sabato 28 giugno 2008

l’Unità 28.6.08
Rom, l’Europa ci copre di vergogna
«Non era mai successo che un Paese membro dell’Ue introducesse la schedatura etnica» dall’Europa è unanime la condanna dell’intenzione del ministro Maroni di prendere le impronte dei bambini rom.


ITALIA-EUROPA C’è grande allarme al Consiglio d’Europa per le intenzioni del ministro Roberto Maroni di schedare i bambini rom. Il presidente Terry Davis la ritiene una proposta «che suscita delle analogie storiche così manifeste che è inutile precisar-
le». E non è l’unico ad attaccare «il piano Maroni». Anche dalla Commissione Ue arrivano segnali di preoccupazione, seppur parzialmente corretti nel pomeriggio. Il primo affondo, in mattinata, è di un portavoce della Commissione, Pietro Petrucci. Nessuno Stato membro può decidere di prendere le impronte digitali per uno specifico gruppo etnico, viola le regole europee, non ci sono precedenti al riguardo nella Ue, tuona Petrucci. Il Viminale non gradisce. Maroni reagisce, iniziano i contatti e nel pomeriggio arrivano i comunicati che tentano di gettare acqua sul fuoco. Non rinuncia a mostrare tutta la sua preoccupazione, invece, il presidente del Consiglio Ue: «Pur considerando - dice Davis in un comunicato - che la democrazia italiana ha acquisito una sufficiente maturità per impedire che simili idee diventino legge sono nondimeno preoccupato nell’apprendere che un membro eminente del governo di uno degli Stati membri del Consiglio d’Europa ha formulato una simile proposta».
In mattinata Petrucci, conversando con i giornalisti a Bruxelles - dopo aver precisato che per ora «siamo alle dichiarazioni riportate dai media» e dunque, «non facciamo commenti» - aveva ricordato che «la Commissione è attaccata ai diritti fondamentali e alla lotta alla discriminazione come ogni altra istituzione europea». Inedito il caso italiano, perché «finora non è mai successo» che uno Stato proponesse la schedatura etnica, lo stesso diritto comunitario «non lo permette». Maroni diffonde la replica: «Il rilievo delle impronte è una procedura che viene fatta normalmente in tutti i tribunali per i minorenni. Chi ha detto che non si può fare è poco informato. Inviterei i responsabili della Commissione a informarsi prima di esprimere opinioni che sono francamente infondate». A seguire, il testo del regolamento europeo n.380 del 18 aprile 2008 che prevede l’obbligo di rilevare le impronte digitali ai cittadini «dei Paesi terzi (per i permessi di soggiorno) a partire dall’età di sei anni». Non a tutti, anche italiani, come vorrebbe il Viminale.
Nel pomeriggio con la nota di Michele Carcone, portavoce del commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot, arriva la marcia indietro: «La Commissione europea non ha espresso alcun giudizio o commentato in alcun modo l’annuncio di possibili misure fatto dal ministro degli Interni italiano Roberto Maroni. Non è consuetudine della Commissione rilasciare commenti su intenzioni o opinioni di responsabili politici nazionali». Ma è evidente che «se e quando l’Italia introdurrà misure concrete» l’Europa ne esaminerà «la compatibilità con la legislazione comunitaria e con il rispetto dei diritti fondamentali». Intanto a Roma, il prefetto Carlo Mosca fa sapere che «nell’opera di censimento» che si dovrà effettuare non si prenderanno «le impronte ai bambini».

l’Unità 28.6.08
Il caso Italia. Osservati speciali
di Umberto De Giovannangeli


Nell’ Europa del diritto per fortuna l’omertà non è di casa

La «vergogna delle impronte» varca i confini nazionali e riporta il caso italiano all’attenzione degli organismi europei. A Strasburgo, all’Europarlamento, alla Commissione europea, al Consiglio d’Europa. come nelle principali capitali europee, Italia è sempre più sinonimo di intolleranza, discriminazione, criminalizzazione... A dar corpo all’indignazione crescente, e trasversale alle «famiglie» politiche europee, è un quotidiano autorevole, e non certo sovversivo, quale l’Independent.
Il quale in un editoriale ha accusato ieri il governo Berlusconi di «comportamento incivile» nei confronti degli zingari e degli immigrati clandestini, avvertendo che l’Italia stessa soffrirà per l’attuale «raptus di crudeltà nei confronti degli stranieri» avendo un gran bisogno di manodopera forestiera.
Il caso-Italia è sul tavolo europeo. Ed è un caso che produce inquietudine, allarme, proteste. Le nervose pressioni diplomatiche esercitate ieri da Palazzo Chigi su singoli rappresentanti della Commissione europea danno conto del nervosismo di Silvio Berlusconi, sempre più alla mercé politica della Lega Nord del trio Bossi-Maroni-Calderoli, con l’appendice ultrà all’Europarlamento del pasdaran padano Mauro Borghezio. Preme il Cavaliere, invoca solidarietà che ha l’amaro, insopportabile, retrogusto della complicità silente. Ma in Europa, per fortuna del diritto e dei valori più elementari di giustizia e rispetto per le minoranze, l’omertà non è di casa. La proposta di prendere impronte digitali ai bambini rom viola le regole Ue. Una constatazione che suona come una sonora bocciatura della pseudofermezza tratteggiata dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Ed è emblematico che a ricordarlo sia un italiano: il portavoce della Commissione europea, Pietro Petrucci. Nessuno Stato membro, ha ricordato, può decidere di prendere le impronte digitali per uno specifico gruppo etnico. Fino ad oggi, ha ribadito il portavoce della Commissione europea, «non è mai successo» che uno Stato membro volesse prendere le impronte digitali di uno specifico gruppo etnico. Fino ad ora. Fino alla rottura di un codice di civiltà condiviso dai Paesi della Ue, determinata dal governo Berlusconi-Bossi. «Certe cose non le avevamo sentite proporre neanche da Le Pen»: questa considerazione, tra lo sbigottito e l’indignato, di una fonte Ue a Bruxelles, racchiude ciò che l’Europa democratica, di centro, di sinistra e anche conservatrice, pensa oggi delle misure congegnate dal governo italiano. L’Europa alza la voce. Lo fa attraverso il Consiglio d’Europa e il suo segretario generale Terry Davis, che di fronte ad un ministro che vuol far prendere le impronte digitali ai bambini rom, afferma: «Si tratta di una proposta che suscita delle analogie storiche così manifeste che è inutile precisarle». Analogie storiche terrificanti. A cui è utile, drammaticamente utile, dare nome: nazismo. Il segretario del Consiglio d’Europa aggiunge: «Pur considerando che la democrazia italiana ha acquisito una sufficiente maturità per impedire che simili idee diventino legge, sono nondimeno preoccupato nell’apprendere che un membro eminente del governo di uno degli Stati membri del Consiglio d’Europa ha formulato una simile proposta». L’Europa alza la voce. E, con l’Independent, ricorda che il giro di vite contro gli immigrati clandestini promesso dal governo Berlusconi «ha scatenato le furie popolari» e ha finito per recar danno alla reputazione dell’Italia». «Ogni atto di violenza popolare contro gli stranieri, ogni caso di discriminazione ufficiale nei confronti dei rom - scrive l’Independent - diminuisce la pretesa del Paese di essere considerato una nazione civile».
È questo oggi in discussione, in Europa. Essere considerati ancora una «nazione civile». Perchè una nazione civile non prende impronte digitali ai bambini rom. Perché una nazione civile non alimenta «raptus di crudeltà nei confronti degli stranieri». L’Europa non ha bisogno, non può accettare una «nazione incivile». Per evitare disastrosi, incivili, «contagi». In Europa, ricorda il segretario del Pontificio consiglio della Pastorale dei migranti e degli itineranti, monsignor Agostino Marchetto, sono circa quattro milioni i ragazzi di etnia rom e sinti che dovrebbero andare a scuola. Che succederebbe, si chiede monsignor Marchetto, se si generalizzasse la decisione italiana? «A volte - avverte l’esponente vaticano - per capire la gravità di un certo modo di procedere bisogna porsi proprio a livello generale». L’Europa lo ha capito. Per questo alza la voce e si chiede, e ci chiede, se l’Italia è ancora una «nazione civile».

l’Unità 28.6.08
Schedature e immunità
Se questo è un Paese normale


Venerdì 27 giugno 2008? Una normale giornata italiana, a ben vedere. Berlusconi riunisce il Consiglio dei ministri per farsi concedere (e concedersi partecipando al voto) un’immunità pari a quella di cui gode il Sommo Pontefice. Il ministro Alfano bacchetta il Consiglio superiore della magistratura che si appresta a bocciare la «salva-premier» e minaccia una riforma normalizzatrice del Csm nei prossimi mesi. L’Europa boccia la schedatura italiana dei bambini rom, perché evoca «manifeste analogie storiche» (allusione al nazismo, naturalmente). Bossi, infine, regala al Cavaliere ciò che aveva già negato a Prodi. La possibilità, cioè, che la Lombardia e il resto del Nord possano aiutare la Campania a smaltire l’emergenza rifiuti. Sei mesi fa la Lega prese a sberleffi l’appello del Professore alla solidarietà nei confronti del Mezzogiorno. Il Carroccio fece la sua parte per aggravare l’emergenza nel Napoletano. Oggi, al contrario, Bossi corre in soccorso di un Cavaliere costretto a constatare che il piglio decisionista, ostentato nel famoso Consiglio dei ministri partenopeo, frutti ne ha dati pochi. L’estate avanza, infatti, e a Napoli «la spazzatura rimane in mezzo alle strade». A giudicare dalla soddisfazione di Berlusconi per il disegno di legge che gli garantisce l’immunità penale, tuttavia, l’Italia «sta diventando un Paese normale». Il «sabato mattina», infatti, il Presidente del Consiglio potrà pensare finalmente a governare piuttosto che a studiare i procedimenti giudiziari in compagnia dei suoi avvocati. Guai a parlare di immunità «ad personam», però, visto che il disegno di legge varato ieri tutela le più alte cariche dello Stato e non solo il premier. Berlusconi, che deve vedersela ancora con giudici e tribunali, e i presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato che - al contrario - non hanno l’assillo di questi imbarazzanti problemi. Fino a oggi l'unico cui la Repubblica riconosce una immunità assoluta è il Papa - la cui persona è considerata sacra ed inviolabile - in quanto capo della Chiesa Cattolica. Se le Camere dovessero varare il disegno di legge illustrato ieri dal ministro Alfano, gli esiti del processo Mills - e non solo - verrebbero depotenziati. Il premier, tra l’altro, non avrebbe «l'obbligo giuridico di dimettersi in caso di condanna». Blindatura nei confronti di giudici e pubblici ministeri. Ma anche nei confronti degli imprevisti che potrebbero riservare, domani, gli alleati del centrodestra al Cavaliere. Se il governo dovesse andare in crisi «nel corso di questa legislatura» il lodo, infatti, sarebbe «reiterabile». Senza contare che i benefici dello “Schifani bis” potrebbero accompagnare il premier - fra cinque anni e per altri sette - fin dentro il Palazzo del Quirinale. Un «privilegio» non da poco, che potrebbe consentire a Berlusconi di guadagnare un’«immunità a vita» e di mettersi al sicuro dalle incognite che riserba il suo passato. Il governo sembra impegnato a fondo per raggiungere l’obiettivo. Sgomberando il sabato mattina dagli impegni con i legali si potrebbe sperare che il Cavaliere possa dedicare almeno quelle ore alle promesse elettorali inevase: alla riduzione delle tasse, all’aumento del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, ecc. Auspicio azzardato se le priorità rimangono le leggi ad personam e qualche trovata demagogica sulla sicurezza per far contente An o la Lega. Perfino la Commissione europea dell’«amico» Barroso è stata costretta, ieri, a mettere le mani avanti sulle impronte digitali dei bambini rom targate Maroni. «Mai successo prima in Europa», sottolinea Bruxelles. E l’ammonimento Ue va alle «manifeste analogie storiche» che coprono di vergogna l’Italia di Berlusconi.

l’Unità 28.6.08
Il Prefetto di Milano: «Non è una novità...» e cita una legge del ’41


