cui 114 nei collegi uninominali (quasi la metà); il M5S si attesterebbe a 173 seggi (di cui 63 uninominali), il centrosinistra (Pd e Ap, in attesa che la coalizione possa accogliere altri soggetti) a 164 seggi (di cui 54 collegi uninominali), e la sinistra a 23. Allo stato attuale non è chiaro se si stia profilando una competizione del centrodestra con il centrosinistra oppure con il Movimento 5 stelle. In ogni caso oggi nessuno avrebbe i numeri per costituire una maggioranza di governo. Pertanto, se l’auspicio era che le elezioni siciliane dessero risposte chiare in vista delle Politiche, l’esito appare piuttosto deludente: permane infatti una situazione di forte divisione e uno scenario di ingovernabilità. Siamo solo all’inizio della campagna elettorale ma, date le premesse, non c’è da stare allegri.

Corriere 11.11.17
Le incognite di un pd di «protesta e di governo»
di Massimo Franco


La pressione sul vertice del Pd aumenta. E i più ottimisti sostengono che la situazione è in bilico: nel senso che davvero si potrebbe riaprire, a sorpresa, il dialogo tra il Pd renziano e i suoi avversari a sinistra. Non ci sono elementi nuovi che giustifichino una simile svolta: nel senso che l’odio politico reciproco rimane intatto; la tentazione di una resa dei conti elettorale tra le sinistre rimane la prima opzione quasi per forza d’inerzia. E l’ipotesi di una coalizione dell’«altra sinistra», con Pietro Grasso alla guida, si fa più concreta.
Poi, però, c’è anche la realpolitik. Facendosi la guerra, un’intera area politica potrebbe ritrovarsi con le briciole in Parlamento. E spunta l’istinto di sopravvivenza. Non è solo il documento della minoranza che fa capo al Guardasigilli Andrea Orlando, nel quale si chiede una cesura nella politica economica sull’altare della tregua con Mdp: un tabù difficile da violare, e anche da accettare da parte di Renzi, che ha sempre rivendicato il Jobs act come una legge virtuosa e misconosciuta solo dai nemici. Le manovre più sotterranee sono quelle tra i sostenitori del segretario, decisi a chiedere una virata che consenta un’alleanza «da Rosatellum».
E il leader non dice di no. Il tema è delicato. Incrocia l’offensiva sconcertante di Renzi contro Bankitalia e il sistema bancario in generale: una polemica che rischia di arrivare alla Bce di Mario Draghi. La notizia del dibattito odierno a Milano tra Draghi, il premier Paolo Gentiloni e il fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, diventa il simbolo di una vicinanza che il leader dem rischia di spezzare: operazione ritenuta da molti, anche nel Pd, spregiudicata quanto miope e, alla fine, suicida.
Insomma, nonostante la voglia disperata di unità di alcuni settori del centrosinistra, l’operazione si presenta come una grande incognita. I tentativi di mediazione per ricreare un simulacro di coalizione sono generosi ma forse tardivi. E sullo sfondo si avvertono polemiche embrionali, destinate a incanaglirsi rapidamente se le cose vanno male. Le parole di Grasso su un Pd dal quale è uscito perché non esisterebbe più, hanno lasciato il segno. Per ora Renzi ha reagito senza polemizzare. Anzi, ha rivolto «un ringraziamento» alla seconda carica dello Stato per avere favorito un emendamento del Pd.
Ma lo ha attaccato il presidente dei deputati, Ettore Rosato, accusandolo di essere «intervenuto a gamba tesa», nonostante «il suo ruolo istituzionale». Traspare il timore che Grasso diventi un concorrente serio come punto di raccordo del fronte anti renziano. Per questo si ipotizza che il Pd gli chieda un incontro. Dopo la Direzione di lunedì 13 novembre, si capirà meglio se Renzi vuole continuare sulla strada del Pd «di protesta e di governo». E se tirerà diritto, sarà interessante vedere quanti seguiranno la sua parabola.

Repubblica 11.11.17
La telefonata a Magi, segretario dei Radicali, e la lista centrista affidata a Casini
L’ex premier rilancerà in direzione l’idea di unità a sinistra, “ma senza abiure”. E prepara il piano B
di Stefano Cappellini


È ancora possibile una vera, larga alleanza di centrosinistra? Non sarà certo la direzione del Partito democratico prevista lunedì a dare una risposta definitiva. A questa domanda, per ora, Matteo Renzi risponde così: «Un’alleanza ci sarà». Quanto larga? «Il più possibile». Un possibile ristretto dopo l’addio al Pd di Piero Grasso, ormai leader in pectore dello schieramento alternativo ai dem, e la scelta di Giuliano Pisapia di portare anche Campo progressista in quell’area. «Avremo comunque una coalizione che non varrà meno del 30 per cento», è convinto Renzi. Che al segretario del Pd di Bologna, incontrato nella tappa di ieri del tour in treno per l’Italia, ha spiegato che è quella la soglia necessaria per conquistare il giusto numero di collegi con la nuova legge elettorale. Ma con quali alleati, viste le defezioni a sinistra? A Pierferdinando Casini è affidata la costruzione di una lista centrista, che potrebbe accogliere parte degli alfaniani reduci dal naufragio di Ap, forse Alfano compreso. A sinistra, senza il contributo di Pisapia, c’è da costruire una lista quasi dal nulla. Ci sono i socialisti di Riccardo Nencini. Renzi ha telefonato al segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi per fissare un incontro, e la risposta non è stata incoraggiante: «Non siamo in vendita». Il “cespuglio” di sinistra, per ora, non è nemmeno un seme.
Renzi, però, sa che non può non provare a rilanciare la proposta di una coalizione che tenga dentro anche gli scissionisti di Mdp. Ma è terrorizzato all’idea che un tema «troppo di Palazzo e poco di contenuti» monopolizzi per settimane il dibattito pubblico. Intese tra nomenclature e polemiche interne, ecco i due spauracchi dell’ex sindaco di Firenze. Ha scelto di non replicare a Romano Prodi, che a Repubblica ha certificato la sua distanza dal Pd. Ha ritenuto di non duellare con Grasso («Nessuna polemica, anzi lo ringrazio», ha detto ieri tra una fermata e l’altra del treno). «C’è già troppo chiacchiericcio», ha spiegato a chi gli ha chiesto perché non replicare a tono agli attacchi. Una valutazione, quella sull’eccesso di chiacchiere, che il segretario del Pd estende appunto anche alla discussione sulle alleanze. Ecco perché in direzione rilancerà la formula di una alleanza senza paletti a sinistra, ma non intende trascinare a lungo la questione: «C’è una campagna elettorale da fare, e tanti voti da conquistare», spiega.
Matteo Orfini, presidente del partito e principale alleato interno, gli consiglia di aprire a primarie di coalizione. Renzi contro Grasso, una sfida che servirebbe – oltre che a decidere sulla premiership – anche a dirimere le controversie sul programma: Jobs Act, scuola, fisco. Difficilmente Renzi farà sua questa proposta in direzione. Potrebbe essere, casomai, una carta da giocare come ultima. Ad Andrea Orlando, leader della minoranza che lo incalza sulla necessità di una intesa unitaria a sinistra, ha garantito impegno: «Io ci proverò fino in fondo», ha detto ieri al telefono al ministro della Giustizia. Però, è sottinteso, non dipende solo da me. Orlando chiede l’apertura di un tavolo ufficiale di trattativa. Renzi non è contrario, ma nell’eventualità non intende esporsi in prima persona. E certo non ha apprezzato che nel documento che la corrente di Orlando ha preparato in vista della direzione fosse contenuto anche l’invito a una «riflessione» sul Jobs Act. «Così non andiamo da nessuna parte», è il messaggio recapitato al Guardasigilli dai renziani. Per evitare che la già fragile trattativa si arenasse prima di cominciare, Orlando ha chiesto ai suoi di degradare il documento: presentato come ordine del giorno per la direzione si è trasformato in serata in un più innocuo «contributo a disposizione dei gruppi parlamentari». Un episodio minore interno al Pd, che dimostra però quanto stretti siano i margini di una discussione proficua anche al suo esterno. L’area Grasso chiede a Renzi abiure su atti di governo che l’ex premier non è disposto a concedere. Renzi chiede all’area Grasso una moratoria sulla questione leadership che gli ex dem considerano una resa senza condizioni.
Difficile ipotizzare un lieto fine. Nel Pd c’è chi, in testa i ministri Dario Franceschini e Graziano Delrio, considera la divisiopne foriera di sicure sciagure elettorali. Renzi, invece, è convinto che il Pd possa battersi anche subendo la concorrenza di Bersani&co. La convinzione è questa: dalle urne possiamo comunque uscire come primo partito, davanti ai Cinque stelle, e come seconda coalizione, dietro il centrodestra. Il grande risiko, a quel punto, si giocherebbe in Parlamento.

La Stampa 11.11.17
Banca Etruria dietro la rottura Visco-Renzi
Renzi e Visco: c’è Etruria all’origine del grande gelo
L’ex premier non fu preavvertito del commissariamento. E da allora è stata guerra
di Marcello Sorgi

qui

Corriere 11.11.17
Giochi pericolosi sulle banche
di Francesco Verderami


Quando un diccì invoca il «senso di responsabilità», vuol dire che teme il disastro. Perciò l’appello di Casini è una sorta di warning: da presidente della commissione sulle banche si attiene al ruolo super partes, ma da politico osserva il gioco (pericoloso) dei partiti.
Non solo c’è una grande differenza tra «accertare le anomalie di un sistema e far saltare il sistema», il punto è che il confine tra l’una e l’altra cosa è sottile. E chi ha il compito di guidare l’inchiesta decisa dal Parlamento non nasconde la sua preoccupazione nei conversari riservati. È uno stato d’animo che accomuna peraltro le massime cariche dello Stato, stupite dal modo in cui la Commissione abbia avviato i lavori, dal fatto che non ci sia stata «alcuna coscienza di causa per quanto ha provocato e per gli effetti che in futuro potrebbero determinare».
Trasformare la commissione in una tribuna, per di più in prossimità delle elezioni, era un rischio. Ed è stato calcolato male. Casini conosce la politica per averla frequentata, vede come agiscono i grillini e ne intuisce il disegno. Non capisce invece quale sia il gioco degli altri grandi partiti, perché continuando a sparare nel mucchio la verità verrebbe inquinata dalla propaganda. Scagli il primo bond chi è senza peccato, è così che andrebbe a finire. E (quasi) nessuno ne uscirebbe vincente.
Sarebbe il «gioco allo sfascio». È un gioco che Casini teme e che è iniziato. Si è palesato davanti ai suoi occhi nei primi passaggi della Commissione, gestiti ma senza condividerli. Si è riprodotto poi nello scontro in ufficio di presidenza, dove Tabacci ha minacciato le dimissioni davanti alla richiesta di ascoltare Zonin e Consoli: «Dovremmo dare un palco a chi ha la responsabilità dei crac delle banche venete?». È una spirale che «senza un gentlemen agreement» potrebbe far oltrepassare il confine tra la verifica delle disfunzioni di un sistema e il default del sistema.
Martedì si tratterà il caso Mps, che ha una grande valenza retrospettiva. Da giorni due funzionari del Parlamento studiano lo status giuridico del presidente della Bce per capire se la Commissione d’inchiesta abbia la facoltà di chiederne l’audizione. In punta di diritto non sembrerebbe possibile, così almeno risulterebbe dai Trattati. Ma il nodo è ancora una volta politico: i partiti chiederebbero di sentire il governatore europeo?
Sia chiaro, nessuno finora ha fatto il nome di Draghi ma questo nome aleggia nel Palazzo fin da quando Renzi propose di istituire l’autorità d’inchiesta, nonostante dal Colle gli fosse stata consigliata maggiore prudenza. «Stai a vedere che andremo a rompere le scatole a chi ha salvato l’Italia dal fallimento in questi anni», disse allora profetico il centrista Cicchitto. «Ognuno si assume le proprie responsabilità», dice adesso Casini, che forse riteneva meno complicata la gestione di una Commissione nei cui riguardi — all’inizio — aveva espresso contrarietà.
L’appello è il limite oltre il quale nel suo ruolo non può spingersi, perché «in parte dipende da me — ha spiegato ai suoi interlocutori — in parte dipende dalle forze politiche»: «E si è visto cosa succede quando le istituzioni vengono usate come terreno di scontro». Ci sarà un motivo, quindi, se ieri il capogruppo del Pd Rosato è intervenuto formalmente a difesa di Draghi, che «ha lavorato con grande capacità alla Bce e che in virtù del suo lavoro a Bankitalia è stato premiato con la nomina» a Francoforte.
Le parole pronunciate dal dirigente dem — non a caso sottoscritte subito dopo da Renzi — sono in realtà un esercizio di equilibrio per non smentire la linea del partito e rassicurare al contempo i vertici istituzionali, intervenuti pesantemente nella vicenda. Sostenere che «chi cita Draghi vuole bloccare la Commissione» e sottolineare che dall’inchiesta sulle banche si vogliono fare emergere «le responsabilità di Bankitalia» è un modo per restare al limite senza però indietreggiare.
Perciò il gioco resta pericoloso, ed è una preoccupazione di cui c’è traccia nei conciliaboli tra ministri democrat al termine della riunione di governo: il tema delle banche verrà tolto o no lunedì dall’agenda della direzione del partito? Quanto a Gentiloni avrà modo di ribadire a Draghi come la pensa, quando oggi lo incontrerà a Milano. La miccia è ancora accesa...

Corriere 11.11.17
Un sistema in crisi
Il vuoto del Ceto politico
di Ernesto Galli della Loggia


