giovedì 30 maggio 2019

il manifesto 30.5.19
Mai come stavolta è «primo» il partito del non voto
di Franco Astengo


Crescita dell’astensionismo forse oltre la fisiologicità del fenomeno ricorrente nel passato per le elezioni europee, nuova espressione di fortissima volatilità elettorale, esaurimento del «centro» e della «sinistra» con un chiaro spostamento a destra come segno dei tempi di netta contrapposizione; forte dispersione di voti a causa di una soglia di sbarramento molto alta e quindi sostanziale deprivazione della rappresentanza. Sono questi principali fattori che emergono dall’analisi del voto italiano al riguardo del Parlamento Europeo svoltesi il 29 maggio 2019 e che richiamano la necessità di un’analisi disomogenea comprendendo in questa i dati sia delle due tornate europee sia di quella politica del 2018.
Ne è uscita un’Italia spaccata in due: con la Lega egemone fino a Campobasso e il M5S che cerca di reggere da Caserta in giù; in mezzo a questa geografia dai termini bipolari ribaltati rispetto alle politiche 2018 qualche minuscola “enclave” segna, in Emilia e in Toscana, la precaria presenza del Pd. Si evidenzia un passaggio diretto di voti tra Forza Italia e Fratelli d’Italia (con la seconda che si rafforza evidentemente). In diverse regioni Fratelli d’Italia scavalca Forza Italia (Veneto, Friuli, Marche, Umbria, Lazio). Quindi non appare automatico un passaggio diretto tra Forza Italia e la Lega. La Lega in diverse situazioni attinge dal serbatoio M5S, piuttosto che da Forza Italia.
Il M5S invece sicuramente ha approvvigionato l’astensione. Si sta profilando quindi uno spostamento a destra dell’elettorato italiano in una dimensione molto più consistente di quanto non appaia a prima vista. Lega e M5S risultano protagoniste della volatilità elettorale in entrata e in uscita con dimensioni molto spesso superiori al 50%. Siamo di fronte al fenomeno di milioni di elettrici ed elettori che non riescono a votare la stessa lista per due elezioni consecutive, neppure a distanza di un anno tra un’elezione e l’altra.
Per tutta la giornata di domenica è stata venduta la favola della crescita della partecipazione. In realtà anche rispetto alla già deprimente partecipazione al voto del 2014 verifichiamo un’ulteriore contrazione. Le europee si sono ancora una volta rivelate, in Italia, assai poco attrattive per l’elettorato. I voti validi (quindi già sottratte le schede nulle e bianche) sul territorio nazionale sono stati 26.662.962 pari al 53,93% del totale degli aventi diritto. Mentre il non voto (astenuti, binache e nulle) raggiunge la cifra di 22.466.634.
Nell’occasione delle elezioni europee del 2014 (quelle dell’illusorio 40% del Pd) i voti validi furono 27.448.906 pari al 54,17%. Alle politiche dell’anno scorso questa cifra s’impennò fino a 32.841.705, al 70,61%. Rispetto alle politiche 2018 mancano quindi il 16,68% dei voti, circa 2.970.000 unità. Numeri da rendere improbabile qualsiasi raffronto ragionato. Tra le europee 2014 e quelle 2019 ci sono stati circa 900.000 voti validi in meno.
Le sole regioni nelle quali il totale dei voti validi nel 2019 è stato superiore a quello del 2014 sono state: la Valle d’Aosta, Veneto, Friuli, con le maggiori punte di flessione in Campania e Sicilia. In questo caso appare di grande interesse esporre le percentuali per ogni singolo partito riferite non al totale dei voti validi ma a quello degli aventi diritto (riferimento sempre al territorio nazionale). Il totale degli aventi diritto era quindi di 49.129.598 elettrici ed elettori: Lega 18,58%, PD 12,22%, M5S 9,23%, Forza Italia 4,7%, Fratelli d’Italia 3,5%, Più Europa 1,67%, Europa Verde 1,23%, La Sinistra 0,94%. Un esempio dal passato come indice di una solidità del sistema. 1976: DC 14.209.519 su 40.426.658 pari a 35,14%, PCI 12.614.650 pari a 31,20 %, PSI 3.540.309 pari all’8,75%. I tre grandi partiti di massa valevano quindi assieme il 75,09% sull’intero elettorato (votante e non votante: la percentuale dei votanti si era attestata sul 93,39%). Ora i tre primi partiti valgono il 40,03% dell’intero elettorato votante e non votante (percentuale dei votanti: 56,09%). Per la prima volta nella storia repubblicana il partito di maggioranza relativa si colloca al di sotto del 10 milioni di voti.
Riscontriamo quindi indici di estrema fragilità del sistema e di difficoltà nell’espressione della rappresentanza politica: segnali da non sottovalutare.

il manifesto 30.5.19
Aborto legale, l’Argentina ci riprova
Diritti delle donne. Una marea verde, dal colore dei fazzoletti simbolo del movimento femminista, accompagna la proposta di legge (l'ottava in 14 anni) per l'interruzione volontaria di gravidanza fino davanti al Congresso. La deputata Victoria Donda Pérez, prima firmataria, al manifesto: «La destra vuole la staticità dei ruoli tradizionali in cui noi donne restiamo riproduttrici di forza lavoro. Una legge ci può liberare»
di Gianluigi Gurgigno Ariadna Dacil Lanza


BUENOS AIRES Lungi dall’essere una mera pratica burocratica, l’ottava presentazione in 14 anni del progetto di legge per legalizzare l’aborto in Argentina è stata accompagnata in tutto il paese da una marea verde che nella capitale ha inondato le vicinanze e l’interno del Congresso nazionale.
LA «CAMPAGNA NAZIONALE per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito», attraverso alcune deputate, ha riproposto il progetto che sostiene sin dalle sue origini, nonostante la composizione del parlamento non sia cambiata dall’anno passato, quando il no del Senato bloccò la legge. Stesso testo e stessa composizione parlamentare, dunque, ma con la vigenza del progetto estesa fino al prossimo anno, quando i seggi saranno già occupati dai deputati e dai senatori eletti nelle elezioni del prossimo ottobre.
La deputata argentina Victoria Donda Pérez (foto di Gianluigi Gurgigno)
Come nel 2018, prima firmataria della proposta di legge per l’«Interruzione volontaria di gravidanza» è la deputata Victoria Donda Pérez, figlia di José Donda e María Pérez, entrambi desaparecidos. Eletta una prima volta nel 2007 nelle file del Movimiento Libres del Sur, l’anno scorso ha fondato il partito Somos e ora è in corsa per la carica di governatrice di Buenos Aires. Sarebbe la prima donna a ricoprirla, così come è stata la prima figlia di desparecidos a sedere in parlamento (è nata all’interno dell’ex Esma, il «Centro clandestino di detenzione, tortura e sterminio» dal 1976 al 1983).
MENTRE GLI ALTRI CANDIDATI progressisti alle prossime elezioni pensano che sarebbe opportuno posticipare il dibattito sull’aborto al fine di generare consensi per superare la destra di Mauricio Macri al governo, Donda la pensa diversamente: «Come donne continueremmo a essere esposte alla clandestinità: il progetto deve essere trattato con urgenza e la legge deve essere approvata adesso».
Pochi minuti prima di incontarci, la deputata ha ricevuto i genitori di Lucía, la sedicenne che nel 2016 fu drogata, abusata e uccisa da due uomini. La propria storia personale ha avvicinato Donda Pérez alle rivendicazioni del femminismo e dei diritti umani. «Quando ero piccola una mia amica ha abortito clandestinamente. L’aborto le venne praticato con un bastone di vimini che le provocò un’infezione, e finì con l’utero perforato. Poi invece altre donne a me vicine hanno potuto pagare e allora sì, hanno abortito in dieci minuti. È una differenza di classe ma, tanto in una clinica come in una buia stanza di quartiere, c’è un comune denominatore: il peso della clandestinità, il sentirti una delinquente». Donda sottolinea che «la destra vuole la staticità dei ruoli tradizionali in cui noi donne continuiamo a essere riproduttrici di forza lavoro. Una legge per l’aborto legale ci può liberare in parte da questa subordinazione».
foto di Gianluigi Gurgigno
DAVANTI AL CONGRESSO Ana Clara ha deciso di trascorrere lì il pomeriggio del suo 34mo compleanno, per seguire da vicino la presentazione del progetto di legge. «Tutti abbiamo qualche amica o una familiare che c’è passata. Nel mio caso è stato in una clinica clandestina» dice, e continua parlando del «tabù, la paura e la persecuzione». Flavia la accompagna e commenta: «Una cugina di mio padre è stata violentata dal nonno ed è morta in seguito all’aborto clandestino. Nessuno ha detto niente per paura dei commenti, è terribile rendersene conto. Per questo siamo qui, a partorire una legge, perché siamo la voce di quelle che non ci sono più».
«Io a 15 anni ho abortito illegalmente con pastiglie – interrompe Milagro, sciogliendo il nodo che aveva in gola – e l’aiuto di mia mamma perché non volevo tenere quel bambino. Sono finita in ospedale per un’infezione. Mia mamma mi disse “Milagro per favore non dire niente altrimenti vado in galera”. Oggi sono qui con mia figlia Isa, che insieme al padre abbiamo deciso di avere. È stata la decisione migliore della mia vita». Flavia si allontana dai discorsi moralizzatori e sottolinea che lei «sapeva quello che faceva», ma per scelta o fallibilità dei metodi di cura «sono cose che succedono». Di fronte a tutto questo, il desiderio di non maternità può essere forte tanto come quello di essere madre.
NEL MEZZO DELLA MOLTITUDINE Flor ferma Martina, che non conosce, per chiederle un po’ del suo glitter verde. «Non ho casi di aborto vicini a me ma si tratta di avere un po’ di empatia con ciò che succede alle altre» – dice. Julia e Sonia, di 19 anni, hanno i fazzoletti verdi legati in testa: «Per avere diritti bisogna conquistarseli» dice una mentre camminano per Avenida Callao, l’arteria cittadina che porta al Congresso.
«Io non lo farei e non sono d’accordo con l’aborto, ma mi sembra importante la legalizzazione» dice Macarena, 24 anni e gli occhi truccati di verde. Seduta in mezzo alla strada, con un telo sull’asfalto, una ragazza vende fazzoletti verdi e dice d’essere d’accordo con il simbolo femminista.
Nel frattempo sotto allo stand montato di fronte al Congresso, una delle referenti storiche della campagna, l’avvocata Nelly Minyersky prende con una mano il bastone e con l’altra il microfono per sintetizzare: «Lottiamo per un diritto umano fondamentale. Il diritto all’aborto non è solo il diritto sul nostro corpo, ma anche il diritto a decidere se vogliamo avere figli o no. È il diritto al proprio destino».
traduzione di Gianluigi Gurgigno

il manifesto 30.5.19
Il M5S non è più l’argine, né alla destra, né all’astensione
Crollo elettorale. Il capo, il contratto, l’identità, aver creato aspettative difficili da mantenere, la prova del governo arrivata troppo presto, impreparati su Ilva, Tap e Tav
di Aldo Carra


Il voto delle europee segna la fine di una funzione che il M5S si è sempre vantato di svolgere: quella di impedire che il malessere prodotto dalle politiche di austerità e dalla degenerazione del sistema dei partiti sfociasse in astensionismo di massa ed alimentasse la destra.
Questo per un po’ è stato anche vero, ma, adesso, si è prodotto un fenomeno opposto: sei milioni di votanti in meno ed altrettanti voti persi dal M5S; una nuova destra radicale e populista ha divorato quanto di moderato c’era in quell’area ed ha attratto a sé un altro milione di elettori dal M5s e dalla stessa area di centro-sinistra.
Così, dopo il terremoto del 2018, la nuova scossa ha prodotto una implosione del M5s ridotto al 17%, e ci mette di fronte ad nuova destra riorganizzata che si attesta al 50%. Sul versante opposto un Pd che arresta la sua emorragia di voti, ma non mostra capacità attrattive né verso l’elettorato perduto né verso quello in movimento ed una sinistra radicale il cui ennesimo e generoso tentativo di accorpare in extremis chi ci sta si infrange di fronte ad uno scontro tra titani che richiama a schierarsi ed a non disperdere il voto.
Si esaurisce così la funzione argine verso l’astensione svolta dal M5s, mentre la funzione traghetto, svolta attraendo anche elettorato di sinistra e proiettandone il malessere verso lidi populisti, produce i suoi effetti nefasti nello sfondamento di Salvini.
L’implosione del M5s nasce da diversi fattori: un appannarsi dell’identità – sotto l’equivoco del né destra né sinistra – proprio mentre la Lega rafforzava la sua identità di destra; una forte accentuazione della funzione del capo politico non compatibile con le esigenze di flessibilità ed articolazione che deve avere un movimento, soprattutto se esso è giovane e deve favorire l’emergere di forze nuove; il ricorso alla trovata del contratto di governo per spiegare l’alleanza con una forza abbastanza diversa che non poteva che generare una instabilità permanente che può risultare mobilitante fino ad un certo punto, ma non oltre; l’aver puntato su obiettivi specifici mirati a particolari categorie, come il reddito di cittadinanza, che hanno alimentato aspettative difficili da soddisfare e creato anche esclusioni e disillusioni; l’essere arrivati troppo presto alla prova del governo ed impreparati su dossier, come Ilva, Tap e Tav che erano in stato avanzato…. .
Queste e altre contraddizioni hanno generato il crollo elettorale e mettono il M5s di fronte a scelte vitali. Vedremo come esso reagirà, ma è certo che si è creata una nuova larga schiera di elettori delusi che scelgono l’astensione e che, in queste elezioni, non sono stati attratti né dalla proposta del Pd né da quella della sinistra. E sembra abbastanza certo che buona parte di essi sono stati mossi da scelte come il voto per Salvini sulla Diciotti, le soluzioni trovate su questioni ambientali che erano state bandiere elettorali ed, in generale, dalla subordinazione alla direzione politica imposta da Salvini.
Si apre, perciò, una nuova fase di doppio movimento. A livello politico vedremo ripercussioni sul governo e conseguenze sul ruolo delle opposizioni. Ma è a livello sociale che occorrerà al più presto costruire una relazione con i tanti soggetti che si sono chiamati fuori dal voto ed i non pochi che il sistema elettorale ha privato di rappresentanza. È a questo elettorato che va rivolta l’attenzione della sinistra e del Pd. Sapendo che tra questi elettori ci sono molti giovani e che c’è una forte sensibilità sui temi ambientali.
Speriamo di non essere trascinati nel dibattito tutto politicista su nuovi scenari, alleanze, governi di transizione più o meno tecnici. Sarà necessario parlare anche di questo. Ma se vogliamo dare voce ai soggetti di cui abbiamo parlato ed anche costruire dal basso uno schieramento sociale per contrastare la deriva a destra sarà necessario anche che vi sia chi si dedica a costruire sedi, occasioni di lavoro e ricerca comuni, a generare una nuova alleanza dal basso tra ispirazioni ed aspirazioni di sinistra e sensibilità e culture ambientaliste. Il lavoro da fare non manca, ma va fatto uscendo dai recinti della cultura di sinistra ed ambientalista per fertilizzare terreni nuovi e coltivare nuove piante.

il manifesto 30.5.19
Fratoianni: «Ora anche la sinistra si impegni nell’alternativa all’onda nera»
L'intervista. Il leader di Sinistra italiana: la nostra lista non è stata percepita come utile a fermare le destre, adesso non richiudiamoci fra noi. Basta frammentazioni, darò il mio contributo. Serve il dialogo con M5S e Pd. Anche con Calenda. Ma continuare a inseguire l’avversario sul suo stesso terreno non porta a nulla
di Daniela Preziosi


«La nostra proposta è stata schiantata dal richiamo al voto utile». Per Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana, l’analisi della sconfitta della lista La Sinistra, nata dopo il deragliamento di un’altra lista, Liberi e uguali, è amara. «Più in profondità, questa fase politica è stata segnata dalla polarizzazione di uno scontro. E in questo scontro il bisogno di difendersi dall’onda nera ha prevalso su tutto il resto. Un racconto a cui tutti abbiamo contribuito e che ha portato i cittadini a votare dove sembrava più forte la possibilità di fare resistenza.
L’onda nera non c’è?
C’è, c’è. E ha messo in secondo piano i contenuti necessari per recidere le radici su cui quell’onda ha costruito la sua forza. Ma, sia chiaro, questo non ci assolve.
Dare la colpa al ‘voto utile’ non è autoassolversi dai limiti della vostra proposta?
È il contrario. Gli elettori hanno scelto chi sentivano più efficace per fermare le destre. Ci hanno considerati insufficienti e poco credibili. Poi ci sono altri elementi, la costruzione tardiva della lista per esempio, ma non credo che questo sia il punto.
Davate l’impressione degli stessi ceti politici che si rimescolano, dalla Sinistra Arcobaleno a L’Altra Europa a Leu?
Magari, nel 2014 abbiamo preso il 4 per cento. Ma certo, il tema del mancato ricambio e rinnovamento c’è. Ma non è centrale. È paradossale un risultato così proprio mentre nel paese si avverte un risveglio democratico.
Lei è stato un protagonista della lista, per alcuni suoi compagni sembrava il leader. Troppo?
In questa campagna ho messo tutte le mie energie, fino all’ultima goccia. Come tutti e tutte. Non è bastato. Quando si è trattato di ammettere la sconfitta ci ho messo la faccia.
Il 9 giugno ci sarà l’assemblea della lista. Altre volte le spaccature sono arrivate proprio dopo il voto. Quale sarà la proposta di Si per il futuro della lista?
Si ha riunito la segreteria, sabato terrà la direzione. Decideremo insieme. Io andrò all’assemblea: è doveroso ragionare sul futuro. Abbiamo di fronte una stagione complicata e un percorso lungo, dobbiamo riconquistare un insediamento sociale nel paese, fin qui ci siamo dispersi in sperimentazioni generose ma evanescenti. La frammentazione della sinistra, dai Verdi a noi al Prc a Possibile, l’Altra Europa, Diem, Dema, èViva e le esperienze civiche, va superata. È percepita come insopportabile. Anche se questa lista ha provato a costruire la più larga unità. Proverò a dare un contributo. Ma non basta. Il voto ci pone un’altra questione: collocare lo sforzo di ricomposizione e rigenerazione dentro la costruzione di un’alternativa alle destre. Il nodo non può essere più aggirato. Non possiamo chiuderci fra noi dicendo che abbiamo ragione ma non ci hanno capiti. Senza rinunciare ai nostri valori e contenuti, occorre dichiararsi pienamente coinvolti dalla richiesta che viene dal paese: costruire un’alternativa a una destra che raggiunge il 50 per cento e in cui la destra radicale sta sul 40.
Dal 2 per cento al 50 mancano 48 punti. A chi si rivolge?
A tutti quelli che sono oggi interessati a costruire un’alternativa a questa destra. Rispetto l’entusiasmo del Pd, non lo contesto perché ho il senso della misura, ma se immagina un’alternativa concreta non può limitarsi alla riproposizione di schemi vecchi. Tanto meno il centrosinistra. Serve rivolgersi ai 5 Stelle e favorirne il cambio di prospettiva. Per tirarlo dentro questo campo.
Riaprire un dialogo con il Pd dopo gli anni del freddo? Come?
Costruendo uno spazio di discussione in una prospettiva diversa. Perché questa alternativa abbia gambe serve un lavoro sociale per riconquistare tutti quelli che sono andati a destra e che hanno smesso di votare. Serve mettere mano ai nodi su cui il centrosinistra è stato sconfitto. Non pretendo che il programma sia il nostro. Ma si devono porre al centro i diritti e le libertà, lo dico a M5S. E i diritti sociali, il lavoro, la distribuzione della ricchezza, la protezione di chi non ce la fa, e questo lo dico al Pd. Altrimenti anche le forme più larghe di coalizione sono inefficaci. Guardiamo al Piemonte: un’alleanza larghissima, ma ugualmente non competitiva. Lavoriamo su una piattaforma, su parole nuove. L’exploit di Bartolo (il medico di Lampedusa, ndr) vorrà ben dire qualcosa.
C’è stato anche l’exploit di Calenda, però.
Sarebbe persino una buona notizia se nascesse una forza centrista. Ognuno fa il suo mestiere e organizza pezzi di società. I contenitori di tutto e il contrario di tutto non funzionano.
Quindi lei potrebbe dialogare anche con Calenda?
Se il tema è la costruzione di un’alternativa la discussione si fa tra diversi. Ma non si può immaginare un’alternativa continuando a inseguire l’avversario sul suo stesso terreno.
Per il Prc la pregiudiziale anti Pd sembrerebbe un dato acquisito.
Sarebbe un errore se fosse così. Lo dico qui e lo dirò all’assemblea del 9 giugno. Non ho cambiato giudizio sul Pd e sui suoi governi. Ma non possiamo non misurarci con la realtà. Non sto proponendo di affrontare la questione riducendola soltanto a un problema di alleanze. Ripeto: il centrosinistra, non c’è più, serve uno schema nuovo.
Lei si dimette?
A questa domanda risponderò alla direzione del partito. È un dovere comunicare le mie scelte innanzitutto davanti agli organismi dirigenti e alla mia comunità politica.