La bufera che ha scatenato l’ordinanza del governo sulla schedatura dei rom, non ha ragione d’essere: è tutto già previsto da una legge del 1941 e inoltre, sono misure che «vanno a tutela di questi minorenni». A parlare così è stato ieri il prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi, commissario straordinario per l’emergenza rom, che probabilmente pensava di smorzare le polemiche, ricordando che «le norme in vigore, oggi già consentono il foto segnalamento. Esistono da 40 anni: chi non riesce a dimostrare la propria identità può essere foto segnalato. Lo prevede la normativa italiana e anche quella europea». Lombardi cita «una legge del ’41, il “Testo unico della legge di pubblica sicurezza”. Parliamo di cose che esistono da anni. È tutto perfettamente legale». «Ci si è posti un problema - ha spiegato il prefetto - e cioè quello di bambini, di 8, 10 anni, mandati nel nostro paese a rubare, nella maggior parte dei casi dai genitori che restano in Romania. Spesso non sappiamo chi sono questi bambini. E allora si pensa di identificarli attraverso il foto segnalamento. Si tratta di un rimedio che viene adottato quando non ci sono altre modalità per arrivare all’identificazione, non abbiamo altri strumenti».
E replicando indirettamente al coro di no contro l’ordinanza, il prefetto ha lanciato anche un invito: «se ci fosse qualche altra buon idea, che ce la suggeriscano».
La normativa, dunque, è già applicabile. «Se non vi abbiamo fatto ricorso - ha precisato - è solo perchè non ci sono stati casi di identità dubbia». È così come per il ministro Maroni, anche per il prefetto Lombardi questa identificazione dovrebbe essere osservata da un altro angolo visuale. Quale? Secondo Lombardi, che fa eco a Maroni, viene fatta anche a «tutela» dei minorenni. «Venire a conoscenza dell’identità dei minori serve anche per poterli assistere nelle strutture sanitarie».

l’Unità 28.6.08
«È inaccettabile, un altro passo verso il baratro»


NON SI PLACANO le proteste contro la schedatura etnica dei bambini rom proposta dal ministro degli Interni Maroni. «La considero una cosa assolutamente inaccettabile», ha detto ieri Walter Veltroni, a margine della prima assemblea nazionale di Sinistra democratica. «Chiunque abbia avuto la possibilità di vivere vicino a quelle scuole - ha detto - nelle quali si fa faticosamente il processo di integrazione sa che l’idea di tenere nella stessa classe due bambini uno che ha dovuto mettere le impronte digitali e uno che non lo deve fare è la testimonianza di un modo di concepire la convivenza tra persone per me inaccettabile». «Questo -dice ancora Veltroni- contrasta con la normativa Ue e con qualsiasi elementare ragione di umanità. Ci sono altri modi per controllare che le famiglie non sfruttino questi bambini. L’idea di dividere i bambini in base alla loro identità mi sembra un altro passo verso il baratro. E l’Europa si è preoccupata di richiamare l’Italia».
Sulla vicenda è intervenuto anche Pietro Terracina, sopravvissuto al lager di Auschwitz: «La storia si sta ripetendo», dice Terracina. «La schedatura dei rom è simile a quella contro gli ebrei». «E allora prendete anche le nostre impronte. Ho ritenuto opportuno proporlo, perchè mi ricordo molto bene del luglio 1938, quando il governo di Mussolini volle il censimento degli ebrei, una vera e propria schedatura, che precedette l’emanazione delle leggi razziali, i lager e lo sterminio. Non so se arriveremo ad una nuova Auschwitz, ma di certo anche i campi sorvegliati e attrezzati e le misure proposte assomigliano tanto a campi di concentramento. Sta emergendo in Italia una destra xenofoba, che si richiama a quello che è avvenuto ottanta anni fa».
«Sorpresa, disagio e tristezza» ha espresso invece il segretario del Pontificio consiglio della Pastorale dei migranti e degli itineranti, mons. Agostino Marchetto, di fronte alla decisione annunciata da Maroni: «Che succederebbe se si generalizzasse la decisione italiana?». «Personalmente mi trovo tra coloro che disapprovano, convinto dell’esistenza di altri mezzi, rispettosi della persona anche del bambino e della sua dignità psicologica per giungere a una finalità buona, quale può essere per esempio evitare che i bambini rom dormano tra i topi».

l’Unità 28.6.08
La fine del Parlamento
di Antonio Padellaro


In un momento (quanto mai prezioso) di sincerità Silvio Berlusconi ha illustrato la funzione dei «suoi» parlamentari a Montecitorio e a palazzo Madama: quattro o cinque teste pensanti, e tutti gli altri addetti a premere i pulsanti. Si era in campagna elettorale e forse neppure da unto del signore egli avrebbe immaginato che il voto degli italiani, rinforzato dal porcellum, gli avrebbe consegnato una sontuosa maggioranza di 54 senatori e di 58 deputati. Tutti nominati dall’alto. Tutti riconoscenti. Tutti allineati e coperti. E infatti, adesso, il Parlamento funziona come un orologio svizzero.
Bastano pochi minuti e il Consiglio dei ministri approva per acclamazione i desiderata del presidente-proprietario, confezionati in forma di legge dagli avvocati e consulenti a libro paga. Dopodiché il ministro che recita la parte del proponente (in genere Alfano) illustra alla stampa riunita lo spirito della norma augurandosi che l’opposizione non faccia mancare il suo apporto (peraltro superfluo). E se invece l’opposizione sorda ai richiami del Paese rifiuta la generosa offerta di dialogo, pazienza. Poche settimane e con apposito calendario predisposto dalla maggioranza la legge desiderata diventa tale. Merito degli addetti alle pulsantiere, con il supporto dei «pianisti» che votano per due (non ce n’è bisogno ma è la forza dell’abitudine). Tutto questo con il controllo ferreo delle commissioni. Mentre vengono frapposti sempre nuovi ostacoli al diritto della minoranza di presiedere gli organismi di garanzia, a cominciare dalla vigilanza Rai.
È andata così per la legge cosiddetta sulla sicurezza e per il provvedimento blocca processi e salva-premier. Andrà così, siamone certi, per il lodo Schifani bis, per le impronte ai bambini rom, per la finanziaria di Robin Hood-Tremonti, per la controriforma Sacconi sulle morti bianche e per ogni altra esigenza o capriccio della real casa. Con la Lega può capitare qualche intoppo, come l’aiutino a «Rete4», tv di famiglia. Una telefonata tra Silvio e Umberto e il problema è risolto. Certo, non tutto può passare liscio trattandosi sovente di leggi incostituzionali o scritte con i piedi o contrarie, oltre che alla pubblica decenza alla normativa europea. Fortunatamente siamo ancora in una democrazia dove agiscono Corte costituzionale, Csm e tutte le altre istituzioni di salvaguardia. E c’è soprattutto la garanzia del Quirinale. Sono impedimenti che a loro naturalmente non piacciono ma avranno tutto il tempo per porvi rimedio. Già parlano di «riforma» del Csm. E cresce l’insofferenza dei ministri padani verso l’Europa che protesta sdegnata per le nuove leggi razziali.
Mai nella storia repubblicana si era assistito a una tale umiliazione del potere legislativo a cui si cerca di togliere ogni autonomia di giudizio.
L’opposizione, inutile dirlo, non si trova in una situazione semplice. All’inizio aveva sperato di contenere con la formula del dialogo l’aggressività dei vincitori. Molto presto (o troppo tardi) ha compreso però che per Berlusconi il dialogo è un altro modo per farsi gli affari suoi. E così mentre egli cerca di trasformare il Parlamento nella sua bottega l’opposizione si è fatta in tre. Quella del no (Di Pietro) e quella del forse (Casini) unite entrambe da una visione per così dire tattica. Spetta però al Pd, per dimensione e peso politico, elaborare una strategia della opposizione che determini una risposta forte alla dittatura della maggioranza. Non lo sterile aventinismo e neppure il lento sfibrarsi del giorno dopo giorno alla ricerca di accordi mediocri. La fine del Parlamento come luogo di mediazione e del bene comune deve diventare la questione nazionale su cui tornare a coinvolgere i tanti che non si sono arresi all’apatia politica del tanto non c’è più niente da fare e lasciamo che decidano loro. I giornali già parlano di una nuova stretta di vite, di un blitz guidato da Gianfranco Fini per ottenere alla Camera il contingentamento dei tempi di discussione, oggi possibile solo al Senato. Davvero non c’è più tempo da perdere.
apadellaro@unita.it

l’Unità 28.6.08
D’Alema: la Destra si contrasta con la grande politica
Difende così la Bicamerale che fallì «per colpa di Berlusconi e del minoritarismo a sinistra»
di Bruno Gravagnuolo


ROMA «Fare politica con la società». Lo slogan d’apertura dell’Assemblea annuale del Centro per la Riforma dello Stato era questo, ieri a Roma a Palazzo Marini della Camera. E lo slogan era anche il titolo della relazione introduttiva del Presidente del Crs Mario Tronti, anticipata nell’intervista a Tronti di ieri l’altro. C’erano ad ascoltarlo Massimo D’Alema, Gianni Cuperlo, Alfredo Reichlin, Luigi Bersani, Fabio Mussi, Goffredo Bettini, Alfonso Gianni, e sociologhi come Bonomi, Calise, ex sindcalisti come Riccardo Terzi e giornaliste come Ida Dominjanni, studiosi come Giuseppe Vacca e tanti esponenti del Pd e della sinistra radicale.
Il senso della relazione di Tronti, presentato dal direttore Crs Walter Tocci, era chiaro. Ridare parola alla sinistra. Ritrovarne il «campo» come «punto di vista», oltre le «aggregazioni classiche», rese evenescenti da post-fordismo e globalizzazione. E dopo la sconfitta elettorale, che ha confermato l’egemonia dela destra, nella «società liquida» e della «paura». Ebbene l’invito esplicito della relazione di Tronti era anche quello a «permeare di sinistra» il Pd. A far rivivere la sinistra trasversalmente, tra riformisti e radicali. Per ripartire. Invito che sia Bersani che Cuperlo, con Reichlin, raccolgono. Può esserci una «sinistra critica riformista che si fa popolo», dice il primo. E che erediti la «funzione liberale del movimento socialista in Italia». Ed è legittima, dice Cuperlo, «una battaglia politica» per ridare cittadinanza alla sinistra nel Pd, «senza la paura delle correnti». Mentre Reichlin sottolinea il senso devastante di trasformazioni (finanza, consumi, lavoro) che hanno «spiazzato la sinistra» nel mondo contemporaneo. Un tema su cui tornerà Bonomi, che rimprovera alla sinistra di non saper individuare i mutamenti «molecolari» sul territorio, e di volerli «comandare», invece di «assecondarli». Laddove la vera «fabbrica a cielo aperto» è proprio nelle filiere del «glocale»: «lì va costruita l’opposizione, tra nuovi lavori e nuova borghesia dei distretti». E D’Alema? Ricorda che la destra «è ormai maggioranza sin dal 1994-96». Che la si contrasta con la «grande politica che è potenza organizzata e proposta»: «come fu la Bicamerale» (che difende integralmente). Idea che «il minoritarismo a sinistra e Berlusconi fecero fallire». Infine D’Alema parla del Pd. «È un partito di centrosinistra», afferma (e frena Cuperlo e Bersani). E deve dialogare al centro, e con una «sinistra radicale responsabile e non massimalista». Dunque, dialogo tra centrosinistra e sinistra, per riaprire una «partita che non è chiusa». Ed il «trattino» ricompare in D’Alema . A sinistra stavolta.

l’Unità 28.6.08
Il rapporto docenti-alunni e i fattori che lo determinano
Far fuori gli insegnanti giocando con le statistiche. Ecco come...
di Marina Boscaino