Come in un rinnovato, fatidico, 8 settembre, le sciagure d’Italia si annunciano in Sicilia. E anche questa volta quella che si delinea è innanzi tutto la crisi di un partito che però tende a divenire insieme la crisi di un regime. Infatti, come il Partito nazionale fascista era l’ultimo, sia pur corrotto e pervertito legame con lo Stato risorgimentale, allo stesso modo il Pd è forse (o bisogna dire era?) l’ultimo legame tra il sistema politico italiano attuale, la sua ideologia e la sua costituzione materiale, e la Repubblica nata tra il 1946 e il ’48. Ma dopo il voto siciliano quel legame appare estremamente indebolito, quasi vicino a spezzarsi. E al pari di tanti anni fa — nell’ attesa di un incombente 25 luglio nei palazzi romani, forse con un ordine del giorno Franceschini al posto di quello Grandi — al pari di tanti anni fa l’Italia ha davanti a sé il vuoto. Il «baratro», ha detto ieri Romano Prodi, forse troppo silenzioso fino ad oggi per potersi concedere un così improvviso pessimismo.
È innanzi tutto il vuoto di legittimazione che sta inghiottendo il sistema politico, anche se il fatto che ormai sì e no il 50 per cento del corpo elettorale si rechi alle urne sembra meritare al più qualche nota marginale da parte dei commentatori o compassate osservazioni di sapore politologico. In realtà è la secessione silenziosa del demos dal regime che dovrebbe consacrarne il potere ultimo: regime nel quale molti indizi fanno pensare che esso, però, stenti sempre più a riconoscersi.
Per molta parte l’astensione italiana vuol dire il sottrarsi del corpo elettorale a una scelta in cui esso non riesce a scorgere più nulla tra cui scegliere. Certo, dietro l’astensione ci sarà pure in molti casi il torpore, l’eco tuttora viva di un antico qualunquismo. Ma sempre più spesso sembra di percepire in essa un sentimento ben diverso: qualcosa che sempre più assomiglia a una rassegnata disperazione. O forse meglio una disperata rassegnazione. La rassegnazione al vuoto politico, alla mancanza di qualunque idea generale cui si cerca di supplire con le «parole forti», con la frase ad effetto, talora più semplicemente con l’ingiuria; la rassegnazione a un dibattito ridotto a scambio di battute nei 140 caratteri di un twitter, a una personalizzazione esasperata dove quella che di solito manca è proprio la personalità.
Ormai è questa patologia che in Italia ha acquistato l’apparenza della normalità. Ma solo perché essa viene quotidianamente accreditata dalla complice «comprensione» dei media e insieme trasfigurata dalla retorica dura a morire del discorso pubblico italiano, la retorica delle buone intenzioni «democratiche» nonché degli omaggi ai più alti principi e ai più bassi luoghi comuni. E poi perché si tratta di una patologia che a suo modo è lo specchio di analoghi fenomeni degenerativi presenti nelle istituzioni e nel corpo del Paese reale. Sembra esserci solo l’imbarazzo della scelta. Dal numero crescente di luoghi della Penisola divenuti terre di nessuno in mano alla delinquenza al degrado e alla violenza — oggi Foggia, Ostia e le mille periferie, per non dire delle solite Scampia o Casal di Principe, fino alla degenerazione incarnata per l’appunto da una classe politica come quella eletta domenica scorsa in Sicilia, descritta dal Corriere con questi termini: «Eredi, indagati, acchiappavoti». C’è davvero motivo di supporre, viene da chiedersi che in altre regioni le cose sarebbero o siano andate molto meglio?
Certo che in questo panorama normale ci sono delle eccezioni: ci mancherebbe altro! Ma esse non sembrano davvero riguardare la sfera politica. Chi sono, ad esempio, che qualità umana, culturale e politica oggi mediamente possiedono coloro che in Italia si dedicano alla politica potendo sperare di superare — questo è il punto decisivo — gli spietati meccanismi di cooptazione che determinano il successo e che sono stati appena ratificati da una sciagurata legge elettorale? Bisognerà pur farsela o no questa domanda una volta o l’altra? O dobbiamo invece essere condannati vita natural durante a chiederci che cosa farà domani Pisapia o quanto vale elettoralmente Alfano? Ed è ammesso farsela, la domanda di cui sopra, anche se si è convinti che immaginare di risolvere questi problemi con il richiamo stentoreo all’«onestà» o allo sdegno telematico dei «cittadini» sia solo una misera trovata demagogica?
Personalmente ne sono più che convinto, ma dovrà pur esserci una ragione se dalla Sicilia giunge la conferma del dato già emerso da tutti i sondaggi che il Movimento dei 5 Stelle è in termini di voti il primo partito: come da qui a quattro mesi potrebbe tra l’altro essere ratificato dalle elezioni nazionali. Bene: c’è qualcuno anche tra i loro più caldi (ma ragionevoli) sostenitori che pensa che sia «normale» per un Paese non dico avere l’onorevole Di Maio presidente del Consiglio e magari l’onorevole Di Battista ministro degli Esteri, ma semplicemente vedere entrambi condurre delle trattative per la formazione di un qualche governo? Che è capace di pensare a una tale eventualità senza, diciamo così, qualche sottile disagio? Ma ciò detto suscita forse minore disagio pensare che l’ alternativa potrebbe essere un bel ministero Renzi-Verdini-La Russa-Lupi? Non credo. Come si vede la micidiale tenaglia della «normalità» politica italiana non lascia scampo.
L’economia però va bene, si obietta in un supremo sforzo di ottimismo, il Pil aumenterà quest’anno di oltre l’uno e mezzo per cento. Il fatto è che l’economia non è tutto. L’economia può, ma anche non può, testimoniare del grado di tenuta civile di un Paese, della sua qualità complessiva. Forse quest’anno anche il Pil del Kazakistan o del Montenegro (sia detto con tutto il rispetto) faranno segnare una buona performance. Per la tenuta civile di un Paese serve la politica. Perché è solo nella politica, negli uomini e nelle donne che le prestano il proprio volto, che una società democratica trova la sua prima e più ovvia auto- rappresentazione. In tutto ciò che la politica è chiamata a fare, a decidere, a dirigere: che ai nostri giorni equivale direttamente o indirettamente a quasi tutto. Alla fine, insomma, la realtà e l’immagine dell’Italia sono la realtà e l’immagine della sua politica, c’è poco da fare . E sull’una come sull’altra bisogna ammettere che essere ottimisti non è tanto facile.

Il Fatto 11.11.17
Elezioni, perdere divisi o uniti? Il dilemma a sinistra
di Francesca Fornario


I risultati in Sicilia pongono il centrosinistra di fronte a un bivio: andare di nuovo divisi e perdere o perdere uniti? Alla prima ipotesi lavorano di concerto da un lato gli anti-renziani più accaniti come D’Alema e Bersani e dall’altro Matteo Renzi. D’Alema gioca d’astuzia. Essendo il più intelligente, sa di essere considerato invotabile dalla stragrande maggioranza degli elettori e per questo non si autoproclama leader della coalizione a sinistra del Pd ma auotoproclama leader della medesima chiunque rompa con Renzi e voglia allearsi col partito di Renzi.
Nell’ordine: Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano. Era il candidato perfetto per guidare il fronte anti-renziano di chi ha votato No al referendum poiché al referendum ha votato Sì, dimostrando così di apprezzare le riforme renziane ma non Renzi, esattamente come Bersani, Speranza e i tanti altri anti-renziani che hanno votato il Jobs act di Renzi e gli altri provvedimenti del governo Renzi. L’ipotesi è tramontata poiché tra il 99,2% degli elettori contrari alla candidatura di Pisapia risulta esserci lo stesso Pisapia. Mdp si è quindi orientata su Pietro Grasso, candidato ideale per guidare il polo alternativo al Pd poiché fino a ieri era del Pd. Un’idea di Nichi Vendola, tornato in campo perché “la politica – dice – è una malattia dalla quale non si guarisce”. Dunque, prova con l’omeopatia.
Quanto ai renziani, dopo il voto in Sicilia, hanno ammesso la sconfitta degli altri. Il Pd è spaccato sull’analisi: c’è chi dice che serviva un nome più noto e chi dice che invece andava benissimo “coso”, ma Renzi non si cura delle divisioni né dello scherno di Di Maio, che ha cancellato il confronto tv col segretario Pd perché non vuole rischiare di essere l’unico a perdere contro di lui. Né si preoccupa di Berlusconi, per il quale “Renzi non è un avversario credibile” (è più credibile come alleato). Punta a riconquistare gli elettori promettendo il Ponte sullo Stretto e il taglio dei vitalizi già promessi da Berlusconi e da Grillo fedele al motto “Se non puoi batterli, perdi”.

La Stampa 11.11.17
Grasso nei sondaggi vale fino al 10 per cento
E il Pd già lo attacca
Documento di Orlando per ricucire con Mdp
di Andrea Carugati


Tutti i big del Pd renziano, con l’apporto di Dario Franceschini, all’attacco di Pietro Grasso. Al Nazareno non hanno digerito le parole del presidente del Senato, da poco uscito dal partito e in pole position per guidare una lista di sinistra, che giovedì sera ha detto che «dopo la guida di Bersani il Pd non c’è più, ha smarrito i suoi valori». Renzi si chiama fuori dalla contesa, «le polemiche le ricevo non le faccio», ma lo stato maggiore dem s’incarica di rintuzzare le accuse: «Il suo giudizio sprezzante nei confronti del nostro partito è inaccettabile, parla come un esponente politico che è sceso in campo contro il Pd», tuona il capogruppo Ettore Rosato. Lorenzo Guerini: «Chiedo rispetto per il Pd, come ne ho per il piccolo partito di cui Grasso aspira a diventare leader». Il vicesegretario Maurizio Martina rivendica «con orgoglio il lavoro fatto dal Pd in questi anni nel solco dei nostri valori». Anche Franceschini giudica «assolutamente non condivisibili» le parole del presidente del Senato e si dice «dispiaciuto».
Tra i sondaggisti il nuovo soggetto di sinistra non è stato ancora ufficialmente testato. «Finora abbiamo raccolto la somma delle varie sigle, da Mdp a Sinistra italiana e sono intorno al 6,5%», spiega Fabrizio Masia di Emg. «A nostro avviso il potenziale è tra il 9 e il 10%, ma non è un risultato scontato. Molto dipenderà dal tipo di campagna che avremo e dall’appello del Pd al voto utile». Concorda il presidente di Ixè Roberto Weber: «Per noi si collocano tra il 6 e il 10%. Circa la metà dei voti arriveranno dalla ex sinistra radicale, altrettanti da elettori delusi dal Pd». Secondo Weber, «la figura di Grasso non ha un potenziale elettorale in sé. Per la sinistra è indispensabile la figura di un federatore che trasmetta simbolicamente l’idea di unità». Diverso il tema dei collegi delle regioni rosse. Secondo Masia e Weber la divisione tra Pd e sinistra potrebbe far perdere ai dem tra 20 e 30 collegi. «Quelli dove il vantaggio Pd è meno sensibile», dice Masia. Weber annota che, «come è avvenuto in Sicilia con i voti al candidato grillino Cancelleri superiori a quelli della lista, il voto in uscita dal Pd si sta orientando più verso il M5S che verso la sinistra. I grillini vengono percepiti dagli elettori dem delusi come un più solido argine contro Berlusconi. Un argomento destinato a pesare soprattutto in Emilia e Toscana».
Una preoccupazione, quella per i collegi a rischio, che continua ad animare la discussione dentro il Pd. Le minoranze di Andrea Orlando, Gianni Cuperlo e Cesare Damiano hanno preparato un ordine del giorno per i gruppi Pd (che si potrà anche trasformare in un documento per la direzione) in cui si ribadisce la richiesta di costruire una coalizione anche con Mdp. E per farlo si propone di «riaprire un confronto sulla disciplina dei licenziamenti disciplinari e collettivi», quando arriveranno in Aula (tra una decina di giorni) le proposte di legge delle sinistre sul ripristino dell’articolo 18. Altre due richieste riguardano il superamento del superticket e la revisione del meccanismo per l’età pensionabile. «Se si cominciasse a ragionare sulle scelte compiute sarebbe l’avvio di una fase nuova», commenta il bersaniano Alfredo D’Attorre. «Ma non credo che sarà questa la linea del gruppo dirigente Pd».

Repubblica 11.11.17
Da Bersani a Pisapia e Boldrini al via la nuova lista di sinistra
Domani alla convention di Campo Progressista presenti anche i dem Cuperlo e Damiano Speranza: “Una nuova ondata di adesioni per il nostro partito”. Stimati 40 mila iscritti
di Giovanna Casadio


ROMA. La sinistra ha ormai designato leader Pietro Grasso. Il presidente del Senato tenta di mettere al riparo il suo ruolo di arbitro e per ora fa sapere: «Ascolto». Tuttavia nella complicata road map che porterà alla lista della sinistra unita - alla fine di un cantiere che inizia nella prossima settimana con le 100 assemblee provinciali di Mdp, prosegue con la riunione nazionale del 19 novembre e si concluderà con i “caucus” dei primi giorni di dicembre - c’è Grasso. E il partito di Pietro Grasso conta molti sostenitori, non solo Mdp di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza, oltre a Sinistra italiana di Nicola Fratoianni e di Nichi Vendola, a Possibile di Pippo Civati e al movimento di Tomaso Montanari e Anna Falcone. C’è anche Giuliano Pisapia con Campo progressista che domani svelerà la scelta.
L’assemblea di Pisapia domenica a Roma si chiama “Diversa”. Sarà preparata da un incontro oggi di Campo progressista, con l’ipotesi di schierare come “front woman” Laura Boldrini. La presidente della Camera sarà tra gli ospiti che domani interverranno dal palco, tra cui Gianni Cuperlo e Cesare Damiano della sinistra dem, oltre al leader demoprogressista Speranza, a Bruno Tabacci e Franco Monaco. Convinto che il dialogo con il Pd di Renzi sia sempre più in salita e senza risultati, l’ex sindaco di Milano sembra pronto a imboccare la strada della lista alternativa a sinistra, condividendo la leadership di Grasso. Lo sforzo della sinistra del Pd - che con un ordine del giorno chiederà nella Direzione del partito di lunedì che risorga la coalizione del centrosinistra con Mdp e con Pisapia - non sembra cambiare la partita.
Incerti i Radicali. Ieri il segretario Riccardo Magi ha sentito al telefono Matteo Renzi. Lunedì dovrebbero incontrarsi anche con la leader radicale Emma Bonino che punta a una lista per gli Stati Uniti d’Europa. Comunque il “partito” di Grasso avanza, forte anche di sondaggi che danno il presidente del Senato secondo solo al premier Paolo Gentiloni in fatto di gradimento. Nel Pd si sono verificati smottamenti in giro per l’Italia. A Lucca, ad esempio. Con una lunga lettera d’addio che inizia «Siamo giunti alla fine » e chiude con la frase del “Piccolo Principe” «per ogni fine c’è un nuovo inizio» - Cecilia Carmassi, dirigente nazionale del Pd, cattolica, ex presidente nazionale della Fuci, amica personale di Rosy Bindi, ha lasciato il partito per ricongiungersi con i demoprogressisti. Decisione sofferta, presa con altri 14 dem lucchesi, da Pierluigi Cristofani alla portavoce delle donne Daniela Grossi, a Emanuela Bianchi e Claudio Simi. A Caselle, nel Torinese, altra lettera di 40 compagni che notificano la distanza con il Pd e sono in transito verso Mdp. Stesso copione a Mirafiori. Pochi giorni fa il vice sindaco di Policoro, in Basilicata, Gianluca Marrese annuncia: «Amici e compagni del Pd con queste poche righe sofferte vi saluto, con l’auspicio che questo saluto possa essere un arrivederci ». Lo segue la consigliera comunale Teresa Carretta. Entrambi ora in Mdp. Ma l’ “effetto Sicilia”- la disaffezione nei confronti del Pd mostrata alle regionali del 5 novembre - si farà sentire ancora di più nelle prossime settimane: è la convinzione dei demoprogressisti.
La contabilità degli ultimi profughi approdati nelle file di Mdp la tiene Speranza. «È una nuova ondata di esodi», calcola. Gli iscritti demoprogressisti, secondo la stima fornita, sarebbero circa 40 mila in soli nove mesi di scissione dal partito di Renzi, quasi raddoppiati rispetto a inizio estate.
Se gli smottamenti dal Pd diventeranno slavina, non è solo disincanto e dissenso per le politiche su scuola, lavoro e sui metodi (come la doppia fiducia sulla legge elettorale). C’è pure un ceto politico in fuga in cerca di poltrone: almeno questa è l’accusa dei renziani. Uno strapuntino in lista può essere la molla? Massimo Paolucci, dalemiano campano, europarlamentare, ritiene che questo è «il tempo in cui gli incerti si decidono». E cita i giovani ex dem di Catania e Arturo Bova, consigliere regionale calabrese passato con Mdp.

il manifesto 11.11.17
Alta partecipazione allo sciopero generale dei sindacati di base
Oggi la manifestazione nazionale Eurostop a Roma. La polizia carica i docenti dei Cobas davanti al ministero dell’Istruzione: due ricoverati
di M. Fr.