il manifesto 30.5.19
Accoglienza migranti, il Viminale chiede 3 milioni di euro a Lucano
Riace. Il nuovo capo dipartimento dell’Immigrazione, Michele Di Bari, ha inoltrato al comune della Locride formale diffida a saldare il conto pregresso, entro 30 giorni
di Silvio Messinetti


«Non c’è niente di eroico nel vile infierire su chi è più debole» scriveva Dacia Maraini. Ma al Viminale più che eroi ci sono caterpillar, uomini in ruspa con cui abbattere il nemico. L’attacco concentrico di politica e magistratura lo ha già esiliato, umiliato, e il 26 maggio, anche, sconfitto elettoralmente (dopo un’operazione politica tanto efficace quanto spregiudicata, pronta a tutto, anche ad aumentare i residenti del 40% in un anno nel borgo, pur di strappargli Riace). Ora, non sazi, i solerti funzionari del ministero di Salvini battono pure cassa contro Mimmo Lucano. Il nuovo capo dipartimento dell’Immigrazione, Michele Di Bari, già prefetto a Reggio Calabria e responsabile numero uno della disastrosa gestione della baraccopoli di San Ferdinando ma promosso, guarda caso, da Salvini all’importante incarico, ha inoltrato al comune della Locride formale diffida a saldare il conto pregresso. Un conto salato di 3 milioni da versare entro 30 giorni. Se così non fosse «si procederà mediante trattenuta sui versamenti erariali». Si tratta di somme già incassate per i servizi resi dal 2011 al 2018. Ma che il Viminale rivuole indietro perché nel corso degli anni Riace non avrebbe sanato alcuni vizi di rendicontazione.
Secondo la procedura, in caso in caso di anomalie nei conti, l’amministrazione deve presentare controdeduzioni, pena tagli al budget successivo. Secondo il ministero ciò non sarebbe avvenuto, dunque l’ente deve versare il quantum. Questa diffida, tuttavia, stride con la recente sentenza del Tar di Reggio che aveva annullato la circolare del ministero che escluse Riace dallo Sprar. Ebbene, quel provvedimento era stato annullato proprio perché non era stato preceduto da una chiara segnalazione delle asserite anomalie e, inoltre, in quanto implicitamente smentito dai rinnovi triennali dei progetti.
La decisione del Tar, infatti, si fonda essenzialmente sulla circostanza che a Riace a dicembre sia stato autorizzato il finanziamento per il triennio 2017-2019, «in prosecuzione del triennio precedente senza avere comminato penalità». Peraltro, secondo il Tar, se sussiste il danno erariale questo l’avrebbe prodotto proprio il Viminale in quanto «il progetto avrebbe dovuto essere chiuso alla scadenza naturale. Averne autorizzato la prosecuzione, lasciando la gestione di ingenti risorse pubbliche in mano ad un’amministrazione, per quanto ricca di buoni propositi e di idee innovative, ma ritenuta priva delle risorse tecniche per gestirle in modo efficiente, appare fonte di danno erariale che dovrà essere segnalato alla Procura presso la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della regione Calabria». La magistratura amministrativa aveva, dunque, già sottolineato in sentenza la non correttezza della procedura seguita dal Viminale. Che, tuttavia, ci riprova infierendo su Lucano e sugli assessori delle sue vecchie giunte. Che potrebbero esser chiamati a rispondere dinanzi alla Corte dei Conti di un danno erariale milionario.

Repubblica 30.5.19
L’intervista
D’Alema "Il Pd non sa come si parla agli operai "
L’ex premier: "Il risultato delle Europee è positivo, ma la sinistra resta da ricostruire. Surreale il dibattito sul centro: i moderati votano già per i dem"
Fossi Zingaretti affiderei a Landini un seminario di una settimana per spiegare come si fanno i comizi davanti alle fabbriche
di Stefano Cappellini


Massimo D’Alema, nella lista unitaria per le Europee c’era anche Articolo 1 insieme al Pd. È andata bene? Avete pareggiato? Matteo Renzi dice: persi 100mila voti rispetto al 2018.
«Le elezioni le ha vinte la destra, su questo non c’è dubbio. Ma il risultato del Pd è stato positivo. Il centrosinistra ha fermato una emorragia e si è reinsediato nel suo mondo. Non dimentichiamo che, dopo il voto del 2018 e un anno di logoramento, secondo i sondaggi era sceso anche più giù del 18 per cento».
Se si votasse adesso per il Parlamento la destra avrebbe la maggioranza.
«Il vantaggio della destra è preoccupante, ma il dato più interessante delle Europee è che il risultato ha riproposto uno scenario bipolare destra-sinistra che sembrava superato. Averlo ripristinato è fondamentale: il Pd è di nuovo in campo ed è l’antagonista di Salvini».
Il calo del M5S è strutturale?
«Continueranno ad avere un mercato elettorale, ma è fallito il loro impianto culturale, cioè l’idea che si potesse costruire una dimensione post-politica e liquidare la dualità destra-sinistra».
Il Pd ha intercettato solo una minima parte dei voti in uscita dal M5S.
«Il Pd si è presentato con un volto nuovo, positivo, non arrogante e non anti-sindacale. Però quell’elettorato che si era allontanato aveva bisogno di un elemento più forte di discontinuità che non c’è stato. Per ragioni anche comprensibili, il poco tempo a disposizione. L’immagine del Pd resta da ricostruire, insieme a una coalizione di centrosinistra completamente nuova».
Le elezioni si vincono allargando al centro?
«Trasecolo. Questo dibattito lo trovo surreale. Dicono: dovete conquistare i moderati. Ma i moderati votano già per noi. O vogliamo sostenere che stanno con Salvini? Noi perdiamo nelle periferie. Questo discorso vecchio aveva un senso quando la sinistra rappresentava la classe operaia e doveva allargarsi verso il ceto medio. La società è cambiata ed è smarrita. Ha bisogno di messaggi forti, identitari».
Lei da cosa partirebbe?
«Dal mondo del lavoro. Non dico di cancellare con un tratto di penna il Jobs Act e tornare a prima.
Consideriamo pure superato un modello di tutele che era legato al vecchio modello fordista. Lanciamo però un nuovo grande patto del lavoro: welfare, diritti, lotta alla precarietà».
Zingaretti non l’ha fatto?
«Io anziché aprire il dibattito sul centro mi piglierei uno dei pochi capi operai della sinistra, Maurizio Landini, e gli farei fare un seminario di una settimana per spiegare come si parla agli operai, il 50 per cento dei quali ha votato Lega. Perché il Pd, al momento, non è in grado di farlo. Nel mio partito ideale, in campagna elettorale tutti i lunedì i candidati sarebbero mandati a fare comizi davanti alle fabbriche».
Quindi è contrario alla proposta di Calenda, che ipotizza la costruzione di un partito di centro che si allea al Pd?
«Può essere che un centrosinistra articolato su due gambe abbia una maggiore capacità di tenuta. Io mi sono opposto per anni all’abolizione del trattino tra centro e sinistra, ma non si può piangere sul latte versato. Contribuii a fondare una coalizione intorno a due forze fondamentali, una radicata nella tradizione del cattolicesimo democratico e una nella storia della sinistra. Poi si sono fuse. Ma dovevano convivere. Quando Renzi ha dichiarato guerra a una di queste due tradizioni, è stato il collasso.
Anche un partito unico ha bisogno di due gambe per stare in piedi».
Immagini che la prossima legge di bilancio tocchi a un governo di sinistra. Cosa dovrebbe fare?
«In questi anni si è accumulata una grande ricchezza in una quota ultraminoritaria della popolazione, dunque è lecito pensare a una tassazione patrimoniale. Poi resta la necessità di una seria lotta all’evasione fiscale».
Salvini propone flat tax e manette agli evasori.
«Per ora ha fatto solo il condono fiscale».
Con la lotta all’evasione non si recuperano i miliardi che servono per la manovra.
«Una buona idea di Piketty è rafforzare il bilancio dell’Unione europea finanziando lo sviluppo attraverso una fiscalità europea che colpisca le grandi multinazionali. In Italia Amazon paga di tasse meno di un medio imprenditore della Brianza. E poi serve la carbon tax, perché la difesa dell’ambiente, in quanto critica al capitalismo, è un tema di sinistra».
Immagina un Pd anticapitalista?
«La correzione delle distorsioni del capitalismo è tornata a essere un filone di studio florido nelle università, da Stigliz alla Mazzuccato. Spero che, tra un tweet e l’altro, i loro libri possano suggerire qualche spunto anche alla sinistra italiana».
Il governo cadrà presto?
«Le condizioni politiche perché cada non ci sono.Il M5S non ha alcun progetto. Salvini dovrebbe tornare con Berlusconi e per lui questo è un problema».
Ma che durata può avere un governo così diviso?
«Può cadere travolto dalla realtà. I fatti sono testardi. Il risultato delle Europee accentua il nostro isolamento. A questo punto è naturale che la Ue reagisca all’avventurismo del nostro governo sui conti pubblici. E all’Europa basta un frase: l’Italia non è affidabile. Il giorno dopo i mercati ti massacrano, e i mercati sono molto più cattivi di Moscovici. Ma l’Europa deve cambiare. L’ondata popolista non ci ha travolti, spero che la classe dirigente europea comprenda lo scampato pericolo e avvii un percorso di coraggiose riforme».
Avremo solo posti di serie B nella governance della Ue?
«Si sta costruendo un patto politico tra democristiani, socialisti e liberali. Questo compromesso corrisponde a un accordo tra la Germania, che ha la guida dei popolari, la Francia, con Macron che esce rafforzato dal voto, e i socialisti a trazione iberica. L’Italia è marginale per la rozzezza e la dequalificazione della sua classe dirigente».
Sarà un leghista il commissario italiano a Bruxelles?
«Suggerirei nel caso di puntare su una figura seria e amministratore credibile».
Giorgetti o Zaia?
«Certamente sono due personalità apprezzabili. Non sta a me fare nomi. Ma ricordiamoci che il Parlamento europeo è un animale non facilmente addomesticabile.
Bocciò Rocco Buttiglione. E Buttiglione al confronto di questi qui è Churchill».
Per tutta l’intervista ha parlato del Pd come fosse il suo partito. Lo sente di nuovo la sua casa?
«Non ci sono più case. Bisogna ricostruirla, la casa. Non io, ma milioni di elettori ancora non sentono tale il Pd. Almeno due persone, prima di votare, mi hanno chiesto: posso votare Bartolo, il medico dei migranti, senza barrare il simbolo del Pd? E sa perché Bartolo è stato così votato, senza aver affisso nemmeno un manifesto? Perché esprime valori».
Ma in questa sofferenza della sinistra non si riconosce colpe?
«Ho già fatto tutte le autocritiche e pagato il mio prezzo».
Ha fatto da poco 70 anni. Tempo di bilanci?
«Sono in pace con la mia coscienza. Pur nelle mutate condizioni di ogni epoca, sono sempre stato coerente con le idee che mi hanno spinto all’impegno civile e politico».
Pentito di nulla?
«Di molte cose. Ma della più grave non voglio dire, aprirebbe troppe polemiche».
Ha a che fare con la fondazione del Pd?
«I partiti devono avere un ubi consistam».
"Chi vuole ricostruire il comunismo è senza cervello, chi non ne ha nostalgia è senza cuore". Chi l’ha detto?
«Io, alla festa dei miei 70 anni, parafrasando Putin».
Ha molta nostalgia?
«Il Pci è stata la pagina più straordinaria della mia vita. Credo che, per la mia generazione, questo sia un sentimento unanime».

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mercoledì 29 maggio 2019

Repubblica 29.5.19
Blitz lirico
Una poesia contro le svastiche
A Fiumicino qualcuno copre le scritte naziste disegnate sui muri con versi di Leopardi, Rimbaud e Shakespeare
di Gabriele Romagnoli


Una poesia contro il nazismo. Detto così sembra un mismatch, come quando nelle qualificazioni ai campionati europei San Marino affronta la Germania. Eppure. È accaduto a Fiumicino, alle porte di Roma capitale. Nottetempo, sui muri dove erano state tracciate svastiche o scritte diversamente oscene, sono apparsi, a coprirle, fogli recanti versi di poesie: da Leopardi a Shakespeare, da Penna a Ungaretti. Il sussidiario posato sopra il Mein Kampf . La rosa bianca dei fratelli Scholl piantata nella cenere. È un gesto, ma prima di esagerarne o equivocarne la valenza, ne va interpretata la natura, in apparenza più estetica che politica. Ad arruolare Cavalcanti contro CasaPound si rischia il ridicolo e si riapre la porta alla stucchevole diatriba che impestò l’ascolto dei cantautori: ma De Andrè dove lo metti, a destra o a sinistra? Ci sono invece tre spunti sollevati dalla vicenda. Il primo riguarda la permanenza dell’esposizione al pubblico a Roma di scritte o disegni. Solitamente, per osmosi, tende all’eterno. E non fa distinzioni politiche. Chi volesse costeggiare le storiche mura a porta San Lorenzo troverà ancora, a vernice rossa: "W il nuovo PCI", seguita da falce e martello, di datazione incerta. A questa longevità fanno eccezione soltanto alcune creazioni, benché di matrice vagamente artistica, raffiguranti sempre gli stessi due soggetti, Salvini e Di Maio, ritratti in varie incarnazioni: bari, preti cattivi, babbi natale. Per il resto, all’inerzia delle istituzioni si sostituisce, quando e come può, la solerzia dei cittadini, con la pettorina dei retakers o il ciclostile del Movimento per l’emancipazione della poesia, fondato a Firenze, ma attivo anche a Roma, che affigge versi sui muri dal 2010. Versi anonimi, mentre a Fiumicino ci sono firme illustri. Tuttavia, questo è il secondo spunto, la poesia è per forma neutrale. La sua gentilezza è rivolta alle parole, la sensibilità al loro accostamento. Il compianto Claudio Lolli nella sua canzone più nota, Ho visto anche degli zingari felici ,
sosteneva che «i poeti amano l’odore delle armi», ma in fondo era poeta pure lui e infatti proseguiva dicendo «i poeti aprono sempre la loro finestra anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata». Lo diciamo noi che è sbagliata, per loro «una finestra è una finestra è una finestra». Può essere il punto di osservazione di tamerici bagnate dalla pioggia o di feriti e caduti di guerra «tutti nel sangue innocenti».
Può capitare, e questo è il terzo spunto, che la poesia scenda in strada e si metta da un lato o dall’altro. Non è il caso dei versi incollati a Fiumicino, reazione di forma ma non di contenuto alle precedenti scritte sui muri. È quel che accadde invece l’anno scorso al liceo Montale di Roma, dove un professore fece coprire frasi indegne su Anna Frank con versi proprio dell’autore a cui è dedicata la scuola, tratti dalla poesia La primavera hitleriana : «La sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue / si è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate / di larve sulle golene, e l’acqua seguita a rodere le sponde / e più nessuno è innocente». A comprova dell’ultima riga, e quasi inevitabilmente, comparvero scritte minacciose contro l’insegnante. È una spirale senza via d’uscita.
Abbiamo fatto tesoro di altri versi, quelli di Bertolt Brecht: «Anche l’odio verso la bassezza distorce i tratti del viso / Anche l’ira verso l’ingiustizia rende la voce rauca» e ci rattrista chi va per dibattiti a travisare l’espressione «rispondere per le rime» replicando con offese alle offese e credendo che i versi siano urla contro l’avversario. Piacerebbe poter essere soavi e a chi vuol mettere a tacere una voce contraria dedicare le parole da libertario di Cesare Teofilato, più volte incarcerato per le sue opinioni, in rima o meno: «Ferma la voce mia, stolto censore / essa è la voce che ti fa spavento / essa è la voce che ti fa rossore / è fiamma antica, che s’accresce al vento». Come certi murales, la poesia può dar voce a un azzeccato sberleffo, cavalcando inconsapevole l’ostacolo del tempo. Prendete per esempio La Regina , di Claude Cahun, pseudonimo di genere ambiguo di artista multimediale dal sesso non definito, vissuta nella prima metà del Novecento: «Attenta ai passi tuoi, iraconda Sovrana / potresti malamente inciampar nella sottana / Non ritener sia men grave lo sconquasso/ quando il cader avvien dal basso al basso».