Esistono alcuni luoghi comuni difficili da sfatare. Uno di questi è certamente che il rapporto docente-alunni nel nostro Paese sia molto più alto che altrove. Da ciò i grilli parlanti (e i detrattori della scuola pubblica) deducono una serie di conseguenze, soprattutto relative ad eventuali sprechi. Non deve dunque stupire che il ministro Gelmini, in un’intervista al "Sole 24 ore" - a commento del decreto n. 112 del 25 giugno, che prevede, secondo stime ufficiose del ministero dell’Economia, un taglio di addirittura 160mila posti nella scuola, pari a 70mila cattedre e 40mila posti di personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario) - abbia affermato che si tratta di una "cura da cavallo inevitabile per la scuola", poiché questo Governo "è stato eletto per risanare i conti pubblici". Nel Paese delle lobby di potere, delle consulenze milionarie, degli abusi tollerati, della celebrazione dell’evasione fiscale come diritto inalienabile del cittadino, nel Paese di Gomorra, paga la scuola. E Gelmini è facile ostaggio di Tremonti.
Già in autunno il Quaderno Bianco sulla scuola stigmatizzava l’alto numero dei docenti. Come è noto, sia l’ultima Finanziaria che il decreto 112 sono intervenuti in proposito, non inficiando tuttavia il senso del discorso: quella pubblicazione rivelava che su 100 studenti della primaria in Italia ci sono 9.3 docenti, 5.3 nei Paesi Ocse; nella secondaria di I grado 9.7 per l’Italia contro il 7.3 dell’Ocse; nella secondaria superiore, 8.7 Italia e 7.9 Ocse.
Hanno dunque ragione: in Italia ci sono troppi insegnanti rispetto al numero di alunni. Ma una lettura più attenta di alcune specificità del nostro sistema di istruzione rivela una realtà decifrabile in termini diversi. Sulla quale una maggiore buona fede di chi ci governa e di chi interpreta i dati consentirebbe di riflettere con la necessaria attenzione. Nell’anno scolastico 2005-2006 i posti di insegnante statale in Organico di Diritto sono stati complessivamente 737.250, di cui 48.607 di sostegno (fonte MPI). Ed ecco il primo punto: nel resto dell’Europa gli alunni diversamente abili frequentano scuole speciali. Pertanto gli operatori che se ne occupano non vanno ad aumentare il numero dei docenti. Solo in Francia per questi ragazzi viene destinato un organico di 280.000 operatori sociali, che appartengono comunque ad amministrazioni diverse dalla scuola. Ecco come un provvedimento di inclusione, di integrazione e di pari opportunità, nonché una lettura illuminata dell’art. 3 della Costituzione, non solo non viene considerato tale, ma si ritorce contro il sistema scuola. Forse il governo preferirebbe confinare - esattamente come accade, ad esempio, in Germania - bambini e ragazzi diversamente abili in strutture parasanitarie.
Rispetto alla cifra complessiva dei posti in organico di diritto va considerata un’altra "anomalia" - questa volta, al contrario, discutibilissima - del nostro sistema: i 25.679 insegnanti di religione cattolica (di cui 14.670 di ruolo), che altri paesi - in cui l’egemonia politico-culturale della chiesa non è preminente e la laicità della scuola un valore realmente fondante - non hanno l’onore di conteggiare nel numero dei propri insegnanti. L’eterogeneità del nostro territorio, infine, rappresenta un ulteriore elemento che altera il rapporto, ma di cui si continua a non tener conto. Certo, sarebbe forse conveniente lasciare i bambini di Pantelleria, Tremiti, Lampedusa o dei tanti comuni alpestri privi di scuole. Ma, fortunatamente, esiste ancora una norma sull’obbligatorietà dell’istruzione che prevede l’istituzione di scuole e classi in quel tipo di territori. Altro discorso artatamente ignorato è la considerazione del tempo pieno: tale è in Italia la scuola dell’infanzia (8 ore) con un numero doppio di insegnanti rispetto ai paesi con la metà delle ore. Da noi circa il 35% della scuola primaria - finché si riuscirà a resistere agli evidenti tentativi di smantellamento - funziona a tempo pieno (con 70.000 insegnanti in più rispetto al tempo normale), così come una parte importante della scuola media funziona a tempo prolungato: le ricadute in termini sociali, di qualità della vita, di realizzazione professionale delle madri lavoratrici, nonché l’avanzato livello in termini di elaborazione pedagogica e di successo formativo di quelle scuole non sono elementi che sembrano interessare i "contabili" della scuola pubblica, ammesso che ne siano a conoscenza. Grazie a tempo pieno e tempo prolungato, poi, il tempo-scuola degli studenti italiani è - questo sì, realmente - decisamente superiore a quello degli studenti europei. E non bisogna dimenticare che in alcuni sistemi europei dell’istruzione esistono miriadi di figure professionali che - pur svolgendo quella funzione - non sono insegnanti: i bibliotecari delle nostre scuole, ad esempio, sono docenti non idonei per motivi di salute.
Insomma, la peculiarità del rapporto tra alunni e docenti nella scuola italiana - uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori dei tagli e del rigore apparente - deriva invece dalla statura etica e dalle battaglie politiche di chi ha pensato la scuola della Costituzione. I tagli e le loro dimensioni sono quindi inaccettabili. Speriamo che tutti - in fase di discussione del decreto - lo ricordino.

l’Unità 28.6.08
Fava a Sinistra democratica: «Il Pd non sarà mai il nostro partito». Applausi
Il congresso di Chianciano. Autocritica, ma anche attacchi al centrosinistra. «L’opposizione balbetta e finisce per essere sostituita dal Csm»
di Andrea Carugati


La sinistra radicale prova a rialzare la testa, due mesi abbondanti dopo lo tsunami di aprile. E sceglie le acque termali di Chianciano come location per un bagno rigeneratore. Qui, nel parco delle terme, è iniziata ieri l’assemblea nazionale di Sinistra democratica, qui torneranno in luglio Verdi e Prc per i loro congressi. Grande rimpatriata, ieri pomeriggio, sotto il tendone del PalaMontepaschi: Claudio Fava, Mussi, Vendola, Migliore, Cento, Francescato, Russo Spena, Folena, Salvi, Giovanni Berlinguer. Tutti insieme, pacche e sorrisi, qualche nostalgia non tanto velata per il governo Prodi, pur così duramente criticato allora. Oggi però tutto è cambiato e non manca chi, come Paolo Cento, ammette. «Avevamo troppa fame di riforme radicali, non abbiamo capito cosa stava succedendo nel Paese». È l’autocritica a farla da padrona, anche nella relazione di Fava, che pure non mostra nostalgie per il governo Prodi: ma parla senza pudori di una sinistra apparsa agli elettori «invecchiata», «crepuscolare», un semplice «cartello elettorale» in cui «i nostri elettori hanno scorto i segni della menzogna». Ora, però, il punto è non rassegnarsi, perché dice Fava «peggio della sconfitta è abituarsi ad essa». Dunque Sd riparte da una costituente a sinistra come «primo passo verso un nuovo soggetto politico». Obiettivo: «un nuovo centrosinistra», centrato sul Pd e su una nuova forza di sinistra «che non si richiuda negli aggettivi del passato come indisponibile e incompatibile». Una sinistra rigorosa all’opposizione ma anche al governo. Però una sinistra: del lavoro, dei diritti, della questione morale, della lotta alla mafia. E non è un caso che l’applauso più forte Fava lo ottenga quando dice che il Pd «non sarà mai il nostro partito». E quando aggiunge che «noi al Pd il testimone della sinistra non lo vogliamo passare». Sono tante le stoccate a Walter Veltroni, amico da sempre, seduto in prima fila ma molto parco negli applausi. La critica all’autosufficienza, a quella separazione consensuale «in cui era già contenuta la sconfitta»; la critica all’opposizione che «balbetta», «viene sostituita dal Csm», si lascia imporre l’agenda da Berlusconi, che ha capito in ritardo il bluff del cavaliere sul dialogo. Fava lancia un referendum contro il lodo Schifani, e chiede a Veltroni di rinunciare a ogni dialogo: «Con questo governo non si fa nessuna riforma costituzionale». Sfida e dialogo con il Pd, dunque, perché Fava dice esplicitamente che il confronto è «utile purché il Pd metta da parte la presunzione dell’autosufficienza» e invita i democratici a costruire «insieme e dal basso» la manifestazione d’autunno contro il governo. Veltroni si ritrova da ospite tra gli amici e compagni di tante battaglie: Mussi, Leoni, Fumagalli... tante strette di mano da semplici delegati, sorrisi, ma le distanze sulla lettura della priorità restano. E tuttavia il leader Pd non chiude al confronto, sollecitato anche dal capogruppo Pse Martin Schultz, ospite a Chianciano: «Se si costituisce una sinistra con una cultura di governo potranno aprirsi dei margini per un nuovo sistema di alleanze che abbia come baricentro una forza riformista del 34%. Non ho mai parlato di autosufficienza, ho detto e ripeto che non ci saranno più alleanze-ammucchiate contro qualcuno». Su Fava ribadisce «grande stima e affetto, ma c’è ancora del cammino da fare sull’innovazione programmatica. Non basta dire no, bisogna rispondere alle nuove questioni sociali, e non sottovalutare questioni come la sicurezza». Fava propone anche un appuntamento, entro settembre, con tutto l’ex arcobaleno, per costruire l’agenda di una «mobilitazione comune». Vendola, seduto in prima fila, condivide l’analisi sulla sconfitta, l’idea di ricostruire «il senso della sinistra prima del consenso» e anche la proposta di un «processo costituente a sinistra». «Ma senza definire oggi il traguardo, altrimenti rischiamo di strozzare il neonato in culla come è successo con l’Arcobaleno, che non è entrato nel cuore della nostra gente perché non c’era un alfabeto comune ma solo un cartello elettorale. Oggi non possiamo ripetere l’errore, cercare scorciatoie, dobbiamo fare tutta la traversata nel deserto». Più netto Paolo Ferrero, sfidante di Vendola alla guida del Prc, che dice: «Non c’è alcuna possibilità di costruire un partito insieme con Sd, visto che in Europa apparteniamo a famiglie diverse: abbiamo visto cosa sta succedendo su questo nel Pd. Giusto invece costruire un lavoro comune di opposizione a Berlusconi».

l’Unità 28.6.08
C’era una volta il conflitto sociale
di Michele Prospero


Elogio del conflitto
Miguel Benasayag
Angélique Del Rey
Trad. di F. Leoni
pagine 206, euro 16,00
Feltrinelli

POLEMICHE Che fine hanno fatto le lotte sociali in un mondo dalle disparità sempre più abissali? Rispondono Miguel Benasayag e Angélique Del Rey: «Ormai contano le identità». Ma senza soggetti sociali non si va da nessuna parte