Alta adesione allo sciopero generale dei sindacati di base. Percentuali notevoli in tutti i comparti, sia del pubblico che del privato, altissime in alcuni storici settori, con punte superiori al 90 per cento nei trasporti.
Ma le manifestazioni – soprattutto a Roma – sono state tutt’altro che semplici. Gravissimo quanto accaduto in mattinata davanti al ministero dell’Istruzione a viale Trastevere, dove si erano radunati i militanti di Cobas e Unicobas per un corteo autorizzato verso Montecitorio. La polizia ha caricato e due manifestanti – di cui un insegnante – sono rimasti feriti e sono ancora ricoverati in osservazione.
SCENE SIMILI AL MINISTERO dell’Economia dove manifestava l’Usb. Nonostante fosse stato preventivamente concordato con la Questura un breve corteo fino al ministero dello Sviluppo Economico, le forze dell’ordine hanno impedito ai manifestanti di muoversi da via XX Settembre dove hanno potuto tenere unicamente po un’assemblea pubblica.
Cortei, presidi e assemblee Usb si sono tenute in tutta Italia, da Bologna a Firenze, da Palermo a Torino, da Milano a Pisa, da Napoli a Venezia e tante altre città. Slogan contro la legge di bilancio e la precarietà e richieste di stabilizzazioni e aumenti contrattuali.
L’USB TORNERÀ IN PIAZZA oggi pomeriggio a Roma per la grande manifestazione nazionale di Eurostop, partenza alle  14 da piazza Vittorio e corteo fino a piazza Madonna di Loreto.
Di «notevole successo» parla anche il portavoce nazionale dei Cobas Piero Bernocchi, secondo cui nelle principali città sono stati «bloccati i trasporti» e nella scuola ha aderito il 25 per cento dei lavoratori e lavoratrici. «Buoni risultati – prosegue – anche nella sanità, pubblico impiego, telecomunicazioni, lavoro privato».
BERNOCCHI DENUNCIA poi «l’ignobile aggressione poliziesca al ministero dell’Istruzione contro docenti e Ata: la prendiamo per quel che è, una dichiarazione di guerra nei confronti dei lavoratori della scuola che non resterà senza conseguenze». Gli scioperanti nella scuola hanno chiesto aumenti che recuperino almeno il 20 per cento di salario perso nell’ultimo decennio, l’immediata assunzione dei vincitori del concorso, degli abilitati e dei precari con tre anni di servizio su tutti i posti disponibili in organico, il potenziamento degli organici Ata, le immissioni in ruolo sui posti vacanti e il ripristino delle supplenze temporanee.
SEMPRE A ROMA LA RETE “La salute non si appalta” e le Clap (camere del lavorato autonomo e precario) hanno manifestato sotto il ministero della Salute chiedendo stabilizzazioni e di ricomporre le differenze contrattuali. Una delegazione ha ottenuto un incontro con i rappresentati del ministero.
Sono Roma e Venezia le città che hanno registrato più disagi per gli utenti del trasporto pubblico. Ma anche a Milano, dopo un inizio di giornata con i bus regolari, si sono registrate difficoltà per gli utilizzatori dei treni della società Trenord, azienda di trasporto ferroviario lombarda.
Nella Capitale si sono formate lunghe code di auto a causa sia dell’effetto annuncio sia della chiusura, subito dopo il termine della prima fascia di garanzia (le 8.30), di tutte le metropolitane e delle linee ferroviarie urbane. Ci sono state inoltre riduzioni di corse per gli autobus con lunghe attese alle fermate. Secondo l’Atac a Roma ha scioperato il 28,9 per cento dei lavoratori dell’azienda, quasi uno su tre. Nonostante l’apertura dei varchi del centro si è registrato un considerevole aumento del traffico.
DISAGI SIGNIFICATIVI sono stati registrati a Venezia soprattutto per l’inattesa alta adesione allo sciopero dei lavoratori dei vaporetti. Per ridurre i problemi, il prefetto di Venezia ha firmato un decreto di precettazione per i dipendenti della società di trasporto veneziana. Una misura contestata come «provocazione dell’ultimo minuto» dall’Usb.

Il Fatto 11.11.17
Bersani, Anpi e Si su Ostia: “Ok alla marcia della Raggi”
“Unità per la legalità” oggi ricompone il fronte di sinistra e i 5Stelle. Diserta invece il Pd
di l.d.c


Niente Pd, ma tante altre sfumature di rosso. Dai partigiani dell’Anpi a Sinistra italiana per arrivare a due adesioni pesanti, quelle di Pier Luigi Bersani e di Rosy Bindi. Fa (quasi) il pieno a sinistra la sindaca di Roma Virginia Raggi per il corteo contro la mafia “Uniti per la legalità”, in programma oggi pomeriggio a Ostia, a partire dalle 15.30. “Una grande passeggiata, una manifestazione senza simboli di partito” assicurava ieri la sindaca sul suo profilo Facebook, che partirà dal piazzale della Stazione del Lido, per terminare in piazza Gasparri. Ma il Pd, romano e no, ha già emesso la sua sentenza, bollandola come una “manifestazione strumentale”, convocata pensando al ballottaggio nel municipio che vede il M5S contrapposto al centrodestra.
E così oggi i dem non parteciperanno, mentre saranno al corteo del 16 novembre, indetto dalla Federazione nazionale della stampa e dall’associazione antimafia Libera (a cui ci sarà anche la sindaca). Però ieri il segretario romano, Andrea Casu, ha stemperato i toni: “Ben vengano tutte le iniziative promosse conto la mafia. Siamo felici che Raggi abbia scelto come sindaco di partecipare alla mobilitazione del 16 novembre, a cui noi abbiamo aderito auspicando anche una sua presenza”. Parole che lasciano intuire il timore di un autogol, con quel no secco. Anche perché ad appoggiare la manifestazione c’è tanta sinistra. Prima tra tutti l’Anpi, che sarà presente con Fabrizio De Sanctis, il presidente provinciale di Roma, ed Emilio Ricci, componente del comitato nazionale dell’associazione. Ed è un problema fortemente simbolico per il Pd che ha marcato visita. Mentre Raggi incassa l’appoggio dei partigiani anche grazie a un filo tessuto nelle ultime settimane.
Basta ricordare quanto accaduto il 28 ottobre scorso, anniversario della marcia su Roma, quando la sindaca ha accolto i rappresentanti dell’Anpi in Campidoglio. Per poi cantare Bella Ciao di fronte alle telecamere. Una mossa fatta ovviamente anche in chiave elettorale, perché a Ostia, test fondamentale per la sindaca, bisognerà pescare innanzitutto lì, a sinistra. Ma le adesioni proseguono con quelle di Bersani, annunciata dal leader e volto di Articolo 1 ieri su Facebook, e della presidente della commissione Antimafia, Bindi. “La lotta alle mafie non deve mai essere usata come strumento improprio di lotta politica ma deve invece diventare una responsabilità che unisce cittadini, forze politiche e istituzioni” scrive la deputata dem in un messaggio alla sindaca. Sullo sfondo, restano le adesioni dei presidenti delle due Camere, Pietro Grasso e Laura Boldrini. E in piazza? Ci sarà anche Sinistra italiana, con il deputato Stefano Fassina e il segretario romano Adriano Labbucci.
“Le discutibili modalità di indizione della manifestazione promossa dalla sindaca – scrive Labbucci – non possono essere un alibi per non essere in piazza”. Ma ci sarà anche a un altro evento, quello di Laboratorio X, l’associazione che sosteneva la candidatura in municipio dell’ex prete Franco De Donno, a cui hanno aderito anche i sindacati Cgil, Cisl e Uil.
Salvo sorprese, in corteo con Raggi non ci saranno invece esponenti di Articolo 1, nonostante l’adesione di Bersani. Anche perché il post di Beppe Grillo di ieri, durissimo con gli ex dem (“Mdp sta per mantenimento della poltrona”) ha fatto infuriare molti tra i bersaniani.
E allora si torna ai Cinque Stelle, che oggi pomeriggio “schiereranno” Alessandro Di Battista, il traino nella campagna verso il ballottaggio del 19 novembre: “La mafia senza il voto di scambio non avrebbe la forza che ha. Servono le leggi!” arringa il deputato romano su Facebook. Assieme a lui, tanti altri eletti del Movimento: dal deputato Massimo Enrico Baroni al capogruppo in Comune Paolo Ferrara, il motore del M5S a Ostia, fino diversi consiglieri regionali. Oltre ovviamente alla candidata presidente, Giuliana Di Pillo. Mentre non c’è certezza sulla presenza della candidata governatrice, Roberta Lombardi.

Il Fatto 11.11.17
“Fatti gravissimi, bisogna andare tutti insieme”
L’ex segretario dem - Il leader dei fuoriusciti avrebbe preferito un solo evento ma li sostiene entrambi


“Quanto è successo a Ostia è talmente grave che è bene sostenere tutti coloro che si mobilitano per reagire e condannare. Il mio sostegno alle manifestazioni previste per domani e giovedì prossimo”.
Alle cinque della sera, Pier Luigi Bersani, fondatore e volto di Articolo 1-Mdp, dice la sua su Facebook.
E sono due messaggi in uno: il primo, di appoggio alla manifestazione indetta per oggi a Ostia dalla sindaca 5Stelle di Roma, Virginia Raggi. Il secondo, invece, vale l’ennesima presa di distanza dal Pd, che ha bollato come “strumentale” l’evento di questo pomeriggio. Con il presidente dem Matteo Orfini che ieri sul Fatto era stato chiaro: “La manifestazione unitaria è quella del 16 novembre convocata dalla Federazione nazionale della stampa e da Libera: la sindaca avrebbe il dovere di aderirvi come Comune, rinunciando a quella indetta tramite il blog di Beppe Grillo, un portale di propaganda politica”. Ma Mdp e Bersani la pensano diversamente. L’avevano già fatto capire parlamentari come Alfredo D’Attorre, bersaniano di stretta osservanza.
Ma l’ex segretario del Pd lo precisa ancora meglio al Fatto, scandendo: “È inconcepibile che ci siano polemiche su chi va, e a quale manifestazione partecipa. Il sindaco, la Fnsi e Libera hanno pieno titolo di chiamare i cittadini in piazza, anche se forse sarebbe stato meglio andarci tutti assieme”. Tradotto, Bersani avrebbe preferito un unico appuntamento. Ma ora non è il caso di fare distinzioni, insiste: “La situazione è talmente grave che chiunque convochi un evento del genere, bisogna andare. E poi chi indice manifestazioni come questa fa il suo dovere, ed è un dovere aderire”. Insomma, serve il sostegno di tutti. E il Pd che si vuole tenere lontano dai Cinque Stelle, bollandoli come “uguali alla destra” (sempre Orfini) , rimane su un’altra lunghezza d’onda rispetto al fu segretario, da tempo fautore di un avvicinamento al M5S. Così, ecco l’adesione al corteo di questo pomeriggio, in linea con quanto deciso dalla Cgil di Susanna Camusso, in stretto collegamento con i fuoriusciti dal Pd, e con i partigiani dell’Anpi. Il fronte di Bersani, più che scettico sull’ipotesi di un’alleanza elettorale con il Pd di Renzi. Che in piazza ci andrà, ma non oggi.

Il Fatto 11.11.17
“Basta scontri con il M5S. Anch’io andrei al corteo”
Michele Emiliano - Il governatore pugliese: deve finire il battibecco tra il Pd e i grillini
di Luca De Carolis


“Il gesto di Roberto Spada è sconvolgente, anche perché ha adoperato una tecnica tipicamente carceraria, colpendo il giornalista al naso senza preavviso. E non c’è nulla di più umiliante, mi creda”. Il governatore della Puglia Michele Emiliano, ex pm, sa di cosa di parla.
Cosa rappresenta quell’aggressione?
Non ricordo un atto così violento contro un giornalista da molto tempo a questa parte. È evidente che Spada voleva dare un messaggio da mafioso di quartiere, umiliando un cronista. Un modo per acquisire prestigio.
Il suo gesto ha portato alla convocazione di due manifestazioni per la legalità. La prima, quella promossa dalla sindaca di Roma Virginia Raggi, avrà luogo oggi pomeriggio. Ma il Pd non ci andrà, perché la ritiene “strumentale”. Che ne pensa?
Penso che quella indetta dalla Fnsi per il 16 novembre sia più importante, perché l’ha convocata la categoria a cui appartiene il giornalista aggredito. Dopodiché la discussione non va fatta sull’adesione a questa o a quella manifestazione, o su chi l’ha indetta. Bisogna aderire e partecipare a entrambe. E se io fossi a Roma domani pomeriggio (oggi, ndr) andrei al corteo di Ostia.
I democratici sospettano che la 5Stelle Raggi sfrutti la situazione a fini elettorali, in vista del ballottaggio nel municipio di Ostia. E potrebbero aver ragione.
È possibile che la sindaca strumentalizzi a fini politici, è vero. Ma convocare una manifestazione del genere è nel suo pieno diritto, e le va riconosciuto.
Quindi…
Quindi, anche se c’è stata qualche “furbata”, è meglio aderire. Altrimenti si sposta la discussione dal vero tema, che è l’assoggettamento alla mafia di un municipio grande come la città di Taranto.
Il Pd è all’opposizione, e andrà comunque all’evento del 16 novembre. In fondo ha diritto di dire no, non crede?
Il battibecco romano tra il mio partito e il M5S deve finire. Di fronte a una gestione disastrosa della città, bisogna comunque collaborare. Il Pd deve guadagnarsi il suo ruolo di opposizione aiutando un sindaco in difficoltà.
La politica non ragiona in modo così “alto”…
La sconfitta a Roma va metabolizzata dal Pd. Ha vinto il meno peggio. Ora si deve ripartire.
Mdp e Sinistra italiana saranno in piazza con Raggi. E annunciano il sostegno al M5S nel ballottaggio, contro il centrodestra. Mentre il Pd ha lasciato libertà di voto.
Io, dovendo scegliere, ho sempre detto che avrei votato per il Movimento. L’ho fatto pubblicamente per un paio di Comuni in Puglia, dove il M5S era al secondo turno contro il centrodestra. E non ho cambiato idea. Sono convinto che la gran parte degli elettori del Pd a Ostia voteranno per i 5Stelle, perché abbiamo tanti valori in comune.
Secondo il presidente dem Matteo Orfini il M5S è di destra. E lo proverebbero il suo no allo ius soli e alle unioni civili e la sua posizione sull’immigrazione. Elementi concreti, no?
Io ho votato come il Movimento nel referendum costituzionale e in quello contro le trivelle, e ho la loro stessa posizione su Jobs Act e articolo 18. Nel M5S vengono in gran parte da sinistra.
Sarà. Però ieri il blog di Beppe Grillo ha respinto con violenza il “soccorso rosso” di Mdp…
Per forza, in Articolo 1 ci sono Bersani e D’Alema. E i grillini non li hanno mai accettati.

il manifesto 11.11.17
Ostia, l’antifascismo al ballottaggio
Dopo l'aggressione e l'arresto di Roberto Spada al giornalista Rai, sono due le manifestazioni sul litorale romano. Libera e Fnsi la prossima settimana mentre oggi pomeriggio c'è il corteo con sinistra e sindacati «adottato» da M5S. Il Pd non ci va e invita all’astensione nel secondo turno. Malgrado contro la candidata grillina ci sia la destra, con Casapound che ha goduto dell'appoggio degli Spada
Sit-in di giornalisti ieri a Ostia
di Domenico Cirillo


