sabato 9 agosto 2008

La Repubblica 28.7.08
Reazionario
Piccoli libri suscitano a volte grandi clamori. è successo in Francia ad un pamphlet intitolato Sarkozy: di che cosa è il nome?


Piccoli libri suscitano a volte grandi clamori. è successo in Francia ad un pamphlet intitolato Sarkozy: di che cosa è il nome? (Cronopio, pagg.130, euro 10), le cui dense pagine contengono una critica senza concessioni del sarkozysmo, ma anche una riflessione stringente sulla crisi della democrazia e sulle possibili forme dell' antagonismo politico oggi. L' autore è Alain Badiou, filosofo molto noto in Francia, ma anche in Italia, professore dell' Ecole Normale Supérieure di Parigi, i cui libri di solito restano confinati nella cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Questa volta, complice la congiuntura politica, le sue tesi radicali hanno invece conosciuto un vasto successo e suscitato innumerevoli discussioni, dimostrando che il binomio filosofia e politica può essere ancora produttivo. «La filosofia non mi ha mai impedito di essere un militante, anzi più volte ho denunciato la fuga degli intellettuali dalla vita politica», spiega lo studioso autore di numerosi saggi, tra cui anche Il secolo (Feltrinelli), Etica. Saggio sulla coscienza del male (Cronopio) e Inestetica (Mimesis). «Naturalmente, i filosofi non creano i conflitti sociali o le rivolte politiche, ma con il loro lavoro specifico contribuiscono a mettere in relazione situazioni particolari con riflessioni più generali sull' uomo, la libertà, l' uguaglianza, le tradizioni politiche, la diversità delle culture. In questo senso, mi considero un intellettuale che interviene politicamente.» Si tratta di interpretare il mondo per fornire strumenti al corpo sociale? «Il filosofo contribuisce alla lettura del mondo, ma nella pratica aiuta a orientare le battaglie particolari verso processi più generali. L' esempio classico è quello di Marx, la cui cultura era filosofica. Da un lato, egli sosteneva le rivolte degli operai parigini, dall' altro elaborava una visione dello sviluppo della storia al cui interno integrava queste battaglie particolari». Per Sartre le parole sono armi. è d' accordo? «Certamente. In politica, la questione delle parole e di come si nominano le cose è sempre un problema essenziale. Le parole fanno sempre parte della politica, anche quando il loro uso sembra perfettamente innocente. Da diversi anni, ad esempio, invece di parlare di capitalismo, parliamo di economia di mercato. Sembra una cosa da nulla, ma così si rimuove la valenza negativa che in passato era associata alla parola capitalismo. "Economia di mercato" è un' espressione meno forte, più accettabile». Nel libro su Sarkozy lei denuncia che la morale si sostituisce alla politica. Che cosa vuol dire? «è un processo in corso dalla fine degli anni Settanta. A poco a poco, abbiamo rinunciato a elaborare una critica politica della storia e della società, lasciando sempre più spazio alla critica morale. Il giudizio fondato sulle categorie del male e del bene ha sostituito l' analisi politica. Il grande problema contemporaneo è diventato la lotta del bene contro il male. Ma questa è una visione moralistica e religiosa della realtà, non una visione politica. Oltretutto, la sostituzione della morale alla politica è, in fin dei conti, sempre al servizio dei rapporti di forza esistenti, dato che, al di là del giudizio morale, non rimette in discussione nulla. Quindi, la sostituzione generalizzata della morale alla politica ha consolidato il capitalismo globale oggi dominante». Rimettere la politica al centro della riflessione intellettuale per lei significa combattere il "Pétainismo trascendentale" della Francia. Che cosa intende con questa espressione? «L' elezione di Sarkozy è il simbolo più evidente di una situazione che minaccia pericolosamente la tradizione critica e progressista della Francia. Tale minaccia è il risultato di una tendenza di fondo, che, con l' elezione di Sarkozy, ha superato una soglia simbolica. Non dico che Sarkozy sia come Pétain, ma solo che il suo successo elettorale rappresenta la vittoria di una corrente reazionaria presente in Francia da molto tempo. Il nostro, infatti, è il paese dei diritti dell' uomo e della rivoluzione, ma anche il paese di una forma di reazione, i cui tratti erano particolarmente visibili negli anni di Pétain. Tratti che oggi ritornano, benché adattati al contesto contemporaneo». Quali sarebbero? «Innanzitutto l' idea di una crisi morale da cui occorre risollevarsi. Poi la designazione di un gruppo sociale pericoloso che deve essere sorvegliato e controllato: per Pétain erano gli ebrei, per Sarkozy gli immigrati che vivono nelle periferie. Un altro elemento importante è la volontà di sradicare l' eredità di un avvenimento passato percepito come fortemente negativo: per Pétain era l' esperienza del fronte popolare, per Sarkozy l' eredità del 68. Da ultimo, conta anche la sensazione di essere in ritardo rispetto ai più importanti modelli stranieri: per Pétain erano i grandi stati fascisti degli anni Trenta, mentre per Sarkozy il modello da inseguire è quello del capitalismo anglosassone. Tutti questi elementi si combinano insieme in un sentimento di decadenza nazionale, a cui diventa necessario reagire con forza e senza incertezze». è la paura il combustibile che alimenta queste forme di reazione? «Certo. Da diversi anni, la maggior parte della popolazione francese è dominata dalla paura. Paura della disoccupazione, della globalizzazione, delle tensioni internazionali, dell' Europa, degli immigrati, dei giovani, ecc. Sono paure che nascono dall' incertezza di fronte al futuro. La Francia ha un grande passato, è stata una potenza imperiale e militare. Oggi però tutto ciò è alle spalle. I francesi non sanno più cosa aspettarsi dall' avvenire, non sanno se potranno conservare i loro privilegi e se continueranno ad avere un ruolo internazionale. La loro soggettività politica, invece di essere creativa, è dominata dalla paura e dal ripiegamento su se stessi. Di conseguenza, le idee politiche che vincono sono idee reazionarie». Partendo dalla situazione francese, lei sottolinea i limiti delle democrazie a suffragio universale, ricordando che non si può giudicare un principio indipendentemente da ciò che produce. è così? «La questione della democrazia non può essere ridotta alla semplice questione del suffragio universale. Hitler è andato al potere grazie a elezioni democratiche, quindi la democrazia è capace del meglio come del peggio. Al di là del suffragio universale, la democrazia esiste quando un popolo è mobilitato attorno a una politica. Il mondo oggi non è più quello del XIX secolo, le strutture economiche e sociali sono radicalmente cambiate. In questo contesto, la democrazia parlamentare non funziona più come dovrebbe. Molto spesso diventa una copertura per un potere oligarchico, costituito da potentati economici e mediatici che sono i veri padroni della società. Di fronte questa situazione dobbiamo saper inventare nuove forme di partecipazione democratica, in un contesto dove il problema fondamentale è quello del controllo dei mezzi di comunicazione più ancora dei mezzi di produzione. Se non riusciremo a risolvere il problema, la democrazie occidentali continueranno ad indebolirsi».

l’Unità 9.8.08
Laura Diaz, partigiana e deputata
Un’appassionata livornese, militante del Pci
di Francesca Padula


SI È SPENTA lunedì scorso a Courmayeur, all’età di 88 anni, Laura Diaz, eminente figura della politica italiana dall’immediato dopoguerra fino agli anni Sessanta. Una personalità di primo piano del Partito comunista dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Sorella di Furio Diaz, il primo sindaco di Livorno dopo la Liberazione, Laura si era iscritta al Partito comunista italiano (Pci) nel 1944 dove ricoprì numerosi incarichi e nelle cui fila venne eletta in Parlamento come deputato. Fu candidata alle elezioni politiche del 1948.
Nata a Livorno il 25 aprile 1920, Laura Diaz ebbe un ruolo determinante durante la Resistenza, come negli anni successivi alla Liberazione, per la rinascita dell’Italia. L’esponente politica livornese, ricordata anche per la sua spiccata capacità oratoria, ha interpretato la militanza politica nel senso alto dell’impegno e della passione aperta al confronto.
Sandro Curzi, per decenni militante del Pci, l’ha ricordata con un testo che gli dettò Enrico Berlinguer, leader storico del comunismo italiano, per la rivista Gioventù Nuova: «A quattro anni dalla liberazione di tutto il territorio nazionale - dettò Berlinguer a Curzi nel 1949 - è tempo di unificare le molteplici esperienze dei giovani comunisti italiani dall’estremo sud al profondo nord del Paese. È tempo di costituire, anzi ricostruire, la Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) e la compagna Laura Diaz deve essere, per merito della sua storia, uno dei più importanti dirigenti di questa organizzazione. Per questo la propongo fin d’ora per la direzione provvisoria che dovrà gestire la preparazione del congresso della Fgci che terremo proprio nella città di Laura, la nostra amata Livorno».
«La storia di Laura - conclude Sandro Curzi -, la storia di questa giovane patriota italiana, dovrebbe essere fatta conoscere a tutti i giovani di oggi».

l’Unità 9.8.08
Ruffolo, Castellina, Marramao:
un progetto, e la sinistra può ripartire
di Francesca Talamo


«La sinistra è una promessa mancata?». Se ne è discusso nella piazza di Capalbio all’affollata presentazione del libro di Ruffolo «Il capitalismo ha i secoli contati» (Einaudi) e di Raffaele Simone «Il mostro mite» (Garzanti) con Luciana Castellina e Giacomo Marramao, organizzata dalla Fondazione Epokè per «Uno scrittore, un’estate».
«La sinistra è una promessa mancata?» è la citazione di Gad Lerner dal libro di Simone. E Castellina attacca «l’assenza di un progetto politico» come il male più grave della sinistra di oggi. La politica per Castellina ha il sapore di un altro tempo, oggi che la parola politica per molti il sapore di una parolaccia. Ma la passione di Luciana Castellina anima la piazza e si ragiona di «soggetto della trasformazione» e dell’antico amore, il comunismo.
L’intervento di Marramao, senza spegnere il pathos, dà alla serata il tono di una discussione di quelle serie, sulle questioni di fondo. Il ruolo della tecnica nelle società contemporanee, il problema della formazione, la necessità di tornare «ai rapporti di produzione» è un invito a tornare coi piedi per terra, a riportare la sinistra ai suoi dei suoi riferimenti nella società. Ma come fare, mentre Berlusconi spazzola i pavimenti di Napoli? Ruffolo non ha paura di parlare di capitalismo come di un problema, non un destino necessario nella sua forma globalizzata e liberista. La realtà si può governare, l’economia non è una variabile indipendente.
Il pubblico di Capalbio (tra gli altri Corrado Augias, Fabiano Fabiani, Stefano Trincia, Claudio Petruccioli, e tanti volti noti della cultura e della politica) ascolta attento mentre Ruffolo espone una ricetta che mescola bene illuminismo socialista e critica «da sinistra» alla globalizzazione. Ma resta un disagio, e Raffaele Simone lo intercetta bene. «Perché è così difficile essere di sinistra?» si domanda lo studioso. «Perché è più naturale essere di destra, dire questo è mio». E allora l’egemonia sulla destra si radica sui cosiddetti animal spirits, rafforzata e radicata dalla comunicazione. Il risultato è il nuovo Leviatano, terribile ma suadente, affascinante, in grado di costruire consenso; quello che appunto la sinistra non riesce a fare. Il pubblico annuisce convinto. È difficile essere di sinistra, ma serve esserlo. Il messaggio di Capalbio è semplice: un progetto forte, che guardi lontano, e parli della realtà senza fatalismi.

l’Unità 9.8.08
Quell’antica paura di nome zingaro
di Marco Innocente Furina


I ROM Sono tra noi da centinaia di anni eppure continuiamo a temerli. Per l’eterna diffidenza della civiltà stanziale nei confronti del nomade. Ora tre libri raccontano costumi e storia di questo popolo sconosciuto e tormentato

Originari dell’India del nord, giunsero in Italia verso la fine del 1300
Lo stile di vita presto procurò loro l’ostilità del nascente stato moderno

Non più di 100mila individui quasi tutti cittadini italiani
Tradizionalmente fabbri, giostrai e circensi

Mezzo milione fu sterminato nei lager nazisti. Una tragedia misconosciuta che loro chiamano il «divoramento»

È la storia di una lunga incomprensione quella fra l’Europa e i Rom. Già al loro arrivo, parecchi secoli fa, furono scambiati per egiziani. Forse per il colore della pelle, forse perché durante il loro girovagare sostarono a lungo nel Peloponneso, allora conosciuto come piccolo Egitto. Un equivoco, uno dei tanti, che diede a questa gente dalla pelle bruna senza una patria il proprio nome: egiziani, da cui l’ungherese cigány, l’inglese gypsy, il francese gitan, lo spagnolo gitano, il portoghese cigano, l’italiano gitano, zingano, zingaro. Loro invece hanno sempre preferito definirsi semplicemente Rom, «uomini», senz’altri aggettivi. Uomini sì, ma di un tipo particolare, ben distinti da tutti la gente non rom che essi nella loro lingua chiamano gagi. Una lingua indoeuropea, parente del sanscrito, che ci dice che questo popolo nomade lasciò, non si sa bene quando né perché, l’India del Nord percorrendo a ritroso il cammino di Alessandro: li ritroviamo in Persia, in Armenia, infine in Grecia da cui sciamarono nei balcani, dove ancora oggi risiedono in larga maggioranza. In Italia pare siano giunti verso la fine del 1300. Le carovane colorate di questa gente allegra e strana non destano sospetto. Conducono una vita appartata, differente da quello del resto della popolazione. Li divide dal resto del mondo una filosofia e uno stile di vita che non è quello dell’accumulo della ricchezza, del progresso e della patria. Lo zingaro «rinuncia a tutto quello che muove l’uomo verso l’evoluzione, la tecnica, il possesso, per avere in cambio la sconfinata libertà del mondo, da percorrere senza altro affanno che quello di vivere, non importa come», scrive Onello Yards Cicarelli in Vita di zingaro (L’autore libri, pp. 102, euro 9), sottotitolo Storia di un popolo e di una filosofia. E sarà proprio questa radicale alterità a procurargli i primi problemi. Il mondo proprio allora prese una direzione tutta diversa. Quella delle patrie, delle identità nazionali, e del conseguente ordine sociale. Cominciava quello che gli storici hanno chiamato il «disciplinamento della società». Nell’Europa moderna, quella degli stati nazionali, non c’era più posto per le minoranze siano esse di ebrei, zingari o armeni. Iniziano anni bui per questa gente libera, nomade, che rifiutava ogni inquadramento, ogni disciplina, che viveva di espedienti e sì, anche di piccoli furti (soprattutto animali di piccola taglia). Si arriva presto - è una prassi che, sebbene mutata nella forma, dura ancor oggi - ai decreti di espulsione: la Dieta di Augusta nel 1498 decreta l’impunità per chiunque rechi danno a uno zingaro, nel 1558 è la volta di Venezia stabilire che i gitani possono essere uccisi senza pena, un secolo dopo anche il Ducato di Milano dichiara lecito «ammazzare e derubare gli zingari dei loro denari, del loro bestiame, delle loro robbe». Sono gli anni in cui un signorotto danese annota nel suo diario: «Durante l’odierna battuta di caccia sono stati ammazzati numero due cinghiali, numero tre fagiani e numero uno zingaro con relativo bambino». Crudeltà e indifferenza per la vita umana dei tempi antichi? Chissà che ne pensano i nomadi del campo di Ponticelli a Napoli, vittime di attentati incendiari restati impuniti. Quella stessa impunità che garantivano (senza l’ipocrisia attuale) gli editti degli antichi stati italiani. Indifferenza per cui il quotidiano inglese The Independent ci ha sbattuti in prima pagina: «La foto che fa vergognare l’Italia». L’immagine mostra due ragazzine rom che giacciono senza vita su una spiaggia napoletana. A poca distanza i bagnanti guardano. Indifferenti.
Quest’Italia impaurita e impoverita di inizio millennio ha trovato il suo capro espiatorio: un’infima minoranza, 90-100 mila individui, in buona parte di cittadinanza italiana, su cui riversare tutto il nostro risentimento. Così queste grandi famiglie composte di giostrai ambulanti, questi uomini scuri e baffuti, abili nella lavorazione del rame, da sempre abituati ad arrangiarsi (anche col furto) e a vivere alla giornata, sono divenuti il nemico pubblico numero uno. La storia ce lo insegna e ci mette in guardia: è l’amaro destino delle minoranze pagare gli stress collettivi nei momenti di crisi. Lo sanno gli ebrei, se ne stanno accorgendo - fatte le debite proporzioni - gli zingari nel nostro paese. Nella testa della gente si è ormai creato un mito (negativo). Scrive Carlo Cuomo in Rom, un popolo, dal signifivativo sottotitolo Diritto a esistere e deriva securitaria (Edizioni Punto rosso, pp. 240, euro 12): «Sono molti, moltissimi - pensano i gagé - dilagano, ci invadono; sono vagabondi, senza arte né parte , nomadi disordinati; sono pigri e ladri, maltrattano e sfruttano i loro bambini; non sono una realtà etnica, sono una realtà malavitosa; sono infidi, violenti e pericolosi; sono, come recitava il titolo di un vecchio film sui borgatari romani - “sporchi, brutti e cattivi”». Se è così si comprende perché nei loro confronti si riscopre il concetto di razza e responsabilità collettiva: le impronte digitali per tutti, sin da bambini. Non è razzismo, ci si affretta a spiegare. Ma cos’è il razzismo allora? Ce lo dice l’Europa (direttiva 43 del 2000): «Sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza o origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga». Giudicate voi.
È come se per i Rom la storia fosse trascorsa invano. Anche gli zingari finirono a centinaia di migliaia nei forni di Auschwitz, anch’essi come «indoeuropei degenerati» ebbero il loro olocausto. Già, ma chi lo sa? Della Shoah - giustamente - parlano tutti, ma chi conosce il porrajamos il divoramento come lo definiscono loro? 500 mila nomadi inghiottiti dai campi di concentramento nazisti. Ma, ultimi fra gli ultimi, agli zingari non restituì dignità neppure la persecuzione nazista. Più della tragedia poté il pregiudizio: lo sterminio dei rom non fu considerato genocidio, ma un piano di prevenzione della criminalità… Ai sopravissuti, alle donne sterilizzate, non fu riconosciuto per lungo tempo neppure un risarcimento. In fondo i carnefici erano animati da «buone intenzioni». Le stesse che ispirarono la Pro Juventute, un’associazione governativa elvetica che strappava i bambini alle madri rom, impedendo qualsiasi successivo contatto, per evitare il «contagio» di una vita nomade. Una prassi continuata nell’indifferenza generale fino al 1972. Di questi drammi ma pure della inesauribile vitalità di un popolo perseguitato da secoli, sconosciuto da sempre, parla con sensibilità e passione Pino Petruzzelli in Non Chiamarmi zingaro (Chiarelettere, pp. 222, euro 12,60). Lo fa dando la parola a loro, ai Rom e disegnando una serie di ritratti che restituiscono un volto a questi esseri umani scansati e temuti, mitizzati e sconosciuti, e raccontando una realtà in movimento, irriducibile ai nostri schemi alternativamente razzisti o buonisti. Ecco l’elettricista rom che installa impianti antifurto…, quella donna di professione medico che nasconde le proprie origini rom persino al marito, e poi insegnanti e infermieri, artisti. E anche eroi: come Giuseppe Catter, il partigiano Tarzan, zingaro, ucciso all’età di ventun anni. «Ci furono altri sinti e rom - spiega Petruzzelli - che combatterono per restituire la libertà al nostro paese. Peccato che nessuno lo sappia».