È certo un po’ inusuale questo libro di Miguel Benasayag e Angélique Del Rey appena tradotto da Feltrinelli con il titolo accattivante Elogio del conflitto. Nei tempi che corrono, ogni forma di lotta è osservata con sospetto e rimossa dall’agenda come una pura provocazione. O meglio viene esaltato, sulla scia del conservatorismo americano, il «conflitto di cultura», che alcuni chiamano anche «scontro di civiltà», ma stigmatizzato con rudezza il conflitto sociale, dipinto come una insana archeologia. Il conflitto di cultura non lesina mezzi per la sua guerra al terrore, ingaggiata in nome dei diritti umani. Il conflitto sociale invece declina nello spazio pubblico, e anzi guai a parlare di antagonismo fra i ceti sociali per ottenere diversi equilibri di potere e nuovi diritti di cittadinanza. Il conflitto sociale viene archiviato come una indecente anomalia. Eppure non declina nelle società occidentali la fabbrica del nemico. Solo che dopo l’evaporazione delle classi sociali, i nemici sono gli altri, i nomadi, gli stranieri, gli irregolari, i lavavetri, i gay, gli islamici, mai chi è portatore di interessi economico-sociali dominanti e pretende dai governi la immediata rimozione dei diritti che alzano il costo del lavoro.
Benasayag e Del Rey descrivono con efficacia questo spostamento ottico che dirotta le aspettative dei soggetti dal conflitto sociale sempre più evanescente allo scontro identitario sempre più surriscaldato. Imprenditori dinamici e lavoratori sradicati stringono ovunque sante alleanze in nome di un nemico mortale: lo straniero. In ragione della sicurezza, si costruisce nelle città un diversivo insidioso che occulta la distanza economica e nasconde la differenza di potere sociale. La diversità di etnia o di fede emerge così come la più rilevante differenza, e la disparità di potere economico-sociale sfuma come occasione di sociale contesa. I ceti popolari sono quelli che più di altri cadono estasiati sotto le attrattive della politica securitaria, la cui domanda è stimolata con sapienza dai media con deliberate campagne di allarme sociale. Sindaci sceriffi e militari per le strade, sono le sole richieste «pragmatiche» rivolte a una politica post-ideologica che nelle sue trame invisibili bada al sodo, ossia alla finanza, allo scambio ravvicinato tra pubblico e privato, come ingrediente della governance postmoderna. Perché si riscontra questo facile successo della politica securitaria? E come arginarne la presa divenuta in breve così asfissiante?
Nel libro di Benasayag e Del Rey, pur apprezzabile per lo sforzo di mantenere aperto uno spiraglio di criticità verso l’ordine esistente, si riscontrano due significative mancanze. La prima è un’assenza bibliografica (e non solo) un po’ vistosa, quella di Machiavelli, ovvero del primo teorico della produttività del conflitto in politica. Mai citato. Una dimenticanza che però pesa, perché nel segretario fiorentino il carattere costruttivo (di libertà e di nuovi ordini sociali) del conflitto discende da una feconda interazione tra forme della contesa e reticoli politico-istituzionali. Sulla scia di un certo radicalismo francese, che si muove in gran parte sulle orme di Foucault, le pagine di Benasayag e Del Rey prediligono una «microfisica del contropotere» che, in strenua opposizione alla devitalizzazione del tessuto sociale, dispiega ovunque possibile degli sprazzi di resistenze, scontri locali, devianza e disprezza ogni macropotere che pretende di rappresentare la molteplicità dell’agire sociale. La contrapposizione ferrea tra la potenza sociale disseminata nei luoghi della «devianza», e il momento della generalità del potere normativo conduce ad esiti teorici molto insoddisfacenti.
Un senso della generalità, e quindi anche una attitudine alla rappresentazione nella sfera pubblica, non può mancare nella strategia del conflitto, pena la condanna alla sua estrema irrilevanza. Questo aggancio sempre fecondo è ben presente in un altro libro appena uscito, scritto da Charles Tilly e Sindney Tarrow: La politica del conflitto. Senza una intersezione con quelli che proprio Machiavelli chiamava gli ordini e gli istituti, più che un conflitto innovativo si ha soltanto un generico ribellismo che non porta a sbocchi in avanti, e quindi a momenti costruttivi di nuove forme. E proprio qui si incontra la seconda assenza riscontrabile nel libro di Benasayag e del Rey, quella di una convincente radiografia dei soggetti sociali protagonisti del conflitto postmoderno. La via del contropotere da essi imboccata nel libro non soltanto non prevede norma (vista sempre come violenza, giogo) ma si affida a figure troppo generiche unificate solo da uno spirito di privazione e da un indeterminato e inappagato eccesso creativo del desiderio. Insomma manca, nel variopinto brulicare di corpi deprivati e comunque «desideranti», proprio il corpo che lavora ed è situato in condizioni di dipendenza, nella esistente divisione sociale delle funzioni.
Anche se gli autori dichiarano di aderire ad una prospettiva materialistica, e intendono finalmente ritrovare la corporeità, affrancandola dalla dimensione sacrificale verso cui la confina l’età del post-umano, il conflitto per loro non si svolge mai attorno al processo di produzione dei beni materiali e immateriali. La nozione dei «senza» (assistenza sanitaria, permesso di soggiorno, tetto, lavoro, documenti) assume nelle loro pagine il compito di attaccare alla radice le strategie securitarie del «biopotere». Tutto ciò che per svariati motivi incarna il «fuori norma», indica nel libro una via possibile di resistenza. In nome del conflitto senza soluzione, il libro esorta all’azione irriducibile i «senza», cioè i soggetti marginali che di solito però ritengono esaurito lo scontro appena abbiano ottenuto ciò che loro mancava (permesso di soggiorno ecc.). I «senza forma» promossi sul campo come «nuovi soggetti sociali», in grado di resistere alle strategie disciplinari e normative del potere, appaiono a Benasayag e del Rey come l’unica «radice ontologica di ogni forma di creazione». Se davvero il mero resistere al potere equivale a scorgere soglie critiche pronte a creare il nuovo, il conflitto perde così ogni aggancio con la dimensione sociale e materiale, e rigetta ogni fondazione di una normatività diversa.
E così il libro finisce però con l’essere subalterno all’ordine postmoderno - ne assume i paradigmi, sia pure per rovesciarli - e ne condivide gli sviamenti, sia pure per contrastarli. Le «strategie securitarie», che inducono alla costruzione di piccole fortezze private, non vengono colte nella loro genesi e il conflitto perde la sua specifica pregnanza sociale per assumere le troppo ambigue e sfuggenti vesti «di un ingovernabile che è parte essenziale della realtà dell’uomo». Talché, più che una ontologia del conflitto visto come una invariante e però volatile dimensione dell’essere, serve invece una fenomenologia del conflitto, colto nelle sue effettive ed empiriche modalità di svolgimento. E qui serve una diagnosi della società e dell’economia reale per individuare, nelle forme concrete di esistenza, l’insorgere di interessi contrastanti, se è vero, come scrivono Tilly e Tarrow, che «il conflitto ha a che fare con le rivendicazioni che impattano sugli interessi di qualcun altro». Quali interessi far prevalere nella decisione e quali lasciare soccombere, questa è la posta in gioco in ogni fenomenologia politica del conflitto reale che sempre scaturisce dall’incrocio di azioni collettive, costruzioni giuridiche, istituzioni.
Come mai il postmoderno, quando non si culla nelle politiche securitarie, esprime solo le rivendicazioni identitarie dei popoli nativi contro la globalizzazione liberista, le sollevazioni sporadiche di breve durata nelle periferie del mondo? Nelle società occidentali si assiste a un autentico paradosso. Le distanze sociali crescono in maniera impressionante, così come una sensibile impennata hanno la diseguaglianza e la precarietà. Diminuiscono invece i salari, le protezioni sindacali e declina il potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Ma nessun conflitto durevole ha per asse strategico la nuova questione sociale. Nella vecchia Europa anzi con la depoliticizzazione della vita sociale, e con il lungo disincanto che produce defezione, si apre di nuovo la strada del contratto individuale, roba da primo ottocento. In nome della sacralità del contratto, vengono archiviati i deboli sindacati e si prospetta come segno della modernità un tempo di lavoro 65 ore settimanali! Si torna, dopo oltre un secolo, alla percezione di plusvalore assoluto, ovvero al profitto succhiato attraverso il prolungamento indeterminato della giornata lavorativa e salari compressi verso il minimo. Parrebbe la condizione ideale per una ripresa di azione politica e di conflitto. E invece al momento, se una rivolta c’è, è solo silenziosa. Se un disagio esiste, non si organizza. Forse ciò accade, come scrivono Tilly e Tarrow, perché «la politica moderna presenta flussi conflittuali ricorrenti, ma anche la diffusa calma piatta dell’apatia». Eppure c’è qualcosa che scavalca la pura ciclicità di momenti di azione collettiva e di fasi di riflusso dei movimenti sociali.
«Ma perché così spesso i cittadini dei regimi democratici se ne stanno con le mani in mano anche quando avrebbero tutti i diritti di resistere?». Questa è la domanda cruciale che Tilly e Tarrow pongono con forza, e alla quale non si può rispondere senza accennare al vero nodo: la sconfitta politica subita dal mondo del lavoro. Quello che ormai anche in Europa si sconta, dopo l’eclisse della grande politica inventata dal movimento operaio, è la difficoltà di rimodulare le forme dell’azione collettiva in assenza di un soggetto sociale. Per questo gli addetti ai lavori dipendenti non diminuiscono affatto dal punto di vista quantitativo, ma perdono ogni rappresentanza e capacità d’azione. Si uscirà da questa condizione solo con la reinvenzione delle forme dell’autonomia politica del lavoro. Una politica del conflitto primo o poi tornerà, la sollecita la dura condizione materiale (si calcola che negli ultimi 10-15 anni i lavoratori hanno perso circa 7mila euro annui di stipendio) e obbligherà il socialismo europeo a destarsi finalmente dal suo più che decennale torpore scambiato per «riformismo». È il sonno del socialismo che genera i mostri del governo securitario.

La politica del conflitto
Charles Tilly
Sidney G. Tarrow
A cura di T. Vitale - Trad. di A. Guaraldo
pagine 301, euro 32,00
Bruno Mondadori

Corriere della Sera 28.6.08
L'opposizione smarrita e i rischi di rissa permanente
di Massimo Franco


In una situazione normale, la sospensione dei processi per le quattro più alte cariche dello Stato andrebbe considerata quasi fisiologica. Ma per il modo in cui è maturata ed è stata approvata dal Consiglio dei ministri di ieri, può diventare la tappa di uno scontro inarrestabile. Preoccupa che fra le invettive di Silvio Berlusconi contro la magistratura politicizzata e quelle di Antonio Di Pietro contro il premier, si stia creando il vuoto: come se il grosso dell'opposizione fosse stata colta impreparata dall'accelerazione di Palazzo Chigi. Ora il dialogo è «archiviato», ammette sconsolato Walter Veltroni, segretario del Pd.
L'incrinatura creatasi fra il ministro della Giustizia ed il Csm aggiunge motivi di inquietudine. Quando Angelo Alfano critica le fughe di notizie sul parere di incostituzionalità del Consiglio sul «decreto salva-premier », registra un rapporto di fiducia inevitabilmente scosso. La richiesta di dimissioni del vicepresidente, Nicola Mancino, da parte di un esponente del centrodestra è stata declassata ad iniziativa personale dallo stesso Pdl. Ma i lividi politici rimangono. Nel governo si parla di «riforma del Csm». Mancino replica che vuol dire «tutto e niente». E loda la prova di autonomia data con l'assoluzione del gip di Milano, Clementina Forleo, sul caso Unipol.
C'è chi vede le tappe di un'escalation, e ne tira le conseguenze. Il grappolo di referendum annunciati da Di Pietro riflette l'esaurimento di ogni margine di dialogo. Anzi, in qualche misura tende ad anticipare il fallimento, affidando a quella «gente» evocata da Berlusconi il compito di dividersi fra governo di centrodestra e magistratura antiberlusconiana. Si tratterebbe di un epilogo ambiguo e pericoloso, al di là del risultato. Oggi il presidente del Consiglio si ritiene più forte del passato. Il dipietrismo sembra avere un seguito meno vasto e radicalizzato. E le intercettazioni hanno effetti controversi sull'opinione pubblica. La resa dei conti, dunque, potrebbe riservare sorprese.
Ma la lacerazione che si crea accentua tensioni non solo istituzionali. È una rissa nella quale si smarriscono le responsabilità, e diventano palpabili i danni. Si accentua agli occhi dell'Europa l'immagine di un'Italia senza pace. Gli oppositori di Berlusconi alimentano i peggiori clichè. E il governo fatica a smentirli, quando non finisce per alimentarli.
L'idea di prendere le impronte digitali ai bambini «rom» viene difesa dal ministro dell'Interno, il leghista Roberto Maroni, come un provvedimento nell'interesse dei minori. Ma le reazioni negative della sinistra e della Chiesa cattolica promettono di saldarsi con quelle di un'Ue su un governo italiano sospettato di xenofobia.
Sono problemi che minacciano palazzo Chigi. Si aggiungono al dramma della crisi irrisolta dell'Alitalia e alla spazzatura a Napoli, che fanno dire ad un Berlusconi frustrato: «Non si riesce ad accelerare. Abbiamo i rifiuti in mezzo alle strade ed ora andiamo incontro ad un'estate caldissima». Osservando la situazione, ieri il premier si è sfogato: «O guido il governo o vado alle udienze», nelle quali è imputato. Il dilemma è drammatico: per l'Italia più ancora che per lui. L'opposizione sostiene che se fosse condannato in primo grado non dovrebbe dimettersi. Ma sarebbe ragionevole trovare una soluzione prima. E il Quirinale si prepara a dire un sì tecnico alla decisione di ieri del governo.

Corriere della Sera 28.6.08
Dopo la Corte suprema «Camaleonte». «No, pragmatico»
«Il boia per i pedofili» Barack va a destra
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Sempre più vicino alle posizioni del rivale McCain e più lontano dal liberalismo degli inizi. L'ultimo «voltafaccia» ideologico di Barack Obama desta scalpore: il senatore dell'Illinois ha preceduto McCain nel contestare la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che si è schierata contro la pena di morte nei confronti dei responsabili di stupro contro i minorenni.
«Penso che la pena capitale debba essere data solo in circostanze molto particolari e solo per i crimini più gravi — ha precisato Obama — ma lo stupro di un bimbo di sei o otto anni è un crimine orrendo e se uno stato decide che sotto precise circostanze il patibolo è applicabile, allora questo non dovrebbe essere giudicato anticostituzionale».
Con questa tesi, puntano già il dito i suoi nemici, Obama contraddice se stesso. Nel suo bestseller autobiografico «L'audacia della Speranza » (pubblicato in Italia da Rizzoli) il senatore scrive, parlando della pena di morte, che «il boia fa ben poco per prevenire il crimine». Non solo. Anni fa il candidato democratico bollò il sistema giudiziario Usa come «difettoso », chiedendo la moratoria di tutte le esecuzioni.
Idee confuse? No: Realpolitik.
Inaugurata durante la corsa al senato del 2004, quando scese in campo a favore della pena di morte in un Paese dove nessun politico anti-capestro può realisticamente pensare di far carriera come dimostra il fatto che, dal ripristino della Pena di morte, nel 1976, l'America non ha mai eletto un solo presidente abolizionista.
«Obama sta pragmaticamente spostandosi verso il centro», commenta il New York Times in un lungo articolo che analizza il graduale spostamento a destra del candidato democratico, man mano che la corsa alla Casa Bianca si avvicina al traguardo, su temi che vanno dal diritto del cittadino di girare armato al finanziamento pubblico dei partiti allo spionaggio elettronico sui cittadini.
«Tutti i candidati presidenziali desiderano essere considerati pragmatici — lo difende lo storico presidenziale Robert Dallek —. Sperano che il loro trasformismo venga giudicato dagli elettori come un gesto teso a scopi nobili e non la prova di insincerità ». In quanto a trasformismo Obama è in buona compagnia.
Basta pensare che lo stesso Franklin D. Roosevelt, uno dei più grandi presidenti della storia Usa, fu soprannominato «camaleonte in smoking » da Herbert Hoover per il suo leggendario equilibrismo.
A spianare la strada di Obama ci ha pensato Bill Clinton, che ha coniato la parola «centro vitale» per designare il più ambito e cruciale target elettorale di ogni aspirante presidente. Il suo «allievo» ha imparato la lezione. «Sin dall'inizio ha mostrato grande apprezzamento per le virtù dell'ambiguità politica», ironizza il Times, notando come spesso sposi le tesi opposte dello stesso argomento (sulla pena di morte e sul porto d'armi ha espresso quattro pareri contrastanti). Tanto che il sito HumanEvents.com gli suggerisce di adottare, come canzone ufficiale, «Karma Chamaleon», il megahit di Boy George, un inno a tutti i trasformisti del pianeta.