ROMA Si terrà oggi in tarda mattinata nel carcere di Regina Coeli l’interrogatorio di garanzia di Roberto Spada, arrestato per la testata di mercoledì scorso al giornalista di Raidue Daniele Piervincenzi. E partirà poche ore più tardi, alle 15.30 dalla stazione Lido di Ostia, la manifestazione contro la violenza fascista e mafiosa che quella aggressione ha provocato.
Roberto Spada è il fratello di Carmine, considerato il capo del clan mafioso sul litorale romano. La procura di Roma a sostegno della sua richiesta di arresto cautelare per violenza privata ha ipotizzato l’aggravante del metodo mafioso, allegando le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Secondo i quali Roberto Spada sarebbe a capo del «ramo del sodalizio» dedito al traffico di droga, un soggetto «che comanda e che può dare ordini».
Il corteo, promosso dal Laboratorio Civico X, è stato immediatamente «adottato» dalla sindaca di Roma Virgina Raggi e dal blog del Movimento 5 Stelle. O Ostia tra otto giorni c’è il secondo turno delle elezioni municipali e la candidata grillina Giuliana Di Pillo ha solo un piccolo margine di vantaggio sulla candidata di centrodestra Monica Picca.
LE MANIFESTAZIONI sono in realtà due, tre contando anche il sit-in di giornalisti di ieri davanti alla palestra di Spada, luogo dell’aggressione. Libera, l’associazione contro le mafie di Don Ciotti, e la Federazione della stampa hanno indetto un’altra manifestazione per il prossimo 16 novembre. E il Pd romano ha ritenuto di aderire solo a questa (alla quale parteciperà comunque anche la sindaca), giudicando il corteo di oggi una mossa elettorale dei 5 Stelle. Che per il Pd – parola del presidente Orfini e del senatore Esposito – sono equivalenti ai neofascisti di CasaPound, la lista che con il 9% è stata il fenomeno più inquietante delle elezioni di domenica scorsa. Accanto all’astensionismo di due elettori su tre.
I «fascisti del terzo millennio», che in campagna elettorale hanno ricevuto l’appoggio di Spada, potrebbero essere decisivi per la vittoria di Monica Picca. Anche se il leader locale di CasaPound Luca Marsella ha pubblicamente invitato i suoi elettori a disertare le urne.
La stessa linea del Pd, il partito che assieme ai 5 Stelle ha subito il colpo più pesante nel primo turno elettorale. Entrambe le formazioni hanno lasciato a casa circa il 50% dei voti rispetto alle comunali del 2012. Secondo l’analisi dei flussi dell’Istituto Cattaneo, gli elettori del partito di Renzi, nel caso tornassero alle urne, sarebbero addirittura più inclini a sostenere il centrodestra che la candidata grillina.
TRA MOLTE CAUTELE e precisazioni, invece, i rappresentanti di Sinistra italiana e Articolo 1-Mdp hanno espresso la preferenza per la candidata grillina. «Al ballottaggio di Ostia vanno due schieramenti che non ci rappresentano», è la premessa di una dichiarazione congiunta. Ma «non si può essere indifferenti al momento del voto, i valori dell’antifascismo, della solidarietà, della lotta alle mafie sono costitutivi della sinistra e vanno riaffermati sempre e comunque. Non si può essere reticenti sui rischi e le caratteristiche di questa destra che va al ballottaggio». Non c’è l’indicazione esplicita di votare per la candidata M5s ma il senso è chiaro.
Nel frattempo, anche le segreterie regionali dei sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, che in un primo momento avevano aderito solo alla manifestazione del 16 novembre, hanno deciso di scendere in piazza anche oggi. Le liste a sostengo della candidata di centrodestra, invece, se ne guarderanno bene: «Non abbiamo ricevuto nessun invito», ha detto Monica Picca.
LA MANIFESTAZIONE di oggi, secondo la sindaca Raggi «sarà una grande passeggiata, una manifestazione senza simboli di partito». Sfilerà per il lungomare di Ostia e terminerà in piazza Gasparri a nuova Ostia, a pochi metri dalla palestra di Roberto Spada.
Nella sede del municipio di Ostia, martedì prossimo si riunirà il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, per decisione del prefetto di Roma Paola Basilone che l’ha convocato. Con la sindaca e i vertici delle forze di polizia ci sarà anche un rappresentante della procura distrettuale antimafia. Per quella data si saprà se l’aggravante del «metodo mafioso» contestata dalla procura a Spada avrà retto al vaglio del giudice, e dunque la misura degli arresti cautelare confermata. «Nel territorio di Ostia – ha detto ieri il capo della polizia Franco Gabrielli, che è stato anche prefetto e commissario di governo a Roma – ci sono state inchieste e operazioni che hanno portato, anche nell’ambito di quella consorteria, a numerosi arresti. Altri ce ne saranno nel futuro»

Il Fatto 11.11.17
Ostia, 10 anni di Spada story: gambizzazioni, fuoco e droga
L’alleanza con la famiglia Fasciani. La lunga saga criminale dei clan, almeno 30 incendi intimidatori dal 2007 a oggi
di Valeria Pacelli


C’è un momento in cui la “famiglia emergente degli Spada” inizia a prendere forza nel municipio più popolato di Roma, Ostia. Ed è il momento in cui si alleano con i Fasciani, che poi dominano “grazie alla concomitante detenzione dei principali componenti” di quella famiglia. Ma contemporaneamente sul litorale succede anche altro: “L’indebolimento” dei “Baficchio”, che lascia libero terreno di infiltrazione. Nel decreto del fermo di Roberto Spada per l’aggressione al giornalista di Nemo, Daniele Piervincenzi, c’è la storia di un’intera famiglia.
Dell’alleanza con i Fasciani ne parla il collaboratore di giustizia Sebastiano Cassia, già nel 2012 quando dice che dopo l’estromissione dei Triassi, gli “interessi criminali di Ostia sono gestiti dagli Spada e dai Fasciani”. I due gruppi, spiega, “hanno stretto una sorta di alleanza per cui ciascuno commette usura ed estorsioni nei propri territori”. Partendo dalle parole dei collaboratori e con le sentenze dei giudici (in tre processi è stata riconosciuta l’aggravante mafiosa) ricostruiamo la storia degli Spada a Ostia.
“L’autorità a braccetto con il clan”
Il litorale di Roma dal 2007 è stato scenario di almeno 30 incendi tra stabilimenti balneari e salegiochi; gambizzazioni, omicidi e attentati. Come i due, a distanza di quattro giorni, ai danni di Carmine Spada, che di Roberto è il fratello. Carmine, in primo grado, è stato condannato a 10 anni di reclusione per estorsione ad un tabaccaio, con l’aggravante del metodo mafioso. Motivando la sentenza, i giudici spiegano che colui che si comporta da mafioso, “conduce l’azione a distanza, limita i propri interventi quando è strettamente strumentale perché la vittima valuti con chi abbia a che fare (…). La complessità probatoria, che, pur non ricorrendo nel caso all’esame, spesso afferisce a tale fattispecie, è costituita proprio dal fatto che colui che si comporta da mafioso, a esempio per estorcere denaro, agisce in sordina, facendo leva (…) sulla fama che deriva dall’appartenenza al gruppo criminale”.
A febbraio 2017, è stata riconosciuta l’aggravante mafiosa, in un altro processo, anche per Armando Spada, condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi. Condannato anche un ex direttore dell’ufficio tecnico del X Municipio Aldo Papalini, che – è scritto nel capo di imputazione – in concorso con altri, tra cui Armando Spada “socio di fatto” della Blu Dream s.r.l., “mediante minaccia consistita nel presentarsi a Luciano Tosti, gestore dello stabilimento Orsa Maggiore (…) in compagnia dello Spada e di altre persone riconducibili alla famiglia (…) e avvalendosi della loro forza intimidatrice (Armando Spada gli diceva: ‘Non sei corretto, adesso ti stai comportando male’) costringevano lo stesso a rilasciare lo stabilimento alla Blu Dream srl”. Secondo i giudici, “la presenza di Armando Spada e della sua famiglia appare diretta all’intimidazione del Tosti, (…) con caratteri che integrano l’ipotesi aggravata del metodo mafioso. (…) Si tratta di comportamenti che richiamano alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo (…). La minaccia assume una veste insidiosa e allarmante, in quanto l’interesse della famiglia Spada appare sostenuto dalla massima autorità amministrativa locale, che si presenta ‘a braccetto’ di Armando Spada”.
Intrecci familiari, morti e collaboratori
Massimiliano Spada, classe ’76, e Ottavio, dell’89, sono stati condannati (il primo a 13 anni e 8 mesi, il secondo a 5) poco più di un mese fa. Massimiliano era coinvolto nella gambizzazione di Massimo Cardoni. Con Ottavio, invece, gli viene contestata anche l’estorsione perché costringevano “Cardoni Michael e moglie a cedere la loro abitazione”, senza poi riuscirci.
Micheal Cardoni è conosciuto dagli investigatori. È il 30enne – definito “rampollo del decaduto clan dei Baficchio”, il cui depotenziamento avrebbe favorito gli Spada – che fa il nome di Roberto Spada. Dopo la gambizzazione del padre Massimo Cardoni, inizia a collaborare: l’11 maggio 2016 di Roberto Spada dice “è uno che comanda in seno alla famiglia; lui si occupa del traffico di sostanze stupefacenti”.
Il 27 aprile 2016 aveva anche raccontato: “Roberto Spada mi disse che si era impossessato dell’abitazione di tale Cirielli il quale non gli aveva pagato una partita di stupefacenti. (…) Visto che il Cirielli non riusciva a saldare il suo debito, veniva costretto a cedere la sua abitazione a Roberto. Contestualmente ha ceduto la sua abitazione al Cirielli, insieme a 2 mila euro. La casa di cui Roberto Spada si è impossessato è molto più grande di quella ceduta”. Da queste dichiarazioni, i pm delineano un identikit di Roberto Spada indicato come “un soggetto che comanda e che può dare ordini all’interno del sodalizio”; che “coordina il ramo del sodalizio dedito a traffico e cessione di stupefacenti” e che si “è reso responsabile di una estorsione aggravata dal metodo mafioso” ai danni di Cirielli.
Insomma, prima della ormai celebre testata, gli inquirenti avevano in mano altri elementi: la violenza di Roberto Spada contro il giornalista di Nemo sembra solo aver accelerato i tempi.

Il Fatto 11.11.17
Cacciari e “i cani” che Taverna non capisce
di Andrea Scanzi


Massimo Cacciari ha sempre quell’aria, giusta e meravigliosa, di chi trova oltremodo inaccettabile l’idea che le Picierno osino respirare la sua stessa aria. Appare in collegamento da luoghi imprecisati, a ribadire come lui sia mera essenza. Un’essenza definitiva e inappellabile, condannata ad avere quasi sempre ragione (il “quasi” è stato votare “sì” il 4 dicembre, pur sapendo che quella riforma fosse “una puttanata”). Giovedì Il Filosofo ha sciabordato a Otto e mezzo. Confrontandosi con la senatrice Taverna, ha ribadito tutti i dubbi –esternati anche dal Fatto – sui 5Stelle.
La Taverna si è difesa benino, ma Cacciari è come Foreman con Frazier: una sentenza inappellabile. “Se i 5Stelle continuano a non voler ragionare in termini politici, e cioè di effettive, concrete, pensate, misurate alleanze, in un Paese democratico non andranno mai al governo”. “Voi potete essere il primo partito da qui all’eternità e non andare al governo mai”. “Cercate di ascoltare il discorso di coloro che non vi sono nemici. Io non vi sto dicendo di fare alleanze con Renzi, Berlusconi o Salvini. Vi sto dicendo che la vostra proposta deve essere organizzata in modo tale da poter attrarre simpatie e alleanze possibili, e non attorno al vostro asse che non vacilla. Col casino che c’è nel Pd, è mai possibile che non siate riusciti ad attrarre nella vostra area neanche un cane?”. Parole inattaccabili: infatti le ha dette Cacciari. La Taverna ha risposto: “Ma qual è il cane da attrarre?”. E qui Cacciari ha snocciolato il rosario dei Cuperlo, Emiliano e Civati. 5Stelle e sinistra combattono spesso le stesse battaglie: non si tratta di sposarsi, ma di capire che essere il primo partito e non governare è come battere il Brasile 4-0 in amichevole. Vedi la vittoria di Pirro in Sicilia. Così facendo, a vincere sarà sempre il renzusconismo. E questo fa incazzare un sacco di gente. Non solo Cacciari.

il manifesto 11.11.17
La sinistra riparta da qui»
In Aula il 20 alla Camera. Laforgia, primo firmatario: «Insieme vogliamo riportare il lavoro al centro dell’agenda politica». Proposta Mpd-SI. I grillini: demagogia Airaudo: non si distinguano, votino sì alla reintegra
di Massimo Franchi


A tre anni di distanza dalla sua abrogazione, in parlamento si torna a parlare di «articolo 18». Cancellato da Renzi col suo Jobs act – che arrivò dove perfino Berlusconi decidette di fermarsi – «la reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa» potrebbe tornare legge grazie alla prima proposta portata avanti unitariamente a sinistra da chi punta a costruire la lista unitaria. La proposta di Mdp e Sinistra Italiana è in discussione in commissione Lavoro alla Camera – entro martedì dovranno essere presentati gli emendamenti – e il 20 novembre arriverà in aula con la concreta possibilità di dare un vero schiaffo di fine legislatura al renzismo. Sulle speranze di approvazione però ieri è arrivata una (parziale) doccia fredda dal M5s – sempre contrario all’abolizione – che in una arzigogolata posizione pubblicata sul blog di Beppe Grillo ha accusato di «demagogia» la proposta della sinistra, proponendo comunque di tornare al testo dello Statuto dei lavoratori.
SFRUTTANDO LA POSSIBILITÀ data dai regolamenti parlamentari alle opposizioni di calendarizzare un provvedimento al trimestre, Mdp e Sinistra Italiana hanno unito le forze per «andare a stanare il Pd».
Il primo firmatario del provvedimento è Francesco Laforgia, capogruppo di Mdp alla Camera. «Se il M5S vuole darci una mano a restituire dignità alle lavoratrici e ai lavoratori voti la nostra proposta altrimenti dimostra di essere solo una delle declinazioni della destra. Forse Grillo sente mancare la terra sotto i piedi perché oggi c’è chi come noi vuole rimettere seriamente il lavoro al centro dell’agenda politica». Cauto ottimismo sulla possibilità che anche dal Pd arrivino voti favorevoli. «Se non ci saranno trappole in commissione e in aula sono sicuro che molti parlamentari del Pd non potranno non essere d’accordo», spiega facendo riferimento al documento della minoranza orlandiana reso pubblico ieri.
NON MENO IMPORTANTE dell’aspetto politico è quello di merito. L’abolizione dell’articolo 18 – già alquanto depotenziato dalla riforma Fornero del 2013 – ha prodotto un vero boom di licenziamenti ingiustificati: sono passati da 32mila a 50mila all’anno e l’aumento si è concetrato quasi esclusivamente nelle aziende sopra i 15 dipendenti, quelle in cui vigeva la reintegra voluta nello Statuto dei lavoratori del 1970. «Ci muoviamo nel solco tracciato dalla Carta dei diritti universali della Cgil – spiega Giorgio Airaudo, il primo a presentare la proposta di legge il 31 luglio – a cui abbiamo aggiunto due elementi che riteniamo importanti. Il primo è la retroattività della norma che eviterà che ci siano differenziazioni fra lavoratori; il secondo riguarda la reintroduzione del «gratuito patrocinio», lo strumento creato per riequilibrare lo squilibrio fra datore e dipendente nelle cause giudiziare che consentiva ai lavoratori di potersi pagare le spese legali. Oggi chi, come il senatore Ichino, sbandiera i dati sul crollo dei contenziosi fa un’operazione intellettualmetne scorretta perché sa benissimo che i lavoratori non fanno più causa perché costa troppo: a Torino se perdi una causa di lavoro devi pagare anche 5mila euro, 10mila con l’appello».
PROPRIO SUL MERITO della proposta è arrivata però una bocciatura da parte del M5s, seppur favorevoli al ritorno dell’articolo 18. In un posto pubblicato sul sito di Beppe Grillo si parla di «una sorta di grande copia-incolla della disposizione presentata dalla Cgil qualche mese fa. In pratica si propone di introdurre la sanzione della reintegrazione anche per le aziende con meno di 15 dipendenti. Sembra bellissimo e invece no – scrive il deputato M5s della commissione Lavoro Davide Tripiedi – . Per quelli che si dicono della sinistra, però il problema e’ il numero dei dipendenti in azienda. Ebbene la verità è che la questione non è questa ma la reintroduzione delle norme previgenti al 2012 e al 2015. Si deve ritornare al vecchio articolo 18 perché é questo che proponiamo da sempre e che proporremo con un nostro emendamento in sede di esame», conclude Tripiedi.
«Invece di distinguersi – risponde Giorgio Airaudo – il M5s stia dalla nostra parte: la priorità è il ripristino della reintegra, sul come siamo disposti a discutere. Sull’accusa di demagogia però noto che più si avvicinano le elezioni e la possibilità che il M5s vada al governo e più li sento acccusare gli altri di demagogia: non vorrei sia una tattica per non cambiare niente».