l’Unità 9.8.08
Graziano Halilovich. Federazione Rom e Sinti
«Il governo nazionale ci considera solo un capro espiatorio»


«Ci hanno disegnato come mostri. Prima delle elezioni hanno scatenato una campagna antizingari apertamente razzista».
Graziano Halilovic, segretario nazionale della federazione Rom e Sinti, accusa il governo di centrodestra di aver trasformato il suo popolo in un capro espiatorio nazionale.
Si riferisce al discusso provvedimento sulle impronte digitali?
«Sì, si tratta di una schedatura etnica. Una vergogna che ai nostri vecchi ha fatto rivivere l’atmosfera dello sterminio nazista».
Le Istituzioni europee hanno criticato i provvedimenti del governo, ma parte degli italiani sembra condividerne lo spirito...
«C’è odio, è vero. Perché non ci conoscono davvero. Quando vado nelle scuole e chiedo ai bambini se uno zingaro li abbia mai fatti ridere, tutti rispondono di no. Quando chiedo se siano stati al circo Togni o Orfei, invece la risposta è affermativa. E rimangono stupiti quando gli spiego che si tratta di famiglie Rom».
Ma secondo lei da parte vostra non c’è da fare nessuna autocritica?
«Se parla dei furti, io le assicuro che all’interno dei campi chi ruba viene isolato. Poi se il governo fa di tutta l’erba un fascio, rischia solo di fornire alibi a comportamenti criminali».
Si riferisce all’assalto incendiario al campo Rom di Ponticelli a Napoli?
«La vera responsabilità di quell’atto criminale è di chi ha creato un clima da caccia alla streghe».
Il Governo...
«Sì... E spero che un giorno l’esecutivo ci conceda un incontro». m.i.f.

l’Unità 9.8.08
Cinema. Censura preventiva
di Stefano Miliani


Dopo il documentario sulle Br «Il sol dell’avvenire» e le polemiche di Bondi sulla parola data ai terroristi il vero obiettivo della destra si fa più chiaro: censura preventiva e politica ai temi scomodi. Un messaggio temibile che solleva le prime proteste

Il sol dell’avvenire, il documentario di Pannone e Fasanella su ex brigatisti e altre persone che 40 anni fa non condivisero affatto quella scelta per la lotta armata, fuori concorso oggi al festival di Locarno, è un cerino acceso nella benzina delle polemiche. La qual cosa avviene dopo che il ministro dei beni culturali Bondi lo ha attaccato perché per lui (non per il nostro critico che l’ha visto, Crespi), giustifica i brigatisti. Il tasto che trova molta eco (comprensibile, se non venisse strumentalizzato a ben altri fini politici) è: basta ai riflettori accesi sui terroristi, smettano di pontificare, tacciano, parlino invece le vittime o i loro familiari. Invoca più attenzione a chi ha versato sangue e il silenzio dei terroristi Mariella Magi Dionisi, presidente dell’Associazione memoria dei caduti per terrorismo delle forze dell’ordine, vedova dell’agente Fausto Dionisi ucciso da Prima Linea nel ‘78 a Firenze. D’altro avviso è Sabina Rossa, figlia del sindacalista Cgil Guido ammazzato dalle Br a Genova nel ’79, che con Fasanella ha scritto un libro sul padre: «Non si può chiedere agli ex terroristi il silenzio come pena accessoria, il punto è capire quale contributo possano dare alla verità storica».
C’è però altro, in gioco. Siccome la pellicola ha avuto 250mila euro dallo Stato nel 2006, il ministro ha detto ieri, stop, si cambia, ho appena impartito direttive alla commissione valutatrice: oltre a dover ascoltare le associazioni interessate in caso di film su temi delicati, d’ora in avanti non potranno avere contributi «opere che non solo non mostrano di possedere alcuna qualità culturale, ma che riaprono drammatiche ferite nella coscienza etica del nostro paese». Diciamola tutta: con questa frase il ministro vuole impartire criteri che investono il merito ideologico di un progetto cinematografico, vuole un controllo politico. Volontariamente o meno lo confermano il responsabile cultura di Forza Italia Michele Lo Foco e l’onorevole Gianni Sammarco: attaccano l’ex ministro Rutelli e parlano di «uso strumentale dei fondi pubblici destinati a società, autori e idee legate a una chiara matrice politica». Sono proprio sicuri che sia così? E se questi diventassero i «criteri», due titoli di meritatissimo successo come Gomorra e soprattutto Il divo su Andreotti, che chance avrebbero avuto? Come sarebbe stato bocciato anche Buongiorno Notte di Bellocchio sul rapimento Moro, che nel 2003 ricevette 1,6 milioni di euro dallo Stato, ne incassò in sala 4, ha restituito quei soldi allo Stato e sollevò critiche dure, anche dalla famiglia Moro, per come ritraeva le Br.
L’ha detto chiaro il direttore generale del cinema del ministero Blandini: la Costituzione obbliga a rispettare libertà di pensiero e l’amministrazione pubblica a essere imparziale. C’è una commissione che si riunisce tre volte l’anno, annuncia le scadenze e modalità su internet al sito www.cinema.beniculturali.it (sotto vi diamo in sintesi il meccanismo dei criteri per assegnare i contributi), gode di molta discrezionalità ma finora non deve valutare in base al tema politico «scomodo». Ogni scelta è discutibile, figuriamoci quella della commissione che decide chi gode di finanziamenti pubblici. Ma se la discrezionalità diventa, come si vuol far diventare, una norma su un giudizio di valore politico, allora, forse nessuno avrebbe potuto girare film come Buongiorno Notte. Perché a proposito del Sol dell’avvenire, che peraltro non ha ancora distribuzione, entra in ballo la libertà di espressione controllata o meno da un qualsiasi governo.
«Il tema del potere politico che pretende di imporre i suoi dettami all’arte cinematografica o a commissioni che debbono restare indipendenti è estremamente delicato», osserva il senatore Riccardo Villari del Partito democratico. A proposito del film «già si invoca la censura, la soppressione del contributo pubblico - annota per Articolo 21 Giuseppe Giulietti - Forse inconsapevolmente, si vuole oltrepassare il confine tra libera e perfino aspra discussione e la possibile reintroduzione di una censura governativa». Lo stesso tasto batte l’associazione Doc.it. E i registi, sceneggiatori e attori del movimento dei «Centoautori» avvertono: la censura preventiva è pericolosa, le polemiche lanciate da Bondi - «che non deve interferire» - non devono essere strumento per impedire di raccontare le zone d’ombra della storia italiana. Domanda: forse è questo che qualcuno vuole?

l’Unità 9.8.08
«Spezzeremo il fascino del berlusconismo»
Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: ricostruiremo dal basso l’opposizione di sinistra
intervista di Maria Zegarelli


L’AUTUNNO CALDO Paolo Ferrero, malgrado il calendario segni il 9 agosto, tempo di vacanze e pausa dalle fatiche della politica, è al suo posto. Neo segretario di Rc, un congresso «complicato» alle spalle, guarda all’autunno, alla manifestazione e alle alleanze future. alle europee. Con questo Pd, dice, «e con questa linea politica non c’è possibilità di dialogo».
Cominciamo da qui: come rifonda il suo partito dopo la batosta elettorale e il congresso?
«Ricominciamo dall’opposizione alle politiche del governo Berlusconi e di Confindustria. Siamo in una fase recessiva e di enorme crisi sociale e le loro politiche da un lato approfondiscono questa recessione e dall’altro peggiorano pesantemente le condizioni di sociali, sia attraverso l’attacco ai contratti nazionali di lavoro, sul piano del reddito, sia con il taglio dei trasferimenti agli enti locali. Faremo una opposizione dura su tutte le grandi questioni, dalla sicurezza al Lodo Alfano».
Il Pd ha fissato la data della manifestazione di autunno. Rifondazione ne lancia una propria. Quando e con chi?
«Ne sto discutendo con le altre forze della sinistra, tutte, con le associazioni, le reti di movimento, il sindacalismo di base e la sinistra sindacale. Si tratta di capire se riusciremo a costruire una manifestazione unitaria su una piattaforma che sia in grado di dire “no” a questa linea che va avanti nel governo e in Confindustria. Il fatto che ci siano due manifestazioni distinte si spiega sui contenuti. Dalla riduzione di peso del contratto nazionale di lavoro, alla lotta netta alla legge 30, alle grandi opere, le posizioni del Pd sono intermedie tra le nostre e quelle del governo».
Nessun dialogo con Veltroni?
«La linea del Pd mi sembra piuttosto chiara, peraltro sul piano dei contenuti non è troppo dissimile da quella che i partiti che lo compongono avevano nel governo Prodi».
Di cui lei ha fatto parte come ministro...
«Di cui ho fatto parte sulla base di un programma che poi non è stato rispettato esattamente sui punti di scontro con i poteri forti, oltre al fatto che è stata riproposta la politica dei due tempi, prima il risanamento e poi la redistribuzione, che non è avvenuta, malgrado ci fosse stato nel 2007 un risparmio maggiore a quello imposto da Maastricht, che aveva portato nelle casse dello Stato otto miliardi di euro che si sarebbero potuti spendere per ridurre tasse sugli stipendi e le pensioni».
Ci sono circa due milioni di voti da riconquistare. Lei punta sul conflitto di classe?
«La precondizione è ricostruire l’opposizione di sinistra, che è la vera cosa che è mancata in questi primi cento giorni. È una condizione necessaria ma non sufficiente. Penso che si debba riprendere un lavoro di radicamento sociale di Rc a partire dalla grave situazione sociale del paese, che è diventata ormai una condizione di paura che le persone vivono in maniera individuale. Dobbiamo dare una risposta collettiva a questi problemi sociali. Per farlo c’è bisogno di una reimmersione nella società, di una presenza nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro,per riorganizzare un conflitto dal basso verso l’alto. Poi, occorre rompere un universo simbolico costruito dal Berlusconismo che vuole che sia il ricco ad avere ragione e il povero ad essere causa della sua condizione».
Non crede che uno dei motivi della sconfitta possa essere stato quello di aver combattuto battaglie che gli elettori non condividevano?
«Negli ultimi anni c’è stato un logoramento dei nostri rapporti sia con i movimenti sociali sia con il nostro insediamento sociale. Per questo al congresso ho proposto la svolta “in basso a sinistra”».
Ferrero, Rc, punta a tornare al governo?
«Oggi è il tempo dell’opposizione, visto che le prossime elezioni ci saranno probabilmente fra 57 mesi. Se invece si dovesse andare a votare domani e vuole sapere le mie intenzioni con il Pd rispondo no, per le ragioni di cui ho parlato prima».
Lei dice di non vedere rischi di scissione in Rc, ma Vendola continua a lavorare...
«Questo fa parte della dialettica dentro Rifondazione».
Alleanze locali. In Calabria siete rientrati in giunta con Loiero. Come si procede?
«Credo che questo sia stato un errore, sono totalmente ocntrario. Lì c’è un questione morale e bisognerebbe tenerne conto. Inoltre, non vedo gli elementi programmatici nuovi rispetto a quando siamo usciti dalla giunta a gennaio».
È vero che in Abruzzo con Di Pietro si può fare?
«Noi siamo per rifare una coalizione di centrosinistra, con condizioni molto nette: che non ci siano indagati in lista; che ci sia un accordo chiaro su punti programmatici importanti, a partire dalla gestione della sanità; che il candidato governatore non sia parte del gruppo dirigente del Pd, visto il coinvolgimento nella vicenda giudiziaria. Se Di Pietro si candidasse non avremmo nulla in contrario, salvo la puntuale verifica dei punti programmatici».
A Liberazione non hanno gradito le sue dichiarazioni sulla “linea”.
«Qui siamo alle leggende metropolitane: non ho mai detto che devono rispettare in modo burocratico la linea. La redazione di un giornale deve avere autonomia, ma pure quello è il giornale di Rc, che ha un progetto politico. Ho posto il problema di come interpretare la sua autonomia all’interno di questo progetto».
Sansonetti resterà al suo posto?
«Non lo decido io, non sono il monarca di Rc. Lo decideranno gli organismi dirigenti. Sansonetti è lì e io discuto con lui».
I tagli all’editoria. Veltroni ha annunciato battaglia. È un punto che vi unisce?
«Veltroni ha detto delle cose importanti: faremo una battaglia politica molto forte insieme».

l’Unità 9.8.08
Minaccia una lista civica contro il Pd, chiede consultazioni aperte a Firenze. E in settembre radunerà i suoi di «Firenze democratica»
L’assessore anti-lavavetri va alla guerra delle primarie
di Tommaso Galgani