Corriere della Sera 28.6.08
D'Alema dà appuntamento alla sinistra
«Ci ritroveremo, no all'autosufficienza». Veltroni: «Mai cercata, voglio alleanze sui programmi»


Il leader pd alle prese con le richieste dell'ex Margherita: affitto per la nuova sede e assunzione del personale

ROMA — Arrivederci a presto. «Se il Pd sarà fatto bene e sarà robusto e se chi vive il travaglio della sinistra lavora per una forza organizzata, facendo anche autocritica sul passato, tra non moltissimo tempo ci ritroveremo». Chiude così Massimo D'Alema il suo intervento al Centro studi per la Riforma dello Stato. Ad ascoltarlo esponenti di tutti i partiti della sinistra alternativa, da Sd a Rifondazione. I leader non sono il sala perché Fabio Mussi se ne va prima e Bertinotti, Vendola e Giordano sono impegnati altrove. Ma le sue parole, compreso quando dice «il Pd, che si sta costituendo come un grande partito riformista, non pensi o pretenda di essere autosufficiente » e quando invita la sinistra «a rendersi utile al Paese», ricevono un'accoglienza calorosa. A tratti è anche sferzante l'ex ministro degli Esteri, come quando avverte che non è più il tempo di «pensare a una grande sinistra che si accordi con il centro, perché non si torna indietro» e che tra gli errori degli ultimi anni vanno annoverate «le vanità autoreferenziali di gruppetti dirigenti, che hanno contribuito a raffigurarci come impotenti e senza leadership negli ultimi anni». Ai «compagni» della sinistra spiega anche che non bisogna stare ancorati al Pse, perché «nel mondo al governo ci sono grandi forze riformiste che non sono socialiste e quindi le vecchie categorie della politica vanno ammodernate ».
«È bravo — commenta Vendola, citando una battuta di Amendola — a fare l'autocritica degli altri. Ma mi piace che tutti con diversi percorsi si ricostruisca il rapporto tra la sinistra e il popolo». E invece le parole di Veltroni che, dopo essere stato seduto in prima fila all'assemblea della Sinistra Democratica a Chianciano accanto a Vendola insiste che non «c'è mai stata la presunzione di autosufficienza, ma solo il tentativo di fare alleanze sui programmi»? «Non l'ho sentito», taglia corto Vendola. E comunque anche il leader del Pd — mentre si ritrova alle prese con la richiesta della Margherita che vuole l'affitto della sede di via del Nazareno, ceduta dal partito di Rutelli a Veltroni, e chiede l'assunzione di tutto il personale — ha ripreso a tessere la faticosa tela delle alleanze: in autunno, sperano Giordano e Vendola, dopo i recenti incontri con Veltroni, Pd e partiti della sinistra alternativa potrebbero ritrovarsi insieme in piazza.
Gianna Fregonara Iniziative D'Alema e Anna Finocchiaro alla presentazione del volume di Italianieuropei sui diritti umani

Corriere della Sera 28.6.08
Il settimanale nato da «Avvenimenti»
Stipendio negato all'ex condirettore Il tribunale pignora la testata di «Left»
di Olga Piscitelli


Left nato sulle ceneri di Avvenimenti, la testata è stata pignorata per 30 mila euro di debiti

MILANO — Niente stipendio al direttore, testata pignorata. Il settimanale Left,
nato dalle ceneri di Avvenimenti, è al centro di un contenzioso giudiziario che vede schierato da un lato l'ex condirettore, Andrea Purgatori, dall'altro l'ad Luca Bonaccorsi, pure direttore editoriale. In mezzo, la testata, cioè il nome della rivista che in inglese significa Sinistra ma è anche, stando agli editoriali degli esordi, l'acronimo di Liberté, egalité, fraternité. Da due anni in edicola, Left continua ad uscire, ogni venerdì; la redazione è al lavoro, ma il nome, solo quello, è sotto scacco dei giudici, bloccato, come un divano o un'automobile, a garanzia del debito di 30 mila euro con l'ex direttore.
«Provvedimento esagerato, la testata vale almeno un milione», tuona l'editore; «la risposta a un modo incivile di dirsi addio», replica Purgatori. «Mossa singolare, con un solo precedente, al Roma. Inevitabile dopo un'ingiunzione di pagamento disattesa», ammettono i legali dello studio Sergio Russo, che difendono Purgatori. L'ufficiale giudiziario entra in redazione il 28 aprile e nomina Bonaccorsi «custode del bene». Prossime tappe: l'istanza di vendita, la perizia, l'asta pubblica. Non c'è pace a Left. Due direttori defenestrati, all'inizio dell'avventura, Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci, altri due, Purgatori e Alberto Ferrigolo, congedati senza complimenti. È a quel punto che esce di scena l'altro editore, Ivan Gardini, figlio di Raul, il finanziere suicida per lo scandalo Enimont. Ora il pignoramento.

Corriere della Sera 28.6.08
Incontro con Pierre Laurens della Sorbona. «Ho tradotto l'"Africa", poesia pura come marmo»
Petrarca, la Francia batte l'ItaliaVerso l'opera omnia. Con l'elogio degli studi di Enrico Fenzi, ex terrorista
di Armando Torno


In Italia sono disponibili poco più di 300 titoli «di e su» Petrarca. Tantissime edizioni del Canzoniere, annali, studi: si trova un po' di tutto cercando con pazienza in rete, persino audiolibri. Mancano però le sue opere complete, a meno che si voglia leggerle su Cd-rom (realizzato dalla Lexis avvalendosi anche delle stampe cinquecentesche di Basilea), così come non si trova il poema l'Africa. L'edizione nazionale è ferma al 1964, ma case editrici quali Le Lettere — con la collana «Petrarca del centenario » — o Aragno stanno dedicando parte del loro catalogo agli scritti del sommo poeta e umanista. Diremo inoltre che la ricordata serie della fiorentina Le Lettere, nella menzionata collana avviata nel 2004, rappresenta quanto di meglio circola da noi per cinque opere petrarchesche (sette i libri pubblicati), alle quali vanno aggiunti due di postille. Figurano nel sito anche l'anastatica dell'Africa (edizione del 1926) e delle lettere Familiari (del 1942), ma entrambe sono dichiarate esaurite.
Ora, chi volesse un'edizione dell'Africa, il cui argomento è preso dalle guerre puniche e alla quale Petrarca lavorò a lungo senza mai completarla, credendo di affidare ad essa la sua fama, potrebbe trovarne addirittura due in una libreria o in un sito francesi: quella curata da Rebecca Lenoir per l'editore Millon (che non ha suscitato entusiasmi); e i primi cinque libri del poema, con testo critico e traduzione, nella cura di uno dei maestri della Sorbona, Pierre Laurens. Quest'ultima è uscita nella collana «Les Classiques de l'Humanisme» della parigina Les Belles Lettres. L'opera sarà completa nel volgere di qualche mese e ci sono già le bozze.
A questa va aggiunta un'altra notizia: mentre da noi prosegue il «Petrarca del centenario» (Giuseppe Frasso della Cattolica di Milano ci ha confidato, tra l'altro, che qui uscirà presto il Canzoniere, da lui curato con Rosanna Bettarini) i francesi hanno intenzione di intensificare le pubblicazioni. Lo scopo è chiaro: diventare un nuovo punto di riferimento, grazie all'eventuale messa in rete. Non realizzano edizioni collazionando tutti i codici, ma offrono testi critici (Belles Lettres) e comunque utili (Millon). Proprio Millon ha ormai in catalogo le opere filosofiche: 9 titoli, tra i quali l'importante De remediis (l'anima movens di questa iniziativa è Christophe Carraud); alle Belles Lettres si parla di «tutto Petrarca», anche se per ora ci sono 10 volumi con tre opere, ma stanno per completarsi la ricordata Africa e le fondamentali lettere Senili (di esse mancava un'edizione integrale moderna). Per tal motivo abbiamo incontrato Pierre Laurens, cercando di conoscerne i progetti e le prospettive.
Ci ha dato appuntamento a Versailles, alla Galerie des Glaces. Con la moglie Florence stava decifrando alcune iscrizioni latine scoperte sotto le pitture di Le Brun e coperte da due strati di altre scritte in francese, alla composizione delle quali parteciparono anche Boileau e Racine. Non ci soffermeremo sui frammenti emersi dal restauro, legati alla grandezza di Luigi XIV, anche se il professore innamorato della poesia li considera il primo documento della querelle tra antichi e moderni. Il nostro incontro era per Petrarca e le pubblicazioni delle sue opere.
Laurens ci conferma che a Parigi le uscite si intensificheranno, in modo da realizzare «tutto Petrarca» per la prima volta nella storia. Parla dell'Africa, da lui tradotta in versi alessandrini liberi, alla quale ha premesso un saggio di 150 pagine. Si lascia scappare un giudizio: «Poesia pura, levigata come una statua di marmo». Prosegue: «Da molto tempo il poema attendeva una vera edizione, giacché quella di Nicola Festa del 1926 fu terminata in fretta, forse a causa di pressioni politiche». Quasi sicuramente il primo fascismo ci mise lo zampino e il curatore si comportò come ognuno di noi può immaginare. Ma il professore non si sofferma più del dovuto su questi dettagli e riprende: «Devo ringraziare il magistrale lavoro fatto da Vincenzo Fera che ha scoperto l'ultimo autografo del poema nel codice Laurentianus Acquisti e Doni 441. I suoi studi del 1980 e 1984 mi hanno permesso di realizzare l'edizione». Dopo il dovuto omaggio ricorda che sull'Africa resta esemplare il giudizio che ne ha dato Enrico Fenzi: «Un'opera incompiuta perché viva». Già, Fenzi. Qualcuno lo ricorda come militante della lotta armata, ma è soprattutto un eccellente conoscitore di umanisti. Suo è l'importante saggio Lo stato presente delle edizioni di Petrarca (uscito sul «Bollettino di italianistica», n. 2, 2006) nel quale denunciava «i tempi biblici» nonché «i ripetuti abbandoni (una storia davvero impressionante) che caratterizzano la storia delle edizioni di Petrarca». Tanto da augurare — lo fa citando Francesco Bausi, uno dei curatori dell'edizione del centenario — un modello che «si rifaccia alla collana "I Tatti Renaissance Library"», pubblicata dalla Harvard University.
E qui si apre uno scenario più vasto. Laurens ci fa notare che lo spirito pragmatico della collana "I Tatti" se non minaccia per ora le edizioni di Petrarca potrebbe diventare nel volgere di brevissimo tempo l'altro riferimento internazionale per i testi degli umanisti italiani. Senza eccessive preoccupazioni filologiche, tali volumi cercano di dare alle stampe (e poi eventualmente alla rete) il testo più sicuro oggi a disposizione, evitando lungaggini per scovare varianti che porterebbero — nota ancora Fenzi — «minime modifiche (o addirittura nessuna) al testo già edito».
Che dire? Facciamo parlare i nomi. I testi degli umanisti italiani costituiscono ormai un riferimento nel catalogo di Harvard. Ne "I Tatti" ci sono opere di Alberti, Bembo, Boccaccio, Leonardo Bruni, Marsilio Ficino, Giannozzo Manetti, Poliziano, Pontano, Lorenzo Valla, Maffeo Vegio e altre si annunciano per l'autunno, introvabili in Italia. C'è una sola opera di Petrarca, per fortuna: se incominciassero anche con lui, sarebbe persa la partita. A Parigi, per completare il quadro, nella collana curata da Laurens sono apparsi 29 titoli: Pietro Martire d'Anghiera, Flavio Biondo, Girolamo Mercuriale, Agostino Nifo, Albertino Mussato, Poliziano, Marsilio Ficino, Poggio Bracciolini, Leon Battista Alberti (del quale si annunciano le opere complete) e Petrarca.
Morale: non è nostra intenzione entrare in polemica, né elogiare case come le Edizioni di Storia e Letteratura o Antenore che mantengono un catalogo di qualità con questo genere di testi, ma far presente una situazione che, grazie anche a Internet, è cambiata rispetto al tempo che fu. Gli umanisti, Petrarca in particolare, sono un nostro patrimonio. Se oltralpe fanno edizioni di italiani basandosi su studi italiani e qualche volta facendoli curare addirittura da italiani, forse gli italiani potrebbero fare qualcosa di più.

Repubblica 28.6.08
Nozze in calo: per la prima volta il numero delle persone non sposate supera quello dei coniugati
Gran Bretagna, il sorpasso dei celibi


LONDRA - «Il matrimonio? E´ la paura di passare una sera soli a casa, con due uova al tegamino e niente da vedere alla televisione». La battuta era di Lino Ventura, in Una donna e una canaglia, vecchio film d´amore. Forse incoraggiati da take-away e tv con 900 canali, gli inglesi odierni a quanto pare concordano: si sposano sempre di meno. Per la prima volta da quando si tengono statistiche sulle popolazione, infatti, in questo paese ci sono più single che coniugati. La tendenza era in atto da tempo, ora ha prodotto uno storico sorpasso: l´anno scorso gli sposati sono diventati, sia pure di poco, minoranza. E il fenomeno, sebbene più evidente in un paese largamente laico come il Regno Unito, riflette probabilmente un mutamento simile anche nel resto d´Europa.
E´ l´Ufficio Nazionale di Statistica a dare l´annuncio. Nel 2005, il 50,2% della popolazione di Inghilterra e Galles era sposato. Nel 2006, l´ultimo anno di cui sono disponibili i dati, si sono celebrati 236.980 matrimoni, il numero più basso dal 1895. Gli esperti calcolano che da allora il declino delle nozze sia proseguito alla stesso ritmo e che nel 2007 sia avvenuto il sorpasso dei non-sposati sugli sposati. Se la rotta non cambia, nel 2030 la percentuale degli sposati sarà scesa al 40-45% della popolazione. Quelli che si sposano, inoltre, lo fanno sempre più tardi: nel 1995 il 61% delle donne si sposava a meno di 30 anni, ora è solo il 45% a sposarsi giovane. Tutti gli altri, prima di pronunciare il fatidico sì, aspettano: vogliono pensarci bene. I non-sposati comprendono single, divorziati e vedovi. Nel 2005, su 14 milioni e mezzo di non sposati, 4 milioni convivevano con un partner. Significa che molti, se decidono di formare una coppia, preferiscono non avere il vincolo del matrimonio. Come il Lino Ventura del film.
(e.f.)