Repubblica 11.11.17
L’ex ministra radicale: “Inaccettabile il patto con la Libia Il governo dice di aver fermato gli sbarchi ma ne muoiono di più”
Bonino: “Nessun accordo col Pd se non cambia linea sui migranti”
Violenze e stupri
Si continuano a ignorare le fosse comuni nel deserto e le torture nei lager
di Alessandra Ziniti


ROMA. «Il silenzio del governo su questa vergognosa tragedia umana è forse la cosa più dignitosa, un’ammissione di un problema reale». All’indomani della ricostruzione di Repubblica del retroscena del “soccorso conteso” tra Ong e Guardia costiera libica di un gommone naufragato che ha fatto più di 50 vittime, Emma Bonino va dritto per la strada che a marzo al Lingotto la salutò con una standing ovation. Anche a costo di mettere in discussione il progetto di una lista radicale alleata con il Pd alle prossime Politiche.
«Di fronte a queste catastrofi non me ne frega proprio niente. Sono mesi che mi sgolo criticando questo accordo inaccettabile con la Libia che ha solo creato un tappo che, per altro, come era ampiamente prevedibile, si è dimostrato non essere neanche a tenuta stagna».
Questo vuol dire che una sua interlocuzione con il Pd passerebbe da una richiesta di revisione delle politiche sull’immigrazione?
«Questo è sicuro, ma vorrei dire subito che è tutto in alto mare. Non ci sono i tempi, non ci sono i contenuti della legge, bisogna ridisegnare le circoscrizioni. E poi io non è che abbia grandi rapporti con il Pd. Il segretario parla di liste con il mio nome ma forse avremo un primo incontro lunedì».
E cosa dirà a Renzi?
«Gli dirò quello che ho detto al Lingotto. Non ho certo cambiato posizione, anzi l’ho aggravata. Questi, per usare le odiose parole di alcuni, sono neri ma vorrei segnalare che sono persone. Mi pare evidente che il Pd deve rivedere le sue posizioni in materia di immigrazione. Da mesi dico queste cose ma non ho avuto nessuna risposta. Dal governo vorremmo una rimessa in discussione dell’accordo con la Libia. Non è mai tardi per ripensarci, per riflettere sul fatto che fare un patto con Al Sarraj significa farlo con le milizie, e oltretutto mi pare che i fatti dimostrino che Al Sarraj non controlla neanche le Guardie costiere».
Il governo, però, sembra far prevalere l’aspetto positivo dell’accordo che ha portato ad una diminuzione dei flussi del 30 per cento.
«Questo è inaccettabile. C’è una tragedia umana che si sta consumando sotto i nostri occhi con un comportamento, a dir poco ambiguo, dei libici che noi abbiamo formato e fornito di motovedette sin dai tempi del governo Berlusconi. Credo che ci sia ben poco da essere contenti e sbandierare quel meno 30 per cento negli sbarchi come un successo, quel continuare a dire in giro per l’Europa “siamo bravi” salutato, per altro, con grandi applausi anche da buona parte della stampa, fatte poche attente eccezioni».
L’obiettivo dell’accordo con la Libia era quello: fermare le partenze affidando ai libici un ruolo centrale nel sistema dei soccorsi. Sbagliato?
«Purtroppo i fatti hanno denudato la grande bugia: ne sbarcano di meno perché ne muoiono di più e perché ne rimangono di più nel grande buco nero dei centri di detenzione. Quest’ultimo straziante naufragio, insieme a quello che hanno fatto 26 giovanissime vittime tutte ragazze, contrappone al grande mantra “abbiamo fermato gli sbarchi” quella che è certamente solo la punta dell’iceberg di ciò che non riusciamo a vedere nel mare, nel deserto con le sue tante fosse comuni e nei lager dei centri di detenzione in cui migliaia di persone riescono a stento a sopravvivere tra indicibili violenze, stupri, torture. E qui lasciatemi dire che trovo inaccettabile anche le trionfalistiche dichiarazioni sul fatto che Unhcr tornerà a entrare nei centri di detenzione. Sappiamo tutti bene che, oltre a quelli ufficiali, ce ne sono decine di altri, i più tremendi, in cui è impossibile accedere».
Oggi sono in tanti a dire che forse le Ong sono state allontanate dal Mediterraneo per non avere testimoni scomodi del lavoro “sporco” dei libici.
«È evidente che l’obiettivo era “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Ho fatto l’osservatore in tutto il mondo: quando si toglie l’accesso alle Ong è sempre per nascondere qualcosa. È successo in Kosovo, è successo in Asia. I libici dicono di aver salvato negli ultimi mesi migliaia di persone ma poi di cosa succede veramente a questa gente non importa a nessuno. Chi scappa dalla Libia sa bene cosa lo attende se viene riportato indietro, per questo si buttano dalle motovedette».
Cosa c’è da aspettarsi adesso? Ricomincerà il braccio di ferro con le Ong da una parte e i libici dall’altra?
«Più che questo scontro, più che delle responsabilità e delle modalità di intervento dei libici, credo che questa tragedia debba riaprire la grande questione della gestione del Mediterraneo ».

Il Fatto 11.11.17
“Ryad e lo spauracchio dell’egemonia sciita”
L’esperto dell’Ispi: “L’Arabia sta cercando di limitare la strategia iraniana”
E i martiri di Hezbollah
di Andrea Valdambrini


La tensione mai sopita tra sciiti e sunniti – le due grandi componenti religiose del mondo musulmano – arriva anche a Beirut dopo essere passata attraverso le due guerre in Siria e Yemen, dove Iran da un lato e Arabia Saudita dall’altro si sono a lungo misurate a distanza negli ultimi anni. In Libano la crisi è esplosa con le dimissioni del premier Saad Hariri dopo soli undici mesi di governo.
Dall’Arabia saudita, dove secondo alcuni è tenuto prigioniero, Hariri ha denunciato la sempre maggior influenza di Hezbollah (il Partito di Dio) e del suo protettore, l’Iran, sugli affari interni del Libano, mentre proprio il leader di Hezbollah, Nasrallah, ha risposto accusando Ryad di pilotare le scelte del premier.
“Approfittando di un contesto storicamente delicato come quello libanese, oggi è l’Arabia che sta cercando forzare la mano per modificare a suo vantaggio gli equilibri di potere a Beirut. Guardandosi intorno, i sauditi sono consapevoli che prima o poi il conflitto siriano finirà e il presidente Bashar al-Assad ne uscirà in qualche modo vincitore. Questo significa che anche Hezbollah, alleato di Assad e sostenuto da Teheran, ne trarrà vantaggio: un rafforzamento dell’asse sciita che Ryad vuole contrastare, trovando il consenso di Israele, con cui da diversi anni ormai è allineato”.
Stefano M. Torelli è ricercatore dell’Istituto di Politica Internazionale (Ispi) di Milano. Esperto di Medio Oriente, Torelli ha da poco pubblicato con l’arabista Massimo Campanini Lo scisma della Mezzaluna. Sunniti e Sciiti, la lotta per il potere (Mondadori).
Con l’Isis sconfitto dai siriani alleati di Teheran, il mondo sunnita pur maggioritario vede un corridoio nemico passare per Damasco e arrivare fino in Libano.
“Si tratta di una percezione diffusa tra i sunniti, ma non reale. Se guardiamo la storia, il maggior tentativo espansionista degli sciiti ci fu dopo la rivoluzione di Khomeini nel 1979 e fu fermato dall’alleanza internazionale che armò Saddam Hussein contro Teheran”, osserva Torelli, pur concedendo che dopo la caduta di Saddam, l’Iran ha provato a esercitare influenza sul vicino Iraq a maggioranza sciita.
“Piuttosto, è l’Arabia Saudita che ha manipolato l’opinione pubblica del mondo arabo, agitando lo spauracchio dell’egemonia sciita”. Il caso della guerra in Yemen, tutto interno alla penisola arabica, è un esempio da manuale: i sauditi, intervenuti in un intricato conflitto interno, hanno subito puntato il dito contro i ribelli Houti, sciiti e sostenuti dall’Iran. Un modo per rafforzare la teoria dell’accerchiamento. Se l’Arabia fa la voce grossa contro Teheran, anche appoggiata dalla scelta netta in suo favore di Donald Trump, quali sono le priorità saudite in Medio Oriente? “Mettendole in fila – risponde l’esperto dell’Ispi – Ryad vuole limitare l’influenza iraniana e in secondo luogo provare a rimodellare alcune aree in base ai i proprio interessi”: dal Libano, appunto, fino all’Iraq. “Perfino la storica lotta ai Fratelli musulmani o il recente scontro con il Qatar sono tutti elementi accessori e funzionali a questo disegno generale”, conclude Torelli.

Corriere 11.11.17
America First o Sogno Cinese? È Xi il primattore
di Guido Santevecchi


È l’America First contro il Sogno Cinese. Donald Trump e Xi Jinping ieri sono saliti uno dopo l’altro sulla tribuna del vertice Apec come due candidati avversari, nella sfida per ridisegnare la governance mondiale. Il presidente americano ha detto chiaro, ripetendo uno slogan della sua campagna per la Casa Bianca: «Non tollereremo più cronici abusi commerciali». Una linea che fa parte di un nuovo gioco del domino geopolitico: il vertice Apec si svolge a Da Nang in Vietnam, cinquant’anni fa grande base militare americana: «Combattevamo una guerra sanguinosa qui, ora ci sono spiagge radiose e bellissime», ha cominciato Trump conciliante, perché la sponda vietnamita gli serve anche per contenere Pechino nel Mar Cinese meridionale. Ha citato uno per uno i Paesi che gli interessano nell’associazione, elogiandoli per i successi delle loro economie; ha parlato dell’India più popolosa democrazia del mondo, perché anche New Delhi fa parte del suo progetto di confronto con la Cina. Poi ha lanciato la nuova idea: «Sogno Indo-Pacifico». Applausi non scroscianti in platea. E allora Trump si è lanciato nella sua requisitoria: «Non permetteremo più che l’America sia sfruttata, d’ora in poi sarà sempre America First, come mi aspetto che ognuno di voi in questa sala metta il proprio Paese al primo posto». Ancora: «Questo è il messaggio che vi porto, faremo accordi commerciali bilaterali, non entreremo più in patti larghi che ci legano le mani e vengono violati danneggiandoci». In sala ci sono i delegati degli 11 Paesi che avevano negoziato con Barack Obama il Tpp, Trans Pacific Partnership, dal quale Trump si è ritirato subito dopo l’elezione. Il nuovo ordine mondiale dei commerci per Trump è bilaterale. Nel suo Sogno Indo-Pacifico chi gioca seguendo le regole può essere partner degli Usa, chi è sleale resterà fuori campo. Ha tirato uno schiaffo al Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, accusandola di non aver trattato per troppi anni l’America equamente. «Basta barriere ingiuste, vogliamo mercati guidati dalle scelte dei privati, non dai dirigisti statali», ha quasi gridato.
Dopo i toni pacatissimi ispiratigli dall’accoglienza imperiale nella Citta Proibita di Pechino, questo è un Donald Trump alla riscossa contro il progetto di ascesa globale di Xi Jinping e già usare la parola «sogno» per l’area indo-pacifica sembra una risposta al «Sogno Cinese» del leader comunista.
È salito sulla tribuna Xi Jinping. Per parlare di un «nuovo viaggio» verso una «comunità del futuro condiviso», citando più volte globalizzazione, inclusione, multilateralismo, facendo propaganda per le nuove Vie della Seta commerciali «idea cinese offerta al mondo» che sarà lastricata di centinaia di miliardi di investimenti in infrastrutture per l’Asia. Ha chiesto una diversa governance mondiale per evitare che la ripresa sia solo ciclica. Dalla platea sono saliti applausi a ripetizione. Il leader che si propone come punto di riferimento della ri-globalizzazione ha rivendicato i successi dell’economia diretta dal Partito, il Pil cresciuto negli ultimi cinque anni al 7,2% in media, la Cina che ha contribuito alla crescita globale per il 30%. Proprio come poco prima Trump aveva detto che nel suo primo anno alla Casa Bianca la disoccupazione è scesa al minimo e la Borsa è al massimo. Una sfida tra candidati, entrambi ispirati da una buona dose di populismo.

Il Sole 11.11.17
Pechino. Il ministero delle Finanze cinese annuncia anche la rimozione di ogni limite entro tre anni
La Cina apre i mercati finanziari
Gli stranieri potranno arrivare al 51% nel capitale delle joint venture
di Rita Fatiguso


PECHINO Sorridendo, il vice ministro delle Finanze Zhu Guangyao snocciolava percentuali e tempistica di una decisione che, per un attimo, ai cronisti presenti è sembrata irreale: la Cina, da ieri, ha effettivamente (e finalmente) aperto le porte dei suoi mercati finanziari.
Le società straniere potranno arrivare al 51% nel capitale di banche, società di venture capital e di gestione finanziaria, nelle assicurazioni e il tetto sparirà del tutto per le banche nei prossimi tre anni, per le assicurazioni nei prossimi cinque. È quanto chiedono da sempre le imprese straniere attive in Cina, accesso al mercato e parità di trattamento, anche nei servizi finanziari finora rimasti saldamente in mano alle società locali.
I cinesi hanno comunicato questa decisione epocale un attimo dopo la partenza del presidente americano Donald Trump per l’Apec, in Vietnam. Della decisione non c’è traccia alcuna nel comunicato stampa finale della Casa Bianca. C’è da chiedersi la ragione di tutto ciò. Come mai?
«Abbiamo deciso così – ha detto Zhu – perché la promessa dell’apertura dei mercati finanziari è scritta a chiare lettere nel Report del Presidente Xi Jinping al 19esimo Congresso del Partito».
In altri termini, nonostante le richieste assillanti rinnovate ripetutamente da Governi e istituzioni, americane ed europee, Pechino ha deciso di farlo «per conto suo» e nel momento che ha considerato «giusto».
La Cina in realtà deve riattivare assolutamente gli investimenti esteri che languono, la discesa degli Fdi (Foreign direct investment) sembra senza fine, non è possibile concentrare gli sforzi solo nella stretta agli investimenti cinesi all’estero e nella lotta ai flussi di capitale che hanno comportato oneri enormi in termini di riduzione delle riserve in valuta.
Che poi la mossa annunciata ieri faccia bene anche allo squilibrio commerciale Usa-Cina aumentando la quota relativa ai servizi è un fatto importante. Ma la Cina – questo il senso - deve pensare soprattutto a cosa fa bene alla Cina.
Quindi, pur sottolineando l’ammontare dei 250 miliardi di accordi siglati durante la visita del presidente Usa, Zhu ha sottolineato che la mossa sui mercati finanziari è un fatto strutturale; se le società straniere potranno possedere oltre il 51% di società cinesi, ovviamente anche la Cina se ne avvantaggerà in termini di maggior competitività dei suoi mercati finanziari.
L’apertura del mercato dei corporate bond e dell’azionario non bastano, da sole, ad assicurare un’adeguata apertura ai capitali esteri, com’è noto JP Morgan ha abbandonato il business cinese del venture capital proprio a causa delle restrizioni locali e le banche straniere hanno sempre accusato la Cina di marginalizzarle in una piazza molto promettente proprio con lo strumento delle quote nel capitale sociale. Di fatto, questo, è il risultato più importante del passaggio di Trump in Cina. Un passo fondamentale per consentire agli investimenti di prosperare all’interno di un’economia strettamente controllata dal potere centrale.
Se tutto andrà per il verso giusto e se i vari poteri cinesi permetteranno l’attuazione della riforma, le società straniere potranno, in effetti, godere di un accesso mai visto, dal momento che le autorità rimuoveranno del tutto i limiti alla partecipazione del capitale. Per la Cina non sarà semplice cambiare registro così facilmente e i costi da pagare saranno alti, ma la politica ha deciso. «Non c’è una ragione sola per non fare tutto ciò», ha concluso, infatti, Zhu Guangyao.

il manifesto 11.11.17
L’azzardo di una possibilità
Ottobre russo. «Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare», a cura di Slavoj Žižek, per Ponte alle Grazie. Nonostante i fallimenti, scriveva il leader rivoluzionario, bisogna saper «ricominciare daccapo»
di Giso Amendola