Corriere 29.5.19
Angela Merkel «Sui nazionalisti occorre vigilare, dovremo essere più vigili degli altri Paesi»
Merkel e il populismo «Restiamo vigili, stanno riemergendo le ombre del passato»
di Christiane Amanpour


Cancelliera Merkel, qual è la sua reazione alle elezioni europee. Il suo partito ha mantenuto il primo posto in Germania, ma anche i Verdi sono andati molto bene, mentre lei personalmente ha riscontrato un calo superiore alle attese.
«Sono contenta che l’affluenza alle urne in Germania sia cresciuta rispetto alle precedenti elezioni europee, come in molti Paesi. Siamo diventati il partito più forte e ciò avrà il suo peso nella ripartizione degli incarichi in seno all’Unione Europea. È giusto riconoscere le conquiste dei Verdi, che si fanno portavoce delle crescenti preoccupazioni dei cittadini su come affrontare i cambiamenti climatici. Queste problematiche sono una sfida anche per il mio partito: occorre dare risposte migliori e dire con chiarezza che siamo pronti a rispettare gli impegni presi».
Parliamo dell’ambiente: i giovani sono interessati a questo tema, è parte del loro diritto esistenziale. Lei si era prefissa obiettivi che non sono stati rispettati, come in altri Paesi. Il nucleare è stato accantonato dopo la catastrofe di Fukushima: si è pentita di quella decisione?
«È giusto che i giovani alzino la voce e facciano notare alle vecchie generazioni quello che sta accadendo e quali potrebbero essere le ripercussioni sul loro futuro. Siamo stati capaci di raggiungere solo in parte gli obiettivi che ci eravamo prefissi. Ma quest’anno abbiamo incontrato difficoltà ad attenerci ai limiti del 2020, e ci siamo impegnati per il 2030. Non rimpiango affatto di aver abbandonato l’energia nucleare, sono convinta che non sia sostenibile a lungo termine. Abbiamo inoltre deciso di ridurre gradualmente la produzione di energia con le centrali a carbone, fino alla cessazione nel 2038. Certo, è una bella sfida rinunciare sia al carbone che al nucleare e dovremo trovare soluzioni più idonee, ma possiamo farcela. In Germania le energie rinnovabili rappresentano una percentuale già considerevole del mix e ci proponiamo di aumentarla entro il 2030».
Il presidente Trump ha dato l’altolà all’importazione di automobili costruite in Germania per motivi di sicurezza nazionale. Che ne pensa?
«Ho preso atto di questa dichiarazione ma difenderemo le nostre ragioni. È giusto che abbiamo ottenuto il mandato dall’Unione Europea per avviare i negoziati commerciali con il governo americano. La Germania prenderà queste trattative molto seriamente. Il mio ragionamento è ovviamente che le automobili tedesche non sono costruite solo in Germania. Prendiamo la Bmw: la fabbrica principale è in Carolina del Sud; significa che la Germania ha investito molto di più in America, grazie alle sue aziende, di quanto non abbia fatto l’America in Germania. Sarà opportuno esaminare da vicino la questione, in quanto occorrerà tutelare posti di lavoro e di formazione in America. Poi i manufatti possono essere trasportati in tutto il mondo. Inoltre, occorre sottolineare come anche la Germania è aperta alle aziende americane. Siamo pronti ad accogliere tutti a braccia aperte».
Un presidente tedesco, nel 40° anniversario del D-Day, pronunciò un discorso rimarchevole sull’Olocausto, dicendo che il giorno della sconfitta della Germania fu anche il giorno della sua liberazione. Lei è d’accordo?
«Certamente. Ricordo che fu nel 40° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale che il presidente federale tedesco Weizsäcker pronunciò questo discorso. All’epoca vivevo nella Repubblica democratica tedesca, la Germania era divisa, e di conseguenza quel discorso lasciò in noi un segno profondo. Mi parve una descrizione molto accurata e pertinente della situazione e la condivido ancora oggi».
Gli analisti la descrivono come il volto della Germania buona, ma dicono anche che sotto il suo governo antichi demoni sono riemersi: naziona lismo, populismo, antisemitismo, forze oscure che vediamo uscire vittoriose dalle urne.
«In Germania queste problematiche devono essere affrontate nel contesto del nostro passato: dovremo essere più vigili degli altri Paesi e sì, c’è ancora molto da fare. Abbiamo sempre avuto un certo numero di antisemiti, sfortunatamente; a tutt’oggi, non esiste in Germania una sola sinagoga o scuola materna per bambini ebrei che possa fare a meno della sorveglianza della polizia. Purtroppo non siamo riusciti a estirpare questi mali. Dobbiamo far fronte agli spettri del passato: dire ai giovani quali sono stati gli orrori della guerra per noi e gli altri, spiegare perché siamo a favore della democrazia, perché combattere l’intolleranza e non tollerare le violazioni dei diritti umani, e perché l’articolo uno delle nostre leggi — l’inviolabilità della dignità umana — è fondamentale per noi. Occorre insegnare queste cose a ogni nuova generazione. È diventato più difficile, ma proprio per questo dobbiamo rinnovare il nostro impegno».
Per questo ha consentito l’ingresso a tanti rifugiati?
«Sono convinta che dobbiamo imparare a vivere in un certo equilibrio con i nostri vicini, e il continente africano fa parte del nostro vicinato. Per questo è necessario aiutare i popoli africani nei loro Paesi, in modo che non vengano spinti a emigrare. Sulla soglia di casa nostra c’è la Siria; in Iraq la situazione è ancora critica. Non abbiamo vigilato come avremmo dovuto, non abbiamo capito che i cittadini di quei Paesi non avevano lavoro, istruzione, né le cure necessarie, e questo li ha costretti ad affidare la loro vita ai trafficanti. In questa emergenza umanitaria, abbiamo offerto loro il nostro aiuto. Ma la situazione non è sostenibile a lungo. Noi tutti, come Stati, abbiamo il dovere di gestire e guidare l’immigrazione. Non nel senso di chiuderci gli uni agli altri, ma nell’aiutarci ad affrontare queste emergenze umanitarie e nel creare nuove opportunità in quei Paesi. Lavoriamo a questo sin dal 2015, quando abbiamo firmato un accordo con la Turchia affinché fornisse aiuti ai rifugiati sul posto, ma abbiamo anche affrontato la lotta contro i trafficanti di esseri umani».
Lei ha anche oppositori come l’ex ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, che ha dichiarato: «La cancelliera Merkel è stata catastrofica ma ne sentiremo la mancanza, chiunque verrà dopo sarà peggio». Le pare un complimento?
«Si tratta ovviamente dell’opinione del signor Varoufakis, con il quale sono stata spesso in aperto disaccordo. Resto dell’avviso che la Grecia diventerà un Paese prospero solo a condizione di attuare le riforme: ho lottato in questo senso, ma anche per mantenere la Grecia nell’eurozona. In Germania abbiamo un detto, “Molti nemici, molto onore”, e questo si riflette nell’opinione che Varoufakis ha di me. Mi sono sempre battuta per tutelare l’integrità dell’eurozona, ma senza scendere a compromessi sui nostri principi, facendo di ogni erba un fascio e rinunciando alle riforme».
Lei è stata la prima cancelliera e la donna più potente al mondo. Non so se è d’accordo, ma è un giudizio diffuso. Ma è pronta a dichiararsi femminista? È contenta del ruolo delle donne nel mondo e in Germania, dove non esiste ancora la piena parità?
«La regina d’Olanda, al G20 delle donne, ha detto che il femminismo significa che le donne hanno gli stessi diritti in ogni parte del mondo, in tutte le attività, dalla politica ai media: questo dev’essere il traguardo, ma non l’abbiamo ancora raggiunto. Lei ha ragione, anche da noi esiste ancora un gap salariale, per molte ragazze sono diventata un modello, durante gli anni da cancelliera. Abbiamo bisogno di più donne in tutte le posizioni di rilievo. Di conseguenza gli uomini dovranno cambiare stile di vita, perché le donne non potranno più farsi carico di tutte le incombenze tradizionali se vorranno partecipare alla vita sociale e politica. Dovrà esserci una migliore collaborazione sia nella vita professionale che in quella familiare. Abbiamo imboccato la strada giusta».
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 29.5.19
L’estrema destra tedesca impone le sue priorità al di là del «muro»
di Paolo Valentino


Travolti dall’onda verde che sta cambiando il paesaggio politico della Germania, abbiamo trascurato un altro tipo di cambiamento climatico. Mentre il dato nazionale del voto europeo dice che i Gruenen sono ormai seconda forza, la Spd scivola verso l’insignificanza e la stessa Cdu vede in pericolo la sua natura di partito popolare, qualcosa di molto più preoccupante succede nell’Est.
Nei Lander della ex Ddr infatti, Alternative fuer Deutschland è saldamente al secondo posto appena dietro l’Unione cristiano-democratica. Di più, in Sassonia e Brandeburgo il partito di estrema destra è primo, rispettivamente con il 25% e il 20%. In entrambi gli Stati, si voterà di nuovo in settembre per i Parlamenti regionali; se fosse confermato, lo scenario produrrebbe effetti devastanti anche a Berlino.
A trent’anni dalla caduta del Muro, il risultato del 26 maggio mostra una Germania profondamente lacerata proprio sulla linea della ferita interna della Guerra Fredda. Da un lato liberalità, coscienza ambientalista, società aperta e tollerante, ambizioni da Paese avanzato. Dall’altra senso di accerchiamento, frustrazione per la memoria negata, odio, intolleranza, protesta. Così mentre a Ovest è la lotta al riscaldamento del clima il primo motivo che muove l’elettorato, nell’Est sono i salari più bassi, i posti di lavoro che spariscono, la paura di immigrati che non arrivano più, l’esclusione dai posti di comando, perfino i lupi che assaltano le greggi, il fuoco sul quale i pifferai di AfD gettano la loro benzina populista. Senza contemporaneamente lesinare sorrisi a negazionisti, neonazisti, identitari e spazzatura varia. Non è solo un’emergenza tedesca, è un’emergenza europea.

Repubblica 29.5.19
Vienna
Attacco antisemita contro la mostra sui superstiti della Shoah
di Andrea Tarquini


BERLINO — Vandalismi e violenze antisemite dilagano in Europa dopo le elezioni. A Vienna per la terza volta si è verificato un atto vandalico contro l’esposizione fotografica del fotografo italotedesco Luigi Toscano dedicata ai sopravvissuti alla Shoah. La notizia è stata resa pubblica proprio nello stesso giorno in cui l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha condannato, esprimendo "grave preoccupazione", l’aumento di atti antisemiti in tutto il Vecchio continente. E nello stesso giorno in cui la cancelliera federale, Angela Merkel, in un’intervista alla Cnn, denunciava che la Germania «ha sempre avuto un certo numero di antisemiti, purtroppo», denunciando «il ritorno di cupi spettri del passato in Europa» e notando che ancora oggi in Germania «non vi è una sola sinagoga, un solo asilo o una sola scuola per bambini e ragazzi ebrei che non abbia la necessità di essere sorvegliata dalla polizia tedesca».
A Vienna, dopo essere state graffiate con coltelli e sfregiate con svastiche, adesso i pannelli dell’esposizione di Luigi Toscano dal titolo "Gegen das Vergessen" (Contro l’oblìo) sono stati tagliati e strappati. L’esposizione si trova nel centro storico della capitale austriaca, lungo la Ringstrasse, in un luogo di solito sorvegliatissimo dalle forze dell’ordine austriache. Per proteggere le immagini dopo il terzo attacco, vista l’incapacità della polizia della Repubblica alpina di fare il suo dovere, sono state organizzate ronde giovanili promosse dall’associazione degli artisti Nesterval, dalla Caritas e dalla comunità degli islamici residenti in Austria. «Sono sconvolto e indignato che un ricordo delle vittime della Shoah provochi una tale reazione violenta e aggressiva, tale violenza cinica e distruttiva», ha dichiarato Luigi Toscano sui social.

il manifesto 29.5.19
Viola Carofalo, portavoce di Potere al popolo: «L’unità a sinistra? Una boiata consolatoria»
Parla la 'capa' di Potere al popolo. Le sommatorie di ceti politici non funzionano, ormai è un dato, serve guardare fuori dal circolo, Meglio sbagliare in maniera diversa anziché fare sempre lo stesso errore
di Daniela Preziosi


Viola Carofalo (’capa’ di Potere al popolo, ndr), dopo il voto, replicando agli elettori di sinistra delusi, ha pronunciato una sentenza di sapore fantozziano: «L’unità della sinistra è una cazzata». Ce la articola?
Vedevo i commenti su facebook. È partito il mantra: la soluzione dei problemi della sinistra è rimettersi tutti insieme. Ora, senza negare che la litigiosità a sinistra sia un guaio, è una risposta consolatoria. Il risultato della Sinistra lo dimostra: l’addizione non ha funzionato. Il problema è guardare fuori, a quelli che non si riconoscono nella sinistra. Non vuol dire che non è giusto fare alleanze, né che noi siamo autosufficienti. Ma la matematica lo ha detto varie volte: rimettere insieme quel che c’è non risolve niente. È un dato.
Ma prima del voto a un tavolo vi siete seduti. Ci avevate provato.
Sarebbe da pazzi non provarci. Ma le alleanze vanno fatte sui contenuti. Non volevamo la solita sommatoria dei ceti politici. Sarebbe andata meglio? Non lo so. Ma è meglio sbagliare in maniera diversa anziché fare sempre lo stesso errore.
Perché è saltato tutto?
Non volevano rinunciare alla continuità. Ci era stato proposto Cofferati. Con rispetto per la persona, non ci rappresenta. Per noi era importante che ci fosse De Magistris, la sua è una figura credibile.
Cofferati non era candidato.
Ha rinunciato. Ma la continuità è anche la mancanza di chiarezza. Sinistra italiana in Piemonte ha sostenuto Chiamparino. Ognuno faccia come vuole. Non siamo settari, ma siamo No Tav.
Vuol dire che già sappiamo che l’unità con queste forze alle politiche non la farete?
A me l’unità dei ceti politici non interessa, invece mi piace moltissimo l’unità con le associazioni con cui lavoriamo sempre e con la gente normale. Abbiamo fatto accordi a Firenze e Livorno: c’erano persone credibili.
Ripeto: alle future politiche non farete nessuna convergenza con i soggetti de La Sinistra?
Dipende come si costruisce. Per Pap non decido io, decidiamo assieme. Con il Prc si poteva già fare alle europee, ma loro inseguivano Si, Diem, Verdi…
Con il Prc avevate testé rotto.
Una cosa è un soggetto politico, un’altra è una convergenza. Il nostro problema è anche non disperdere forze. In queste riunioni si parla per ore, si fanno le tabelline con i voti che ciascuno porta, e non si fa mezzo sforzo per uscire dal circolo ristretto.
Stavolta avete saltato il giro. Salterete anche le politiche?
Credo che sarebbe sbagliato. Ma candidarsi a tutti i costi non ha senso. Stare nelle istituzioni può servire, abbandonare tutto per fare campagna elettorale, no. Facciamo attività sociale. Tanto la strada è lunga. C’è chi oggi si è risvegliato con la Lega al 30 per cento. E invece sono vent’anni che la sinistra va alla deriva. Tre mesi di chiacchiere elettorale? Meglio di intervento sociale. Per defascistizzare la società dal basso.
In Italia il fascismo è alle porte?
Io non uso con leggerezza la parola fascismo. Di sicuro c’è una stretta autoritaria. Mi spaventa. Ma non siamo vittime di un colpo di stato. Spero che Salvini sia il punto più basso, ma non ne sono sicura purtroppo.
Se c’è questo il rischio non servirebbe un fronte democratico?
Ma si riferisce al Pd?
Mi riferisco a tutte le forze democratiche che denunciano la stretta autoritaria.
In astratto sì. In concreto sta parlando del partito del decreto Minniti. Salvini è più tamarro e fa più impressione. Ma no, un fronte elettorale con il Pd no. Non funziona, anche questo è dimostrato. Nei quartieri popolari la destra cresce. E non c’è alleanza che la fermi, anzi le operazioni politicistiche allargano le distanze. Bisogna tornare lì a parlare con le persone. Sono idealista? Ma le scorciatoie hanno fatto solo danni.
Quindi di fronte al rischio di un governo Salvini, pace?
Pace? Guerra.
La prego. È una provocazione?
Guerra politica intendo. Intervento sociale.

Il Fatto 29.5.19
Licenziati via social. L’ultima frontiera della disumanità
di Silvia Truzzi


Mentre l’Italia andava al voto, i lavoratori di Mercatone Uno scoprivano di non avere più un impiego nel peggiore dei modi, ovvero tramite avviso su Whatsapp e Facebook. Non che sia una novità, anche se ferocia e viltà si perfezionano con inquietante efficienza: negli ultimi mesi le cronache abbondano di storie di precari (rider e non) liquidati via messaggino. Siccome il diavolo si nasconde nei dettagli (o nei particolari c’è Dio, scegliete voi) la modalità con cui oggi si comunica il licenziamento racconta perfettamente cosa sia diventato il lavoro. E comunque sia non tutti i 1860 dipendenti erano stati avvertiti: moltissimi di loro sono andati tranquillamente al lavoro sabato scorso, in un giorno che credevano come tutti gli altri e invece hanno trovato le serrande abbassate e un grande buco a forma di futuro davanti. Come i lettori sanno, in questa rubrica abbiamo spesso citato il lavoro come architrave del dettato costituzionale. Oggi ricorderemo invece un comma ormai totalmente desueto, ovvero il secondo dell’articolo 41, sovente brandito come una bandiera dai turboliberisti, perché definisce “libera” l’iniziativa economica privata. Che però “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Tutte cose purtroppo accadute in una specie di tempesta perfetta nella sconvolgente vicenda di Mercatone Uno.
Esattamente un anno fa la società era passata alla Shernon Holding per volere dei tre commissari nominati dal ministero dello Sviluppo nel 2015 (ministro Carlo Calenda), dopo tre bandi andati deserti e la cassa integrazione per circa 3 mila dipendenti, eredità della gestione dei precedenti proprietari (che sono sotto processo a Bologna per aver distratto, secondo l’accusa, fondi della società per dirottarli in Lussemburgo). Venerdì scorso il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento per venire incontro alle richieste dei fornitori: in meno di otto mesi l’azienda ha accumulato 90 milioni di buco. Dunque oltre ai dipendenti, anche i fornitori sono nei guai: nel tracollo sono coinvolte 500 aziende dell’indotto, che contano circa 10 mila dipendenti, perché Mercatone Uno si è di fatto finanziata non pagando fornitori e locatori di un terzo dei punti vendita per 6 milioni. Alla fine della catena ci sono pure gli inconsapevoli consumatori: fino all’ultimo momento possibile Mercatone Uno ha venduto e ricevuto acconti per merce che probabilmente nessuno vedrà mai nei 55 punti vendita che sono appena stati chiusi. In totale ha incassato 3,8 milioni di acconti per 20 mila ordini da più o meno altrettanti clienti. A questo punto del racconto si dirà: si poteva evitare? “Ci chiediamo chi e come ha vigilato su questa operazione nelle stanze del Mise e nell’amministrazione straordinaria che ha gestito la crisi precedente”, scrive la Cgil della Puglia (dove lavoravano 250 dipendenti). “È inaccettabile che gli organi di vigilanza del ministero dello Sviluppo economico, che appena la scorsa estate avevano permesso l’acquisto da parte della nuova società di quel che rimaneva di Mercatone Uno, non abbiano verificato la sostenibilità aziendale degli acquirenti. I lavoratori avevano sostenuto non pochi sacrifici in termini di orari e salari abbattuti, e una volta incassata la flessibilità l’azienda ha bypassato ogni rapporto con le organizzazioni sindacali, fino all’incredibile epilogo scoperto notte tempo”.
Al Mise è convocato un tavolo nei prossimi giorni e si vedrà in quale modo affrontare l’emergenza per tutti i danneggiati. I 5Stelle esprimono il ministro dello Sviluppo economico nella persona di Luigi Di Maio: dopo la batosta elettorale, non possono che ripartire da qui.