Intanto organizza cene e assemblee e vara il nuovo regolamento per i vigili urbani

Agosto è il suo mese. Un anno fa fece parlare di sé in tutta Italia con la celeberrima ordinanza anti lavavetri. Quest’anno l’assessore alla sicurezza di Firenze Graziano Cioni è tornato alla carica: ma stavolta nel mirino è finito il Pd toscano.
Pomo della discordia, le modalità di accesso per i candidati alle primarie, in vista delle amministrative di Firenze del 2009. «Il Pd è nato sulle primarie. Ma se si fanno così è una vergogna, non è più il mio partito», attacca l’assessore. Inviperito perché non ci saranno le cosiddette doppie primarie: in caso di coalizioni tra il Pd e altri partiti, infatti, come da statuto tra i democratici potrà candidarsi solo chi raccoglierà il 35% delle firme dell’assemblea territoriale e il 20% degli iscritti (anche se il Pd toscano sta cercando di abbassare questi paletti rispettivamente al 25% e al 10%). A Cioni non va giù che, in primarie di coalizione aperte a tutti, i due o al massimo tre candidati del Pd debbano essere scelti «dall’apparato, attraverso consultazioni interne: è un tradimento verso i nostri elettori. Abbiamo raccontato loro che il Pd era diverso, che li avrebbe fatti decidere. E non ratificare scelte prese dai vertici», spiega.
Cioni a questo punto vuole andare fino in fondo: a Firenze sta cercando di allargare il fronte di chi vuole primarie aperte a tutti per i candidato sindaco del Pd, da schierare nelle eventuali (ma quasi sicure) primarie di coalizione. Ma l’assessore per ora ha il partito contro: il segretario regionale Andrea Manciulli e il responsabile nazionale organizzazione del Pd Andrea Orlando hanno ribadito che «fare primarie aperte nel partito prima di quelle nella coalizione indebolirebbe quest’ultima. E poi non si può richiamare nel giro di poco, per tre volte, la stessa base elettorale», che sarebbe infatti invitata al voto prima per le primarie del Pd, poi in quelle di coalizione e poi all’Election day per amministrative ed europee.
Comunque Cioni il 20 settembre radunerà in città la sua associazione "Firenze Democratica" per mostrare i muscoli: serpeggia l’ipotesi di un clamoroso strappo col Pd che porterebbe ad una lista civica. L’assessore, un istrione che di continuo organizza cene ed assemblee per rendere conto ai cittadini del suo operato (beccandosi ora applausi, ora insulti), punta forte sulla sua popolarità (tutti i sondaggi lo indicano come il politico cittadino più conosciuto) e su quel 10% di consensi che i cioniani raccolsero nelle ultime elezioni per l’assemblea costituente del Pd. Cioni recentemente ha poi incassato un successo politico con l’approvazione del nuovo regolamento di polizia municipale (quello vecchio era del 1932) da parte del consiglio comunale, concordato con i partiti di sinistra che ora non lo chiamano più «sceriffo». «È inutile che Maroni dia più poteri ai sindaci, nel regolamento abbiamo normato tutto, non ci sarà più bisogno di ordinanze», gongola. Nelle ultime settimane l’assessore, con la fama di duro dal cuore tenero, sta cercando di rifarsi una verginità a sinistra; in questa direzione vanno le sue due ultime iniziative: una decina di senegalesi «mediatori sociali» a presidiare il centro cittadino sull’antidegrado e altrettanti sui bus di Firenze ad accompagnare i verificatori di titolo.
Ma dopo una vita dedicata alla politica (divisa tra assessorati a Palazzo Vecchio, da dove a fine anni ’80 dispose la creazione della più grande Ztl urbana d’Europa, e anni in Parlamento), una delle cose di cui va più fiero è la laurea Honoris Causa in giurisprudenza conferitagli a dicembre dalla Madison University della Virginia. «Solo due cittadini non statunitensi hanno ricevuto questo riconoscimento: uno è Desmond Tutu, l’altro io. Un ex comunista premiato dagli americani», racconta sempre.

Corriere della Sera 9.8.08
Scelta la città dove viene costruita la più grande moschea tedesca
A Colonia cala l'armata delle destre anti-Islam
Borghezio: «Ci sarò». Atteso anche Le Pen
Lo scrittore tedesco Ralph Giordano, critico dell'Islam, si dissocia dall'iniziativa: «Sono le nuove camicie brune»
di Mara Gergolet


BERLINO — «No, non starò con le prossime camicie brune. Sono un sopravvissuto dell'Olocausto ». Così Ralph Giordano, il più famoso (e controverso) critico dell'Islam in Germania si distanzia dal Congresso anti-islamico convocato dalle destre a Colonia il prossimo 19-20 settembre. Che appare sempre più come un raduno d'estremisti e xenofobi da tutta Europa, con l'intento programmatico di portare a una «dichiarazione di Colonia » contro «l'Islamizzazione dell'Europa».
Colonia è, da anni, al centro del dibattito sulla coesistenza e integrazione dei musulmani in Germania. Da quando il Comune ha deciso di costruirvi la più grande moschea tedesca, che con i due minareti di 55 metri supererebbe in altezza il celebre duomo gotico: un progetto contestato, che è diventato una specie di detonatore del malcontento, disagio e sospetti nazionali. Contro il piano è nata anche l'associazione Pro-Köln, all'insegna di parole l'ordine come «patrioti impegnati», «attivisti della giustizia di destra», «no agli interessi » dei «difensori del multiculturalismo e del grande capitale»: un'organizzazione registrata all'Ufficio della difesa costituzionale del Nordreno Vestfalia come d'estrema destra. E che è l'organizzatrice dell'adunata.
Già spediti gli inviti. Sono annunciati il fondatore del «Fronte nazionale» francese Jean-Marie Le Pen, il capopopolo del Vlaams Belang fiammingo, Filip Dewinter, il leader dell'Fpö austriaco — il partito orfano di Haider —, Heinz-Christian Strache, il leghista Mario Borghezio. «A Colonia?», risponde al telefono da Genova, dove ha appena finito di parlare contro la costruzione della moschea. «Sì, certo che ci vengo, se il congresso non cambia fisionomia, se queste cose d'estrema destra restano fuori. Perché contro la devastante prospettiva dell'islamizzazione che minaccia una città, è necessario che ci sia uno schieramento compatto». Ma quei gruppi tedeschi d'estrema destra non mancheranno.
In cerca di qualche autorevole nome, gli organizzatori hanno annunciato la partecipazione di Ralph Giordano. Scrittore e giornalista di 85 anni, ebreo e liberale, attorno alla moschea ha costruito l'ultima battaglia personale e culturale. Apriti cielo: all'annuncio Giordano è andato su tutte le furie e ha denunciato il vile tentativo di «strumentalizzarlo ». Con quelle «camicie brune » lui non ha niente da spartire, la sua — ha detto al Kölner Stadtanzeiger — è una «protesta contro i sintomi di un Islam politico e militante», basata sul desiderio di «proteggere lo Stato costituzionale fondato sul diritto ».
Più volte, negli ultimi anni, l'hanno minacciato di morte. Successe dopo la pubblicazione delle sue memorie, con passaggi molto critici dedicati alla moschea: un simile tempio islamico — sosteneva — presuppone «un altro livello d'integrazione », che purtroppo non c'è. C'è invece — sostiene — la paura dei tedeschi a pronunciarsi contro la moschea, perché verrebbero marchiati a destra. Non basta: in Germania — sostiene — esiste una società parallela che è «una spina constante della democrazia »: gli immigrati musulmani hanno costruito un mondo a parte, coi «suoi ghetti ai quali nessun altro ha accesso».
Tesi che hanno fatto molto discutere. Ma che — dice ora — non hanno nulla a fare con la progettata adunata di populisti e xenofobi, la «crème de la crème del negazionismo in Europa ».

Corriere della Sera 9.8.08
Lo dice anche il titolo: un libro da non leggere
di Dario Fertilio


Questo è Il libro che la tua Chiesa non ti farebbe mai leggere, minacciano in apertura del loro maxi- pamphlet Tim Leedom e Maria Murdy. Presentati nel risvolto di copertina dalla Newton Compton come autori di besteller in America, Leedom e la Murdy fin dalla prima pagina danno l'impressione di avere in mente una specie di «soluzione finale» per la religione, anzi per tutte le fedi indistintamente, dal cristianesimo, nelle sue varie confessioni, all'ebraismo e all'islamismo, inclusi i predecessori (come lo zoroastrismo) o gli epigoni (tipo Scientology). Contraddicendo in poche righe le celebri indagini sul sacro di un Mircea Eliade, la ditta Leedom e Murdy ha in mente un'equazione capace di liquidare qualsiasi credenza nell'aldilà: per loro è una fantasia malsana, nata o dalla paura (nei primitivi neanderthaliani, ma anche oggi) o dalla ingenua fede nei sogni. Dunque, la religione non va trattata con serietà, ma piuttosto con sospetto: tutti i mali dell'età contemporanea vengono da là, dall'odio e dall'intolleranza religiosa. Oggi, sentenziano gli autori, «è la religione a indebolire e uccidere gli esseri umani». E aggiungono: «Nella storia non è mai avvenuto alcun genocidio che non sia stato alimentato dalla religione ». Come dire: nazismo e comunismo, notoriamente antireligiosi, non sono mai esistiti, ovvero non erano realmente genocidi. Per chi non si senta appagato da questo incipit, sono disponibili le quasi 600 pagine del pamphlet, corredate da giocosi segnali di divieto (tracciati su croci, mezzalune, stelle di Davide eccetera). E tali da far pensare che la Chiesa citata nel titolo, dopotutto, non avrebbe tutti i torti a scoraggiarne la lettura.

Corriere Fiorentino, inserto quotidiano del Corriere della Sera 9.8.08
Carrara Tre mostre a tema, opere anche per le strade
Non solo marmo, tutto fa scultura
Maestri e nuove tendenze alla Biennale
di Valeria Ronzani e Maddalena Ambrosio


Dici Carrara e pensi marmo. Fin da prima di Michelangelo senza alcuna soluzione di continuità. Da marmo a scultura il passo è breve. Così la XIII edizione della Biennale di Carrara, in corso fino al 28 settembre, ha un titolo che lascia adito a pochi fraintendimenti: «Nient'altro che scultura».
«Il titolo è un po' ironico racconta il curatore Francesco Poli - . Sta ad indicare che la scultura non è solo blocchi di marmo, ma vuole anche ribadire, in anni in cui le biennali spuntano come funghi, l'identità forte di questa manifestazione. La Biennale è nata nel 1957, ha avuto diverse vicissitudini, ma negli ultimi anni è divenuta sempre più internazionale. Non deve però essere una manifestazione fine a sé stessa, ma stimolare anche l'attenzione verso il sistema lapideo di questo territorio, cave, laboratori, istituzioni, Museo, Accademia».
Così è l'intera città ad essere coinvolta nella kermesse, in quella che Poli ci tiene a sottolineare essere una biennale di ricerca, «aperta alle nuove tendenze, con il confronto fra artisti importanti, che sono ancora un riferimento, Gilberto Zorio, Anselmo, Penone, Tony Craig, e giovani scultori già con esperienza internazionale ». Se della rete che forma il tessuto di questa Biennale fanno parte per la prima volta 15 laboratori, lo zoccolo duro dell'esposizione è nell'ex convento di San Francesco, restaurato e divenuto il Centro Arti Plastiche Internazionali e Contemporanee. Tre mostre a tema, secondo la definizione di Poli, dove si spazia da «La forza attuale del marmo», connotata da un modo innovativo di usare la pietra, a «Le nuove statue», «spesso realizzate con resine, silicone, materiali diversi, raffigurazioni iperrealiste che mirano a fare un'operazione di estraniamento, quasi sempre su temi forti, come la morte, o legati all'esistenza quotidiana».
Fino ad arrivare alla «Scultura come corpo vivente», che coinvolge le arti performative, con video e proiezioni. Perché dagli anni Ottanta si è arrivati ad una definizione allargata di scultura, che da un lato coinvolge la tridimensionalità, dall'altro, quando si tratta di pietra o di materiale lapideo, non la considera così necessaria. Ecco quindi anche le opere bidimensionali di Gilberto Zorio, di Yi Zhou, di Nunzio, di David Casini. E se l'accezione di scultura si è talmente allargata da includere il corpo vivo della body art, proprio «La forza attuale del marmo » sta a dimostrare come questo materiale, che ha vissuto alterne fortune nel contemporaneo, sia tornato in auge. Basti pensare a Marc Quinn, uno dei più affermati esponenti fra gli «Young British Artists», qui presente con due marmi che ritraggono due donne nude disabili.
Dal Duomo all'intera via del Plebiscito, per l'occasione chiusa al traffico, si snoda un'altra sezione; qui c'è l'opera più tradizionale in mostra, uno dei cardinali di Manzù, cui fa da contraltare un bellissimo totem in cemento di Mirko Basaldella, proprietà del Comune di Carrara, dimenticato in qualche andito e restaurato per l'occasione. Ghiotto prologo sono i 4 omaggi, ad artisti come Louise Bourgeois, al Parco della Padula, o l'igloo di Mario Mertz nella Chiesa del Suffragio e, nell'aula magna dell'Accademia di belle arti, l'«Aula di scultura» di Giulio Paolini. Fino al ricordo di Pietro Cascella con l'esposizione di suoi bozzetti in gesso. Completa il percorso, fra Accademia di belle arti e Casa dello studente, una scelta di opere di giovani artisti dalle principali accademie europee.

Repubblica 9.8.08
L’intervento terapeutico negato a una donna ricoverata al San Camillo
È estate, vietato abortire
di Laura Serloni


Aborto terapeutico: anestesista obiettore donna bloccata in corsia
Roma, al S. Camillo: gli altri tutti in ferie
"Finora non mi hanno dato dei tempi certi e il termine per effettuare l´intervento scade giovedì"

ROMA - Da quattro giorni in attesa di un medico che pratichi l´aborto terapeutico. Accade a Roma a una donna che è rimasta bloccata nell´ospedale San Camillo aspettando l´arrivo di uno dei pochi ginecologi non obiettori, che al momento risultano tutti in ferie. «Sono stata ricoverata martedì scorso e al momento mi hanno rimandata a lunedì prossimo», ha raccontato la paziente. Aggiungendo: «Ma non mi hanno dato alcuna certezza. Eppure la questione è urgente visto che giovedì prossimo scade il termine per l´intervento. Il dramma è che dovrò proseguire la gravidanza e tenere il bambino, che però nascerà comunque morto».