Ha senso leggere Lenin oggi, in un contesto in cui l’orizzonte neoliberale, pure se in mezzo a fortissime tensioni, appare, almeno in superficie, in grado di occupare stabilmente il nostro presente?
Tutto questo centenario del 1917, quando almeno non ci si dedichi semplicemente a fare un po’ di storia antiquaria, sottintende evidentemente la domanda sul senso che può avere oggi, sempre che ne abbia, pensare la Rivoluzione.
Slavoj Žižek ha curato, con sua introduzione e postfazione, un’antologia di scritti leniniani, Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare (Ponte alle Grazie, pp. 295, euro 18), che intende combattere ogni rimozione del problema della Rivoluzione. E lo fa, come il sottotitolo dichiara chiaramente, usando le armi a lui più congeniali: un mix tra un ammirevole virtuosismo del paradosso intellettuale, un uso originale della tradizione filosofica dialettica, e, soprattutto, un costante riferimento alla psicoanalisi lacaniana, o meglio, per liberare Lacan da responsabilità in faccende che in fondo non lo riguardano troppo, a un certo «lacanismo politico», orami consolidatosi negli anni.
RICORDARE LENIN significa qui, in coerenza con la generale intonazione psicoanalitica del discorso, evitare la rimozione che costringerebbe a subire passivamente il rimosso: i comunisti che rimuovono il passato sono costretti a ripeterlo anche nei suoi aspetti più orribili. Non bisogna rimuovere: ma, al tempo stesso, per Žižek, ogni possibile attualità di Lenin va iscritta nel segno dello scacco e della sconfitta. Ripetere Lenin oggi, quindi, significa accettare che «Lenin è morto», che le sue soluzioni sono fallite, e che il modo di questo fallimento è stato persino atroce. Quello che invece va riportato in superficie, dai luoghi profondi dell’inconscio della storia, è invece proprio lo scarto tra quello che Lenin ha fatto e ciò che non è riuscito a fare: questo registro della disperazione è quello che dovremmo, per Žižek, importare e riapprendere oggi dall’esperienza leniniana.
Cos’era la rivoluzione, per Lenin, se non lo sporgersi verso una possibilità non assicurata, anzi assolutamente azzardata rispetto alle condizioni? Žižek traduce in lacanese questa idea di una rivoluzione sospesa sul vuoto: «in Lenin, come in Lacan, la rivoluzione ne s’autorise que d’elle-meme». La rivoluzione è l’atto che si sottrae a ogni garanzia del grande Altro, in altre parole che si sottrae alle legittimità precostituite o al mito di una lineare necessità storica. E qui non si potrebbe che concordare, e anche il confronto con Lacan potrebbe risultare molto utile: la rivoluzione rompe con l’assicurazione del già dato e costruisce una nuova legittimità, deviando, attraverso la forza di nuovi processi di soggettivazione inediti, il corso prevedibile della storia.
MA, IN ŽIŽEK, la sottrazione al grande Altro non assume i tratti di un confronto duro, ma in qualche modo riarticolabile, produttivo di trasformazione, con il Reale, ma si traduce immediatamente in una esposizione sul vuoto, nell’affrontare «la paura dell’abisso dell’atto». E la soggettività è chiamata, più che a trasformarsi continuamente nel divenire storico e nelle relazioni che istituisce, a mantenersi fedele a un Evento «unico», inteso come irruzione di una Verità altrettanto assoluta.
Žižek si sofferma significativamente su uno scritto leniniano del 1922, A proposito dell’ascensione sulle alte montagne. Qui Lenin si concentra sul «negativo», su quanto non è stato fatto, sullo scarto dalle intenzioni iniziali: occorre saper «ricominciare daccapo», perché l’obiettivo di costruire una società socialista non è neanche sfiorato. Ma tornare daccapo non significa qui indietreggiare a un mitologico inizio. Lenin vuole mettere in guardia le forze proletarie dal credere che l’obiettivo possa mai essere l’edificazione compiuta di uno stato «socialista», e ricorda che la transizione resta invece sempre un processo aperto, in cui si mantiene un dualismo immediatamente non richiudibile tra comando del capitale e istituzioni dell’autorganizzazione operaia.
NELLA LETTURA che ci propone Žižek, invece, l’insegnamento leninista consisterebbe nel saper fino in fondo fare i conti con il proprio «fallimento» fino a giungere a «ripetere l’inizio». E ripetere l’inizio oggi, significa, spiega Žižek, non solo separarsi da tutte le illusioni socialdemocratiche sulla tenuta dello stato sociale, esercizio che sarebbe effettivamente ragionevole e urgente, ma anche rinunciare all’idea di «una regolamentazione diretta e trasparente ’dal basso’ del processo sociale della produzione, quale corrispettivo economico del sogno di ‘democrazia diretta’ dei consigli operai».
Qui emerge il vero obiettivo della invenzione di questo strano Lenin disperato decisionista puro: liquidare quel nesso, complesso e mai assicurato, che in Lenin lega sempre autorganizzazione della produzione e azione politica. Davanti alla crisi, secondo questa lettura, dovremmo liberarci proprio da qualsiasi idea di far politica «dal basso»: rompere l’orizzonte neoliberale è possibile solo ritornando a celebrare una verticalità, un comando, un Padre o un Padrone.
GIOCANDO ANCORA con Lacan, si tratterebbe, per Žižek, di spezzare il discorso del Capitale, ritornando appunto al discorso del Padrone: ci occorrerebbe ritrovare un’Autorità che, dall’esterno, sul modello del Terrore (Saint-Just, non a caso, è un eroe del libro), venga a rompere la forza con cui il neoliberalismo, celebrando la nostra autonomia, ci trasforma in servi volontari. Il problema che questa logica del Padrone riprodurrebbe poi a un altro livello la stessa mancanza di autonomia e la stessa gerarchizzazione da cui sarebbe chiamata a liberarci, è completamente dimenticato, o, meglio, ce ne dovremmo forse fare una ragione nel segno di una permanenza del tragico, di una mai compiuta realizzazione dell’Idea nella storia.
Secondo questa logica, traducendola su un piano più direttamente organizzativo, dovremmo così rispondere alle difficoltà che i movimenti sociali reticolari e senza leadership hanno incontrato nel combattere con efficacia il comando finanziario, riconsegnandoli a un luogo della decisione politica fondato su uno scarto verticale, su una separazione netta dalle dinamiche di base: una soluzione in salsa leaderistica e nazionalpopulista che alcune sinistre nel mondo hanno abbondantemente sperimentato, senza per questo sortire grossi risultati espansivi.
OGGI AVREMMO, in realtà, bisogno di fare tutto il contrario di quanto predicano tutte queste nuove idolatrie del Politico puro: ripensare Lenin può servire a una nuova radicale rielaborazione per stringere, e non per abbandonare, il nesso tra politica e produzione, per superare la separatezza della rappresentanza e dell’azione politica e riconquistarle pienamente alle reti della cooperazione sociale e cognitiva.
Si comprende bene che la durezza della crisi dia spazio all’antichissima illusione di rimettere le cose a posto, sottoponendo le forze produttive a un comando del Padrone: ma quelli che pensano di poter affrontare il neoliberalismo facendolo indietreggiare a colpi di decisionismo e trascendenze, i tardogiacobini nutriti sempre e solo di un triste scetticismo verso ogni momento di autorganizzazione democratica, farebbero meglio ad alzare questi inni alla Decisione pura e alle virtù eroiche del Terrore nel proprio nome, lasciando perdere Lenin.

il manifesto 11.11.17
La vita quotidiana ai tempi dei bolscevichi
«Russia 1917. Un anno rivoluzionario» di Guido Carpi, pubblicato da Carocci. L'autore sarà oggi al Pisa Book festival per impersonare la difesa nella messa in scena di un «processo» a Lenin
di Michele Nani


«Il problema principale era costituito dalle cantine del Palazzo d’Inverno Come scendeva la sera si scatenava un baccanale selvaggio. Ci berremo i resti dei Romanov, questo slogan giocondo aveva conquistato la folla Provammo ad allagare le cantine d’acqua, e gli stessi pompieri si ubriacarono appena messisi all’opera»: così recita un passo delle memorie del comandante militare bolscevico Antonov-Ovseenko. Chissà se Walter Benjamin, che nei dettagli minori e rimossi sapeva leggere i contesti più ampi, avrebbe scelto questa immagine per dar conto del rovesciamento in atto dopo l’ottobre del 1917 in Russia. Eventi apparentemente insignificanti possono essere rivelatori di trasformazioni profonde: ricchissimo di questi scorci è il recente libro di Guido Carpi, Russia 1917. Un anno rivoluzionario (Carocci, pp.199, euro 17) che, anche per la piacevole scrittura, rappresenta una delle migliori letture per accompagnare il centenario.
L’ASSUNTO che ispira la ricostruzione di Carpi, esplicitato senza clamori fra i suggerimenti bibliografici, è una liberazione dai luoghi comuni: se dopo l’apertura degli archivi russi le opere uscite prima del 1991 sono divenute «obsolete», i volumi successivi disponibili in italiano sono in larga parte riconducibili al genere «demonizzante», che riduce il comunismo a «fenomeno patologico». Che sia uno storico della letteratura a dover ricordare la «centralità della storia sociale per comprendere la rivoluzione» è emblematico di una congiuntura storiografica.
Dopo una breve ma efficace introduzione nella quale viene tratteggiata la situazione della Russia zarista nel primo Novecento, il volume si distribuisce in tre densi capitoli, accomunati dalla medesima scelta di metodo. Carpi costruisce la narrazione degli eventi del 1917 attraverso un accorto montaggio delle molte voci dei testimoni diretti, fra memorie, carteggi e cronache quotidiane della stampa russa, riuscendo a mostrare «la rivoluzione come la vedeva chi vi era coinvolto», che fosse favorevole, contrario o semplicemente prendesse atto passivamente del processo in corso. Un piccolo spazio specifico è riservato di tanto in tanto alle vicende quotidiane di Lenin, che sarebbe passato nel giro di pochi mesi dall’esilio alla direzione del processo rivoluzionario.
Il capitolo dedicato al «prima» della rivoluzione prende le mosse dall’ultimo anno di pace, seguendo l’ingresso in guerra, le sconfitte sul fronte tedesco e le occupazioni territoriali, la crisi delle retrovie, l’intensificazione della propaganda e del protagonismo dello Zar, ma anche il moltiplicarsi di voci antizariste. Lenin ripara da Cracovia in Svizzera, in condizioni malcerte.
GRAN PARTE DEL LIBRO è tuttavia dedicata al «durante». A febbraio divampa la rivoluzione a Pietrogrado (così rinominata in spregio al tedesco burg), e rinascono i soviet, i «consigli» dei lavoratori e dei soldati già protagonisti della fallita rivoluzione del 1905. Finisce la dinastia dei Romanov e la Russia è ora una fragile democrazia, guidata dal governo provvisorio del partito borghese dei «cadetti», ma in preda a una generale ripresa di parola e rivendicazione, che tocca tutte le figure sociali, dalle minoranze etniche ai sordomuti, dai ladri ai piccoli orfani. Lenin si ricongiunge ai suoi compagni bolscevichi (l’ala «sinistra» della socialdemocrazia) grazie a un treno sigillato che attraversa la Germania, perfido dono del Reich per mettere in difficoltà i nemici russi.
IL PROLETARIATO di Pietrogrado accoglie trionfalmente un dirigente che inneggia al potere sovietico e al rifiuto della guerra imperialistica. Mentre governo e soviet divergono sempre più, s’impone la centralità della questione contadina: ad esempio a Odessa migliaia di delegati rurali negano il diritto di «possedere la terra», che dev’essere invece goduta da «chiunque la lavori». Le contraddizioni si approfondiscono, nell’esercito, nelle fabbriche e nelle campagne: falliscono un’insurrezione rivoluzionaria e un colpo di Stato reazionario. Mentre Lenin dà alle stampe dalla clandestinità Stato e rivoluzione, i bolscevichi sono sempre più organizzati ed egemoni e insediano Lev Trockij a capo del soviet di Pietrogrado, ma il governo insiste per proseguire la guerra e frenare le conquiste sociali.
«RUSSIA 1917» si chiude sull’Ottobre e il suo immediato «dopo». Il «capolavoro» militare dell’insurrezione di Pietrogrado culmina nel leggendario assalto al Palazzo d’Inverno, sede del governo. I bolscevichi al potere deliberano subito la pace fra i popoli e la terra ai contadini, guadagnandosi l’appoggio di ampi settori popolari. Nei mesi successivi sciolgono l’Assemblea costituente e sterminano la famiglia reale, ma devono accettare una pace punitiva con gli Imperi centrali, mentre si accendono i primi focolai della guerra civile che avrebbe dilaniato i territori dell’ex-Impero russo negli anni a venire.
Le difficoltà della costruzione del socialismo sono ora palesi anche allo stesso Lenin, ma Carpi sceglie di terminare il suo avvincente racconto con un apologo del regista teatrale Evgenij Vachtangov: «le mani dell’operaio mi hanno svelato ogni cosa in ciò è il senso della rivoluzione non si limiterà a riparare, ma anche edificherà. Sarà per sé adesso che edificherà»

Il Fatto 11.11.17
“Il comunismo delle intenzioni vivrà quello sulla Terra non è mai riuscito”
Paolo Mieli - Al Teatro Vittoria di Roma con “Era d’ottobre”. Cento anni dalla Rivoluzione russa
di Alessia Grossi


“C’è un comunismo delle intenzioni, che tutti coloro che istintivamente reagiscono a soprusi, ingiustizie, sopraffazioni, ruberie di pochi su tanti, hanno nel cuore e un comunismo in Terra. Il primo esisterà sempre, anche se non avrà più quel nome. Il secondo non si è mai realizzato, almeno non senza accompagnarsi alle più feroci dittature, stermini e uccisioni”.
È il bilancio, a cent’anni dalla Rivoluzione russa che Paolo Mieli, già direttore del Corriere della Sera, mette in scena in Era d’ottobre oggi e domani al Teatro Vittoria di Roma, dopo il debutto al Festival dei due Mondi di Spoleto. Un gioco per immagini, un viaggio nel quadro I funerali di Togliatti di Renato Guttuso. “Un dipinto che si colloca a metà strada nel cammino del comunismo: più o meno a cinquant’anni dalla rivoluzione del 1917 e da oggi”, spiega Mieli. Ed è proprio “il viaggio nel quadro a darci il senso anche della consapevolezza che del comunismo si aveva in quel momento storico”, chiarisce il giornalista. “Guttuso, infatti, non era un artista come un altro, essendo membro del Comitato centrale del Partito comunista italiano. E proprio attraverso lo stratagemma del ‘chi c’era e chi non c’era’ nel suo dipinto capiamo tante cose”.
L’opera, che venne esposta a Mosca nel 1972, al suo interno rappresenta anche “membri del partito comunista, dirigenti oscuri come Dimitrov, segretario dell’Internazionale comunista negli Anni 40, ad esempio. Accanto a Lenin, Stalin, Dolores Ibarruri, Ho chi Minh”, elenca Mieli. “Ma non ci sono Trotzky, Krusciov, Mao, Fidel Castro, Che Guevara, Solgenitsin e Dubcek, anche se ognuno di loro al momento della creazione dell’opera era già presente nella Storia”. Un escamotage teatrale quello di Paolo Mieli, bilanciato su assenze e presenze da cui sul palco fa nascere la riflessione dello spettacolo e che “è nata – chiarisce – da un’idea di Pepe Laterza che mi invitò a una conferenza ‘Le lezioni di Storia’ a Milano a Santa Maria delle Grazie”. La lezione teatrale è sulla storia del comunismo. “Quello che si è provato a mettere in atto in Terra”, spiega Mieli, “e che ha fallito” divaricandosi dal comunismo delle intenzioni, che ognuno di noi può avere nel cuore e che può rivendicare senza pagare dazio proprio perché il primo non ha mai avuto una sua Norimberga: un processo cioè che condanni tutti gli atti terribili di cui si è macchiato”.
Una disamina, quella del giornalista e conduttore de La grande Storia, che ripercorre un secolo di comunismo – a differenza dello spettacolo dell’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, che a teatro porta le cronache dalla rivoluzione uscite sul quotidiano – “un opera straordinaria”, secondo Mieli, “diversa dalla mia perché si focalizza su quello che per me è un punto di partenza, cioè il momento in cui è nato, ed è stato concepito per essere applicato ai paesi sviluppati dell’Europa occidentale” ciò che oggi “è rimasto invece in Asia e nei paesi meno sviluppati”. E se dovesse essere dipinto nel 2017 chi ci sarebbe e chi no nel quadro di Guttuso? “Sicuramente molti asiatici”, risponde Mieli. E se dovessimo rincontrarci tra cento anni, ne è sicuro “esisterà ancora il comunismo, anche se con un altro nome. Non esisterà più nei paesi asiatici, che saranno andati oltre, ma – azzarda un pronostico – saranno passati ad altri regimi, come in Russia”. Mieli ne è convinto infatti: “Si terranno il dispotismo pur mollando gli emblemi, i simboli del comunismo”.
Il bilancio secolare dunque non è positivo per il comunismo storico. E, a proposito di simboli, nello spettacolo non c’è soltanto analisi, critica e Storia con la maiuscola, ma anche un finale consolatorio. Slegato dal bilancio di un centenario perché “viaggiava già da 30 o 40 anni prima della Rivoluzione, veniva da lontano e arriva ancora oggi a chi crede nell’emancipazione degli oppressi”.