Il Fatto 29.5.19
L’alleanza a sinistra ora si deve fare
di Domenico De Masi


Nel momento stesso in cui fu varato l’attuale governo era lampante che Salvini avrebbe fagocitato buona parte del Movimento 5 Stelle per poi realizzare il governo più a destra dal dopoguerra. L’operazione è stata accelerata da tre circostanze. La prima: mentre Salvini, di fatto, si è dedicato quasi esclusivamente alla propaganda e alla simonia, Di Maio si è speso in quattro funzioni, due ministeri, vicepremier e capo politico del Movimento. Il secondo motivo sta nella diversa strategia in politica estera. Salvini ha fatto dei suoi rapporti privilegiati con i leader delle destre europee uno sfoggio di potenza, Di Maio è incorso nella gaffe dei Gilet gialli ed è senza gruppo di riferimento nel Parlamento Ue. Il terzo motivo attiene al programma di governo. Salvini ha saputo gonfiare le poche realizzazioni cui si è applicato: la riduzione degli sbarchi e la quota 100. Di Maio, invece, ha affrontato le due questioni oggi più gravi – la povertà e il lavoro – che hanno richiesto provvedimenti complessi come decreto Dignità e Reddito di cittadinanza. Riferendosi in gran parte al sottoproletariato, questi provvedimenti erano destinati a non riscuotere la giusta gratitudine da parte dei beneficiari.
La sinistra tutta avrebbe dovuto votare i decreti in favore di questo “stock di poveri”, come lo chiamano i neoliberisti infrattati nel Pd, invece di avversarli. Senza questa opacità, dopo il 4 marzo il Pd avrebbe accettato di formare un governo con i Cinque Stelle e oggi Salvini sarebbe al 10 per cento. E se i 5Stelle fossero rimasti all’opposizione, avrebbero avuto quattro anni di tempo per indebolire gli antagonisti e, intanto, preparare la propria classe dirigente.
Ora non c’è più tempo per i distinguo come fecero nel 1920 i liberali, i socialisti, i comunisti e i cattolici di fronte all’ondata fascista, che perciò ebbe facile vittoria. Occorre convenire sul fatto che, a causa della mancata funzione pedagogica esercitata dai partiti e dagli intellettuali di sinistra, il popolo confuso degli sfruttati è disperso in tutti i partiti, persino in quelli di estrema destra. È questo popolo che occorre ricompattare.
Ciò richiede un impegno congiunto di intellettuali, politici e cittadini. Richiede inoltre una disponibilità sia pure tattica da parte di tutte le forze che riconoscono nell’onda nera il pericolo maggiore per la nostra democrazia. Fra qualche anno i Di Maio, gli Zingaretti, i Bersani, i Fratoianni, i Renzi, i Calenda, i Cremaschi di oggi potranno essere ricordati come i leader disorientati e litigiosi del 1920, poi ridicolizzati da Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni, o potranno essere ricordati come i Terracini, i Calamandrei, i Togliatti, i Nenni, i De Gasperi che nell’immediato dopoguerra misero in stand by le proprie differenze per dare vita a una Costituzione democratica.
Oggi, per fortuna, questa rifondazione della sinistra è più realizzabile di ieri. Secondo l’Istituto Cattaneo, un anno fa la base sociale del Movimento 5 Stelle era composta per il 45% da elettori “di sinistra”; per il 25% da elettori di destra; per il 30% da elettori fluttuanti. In questo anno la leadership Di Maio, portando avanti progetti “di sinistra”, ha spinto gran parte dei grillini di destra e di quelli fluttuanti a passare con Salvini, sicché nel Movimento sono rimasti quelli meno allergici a un’alleanza sia pure tattica con il Pd. A questo gruppo, dimagrito ma più omogeneo, conviene staccare subito la spina del governo e marciare all’opposizione per darsi un nuovo orientamento e orgoglio.
Il Pd è almeno in parte il risultato dalla metamorfosi che, in tre tappe, ha trasformato il comunismo di Togliatti nella socialdemocrazia di Berlinguer e poi la socialdemocrazia di Berlinguer nel neo-liberismo di Renzi e Calenda. Ora, però, questi due leader, ideologicamente più vicini che mai, potrebbero creare un partito di centro, liberando finalmente il Pd delle scorie neo-liberiste. Infine, l’avanzata di Salvini, la rozzezza dei suoi comportamenti e la sua vocazione autoritaria spingono tutte le schegge di sinistra a ricompattarsi.
Realizzare una grande alleanza, sia pure tattica, tra i lavoratori, i partiti, i club, i movimenti, i comitati di quartiere e i centri sociali interessati a sconfiggere la Lega è una missione quasi impossibile, eppure è indispensabile se si vuole evitare al Paese il naufragio nell’onda nera.
Infine va ricordato il ruolo imprescindibile degli intellettuali. A essi, oggi più che mai, compete il compito di decodificare i mutamenti socio-economici in atto; elaborare un modello di società postindustriale coerente con le ragioni della sinistra; offrire il loro contributo di idee a tutte le compagini socio-politiche convergenti nell’alleanza di sinistra; capire come mai la destra riesce a valorizzare i social media molto meglio della sinistra e aiutare la sinistra a colmare questo gap facendo dei social un uso efficace ma onesto.

Il Fatto 29.5.19
Le ultime ore di Bibi. Gli ultra-ortodossi ricattano Netanyahu
Senza un governo - Scade a mezzanotte il termine per trovare una maggioranza. I partiti religiosi si sfilano senza l’esenzione dalla leva per i giovani delle yeshiva
di Fabio Scuto


Sono trascorsi meno di 50 giorni dalla notte delle elezioni, quando un trionfante Benjamin Netanyahu salì sul palco a Tel Aviv per celebrare la sua ennesima vittoria, mentre in molti lo davano per spacciato. Lunedì notte, quando si è presentato alla Knesset per incontrare i suoi fedelissimi, appariva un uomo umiliato e disperato, che lotta per difendere la sua sopravvivenza.
Con una manciata di ore alla scadenza della mezzanotte di oggi, il primo ministro Netanyahu non riesce a formare un nuovo governo. Per tenere unita una maggioranza di sette diversi partiti ha dovuto fare molte promesse in campagna elettorale, spesso anche in contrasto fra loro. Ma l’importante in aprile era vincere contro i centristi e il partito dei Generali – Kahol Lavan – e far votare immediatamente alla nuova Knesset una legge che gli desse l’immunità di fronte ai 3 diversi processi che dovrà affrontare nei prossimi mesi.
Le cose si sono sviluppate diversamente, e ieri Netanyahu ha ottenuto l’ok dal suo partito di presentarsi ad elezioni anticipate assieme al partito centrista Kulanu del ministro delle finanze Moshe Kahlon. “La cooperazione passata – ha affermato – ci ha consentito di aver la meglio sui media e sulla sinistra. Andiamo assieme, e vinceremo”. Avigdor Lieberman leader del partito nazionalista Yisrael Beitenu, non ci sta infatti all’alleanza e i suoi 5 deputati sono fondamentali per raggiungere la maggioranza. Non entrerà nel governo se non farà parte del programma la riforma del servizio militare per i ragazzi religiosi delle yeshiva, delle scuole talmudiche. Provvedimento apertamente osteggiato dai 3 partiti religiosi della maggioranza. Per evitare che il presidente Reuven Rivlin dia l’incarico a un altro leader politico, il Likud ha fatto approvare lunedì notte in prima lettura un provvedimento per lo scioglimento della Knesset e la convocazione di elezioni il 17 settembre. Il testo deve passare ancora in seconda e terza lettura, ma ciò potrebbe avvenire anche in poche ore. Lieberman continua ad insistere di ritenere Netanyahu l’unico premier possibile, ma dice anche che, se non si troverà un accordo sulla leva, è meglio andare ad elezioni anticipate. Le ragioni per cui Lieberman ha deciso di far fuori il suo vecchio capo – iniziò la sua carriera come assistente volontario di Netanyahu 30 anni fa – sono complesse. Lieberman, – in passato sfuggito ad accuse di riciclaggio e frode – non è un difensore dello stato di diritto o dei valori democratici liberali. Ma secondo i suoi calcoli il tempo per Netanyahu sta per scadere e se vuole salvarsi questo è il momento di saltare dalla nave. E lo sta facendo con molta attenzione, scegliendo una questione di principio – la legge che impone anche agli studenti ultra-ortodossi delle scuole talmudiche il servizio militare – come la questione su cui rompere con Netanyahu.
Lieberman ha il più acuto istinto politico nella Knesset. E ha concluso che anche se Netanyahu riuscisse a formare una coalizione di governo, e forse persino a far approvare una qualche forma di legge sull’immunità, alla fine cadrà. L’accusa lo costringerà ad abbandonare il mandato e affrontare il tribunale nel 2020. Con Netanyahu fuorigioco, ci sarà un “liberi tutti” nella destra israeliana, dove non c’è nessun chiaro successore. Naftali Bennett il leader dei coloni con il suo nuovo partito, Hayamin Hehadash, non ha superato la soglia elettorale. Due settimane fa, Gideon Sa’ar del Likud ha fatto il suo primo tentativo di leadership quando ha parlato contro la legge di immunità proposta da Netanyahu. Lieberman si sente in vantaggio e sta facendo la sua mossa. È sempre possibile una riconciliazione dell’ultimo minuto se Lieberman, otterrà tutto ciò che richiede. Appare però assai improbabile. In questo caso, Netanyahu sarà più vulnerabile e esposto agli “appetiti” dei suoi alleati ma avrà ancora la sua maggioranza e sarà premier. Viste le premesse, il suo quinto governo potrebbe avere però un’aspettativa di vita breve.
Un altro scenario, che appare molto probabile, è che il piano di Netanyahu per dissolvere la Knesset, già depositati tre disegni di legge, passi. Per legge, se Netanyahu non riesce a formare una coalizione entro stasera, il presidente Rivlin può riavviare le consultazioni e conferire a un altro parlamentare il mandato di governo. Sciogliere la Knesset e convocare elezioni è l’unico modo per prevenirlo. Perché Netanyahu è terrorizzato dalla prospettiva che qualcun altro possa diventare primo ministro. Per questo ha bisogno che la maggioranza della Knesset voti per sciogliersi entro la mezzanotte di oggi per poi tornare al voto e sperare in un altro miracolo elettorale. Una mossa disperata per invertire un destino segnato.

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martedì 28 maggio 2019

LA SINISTRA ERETICA: IL SAGGIO DI GALLI E PATRIGNANI RIPENSA IL SOCIALISMO
Pubblicato 24/04/2019
Costanza Ognibeni su Alganews.it


Campeggiano su una copertina bianca di formato 12×17 le foto dei due politici intorno a cui si dipanano le considerazioni di questo interessante libretto. Entrambe in bianco e nero, sono posizionate come piccole tessere attaccate su di una bacheca. E, a cappello, un titolo, breve quanto eloquente, che sintetizza in due parole l’intera riflessione che il professor Giorgio Galli e il giornalista Carlo Patrignani sviluppano nelle pagine interne: “La sinistra eretica”.
Appartengono a Riccardo Lombardi e Yanis Varoufakis i due volti protagonisti, ed è sulla scia delle loro vicende che, pagina dopo pagina, il politologo e il giornalista snodano il loro pensiero, accompagnando il lettore in un percorso che mostra un insolito ma inevitabile parallelismo tra le due personalità, vissute in epoche storiche diverse quanto lontane, ma estremamente vicine per gli eventi di cui sono state protagoniste e le soluzioni che hanno avanzato. Diversi ma uguali per le reazioni, per le prese di posizione, per il rifiuto di scendere a compromessi. E per la capacità di cogliere quello che viene definito il “male oscuro” della sinistra; un fardello che da sempre grava sulle sue spalle, e destinato a rimanere tale fintanto che non viene riconosciuto. Un male oscuro, per dirla con le parole del professor Galli, che ha portato la sinistra a fallire più volte nella storia e che si estrinseca in due aspetti: uno legato al mancato ruolo della classe operaia da cui Marx si aspettava un comportamento rivoluzionario, che avrebbe dovuto portare all’abbattimento del capitalismo prima e all’instaurazione di un nuovo modo di produzione poi; l’altro, di dimensioni più ampie, si colloca a livello psico-antropologico ed è ben chiarito nell’opera dello psichiatra Massimo Fagioli, per il quale la sinistra è destinata a fallire fintanto che non va alla ricerca di una nuova socialità legata al rapporto interumano. È il “lato oscuro” nel quale esponenti di ogni epoca sono sempre incappati e scivolati perché fintanto che limitavano la loro azione alla ricerca della soddisfazione dei bisogni, erano destinati a rimanere secondi rispetto a una destra solida in questo genere di battaglie. Ma c’è un elemento, un dettaglio, che la sinistra ha provato a cogliere e si è sempre vista sfuggire di mano: Marx nella lettera al padre l’aveva chiamata “la perla delle perle”, lo psichiatra, ricorda Patrignani, la chiama “Fantasia di sparizione”, ed è quella ricerca mirata a cambiare gli esseri umani, non il mondo, attraverso il riconoscimento di un’uguaglianza alla nascita destinata a diventare specificità nel momento in cui ognuno sviluppa la propria identità. È una battaglia, questa, dove il male oscuro della sinistra si esprime nel non aver mai compreso che a far da contraltare a una destra che propone la soddisfazione dei bisogni fine a se stessa, è necessaria una sinistra che proponga una altrettanto efficace azione di ricerca di benessere, ma con un fine specifico: la liberazione dai bisogni per potersi finalmente occupare delle esigenze, che sono specifiche e diverse per ognuno. Il riconoscimento di un’uguaglianza di fronte al rapporto con la natura che si accompagni al riconoscimento di una profonda differenza tra l’uno e l’altro per tutto ciò che rapporto con la natura non è.
Concetti importanti, concetti fondamentali, racchiusi in questo piccolo ma prezioso saggio edito da Biblion International Monographs, sviluppati, dicevamo, attraverso una sapiente digressione che crea un parallelismo tra un Riccardo Lombardi che negli anni 60 propone una svolta socialista – successivamente fallita – e l’attuale ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis che dopo aver rifiutato il compromesso con la Troika si dimette da ministro e crea un movimento paneuropeo, divenuto in seguito transfrontaliero democratico, con l’obiettivo di raccogliere tutte le sinistre del mondo attorno a una Internazionale Progressista organizzata assieme al compagno Bernie Sanders con l’obiettivo di combattere le tecnocrazie mondiali e i populisti che ogni giorno guadagnano sempre più terreno.
Un interessante excursus sul socialismo in Europa; sui suoi fallimenti, ma anche sulle sue speranze, con un’originale chiave interpretativa dei fatti che pone luce su considerazioni che potrebbero trasformarsi nelle fondamenta di un nuovo manifesto.
Con un linguaggio scorrevole e colloquiale, professore e giornalista, senza mai ergersi sul piedistallo del divulgatore, si siedono accanto al lettore e, pagina dopo pagina, lo accompagnano in un percorso alla fine del quale, arricchito di nuovi pensieri e spunti di riflessione, egli si renderà conto di non essere la stessa persona che aveva iniziato a leggerlo.

DAL NEOLIBERISMO AL GREEN NEW DEAL. DUE INCONTRI INTERESSANTI
Pubblicato 26/05/2019
Costanza Ognibeni su Alganews.it


Stimolanti, accesi e ricchi di spunti di ricerca: hanno avuto luogo a una sola settimana l’uno dall’altro la presentazione del libro scritto a quattro mani da Carlo Patrignani e dal professor Giorgio Galli “La sinistra eretica, da Lombardi a Varoufakis per il futuro dell’Europa” e il convegno “Negazione della naturale socialità umana. Il Neoliberismo”, due interessanti dibattiti tenuti insieme dal sottile filo rosso che è la messa in crisi di quei sistemi economici e sociali che ci vengono quotidianamente proposti come “unica via possibile”. Milano e Roma le roccheforti di questa ormai inarrestabile forma di resistenza; la libreria Odradek e Palazzo Merulana, le strutture all’interno delle quali si sono effettivamente svolti gli incontri.
Sono stati molteplici i temi emersi, ma la vera sorpresa, forse ancora di più dell’originalità delle tematiche e del modo in cui sono state affrontate, è stata la calorosa partecipazione da parte del pubblico, laddove per “calorosa” non si vuole intendere un pubblico forzatamente attento e consenziente, ma, anzi, sempre pronto a porre domande per capire meglio, dissentire quando in disaccordo, polemizzare laddove si creavano divergenze. E non è facile, in effetti, lasciarsi alle spalle modelli culturali tenuti in piedi da intere generazioni, per abbracciare tout court un pensiero innovativo che narra di una nuova antropologia possibile che si lega a un sistema economico non più basato sulla dinamica “mors tua, vita mea”, ma in grado di proporne una nuova, dove il paradigma “vita tua, vita mea” senza morire di fame e di freddo si pone come possibile alternativa. E non sono poeti sognatori o romantici artisti a parlarci di questa possibile terza via, in pieno contrasto con le teorie economiche neoclassiche, ma in grado di andare anche oltre il modello marxista, bensì fior di economisti, dal celebre Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze greco, ad Andrea Ventura, docente all’università degli studi di Firenze e autore del saggio “Il flagello del Neoliberismo”. E se il primo, dopo aver lasciato la poltrona di ministro, ha fondato un suo movimento, Diem25, la cui coordinatrice di Milano Francesca Lacaita era presente alla libreria Odradek, partecipe e pronta nel rispondere ai numerosi quesiti sul “Green new deal”; il secondo, dopo aver pubblicato il suo saggio, si è posto come un vero e proprio “clericus vagans”, in grado di spiegare e argomentare con semplicità e un linguaggio assai lontano dall’inaccessibile astrattezza degli accademici del suo ramo, le falle di un sistema fondato su un modello antropologico sostanzialmente anti-sociale, quello dell’ “Homo economicus”. Un modello che fa riferimento a un individuo per natura isolato ed egoista, che pensa al proprio profitto senza tener conto del legame che ha con gli altri; un individuo, quindi, sostanzialmente distruttivo che diventa costruttivo soltanto nel momento in cui deve pensare a fare soldi. Un paradigma che sembra non avere ancora una risposta a livello politico, poiché il sistema capitalistico, basato sulle teorie neoliberiste, ha inglobato nel suo modo di pensare anche i partiti socialisti e socialdemocratici, storicamente portatori delle istanze popolari. Un fenomeno, questo, che aveva ben intuito Riccardo Lombardi negli anni 60, quando il capitalismo da manifatturiero si stava trasformando in finanziario, e si era per questo scontrato con il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Un episodio ben chiarito dal professor Giorgio Galli, presente in veste di autore alla libreria Odradek insieme a Carlo Patrignani, il quale, oltre ad accompagnare le riflessioni del professore con dissertazioni storiche e politiche che mantenevano alto il livello del dibattito, nel menzionare la lettera di dimissioni scritta da Varoufakis in quella fatidica notte di Luglio del 2015 e pubblicata nel suo libro “Adults in the room”, offre alla discussione un’inevitabile sterzata con cui propone un ulteriore passaggio di livello, necessario se si vuole proporre un’alternativa al suddetto modello di “Homo economicus”. L’autore, nel sottolineare l’umanità di Varoufakis, che dopo aver lasciato la poltrona pensa immediatamente alla figlia Xenia a cui finalmente riesce a dedicare il tempo che non era riuscito a darle, ricorda che contrariamente a quanto le teorie neoclassiche vogliono farci credere, gli esseri umani nascono uguali e naturalmente propensi al rapporto interumano. Il bambino, pertanto, non nasce distruttivo ed individualista, non è un “homo economicus” in potenza, portato a massimizzare il proprio profitto a discapito degli altri, ma, anzi, è per natura un essere sociale, pertanto naturalmente in grado di coltivare rapporti costruttivi, laddove la società, a sua volta, sia in grado di soddisfare sì i suoi bisogni, ma anche le sue esigenze, che vanno dalla socialità, allo studio; dalla conoscenza al confronto.