Tutti in ferie gli anestesisti non obiettori del centro per le Interruzioni volontarie di gravidanza dell´ospedale San Camillo-Forlanini. E una donna resta bloccata quattro lunghi giorni in astanteria, aspettando l´aborto terapeutico. Dolori lancinanti e stress, ma nessuno interviene. Tutto rimandato a lunedì. Nella speranza che, nel pieno della settimana ferragostana, si trovi un medico non obiettore disponibile a infilarsi il camice.
La diagnosi, stilata da un centro di Verona specializzato in analisi prenatale, è chiara. Parla di "feto idrocefalo e displasia renale bilaterale". In altre parole il cervello del piccolo sarebbe pieno di liquido amniotico e proprio per la malformazione ai reni non riuscirebbe a respirare fuori dal grembo materno. La patologia è stata riscontrata solo al quinto mese di gravidanza. E l´unica soluzione prospetta dai sanitari è l´aborto terapeutico, ma i tempi sono strettissimi. Per la legge 194, l´interruzione di gravidanza non può essere eseguita oltre la ventiduesima settimana. Restano quattordici giorni, durante i quali bisogna riuscire a trovare un centro per l´intervento.
L´ospedale più vicino per la donna è quello di Borgo Roma nel veronese. «Nonostante i numerosi referti che indicano la gravissima patologia - racconta il marito - volevano far fare a mia moglie altri accertamenti e protrarre i tempi. Ma le condizioni erano così critiche che rimandare ulteriormente l´intervento mi sembrava una follia. Così ci hanno consigliato di venire al San Camillo, ma qui la nostra via crucis continua».
La paziente martedì arriva a Roma. Non ci sono stanze. O meglio, nel reparto di Ostetricia è disponibile un solo letto per l´interruzione volontaria di gravidanza. Per la carenza di infermieri non c´è posto nel padiglione di Ginecologia. Il giorno dopo la trentenne viene ricoverata con urgenza. Passano le ore. Niente. Le vengono somministrati farmaci per indurre il parto, ma l´utero non si allarga. Nel sangue è alta la concentrazione di medicinali. La pressione arteriosa è flebile. Per i sanitari, l´unica soluzione è l´intervento chirurgico. Occorre l´epidurale per garantire l´effetto sedante. Ma nell´ospedale non si trovano anestesisti, sono in vacanza e sul piano delle presenze la scritta "in ferie" corre sui vari nomi. L´unico di turno, obiettore di coscienza, si rifiuta di procedere. Quindi, l´operazione è rinviata. A quando non si sa. Gli spasmi sono lancinanti. Gli antidolorifici fanno effetto, ma la donna è costretta a restare sdraiata, immobile nel letto, ancora per giorni. Il fine settimana è off limits. Si ferma anche la somministrazione di farmaci per indurre il parto perché il sangue si depuri. «Se ne riparlerà lunedì», tagliano corto i medici.
«Non mi hanno dato nessuna certezza - si sfoga la paziente - e la cosa assurda è che sono in balia del caso e delle vacanze dei sanitari. Finora mi sono solo sentita ripetere "si vedrà". Non mi hanno dato dei tempi certi e il termine per eseguire l´aborto scade giovedì, poi sarò costretta a tenere il bambino fino al nono mese, ma nascerà comunque morto. Se volessi cambiare ospedale dovrei ricominciare tutto daccapo: altri accertamenti, nuove visite, ancora impegnative e ulteriori affanni. Così molte donne sono costrette ad andare all´estero, dove tutto sembra più semplice». Insomma, gli stessi problemi sono rimandati all´inizio della settimana prossima, sperando che allora scendano in campo anestesisti non obiettori. Altrimenti bisognerà aspettare ancora.

Repubblica 9.8.08
Sono medici non obiettori. Si lamentano: non sappiamo quanti siamo e ci isolano sempre più
"Mobbizzati perché applichiamo la 194" e i ginecologi fondano un’associazione
di p.co.


"Siamo pronti a presentarci come parte civile a sostegno di chi si trova in difficoltà"

ROMA - Pochi, liquidati come quelli che si occupano di "un lavoro sporco", isolati e in alcuni casi persino mobbizzati. I ginecologi non obiettori in Italia si contano e sono sempre meno. Ancora meno quelli tra loro che sono disposti a fare un aborto terapeutico.
«Quanti siamo e chi siamo noi ginecologi ospedalieri che affrontiamo le tematiche dell´aborto terapeutico in ospedale? Non lo sappiamo, perché non esiste una lista delle regioni, né all´istituto superiore di sanità, né al ministero della Salute», denuncia in una lettera la ginecologa Silvana Agatone. Anche per questo motivo, a giugno scorso, è nata l´associazione L.A.I.G.A. (Libera associazione italiana ginecologi per l´applicazione della legge 194/78) che si propone di mettere insieme i medici che si occupano di garantire alle pazienti in tutto il paese il diritto di abortire.
Il caso dell´aborto terapeutico, chiarisce Agatone, è particolarmente spinoso: se viene diagnosticata una malformazione del feto «la coppia deve migrare da un ospedale all´altro in cerca del luogo dove possa sottoporsi ad aborto perché, come si evince dall´ultima relazione del ministero della Salute sulla 194 del 21 aprile 2008, non esiste una rete di collegamento su questo punto».
Poi, come è accaduto alla donna ricoverata al San Camillo di Roma, la situazione può anche peggiorare durante i periodi di vacanza. Il centro dove sottoporsi ad aborto lo si trova ma a causa delle ferie manca chi può fare l´intervento.
Oltre a essere un lavoro gravoso e penalizzante per i medici, la ginecologa romana denuncia che le lacune della 194 (ovvero il fatto che non specifici su quali malformazioni agire) può esporre i medici non obiettori anche al rischio di denunce.
«Sostenere psicologicamente una coppia in questo percorso ti svuota, anche a noi piace di più essere in sala operatoria per far nascere una vita piuttosto che compiere questo lavoro che trovo compassionevole», aggiunge Agatone e chiarisce che per discutere e affrontare anche questi problemi è nata l´associazione L.A.I.G.A. che servirà «a difendere noi stessi e le donne e poterci presentare come parte civile a sostegno di chi si dovesse trovare in difficoltà».

Repubblica 9.8.08
Lo stato dei diritti in Italia
di Adriano Prosperi


Qui si commenta una non notizia, un silenzio. Si dice: cane che morde uomo non fa notizia. E´ la massima fondamentale del mondo dell´informazione: quel che è abituale, ripetitivo, fissato nelle regole della natura e non vietato dalla legge non fa notizia. Applichiamo la regola a un fatto dei nostri giorni. Un fatto a tutti gli effetti grave – una tentata strage – che però non ha fatto notizia. Ecco il fatto: nella tarda serata di lunedì 29 luglio anonimi attentatori a bordo di un "quad" hanno lanciato una bottiglia molotov contro roulottes in sosta nell´area industriale di un piccolo centro toscano. L´atto criminale è rimasto solo potenzialmente assassino perché la molotov non è scoppiata. Un caso fortunato, che non riduce la responsabilità di chi ha tentato di uccidere. Eppure la notizia, emersa per un attimo nella cronaca (ad esempio, su Repubblica del 30 luglio, sezione Firenze, pag. 7), è affondata immediatamente nel silenzio.
Chi scrive queste righe ha tentato di capire meglio i fatti e soprattutto i silenzi attraverso un contatto diretto con gli abitanti di un luogo che gli è per ragioni biografiche specialmente familiare. Ma si è dovuto arrendere davanti a gente distratta, disinformata, simpatizzante più o meno apertamente per gli attentatori. Molti affettavano di non sapere, pochi ammettevano che si era trattato di cosa spiacevole, ma minimizzando: una ragazzata, un gesto innocuo, che aveva fatto pochi danni (appena una carrozzeria ammaccata). Il resto, il pericolo corso da una famiglia, lo spavento di bambini e adulti, la loro rapida decisione di fuggire dal luogo dell´aggressione, non sembrava suscitare nessuna partecipazione. Bilancio: solidarietà evidente con gli autori dell´attentato, ostilità verso chi ne era stato minacciato. Quasi un clima mafioso. Ma a differenza dei casi di mafia, in questo caso omertà e silenzio locali hanno avuto un riscontro nazionale. Il silenzio è rapidamente calato sul caso . E le indagini ufficiali, che di norma qualcuno deve pur svolgere, non avranno vita facile.
L´enigma ha una soluzione facilissima. Nel luogo dell´attentato era in sosta per la notte una carovana di automobili e roulottes di nomadi sinti. Solo per caso non ci sono stati dei morti: nelle roulottes c´erano dei bambini. E ancora una volta, come accadde anni fa al criminale che, non lontano da quel piccolo centro toscano, pose in mano a una piccola mendicante zingara una bambola carica di esplosivo, i potenziali assassini sono stati coperti dalla solidarietà collettiva . Chi conosce la banalità del male, la quotidiana serpeggiante avanzata della barbarie che precede e sostiene le modificazioni profonde dei rapporti sociali, tenga d´occhio l´episodio. O meglio: annoti il silenzio che ha inghiottito quella che solo per caso è stata una mancata tragedia. Ne è stata teatro una regione – la Toscana – che è d´obbligo definire «civile». Non si sa bene perché. «Civile» appartiene all´esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza. Da quando la specie umana ha riconosciuto in documenti solenni che non deve esistere nessuna differenza di dignità e di diritti tra i suoi membri, la civiltà si definisce dall´assenza di razzismi e dalla lotta contro le discriminazioni di ogni genere. E la cultura che si studia e si insegna ha la sua misura fondamentale nell´educare ai valori della cittadinanza attiva. Certo, la Toscana ha un patrimonio grande di cultura. La sua economia ne vive: cultura di terre incise dal lavoro come da un sapiente bulino, disegnate nelle opere di una grandissima tradizione pittorica. Bellezze naturali e bellezze d´arte vi sono inestricabilmente legate. Anche patiscono insieme le minacce del mercato. Per esporre meglio la merce si affaccia periodicamente nelle opinioni locali la proposta di eliminare dalla vista dei clienti le presenze sgradevoli: i "vu cumprà", i mendicanti, gli storpi e naturalmente gli zingari. "Corruptio optimi pessima", diceva la massima antica: la caduta è tanto più pericolosa quanto più dall´alto si precipita. Gli abitanti della regione che vanta tra i suoi titoli di nobiltà la prima abolizione legale della pena di morte oggi ospitano e nascondono un virus antico e pericoloso. Non sono i soli. E non basterà il voto di condotta restaurato nelle scuole a educare i futuri cittadini se chi getta una bottiglia molotov contro gli zingari viene impunemente vissuto dalla collettività come «uno di noi»: noi in lotta contro loro – i diversi, i senza diritti.
Un´ultima osservazione: l´ostilità nei confronti dei nomadi, degli zingari, è antica e diffusa, in Toscana come in tutta Italia. Ma nessuno aveva mai pensato di ricorrere alle molotov contro di loro. E´ un salto di qualità senza precedenti, il gradino più alto toccato da aggressioni e tentativi di linciaggio che non fanno nemmeno più notizia. E una cosa è evidente: non ci saremmo mai arrivati senza la campagna di diffamazione e di criminalizzazione condotta da partiti politici di governo e senza la recente legittimazione giuridica della discriminazione nei confronti delle presenze «aliene» – zingari, immigrati clandestini, esclusi dalla comunità («extracomunitari»). Il cattivo esempio viene da chi ha la responsabilità di governare gli umori collettivi e non sa rinunziare a eccitarli. Se quella molotov fosse esplosa, oggi saremmo qui a contare le prime vittime di una campagna irresponsabile alimentata dall´alto. Chi favoleggia di proteste in difesa dei diritti di libertà in Cina cominci a prendere sul serio quel che si dice nel mondo sulla situazione dei diritti umani in Italia.

Repubblica Firenze 9.8.08
L’ultimo partigiano
Cecchi, l'eroe che cadde a battaglia finita
di Simona Poli


Il figlio Giancarlo racconta la storia dimenticata del comandante comunista massacrato dai nazisti il 31 agosto ´44 quando il fronte già si allontanava
"Andava a Peretola, i tedeschi lo bloccarono al Barco: aveva una pistola e la tessera del Pci. Questo gli valse la condanna a morte"
Ho sempre vissuto con la rabbia dentro per la sua morte e una voglia ossessiva di vendicarlo. Era un uomo energico, bello, fiero, autorevole, grande organizzatore
Anche il fratello di mio padre, Bruno, fu ammazzato dai fascisti Lui era socialista, lo fece fuori la banda Carità. Ora una strada ricorda i due fratelli

È un eroe senza gloria il partigiano Guido Cecchi. Suo figlio Giancarlo, che oggi ha 81 anni, racconta di aver collezionate solo due medaglie. «La prima è quella Garibaldina, me la appuntò sulla giacca Luigi Longo nel ´47. Poi nel 1965 Terracini venne a Sesto Fiorentino perché il Pci ci consegnava la medaglia d´oro alla memoria del babbo». A Cecchi è dedicata anche la sezione di via Palazzuolo, nel quartiere dove abitava con la famiglia durante la guerra - quattro stanze in via de´ Canacci - e a Peretola c´è una strada intitolata a lui e a suo fratello Bruno, socialista, che fu ammazzato dalla Banda Carità. «La targa di marmo sul luogo in cui fucilarono mio padre l´ho comprata di tasca mia e l´ho fatta mettere sul muro della fattoria Ricceri a Morello, era lì che i tedeschi avevano il comando in quei giorni. Poi fecero dei lavori di ristrutturazione e demolirono tutto, quella lapide la ritrovò anni dopo per caso un mio conoscente da un rigattiere di via dell´Agnolo, pare che fosse dentro una cassapanca in casa di un muratore che l´aveva portata via da Morello. Il 21 aprile del 1991 la rimettemmo nella sezione del Pds di via Palazzuolo e spero che sia ancora lì, anche se è tanto tempo che non vado a controllare».
Una strada, due medaglie, una targa nascosta. Un po´ poco per onorare il coraggio di un uomo che ha dato la vita per la libertà. «Quando lo presero aveva 46 anni e da appena venti mesi era morta la mia mamma in un incidente. Eravamo tre figli, due fratelli e una sorella, io quello di mezzo. Avevo 16 anni ed ero partigiano anch´io, aiutavo mio padre a portare documenti e cibo a chi era nascosto e accompagnavo i compagni che venivano da fuori alle riunioni che si tenevano a Colonnata», racconta Giancarlo Cecchi. «Della sua morte ci avvertì quindici giorni dopo Marino Barducci, il padre di Andrea, l´attuale segretario metropolitano del Pd. Anche lui era stato catturato ma a differenza di mio padre aveva le tasche vuote e questo gli salvò la vita». Guido invece aveva addosso roba che scottava: la tessera del Comitato di liberazione nazionale, quella del Pci e una rivoltella. «Gli fecero scavare la fossa prima di ammazzarlo», racconta il figlio con la voce che si rompe ad ogni parola, «e dopo avercelo buttato dentro morto la fecero ricoprire dagli altri partigiani. Riuscirono a coprirgli la faccia con la giacca, almeno quello». Lo fucilarono da solo e fu l´ultimo partigiano a morire a Firenze. Era il 31 agosto del ´44, Guido stava andando a Peretola a cercare notizie delle due nipotine, le figlie del fratello Bruno che era stato ucciso. Una delle ultime pattuglie tedesche in ritirata lo bloccò in via del Barco: «Ho sempre vissuto con la rabbia dentro per la sua morte e una voglia ossessiva di vendicarlo», racconta Giancarlo. «Era un uomo energico, bello, fiero, autorevole, dotato di un´eccezionale capacità organizzativa, riusciva a far curare i feriti rifugiati nelle case, a portare da mangiare a chi non ne aveva, a ritrovare i familiari di chi scappava. Durante la guerra si faceva dare dalla sorella, che faceva la camiciaia, i rocchetti di filo e li scambiava con polli e conigli che i contadini portavano dalla campagna negli stallaggi di via Palazzuolo, costruì persino un pozzo artesiano per pompare l´acqua». Un uomo d´azione, insomma, che nei giorni precedenti la liberazione aveva partecipato a sabotaggi di mezzi tedeschi, furti di cartelli indicatori sulle strade di comunicazione battute dai soldati e insieme ai suoi uomini aveva diffuso fogli clandestini che invitavano ad aderire alla Resistenza, tra i suoi compagni c´era Romano Bilenchi. «Il babbo lavorava al cinema Fulgor, faceva la maschera. Allora le prime file erano sopraelevate con delle pedane di legno ed era lì sotto che lui nascondeva le armi, rischiando ogni giorno di essere scoperto», racconta il figlio. «Di politica non parlavamo, ero troppo giovane. Mi mandava però a portare i giornali nelle case, Azione comunista ad esempio. E poi insieme trovammo 400 quintali di farina nel garage Europa in Borgognissanti e mentre li portavamo al forno di via de´ Pucci per fare il pane le donne affamate ci presero d´assalto con le pentole in mano». Giancarlo andò a recuperare il corpo con un camion della protezione antiaerea e lo seppellì al cimitero dell´Antella. «Quando ricordo mio padre, sempre mi vengono in mente le ultime parole che disse. Mi raccomando pensate ai miei figli che restano soli».

il Riformista 9.8.08
Storia. Razza partigiana, un nero da medaglia d'oro
di Stefano Ciavatta