Repubblica 28.6.08
Il Papa: "La Cina ha bisogno di Cristo"


CITTÀ DEL VATICANO - Il Papa ha esortato ieri a «non dimenticare» che Cristo è, anche per la Cina popolare, «una maestro, un pastore, un redentore amoroso». «La Chiesa non può tacere questa buona notizia», si è raccomandato, ricevendo ieri in udienza in Vaticano il vescovo di Hong Kong, cardinal Joseph Zen Ze-Kiung, e quello di Macao, monsignor José Lai Hung-Seng, rappresentanti ecclesiastici delle due ex colonie (una britannica e l´altra portoghese) tornate alla Cina con un statuto speciale. Benedetto XVI è tornato a lanciare un messaggio a Pechino. «Mi auguro, e chiedo al Signore, che arrivi presto il giorno in cui anche i vostri confratelli della Cina continentale - ha detto ai presuli delle due ex colonie - possano venire a Roma in pellegrinaggio sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, in segno di comunione con il Successore di Pietro e con la Chiesa universale».

Repubblica 28.6.08
La Chiesa contro Montaigne
Un saggio di Saverio Ricci su "Inquisitori, censori e filosofi"
di Benedetta Craveri


Quando arrivò a Roma nel 1580 lo scrittore si vide sequestrare i bagagli compresa la copia degli "Essais" fresca di stampa
Dopo lo scisma protestante ci fu una lotta capillare anche preventiva contro l´eresia
Molti libri erano semplicemente messi all´Indice, altri venivano emendati

Più che mai determinata, dopo lo scisma protestante, a condurre una lotta capillare contro l´eresia, la Chiesa di Roma mise a punto un grandioso sistema censorio volto a preservare l´ortodossia del mondo cattolico. Non si trattava soltanto di bloccare l´importazione delle opere dei pensatori riformati o sequestrare dalle biblioteche pubbliche e private i libri che si erano rivelati pericolosi, a cominciare dalle traduzioni dei testi sacri in lingua volgare che, consentendo ai lettori comuni una conoscenza diretta delle scritture, li incoraggiava allo spirito critico e alla controversia. Bisognava controllare l´intera vita intellettuale del mondo cattolico, sottoponendo a una severa censura preventiva qualsiasi testo destinato alla pubblicazione e innescando di conseguenza negli scrittori un meccanismo di auto censura di cui è impossibile oggi misurare la portata.
Dopo la pubblicazione dei primi Indici romani dei libri proibiti (1559,1564), tre organi furono chiamati a fare fronte in modo sistematico a questo programma totalizzante. Il Santo Uffizio che, istituito nel 1542, aveva la somma responsabilità di vigilare sull´ortodossia di tutta la res publica christiana; la Congregazione dell´Indice dei libri proibiti, creata da Pio V nel 1571 e incaricata, almeno in teoria, di esercitare la sua attività su tutto il mondo cattolico; il Maestro del Sacro Palazzo, vale a dire il teologo del papa, responsabile della censura a Roma.
Il programma censorio prevedeva due fasi. La prima, e di gran lunga la più semplice, consisteva nella messa all´indice preventiva delle opere che per una qualsiasi ragione potevano apparire sospette. La seconda, assai più complessa, prevedeva l´emendatio, vale a dire un vero e proprio lavoro di editing - soppressioni, manipolazioni, chiose - a cui sottoporre i testi confiscati giudicati recuperabili.
Fra gli esponenti più illuminati del clero l´esigenza di una difesa intransigente del dogma si accompagnava, infatti, alla convinzione che il pensiero religioso non andasse tagliato fuori dagli sviluppi del pensiero filosofico e che si dovesse tenere conto tanto delle esigenze dei lettori colti, quanto degli interessi del mercato librario dell´intera Penisola che una politica di censura senza appello rischiava di mettere in ginocchio. Eppure, nonostante uno straordinario dispiegamento di forze, le cose non andarono nel modo auspicato. Mentre il numero dei titoli messi all´indice a scopo cautelativo non avrebbe fatto che aumentare, il lavoro di revisione, che doveva consentire a molti dei testi congelati di rientrare in circolazione, procedeva a rilento, rivelandosi, nella maggioranza dei casi, inattuabile.
Basti pensare al fallimento dell´expurgatio del Talmud ebraico, alle mancate revisioni del Cortegiano di Castiglione e del Decamerone di Boccaccio, o al tormentato problema della «espurgabilità» di Machiavelli e di Erasmo. Perché, lungi dal limitare il suo campo di intervento all´eresia teologica, la Chiesa era andata estendendo la sua volontà di controllo a tutti i campi dello scibile, dagli studi politici e giuridici alla fisica, alla scienza, alla matematica, all´astronomia, ai trattati di magia, alle arti esoteriche. E la sua attività censoria investiva ugualmente la letteratura antica e moderna, i poemi cavallereschi, la poesia erotica, i romanzi. Per esaminare l´opera del popolarissimo Ariosto si istruì, ad esempio, a Ferrara, una commissione apposita, interamente consacrata a correggerne gli errori.
In questo quadro di guerra preventiva, la filosofia rimaneva naturalmente la maggiore indiziata e la condanna al rogo di Giordano Bruno nel 1600 e il terribile processo a Tommaso Campanella dovevano testimoniare in modo non equivoco dell´intransigenza della curia romana in fatto di dottrina. Ed è proprio a partire da una attenta messa in prospettiva critica di un secolo e mezzo di studi sull´azione della censura pontificia che Saverio Ricci, prese le debite distanze sia dalla leggenda nera dell´Inquisizione che da una sua ancor più inaccettabile leggenda «rosa», riapre oggi, in un libro dotto e appassionante, l´immenso dossier sulla politica di salvaguardia della Chiesa nei confronti della filosofia alla luce di alcuni casi significativi di censura cinquecentesca.
Se non è qui possibile rendere conto della complessità del quadro storico culturale e delle preoccupazioni teologiche che fanno da sfondo a Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della controriforma (Salerno Editrice, pagg. 426, euro 24,00), i due importanti capitoli consacrati da Ricci a Montaigne ci consentono di cogliere le esitazioni della Chiesa sulla strategie filosofiche da seguire come pure le contraddizioni che la paralizzavano dall´interno, costringendola a una politica di compromesso non sempre proficua. Come scrive, infatti, Ricci «la Chiesa cattolica avvertì precocemente un sentore di eterodossia negli Essais del signore di Montaigne, non appena questi e il suo libro arrivarono a Roma, ma dimostrò molto tardi piena contezza del pericolo che quel libro avrebbe potuto costituire per la fede. La inserì infatti nell´Indice dei libri proibiti quasi un secolo dopo la sua pubblicazione, sulla base di una nuova lettura, e in un contesto molto mutato». Proviamo, dunque, sul filo della ricostruzione dello studioso, a capire le ragioni di questa censura in due tempi.
Giunto a Roma nel novembre del 1580, Montaigne ebbe la sgradita sorpresa di vedersi sequestrare dagli ufficiali della dogana pontificia tutti i volumi trovati tra i suoi bagagli, ivi compreso un esemplare degli Essais fresco di stampa. Benché autorizzata dalla curia di Bordeaux e munita di regolare privilegio reale, l´opera era ora chiamata a fare i conti con quel sistema inquisitoriale che i re di Francia si erano rifiutati di insediare nel loro paese. Mentre le autorità competenti passavano al vaglio ciò che aveva scritto, Montaigne riceveva, per altro, un accoglienza degna di un dotto gentiluomo che godeva della considerazione di Caterina de´ Medici e di Enrico III di Valois, nonché dell´amicizia personale dell´ambasciatore di Francia a Roma il conte d´Albain. E presentato al papa Gregorio XIII e ammesso al bacio della pantofola, Montaigne veniva esortato dal pontefice a «continuar nella devozione da lui sempre professata alla Chiesa e nel servizio del re cristianissimo».
In realtà tanto la devozione di Montaigne che quella del suo sovrano suscitavano non poche giustificate riserve agli occhi della curia romana. Dopo l´exploit della notte di San Bartolomeo, salutata a Roma da un tripudio di Te Deum, i Valois si erano, infatti, mostrati colpevolmente esitanti nella lotta contro l´eresia protestante ed avevano appena sottoscritto la pace di Fleix che metteva fine alla settima guerra di religione, là dove Montaigne, ignorando il divieto che pesava sull´opera, aveva tradotto in francese la Theologia naturalis di Raimond Sebond per poi tornare ad interessarsi alle posizioni dell´agostiniano catalano nell´Apologia di Raimondo Sebond nel secondo libro degli Essais.
Ma proprio in considerazione della difficile situazione francese, non bisognava disconoscere a Montaigne il merito di avere diffuso nel suo paese un trattato che, pur colpevole di ridimensionare il ruolo di mediazione della Chiesa nella interpretazione delle Scritture, insistendo sulla dimostrabilità razionale delle verità cattoliche, sul libero arbitrio, sull´eccellenza umana, poteva rivelarsi utile nella confutazione degli eretici? E venendo alle convinzioni scettico-fideistiche e alla concezione politica della religione esposte da Montaigne stesso negli Essais, queste non andavano tollerate nella misura in cui l´autore si schierava contro i protestanti, dichiarandosi contrario a tutti i sovvertimenti religiosi che mettevano in pericolo la pace civile e auspicando che la Francia si mantenesse nella fede cattolica?
Vi erano poi gli strali rivolti da Montaigne contro i processi alle streghe contenuti nel capitolo del I libro degli Essais dal titolo Della forza dell´immaginazione. Lo scrittore si chiedeva, in polemica con il suo conterraneo Jean Bodin, ossessionato dal problema, come fosse possibile «arrostire un essere umano» scambiando per manifestazioni diaboliche delle pure e semplici patologie mentali. «Per uccidere la gente», egli scriveva, «ci vuole una chiarezza luminosa e netta: e la nostra vita è troppo reale ed essenziale per garantire quei fatti soprannaturali e immaginari». Ora, benché non fosse certo quella «chiarezza luminosa» a fare difetto al Santo Uffizio, la posizione di Montaigne andava nella direzione assunta in quegli anni dalla Chiesa in fatto di stregoneria. Visto l´inquietante dilagare del fenomeno della caccia alle streghe e la sua strumentalizzazione tanto nei paesi cattolici che in quelli protestanti, Roma preferiva difendere la propria competenza in materia di sovrannaturale e assumeva una posizione critica rispetto ai fenomeni di superstizione e di magia. Di conseguenza il suo sistema inquisitoriale si sarebbe su questo punto distinto dalla politica dei tribunali civili e da quelli protestanti dando prova di una maggiore moderazione e di una «indubbia modernità».
Di ben altra gravità veniva giudicato, invece, l´uso del termine «fortuna» intesa, in accordo con la filosofia antica, come una forza cieca che determinava le vicende degli uomini e ne forgiava il destino secondo le mutevoli categorie del vero e del falso.
Come pure estremamente gravi apparivano talune concordanze di pensiero con Machiavelli. Eppure, nonostante ciò, al momento della partenza di Montaigne dalla Città Eterna di cui, nel frattempo, era stato fatto cittadino onorario, il Maestro del Sacro Palazzo, si limitava a consegnargli una lista di appunti invitandolo amabilmente a tenerne conto nelle edizioni future dell´opera. Vuoi per calcolo politico, vuoi per un eccesso di fiducia nelle virtù del proprio metodo, la censura papale disconosceva così la portata sovversiva di un´opera che si preparava a disseminare, all´insegna di una «doppia verità», lo scetticismo e il dubbio tra le file dei suoi numerosissimi lettori. Perché, inutile dire che tornato in patria, Montaigne non procedette a auto-emendatio di sorta, lasciando ai censori romani la magra consolazione di intervenire pesantemente sulla traduzione italiana dell´opera.
Ad aprire gli occhi alla censura papale sarebbe stata la doppia condanna, teologica e morale, degli Essais pronunciata dalle autorità calviniste nel 1602, ma a determinare la sentenza del 1676 - la condanna dell´opera in tutte le lingue - furono molto probabilmente «le perniciose conseguenze che un vasto e inadeguato pubblico avrebbe potuto trarne». Non meno pernicioso doveva, tuttavia, apparire l´impatto sui lettori colti. Per capire che la posta in gioco era ancora più grande bastava a Roma di guardare a Venezia dove il teologo eretico della Serenissima, il frate Paolo Sarpi, aveva contestato l´autorità pontificia con il soprannome di «Montaigne col cappuccio».
Non era, in effetti, la strategia incerta del dialogo e dell´emendatio, bensì l´esercizio senza concessioni di una feroce censura, che avrebbe consentito alla Chiesa di Roma di vincere la sua battaglia politica risparmiando all´Italia il dramma dello scisma ma isolandola culturalmente dal resto dell´Europa.