neritanfucio@alice.it

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Repubblica
Il caso
Da Bonino alla Sinistra: due milioni di voti senza quorum
di Silvio Buzzanca


ROMA — I numeri sono brutali: +Europa si ferma al 3,09% con 822. 764 voti. I Verdi restano inchiodati al 2,29% con 609.688 voti. La Sinistra di voti ne prende 465.092, l’1,74%. Tutti ampiamente sotto la soglia di sbarramento del 4%. Quasi due milioni di voti, 1.897.534, che non servono a nulla, non eleggono nessuno, non fermano nessuno.
Quelli del Pd prendono la calcolatrice, guardano il display e si rammaricano. «Se aggiungiamo +Europa, la Sinistra il campo del centrosinistra sfiora il 30%, quindi siamo in un’ottica bipolare», spiega Roberto Morassut.
Ma le alleanze non le hanno fatte prime delle elezioni Europee e non è detto che le faranno un domani. E con questi elettori il richiamo al “voto utile” non funziona.
«Abbiamo fatto questa scelta semplicemente perché non siamo del Pd, non avevamo nessun interesse a fare gli indipendenti di sinistra nel Pd. dice a muso duro Emma Bonino.
Ma lei e +Europa hanno detto no all’accordo con i Verdi. Troppe differenze su Tav, Tap, grandi opere e si sono alleati con la lista civica di Federico Pizzarotti. Che per abbracciare Della Vedova, Bonino e Tabacci ha rotto il patto con i Verdi. Gli ecologisti, rimasti soli, allora avevano ripiegato su Pippo Civati e Possibile. Ma l’intesa si è rotta a pochi giorni dal voto.
Insomma, grande confusione sotto il cielo. E +Europa non ha ripetuto gli ottimi risultati ottenuti dagli altri partiti dell’Alde in Europa. Non parliamo poi del boom dei Verdi continentali che nello Stivale si è sentito, ma non visto.
A sinistra, questa volta avevano fatto uno sforzo. Sinistra Italiana e Rifondazione comunista e altri gruppi si erano messi sotto lo stesso simbolo continentale di La Sinistra. Un fallimento. Luigi De Magistris è stato alla larga e Potere al popolo non ha partecipato. E oggi la loro leader Viola Carofalo liquida tutte gli appelli a riunirsi e ripartire: «Questa cosa dell’unità della Sinistra è una cazzata».
L’altro grande sconfitto – coi 5Stelle – delle Europee è la cosiddetta sinistra radicale. E questa non è certo una novità, perché dalla “Sinistra Arcobaleno” in giù è sempre stato un pianto. Eppure non imparano mai. Ormai i social servono più che altro come balconcino per qualche para-intellettuale “de sinistra”. Mentre le Murgia e altri geni spelacchiati gridavano al fascismo & nazismo, indignandosi già che c’erano pure sulla Nutella, Salvini riempiva le piazze e collezionava consensi. È la differenza tra Paese reale e seghe mentali, baby. Da mesi gli intellettuali engagé ci smerigliano le gonadi sull’imminente apocalisse. Yeown. Vivono sui social, criticano pensosamente ogni ruttino del “Capitano”, scrivono libri che si leggono da soli e – tra un appello e l’altro pro-Cesare Battisti – si autoproclamano “intellettuali”. Quarta Repubblica ha di recente mostrato uno spaccato emblematico della autoreferenzialità cara alla sinistra dura e pura. C’era la Murgia, in un soffitto poco frequentato di una libreria, che presentava una sua pubblicazione. A un certo punto, con aria compiaciuta, Ella ha detto in soldoni che “Ieri c’era Pasolini e oggi noi”. E già qui son partite le ambulanze. Purtroppo però Ella è andata pure avanti: “Finalmente noi intellettuali siamo tornati a parlarci”. Finalmente, sì: proprio non ci dormivo la notte. Gran finale: “Abbiamo anche una chat su whatsapp dove ci confrontiamo”. Dagli Scritti corsari alle chat su whatsapp: son soddisfazioni. Ora: questi allegri (neanche tanto: “indossano” tutti quello sguardo funereo di chi la sera preferisce al sesso le paratattiche di Marcuse) intellettuali in mancanza di prove ci avevano dettato la linea. Niente Lega, che son scimmioni nazisti. Niente 5 Stelle, che son coglioni fiancheggiatori. Niente Pd, o meglio “facciamo finta che noi siamo alternativi”, perché la cosiddetta sinistra radicale (tranne Rizzo e i desaparecidos di Potere al Popolo) si è poi alleata al Pd. Dall’esito di tale onda rossa si sarebbe alfin soppesata la portata quantitativa di questi Casarini convinti d’esser Gobetti. E sia. Nelle realtà-simbolo dell’accoglienza, Lampedusa e Riace, Salvini ha preso 45% e 30%. Tutti emuli di Himmler? Astensione al 44%, e tanti son proprio di sinistra. Bonino & Pizzarotti, che volendo fan brodo proletario anche loro: 3,09%. Oltre ogni marginalità immaginabile, nonostante appelli, digiuni e altre frignatine a favor di telecamera. Europa Verde (?), dal quale Civati – un altro col tocco magico – è sceso un attimo prima dello schianto: 2,29%. Quindi “La Sinistra”, con queste maiuscole goffamente altisonanti e con dentro pure la mai anacronistica Rifondazione comunista. C’erano stati gli appelli di Mannoia & Marescotti. C’erano state le tirate acritiche pro-Ong. E c’erano stati i tweet dei soliti intellettuali “wuminghioni”, pronti a dirci che Salvini è Farinacci.
A sentir loro, le masse avrebbero sgomitato a milioni per tributare all’onnipresente mediatico Fratoianni il sacro ruolo di nuovo Marx. II risultato? Uno stiticissimo 1.7%. Dopo una batosta così, certi “scrittori” e certi “politici” dovrebbero – come minimo – domandarsi se abbiano o no il polso della situazione. Non lo faranno: dall’alto della loro smisurata evanescenza bolsa, continueranno a trattare chi non la pensa come loro da minorati. Ah: se si fossero presentati insieme, Europa Verde, La Sinistra e Rizzo avrebbero (di poco) superato lo sbarramento. Ma – da sempre – preferiscono correre da soli per giocare a chi ce l’ha più lungo. Cioè più corto. Protetti e benedetti dai peggiori “intellettuali” della galassia.

Corriere 28
La collana
Oggi in edicola il secondo titolo sui regimi totalitari: magia e fanatismo visti da Giorgio Galli
Hitler, un dittatore superstizioso
I segreti iniziatici del Terzo Reich
di Pier Luigi Vercesi


Non sono mai state chiarite le ragioni del volo di Hess in Gran Bretagna
Il nazismo univa l’efficienza moderna a un bizzarro versante esoterico
Il 10 maggio 1941 avvenne l’episodio più misterioso della Seconda guerra mondiale. Ancor più inspiegabile perché chi poteva chiarirlo, e non lo fece, sopravvisse a quella data per mezzo secolo, isolato nella cella in cui venne rinchiuso dopo il processo di Norimberga e, nel 1987, all’età di 93 anni, senza più forza fisica, riuscì (curiosamente) a togliersi la vita strangolandosi con un cavo elettrico nel carcere di Spandau, a Berlino, la città dove tutto era cominciato.
Rudolf Hess, protagonista della vicenda, era l’uomo a cui Hitler dettò, nel carcere di Landsberg, il Mein Kampf e il terzo nel grado di successione alla guida del Terzo Reich. Quella mattina di maggio, poco prima dell’operazione Barbarossa, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, decollò in gran segreto dall’aeroporto di Augusta a bordo di un Messerschmitt 110 per raggiungere il Sud della Scozia. Riuscì — si disse grazie alla nebbia — a ingannare la contraerea britannica e, dopo alcune ore, si lanciò con il paracadute. Atterrò a circa dieci miglia dal luogo previsto, la residenza del duca di Hamilton. Al contadino che lo vide planare dal cielo fornì una falsa identità e chiese di essere condotto dal duca in quanto latore di un importante messaggio. Giustamente sospettoso, chi lo soccorse lo consegnò a Scotland Yard, alla quale svelò la sua vera identità.
Winston Churchill si rifiutò di incontrarlo e lo fece interrogare da un suo inviato, sir Ivone Kirkpatrick. Hess sostenne di poter negoziare, per conto della Germania, la pace, in una sorta di spartizione del mondo tra tedeschi e inglesi (le due razze elette). In cambio, Londra avrebbe lasciato mano libera a Hitler nella sua impresa di «purgare» il mondo dal demone bolscevico. La proposta venne respinta per la determinazione del premier britannico, anche se ambienti aristocratici vicini alla corona propendevano per intavolare una trattativa. O, almeno, così fecero credere a Hess e alla sua cerchia di fanatici, la cosiddetta «svastica magica», che aveva rapporti con circoli esoterici britannici collegati a quel che restava del circolo per iniziati The Hermetic Order of the Golden Dawn (Alba dorata).
Il tentativo
Forse il Führer affidò
al suo compagno fedele della prima ora
una missione riservata
A queste conclusioni giunse, trent’anni fa esatti, lo studioso di dottrine politiche Giorgio Galli nel saggio Hitler e il nazismo magico, che sollevò infinite discussioni, riproposto in edicola oggi, con un’ampia prefazione scritta molti anni dopo, assieme al «Corriere della Sera». Gli storici, all’inizio, giudicarono stravaganti le tesi di Galli, peraltro considerato accademico rigoroso e tutt’altro che propenso ad avventurismi revisionistici. Ma con l’andar del tempo, l’idea centrale del libro, vale a dire che la comprensione delle follie naziste non può prescindere dallo studio dell’ambiente esoterico dal quale il partito prese le mosse, è diventata sempre più materia di ricerca.
Quando Hitler decise di trasformare la sua setta in un movimento di massa per dare l’assalto al potere, prese apparentemente le distanze dai «maghi» (iniziati, astrologi, preveggenti e ciarlatani) ai quali, fino ad allora, aveva fatto riferimento. Da quel momento il nazismo continuò la sua avventura su due livelli, quello razionalmente folle, rappresentato da Göring e Goebbels, e quello imbevuto di dottrine esoteriche, coltivato da Hess ma anche da Himmler. Hitler, apparentemente distante dalla svastica magica, ne era influenzato nelle decisioni attraverso il suo compagno della prima ora.
Nel 1943
Alcuni sensitivi furono utilizzati per scoprire dove era detenuto
il Duce dopo l’arresto
Quando si seppe del volo di Hess, il Führer si mostrò indispettito, ma sei giorni prima, dopo aver parlato al Reichstag, si era intrattenuto da solo per circa mezz’ora con Hess. La tesi di Galli, ormai accettata da molta storiografia, è che Hess stesse compiendo una missione in nome di Hitler senza esporlo alle conseguenze di un fallimento. A Norimberga, Hess si limitò a dichiarare: «Sono felice ed orgoglioso di aver fatto il mio dovere come tedesco, come nazionalsocialista, come fedele al Führer… Poco m’importa di ciò che possono farmi gli uomini. Comparirò davanti all’Onnipotente. È a lui che debbo rendere conto, e so che mi assolverà». Parole di un invasato fedele al capo che gli aveva affidato una missione disperata.
Dopo il volo di Hess, la pletora di esoteristi vicini al partito venne arrestata, salvo richiamarla in servizio alla fine del luglio 1943, quando Mussolini, defenestrato dal Gran Consiglio con l’ordine del giorno Grandi, venne fatto arrestare da Vittorio Emanuele III. Hitler ordinò a Himmler di trovarlo e liberarlo. Walter Schellenberg, capo dell’ufficio esteri della polizia di sicurezza e stretto collaboratore di Himmler, raccontò che, brancolando nel buio, il suo superiore si rivolse ai «maghi»: «Liberò alcuni rappresentanti delle scienze occulte arrestati dopo la fuga di Hess in Inghilterra e li chiuse tutti insieme in una villa sul Wannsee. Veggenti, astrologi e radiestesisti ebbero l’ordine di tirar fuori dal cappello il Duce scomparso. Dopo un po’, un maestro del pensiero annunciò che Mussolini si trovava su un’isola a Ovest di Napoli. Effettivamente il Duce era stato portato, in un primo momento, a Ponza».

Corriere 28.5.19
Il nuovo volume della rassegna
La passione per l’occultismo nei cultori della svastica

Il libro di Giorgio Galli Hitler e il nazismo magico, in edicola oggi con il «Corriere della Sera» e «La Gazzetta dello Sport», è la seconda uscita della serie «Dittature e totalitarismi nella storia». Si tratta di un’indagine sul versante esoterico del movimento e del regime che segnarono in modo tragico la storia della Germania e dell’intera Europa.
Il volume è in vendita al prezzo di e 8,90 più il costo del quotidiano, come tutti gli altri che compongono la collana (nel grafico le prime dodici uscite). L’iniziativa, realizzata in collaborazione con Bur Rizzoli, intende offrire ai lettori un ampio panorama dei regimi che, nel corso del XX secolo, hanno realizzato una nuova forma di oppressione, più completa e moderna rispetto agli assolutismi del passato, attraverso la mobilitazione delle masse e l’imposizione di ideologie che sono diventate autentiche religioni profane di Stato. Da questo punto di vista la Germania nazista rappresenta forse l’esempio estremo, per la violenza della repressione, l’applicazione di una rigida legislazione razziale, il vasto consenso popolare, la straordinaria aggressività sullo scenario internazionale, l’enormità dei crimini compiuti su persone inermi e innocenti. Un terribile quadro d’insieme, in cui lo studio di Giorgio Galli inserisce un altro fattore, legato alla credenza nell’azione di entità occulte.
Il prossimo volume della serie è dedicato invece al fondatore del bolscevismo e del regime sovietico. Si tratta di Lenin di Victor Sebestyen, in edicola dal 4 giugno. Seguiranno: La guerra civile spagnola di Antony Beevor (11 giugno); Fidel Castro di Serge Raffy (18 giugno). (j. ch.)

Repubblica 28
Da Riace a Lampedusa la caduta dei simboli dell’accoglienza
Trionfo leghista a Europee e comunali: Lucano fuori dal consiglio E nella capitale degli sbarchi il partito di Salvini vola al 45 per cento
di Alessia Candito


RIACE — Clacson, applausi, trombette da stadio. Un bacio ai santi patroni Cosma e Damiano poi giù alla Marina a festeggiare. Inizia con una passeggiata che sembra quasi una processione e bottiglie di spumante stappate di fronte al Municipio, la nuova era di Riace. «Questa è la fine di un’epoca» si grida in piazza. Quella di Mimmo Lucano è finita. Male, malissimo.
L’onda nera della Lega ha travolto anche il borgo della Locride e il responso delle urne è stato netto. Il Carroccio vola oltre il 30% alle Europee, la lista trainata da molti dei suoi esponenti locali, “Riace rinasce” si prende il Comune con oltre il 40% dei voti e decide il nuovo sindaco, Luigi Trifoli. Lucano, candidato consigliere dopo tre mandati alla guida dell’amministrazione, nonostante le oltre 130 preferenze, rimane fuori dall’Assemblea. Per un solo voto, la sua lista “Il cielo sopra Riace” è terza, dopo quella del suo ex vicesindaco, Maurizio Cimino.
«Abbiamo già presentato ricorso, ci sono 4 voti che non ci sono stati riconosciuti » annunciano i suoi, che lo hanno raggiunto al bar della vicina Caulonia, diventato il suo quartier generale. Hanno volti scuri, increduli. Nessuno si aspettava la sconfitta. «E in ogni caso non così» mormorano.
La lista di Trifoli ha strappato la vittoria ancor prima della chiusura dello spoglio con oltre 140 voti di vantaggio. Un’enormità in un paese di poco più di mille anime e circa 800 votanti. Determinante è stato il voto della Marina, la contrada più popolosa e meno coinvolta nel “villaggio globale”. Di certo ha influito l’inchiesta che ha travolto il paese, spaventato molti e sconfortato tanti.
«Siamo una lista civica» non si stanca di ripetere il nuovo sindaco. Ma che a sostenerla ci fossero leghisti convinti, incluso il segretario locale Claudio Falchi, non è un segreto per nessuno. Ed anche Trifoli si lascia scappare: «Considerando che qui ha avuto molti voti, la Lega deve dimostrare di voler bene a Riace e fare in modo che possa avere finanziamenti ad hoc». E da domani «prima i diritti dei riacesi», negli ultimi anni — sostiene — trascurati da Lucano a favore dei migranti. Per il sistema di accoglienza che ha reso il borgo famoso nel mondo sembra il capolinea. «Ma si è ucciso da solo — puntualizza il nuovo sindaco — lo dice la procura».
Mimmo Lucano non è d’accordo. Lontano dai festeggiamenti chiassosi degli avversari, sembra il più tranquillo fra i suoi. «Ripartiamo da qui, da quello che siamo e siamo stati» li invoglia. Ricorda che l’accoglienza è iniziata per caso e nei primi anni ha camminato senza finanziamenti pubblici, né incarichi istituzionali a sostenerla, che c’è una Fondazione in grado di metterci fondi e intelligenze, e che la Riace di oggi è un simbolo mondiale, da difendere. Al nuovo sindaco fa gli auguri, ma promette opposizione e assicura «il mio impegno politico prosegue. Però voglio tornare una persona libera». Magari anche per questo non sembra dispiacergli troppo essere rimasto fuori dal consiglio comunale e si fa tentare dall’idea di una rinuncia, se il ricorso dovesse andare a buon fine. «Adesso non dovrei essere più così pericoloso, no?», sorride mesto. L’esilio gli pesa e sembra aver influito non poco anche sul risultato dei suoi. «Ma non può dipendere solo da questo. Si vedono dei tentativi di reagire — ragiona — ma c’è un’onda nera ed è innegabile». La stessa che sembra aver travolto anche Lampedusa. Nell’isola che è frontiera sud dell’Italia e dell’Europa, dove i porti sono ufficialmente chiusi ma gli sbarchi continuano, la Lega strappa il 45,85%. Neanche la candidatura del medico locale, Pietro Bartolo, riesce ad arginare il Carroccio. Pesa un’astensione quasi bulgara — oltre il 73% — e forse, denuncia il sindaco Totò Martello, il boicottaggio di parte del Pd locale. Da oggi però Lampedusa sembra più muro, che confine.
L’ex sindaco. Mimmo Lucano, 60 anni, al seggio elettorale FORTUNATO SERRANO’/AGF
Il nuovo primo cittadino Nella foto, Antonio Trifoli, 49 anni. Di professione vigile urbano, è il nuovo sindaco di Riace in provincia di Reggio Calabria
ANSA