È il 1941, siamo Roma, non ancora città aperta, in piazza san Giovanni in Laterano: due studenti universitari passeggiano per la strada. Uno in particolare è sorpreso quasi spaventato dallo scatto fotografico in pieno giorno. Si chiama Giorgio Marincola e ha tutte le ragioni per esserlo. Giovane azionista, allievo di Pilo Albertelli professore di storia e filosofia (ma soprattutto di antifascismo, trucidato poi alle fosse Ardeatine), Giorgio sarà l'unico partigiano italiano di colore decorato nel 1953 alla memoria con la medaglia d'oro al valore militare.
Straordinaria e frammentata la storia di questo ragazzo morto a soli 23 anni, messa insieme da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio in «Razza Partigiana». È un intreccio di fatti certi (a cominciare dal colore della sua pelle, così imbarazzante all'epoca per chi era persino antifascista) e di silenzi. Silenzi anche politici: muore infatti nell'eccidio di Stramentizzo, primi di maggio del 45, a guerra finita. Il fascicolo della strage nazista era tra i 695 fascicoli riguardanti crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazi-fascista, occultati subito dopo la guerra e rinvenuti nel 1994 dentro l'armadio della vergogna, in uno sgabuzzino della cancelleria militare di Roma. Su tutti il promemoria Atrocities in Italy dei servizi segreti britannici che aveva raccolto denunce e materiale. Nel massacro Marincola è colpito alle spalle, «struck by bullet on left shoulder blade» come dice il rapporto. Le SS oramai allo sbando, uccisero a tradimento civili e partigiani, bruciando le case di due paesi, per poi sfilare cantando i propri inni.
Silenzio ci fu anche quando si trattò di riconoscere l'identità del cadavere del partigiano nero. Un ufficiale medico sudafricano? Un soldato afro americano? Un internato mulatto del lager di Bolzano? Era invece semplicemente un italiano di origine somala, figlio di un sottoufficiale calabrese dell'esercito e di una donna somala. Marincola passò indenne per le leggi razziali che mettevano al bando i meticci grazie al precedente riconoscimento paterno, idem per la sorella. Divenne partigiano a Roma poi si spostò a Viterbo, sabotaggio e guerriglia, poi viene paracadutato a Biella al seguito di Edgardo Sogno, di nuovo in azione, poi venne fatto prigioniero, torturato e spedito nel lager di Bolzano, poi arrivò la liberazione da parte degli alleati nel gennaio '45. Ma non è finita, il tenente partigiano «Mercurio» ritornò tra le formazioni partigiane in val di Fiemme a combattere contro le sacche di resistenza tedesche.
Oltre alla medaglia e una laurea in medicina ad honorem, di lui rimangono poche cose, gli appunti da studente, i ricordi degli amici e dei compagni di scuola. La scelta di campo antifascista avvenne al liceo, tra Albertelli e Croce, ma nulla è documentato per certo. Tranne le sue azioni:«I've stood, and fired, and killed» avrebbe scritto Fenoglio più tardi.

«Razza Partigiana. Storia di Giorgio Marincola 1923- 1945», Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, Iacobelli editore

La Repubblica Napoli 9.8.08
Il testo di Giuseppe Cantillo sulla produzione scientifica del padre dell'idealismo tedesco a Jena
Hegel, le lezioni e la sintesi del sistema filosofico
di Sossio Giametta


È come entrare nel complicato laboratorio di uno dei più grandi cervelli umani Avamposto per Feuerbach, Marx Bauer, Stirner Schopenhauer Nietzsche e altri

Il sistema di Hegel, formato dalla Logica, dall´Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, dai Lineamenti di filosofia del diritto e dai corsi di Filosofia della storia, di Estetica, di Filosofia della religione e di Storia della filosofia, è la più grandiosa sintesi delle discipline filosofiche che sia giunta a noi dagli ultimi secoli; essa incorpora tutti i precedenti sistemi e abbraccia la teoria e la storia di tutte le forme di realtà: una quercia maestosa, attorniata da alberi minori. Ma le querce si sviluppano dalle ghiande. Tra la ghianda (qui gli Scritti giovanili) e la quercia intercorre uno sviluppo vertiginoso (ved. il saggio di Giuseppe Cantillo, Hegel a Jena), in sé drammatico, fatto di reiterati avvicinamenti-riallontanamenti, che sono in realtà incorporazioni con successivo rigetto (anche Augusto si alleò e poi eliminò, uno per uso, i suoi competitori). Al tempo del suo trasferimento da Francoforte a Jena, nel gennaio 1801, Hegel si trovava nel punto culminante di questo processo di formazione e trasformazione. A Jena strinse un sodalizio con Schelling, ultimo capo da doppiare prima di giungere in vista della definitiva e solitaria libertà e indipendenza. Da Schelling e dal suo sistema dell´idealismo trascendentale (1800) gli veniva allora molto, ed egli ricambiò sia collaborando con Schelling, col quale era al tempo fondamentalmente d´accordo, al "Giornale critico della filosofia", sia stabilendo la Differenza tra il sistema fichtiano e quello schellinghiano", in cui riconosceva merito immortale alla fichtiana Dottrina della scienza, ma la bocciava in sostanza come sistema. Anche da Schelling si sarebbe liberato, nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, in cui per così dire l´Everest si stacca dal K2 e lo sormonta, portando alla massima altezza il massiccio Kant-Reinhold-Fichte-Schelling-Hegel. Tra una disputa e un´alleanza, Hegel incubava dunque il suo proprio sistema. Del progredire di questo interno processo dà testimonianza il libro curato da Giuseppe Cantillo. Esso riporta le lezioni sulla filosofia dello spirito tenute da Hegel a Jena dal 1803 al 1806, e più precisamente, nella prima parte, i "Frammenti sulla filosofia dello spirito (1803-1804)" e, nella seconda, la "Filosofia dello spirito (1805-1806)". I "Frammenti" sono come un magma ribollente, in cui spuntano continuamente temi e problemi che si ritrovano nelle opere posteriori (la coscienza, la molteplicità, il linguaggio, lo strumento, il possesso, la famiglia, il riconoscimento, lo spirito del popolo), e che man mano prende sempre più forma, fino a trasformarsi nella "Filosofia dello spirito" della seconda parte, cioè in un nucleo di sistema vero e proprio. Non è una lettura facile. È come entrare nel complicato e fumigante laboratorio di uno dei più grandi cervelli umani. Ma non è un´impresa impossibile per chi, armato di sagacia e tenacia, abbia a cuore di esplorare gli avamposti di uno dei più grandi sistemi filosofici dell´Occidente, dal quale sono fra l´altro venuti fuori, anche per contrasto, grossi calibri come Feuerbach, Marx, Stirner, Bauer, Schopenhauer, Nietzsche e altri. Molto aiuta, anzi direi che è indispensabile, come guida chiara e saggia, l´Introduzione di Cantillo, che prende per mano il lettore e lo guida con sicurezza nella "selva selvaggia e aspra e forte". Questo libro era stato già pubblicato nel 1971, ma poi vi sono state nuove edizioni critiche dei testi hegeliani e sono anche apparse, in Italia e in Francia, eccellenti traduzioni dei medesimi, sicché è apparso opportuno ristampare il volume dopo un´accurata revisione, che tiene conto di tutte queste novità.

venerdì 8 agosto 2008

l’Unità 8.8.08
«Liberazione», è solo una tregua tra Ferrero e il direttore Sansonetti


Interlocutorio. A Liberazione è così che definiscono l’incontro che hanno avuto col nuovo segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero. A due settimane dal Congresso gli organi dirigenti del partito non ci sono ancora, e poi al giornale in agosto non c’è molta gente. Ergo, se ne riparlerà a settembre. Sia della «nuova linea» evocata da Ferrero in un’intervista a Repubblica all’indomani della sua incoronazione. Sia «dell’autonomia» della redazione dal partito che un comunicato del Cdr ha rivendicato rispondendo a quell’evocazione.
E allora l’altro giorno i giornalisti e il segretario si sono solo annusati. Guardinghi, ma non più di tanto preoccupati. Ferrero ha ribadito che nonostante le voci insistenti il nome di Piero Sansonetti alla direzione del giornale non è in discussione. Almeno per ora. Gli equilibri della nuova maggioranza congressuale devono ancora decantare. E poi il partito è spaccato in due e la rimozione di Sansonetti non conviene a nessuno. Neanche al segretario.
Derubricata la questione direttore restano però le perplessità sul futuro. Da parte di Ferrero, che non ha nascosto i propri disaccordi col giornale di Sansonetti. E da parte della redazione, che crede che il segretario non abbia troppa cognizione di cosa sia e come funzioni il giornalismo. Per questo, dicono, se «ne è uscito con la cosa della linea». «Un’ingenuità», preferiscono interpretare. La questione dell’autonomia in un giornale politico, dicono, è «una questione vecchia», che non vale neanche la pena riaprire. «Se vogliamo essere un giornale di ricerca - dice un sansonettiano della prima ora - allora l’autonomia è indispensabile». Non si tratta di essere pro o contro Ferrero. Pro o contro Vendola, dicono. «Noi vogliamo fare i giornalisti e farlo bene». Punto e basta. «Qui dentro - spiegano - non ci sono maggioranze, perchè la maggioranza di noi non ha la tessera». E questo, però, Ferrero lo vede con sospetto, perché sente in questa autonomia una vicinanza ad una «sorta di sensibilità vendoliana». In realtà il giornale non rispetta nessuna delle linee del Prc. In altri tempi «anche Fausto Bertinotti e Franco Giordano s’infuriavano con Sansonetti». E poi, dicono i maligni, con una maggioranza a freddo come quella uscita dal Congresso, «quale sarebbe la linea del Prc che Liberazione dovrebbe rispecchiare?».

l’Unità 8.8.08
Sogno Rom di mezza estate
Dijana Pavlovic


Ho sognato.
Brucia il campo rom di via Triboniano, solo fango, né acqua, né luce, né gas. E 600 donne uomini bambini senza più niente.
Il comune di Milano fa qualcosa.
Al posto delle baracche - container, al posto del fango - cemento, e poi anche acqua luce e gas.
Ma non c’è posto per tutti e c’è un prezzo da pagare: il Patto di legalità, legge speciale per zingari!
Se trasgredisci, buttano per strada te e la tua famiglia.
Ho firmato: non andrò mai a rubare, anche se fino adesso non l’ho mai fatto.
Non chiederò mai l’elemosina,
anche se fino adesso non l’ho mai fatto.
Non ospiterò mai nessuno nel mio container,
neanche per una notte,
neanche mia madre!
Ma ho un container e allora va tutto bene!
Ho sognato.
Dieci zingari rumeni, lavorano in regola dallo stesso padrone.
Si fanno intervistare dalla televisione per far vedere che non sono bestie.
Il giorno dopo il padrone li chiama: «Vi ho visto in trasmissione.
Bravi, la gloria si paga, siete zingari? Andatevene a casa!»
Ho sognato.
A Ponticelli molotov sui campi rom. Rivolta popolare, parte dal basso (più basso di così - dal ventre dello stato - la camorra).
Momento di orgoglio e di gloria, davanti alle telecamere la gente grida:
«Non sono io razzista, sono loro che sono zingari!»
I loro figli nelle scuole disegnano roghi e a fianco le scritte:
«Bruciamoli tutti! Anche loro producono spazzatura!»
Va tutto bene, sono solo bambini. Forse troppa televisione,
Ma questi bambini sono il futuro della nazione!
Ho sognato.
Rebecca, bambina zingara di 11 anni,
non va a scuola, ma legge, scrive e fa i conti, il tempo lo passa per strada,
non chiede la carità ma crépe alla nutella.
Disegna case. Ha vinto un premio Unicef per i suoi disegni,
suo padre, un pastore evangelico, uomo di fede,
viene picchiato da due poliziotti. Senza ragione, davanti ai suoi occhi.
Ma va tutto bene, sono solo quattro cazzotti.
Adesso Rebecca saprà disegnare anche poliziotti!
Ho sognato.
Goffredo Bezzecchi, cittadino italiano, superstite Rom dei campi di concentramento.
Famiglia numerosa: 35 persone tra figli e nipoti, tutti senza precedenti penali.
Alle 5 di mattina 70, tra poliziotti carabinieri e i vigili urbani
con un furgone della scientifica, per ordine del Prefetto di Milano,
vengono a censire lui e la sua famiglia con nome, cognome e anche la religione.
Ma sono cittadini italiani. Non bastava andare all’anagrafe?
Ah no, giusto, all’anagrafe non c’è scritto se sei rom.
E se sei ortodosso, cattolico o musulmano.
Ma va tutto bene, lui c’è abituato,
al campo di concentramento Tossicia di Teramo
l’avevano già schedato.
Ho sognato.
Violetta e Cristina, bambine rom di origine slava.
Sono annegate a Pozzuoli vicino a Napoli.
I loro corpi giacciono sulla spiaggia per ore.
A pochi metri la gente continua a prendere il sole,
sorseggia una bibita, chiama amici e parenti con il nuovo cellulare.
È tutto normale.
L’alto commissario dell’Onu si indigna?
Qualcuno si interroga sulle responsabilità?
Di chi sono: della società, della politica, dei media?
Se proprio si deve, ognuno di noi si guardi allo specchio
e dica a se stesso: io non c’entro niente con tutto questo!
Ma va tutto bene.
Violetta e Cristina non saranno vendute spose a dodici anni,
non saranno costrette a chiedere la carità,
non ruberanno bambini alle brave mamme napoletane,
no, nessuno mai verrà a prendere le loro impronte digitali
e chiedere la loro religione e la loro etnìa.
O adesso si dice di nuovo razza?
Ho sognato?
No, sono a Opera, Pavia, Livorno, Mestre, Roma, Brescia, Napoli Milano...
Un bagliore lontano, in periferia! Brucia un campo Rom!
Chi se ne frega! E come dice Shakespeare:
«Potete dire “sognavo”
e tutto quello che fin qui vi abbiamo propinato
come un brutto sogno può essere già dimenticato».
Buone vacanze!
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 8.8.08
Partito Democratico. Nuovi strappi e vecchie liturgie
di Michele Ciliberto


Il pensiero politico moderno
ci ha insegnato che Stato
e governo vanno tenuti su piani
rigorosamente distinti
così come la politica non va
confusa con l’amministrazione

Il Pd deve tenersi lontano
da vecchie e nuove liturgie
puntando invece su forme
di aggregazione che permettano
alla gente di svolgere un ruolo
attivo nelle decisioni politiche