Il Riformista 28.6.08
Globalizzazione conclusioni di «canton express. Due viaggi verso Oriente, 1503-2008»
Il vero scontro di civiltà è tra nomadi e stanziali
di Giuliano Da Empoli


Tutte le città sono diventate porti, anche quelle non di mare
«Ho mandato al Sommo Pontefice, per una nave che viene a Pisa, un uccello morto molto bellissimo, che ho portato da Malacca e che di là viene da un paese ancor più lontano, che di recente è stato scoperto, dove nascono i chiodi di garofano. L'uccello non ha piedi, sta sempre nell'aere, senza toccare terra e di aere si nutre e in aere genera i figlioli, secondo quanto si afferma in quella terra».
Così scrive a Lorenzo de' Medici, nipote del Magnifico, il giovane navigatore fiorentino Giovanni da Empoli, il 19 ottobre del 1514. (...) In realtà, l'uccello senza piedi era un normalissimo volatile, originario della Nuova Guinea, al quale le tribù locali avevano l'abitudine di strappare le zampe prima di usarlo come ornamento rituale e che qualche astuto mercante era riuscito a spacciare agli europei come un fenomeno da baraccone. Non erano, però, miraggi asiatici gli uccelli senza piedi che hanno spalancato le vie del mondo. (...) In un mondo multipolare, nel quale la nozione di centro non ha più alcun senso, lo scontro decisivo non è tra Atlantico e Pacifico, tra Occidente e Asia, tra impero americano e dragone cinese. Il vero scontro in atto è quello che contrappone, in tutto il mondo, i nomadi agli stanziali.
Fin dalla notte dei tempi, i primi sono l'oggetto dell'odio dei secondi. (...)
La leggenda vuole che una sola opera dell'uomo sia visibile a occhio nudo dalla luna: la Grande Muraglia costruita dai sovrani della Cina settentrionale per proteggersi dalle incursioni dei mongoli. Da sola, questa opera monumentale, dà la misura del timore che i popoli stanziali hanno sempre nutrito nei confronti dei nomadi. Non è un caso se, da una parte, gli Stati europei affermano il proprio potere attraverso una feroce repressione del vagabondaggio e, dall'altra, quelle che diventeranno le due grandi potenze del XX secolo, gli Stati Uniti e la Russia, si costituiscono entrambe attraverso una lunga lotta tra contadini colonizzatori e popoli nomadi.
La figura stessa del nomade contiene in sé qualcosa di inquietante, per i poteri costituiti. Detentore di un'identità fluida, modellata dalla mobilità territoriale, egli si presenta come un estraneo, rispetto a società rette da un'infrastruttura di tipi e stereotipi, che propongono un concetto di identità fissa, univoca e continua, anziché mutevole, molteplice e discontinua.
Per questo, a combattere i nomadi con particolare virulenza sono, da sempre, i regimi totalitari. La caratteristica delle dittature comuniste del XX secolo è di limitare la capacità di movimento dei loro sudditi. In Cina, Mao introduce nel 1951 il sistema di registrazione della popolazione che proibisce gli spostamenti e lega ogni cittadino al suo luogo di residenza. In Europa, la Guerra Fredda tocca il suo apice dieci anni dopo, con l'edificazione del Muro di Berlino. Nel frattempo, il paranoico e potentissimo direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover prende carta e penna per denunciare «la minaccia rappresentata dai 36 mila motel americani per le comunità all'interno delle quali si trovano», dato che la maggior parte di questi stabilimenti «non sono solo nascondigli e luoghi d'incontro, ma anche vere e proprie basi per le operazioni di gang di disperati che prendono d'assalto il vicinato».
La caduta del Muro di Berlino ha segnato, per un tempo, la vittoria del nomadismo. Non solo gli uccelli senza zampe sono stati messi nella condizione di muoversi per il mondo molto più facilmente, ma milioni di cinesi, di russi e di indiani che sembravano condannati alla stanzialità hanno potuto costruirsi un percorso nomade, sottraendosi al futuro di povertà al quale sembravano predestinati e diventando gli artefici della propria libertà: la loro uscita dalla miseria costituisce la più grande conquista della globalizzazione.
Oggi, però, sugli uccelli senza piedi che popolano gli aeroporti, gli alberghi e le strade del mondo incombe la minaccia di uno tsunami stanziale di forza inaudita. Colpendo i luoghi-simbolo della mobilità internazionale, le torri di New York, l'aeroporto di Londra, gli alberghi di Bali, di Jakarta e di Sharm El Sheik, i terroristi islamici hanno messo i nomadi al centro del mirino.
Alla base della loro ideologia c'è un pensiero delle radici e dell'immobilità che vede nella fluidità e nell'ibridazione il suo principale nemico. Da sempre, il mondo musulmano è diviso tra il deserto e il mare. Da un lato l'intransigenza rigorosa di chi lotta per sopravvivere o per conquistare, dall'altro la fede aperta dei mercanti che trova nel compromesso e nella tolleranza la sua stessa ragion d'essere.
Al di là dell'Islam, però, la rinascita sotto forme nuove del nomadismo ha fatto risorgere un po' dappertutto ataviche paure e l'istinto di proteggersi edificando nuove muraglie. In Cina, è in atto uno scontro epocale tra le poderose spinte verso l'apertura che hanno segnato l'ultimo quarto di secolo e un inquietante ritorno all'isolazionismo incoraggiato da settori del Partito Comunista che tentano di sostituire la vecchia ideologia maoista con un nuovo nazionalismo carico di odio e di diffidenza nei confronti del mondo esterno. Lo stesso accade, in proporzioni diverse, nell'India del BJP, il partito nazionalista indù, e nella Russia di Putin.
Anche in Occidente, nel frattempo, il contrasto tra nomadi e stanziali si è fatto più stridente. Da una parte, i vari movimenti no-global hanno dato voce a una nuova generazione di attivisti politici che vedono nell'apertura delle frontiere il loro principale avversario. Dall'altra, anche l'opinione pubblica più moderata appare contagiata da una crescente tendenza all'isolazionismo e al protezionismo. (...)

Il ruolo degli stati nazionali. A tutti i livelli, oggi, la vera guerra di civiltà non è quella tra Occidente e Islam, bensì quella tra nomadi e stanziali. I primi pensano che le soluzioni si trovino a livello globale, che l'integrazione debba proseguire e che molte barriere vadano ancora abbattute. I secondi, al contrario, vedono nella globalizzazione una nuova forma di imperialismo e denunciano la macdonaldizzazione del mondo. Al cuore del problema c'è il ruolo degli Stati nazionali. I nomadi pensano che debbano adattarsi al cambiamento. Gli stanziali li vedono come l'unico argine possibile contro quello stesso cambiamento. Dall'esito di questo scontro dipenderà il futuro del nostro pianeta.
Ai tempi di Giovanni, gli stanziali hanno finito col prevalere. Se all'origine del miracolo portoghese dell'inizio del XVI secolo c'erano il nomadismo e l'apertura delle sue élites, alla radice del rapido declino successivo ci sono la stanzialità e l'intolleranza. (...). Con l'unione delle corone spagnola e portoghese nella persona di Filippo II, la Santa Inquisizione cominciò a dettare legge anche in Portogallo. Da allora, proprio come in Spagna, i portoghesi fecero del loro meglio per voltare le spalle a qualsiasi influenza straniera ed eretica. L'istruzione e la ricerca vennero messe sotto il controllo della Chiesa, così come la stampa e l'importazione di libri. Gli studenti portoghesi smisero di andare a studiare all'estero.
Il risultato fu che i mercanti olandesi, che molto avevano contribuito alla fortuna portoghese, scacciati da Filippo II, tornarono in patria e, da lì, posero le basi del futuro primato commerciale di Amsterdam, destinato a relegare la penisola iberica ai margini dei traffici e della storia.
Da allora, la storia si è ripetuta innumerevoli volte. Innumerevoli volte la paura ha finito col prevalere sulla speranza, la chiusura sull'apertura, la guerra sul dialogo.
Oggi siamo ancora una volta al bivio. La sfida degli uccelli senza piedi del Rinascimento è, più che mai, la nostra. Quel che è stato messo in moto nel XVI secolo è stato compiuto dal XX. Come dice Peter Sloterdijk, tutte le città sono diventate dei porti, anche quelle che non si affacciano sul mare. Chi ritorna da un viaggio intorno al mondo getta sulla propria patria uno sguardo diverso, il relativismo è entrato in lui, non potrà mai più considerare casa sua come l'ombelico del mondo. Tutti i luoghi sono diventati ubicazioni. Gli agglomerati degli stanziali hanno perso il privilegio che detenevano da tempo immemorabile, quello di costituire, ognuno per se stesso, il centro del mondo.
E però, in un'epoca di nomadismo e di movimento incessante, sono sempre più numerosi gli individui che reagiscono in senso opposto, cercando di tornare indietro, a un tempo più semplice nel quale ciascuno di noi non era condannato ad essere libero e a reinventarsi ogni giorno. Se il nomade ha fatto del flusso un luogo di abitazione permanente, se per lui ogni momento partorisce una nuova identità, lo stanziale di ritorno aspira al recupero delle certezze smarrite. «Che cos'è, in fondo, la tradizione?» - si chiede Nietzsche nell'Aurora : «Un'autorità superiore alla quale si ubbidisce, non perché comandi l'utile, ma perché comanda».
Quanto è rassicurante la voce stentorea del padrone, chiunque esso sia, per l'animo che si sente smarrito nel mondo, abbandonato ad una libertà della quale non ha che fare!

Rapper talebano. L'esempio estremo è quello di John Walker Lindh, l'aspirante rapper cresciuto sotto il sole della California e finito in Afghanistan a combattere al fianco di Al Qaeda. Un tempo, i teen-ager, quando si ribellavano, volevano più libertà; John Walker Lindh, invece, si è ribellato alla libertà. Sarà pure un caso estremo, quello del talebano americano, ma non è certo isolato. Tutta una fetta dell'opinione pubblica cerca sempre più conforto nel recupero del tradizionalismo più intransigente, visto come un'ancora di salvezza in un mondo senza certezze. Si spiega così il successo crescente della destra religiosa, lo zoccolo duro dell'elettorato di George W. Bush. All'inizio degli anni novanta, il 67% degli studenti universitari americani era favorevole all'aborto: dieci anni dopo, solo il 54%. E i tre quarti di quegli stessi studenti pensa che l'esercito americano faccia sempre, o quasi sempre, «la cosa giusta». In Europa, nel frattempo, imperversano le leghe e i movimenti xenofobi, mentre i popoli votano sistematicamente contro l'integrazione.
Liquidare questo riflusso come se fosse un fenomeno di retroguardia, condannato dalla storia, sarebbe un grave errore. Tanto più che i nomadi hanno le loro responsabilità.
A suo tempo, Weininger denunciava già la tentazione dell'irresponsabilità alla quale sono sottoposti gli uccelli senza piedi. Chi viaggia di continuo, in una certa misura è spettatore, non è coinvolto fino in fondo nella realtà che attraversa. Il moto è la sua dimensione naturale perché, a parte qualche sciagura, non può veramente accadergli nulla. Quando non è più soddisfatto di un luogo o di una situazione può spiegare le ali e andarsene da qualche altra parte.
Una favola araba racconta la storia dell'uccello che poteva vivere sia nell'aria che sott'acqua, che vive sugli alberi fino a quando il re degli uccelli non gli chiede di pagare le tasse. A quel punto salta in acqua e dice ai pesci: «Lo sapete che sono sempre stato uno di voi». Quelli lo accolgono come un fratello e lui vive lì fino a quando non si fa avanti il re dei pesci a chiedergli di pagare le tasse. A quel punto, schizza fuori dall'acqua, e continua a fare avanti e indietro senza mai pagare le tasse.
È inutile negare che il comportamento di molti uccelli senza zampe di oggi ricordi molto da vicino quello del volatile della favola. Anche per questo, l'ostilità delle popolazioni stanziali ha tendenza a crescere. Fino a quando non riusciranno a sottrarsi alla tentazione dell'irresponsabilità, i nomadi continueranno ad essere nel mirino.
La libertà individuale non contrasta necessariamente con la responsabilità sociale. Se vogliamo essere liberi, dobbiamo essere pronti a pagarne il prezzo. Da ultimo, la frammentazione stanziale ha finito col prevalere sull'universalismo nomade: Erasmo è stato sconfitto dalla politica.
Oggi, il rischio è lo stesso. La politica è in ritardo. Dai cocci del vecchio mondo non è ancora emerso un nuovo ordine nomade. Il rischio, di conseguenza, è che tornino a prevalere gli istinti primordiali degli stanziali: stabilità, tradizione, chiusura. Eppure, in un mondo che torna a farsi policentrico, nel quale nuovi imperi si affacciano all'orizzonte e rivendicano lo spazio che meritano sulla scena globale, gli uccelli senza piedi sono il miglior antidoto contro tutte le guerre di religione e i rigurgiti nazionalisti.
In una fase in cui il baricentro del mondo ha ripreso a muoversi verso Oriente, non sarà la retorica pallida e burocratica del dialogo tra le culture a salvarci dallo scontro delle civiltà. Saranno le contraddizioni vivaci e reali introdotte dagli uccelli senza piedi che percorrono incessantemente le rotte di un mondo senza centro. Nessuno di loro è disposto ad accettare verità imposte dall'alto, né certezze acquisite, né status quo immutabili. Ciascuno ha una vocazione dinamica e sovversiva che rimette in moto i modelli e le culture e impedisce loro di cadere nella trappola dell'autocompiacimento.
Tratto da «Canton Express. Due viaggi verso Oriente, 1503-2008». Per gentile concessione di Einaudi editore

sinistra europea - newsletter 27.6.08
Intervista a Mario Tronti: «La sconfitta di aprile può essere benefica. E spingere a un processo aggregativo»
di Andrea Fabozzi