Repubblica 28.5.19
Cina
Lo studente troppo marxista fatto sparire dal regime di Xi
Retate nel campus di Beida alla vigilia dell’anniversario di piazza Tiananmen
di Filippo Santelli


PECHINO — Il video è di febbraio. In piedi davanti alla telecamera, maglione a righe e voce che prova a non tremare, il 21enne Qiu Zhanxuan racconta di essere stato interrogato per 4 giorni dalla polizia, schiaffeggiato, minacciato di umiliazioni corporali, costretto ad ascoltare propaganda a tutto volume. «Se sparisco è per colpa loro», dice levando il pugno sinistro lo studente di Sociologia dell’Università di Pechino, leader di un gruppo di giovani troppo marxisti per questa Cina, “colpevoli” di chiedere più diritti per gli operai. Un mese fa, denunciano gli amici al Washington Post , Qiu è sparito davvero. E insieme a lui almeno una ventina di compagni di università e battaglia politica, tenuti agli arresti in casa o in località sconosciute anche ai familiari. Rastrellati durante 5 operazioni nel campus di Beida, la Harvard mandarina, l’università che forma l’élite cinese.
Troppo pericolosi per il Partito, in questi mesi di anniversari delicatissimi: i cento anni dal movimento nazionalista del 4 maggio, i trenta da Tiananmen, manca una settimana. Nella Cina moderna le proteste nascono sempre nei campus di Pechino, da cui gli studenti escono arrabbiati. Non deve più accadere, poco importa che la richiesta di Qiu e compagni non sia democrazia, bensì pura ortodossia operaista. Il ragazzo è arrivato a Beida nel 2016 grazie a una borsa di studio guadagnata vincendo le Olimpiadi di chimica. Gli sarebbe bastato studiare per assicurarsi un futuro scintillante. Ma le battaglie sociali erano parte di lui, con diversi familiari senza lavoro, scarti del grande balzo industriale cinese, così l’anno successivo Qiu è passato da Chimica a Sociologia e si è iscritto all’Associazione studenti marxisti, diventandone il leader. Lo scorso luglio, insieme a 50 studenti dei migliori atenei cinesi, ha raggiunto Shenzhen per supportare i lavoratori dell’azienda Jasic che chiedevano di fondare un sindacato autonomo. Una vicenda locale si è trasformata nello spauracchio del Partito. Arresti e minacce hanno convinto al silenzio alcuni ragazzi, ma altri hanno continuato anche dopo il rilascio. «Sono pronto a manifestare di nuovo», diceva a dicembre a Repubblica uno di loro, ora irrintracciabile. Sparito come Yue Xin, volto femminile del gruppo, combattiva neolaureata che con le sue denunce ha portato #MeToo in Cina. Come Qiu. La speranza è che, passato l’anniversario di Tiananmen, le autorità li rilascino. Ma lo faranno, sapendo che non si fermeranno? «Nei giorni che mi restano spero di continuare a combattere con i miei amici – dice il ragazzo nel video – ad avanzare insieme, ad arretrare insieme».
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Il movimento degli studenti Qiu Zhanxuan (nella foto col viso cerchiato), presidente della Marxist Society della Peking University, in una foto pubblicata dal Jasic Workers Support Group, un movimento studentesco di supporto agli operai
In difesa delle donne
Una manifestante a Jackson Square, nel quartiere francese di New Orleans, in Louisiana, il 25 maggio durante un sit-in di protesta contro l’Heartbeat Bill, la proposta di legge sul “battito cardiaco” che vuole vietare l’aborto dopo 6 settimane. La legge è già in vigore in alcuni Stati Usa: oggi verrà votata dal Parlamento della Louisiana

nella miscellanea qui
https://spogli.blogspot.com/2019/05/repubblica-il-caso-da-bonino-alla.html

lunedì 27 maggio 2019




L’Espresso 26.5.2019
E i cattolici si fanno strada...
l’Europa riparte da Danzica
Colloquio con Aleksandra Dulkiewicz
La memoria. L’accoglienza. La comunità. Nella città polacca simbolo della guerra mondiale la giovane sindaca costruisce l’alternativa ai nazionalismi
di Wlodek Goldkorn


L’Europa per me è il luogo dove le persone si incontrano e si guardano l’una negli occhi
dell’altra, per conoscersi e per cooperare nella costruzione di un avvenire. Nella mia Europa c’è spazio per tutte le diversità».
Aleksandra Dulkiewicz è da pochi mesi sindaco di Danzica («Mi raccomando, sindaco al maschile, così vogliono le regole della lingua polacca»). È stata eletta dopo l’assassinio di Pawel Adamowicz, che lei nel corso di questa conversazione continua a chiamare “signor sindaco”, oppure “il mio capo”. In una città densa di edifici sontuosi e che richiamano antica ricchezza e potenza, colpisce la sobrietà del suo studio. La stanza è piccola, arredata con una scrivania di dimensioni ridotte, un minuscolo tavolino da caffè e tre scomode poltrone. Dulkiewicz, 40enne, madre single, parla un polacco elegante, bello, scandisce le parole con lentezza, spesso si concede una pausa di riflessione, abbassa la testa, chiude gli occhi, sospira, cerca la frase giusta, conscia del fatto che l’uso della parola è una questione etica. Siamo andati a chiederle che fare per resistere all’ondata del populismo e all’ossessione identitaria sovranista. Il caso ha voluto che la conversazione ha avuto luogo alla vigilia delle elezioni europee decisive per il destino del Continente.
Dulkiewicz inizia con una premessa: «Sono passati appena quattro mesi dalla morte del mio sindaco. E solo ora comincio a capire le mie emozioni. Ma so qual è la mia idea della città. È una città dove ciascuno vive bene. E sottolineo: ciascuno».
Il giorno prima della nostra conversazione c’è stata qui a Danzica la festa delle diversità.
«Per me è questo il significato della parola solidarietà (che in polacco si dice solidarnosc, come il nome del movimento guidato negli anni Ottanta da Lech Walesa, ndr). Danzica è una città segnata dalla storia in un modo fortissimo. Qui è cominciata la Seconda guerra mondiale».
Danzica aveva lo status della città libera. Hitler la voleva annettere alla Germania. Il 1° settembre 1939, dalla nave Schleswig Hollstein ancorata nel porto, venne bombardata la postazione polacca su un lembo di terra chiamato Westerplatte. È l’inizio della catastrofe.
«E l’arrivo in Polonia dei totalitarismi. Con lo sciopero dell’agosto 1980, a Danzica siamo stati i primi a togliere il primissimo mattone del Muro di Berlino e abbiamo cambiato il mondo. Ora, abbiamo il dovere di tradurre il linguaggio di solidarietà in un idioma contemporaneo. E questo riguarda prima di tutto le azioni dal basso, nel quartiere, a livello municipale. È da lì che occorre cominciare».
Sta dicendo che il destino dell’Europa si è giocato qui. E allora cosa è per lei la memoria?
«La memoria è fondamentale. Ma non deve essere ridotta a cerimonie nelle scuole o all’issare le bandiere su alti pennoni. Le racconto una storia. Una ventina di anni fa, quando pochissimi volevano ricordarsi cosa sia successo qui, alle ore 4.45 del 1° settembre, e ho in mente l’episodio della nave che lei ha appena menzionato, per iniziativa del mio sindaco, abbiamo cominciato a organizzare commemorazioni dove c’erano i nostri boy scout assieme agli ultimi soldati polacchi difensori di Westerplatte ancora in vita, e qualcuno dei marinai tedeschi che avevano sparato su di loro».
Tutti insieme?
«La memoria serve alla riconciliazione. Danzica è sempre stata una città potente e ricca. E la sua potenza era frutto delle sue diversità, delle varie culture e fedi che hanno contribuito alla sua ricchezza. Certo, non sempre era una città tollerante e aperta. La storia è complessa, come è complessa la natura degli umani. Ma la memoria, la sua essenza, è stare dalla parte della verità e nella verità. Vorrei aggiungere una cosa».
Prego.
«I governanti della Polonia oggi, stanno facendo scempio della memoria e della verità, stanno facendo terra bruciata nelle relazioni, non facili, perché cariche di violenza e risentimenti, tra la Polonia e la Germania, tra Polonia e Israele, tra Polonia e Ucraina, tra Polonia e Lituania. Stanno distruggendo quello che è stato tessuto, con pazienza nella Polonia nuova, nata dopo il crollo del comunismo».
L’Europa cosa è?
«Permetta un ricordo personale. Il primo anno della nostra appartenenza all’Unione europea ho fatto l’anno di Erasmus a Salisburgo. Ecco, l’Europa è una comunità, di valori e delle radici».
Radici?
«Non come le declinano i populisti, ma radici classiche che risalgono alla Grecia e a Roma. Si tratta di un elemento esclusivo. L’abbiamo solo noi, in questo Continente. Poi ci sono le radici cristiane. I padri dell’Europa, persone sagge, Schuman, Adenauer, De Gasperi, erano cristiani che dopo la guerra hanno saputo trarre le conseguenze della tragedia appena conclusa. E così da oltre sette decenni viviamo in pace. Certo ci sono state cose terribili, la guerra nei Balcani, l’annessione della Crimea da parte della Russia. Ma da 70 anni non c’è stato un conflitto globale. Abbiamo trovato un modo per stare insieme. L’Europa per me significa inoltre: Stato di diritto, onestà, divisione dei poteri, indipendenza della magistratura. E sussidiarietà».
Sussidiarietà vuol dire costruire dal basso, lasciare alle comunità tutti i compiti possibili.
«È un’idea molto saggia. Ma bisogna metterla in atto. Sarebbe una società ideale».
Ha parlato di De Gasperi, Adenauer, Schuman. Tutti e tre venivano dalla periferia, da zone di confine. Per De Gasperi, da giovane, Vienna o Cracovia erano più vicine di Roma, Adenauer era più di casa in Francia che a Berlino. Esiste una mappa dell’Europa precedente alle due guerre mondiali, forse bisognerebbe far rivivere quella memoria.
«Torno all’idea che sta dietro al progetto Erasmus. Non esiste un’idea né una possibilità di cooperazione senza un incontro. Per fare cose insieme, banalmente, due persone devono incontrarsi. Lo sguardo l’uno negli occhi dell’altro, la stretta di mano, pongono fine ai conflitti. Lo sguardo l’uno negli occhi dell’altro è il contrario del tweet, è un contatto fisico. È una cosa semplice ed elementare, eppure abbiamo difficoltà di metterla in atto. Aggiungo: per me essere una provinciale, una di periferia è un motivo di vanto. Lo dico spesso ai miei amici di Varsavia che spendono il loro tempo negli studi tv. Io sto in mezzo alle persone».
Danzica non è periferia. Schopenhauer e Fahrenheit, per citare due personaggi illustri, sono nati qui e lei ha appena detto che la libertà polacca e la fine del totalitarismo in Europa nascono da queste parti.
«Secondo la narrazione dei nostri governanti, trent’anni fa, i negoziati tra Solidarnosc e i comunisti che portarono alle elezioni libere del 4 giugno, erano un tradimento. Il mio sindaco invece ci teneva moltissimo perché si celebrasse a Danzica il trentesimo compleanno della nostra libertà. Le trattative tra Solidarnosc e il potere comunista nel 1989 erano l’esempio di come guardarsi gli uni negli occhi degli altri. Il più grande successo della storia della Polonia è stato il fatto che abbiamo cambiato il Paese e il mondo senza l’uso della violenza, senza spargere una goccia di sangue. Per me il patriottismo è questo».
Lei è nata e cresciuta come cattolica. Qual è il rapporto tra fede e politica? In Polonia il governo è clericale. In Italia Salvini bacia il rosario nei comizi.
«Mi chiede quale debba essere a mio avviso il ruolo della Chiesa nella vita pubblica? Rispondo: nessuno. Sono membro della Chiesa cattolica romana e far parte di questa comunità è un elemento molto importante della mia identità. Nello specifico, mi trovo vicina alla Chiesa di Francesco. Abbiamo, nella nostra comunità cattolica romana, mille problemi».
Un documentario sulla pedofilia tra sacerdoti in Polonia, visto da milioni di persone in Rete, ha scosso la pubblica opinione polacca, anche per la vicinanza tra il potere e l’altare.
«Non è il tema della nostra conversazione. Comunque, tutta la mia solidarietà va alle vittime e tutto il mio appoggio ai sacerdoti che si adoperano per ripulire la Chiesa e rinnovarla».
Spesso parla del Bene. Ma cosa è il Bene?
«Non fare a un altro quello che non vuoi sia fatto a te. Ama il prossimo tuo come te stesso. Dobbiamo vivere la nostra quotidianità coerentemente con le idee e i valori che professiamo in pubblico. Quando parlo di una Danzica in cui ognuno si sente bene, quando racconto questo sogno, ho in mente, ripeto, una comunità di persone che si guardano negli occhi». Concretamente?
«L’economia, gli investimenti. Il lavoro dà dignità, soldi, permette di crescere i figli, dar loro un’educazione e un’istruzione. Tempo fa, abbiamo deciso, con il mio sindaco, di fornire trasporti pubblici gratuiti a bambini e ragazzi. Ci siamo detti: certo, è un provvedimento costoso. Ma con il nostro duro lavoro abbiamo reso, noi tutti gli abitanti di Danzica, la nostra città be- nestante. E quindi possiamo redistribuire la ricchezza. Però lo dobbiamo fare con saggezza, mantenendo un certo equilibrio. Nello stemma di Danzica c’è scritto in latino “Nec temere nec timide”, non temerariamente ma neanche timidamente».
Della memoria tedesca della città co sa vuol fare?
«In che senso memoria tedesca?».
In questa città fino alla Seconda guerra mondiale si parlava in tedesco.
«Ma in tedesco parlavano non solo i tedeschi. Lo parlavano gli abitanti di Danzica, i danzichesi. Senta. Oggi, dopo la caduta del comunismo, abbiamo la possibilità di parlare liberamente di queste cose. Io sono cresciuta in una famiglia che faceva parte dell’ambiente dell’opposizione democratica liberale, l’ambiente di Donald Tusk. Per noi erano importanti i libri di Günter Grass, che qui è nato. Lui raccontava una città prussiana, con tutte le diversità delle sua culture: la tedesca, la polacca, l’ebraica e via elencando. La complessità è una ricchezza».
Porti aperti?
«I porti non si chiudono. Punto. Danzica è stata la prima città in Polonia a introdurre la Carta dei diritti degli immigrati. E questo documento (così come la convenzione sulla parità dei diritti e che riguarda le persone gay e lesbiche) è una risposta alla sfida della modernità, e non una dichiarazione atta a cercare applausi di chi la pensa come me. Gli immigrati sono qui, qualunque cosa voglia il governo polacco o altri governi».
Abbiamo parlato del Bene non del Male. Resta la domanda: perché amiamo odiare?
«Molti mi chiedono se sia stata la narrazione dell’odio ad aver portato all’assassinio del sindaco Adamowicz. Non lo so. Non voglio semplificare. Sicuramente il linguaggio dell’odio, e il consenso della pubblica opinione e dei governanti a questo tipo di linguaggio, fa sì che oggi la gente si sente libera di dire qualsiasi cosa e di compiere azioni che dovrebbero suscitare lo sdegno di qualunque persona decente. In un paesino, alla viglia di Pasqua, in una cerimonia pubblica, è stato picchiato e bruciato il fantoccio di Giuda con le sembianze di un ebreo. E la procura non ne ha visto elementi di reato. Per tornare alla sua domanda. Non so se ci piace odiare, ma la natura degli umani è tale da voler avere risposte semplici a questioni complesse. E poi, il Bene è difficile perché bisogna fare lo sforzo di aprirsi all’Altro, mentre espellere l’Altro è facile, perché è gratuito».