Il nostro è un Paese paradossale: non molto tempo fa alcuni ministri della Repubblica sono scesi in piazza manifestando contro il governo di cui erano parte e contribuendo in questo modo alla sua dissoluzione senza suscitare particolare discussione; oggi si è acceso un vivace dibattito intorno alla decisione di alcuni amministratori eletti nelle liste del Pd di non partecipare alla manifestazione nazionale indetta da questo partito per il 25 di ottobre.
Mi guardo naturalmente bene dal mettere le due cose sullo stesso piano: la prima iniziativa era addirittura grottesca; la seconda pone invece dei problemi assai significativi sui quali merita fare una riflessione.
La tesi sostenuta dagli amministratori del Partito Democratico che non aderiscono alla manifestazione è ridotta all’essenziale: il problema, in questo momento, è anzitutto quello di collaborare con il governo, dal quale - almeno nel caso dei rifiuti di Napoli - è venuto un aiuto addirittura maggiore per risolvere i problemi di quello dato dal governo Prodi.
In affermazioni di questo tipo, oltre che gli argomenti, pesano anche sentimenti, e perfino risentimenti, di carattere sia politico che personale che non è difficile individuare e che sono ordinari nella vita di un partito o anche nella lotta politica. Non vale dunque la pena di fermarsi su di essi. Conviene invece concentrarsi sui nuclei di fondo da cui discendono tesi come quella or ora citata.
A mio giudizio vengono compiuti due errori sostanziali, da cui è necessario tenersi lontani: in primo luogo vengono identificati sullo stesso livello Stato e governo, nonostante che tutto il pensiero politico moderno ci abbia insegnato a tenere rigorosamente distinti questi due piani; in secondo luogo, la politica viene ridotta, e identificata, con l’amministrazione: punto di vista, quest’ultimo, tipico del pensiero conservatore nelle sue varie diramazioni. Si tratta di errori gravi, anzitutto sul piano teorico, in entrambi i casi: è infatti fondamentale distinguere partiti governo e Stato, mantenendo ferma la dialettica fra piani non riducibili l’uno all’altro; l’amministrazione è parte essenziale della politica che però si misura in un orizzonte e in una prospettiva più ampia di quella dell’amministrazione aprendosi - per usare due lemmi classici - sul “dover essere”, oltre che sull’“essere”.
Sono precisazioni elementari e colpisce, semmai, il fatto che esse debbano essere fatte, a conferma ulteriore, se ce ne fosse bisogno, della situazione di crisi complessiva nella quale ci troviamo ad ogni livello, in questo momento della nostra storia nazionale. Ma se si riflette bene su queste posizioni si vede che, al fondo, quello che si snerva e impallidisce è anzitutto il concetto di opposizione e, insieme ad esso e prima di esso, quello di conflitto. Di questo, e non di altro, bisogna dunque discutere, perché è questo il nodo che sta venendo in questione.
È interessante sottolineare da questo punto di vista che i rappresentanti più autorevoli dello schieramento di governo insistono oggi su due punti: sulla necessità di costituire uno “spirito repubblicano” nel quale si dovrebbero ritrovare così il governo come l’opposizione; sul valore dei processi storici - rispetto a quelli immediatamente politici - arrivando addirittura a valorizzare i risultati della Bicamerale presieduta da D’Alema nel ‘97. È una tecnica tipica di coloro che detengono il potere, dall’età della pietra fino a quella dei computer, sia pure naturalmente con modalità differenti. Quello che resta invece fermo, e permane nelle varie posizioni, è l’idea di una storia che dispiegandosi nel suo processo dissolve progressivamente le opposizioni, e con esse il conflitto, configurandosi come un campo nel quale tutti danno il proprio contributo, naturalmente secondo un progetto preciso che è quello, in genere, delle classi dominanti. Intendiamoci: non che non sia possibile individuare attraverso il conflitto punti di equilibrio e anche di compromesso; ma questo è tanto più possibile quanto più il conflitto venga riconosciuto nella sua potenza e quanto più siano distinti, come fatto addirittura fisiologico, le funzioni del governo e quelle dell’opposizione, evitando di cadere, come si rischia di fare oggi, in quella che un grande filosofo chiamava «la notte in cui tutte le vacche sono nere». Qui, come al solito, problemi teorici e problemi politici si intrecciano in un solo nodo.
Vorrei essere chiaro su questo: condivido pienamente l’invito del Presidente della Repubblica a costruire un clima nuovo che consenta di procedere nel modo più sereno possibile alle riforme di cui il paese ha bisogno, a cominciare da quelle costituzionali che sono ormai una urgenza non più rinviabile. E sono altresì convinto che il dialogo, ma anche il conflitto, fra maggioranza e opposizione, debba diventare anche da noi un fatto normale, come avviene nelle democrazie più avanzate. Ma questo è possibile - va ribadito - se si tengono ferme le distinzioni fra i vari livelli dell’articolazione costituzionale e statale e, soprattutto, se non si confondono i propri interessi privati con quelli della comunità nazionale. Cosa che, come abbiamo avuto agio di vedere in questi ultimi mesi, purtroppo non è accaduto, vanificando anche i tentativi fatti in questo senso dallo stesso Partito Democratico.
Anzi, da questo tipo di politica, il Partito Democratico, è stato progressivamente spiazzato e logorato fino al punto di rischiare di trovarsi al capolinea prima ancora di essere partito (per riprendere il titolo di un gradevole libretto di Emanuele Macaluso). Condivido personalmente da questo punto di vista il giudizio di chi sostiene che in questo momento il vero problema del Partito Democratico è anzitutto quello di “organizzare se stesso” e - preciserei - di rimotivare le ragioni che ne sono state alla base e che ne hanno orientato la nascita e le prime mosse politiche. Da questo punto di vista, la manifestazione del 25 di ottobre - e questo a mio giudizio è il suo significato più profondo - deve congiungere questi due obiettivi fondamentali: rendere chiare le ragioni di fondo dell’opposizione al governo di Berlusconi e di Tremonti; rimotivare il popolo del centro-sinistra che si è riconosciuto nel Partito Democratico e che si è gettato con impegno ed entusiasmo in questo progetto. Questo, penso, deve essere anche il criterio di fondo per valutare le varie iniziative che il Partito Democratico sta prendendo in queste settimane, concernenti la ripresa politica nel mese di settembre. Non si tratta però - voglio ribadire anche questo - di creare nuove “liturgie” come è stato affermato da un autorevole dirigente del Partito Democratico spiegando ai cronisti perché il segretario di questo partito abbia rinunciato a chiudere la Festa nazionale - dove si limiterà a dare solo un’intervista conclusiva - decidendo di chiudere, invece, i lavori della prima scuola politica del Partito. L’intreccio tra politica e riti di ascendenza religiosa - ci ha insegnato un grande maestro degli studi storici, George Mosse - è tipico dei grandi movimenti di massa totalitari del Novecento, che delle “liturgie” hanno fatto un asse della propria azione politica, basando su questo piano i rapporti tra leader e massa, fra “popolo” e capi politici. Noi però non abbiamo più alcun bisogno di tutto questo: quello a cui dobbiamo lavorare è un nuovo nesso fra partecipazione e rappresentanza chiamando ciascuno alle proprie responsabilità.
Quella che sta di fronte a noi e su cui si gioca il destino del Partito Democratico è, in ultima analisi, precisamente una questione di democrazia. Se non attraverserà questo sentiero strettissimo il nuovo partito non avrà prospettiva e sarà destinato a scomparire dalla scena politica.
In questo quadro va dunque valutata la stessa manifestazione che si sta organizzando per il 25 di ottobre, sulla quale è lecito avere dei dubbi proprio per quanto riguarda le sue modalità organizzative e i problemi di democrazia che ne discendono. Si capisce l’urgenza di una manifestazione di questo genere, sia per motivi interni di partito sia per delineare le ragioni dell’opposizione al governo raccogliendo in una grande iniziativa un “popolo” che si è disperso e che deve essere riunificato, anche sotto nuovi simboli e nuove bandiere, senza le quali non si fa politica. Ma proprio perché questa è la posta in gioco, a me pare che le modalità organizzative scelte per il 25 ottobre appartengano a una vecchia storia, continuino ad essere di tipo tradizionale: mentre si tratta invece di inventare nuove forme di aggregazione che facciano perno sulla determinazione di nuovi nessi fra partecipazione e rappresentanza, riprendendo la lezione delle primarie, e mettendo la gente che si è ritrovata nel Partito Democratico in condizione di svolgere un ruolo di protagonista incidendo - anche attraverso nuovi modelli organizzativi, lontanissimi da nuove e vecchie liturgie - nella determinazione delle decisioni politiche.
La discussione di questi giorni nasconde dunque problemi di più vasta portata; ma sono persuaso che di questo si tratti in questi mesi: del destino del Partito Democratico e che di questo al fondo si stia discutendo, anche quando si prende posizione - in un senso o nell’altro - nei confronti della manifestazione del 25 ottobre.

Corriere della Sera 8.8.08
Sanità e terapie del dolore
I numeri I pazienti che avrebbero bisogno di questo tipo di assistenza sono 250 mila, ma gli spazi sono per poco più di 2000
Le cure Terapia del dolore, assistenza psicologica, «coccole» per gli ultimi giorni di vita. E conta solo la volontà del ricoverato
Hospice, dove si sceglie come morire
Niente accanimento nelle 206 strutture per malati terminali Pochi posti letto, ma i fondi stanziati non vengono spesi
di Mario Pappagallo


Il primo hospitium per malati e morenti risale al V secolo d.C. e fu fondato da Fabiola, matrona della Gens Fabia. Nel 1843, a Lione, fu aperto un Hospice per morenti da Jeanne Garnier, ma è Cicely Saunders, con il suo St. Cristopher del 1967 a Londra, la fondatrice degli Hospice moderni

I morti per tumore sono circa 130 mila ogni anno in Italia. Di questi, almeno 100 mila avrebbero bisogno di cure palliative nella fase terminale. A domicilio, se l'ambiente e la famiglia lo consentono. In una struttura dedicata, se si è soli o con familiari con problemi socio- economici o psicologici. Assistere alla fine della vita di un congiunto non sempre è emotivamente sostenibile. Per questo esistono gli Hospice.
Che oggi emergono dal silenzio, perché in uno di questi centri verrà ricoverata Eluana Englaro negli ultimi giorni della sua esistenza.
Negli Hospice non ci sono né sondini per l'alimentazione forzata, né respiratori. Tutto questo, se non richiesto, è accanimento terapeutico. Le cure sono per ridurre i sintomi, il dolore, la sofferenza anche psicologica, rasserenare nel momento terminale. O per aiutare chi terminale non è, ma non è più curabile.
Numeri insufficienti
Ma in Italia gli Hospice, nati tardi, sono ancora pochi: 2.346 posti letto. Insufficienti. Si stima che almeno 250 mila malati vi dovrebbero ricorrere, molti dei quali attualmente degenti in ospedale (con costi elevati per il servizio sanitario). Gli Hospice sarebbero la tappa più giusta per persone con malattie incurabili come sclerosi multipla, gravi cirrosi (fegato), la Sla (che ha portato Welby a chiedere l'eutanasia), con insufficienze respiratorie o cardiache che non rispondono più ai farmaci. Se i numeri lo consentissero.
Non è però questione di soldi. Anzi. Duecentosei milioni e 566 mila euro sono stati finalizzati a una rete di queste strutture. Erogati nel 1999 e ancora nel 2001. Nel 2008 restano ancora da spendere 44 milioni e rotti. E di Hospice a disposizione ce ne vorrebbero sempre di più perché aumenta la consapevolezza delle diagnosi, anche le più infauste, e perché sempre un maggior numero di persone vuole decidere come morire.
L'ultima diagnosi
Per accedere ad un Hospice
bisogna avere una diagnosi terminale, il che vuol dire, teoricamente, 2-3 mesi di vita. È così negli Usa e in Inghilterra, è così anche in Italia. Ma succede che il malato, finalmente senza dolore e coccolato, vive anche molto di più. «Anche un anno», dice Piero Morino, responsabile dell'Hospice delle Oblate di Firenze. Potere delle cure palliative, cioè di quei trattamenti destinati a rendere sopportabili e vivibili con dignità e senza dolore gli ultimi mesi dei malati terminali.
«Senza sondini per alimentazione forzata, né macchine da vita artificiale. In pieno rispetto della volontà del malato e dei familiari», ribadisce Morino. «Manca però un consenso informato adatto agli Hospice », avverte Mauro Marinari, direttore del Nespolo di Airuno (Lecco). Alcuni familiari pretenderebbero le stesse terapie di una rianimazione. Invece, filosofia dell'Hospice è: solo trattamenti sintomatici, psicologici e fisioterapici. Una filosofia che abbatte anche la richiesta di eutanasia. Un fine vita «coccolati » accresce il desiderio di continuare a sperare.
I finanziamenti
In un'Italia «affamata» di fondi i finanziamenti per gli Hospice hanno stentato a essere attivati. Tant'è che alla fine del 2007 c'era ancora un residuo di 44 milioni da spendere e solo tre Regioni che avevano completato il piano: Emilia Romagna, la Provincia autonoma di Bolzano e il Molise. A otto anni dall'erogazione dei fondi mancano all'appello 18 hospice del piano iniziale: ai 206 previsti si arriverà a fine 2008 (con l'aiuto di altri 100 milioni stanziati con la finanziaria 2006). E dovranno salire a 243 nel 2011. In alcune regioni, poi, prevalgono i centri privati: otto nel Lazio contro i due pubblici, con ancora 3 milioni e 800 mila euro da spendere.
La struttura tipo
Un Hospice tipo dovrebbe avere 10-12 posti letto. E tre medici, 8-10 infermieri, 8-10 operatori socio-sanitari. Una struttura che non sembra complicata da costruire e organizzare. Eppure nel nostro Paese la crescita è stata, e continua ad essere, faticosa. Nel 2002 gli Hospice erano appena 20, nel 2006 114, nonostante i soldi a disposizione. E con i 206 operativi a fine 2008 si avrà una percentuale di 0,40 posti letto ogni 10 mila abitanti. Nonostante ogni anno in Italia siano 250 mila persone ad avere necessità di questo tipo di assistenza. Terapia del dolore in primis. Da uno studio dell'Irc di Genova (2006), risulta che in Italia, per il 42% dei malati di tumore, il dolore risulta talmente insopportabile da far loro desiderare la morte, nel 66% dei casi ostacola anche le semplici attività quotidiane, e per la metà di loro il dolore influisce negativamente sulla vita familiare.
La lista di attesa
Ma come si accede a un Hospice?
Franco Henriquet, responsabile del Gigi Ghirotti di Genova, spiega: «La richiesta per il ricovero deve essere fatta da un medico che fa assistenza domiciliare perché diamo precedenza ai malati che stanno a casa rispetto a quelli ricoverati in ospedale. Limitatamente alla disponibilità dei posti. Al Gigi Ghirotti nel 2007 ci sono stati 219 ricoverati, su 414 richieste. Circa la metà non esaudite». Alcuni in lista d'attesa muoiono prima. E' richiesta una previsione di fine vita non oltre i tre mesi. «Tuttavia — dice Henriquet — abbiamo avuto pazienti terminali che sono rimasti qui anche un anno. Non è così facile diagnosticare i tempi della malattia».
Il medico dell'Hospice valuta le richieste secondo i criteri stabiliti da una convenzione con la Asl. Non si tiene conto della patologia (tipo gli oncologici prima dei neurologici o cose così) o della gravità (sono tutti gravi) ma solo della data in cui è stata presentata la domanda. I pazienti provenienti dalle altre Regioni non sono esclusi, ma devono essere sottoposti a autorizzazione della Regione ospitante.
E l'attesa? «Tre, quattro giorni», risponde Marinari che aggiunge: «Da noi il 12% dei ricoverati non sono malati terminali di tumore. Ci sono anche scompensati di cuore e polmonari. Il ricovero a volte è breve, per correggere la situazione, stabilizzarla. Poi assistenza a domicilio». E Morino conclude: «Gli hospice non sono posti dove si va a morire, ma centri in cui si allevia la sofferenza».