Attenzione a non confondersi dietro Berlusconi. L'avvertimento di Mario Tronti arriva alla vigilia dell'assemblea del Crs nel momento in cui torna alto l'allarme di tutta l'opposizione per le iniziative del premier e anche il Pd che si era aperto al dialogo strilla al «ritorno del caimano». Tronti obietta: «Non ci sarà un passaggio di regime. Berlusconi è sempre lo stesso, le sue iniziative fanno molto rumore però poi vengono recuperate nell'andamento lento delle cose, il problema è non confondersi, è capire bene cosa è questa nuova, antica destra che si afferma in Europa».

Non c'è un caso italiano?
In Italia abbiamo di fronte questo personaggio con i suoi interessi personali, ma quando il ceto politico si misura soltanto sulla sua persona ci fa perdere di vista l'analisi di fondo. Berlusconi è un animale politico di una certa capacità intuitiva e ha improvvisamente tagliato i ponti con Veltroni per tornare sul terreno che predilige. Se non ci fosse questo antiberlusconismo enfatizzato fino al limite del dramma italiano la sua figura verrebbe ridimensionata e probabilmente verrebbe fuori un discorso di destra più profondo che potrebbe persino emarginarlo.

Destra italiana senza Berlusconi?
La destra è un dato organico che adesso si trova a una svolta. Il ciclo neo liberista è arrivato a conclusione e torna una destra più tradizionale, neoconservatrice. E la destra italiana si sta compattando. Ha molte delle caratteristiche della destra mondiale, a prescindere da Berlusconi. Una delle spie è la personalità di Tremonti. La destra sociale che pensavamo fosse una piccola porzione post fascista diventa invece una caratteristica della destra nel suo complesso. Di fronte a questa destra profonda c'è una sinistra leggera, dunque non c'è partita.

E gli operai votano Lega?
Su questo ho sentito troppi ragionamenti semplificatori. Come se il problema fosse quello di capire e non di spostare il voto di questi operai. La politica, dicono tutti, deve ascoltare, capire. Seconde me deve soprattutto parlare, dare risposte e intervenire. Se non lo fa la società si autogoverna ed è tanto peggio per chi vuole cambiarla.

Guardare al sociale è però uno slogan molto in voga nella sinistra uscita con le ossa rotta dalle elezioni. E anche il Pd vuole «tornare al territorio».
Il Pd e le formazioni che gli sono alla sinistra hanno peccato della stessa mancanza di iniziativa, sono stati incapaci di far parlare la politica. Sono rimasti chiusi in un'idea passiva della rappresentanza che magari era possibile quando avevi già nella società le grandi classi con una loro sostanza strutturale e dunque grandi interessi. Si possono rappresentare solo i grandi interessi, i piccoli bisogna orientarli e correggerne il particolarismo. Tornare al territorio è una scappatoia nel senso che non si tratta di rispondere ai singoli territori ma di riacchiappare tutto interpretandolo creativamente.

Un partito nazionale che sappia far parlare la politica con un'idea precisa della società. Vasto programma di fronte alle macerie elettorali.
Paradossalmente è un momento favorevole. Sono cadute le due illusioni che hanno dettato l'ordine del giorno della politica di sinistra negli ultimi venti anni. E' caduta l'illusione delle terza via tra sinistra e destra, con il suo ideatore Blair ma anche con il suo epigono tedesco Schroeder. L'idea che la sinistra dovesse farsi centro per gestire il ciclo neoliberista meglio della destra mi pare esaurita anche negli Usa, Obama non è Bill Clinton. Anche lì finisce la competizione al centro e le primarie indicano una polarizzante divaricazione.

Destra e sinistra categorie «emergenti»?
Per questo il partito democratico in Italia è arrivato fuori fase. Quando la fase in cui poteva essere protagonista è già passata e questo è il motivo per cui il progetto non marcia, anzi mi pare di vederlo già al capolinea.

L'altra illusione crollata?
E' finita la fase neomovimentista. Durante la quale l'egemonia culturale nella sinistra radicale era esercitata dal movimento no global. E' finita proprio perché è finita la fase neoliberista e la contrapposizione tra movimenti e grandi organismi economico finanziari mondiali non si ripropone. Anzi, ora c'è di fronte una destra neo conservatrice che torna a fare politica, contesta lei stessa l'autorità di questi organismi internazionali, torna protezionista.

Se è così, e se davvero il Pd è al capolinea, si può ipotizzare una ricomposizione a sinistra?
Si riapre un tema grande. Perché in questo paese non c'è più una forza che si dichiara di sinistra? L'anomalia italiana del più forte partito comunista dell'occidente finisce nel suo contrario. E' un problema che devono porsi tutti, sia quelli che stanno nel Pd sia quelli che stanno alla sua sinistra. La soluzione non può essere rimettere insieme i pezzetti di una piccola sinistra, ma ricomporre una forza politica a vocazione maggioritaria.

Cioè tu dici che dalle elezioni è uscita sconfitta l'illusione del fare da soli, non solo del Pd ma anche della sinistra di alternativa?
La sinistra alternativa non può concedersi il lusso di essere minoritaria. Tra l'altro è contro la nostra tradizione vorrei dire bolscevica. E non serve a fare gli interessi della nostra parte, l'operaio è costretto a votare per la Lega.

Ma l'idea di ricomporre la sinistra con un pezzo del Pd pare fuori dall'orizzonte politico. Anche i meglio disposti tra i democratici - D'Alema è annunciato all'assemblea del Crs - non si spingono oltre l'auspicio di nuove alleanze.
Non è un processo di breve periodo e per il momento credo sia giusto passare da una fase di aggregazione della sinistra, giusto incoraggiare chi ci sta tentando come Vendola dentro Rifondazione. Ma io credo che sarebbe sbagliato considerare questo soggetto unitario della sinistra come autonomo per i prossimi decenni di fronte a un Pd centrista. Questa nuova formazione di sinistra dovrebbe invece avere un ruolo per spostare gli equilibri interni del Pd in modo tale che si riapra il processo. E' una prospettiva, lo ripeto, che non esclude affatto che intanto si componga un soggetto di sinistra. Ma non bisogna considerarlo un approdo definitivo. Sarà quello che è oggi il Pd, una tappa.

La Stampa Tuttolibri 28.6.08
Logica. Com’è complicato pensare: il principio di non contraddizione
Scegli Aristotele o Hegel?
di Ermanno Bencivenga


Immaginate un dibattito fra due persone che si definiscono progressiste. Una propugna con calore generose politiche di accoglienza nei confronti degli immigrati; l'altra, con altrettanto calore, fa notare come l'immigrazione accresca a dismisura l'«esercito di riserva» a disposizione del capitalismo e quindi leda gli interessi e magari i diritti dei lavoratori. È chiaro che in questo dibattito la parola «progressista» è sotto pressione: se continuiamo a usarla per caratterizzare entrambi gli interlocutori, dovremo ammettere che un progressista sia a favore dell'immigrazione e anche che non lo sia - che il senso della parola contenga una contraddizione.
La logica più comune, la cui prima sistematizzazione risale ad Aristotele, considera la contraddizione una catastrofe: un senso contraddittorio, direbbe, è un nonsenso, un'assurdità. A tener lontane tali assurdità è deputato il principio di non contraddizione: «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo». Di fronte a una contraddizione si dovrà intervenire terapeuticamente, portando alla luce l'ambiguità implicita nella situazione: i due interlocutori di cui sopra, per esempio, sono tanto fondamentali che non si possono appoggiare a nient'altro. E cerca quindi (nella Metafisica) di rovesciare il carico della giustificazione su un presunto avversario, che, tentando di negare il principio di non-contraddizione, ne fa comunque uso. Ma le cose stanno ben diversamente: nella principale alternativa alla logica aristotelica, la logica hegeliana, la realtà è contraddittoria e tale è anche il pensiero, dunque il principio di non-contraddizione non si può dimostrare non tanto perché è assolutamente fondamentale quanto perché adottarlo rappresenta una scelta di campo non altrimenti giustificabile. Una volta fatta questa scelta, ci si situa in una realtà e in un pensiero aristotelici; ma la scelta non è necessaria. Sono temi di grande fascino e di straordinaria profondità. Difficilmente però ci faremo un'idea della loro profondità (e ne avvertiremo il fascino) leggendo Il principio di non-contraddizione in Aristotele di Gianluigi Pasquale (Bollati Boringhieri, pp. 88, e 13), che sposa senza esitazione la prospettiva aristotelica definendo fin dalla prima riga il principio di cui si discute «l'incontrovertibile » e procede poi a una diligente, ma piuttosto pedestre, esegesi dei pochi passi in cui Aristotele si esprime ufficialmente in proposito, non riuscendo a farci cogliere, proprio per quanto è schiacciato sul suo autore, la forza stessa della sua prospettiva - ossia della scelta di campo di cui parlavo. Il libro di Pasquale (che era comparso originariamente in inglese) potrebbe avere una decorosa utilizzazione in un corso universitario sull'argomento. C'è un'ampia ed eterogenea bibliografia da cui uno studente interessato trarrà utili indicazioni. Per quanto riguarda i misteri e le complicazioni che (anche in Aristotele) circondano il principio di non-contraddizione, purtroppo, bisognerà attendere un'altra occasione nonostante pensino di condividere una stessa posizione politica, hanno a ben vedere due posizioni distinte, cui andrebbero assegnati nomi diversi; e sarebbe causa di malintesi a non finire l'insistere a volerli chiamare entrambi «progressisti».
In Aristotele, il principio di non-contraddizione determina la natura sia della realtà (che non può non essere coerente) sia del pensiero (perché chi si contraddice non sta davvero pensando). Sollecitato a fornirne una giustificazione, Aristotele fa notare che non tutto si può dimostrare: alcuni principi sono tanto fondamentali che non si possono appoggiare a nient'altro. E cerca quindi (nella Metafisica) di rovesciare il carico della giustificazione su un presunto avversario, che, tentando di negare il principio di non-contraddizione, ne fa comunque uso. Ma le cose stanno ben diversamente: nella principale alternativa alla logica aristotelica, la logica hegeliana, la realtà è contraddittoria e tale è anche il pensiero, dunque il principio di non-contraddizione non si può dimostrare non tanto perché è assolutamente fondamentale quanto perché adottarlo rappresenta una scelta di campo non altrimenti giustificabile. Una volta fatta questa scelta, ci si situa in una realtà e in un pensiero aristotelici; ma la scelta non è necessaria.
Sono temi di grande fascino e di straordinaria profondità. Difficilmente però ci faremo un'idea della loro profondità (e ne avvertiremo il fascino) leggendo Il principio di non-contraddizione in Aristotele di Gianluigi Pasquale (Bollati Boringhieri, pp. 88, e 13), che sposa senza esitazione la prospettiva aristotelica definendo fin dalla prima riga il principio di cui si discute «l'incontrovertibile » e procede poi a una diligente, ma piuttosto pedestre, esegesi dei pochi passi in cui Aristotele si esprime ufficialmente in proposito, non riuscendo a farci cogliere, proprio per quanto è schiacciato sul suo autore, la forza stessa della sua prospettiva - ossia della scelta di campo di cui parlavo.
Il libro di Pasquale (che era comparso originariamente in inglese) potrebbe avere una decorosa utilizzazione in un corso universitario sull'argomento. C'è un'ampia ed eterogenea bibliografia da cui uno studente interessato trarrà utili indicazioni. Per quanto riguarda i misteri e le complicazioni che (anche in Aristotele) circondano il principio di non-contraddizione, purtroppo, bisognerà attendere un' altra occasione