L’Espresso 26.5.2019
Divisi nel nome di un’identità fasulla
di Donatella di Cesare


L’offensiva sferrata dalla destra e dall’estrema destra contro l’Europa dà un nuovo senso alle elezioni che avrebbero forse rischiato di essere considerate un vuoto rituale. Mai come oggi è chiaro che il destino dei popoli europei è in mano ai cittadini, chiamati a una scelta decisiva. Ecco perché queste elezioni non sono come le altre.
Sebbene molti sostengano l’irreversibilità dell’unificazione, per la prima volta l’avvenire di questo ambizioso progetto politico è incerto e oscuro. Implosione, scissione - o anche solo lento smembramento? Un’ultradestra aggressiva e senza scrupoli, capace di mimetizzarsi dietro una miriade di maschere, abile nel trarre profitto da tutte quelle difficoltà globali, effetto in gran parte delle politiche liberali, ha lanciato una sfida che dal dopoguerra non ha precedenti.
Proprio in Italia, dove governano i neofascisti della Lega coalizzati con i 5 Stelle, questa sfida è andata assumendo, a partire dal 2018, toni sempre più espliciti, irruenti, rissosi. D’altronde non è un mistero: il fronte sovranista, Bannon in testa, vede in questo paese il laboratorio che potrebbe preparare la svolta autoritaria. Così un regime apertamente razzista, che erode i diritti umani e intacca le libertà democratiche, finendo per violare impunemente la Costituzione, che non risolve nessun problema sociale, dalla precarietà alla corruzione, perché anzi da stallo e depressione trae alimento, potrebbe essere esportato altrove. In mancanza di definizioni politiche più precise - sovranismo, nazionalismo autoritario, neofascismo? - il nome di «Salvini» è diventato emblema di questo fenomeno che sconvolge lo scenario europeo.
Solo qualche mese fa la Brexit sembrava il modello da seguire per la politica delle nazioni contro «Bruxelles». Adesso le cose sono cambiate. Smarrita nel suo ottocentesco mito imperiale, l’Inghilterra non rappresenta più il sogno dell’uscita, bensì l’incubo di una fuga che minaccia di tradursi in autodistruzione. Il ritiro dall’Europa è un ritiro dalla Storia.
Che cosa vogliono allora i sovranisti? «Indietro tutta!» era solo uno slogan. Se la fuga regressiva è impraticabile, l’obiettivo tuttavia non cambia: promuovere la decomposizione dell’Europa, frantumata in nazionalismi economici, paralizzarne con veti e minacce le istituzioni, svuotarle del tutto. Il che consentirebbe di farne un semplice meccanismo di scambio dove, oltre ad un’eurozona forte accanto ad una debole, sarebbero tollerabili - o magari auspicabili - regimi politici illiberali e parademocratici. L’asse del nord-est, capeggiato dal gruppo di Visegrád (Ungheria, Polonia, Slovacchia), che raggruppa il governo italiano, quello austriaco, settori della destra tedesca, insieme ai molti partiti xenofobi, francese, svedese, olande- se, guida questo allarmante piano che intende alla fin fine disarmare la politica.
Che ne sarebbe allora dell’Europa, stretta fra America e Cina, ostaggio della Russia, in un contesto globale dove l’ultradestra va affermandosi anche oltreoceano - basti pensare al neofascista Bolsonaro in Brasile - mentre la sinistra si rivela ovunque stanca, scialba, irresoluta, inefficace? È questa la domanda che ciascuna cittadina e ciascun cittadino oggi devono porsi.
Se l’Europa è un progetto incompiuto, la responsabilità va attribuita alle classi dominanti che, anziché persegui- re una strategia unificatrice, hanno coltivato i propri interessi disputandosi per proprio conto il mercato mondiale. I patronati europei hanno imposto l’austerità, preteso il basso costo del lavoro, e hanno soprattutto smantellato poco per volta tutti i diritti conquistati dal movimento operaio, sostenendo che il «vecchio continente» fosse troppo sociale. Così queste élite economiche e tecnocratiche, che oggi strizzano l’occhio all’ultradestra, sono andate a conquistarsi fette del mercato infischiandosene dell’unità europea.
Nel disorientamento complessivo i partiti socialdemocratici hanno finito per assecondare in modo acritico le scelte neoliberiste. Ecco perché il progressismo non può essere oggi sbandierato come argine contro le forze populiste e neofasciste. Non meno inquietante è quella deriva sovranista che, quasi come in un ralenti degli anni Trenta, spinge parti della sinistra ad abbracciare il nazionalismo autoritario della destra.
L’alternativa all’orizzonte c’è ed è un’Europa democratica, internazionalista, anticapitalista, ecologista. È tempo di rovesciare la prospettiva e difendere l’idea sociali- sta della solidarietà europea. Non il ritorno alle frontiere nazionali, ma la rivendicazione di un’altra Europa, quella dei popoli, capace di riorganizzare l’economia, salvaguardare l’ambiente, difendere i migranti. La costruzione neoliberale è fallita dando luogo a esiti autoritari.
Per questo non è più possibile richiamarsi semplice- mente ai “padri fondatori”. Il mondo non è più quello di allora; il paesaggio attuale è radicalmente diverso e inediti sono i problemi da affrontare. È indispensabile, anzi, un nuovo progetto che, senza cadere nelle trappole giuridicocostituzionali, realizzi una nuova forma politica postnazionale. Forse questa crisi pretotalitaria sarà l’opportunità per rilanciare un’altra Europa. Le elezioni possono essere un primo passo.
La perdita d’orientamento non è casuale. Nel mito greco Europa è una giovane donna straniera, un’immigrata involontaria, rapita da Zeus e poi abbandonata sull’isola di Creta. Altre varianti della leggenda restano fedeli all’estraneità, per nascita e nome, di questa figura femminile. Lì si annuncia la sua futura vocazione. L’accoglienza è inscritta nella sua eccentricità. È questo che l’ha resa ben più che l’erede della tradizione greca. Molteplici sono le sue fonti e alcune - a cominciare da Gerusalemme - sono addirittura fuori dai suoi confini geopolitici. Così l’ha pensata la filosofia, a cui è intimamente legata. Non un luogo, non una terra, non un continente, ma la direzione del sole.
Questo orientamento si è perso da quando si è preteso che fosse “bianca e cristiana”, da quando l’Europa attuale è stata violentata, rapita e già abbandonata da economie predatorie e interessi nazionali. La gabbia di una fantomatica identità l’ha mutilata.
È molto europeo non sentirsi europei. Ed è un enorme privilegio che rischia di essere riconosciuto troppo tardi. La coabitazione con l’altro è quel che insegna sin dall’inizio quella giovane straniera, giunta suo malgrado su un’isola, abitante al confine, relegata al margine, madre dei diritti umani, che tutte e tutti dovremmo difendere.

L’Espresso 26.5.2019
Giustizia sociale e ambiente: appunti per un’agenda antisovranista
di Fabrizio Barca


Siamo a una biforcazione, in Italia e in tutto l’Occidente, in cui l’ansia e la rabbia di vaste parti di popolo possono alimentare una dinamica autoritaria involutiva - è già in corso - o possono trasformarsi in una nuova fase di emancipazione. A decidere sarà la capacità di costruire e attuare azioni pubbliche e collettive radicali che perseguano assieme giustizia sociale e giustizia ambientale. Solo convincendo “vaste parti di popolo” che questi due obiettivi possono essere raggiunti e che devono e possono esserlo assieme, torneremo indietro dal dirupo in cui stiamo cadendo. Questo è il tema centrale delle elezioni europee: si doveva convincere che l’Unione Europea, spronata da un’alleanza innovativa nel suo Parla- mento, possa cambiare rotta e dare un contributo decisivo in questa direzione. Con rare eccezioni, non è ciò che abbiamo ascoltato in queste settimane. L’arena politica è stata dominata da temi-truffa, come la favola che la vittoria dei nazionalismi allenterebbe le regole di bilancio - quando essa produrrebbe invece l’irrigidimento a-solidale e punitivo verso di noi - o promesse nostrane di “ordine” e “sanzioni” che servono a distrarre e coprire provvedimenti contro gli interessi popolari - come la redistribuzione di reddito ai ceti abbienti insito nella “flat tax”. Su questo campo di gioco è restato inchiodato il pubblico dibattito. I candidati che credono in un’Europa motore di pace e di emancipazione sociale avrebbero dovuto dirci con voce forte per quali obiettivi chiedevano il nostro voto. Su quali dossier costruiranno ponti con gli eletti di altri paesi.
Non mancano le analisi e le proposte a cui fare riferimento. Ne richiamo due, pronte all’uso. Il Documento Uguaglianza sostenibile redatto da una Commissione indipendente su iniziativa dell’Alleanza progressista di socialisti e democratici al Parlamento Europeo e il Rapporto 15 Proposte per la giustizia sociale, costruito dal Forum Disuguaglianze e Diversità (ForumDD).
La diagnosi dei due Rapporti è simile. L’origine dell’ansia e della rabbia sta nella gravità delle disuguaglianze: l’arresto e spesso la ripresa delle disuguaglianze di reddito, la violenta crescita delle disuguaglianze di ricchezza, i gravi divari territoriali nell’accesso a servizi fondamentali di qualità e al patrimonio comune, il venir meno per molti del riconoscimento dei propri valori e del proprio ruolo (i cittadini delle aree interne e di altre aree fragili, gli operai, gli insegnanti). In assenza di un riferimento politico e culturale convincente che apra uno scenario di emancipazione, la rabbia e il risentimento che discendono da queste ingiustizie si stanno traducendo in una “dinamica autoritaria”. E poiché i ceti deboli percepiscono spesso che le politiche ambientali sono in primo luogo pensate dai ceti forti per i ceti forti e sono finanziate prima di tutto a loro carico, di questa dinamica perversa fa par- te anche un’avversione alle politiche di sostenibilità ambientale, e un’implicita alleanza con le forze produttive legate a un modo di produrre insostenibile. Ecco perché giustizia ambientale e giustizia sociale hanno un comune desti- no. Perché l’una influenza l’altra: nelle nostre degradate periferie o nelle “aree fragili” l’assenza di mezzi diventa l’impossibilità di prendersi cura del territorio, mentre il degrado urbano diventa l’impoverimento delle opportunità economiche personali; assieme diventano erosione di identità. E comunque si avrà consenso popolare alla giustizia ambientale solo se la transizione energetica assicurerà di beneficiare prima di tutto i più vulnerabili.
E poi vengono le proposte concrete dei due Documenti, che mirano a redistribuire poteri, a modificare i meccanismi di formazione della ricchezza, a configurare un’Unione Europea rinnovata che lavori con i cittadini e per i cittadini.
La riallocazione di potere perseguita dalle proposte mira in primo luogo a ridare forza negoziale e di controllo al lavoro: promuovendo la partecipazione strategica dei lavoratori, riconoscendo al lavoro pseudo-autonomo diritti oggi negati, promuovendo il rafforzamento dei sindacati. E al tempo stesso si prefigge di dare potere ai cittadini nei processi attraverso cui, territorio per territorio, si disegnano i pubblici servizi, si ha cura delle persone, si tutela e si rende accessibile la ricchezza comune. Una delle 15 proposte del ForumDD, che ha fondamenti in esperienze europee, propone, poi, la costituzione dei Consigli del lavoro e della cittadinanza. Accanto ai Consigli di amministrazione di singole imprese o di sistemi territoriali d’impresa, si avrebbe un Consiglio che valuti in anticipo, e in alcuni casi abbia potere di veto, su decisioni strategiche e che sia composto da rap- presentanti eletti dai lavoratori (qualunque sia la natura del loro contratto) ed eletti dai cittadini che risentono del- le ricadute ambientali delle decisioni aziendali: un modo per ricercare prima la convergenza di obiettivi, anziché patire dopo del loro conflitto.
Molte proposte mirano a dare una for- ma diversa al capitalismo. C’è in questo obiettivo il rigetto di quell’assunto “non c’è alternativa” che ha dominato a lungo il pensiero occidentale, distorcendo l’azione pubblica. Le proposte avanzate vanno dalla promozione di forme di impresa (esistenti) che non soggiacciono all’imperativo unico della massimizzazione del “valore patrimoniale”, incorporando obiettivi sociali e ambientali, a un insieme di misure che blocchino l’elusione e l’evasione delle imposte sulle imprese. In particolare, poi, nelle 15 Proposte del ForumDD si propone di introdurre obiettivi e criteri di giustizia sociale e ambientale nel- la missione delle imprese pubbliche, nella valutazione delle Università, nel finanziamento pubblico della ricerca privata, negli appalti pubblici. Si pro- pone inoltre di partire dalla forte base delle 1000 infrastrutture di ricerca di base europee per costruire tre hub-tecnologici nell’innovazione e vendita dei prodotti che competano con le grandi
corporations private, nei campi demografico/salute, della transizione energetica e digitale. Si
propone infine di dare forza al movimento in atto, a partire da città come Barcellona o Amsterdam, per costruire piattaforme digitali a sovranità collettiva per i principali servizi urbani Infine, assieme a un gruppo di proposte espressamente dirette alla giustizia sociale, il Rapporto Uguaglianza Sostenibile avanza una proposta che serve a portare gli obiettivi sociali e ambientali dentro il meccanismo del “semestre europeo”, quello che indirizza i processi decisionali delle politiche di bilancio dei singoli Paesi membri. È un meccanismo dominato finora dall’obiettivo di evitare squilibri di bilancio. Nella proposta, a questo obiettivo si affianca con pari rango, un sistema di obiettivi ambientali e sociali codificato in un “Patto di sviluppo sostenibile multi-annuale”. Nell’istruire questo processo, oltre alla Direzione Affari economici e finanziari assumerebbero un ruolo le Direzioni competenti per quegli obiettivi, riportate finalmente su un piano di parità. In questo contesto, la politica di coesione diventa lo strumento per declinare la nuova politica europea sulla base delle esigenze dei singoli territori.
La nostra Unione ha bisogno di un forte rinnovamento e di persone decise ad attuarlo.

L’Espresso 26.5.2019
Jasmine
Con “Aladdin”, la Disney lancia il contrordine: basta principesse remissive, ora le ragazze conquistano la leadership. Come accade alle eroine della Marvel. Merito di una nuova generazione di creativi: donne
di Sabina Minardi


Che qualcosa non torni si intuisce subito: che fine hanno fatto il top turchese e i pantaloni in stile harem, iconografia inconfondibile, e a dire il vero già potenzialmente femminista, del classico dell’animazione Disney?
Nel mondo del live action dove Jasmine è catapultata, per il remake di “Aladdin” appena arrivato al cinema, una collezione di abiti mai vista prima - colori insoliti come il magenta; accostamenti arditi, l’arancio col verde malachite; tessuti costrittivi via via sempre più morbidi e meno claustrofobici, - racconta una metamorfosi ben più profonda di un semplice upgrade di guardaroba.
E poi lei, la protagonista, Naomi Scott: non è la stessa dei“ Power Rangers”, Pink power che contagia una nuova generazione di supereroi, e una delle intrepide “Charlie’s Angels”, in uscita a fine anno?
«Jasmine è sempre stata la mia principessa preferita: forza da combattente e spirito da leader. È una figura politica», esulta l’attrice nata a Londra, da madre di origine indiana e ugandese. «Come tutte noi ragazze di oggi, Jasmine è tante cose contemporaneamente: ciò che amo in lei è che può essere forte, ma può anche permettersi di piangere».
La rivoluzione è compiuta. Dopo anni di manovre di avvicinamento, principesse che si fingono uomini (Mulan), ribelli che sfidano le regole e le aspettative (Merida), baci di passione soppiantati dall’amore insostituibile tra sorelle (Elsa e Anna), e figure sempre più indipendenti (Vaiana che affronta il mare in solitaria, la bibliofila Belle, che sa vedere oltre le apparenze della Bestia), è finalmente arrivata la principessa-sultano. La fanciulla che non ha bisogno di sposare Aladino per ottenere il regno del padre, come l’originaria principessa era costretta a fare. Semmai che l’amato Aladino sostiene, e accompagna - in un ulteriore, rivoluzionario, cambio di passo - perché ottenga ciò che le spetta: per eredità, ma soprattutto per la sua spiccata leadership.
Hanno coniato una parola per raccontare il contrordine di Disney rispetto a un immaginario di principesse sognanti e remissive: “feminisney”. Un fenomeno visibile ormai da qualche anno, anche nella scelta degli interpreti, appunto: vedi il ruolo di Belle ne “La Bella e la Bestia” affidato a Emma Watson, ex Hermione di Harry Potter ora convinta femminista e icona di impegno per la parità di genere (“Le principesse sono cambiate” è il titolo della sua biografia, edita da Piemme). E i colpi di scena, sparsi qua e là a sorpresa, hanno ribadito il concetto: come il pigiama party in “Ralph Spacca Internet”: un intero pantheon di principesse stravaccate su pouf e vestite nel modo più comodo possibile, sneaker, canotte e felpe, e patatine e frappè in mano, come ragazzine comuni in vena di ore piccole fuori casa.
Ma l’effetto, in questo ultimo capitolo, immerso in un Medio Oriente da Mille e una notte accuratamente liberato dai cliché, è dirompente per gli immaginari globali: Jasmine, la principessa che vuole il regno, perché lo conosce più di tutti; che ama il po- polo e intende colmare la distanza che si è creata col sultano; che ha studiato per diventare capo, e si merita il trono ben più della parata di banali pretendenti che sfilano all’inizio del film (la questione sta per esplodere: goffi, insignificanti, rozzi: non sarà nociva ai maschi una rappresentazione simile?), ha una voce nuova, convincente, carismatica, autorevole. E tutta sua, letteralmente: non si era mai vista una principessa esalta- re la presa del potere con una canzone che è come un ruggito: “Speechless”, musica di Alan Menken e testi del duo Benj Pasek-Justin Paul di “La la land”. Eseguita, ha detto l’attrice Naomi Scott, pensando a tutte quelle donne che alzano la voce in difesa della loro dignità. E interpretata, in italiano, dalla grintosa Naomi di X- Factor.
La realtà, certo, è decisamente più complessa. Su Disney piovono ciclicamente le polemiche: e vuoi che Aladino non riaccenda quelle sulla tentazione del “whitewashing”? O che il cast, così accuratamente multietnico – l’afroamericano Will Smith nei panni del genio, Aladdin-Mena Massoud, attore canadese di origini tunisine, Jafar-Marwan Kenzari olandese di origini tunisine - non induca il sospetto di un artificio politically correct? Non solo. Dalla California arriva ora anche l’accusa all’azienda di discriminare le donne, sottopagandole rispetto agli uomini, in un divario retributivo di genere considerato, riporta The Guardian, “radicato e diffuso” . E poi c’è l’America: quella disneyana è la stessa di Trump, che calpesta i diritti di molte minoranze deboli, come quelli delle madri separate dai figli alla frontiera. E dove la clamorosa retromarcia di uno Stato, l’Alabama, riporta indietro i diritti delle donne e spedisce il loro corpo, e il diritto all’aborto, al centro della campagna elettorale. Maschile.
Ma un fatto è innegabile: il vento di cambiamento che un team di autentici influencer, consapevoli della forza straordinaria del brand Disney, sta imponendo alle sue produzioni.
“Aladdin”, diretto da Guy Ritchie, uno che ha avuto l’empowerment delle donne in carne e ossa dentro casa, per essere stato il marito di Madonna, è stato scritto insieme con John August, apertamente gay e in prima linea in molte battaglie contro le discriminazioni, oltre che collaboratore del visionario Tim Burton (sue sono le sceneggiature di “Big Fish”, “La fabbrica di cioccolato” e “La sposa cadavere”).
Né è un caso che la Jasmine del ventunesimo secolo arrivi mentre è direttore creativo della Walt Disney Animation, al posto del geniale John Lasseter, Jennifer Lee, regista e sceneggiatrice di “Frozen”, già salutato come il film Disney più femminista di sempre. La nomina di Lee è stata inserita dagli osservatori americani per la parità tra i momenti più significativi del 2018 a favore delle donne, in un elenco che includeva, per capirci, la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez su Joseph Crowley alle primarie democratiche e di Marina Hierl al vertice di un plotone di fanteria dei Marines.
Donne che fanno squadra. Generazione - qualche anno in meno, qual- che anno in più - di cinquantenni, che ribadiscono l’impegno per una rappresentazione di eroine sempre più autentiche. E deliberatamente attente alle scelte sessuali di tutti.
Nel novembre scorso, l’Lgbt Center ha attribuito il Vanguard Award alla Marvel Comics per la sua attenzione nel ritrarre personaggi e trame che contribuiscono alle battaglie antidiscriminazioni. Vice presidente esecutivo della Marvel, sussidiaria di The Walt Disney Company, è oggi Victoria Alonso, dichiaratamente lesbica. “Black Panther” ha aperto gli sce- nari a una maggiore inclusione, dopo decenni di eroi solo bianchi ed etero. E “Capitan Marvel”, diretto da una donna (Anna Boden, col marito Ryan Fleck), è stato un successo di Marvel Studios, distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures, con una ragazza supereroe per protagonista, e un’ amica per alleata. Come in “Aladdin”, dove fa la sua apparizione Dalia, amica complice e autentica di Jasmine, nell’originale del 1992 soltanto con la tigre Rajah a farle compagnia.
Donne capaci di esercitare forza fisica e gentilezza, e di concepire la politica e il potere in modo nuovo: «L’ambizione di Jasmine non è finalizzata a progredire da sola, ma a farlo per il bene del suo popolo», ha notato l’attrice protagonista su Entertainment Weekly, che al remake di Aladino ha dedicato un intero numero. Proprio come le “ireniste” richiamate sull’Espresso (n. 21 del 19 maggio 2019) dalla filosofa Donatella Di Cesare, che cercano la pace ed edificano la polis: «In attesa di una nuova politica pensata dalle donne, che spezzerà il lugubre nesso con la guerra, le ireniste preferiscono vedere nel nemico un avversario con cui si am- mette di dover condividere un mondo, con cui si ha dunque un rapporto di rivalità, ma anche allo stesso tempo di coesistenza».
«C’è una grande confusione sul significato di talento: le ragazze pensano che significhi solo saper cantare o ballare, o primeggiare in uno sport. Le storie giuste possono insegnare come riconoscere il proprio “dáimon”, il genio ispiratore, come allenarlo e trasformarlo nella propria arma più forte», dice Veronica Di Lisio, direttore editoriale di Giunti, che pubblica i libri con i mar- chi Disney , e che ha appena lanciato la collana “Storie di talenti”, per lettori dai 6 anni in su. Si comincia con il coraggio e con la gentilezza, attraverso le storie delle principesse Belle e Cenerentola. A settembre arriverà il secondo volume dedicato alla gratitudine e all’unicità, con l’aiuto di Jasmine e Aurora. Spin off delle storie originali, editate in Italia, che hanno per protagoniste le principesse da piccole, per raccontare l’incanto della scoperta di sé.
«Certamente avrei potuto scegliere figure più moderne. Ho preferito le principesse più classiche perché i loro gesti, le loro emozioni, i sentimenti, non sono manifestazioni di una femminilità passiva e tradizionale, ma nascondono atteggiamenti rivoluzionari da mettere in luce. Cenerentola bullizzata dalle sorellastre è una figura ben più complessa della semplice fanciulla in attesa del principe azzurro. E riscoprire il valore della gentilezza non significa adeguarsi a una prerogativa sociale delle donne: oggi più che mai, una persona gentile sa ascoltare e ottiene cose straordinarie».
Creative, ribelli, audaci. Le ragazze in libreria hanno solo l’imbarazzo della scelta, tra principesse dei ghiacci, dei deserti, dei coralli, con scarpe da corsa o tra i grattacieli di Manhattan. Tra le biografie di donne straordinarie - i due bestseller delle “Storie della buonanotte per bambine ribelli” di Francesca Cavallo ed Elena Favilli (Mondadori) restano un successo insuperato - imperdibile è anche il graphic novel che Sinnos ha realizzato da un suo classico, “Cattive ragazze” di Assia Petricelli e Sergio Riccardi. “Post Pink. Antologia di fumetto femminista” a cura di Elisabetta Sed- da (Feltrinelli Comics) mette in campo alcune delle disegnatrici più incisive per narrare il corpo delle donne e le battaglie che vi si sono combattute. Perché il sessismo è ancora assai resistente nel mondo occidentale, e una priorità delle battaglie femminste nelle società richiamate dal film “Aladdin”: generico Oriente che evoca l’Arabia e gli Emirati, ma anche l’India e la Cina. Jasmine, proclamata sultano (nel film al maschile) dell’immaginario regno di Agrabah (in italiano la voce del padre è quella di Gigi Proietti), parla soprattutto a loro: alle ragazze che hanno ancora bisogno di un uomo a fianco per un riconoscimento sociale, alle spose bambine, alle lotte da compiere per un’emancipazione non di facciata, a un diritto di famiglia ancora patriarcale.
Al momento, c’è solo un posto dove modernità e tradizione sono alla prova definitiva: nel regno di Yogyakarta, in Indonesia. Qui, il sultano ultra- settantenne Hamengkubuwono, che non ha eredi maschi, è deciso a lasciare il regno alla figlia, Gusti Kanjeng Ratu, studi all’estero e cariche sintetizza l’anima giavanese, sta lottando per realizzare il sogno di Jasmine.