Corriere 11.11.17
Quel miracolo dopo la disfatta di Caporetto
di Aldo Cazzullo


Non è vero che siamo stati salvati dai francesi e dagli inglesi. Furono i reduci del Carso i primi a resistere sul Piave. E furono i ragazzi del ’99, gettati nella mischia appena scesi dai treni, a tamponare la falla che si era aperta qui, al Molino della Sega, dove gli austriaci avevano passato il fiume e vennero fermati con un assalto risorgimentale all’arma bianca. La prima vittoria dopo Caporetto. La battaglia d’arresto che salvò l’Italia. Oggi però sul Piave non sventola il tricolore, ma il leone di San Marco.
L e bandiere della Serenissima sono ovunque: sui balconi delle case, fuori dai bar, sui capannoni svuotati dalla crisi, nei vigneti di prosecco. Il leone è un simbolo secolare dell’identità italiana ed europea, ma qui simboleggia l’autonomia del Veneto rivendicata dal referendum, talora l’aspirazione all’indipendenza. Quando i ragazzi del ’99 la attraversarono per andare al fronte era tra le regioni più povere d’Italia, oggi è la più ricca; e i separatisti sono sempre i ricchi, i poveri restano attaccati alla mammella dello Stato, che i loro antenati difesero un secolo fa. Veneti e calabresi, lombardi e sardi non si capivano, parlavano dialetti troppo diversi, ma erano uniti dalla miseria e dalla dignità contadine. Ora molte cose sono cambiate, anche il clima: sul Piave un vivaio ha messo a dimore ulivi e palme.
Miracolo sul fiume
Cent’anni fa, in questi stessi giorni, gli abitanti della zona videro arrivare 250 mila profughi friulani: stanchi, avviliti, terrorizzati. La loro terra era in fiamme. Gli italiani in ritirata avevano bruciato tutto, per non lasciare nulla agli invasori. Gli austriaci completarono la devastazione. Il prezzo della guerra fu pagato, come sempre, dalle donne. Anche da Fagaré, Breda, Nervesa ci si prepara a fuggire. Ma poi si vedono arrivare le avanguardie dell’«invitta» Terza Armata. Hanno ripiegato per oltre cento chilometri, incalzate dal nemico, senza disperdersi, e ora sono pronte a combattere.
Dal 9 novembre c’è un nuovo capo di Stato maggiore. Gli alleati hanno avuto la testa di Cadorna, di cui non si fidano più. Il successore è un napoletano: Armando Diaz. L’ordine è tenere il Piave, dal Grappa al mare, ma si teme di dover arretrare ancora. Il governo è nel panico: l’Italia si è liberata dal dominio austriaco solo da due generazioni, e ora il nemico secolare è alle porte di Venezia, vede la pianura padana, pregusta Milano e la resa di un vassallo umiliato. Gli austriaci passano il Piave nella notte tra l’11 e il 12 novembre. Piove da giorni, il fiume è in piena, ma riescono a gettare un ponte di barche, prendono Zenson. La prima brigata a entrare in linea è la Pinerolo, che si scontra corpo a corpo con le avanguardie nemiche, le ferma con i lanciafiamme e le baionette, mentre la 47° batteria di artiglieria da montagna batte la riva, massacrando amici e nemici.
Piangere e cantare
Il 16 novembre alle 5 del mattino è ancora buio, ma Fagaré è illuminata a giorno dalle granate, che sollevano nubi di ghiaia. Il 92° reggimento boemo sbuca dalla nebbia e investe il reggimento Novara, la difesa vacilla, scendono in campo i bersaglieri del 18°. Il capitano Francesco Rolando è ferito da una mitragliatrice, si fa medicare, torna alla testa dei suoi uomini, è colpito ancora, avrà la medaglia d’oro. È allora che il maggiore Guido Caporali, comandante dei due battaglioni delle reclute, riceve l’ordine di portarsi in prima linea.
Alcuni soldati non hanno ancora compiuto diciotto anni. Sono arrivati in treno il giorno prima, terrorizzati dall’eco sorda del cannone e dall’odore di morte. Eppure non sbandano. Annoterà Diaz o il suo ufficio stampa, con una punta di retorica: «Li ho visti i Ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora». Nelle osterie della zona raccontano che fino a vent’anni fa i reduci venivano qui a ritrovarsi. Alla fine del pranzo univano i tavoli, disponevano le panche a quadrato, si prendevano sottobraccio e intonavano i canti di guerra: Tapum, il testamento del capitano, e ovviamente la canzone del Piave. Cantavano e piangevano. Ai nipoti incuriositi dal rito rispondevano che parlare della guerra era inutile. Chi sa, non ama ricordare. Chi non sa, non può capire. «Facciamo le sole cose che potevamo fare in trincea: cantare e piangere».
Ci sono ancora le trincee, a Fagaré, allagate dalla pioggia di questi giorni. Il Piave più che mormorare impreca, scorrendo impetuoso. Un cartello segnala il divieto di balneazione: qualche residente si è lamentato perché d’estate vengono i romeni a nuotare. Fagaré è frazione di San Biagio di Callalta, il paese di Giorgio Panto: re degli infissi da giardino, sponsor di Colpo grosso, fondatore di un partito venetista che nel 2006 sottrasse a Berlusconi 92 mila fatali voti, morto in elicottero sulla laguna di Venezia su un’isola di sua proprietà. Nel sacrario ci sono 5.191 soldati conosciuti e 5.350 ignoti. Charbonnier è sepolto accanto a Cicilli, Crapiz vicino a Coppola. Non c’è il tricolore, neanche qui. Il 4 novembre sono arrivati 81 visitatori, ma già il 6 non è venuto nessuno. È custodito il frammento di muro su cui la propaganda scrisse: «Tutti eroi! Il Piave o tutti accoppati!». Il Comune vicino, Breda, organizza il 17 novembre una ricostruzione della battaglia, titolo «Voliamo la pace!» , come da iscrizione ritrovata in trincea. Ma i fanti avevano ben chiaro che prima di fare la pace bisognava resistere.
Tre alpini ignoti sul Grappa
Sul Grappa cominciò a nevicare tra l’11 e il 12 novembre. Gli austriaci attaccano la notte successiva. Ci sono anche i tedeschi. È la battaglia cruciale. Il Grappa è un castello alto 1.650 metri a picco sulla pianura veneta: se cade, non ci sono ostacoli sino a Bologna o a Torino. I nostri cedono il Monte Santo, il Roncone, il Cismon. Gli alpini di Feltre salgono sul Tomatico riforniti di castagne e rosari dalle mogli: difendono le loro case; invano, la cima è presa, il paese invaso. Eppure il comandante nemico Von Bulow annota che il soldato italiano pare irriconoscibile: ora applica in modo spontaneo la difesa elastica; indietreggia per contrattaccare. Il Comando Supremo è spettatore: sul Grappa non arriva una sola direttiva. I sottufficiali si prendono l’autonomia prima negata. Il maggiore Scarampi senza attendere ordini sposta l’artiglieria e bersaglia i nemici arroccati al Colle dell’Orso; quando i superiori gli chiedono conto delle munizioni sparate risponde: «Pago io». Sull’Isonzo l’avrebbero fucilato; qui i suoi soldati lo acclamano. Tiene la IV Armata e tengono anche i reparti della II — le brigate Gaeta, Re, Massa Carrara, Messina, Trapani — «vilmente arresisi» a Caporetto secondo il primo bollettino ufficiale. Pure il mitico Rommel si scorna: sbaglia strada e finisce in una valle cieca (e qui pare di vedere Sordi e Gassman: «Tié!»). A metà dicembre la grande battaglia d’arresto è vinta.
Anche quest’anno sul Grappa è già nevicato. Altre bandiere con il Leone a Bassano, a Romano d’Ezzelino, lungo la strada Cadorna. Su un solo balcone sventolano due vessilli: quello veneto e quello bianconero della Juve. Un papà orgoglioso ha esposto un lenzuolo con la scritta: «Enrica vincitrice coppa italiana di Show Dance!». Dall’alto luccicano tre nastri: il Piave, il Brenta e il cantiere della Pedemontana, che langue per mancanza di soldi; la Regione sostiene che deve metterli il governo, il governo la Regione. Una scolaresca di Lodi combatte un’aspra battaglia a palle di neve. Un cartello chiede di aprire la caccia ai lupi che sbranano gli armenti e spaventano i muli. Al rifugio Val Tosella si cucina con più amore che in qualche ristorante stellato. Nell’ossario austriaco riposano fianco a fianco il tedesco Krauser e lo slavo Kratic, l’ungherese Kubatnyz e il polacco Koudelka. Le guide indicano ai bambini la lapide che ricorda un soldato di nome Peter Pan; ma i piccoli sono più colpiti dal telefono con la rotella del rifugio Bassano (qui il cellulare non prende). Altri tedeschi arrivarono nel 1944: animati dal ricordo della Resistenza dei padri, i partigiani avevano tentato di asserragliarsi quassù; furono fucilati o impiccati agli alberi di Bassano.
Ogni tanto il Grappa restituisce un frammento della Grande Guerra: una baionetta, una giberna, un osso. Quest’anno sono stati ritrovati quattro corpi e un servizio di porcellane: era la mensa degli ufficiali austriaci, presi di sorpresa dagli arditi. Ci sono recuperanti specializzati col metal-detector, qualcuno per lucro, molti per il gusto della memoria. Altre lapidi sono state messe dalle famiglie: «Qui riposano tre alpini. Due dovrebbero essere i nostri nonni Angelo Vassalli e Romeo Gianuzzi. Se sono loro, questa scritta li ricorda. Se non sono loro, rende comunque omaggio agli alpini italiani».
La vera «Razza Piave»
Per il centenario di Caporetto sono usciti libri a decine, alcuni molto belli. Sul Piave e sul Grappa neanche uno. La sconfitta ci ispira. Ci raccontiamo di aver perso anche le poche guerre che abbiamo vinto. Oppure ci rifugiamo nella retorica, come il mito della «Razza Piave» rilanciato dall’ex sindaco di Treviso Gentilini. Ma sul Piave morirono veneti e lucani, napoletani e genovesi. La brigata Aosta sul Grappa era composta da siciliani: i valdostani erano quasi tutti morti.
«Fu un meraviglioso fenomeno in una situazione straordinariamente incerta» riconobbe il generale Giardino, uno dei vice di Diaz (l’altro era Badoglio). «Il vero mistero di Caporetto è il riscatto che seguì appena venti giorni dopo» scrive Mario Silvestri. Nessuno dei motivi indicati dalla storia ufficiale spiega alcunché. Non il miglioramento del vitto, mai tanto scarso come in quei giorni. Non i turni di riposo, che non furono concessi. Non il nuovo governo: i fanti non sapevano neppure che quello vecchio era caduto. Non le truppe alleate, che entrano in linea ai primi di dicembre, dopo aver visto che gli italiani tengono. Non l’assicurazione gratuita, che è del gennaio 1918. Non il nuovo servizio propaganda, istituito il primo febbraio. Non i sussidi alle famiglie (4 maggio 1918). Non il morale della nazione, che era a terra; furono i soldati a risollevare i civili.
Non si combatteva più in terra straniera, per conquistare montagne dal nome slavo, il Matajur e il Kuk, per avanzare in campagne dove non si sentiva una parola in italiano, per prendere città italianissime — Trento e Trieste — in cui però nessuno era mai stato. Si combatteva la guerra di casa, per difendere una patria giovane, per impedire che anche alle altre donne venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave e del Grappa. Una guerra che ai nostri nonni, fanti contadini abituati a badare alla terra e alla famiglia, risultava quasi naturale. Se non giusta, inevitabile. Fu la vera nascita della nazione. E se fosse vivo ancora uno, uno solo, dei ragazzi del ’99, il suo racconto sarebbe utilissimo ai nostri figli e nipoti, cresciuti nel lamento — «ci stanno rubando il futuro!» — e nella rassegnazione, ormai quasi convinti che essere italiani sia una sfortuna; mentre essere italiani è una grande e a volte terribile responsabilità.

Corriere 11.11.17
«La cattedrale sommersa» di Silvia Ronchey (Rizzoli)
Il sacro fa perdere le sue tracce e riappare nello sguardo che ti guarda
di Giorgio Montefoschi


Qual è il libro che ti porteresti in un’isola deserta? A questa domanda, frequente nelle interviste, pare che Silvia Ronchey abbia risposto: «I 161 volumi di Jacques Paul Migne nei quali è raccolta tutta la patristica greca». Risposta provocatoria, se vogliamo, tuttavia assolutamente comprensibile per una bizantinista che sa come in quelle pagine scritte nella solitudine abbacinante dei deserti o nelle celle nascoste dei conventi, in Licia e in Siria, a Cesarea e Alessandria, non è testimoniata soltanto la gigantesca lotta condotta dai Padri della Chiesa, nei primi secoli dopo la morte del Salvatore, per interpretare e difendere il messaggio cristiano, ma sono riflessi il pensiero e la cultura greca, il mondo bizantino, il pensiero e le religioni del vicino Oriente. Del resto lei stessa — curiosa di tutto, ansiosa di confrontare le tradizioni con le tradizioni, la storia con la storia, il pensiero con il pensiero, e naturalmente il passato con il presente — è una studiosa irrequieta che non ama fermarsi nel suo orto.
Questo, da bizantinista quale è, le permette di spaziare nelle pagine del Cantico dei cantici come in quelle dei mistici islamici, di incrociare Gesù e Buddha, Dioniso e Agostino, Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena, Bisanzio e l’Occidente, le eresie e i vangeli gnostici, l’iconoclastia e Florenskij, le icone e Andy Warhol, senza dimenticare Elémire Zolla e Montale. E il suo nuovo libro, La cattedrale sommersa (Rizzoli) — che giustamente, avendo l’immagine proustiana della cattedrale nel titolo, ha per sottotitolo Alla ricerca del sacro perduto — ne è la manifestazione immediata e affascinante.
Trasportato dalla medesima irrequietezza e dalla medesima curiosità di chi lo ha scritto, il lettore attraversa «la bellezza quasi intollerabile del Sinai» fino al convento di Santa Caterina, scoprendo come questa bellezza nasca dalla sacralità dei luoghi e, dunque, come il creato sia una «soglia di comunicazione tra umano e divino»; penetra nei sotterranei del culto di Mithra, «il dio emerso dalla profonda Persia mazdèa, che a sua volta lo importava dall’India vedica» per scoprire, insieme alle coincidenze delle date col calendario cristiano, che la forza del mitraismo consisteva non solo nella sopravvivenza dell’anima, ma nella resurrezione della carne; dalle mura di Costantinopoli, la città sacra alla dea Artemide che recava sulla fronte il segno della falce, contempla la falce di luna che il 24 maggio 1453, 5 notti prima che la città fosse conquistata dai turchi, apparve nell’aria «senza nubi, limpida e pura come il cristallo», e la confronta con la falce di luna che Giovanni, nel dodicesimo capitolo della Apocalissi pone sotto i piedi della Madonna; partecipa al rapimento dionisiaco, a quell’infrangersi improvviso delle leggi e delle abitudini che regolano la nostra vita, in cui si mescolano, nel furore, conscio e inconscio, dualità e cosmo; a Siena, nella cosiddetta Cappella della Testa della basilica di San Domenico, osserva la testa mummificata di Santa Caterina e capisce come siano vere le parole di Michel de Certeau, quando descrive il mistico come la persona che vuole «offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità».
Il tema del «confine», della soglia sottile, invalicabile, non rappresentabile — eppure rappresentabile — fra l’umano e il divino, è il filo conduttore presente in quasi tutti i capitoli de La cattedrale sommersa . Più che altrove, Silvia Ronchey lo approfondisce nel breve saggio contenuto nel volume e intitolato A mia immagine , nel quale parla del volto, e nel capitolo dedicato alle icone. Ogni rappresentazione del volto che voglia essere figurativa — dice in sintesi, e con una bellissima intuizione, la Ronchey — è falsa: perché «l’immagine vera non è quella che si guarda ma quella da cui si è guardati, il cui sguardo ci attrae verso un’altra dimensione, ci avvicina all’enigma dell’essere», insomma ci trasporta oltre. Come fanno le icone, che ci guardano, e guardandoci in quella fissità irreale, lentamente ci fanno comprendere come la linea del confine è all’interno di noi, nella nostra psiche, dove il visibile si alterna all’invisibile, la chiarezza all’enigma. E come — vorremmo aggiungere — accade nei Vangeli. Nei quali Gesù parla per enigmi. E dove non esiste neppure una riga, neppure una parola spesa per descrivere il suo volto.