Corriere della Sera 8.8.08
A Genova Nell'Hospice Gigi Ghirotti ci sono 12 pazienti, le stanze hanno nomi di fiori e i desideri delle persone sono legge
«Liberi di decidere. Anche la data del Natale»
«Un ricoverato stava male, lo ha festeggiato il 10 dicembre». L'accordo sulle terapie
di Erika Dellacasa


GENOVA — Le stanze non hanno un numero per identificarle, hanno un fiore: una margherita, un tulipano, un geranio. Dodici stanze, dodici letti, dodici fiori. Anche sulle cartelle cliniche c'è il fiore. L'Hospice della «Gigi Ghirotti», a Genova, accoglie malati terminali, ma il medico responsabile, Nadia Balletto, afferma decisa: «Qui assistiamo i vivi, non pensiamo ai morti». Sono cure palliative, terapie antidolore perché la guarigione, per chi approda in queste stanze, è esclusa. L'assistenza è garantita ventiquattro ore su ventiquattro.
L'Hospice vive in un difficile equilibrio: i pazienti hanno una speranza di vita, secondo i certificati che li accompagnano, che non va oltre i tre mesi, ma, spiega il medico, «qui si viene per migliorare la qualità della vita rimanente, non per morire». In un ambiente che non è casa, anche se cerca di essere il più possibile «casa»: i malati possono — se ce la fanno — vestirsi come preferiscono e non sono «condannati » al pigiama, possono — se ce la fanno — farsi portare le lasagne al forno della mamma, possono (e quasi tutti lo fanno) appendere quadri, foto, personalizzare la stanza. Oggi, a poter «in qualche modo» pranzare e alzarsi dal letto, sono solo cinque su dodici. Due sono affetti da Sla, completamente immobili, uno in grado di parlare, l'altro comunica con gli occhi. Le visite dei parenti sono possibili in qualunque momento e per qualunque durata. Ogni camera ha una poltrona trasformabile in letto, chi vuole può fermarsi a dormire. Se il visitatore avverte il giorno prima, gli sarà servita anche la colazione, il pranzo e la cena. Piatti di ceramica, posate vere. C'è un menu del giorno con le variazioni inevitabili: semolino, prosciutto cotto, ricottina.
Le camere hanno tutte il televisore. Alla parete c'è il crocefisso, chi desidera può toglierlo. In caso di pazienti musulmani viene tolto prima del loro arrivo. Le richieste religiose dei pazienti vengono sempre rispettate, c'è stato qui poco tempo fa un rito funebre ebraico, il corpo nudo è stato unto e avvolto negli scialli rituali.
Quando un paziente viene selezionato per il ricovero la dottoressa Balletto ha un lungo colloquio con i familiari: «Fondamentale è sapere se il malato è a conoscenza della sua condizione o in che misura ne è a conoscenza. Se ha bambini, ad esempio, chiedo cosa sanno i bambini. C'è la possibilità di un sostegno psicologico. Quando la mamma muore e il padre, sovente, perde la testa, da solo non ce la fa a occuparsi dei figli».
I bambini, i figli, i nipotini, sono ben accetti. Non è un ambiente cupo, anzi, tutto è luminoso, imbiancato di fresco. C'è molto silenzio. Nel «soggiorno» un grande televisore al plasma, lasciato da una paziente che non c'è più, una play-station per i ragazzini, un computer collegato a Internet e una cesta piena di peluche.
Grandissima attenzione viene dedicata ai desideri di fine vita. Cautamente, «nei tempi che stabilisce il malato», racconta la dottoressa Balletto, questi desideri vengono espressi. I più frequenti sono incontrare familiari che, per diversi motivi, si sono allontanati. Sorelle, fratelli, anche genitori e figli che, magari, non si parlavano più da anni per motivi che — ora — appaiono inconsistenti. Si favorisce l'incontro, in qualche caso il familiare — anziano e malato — è stato accompagnato all'Hospice in ambulanza per quell'ultimo saluto. Un paziente desiderava festeggiare il Natale ma sapeva che non ce l'avrebbe fatta, inutile fingere. E' stata organizzata una festa natalizia il 10 dicembre, con tutti i familiari e i nipoti. Lui è morto il 25 dicembre. «Le madri — dice Balletto — riescono ad andarsene quando hanno l'impressione di avere stabilito un controllo sul futuro dei figli. Fanno raccomandazioni. Di vita, affettive».
Le altre volontà sono quelle riferite alle terapie. Quando si è ancora in tempo, il medico stabilisce un codice con il malato che prevedibilmente perderà l'uso della parola, può essere il battito della ciglia. I computer aiutano. «In caso di morte per soffocamento, come nella Sla, bisogna arrivare a stabilire con il malato quali interventi medici accetta: c'è chi rifiuta il sondino e la tracheotomia e chi vuole che sia fatto tutto, fino all'ultimo. Non si può mai giudicare la scelta del malato, non si può mai imporre. C'è chi rifiuta l'antidolorifico. Se non lo vuole, non si fa». Chi rifiuta l'alimentazione con il sondino viene esaudito.
«Ma anche qui ci sono — spiega il medico — sprazzi di vita. Abbiamo fatto musicoterapia. Funziona. Qualcuno vuole l'opera e qualcuno Vasco Rossi. Va bene tutto».

Corriere della Sera 8.8.08
Inediti Intellettuali e pacifismo, il monito di Orwell nel 1940
Sinistra, hai tradito i valori della patria
Resistere o arrendersi? Non c'è alternativa alla guerra Da socialista dico: la rivoluzione inizia dalla fine di Hitler
di George Orwell


CONTRARIAMENTE al credo popolare, il passato non è stato più denso di avvenimenti del presente. Se così sembra, è perché guardandoci alle spalle i fatti accaduti anni e anni addietro si affastellano, e perché pochissimi dei nostri ricordi ci pervengono nella loro autentica purezza. È soprattutto grazie ai libri, ai film e alle memorie nel frattempo sopraggiunti, che alla guerra del 1914-18 viene oggi attribuito quel valore straordinario ed epico di cui l'attuale difetta.
Se tuttavia avete potuto vivere quel conflitto, e se sceverate i veri ricordi dalle aggiunte successive, vi accorgerete che non furono di solito i grandi eventi, all'epoca, a suscitare in voi forti emozioni. Non credo che la «Battaglia della Marne», ad esempio, avesse agli occhi del gran pubblico quel carattere melodrammatico che poi le è stato attribuito. Né ricordo di aver mai udito l'espressione «Battaglia della Marne», se non anni dopo l'accaduto. Era semplicemente successo che i tedeschi, portatisi a ventidue miglia da Parigi — il che era senz'altro piuttosto allarmante, dopo le atrocità commesse in Belgio — erano poi, per qualche ragione, tornati indietro. Avevo undici anni quando scoppiò la guerra. Se, in tutta sincerità, metto a fuoco i miei ricordi senza tener conto di quel che ho appreso in seguito, devo ammettere che nulla, per tutta la durata del conflitto, riuscì a commuovermi così profondamente come poté l'affondamento del Titanic, appena qualche anno prima. Quella sciagura, al confronto marginale, aveva scosso il mondo intero, e lo sconcerto non si è ancora del tutto dissolto. Ricordo le terribili, minuziose cronache lette ad alta voce durante la colazione (allora era normale abitudine leggere forte il giornale), e ricordo che in quel lunghissimo campionario di orrori una notizia mi colpì più di tutte: alla fine, il Titanic si era improvvisamente portato in verticale e, quando la prua iniziò ad affondare, i passeggeri aggrappati a poppa furono sollevati ad almeno trecento piedi nell'aria, prima di sprofondare nell'abisso. Provai un gran senso di vuoto allo stomaco, che riesco quasi ancora ad avvertire. Nulla in guerra mi ha mai procurato una simile sensazione.
Dello scoppio della guerra conservo tre vivide immagini che, data la loro marginalità e irrilevanza, non sono state intaccate da alcun evento posteriore. La prima corrisponde alla caricatura dell'«Imperatore Tedesco» (credo che l'odiato appellativo di «Kaiser» acquistò popolarità soltanto qualche tempo dopo), che fece la sua comparsa alla fine di luglio. La gente fu lievemente scandalizzata da una simile irrisione della sovranità («Ma è un uomo di così bell'aspetto, davvero!»), nonostante fossimo a un passo dalla guerra. L'altra risale ai giorni in cui l'esercito requisì tutti i cavalli della nostra cittadina di campagna, e un vetturino scoppiò in lacrime, nella piazza dove si svolgeva il mercato, quando il suo animale, che da anni e anni lo serviva, gli fu strappato via. L'altra ancora è di una ressa di giovani alla stazione ferroviaria, che sgomitano per accaparrarsi i giornali della sera, appena arrivati con il treno da Londra. E ricordo la pila di giornali verde pisello (ve n'erano ancora di quel colore, all'epoca), i colletti alti, i pantaloni di foggia affusolata e le bombette, molto più di quanto non ricordi i nomi delle terribili battaglie che già infuriavano ai confini della Francia.
Degli anni centrali della guerra, ricordo soprattutto le spalle quadrate, i polpacci prominenti e il tintinnio degli speroni degli artiglieri, la cui uniforme preferivo di gran lunga a quella della fanteria. In quanto al periodo finale, se mi si chiedesse qual è onestamente il mio ricordo principe, risponderei con estrema semplicità: la margarina. A riprova dell'orribile egoismo dei bambini, già nel 1917 la guerra non ci toccava quasi più, non fosse stato per lo stomaco. Nella biblioteca della scuola, una gigantesca mappa del Fronte Occidentale venne appesa a un cavalletto, con un filo di seta rosso che correva, tracciando uno zigzag, tra varie puntine da disegno. Di tanto in tanto, il filo si muoveva di mezzo pollice in questa o quella direzione, e ogni spostamento era la spia di una montagna di cadaveri. Io non vi prestai mai attenzione. A scuola ero tra i ragazzi con un livello d'intelligenza superiore alla media, eppure non ricordo un solo evento, tra i maggiori dell'epoca, che ci apparisse nel suo autentico significato. La Rivoluzione russa, ad esempio, non ebbe su di noi alcun effetto, eccetto quei pochi i cui genitori avevano investito denaro in Russia. Tra i più giovani, la reazione pacifista aveva preso piede da ben prima che la guerra giungesse a conclusione. Essere il più svogliato possibile alle parate del Corpo addestramento ufficiali di Complemento, e non mostrare alcun interesse per la guerra, tutto ciò era considerato un segno d'illuminazione. I giovani ufficiali reduci dal conflitto, induriti dalla terribile esperienza e disgustati dall'atteggiamento della nuova generazione, ai cui occhi essa era del tutto insignificante, erano soliti rimproverarci la nostra mollezza. Naturalmente, non riuscivano ad addurre alcuna ragione a noi comprensibile.
Erano capaci soltanto di sbraitare che la guerra era «una buona cosa», che «ti temprava», «ti manteneva in forma», eccetera eccetera. Noi ci limitavamo a ridere sotto i baffi. Il nostro era un pacifismo di parte, tipico di Paesi protetti e con una forte marina militare. Fino a parecchi anni dopo il conflitto, possedere una qualche conoscenza o interesse per le questioni militari, o addirittura sapere da quale estremità di un fucile esce la pallottola, era motivo di sospetto nei circoli «illuminati». I fatti del 1914-18 vennero liquidati come un inutile massacro, di cui le stesse vittime furono ritenute, in un certo senso, colpevoli. Quante volte ho sorriso pensando a quel famoso manifesto di reclutamento— «Papà, che cosa hai fatto nella Grande Guerra?» (un bambino pone la domanda al genitore atterrito dalla vergogna) —, e a tutti gli uomini che saranno stati attirati nell'esercito soltanto da quella locandina, e poi disprezzati dai propri figli per non essersi dichiarati obiettori di coscienza.
Ma i morti si sono presi la rivincita, dopo tutto. Non appena la guerra scivolò nel passato, proprio la mia generazione, quella cioè dei «troppo giovani », divenne consapevole dell'enormità dell'esperienza che aveva perduto. Non ci si sentiva pienamente uomini, perché quell'esperienza mancava. Ho trascorso il grosso degli anni 1922-27 in mezzo a uomini appena più grandi di me, e che erano stati in guerra. Ne parlavano senza posa, con orrore, naturalmente, ma anche con sempre maggior nostalgia. Una nostalgia che si riverbera con estrema chiarezza nei libri inglesi sulla guerra. D'altronde, la reazione pacifista non rappresentò che una fase transitoria, e anche i «troppo giovani» erano tutti stati preparati a combattere. La gran parte del ceto medio inglese è addestrata alla guerra sin dall'infanzia, non tecnicamente ma moralmente. Il primo slogan politico che mi sovviene recitava: «We want eight, and we won't wait» («Ne vogliamo otto, e ci faremo sotto»), sottintendendo le corazzate «dreadnoughts ». A sette anni ero membro della Lega Navale e portavo un vestito alla marinara con la scritta «H.M.S. Invincible» sul berretto. Ancor prima di entrare nel Corpo addestramento ufficiali della mia scuola superiore, ero stato cadetto in collegio. Ho imbracciato fucili, a intervalli regolari, sin da quando avevo dieci anni, in preparazione non a una guerra come tante altre, ma a una guerra assai particolare, una guerra ove le cannonate risuonano in un crescendo di frenesia, e al momento opportuno ti arrampichi fuori dalla trincea, ti rompi le unghie sui sacchetti di sabbia, e ti dimeni tra il fango e il filo spinato, verso il fuoco di sbarramento. Sono convinto che il fascino esercitato dalla Guerra civile spagnola sui miei coetanei fosse dovuto, almeno in parte, alle profonde affinità con la Grande Guerra. Vi furono momenti in cui Franco riuscì a mettere assieme abbastanza aeroplani da portare il conflitto agli standard moderni, e ad essi si devono le svolte decisive. Per il resto, tuttavia, si trattò di una copia sbiadita del 1914-18, una guerra di posizione fatta di trincee, artiglieria, incursioni, cecchini, fango, filo spinato, pidocchi e stagnazione. Il settore del fronte aragonese dove mi trovavo all'inizio del 1937, doveva essere molto simile a un tranquillo reparto nella Francia del 1915. Soltanto l'artiglieria era carente. Anche nelle rare occasioni in cui sparavano contemporaneamente, tutti i cannoni dentro e fuori Huesca non bastavano che a produrre un rumore inoffensivo e intermittente, simile alla fine di un temporale. Le granate sparate dai cannoni da sei pollici di Franco si schiantavano piuttosto fragorosamente, ma non ve n'erano mai più di una dozzina per volta. Posso dire che dopo aver udito per la prima volta i colpi «da guerra» dell'artiglieria, come si usa dire, rimasi almeno in parte deluso. Era tutto così diverso dal tremendo, incessante boato che i miei sensi avevano atteso per ben vent'anni.
Non saprei dire in quale anno ho saputo per la prima volta con certezza che la guerra attuale fosse imminente. Dopo il 1936, naturalmente, era ormai una cosa ovvia, che soltanto uno sciocco non avrebbe colto. Per diversi anni avevo vissuto come un incubo l'arrivo della guerra, e talvolta giunsi anche a pronunciare discorsi e scrivere pamphlet anti-bellici. Ma alla vigilia dell'annuncio del patto russo-tedesco, sognai che la guerra era scoppiata. Era uno di quei sogni che, qualunque sia il loro recondito significato freudiano, talvolta rivelano la vera condizione dei propri sentimenti. Mi fece capire due cose: primo, che allo scoppio della tanto paventata guerra avrei dovuto semplicemente provare sollievo; secondo, che in fondo ero un patriottico, che non avrei tramato né agito contro la mia sponda, che avrei appoggiato il conflitto e che vi avrei possibilmente combattuto. L'indomani, appena scese le scale, trovai il giornale con l'annuncio del viaggio di Ribbentrop a Mosca. (Il 21 agosto 1939 Ribbentrop fu invitato a Mosca, e il 23 agosto firmò con Molotov il patto russo-tedesco). La guerra era dunque imminente, e il governo, persino quello di Chamberlain, poteva contare sulla mia fedeltà. Inutile aggiungere che quest'ultima era e resta semplicemente un atto formale. Come a quasi tutti i miei conoscenti, il governo ha seccamente rifiutato di assegnarmi una qualsivoglia mansione, anche come copista o soldato semplice. Ma ciò non cambia i propri sentimenti. D'altronde, saranno costretti a servirsi di noi, prima o poi.
Credo che non avrei alcun problema a difendere le mie ragioni a sostegno della guerra, se necessario. Non c'è altra concreta alternativa: resistere a Hitler o arrendersi, e da socialista devo dire che è meglio resistere; in ogni caso, non vedo un solo argomento a favore della resa che non vanifichi il senso della resistenza repubblicana in Spagna, di quella cinese al Giappone, eccetera eccetera. Ma non voglio certo dire che sia questo il fondamento emotivo delle mie azioni. Nel sogno di quella notte capii che il patriottismo così a lungo inculcato nel ceto medio aveva fatto il suo corso, e che laddove l'Inghilterra si fosse trovata in gravi ambasce, per nessuna ragione avrei potuto compiere un sabotaggio. Ma che nessuno travisi il significato di queste parole.
Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il conservatorismo. È la devozione a qualcosa che cambia continuamente, ma misticamente appare sempre uguale a se stesso, un po' come l'attaccamento degli ex «bolscevichi bianchi» alla Russia. Prestare fedeltà sia all'Inghilterra di Chamberlain che all'Inghilterra del domani potrebbe sembrare impossibile, se non si fosse consapevoli che è un fenomeno di quotidiana ordinarietà. Soltanto una rivoluzione può salvare l'Inghilterra, ciò è evidente ormai da anni, ma la rivoluzione ora è cominciata, e potrebbe procedere abbastanza speditamente, se solo sapremo tenerci alla larga da Hitler. Nel giro di un paio d'anni, o forse uno soltanto, sol che teniamo duro, assisteremo a cambiamenti che sorprenderanno gli sciocchi privi di lungimiranza. Sui rigagnoli di Londra, non mi perito di affermarlo, dovrà scorrere sangue. D'accordo, così sia, se è necessario. Ma quando le milizie rosse saranno acquartierate al Ritz, sentirò ancora che l'Inghilterra che mi insegnarono ad amare tanto tempo fa, e per ragioni così disparate, in qualche modo sopravvive.
Sono cresciuto in un'atmosfera permeata di militarismo, e ho poi trascorso cinque tediosi anni tra gli squilli di tromba. A tutt'oggi avverto un vago odor di sacrilegio, quando non si sta sull'attenti durante il «Dio salvi il Re». Tutto ciò è infantile, naturalmente, ma preferisco di gran lunga aver ricevuto questo tipo di educazione che non essere come quegli intellettuali di sinistra così «illuminati» da non saper comprendere le emozioni più comuni. Sono proprio gli individui che non hanno mai avuto un balzo al cuore alla vista della bandiera del Regno Unito coloro i quali, quando arriva il momento della rivoluzione, si tirano indietro. Invito a confrontare la poesia scritta da John Cornford non molto tempo prima di essere ucciso (Before the Storming of Huesca, «Prima della presa di Huesca»), con quella di Sir Henry Newbolt (There's a breathless hush in the close tonight, «C'è una quiete carica di tensione sul campo questa notte»). Se si lasciano da parte le differenze tecniche, riconducibili a una semplice distanza temporale, ecco che il contenuto emotivo delle due poesie appare pressoché identico. Il giovane comunista morto eroicamente nella Brigata Internazionale si era fatto le ossa nelle scuole d'élite. Aveva cambiato bandiera, ma non le proprie emozioni. Che cosa ne discende? Semplicemente la possibilità di tirar fuori un socialista da un ottuso reazionario, il potere di auto- trasformazione insito in qualsiasi vincolo di fedeltà, l'esigenza spirituale di patriottismo e virtù militari, dei quali, per quanta scarsa simpatia i conigli lessi della Sinistra nutrano nei loro riguardi, non si è ancora trovato un sostituto.