L’Espresso 26.5.2019
Luciana Castellina
Rossana, Lucio, Luigi ed io. Gli scomunicati che il Pci voleva mandare in una trattoria
A 90 anni la comunista che fu espulsa dal Partito insieme ai compagni eretici è tornata alla politica candidandosi in Grecia. E racconta il suo ’ 69. Che sarebbe potuto finire tra i fornelli
90 26 maggio 2019
di Carmine Fotia


Fu un cambiamento radicale delle nostre vite: eravamo tornati ai nostri vent’anni, a quel ’48 di lotte e di speranze che era stato il ’68 della mia generazione. E così tra noi e i ragazzi del movimento scoccò la scintilla». Nel pomeriggio di una quieta domenica romana, Luciana Castellina, 90 anni appena compiu-ti, orgogliosamente comunista, candidata con la Lista Tsipras in Grecia alle prossime elezioni europee, nella penombra della sua bella e silenziosa casa nel quartiere Parioli, dove vive da sempre, con il piccolo cane Fefè accovacciato accanto a me, un bicchiere di vino bianco e qualche fetta di salame, ricorda i fatti che cinquant’anni fa portarono lei e un altro gruppo di pazzi a fondare la rivista “il manifesto” che ha segnato, comunque la si giudichi, la storia della sinistra e del giornalismo italiani. Del gruppo dei fondatori sono rimasti lei e Rossana Rossanda. Due straordinarie ragazze del secolo scorso, per citare il titolo dell’autobiografia di Rossana. In quel fatale 1969 la scintilla che aveva dato vita al ’68, dalle università, dalle fabbriche, dalla Cecoslovacchia invasa dai carri armati sovietici, portò l’incendio nel cuore del più grande partito comunista dell’Occidente, aprendo una discussione non solo sulla necessità di rompere ogni legame con il regime sovietico, ma an- che sui caratteri del capitalismo italiano e sulla strategia del partito comunista di fronte alle nuove lotte operaie e studentesche.
Quella discussione era cominciata anni prima ed era culminata nell’11° congresso del Pci, nel 1966, con la sconfitta della sinistra ingraiana che si contrapponeva alla destra amendoliana. Attorno a Pietro Ingrao, che era stato uno dei giovani su cui Togliatti all’indomani della Resistenza si era poggiato per lanciare il partito nuovo emancipandolo dal controllo e dall’impostazione militarista dello stalinista Pietro Secchia, si aggrega un gruppo composito di dirigenti-intellettuali, di estrazione borghese, colti e cosmopoliti, molto critici, ma anche molto moderni. Da Bruno Trentin, formazione azionista e leader dei metalmeccanici Fiom, a Rossana Rossanda, bellezza diafana e intelligenza raffinata, responsabile della commissione culturale, a Luigi Pintor, gigante del giornalismo, condirettore dell’Unità, ad Alfredo Reichlin, figlio di un avvocato pugliese, direttore dell’Unità, che era stato sposato con Luciana Castellina, giornalista militante, statuaria e conturbante, con la sua bellezza mediterranea, così diversa da quella Santa Maria Goretti che negli anni ’50 il giovane Enrico Berlinguer, segretario della Fgci, aveva indicato quale modello alle ragazze comuniste. Luciana ora sta con Lucio Magri, ex-democristiano, una delle teste più raffinate del gruppo (tanto che nel 1962 Jean Paul Sartre, che dirige la rivista Les Temps Modernes, gli chiede di collaborare), bello co-me un divo del cinema, con i capelli precocemente imbiancati e gli occhi azzurrissimi. Poi c’è Valentino Parlato, giovane e brillante economista espulso dalla Libia dagli inglesi perché comunista, che lavora alla commissione economica con Giorgio Amendola. Ci sono anche leader meno giovani: Aldo Natoli, medico, leader dei comunisti romani, che denuncia gli scandali della capitale e ispira l’inchiesta de L’Espresso “Capitale Corrotta, Nazione Infetta” e Massimo Caprara, napoletano, già segretario personale del Migliore, come nel Pci veniva chiamato Togliatti.
«Dopo il congresso», racconta Luciana Castellina, «veniamo tutti esiliati: Pietro diventa capogruppo alla Camera, lontano dal vero potere del partito. Rossana viene rimossa dalla carica e “promossa” in Parlamento; Luigi viene mandato in Sardegna come vicesegretario regionale e responsabile della Commissione agricoltura e sarà poi mandato anche lui in Parlamento; io, in quel momento lavoravo con Nilde Iotti e vengo chiamata da Giorgio Napolitano, che mi propone di tornare a fare la giornalista a Paese Sera, dal quale provenivo ed io rispondo di no: “O sono ancora comunista o non lo sono più”, esclamo. A quel punto Nilde, che non era stata avvertita, va su tutte le furie e in Direzione mi difende con veemenza, ottenendo che venga mandata a lavorare alla presidenza dell’Unione donne italiane. Lucio invece si licenzia da funzionario, prendendo le sue 30.000 lire di liquidazione».
Forse è in questo preciso momento che in quel gruppo, che era stato essenzialmente poli-
imperfezioni e le sue gioie, con la forza dirompente del suo scorrere che il rigido apparato comunista non è più in grado di irreggimentare e controllare. La condizione di sconfitti ed emarginati rinsalda le relazioni umane, il prezzo pagato per la propria libertà è alto, ma mette questo gruppo in sintonia con quel che sta avvenendo nel mondo: dalle lotte studentesche delle università americane parte la contestazione della guerra in Vietnam, la Cina contesta l’egemonia dell’Urss, mentre la piccola Cuba tiene testa alla potenza americana. In Italia il centro- sinistra perde lo slancio riformista dei primi anni, le lotte operaie si fanno più dure, cominciano le prime occupazioni delle università, nel mondo cattolico l’apostolato di Giovanni XXIII ha generato una nuova leva di cattolici impegnati nelle lotte dei diseredati.
Vivono un po’ da bohémien, squattrinati ma arsi dalla passione politica e da una febbrile ricerca delle nuove vie per la “rivoluzione”. Racconta Luciana Castellina: «Lucio va a vivere all’Argentario nella casa che io prendevo in affitto per tutto l’anno. In casa non c’era neppure la televisione, per cui per guardarla andava al bar dove, non avendo una lira, consumava due caramelle mou. Furono anni preziosi, nel corso dei quali si cementarono i nostri rapporti, ma non fummo mai una frazione. Certo, ci vedevamo, a casa mia o di Rossana, che abitava di fronte a me, con Bruno Trentin, con il mio ex-marito Alfredo Reichlin, con Aldo Natoli, con Pietro Ingrao. Lucio, che aveva scelto la libertà, ogni tanto andava da Luigi in Sardegna e trascorreva del tempo con lui. Nel frattempo irrompe il ’68, con i movimenti studenteschi ma per noi soprattutto con l’invasione della Cecoslovacchia». ’69 si apre con un’altra giovane S
e il ’68 si chiude con la morte dello studente Soriano Ceccanti alla Bussola di Viareggio, il
vita sacrificata: è quella di Ian Palach, lo studente che si dà fuoco a Praga in piazza San Venceslao un anno dopo l’invasione sovietica, ben presto dimenticata: «A quel punto, come scrivemmo sul secondo numero della rivista, “Praga è sola”. È in quel momento che decidiamo di fondare la rivista, il cui primo numero uscirà il 23 giugno. Il nome della rivista lo trovammo seduti sul muretto qui sotto casa mia. Eravamo io, Rossana, Lucio, Luigi. Dapprima Lucio pensava a un nome raffinato, “Il Principe”, con l’evidente richiamo a Machiavelli, ma poi ci venne in mente il manifesto, anche se ci sembrava un po’ arrogante prendere il nome del libro simbolo del comunismo. Poi però pensammo, ma sì facciamolo! Anche perché manifesto voleva dire anche Tazebao, ovvero lo strumento di propaganda usato nella rivoluzione culturale cinese, e rappresentava anche la nostra richiesta che il dissenso fosse, appunto, manifesto».
Nasce così la rivista, sobria ed elegante, disegnata da Giuseppe Trevisani, che era stato il successore di Abe Steiner al Politecnico di Elio Vittorini, con quella testata tutta in minuscolo e con quel particolare carattere che, diremmo oggi, diventa un brand di successo. Troppo successo, forse. Il primo numero, diffuso in edicola dall’editore Dedalo, vende più di 50.000 copie. La rivista è diretta da Magri e Rossanda, scrivono Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S. Karol, Michele Rago e Lucio Colletti, tra gli altri. Jean Paul Sartre concederà una lunghissima intervista a Rossana Rossanda.
Nel partito si apre un processo che ricorda gli anni bui dello stalinismo: coloro che rifiutano l’abiura, vengono cacciati, dal Comitato centrale fino all’ultima sezione. Non li difende neppure Ingrao, il leader con cui avevano rotto al dodicesimo congresso. Se ne pentirà amaramente, come anche Enrico Berlinguer che favorì poi il rientro nel partito a metà degli anni ’80, gestito proprio da quell’Alessandro Natta che aveva presieduto il tribunale dell’inquisizione comunista (per una ricostruzione più accurata “Unire è difficile” di Guglielmo Pepe e “Da Natta a Natta” di Aldo Garzia).
Rossana Rossanda ha ricordato così la rottura: «L’uscita della rivista, e il suo clamoroso successo, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disciplina, il meccanismo. La nostra scommessa era di legittimare nel Partito una discussione di fondo sui temi che erano maturati nel decennio Sessanta, culminati nel ’68 degli studenti e nel precipitare dell’autunno caldo del ’69. Si apriva una fase riformista? E se sì, quale era la collocazione che il Pci doveva assumere in questo scenario? Esso avrebbe favorito un avanzamento del movimento operaio o costituiva un pericolo di assorbimento delle masse fino allora combattive? Il capitalismo italiano restava vecchio, miope e fascisteggiante o si sarebbe ammodernato anch’esso, capace di innovazione e di una contrattualità meno repressiva?». Ricorda Luciana Castellina, che allora militava nella storica sezione romana di Ponte Milvio, quella di Berlinguer: «Fui radiata anche con il voto favorevole di Giuliano Ferrara che mi chiede ancora scusa. Ero stata mandata via dal partito nel quale avevo militato per 25 anni, fu come se mi avessero buttato dalla finestra, ma invece di sfracellarmi al suolo atterrai sul ’68. E il ’68 ci accolse. Fu un tempo straordinario e il rimpianto è che allora di quella storia il Pci non capì nulla».
Il cambiamento però non riguarda solo la politica, ma anche il modo di vivere, che comporta la rinuncia dei pur modesti “privilegi” di cui godevano i rivoluzionari di professione: «Eravamo tutti ex-funzionari di partito, ci trovammo squattrinati e sopravvivemmo con i soldi dei compagni che erano parlamentari. Io vivevo a casa mia, ma alla salita del Grillo, che affaccia sui Fori, c’era un grande appartamento che costava poco perché era di proprietà del Pio Istituto di Roma, e che era stato trovato da Giuliana Giorgi, l’ex-moglie di Giancarlo Pajetta. Lì, in un grande salone dove si tenevano le riunioni e in tre stanze, viveva una specie di comune di maschi: Lucio Magri, Filippo Maone, Eliseo Milani, cui poi, fino ai primi anni ’80, si aggiunsero altri compagni. Nel dicembre del 1969, ricordo Dario Fo che gioca a scacchi con Lucio quando arriva la notizia della strage di Piazza Fontana mentre a poche centinaia di metri, all’Altare della Patria, scoppiavano le bombe. Lì si insedia la redazione della rivista, retta dalla segretaria di redazione, Ornella Barra, che lo era stata anche a Critica Marxista».
Un gruppo di comunisti liberi e critici, che pagarono di persona la loro scelta, rinunciando a ruoli importanti e a un futuro brillante, si avventura dunque nell’impresa pazzesca di fondare prima una rivista e poi un quotidiano senza soldi, senza partito, senza padroni. Cinquant’anni dopo, in questi tempi di sinistre senz’anima, di politica senza passioni, di rancore iniettato nelle vene del Paese, i protagonisti di quell’impresa, al di là del giudizio politico e storico, ci appaiono avvolti dall’aura del mito. E non solo a chi, come me, da giovane militante prima e da giornalista poi, ha avuto la fortuna di formarsi alla loro scuola, anche se poi ha preso, com’è naturale e com’è accaduto a tanti altri, strade diverse. Forse era tutto sbagliato? Si trattò, come si usa dire oggi, di ubriacatura ideologica?
Luciana Castellina risponde così: «Mi ha detto Paolo Mieli: “Sono stato felice perché sono uscito dalla solitudine, ho trovato gli altri e abbiamo fatto insieme delle cose”. È la scoperta della politica: uscire dalla solitudine, incontrare gli altri e diventare insieme protagonisti. Cinquant’anni dopo, ho il rimpianto perché quel grande patrimonio comunista fatto di passione, di moralità, di militanza, è stato poi gettato via».
Sarebbe certo assurdo cercare in quelle pagine le risposte ai problemi dell’oggi, ma ci sarà una ragione se quel modo di vivere la politica, così distante dall’attuale narrazione progressista, così esangue e avara di sé, riesce ancora a farsi strada dal basso, nella vita, tra i giovani, fuori dal Palazzo, in uomini come Mimmo Lucano, nei tanti e tante che mettono in gioco i loro stessi corpi in difesa dei più deboli, così pienamente politici perché radicalmente umani.
Le storie, tutte le storie, hanno le loro sliding doors e anche questa che vi abbiamo appena raccontato avrebbe po- tuto finire diversamente, rivela Luciana Castellina: «C’era un piano B, se fosse andata male con la rivista: dal momento che Lucio e Rossana erano molto bravi a cucinare, avevamo individuato un posto, alle cascate di Saturnia, dove avremmo aperto un ristorante. Chef sarebbe stato Lucio, sous-chef Rossana, terzo chef  Valentino, Luigi avrebbe fatto il sommelier, e io avrei curato i rapporti internazionali e le pubbliche relazioni. Come l’avremmo chiamato? Che domanda: il manifesto, ovviamente».

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