La Stampa 11.11.17
In Italia visite lampo dal medico di base: 9 minuti per paziente
L’Università di Cambridge stila la classifica mondiale. In Svezia più del doppio, nel Bangladesh solo 48 secondi
di Daniele Banfi


«Chi è l’ultimo?». Dopo questa famigerata frase inizia l’attesa. È quanto accade in un qualsiasi studio di medicina di base. Aspettando il proprio turno - tra una persona e l’altra il flusso è rallentato da chi dice «devo solo ritirare una ricetta» - il pensiero va subito al tempo che il medico dedicherà alla visita. Nel nostro Paese, ultimi studi alla mano datati 2015, mediamente 9 minuti. C’è chi però sta peggio e chi molto meglio.
A tracciare una classifica di quanto durano i colloqui con il medico di base ci ha pensato Greg Irving della University of Cambridge in uno studio pubblicato sul British Medical Journal. I risultati non sono per nulla omogenei: meno di 5 minuti per metà della popolazione mondiale con un minimo di 48 secondi in Bangladesh e oltre 22 minuti in Svezia.
La classifica
Lo studio dei ricercatori inglesi aveva un preciso intento, ovvero studiare l’impatto potenziale su pazienti e sistema sanitario della lunghezza delle visite dal medico. Per fare ciò gli autori dello studio hanno utilizzato i dati provenienti da 178 studi relativi a 67 Paesi per un totale di quasi 29 milioni di visite. Oltre al caso limite della nazione asiatica si va da un minimo di 5 minuti per l’Austria a salire: Germania 7,6 minuti, Gran Bretagna (9,22), Danimarca (10), Olanda (10,2), Spagna (10,4), Malta (14), Lussemburgo (15), Francia (16), Svizzera (17), Finlandia (17,9), Bulgaria (20) e Svezia (22,5). Nello studio non è stata analizzata l’Italia ma secondo un’indagine della Società Italiana di Medicina Interna il tempo medio di una visita non supera i 9 minuti. Un tempo dunque del tutto simile a quanto accade Oltremanica.
L’empatia con il paziente
La statistica italiana aggiunge però qualcosa che lo studio inglese non fa trasparire: in quei nove minuti totali già dopo 20 secondi il racconto del paziente viene interrotto dalle domande del dottore che, per due terzi del colloquio, tiene gli occhi incollati al computer. Una modalità che fa crollare così l’empatia tra medico e assistito. Eppure nell’economia globale del nostro sistema sanitario un maggiore ascolto porterebbe benefici a non finire. Diverse indagini dimostrano che il rapporto medico-paziente può considerarsi già una forma di terapia: un buon rapporto non solo riduce di quattro volte il rischio di ricoveri ma aumenta di oltre il 30% le probabilità di tenere sotto controllo ipercolesterolemia, diabete e rischio cardiovascolare riducendo il pericolo di complicanze e lo stress generato dagli accertamenti diagnostici. Per contro - e lo studio inglese lo afferma chiaramente - a visite sempre più corte si associano prescrizioni di molti farmaci e un uso eccessivo di antibiotici.
La qualità dell’ascolto
Attenzione però a pensare che i medici non siano consci del problema. Da un’indagine presentata in febbraio dal Tribunale per i diritti del malato e da Cittadinanzattiva emerge che un medico su tre ritiene insufficiente il tempo dedicato ad ogni assistito. Quanto dovrebbe allora durare una visita per essere considerata soddisfacente? In questo caso ci viene in aiuto uno studio dell’Università di Basilea. Indipendentemente dalla durata della visita è il tempo dedicato all’ascolto a fare la differenza: durante lo studio i dottori hanno affrontato un percorso di formazione con un’attenzione particolare all’aspetto dell’ascolto attivo. I risultati hanno indicato che i medici, in realtà, non rischiano di essere sommersi di parole dai loro pazienti. Per l’80% degli assistiti due minuti di racconto e di ascolto attivo da parte del professionista sono sufficienti per uscire soddisfatti dalla visita.
L’abito fa il monaco
Ma c’è di più e i medici di base dovrebbero prendere nota. Il paziente medio non solo guarda al tempo dedicato con tanto di cronometro ma è molto attento al dress-code. Anche in questo caso ci aiuta uno studio del British Medical Journal: l’apparenza è un fattore chiave per conquistare la fiducia di un paziente. Consigli? Per le donne vietate gonna sopra al ginocchio, sandali e orecchini vistosi. Per l’uomo banditi i capelli lunghi. Per entrambi via anelli, piercing e scarpe da tennis. Ah, non dimenticatevi il camice.

La Stampa 11.11.17
“Ma il cronometro non è il modo giusto per valutare il servizio sanitario”
Il presidente del Simg: “Bisogna tener conto della qualità”
di Dan. Ban.


Il dottor Claudio Cricelli è il presidente della Società italiana di medicina generale. Abbiamo chiesto a lui di commentare i risultati dello studio dell’università di Cambridge.
Professor Cricelli, come commenta questo studio?
«L’analisi dei ricercatori inglesi è l’ultima di una lunga serie di studi volti a valutare il tempo che i medici di base dedicano ai pazienti. La prima di questo genere risale addirittura agli anni ’60 ed è riassunta nel libro “5 minuti per il paziente”. Questi studi però non possono essere letti superficialmente ma vanno contestualizzati altrimenti passano messaggi errati».
Cosa intende?
«Innanzitutto lo studio tiene conto del solo dato numerico dei minuti dedicati ma non considera quanti pazienti vengono visitati ogni giorno da quel singolo medico. Ma al di là di questa considerazione è fondamentale tenere conto del contenuto della visita».
Cosa significa con “contenuto della visita”?
«Il tempo dedicato in minuti dipende innanzitutto dal tipo di visita che si deve effettuare e dai parametri da valutare. Le porto l’esempio italiano: negli studi di medicina di base del nostro Paese un grosso numero di utenti è rappresentato dai frequentatori abituali, persone generalmente sopra i 75 anni che si rivolgono a noi quasi una volta a settimana. In questi casi se il quadro clinico descritto non cambia, le visite è ovvio che durino lo stretto necessario. La stessa cosa vale per quei pazienti presi in carico ormai da molti anni. La possibilità di accumulare informazioni ed evidenze sulla storia clinica della persona influisce positivamente sulla minor durata della visita. Addirittura in alcuni casi, se si tratta di una prescrizione, il tempo si azzera perché tutto viene gestito telematicamente. Diverso è il discorso per una prima visita. Qui è ovvio che il tempo dedicato sarà maggiore».
Il tempo dedicato è sempre importante ma le differenze tra nazioni sono notevoli...
«Parlare per il giusto tempo con il paziente è fondamentale. Fare statistiche e comparazioni tra Stati però ha senso se i sistemi sanitari sono simili. Il tempo dedicato al paziente che si sta sottoponendo alla visita dipende anche dall’organizzazione del sistema sanitario in questione e dal carico di lavoro dei medici. Per valutare un buon sistema non c’è solo il fattore tempo».

Repubblica 11.11.17
Scioperi, condannati al venerdì nero
di Marco Ruffolo


C’È UNA legge di regolamentazione degli scioperi nei trasporti pubblici che non riesce a difendere gli interessi della collettività, che lascia i cittadini alla mercé di piccole sigle sindacali, in grado di gettare nel caos un’intera nazione con interruzioni più o meno selvagge del servizio. E ci sono un Parlamento e un governo che da quindici anni si rimpallano la responsabilità di rivedere quella legge, di stringere le sue maglie per evitare che uno sciopero legittimo si trasformi in un’arma puntata all’improvviso su chi lavora e non sa come muoversi, su chi ha scadenze inderogabili ed è costretto a eluderle, su chi sta male e rimane intrappolato nel traffico con l’autoambulanza. Con la consueta puntualità, lo sciopero, indetto ieri da sigle poco rappresentative ed esteso questa volta anche alla scuola e ad altri comparti pubblici, arriva di venerdì. Così, mentre molti cittadini restano a terra, qualche lavoratore, non proprio responsabile, riesce a programmare l’ambito ponte di fine
settimana.
Il problema è come evitare che una manciata di piccoli sindacati, dalle sigle impronunciabili, riesca a scatenare il caos. E qui sorge una prima obiezione: se quelle sigle sono poco rappresentative e non raccolgono grandi adesioni alla protesta, come fanno a bloccare un intero Paese? In realtà, per creare disservizi e dimostrare così la propria forza, non è necessario mandare concretamente in tilt la maggior parte dei trasporti (ieri molti treni circolavano tranquillamente). È sufficiente l’effetto annuncio, basta cioè far sapere alla gente, attraverso tv e giornali, che quel venerdì aerei, treni, metro e bus potrebbero non funzionare, e il caos è garantito, anche se le poi le adesioni allo sciopero risulteranno scarse. Molte persone, infatti, decideranno di prendere l’auto, altre rinvieranno appuntamenti, altre ancora chiederanno permessi per non andare al lavoro.
C’è un modo per spezzare questo circuito perverso? Il sistema ci sarebbe, ma la politica nicchia: il governo aspetta un’iniziativa parlamentare, mentre il Parlamento tace. Così ieri, il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi, ha rotto gli indugi presentando un emendamento alla legge di Bilancio, che introduce due semplici obblighi: ciascun lavoratore deve comunicare all’azienda qualche giorno prima la propria adesione allo sciopero, e il sindacato, se vuole revocare la protesta, deve informarne il Garante con largo anticipo. Con la prima misura si metterebbe in grado l’azienda dei trasporti di sapere esattamente quali servizi potrà o non potrà garantire e di metterne al corrente gli utenti. Con la seconda si eviterebbe invece un altro odioso atto di irresponsabilità cui ricorrono spesso molti piccoli sindacati, i quali prima indicono lo sciopero creando il solito effetto annuncio e poi lo revocano all’ultimo momento: lo stipendio si prende lo stesso, ma il caos è ugualmente assicurato.
Difficile prevedere se queste due misure possano da sole metter fine ai venerdì selvaggi dei trasporti, ma in ogni caso sarebbero degli opportuni passi in avanti, da compiere urgentemente. Il governo è d’accordo? C’è una maggioranza in Parlamento? O assisteremo ancora una volta allo sterile coro sdegnato della politica che promette e non fa nulla? Ci risulta che quelle proposte siano arrivate sulle scrivanie dei ministri competenti già ai primi di settembre. Dove sono finite e perché Poletti e Delrio non si sono espressi?
C’è poi un altro dubbio che meriterebbe una risposta, a prescindere dal destino dell’emendamento Sacconi. I sindacati più responsabili si sono mai domandati se sia possibile garantire il diritto allo sciopero senza interrompere un servizio così essenziale come il trasporto pubblico? La risposta, caldeggiata anni fa dal senatore del Pd, Pietro Ichino, c’è e si chiama “sciopero virtuale”: i dipendenti lavorano lo stesso e il monte salari di quel giorno va a finire in un fondo dove confluisce anche un prelevamento operato a danno dell’azienda, una penale pari al doppio o al triplo degli stipendi a cui rinunciano i lavoratori. Il fondo, gestito insieme da azienda e sindacati, andrebbe a finanziare opere di pubblica utilità e insieme una campagna di informazione sulle ragioni dello sciopero. Ovviamente si tratta di una proposta che non potrebbe essere calata dall’alto per legge, ma affidata all’autodisciplina sindacale. Sono pronte almeno Cgil, Cisl e Uil a sottoscriverla?

Corriere 11.11.17
«Ricchi e poveri» su Rai3
Lerner: «Racconto le disuguaglianze della nostra società»
di R. Fra.


«Jeff Bezos (l’inventore di Amazon), Bill Gates (il fondatore di Microsoft) e il finanziere Warren Buffett possiedono in tre tanto quanto 160 milioni di americani, la metà della popolazione degli Stati Uniti. Solo ai tempi del Re Sole succedeva». L’analisi politica stemperata dall’ironia che anziché annacquare il concetto lo rafforza. Un viaggio nelle disuguaglianze sociali, tra lusso e miseria, tra disagio e abbondanza, nella forbice sempre più aperta che separa chi ha tantissimo da chi ha pochissimo. Gad Lerner torna da domani su Rai3 in seconda serata con Ricchi e poveri («come da immaginario sanremese»), la nuova serie di reportage dedicata all’inasprirsi delle disuguaglianze che spaccano la nostra società.
Si parla di Italia, ma non manca uno sguardo al resto del mondo per raccontare il divario tra Messico e Stati Uniti o quello tra le spiagge di Malindi e le discariche di Nairobi in Kenya. Lerner fa tappa anche a Londra, davanti allo spettrale scheletro della Grenfell Tower, nel cui rogo, la notte del 14 giugno, sono morte oltre 80 persone. «La “Torre brutta” dava fastidio, deprezzava il mercato immobiliare dei ricchi, così per nasconderla la municipalità l’aveva ricoperta con un make up di pannelli pagati pochi soldi. Materiale non ignifugo che ha trasformato l’incendio in una trappola mortale. Tutto per risparmiare 2 sterline a pannello». Il capitalismo è sempre più aggressivo e violento, accampa diritti ma non si assume doveri, si rifugia in paradisi fiscali e delocalizza in inferni reali: condivide? «È così, il capitalismo cerca di pagare il lavoro sempre di meno con invenzioni di fantasia. Nella prima puntata intervisteremo Concetta Candido, la disoccupata che si è data fuoco per protesta nella sede Inps di Torino. I lavoratori del birrificio in cui era assunta sono stati esternalizzati in una cooperativa: chi la presiedeva? La moglie del padrone».
La società dello spettacolo in cui siamo immersi sembra fatta apposta per non far pensare la gente, l’individualismo imperante porta come paradossale conseguenza all’omologazione: «In televisione c’è il mito di raccontare la vita dei ricchi e l’imbarazzo nel mostrare la vita dei poveri. La povertà va tenuta nascosta, quasi fosse una colpa. Mi ha colpito come la donna che si è data fuoco fosse molto attiva su Facebook, postava e condivideva foto e link, raccontava di sé, eppure non ha accennato alle sue difficoltà». Forse perché nella Instagram society la merce da vendere siamo noi stessi, conta la finestra abbellita, soprattutto se nasconde il vuoto della stanza.