Corriere della Sera 8.8.08
Il luddismo dei Ferrero
di Giovanni Belardelli


Ha suscitato qualche divertito commento quanto Angela Scarparo ha dichiarato qualche giorno fa al Corriere, come per giustificare la frequentazione dei salotti sua e del suo compagno, il segretario di Rifondazione comunista Ferrero. In effetti appare alquanto curiosa la scena della coppia che, secondo il racconto della stessa Scarparo, tornando a casa dopo una serata passata in qualche salotto si dedicherebbe a «pensare alla redistribuzione della ricchezza». Ma non meno bizzarra sembra anche un'altra sua affermazione, e cioè che non vi sarebbe nulla di male a «bere un bicchiere di vino con i ricchi» visto che lo faceva «anche Ned Ludd» (da cui prese il nome due secoli fa il movimento luddista, che distruggeva le macchine perché toglievano lavoro agli operai).
Dove la cosa curiosa non sta, è ovvio, nel sostenere la legittimità di bere quel che si vuole con chi si vuole, bensì nel farlo appellandosi all'autorità non di un personaggio reale ma di una figura mitica, quale fu appunto Ned Ludd.

il Riformista 8.8.08
Di Pietro-Ferrero, il partito dalle mani pulite nasce in Abruzzo
di Alessandro De Angelis


Lui, Tonino Di Pietro, in Abruzzo, vuole guidare le danze nel centrosinistra. A sentirlo, l'ipotesi di una sua candidatura a governatore non c'è. Ma intanto, all'ombra dell'Appennino, prende corpo il "partito delle mani pulite". Praticamente: il suo. Che ieri ha incassato pure il sostegno di Rifondazione. Durante la trasmissione Omnibus , il neosegretario Ferrero ha dettato al Pd le condizioni per un'alleanza: pesanti, anzi pesantissime. La prima: «Non deve essere presentato in nessuna lista della coalizione alcun indagato». La seconda: «Riteniamo opportuno - ha detto Ferrero - che il candidato a presidente non sia un esponente del Pd, partito che con ogni evidenza ha pesanti responsabilità nella vicenda abruzzese».
Sarà un caso (e non lo è), ma tra lui (Di Pietro) e l'altro (Ferrero), continuano le prove d'intesa. Prima si sono ritrovati insieme a piazza Navona: una piazza che ha fatto imbufalire più Veltroni che Belusconi. Poi al congresso di Rifondazione, Ferrero ha annunciato che sosterrà i referendum sul lodo Alfano dell'ex pm. E qualche giorno fa i due hanno pure pranzato insieme alla Camera. Non è dato sapere se hanno parlato di Abruzzo. Ma ieri su una candidatura di Di Pietro in Abruzzo Ferrero non ha posto veti: «Non capisco quale problema potremmo avere, ne discuteremo in merito al programma» ha affermato il segretario del Prc. E, come se non bastasse, a settembre Rifondazione farà, proprio in Abruzzo, una grande manifestazione sulla questione morale. E Di Pietro? Dice al Riformista : «Le condizioni poste da Ferrero sono di buon senso. In Abruzzo serve una grande discontinuità e un grande rinnovamento».
Difficile, praticamente impossibile, su queste basi cucire una coalizione, almeno a sentire quelli del Pd: «A che gioco stanno giocando?» si è lasciato andare un veltroniano di rango. Che aggiunge: «Se vogliamo vincere bisogna fare la coalizione. Se invece questi giocano a perdere e a fare voti è un altro discorso». Nel Pd, sul partito delle mani pulite, è scattato l'allarme rosso. Per ora la strategia assomiglia tanto a una riduzione del danno. Se di Pietro va da solo c'è il rischio - dice più di un dirigente - che prenda più voti del Pd. Ma una coalizione da lui guidata potrebbe essere una trappola mortale: «Se gli diamo le chiavi della coalizione, Di Pietro mette becco pure nelle nostre liste». A ciò si aggiunga un clima che - se non fosse per la pausa estiva - ricorda il '92: mezza giunta in carcere, la stampa che non parla d'altro, i cittadini che vanno più in piazza da Di Pietro che alle feste democratiche. E, per capire l'aria, bastava ascoltare le parole con cui due giorni fa Storace ha arringato i suoi: «Lanciamo l'alleanza della gente contro i partiti della tangente».
In questo clima il dossier è approdato sulla scrivania di Veltroni, che a settembre farà un giro in Abruzzo. Il segretario del Pd ha messo in agenda, nei prossimi giorni, una serie di incontri per cercare di ricostruire una coalizione. Vedrà Di Pietro, ma soprattutto Casini, che rappresenta la vera carta per riaprire i giochi in Abruzzo. Anche Marini, partendo per le vacanze, ha assicurato i big abruzzesi che al rientro si occuperà a tempo pieno del caso. Per uscire dall'angolo, il segretario del Pd ha messo a punto una exit strategy: le primarie. Che saranno lanciate in grande stile a fine mese. Con l'obiettivo di «rilegittimare la classe politica nel rapporto coi cittadini». Ma nel ragionamento veltroniano, le primarie sarebbero anche un modo per stanare Di Pietro, tenendolo legato alla coalizione: se le vince lui, è il candidato, ma se perde - a quel punto - non può tirarsi indietro. C'è di più: i veltroniani sono disposti ad allargare le primarie anche alle liste. 
Il partito delle mani pulite, però, le primarie le vuole evitare: Di Pietro spiega al Riformista : «In una realtà che esce fuori da un controllo del territorio le primarie servono solo ai portatori di tessere per mettere i loro uomini. Il punto è far fare un passo indietro a chi rappresenta la vecchia politica». Neanche a dirlo, sulla stessa linea si attesta Rifondazione: «Prima il rinnovamento, poi si vedrà», dice Acerbo, plenipotenziario di Ferrero in Abruzzo. Il sentiero veltroniano è stretto, anzi strettissimo: come dare segnali di novità senza essere sopraffatti dalla gogna giustizialista? Il senatore Giovanni Legnini, un big della politica abruzzese, rispedisce al mittente i diktat: «I veti sono inaccettabili perché sotto processo non c'è un partito ma molte persone tra cui alcune del Pd. In questa fase dovremmo lavorare tutti con grande generosità a ricostruire un'alleanza». I democrats vogliono trattare. Almeno vogliono provarci. E sono pronti a un sacrificio: cedere sul candidato governatore, purché si torni a parlare di politica. Il problema è che sotto il tavolo il partito delle mani pulite ha già messo le mine.

Repubblica 8.8.08
"Nelle carceri di nuovo 55 mila detenuti al collasso come prima dell´indulto"


ROMA - Le carceri italiane sono di nuovo sovraffollate: i detenuti sono il 30% in più della capienza dei penitenziari. I numeri arrivano dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria che lancia un appello al ministro della Giustizia Angelino Alfano e al capo dell´amministrazione penitenziaria Franco Ionta. «A fine luglio - dice Donato Capece, segretario generale Sappe - i detenuti erano quasi 55 mila, mentre la capienza delle carceri è di 42.950 posti. Servono interventi strutturali a cominciare da una più ampia applicazione della misura alternativa dell´espulsione per i detenuti extracomunitari con pena sotto i due anni». L´associazione Antigone, nella sua quinta edizione del rapporto sulla condizione della detenzioni in Italia rileva che i picchi di sovraffollamento si toccano in Emilia Romagna e in Lombardia. Nel nostro paese i detenuti in attesa di giudizio sono oltre il 55%, il doppio della media europea. Nel 2007, segnalano sempre da Antigone, ci sono stati 45 suicidi e 610 tentati suicidi tra i carcerati.

Repubblica 8.8.08
Ma Jian: "La mia Pechino ormai sembra una città finta"
di Federico Rampini


Intervista/ I suoi libri sono proibiti in Cina ma lo scrittore, che vive da anni all´estero, è tornato a Pechino per le Olimpiadi È un ospite strettamente sorvegliato: ha appena scritto un romanzo su Tienanmen
"Il mio romanzo si legge come una tragedia, non indica una via di salvezza"
"Per i Giochi le misure di sicurezza sono eccessive, il regime ha paura"

PECHINO. La buona notizia è che Ma Jian è arrivato a casa mia, insieme con la sua compagna e traduttrice Flora Drew. Finché non li ho visti varcare la soglia ho avuto dei dubbi. Avendo letto la sua raccolta di racconti filo-tibetani Tira fuori la lingua (che esce il 21 agosto da Feltrinelli, pagg. 80, euro 9), e il recentissimo Beijing Coma, il primo grande romanzo centrato sul massacro di Piazza Tienanmen, non pensavo che lo avrebbero fatto entrare durante le Olimpiadi. Ma Jian, nato nel 1953, lasciò Pechino per Hong Kong (allora colonia britannica) nel 1986. Nel ‘97 partì per la Germania e infine Londra, dove vive da otto anni. Nessuno dei suoi libri può circolare nella Repubblica Popolare. Lui sì, e ci torna anche due o tre volte all´anno. Ha scelto il mese dei Giochi per comprarsi qui un appartamento che sta arredando. Non che il suo ingresso sia sfuggito alle autorità. «All´aeroporto - racconta - mi hanno ispezionato i bagagli e hanno sequestrato 64 libri e articoli, tutti miei, compresa la versione italiana di Tira fuori la lingua. Poi la polizia è venuta a casa. Mi hanno invitato a prendere un caffè all´hotel Sheraton. Visto che pagavano loro ne ho approfittato per ordinare i pasticcini più cari. Ho spiegato che sono qui in vacanza, non darò conferenze, nessun evento pubblico. Certo sono un vigilato speciale. Riesco a entrare perché ho ancora il passaporto di Hong Kong su cui non occorre visto. Comunque il fatto che io sia qui è un segnale positivo, un´apertura, non lo nego».
Tira fuori la lingua uscì per la prima volta nel 1987 e fu subito proibito, costringendola all´esilio. In quei racconti il buddismo aveva un´importanza centrale. Lei è ancora religioso?
«Il mio viaggio in Tibet che ispirò quel libro ebbe inizio come un pellegrinaggio religioso. Il Tibet simbolizzava per me la libertà spirituale. Quando ci arrivai lo trovai trasformato in una prigione da cui neppure Budda poteva liberarsi. Già in quel libro metto in discussione la fede. Tirare fuori la lingua, il gesto antico che è il saluto più tradizionale fra i tibetani, è anche quello che faccio alla visita medica perché il dottore possa capire i miei mali. Sentivo un male dentro di me che andava diagnosticato».
Le sue storie tibetane sono dure, disperate. La stessa religione vi svolge un ruolo tragico. Lei ha un amore profondo per il Tibet, ma è agli antipodi dalla visione romantica di quel paese in voga in Occidente.
«Quel libro si legge come una tragedia, la tragedia della perdita della fede. La scrittura consente di guardare più lucidamente dentro se stessi, non di trovare una nuova via alla salvezza. Lo scrittore è come quel pesce che nuota nell´intestino del cadavere divenuto trasparente, l´immagine dell´ultimo racconto».
E´ mai tornato in Tibet da allora?
«No, per due ragioni. Anzitutto perché, dopo essere stato perseguitato dalla censura, metterei in pericolo chiunque parli con me: il conflitto tra i cinesi-han e i tibetani è troppo duro. E poi ho paura di essere deluso dagli scempi della modernizzazione».
Cos´ha pensato a marzo quando è scoppiata la rivolta di Lhasa?
«Che era prevedibile. Ribellioni ce n´erano state tante anche prima. Quella di marzo ha suscitato più attenzione all´estero grazie alle Olimpiadi. Il Tibet è una grande prigione dove l´ordine è mantenuto con le armi. Il risentimento della popolazione viene compresso ma può esplodere in qualsiasi momento.
«Alla frustrazione dei tibetani per l´oppressione della loro identità culturale e religiosa, si aggiunge sempre di più un´altra causa di rancore, l´emarginazione sociale ed economica. Si vedono circondati da una ricchezza nuova ma a goderne sono solo i cinesi han e una piccola minoranza di tibetani privilegiati».
Beijing Coma, il suo ultimo romanzo centrato in larga parte su Piazza Tienanmen, è stato accolto con entusiasmo dalla critica americana. Ma sul sito del New York Times accanto alle recensioni positive sono apparse delle email molto critiche di giovani lettori cinesi. L´accusano di appartenere a un´altra generazione, che non può capire la Cina di oggi. Come valuta il consenso giovanile verso questo modello di capitalismo autoritario?
«Bisogna capire come emerge questa nuova generazione. Non sentono nessuna curiosità verso la storia. Hanno un vuoto di memoria storica eppure credono di poter capire il presente. E´ difficile avere una discussione razionale. Sono stati nutriti dall´informazione dei mass media di regime, sempre "positiva". Ed ecco che improvvisamente, grazie ai Giochi, gli viene liberalizzato l´accesso al sito della Bbc in mandarino. La loro prima reazione non è affatto quella che si aspetta l´Occidente: sono indignati, accusano i mass media stranieri di diffamare la Cina. Non capiscono il ruolo della stampa libera che è di stimolare il cambiamento. Il nazionalismo dei giovani crea una tremenda barriera alla comprensione. L´orgoglio per lo status mondiale della Cina si proietta sulla loro autostima, la fiducia che hanno in se stessi. Criticare il paese è come demolirgli l´immagine che hanno di sé. Sono sicuro che alla cerimonia d´inaugurazione dei Giochi ci saranno allusioni alla grandezza della Cina imperiale. C´è un parallelo implicito fra certe figure di "buon tiranno" del passato e l´autoritarismo attuale. Finché la maggioranza sta bene, le sofferenze di tante minoranze sembrano un prezzo accettabile».
Lei non è ottimista sull´impatto che le Olimpiadi avranno sulla società cinese.
«Nell´immediato rafforzeranno ulteriormente la base di consenso del regime. Cioè l´esatto contrario di quel che accadde in Corea del Sud dove i Giochi accelerarono la transizione democratica. Al tempo stesso ho speranza nei cambiamenti di lungo termine indotti da questo evento. Le Olimpiadi costringono i cinesi a tener conto che c´è un altro sguardo su di loro. La vicenda del sito Bbc accessibile è significativa. In passato l´Occidente si sarebbe aspettato che una maggiore libertà d´informazione provocasse la morte rapida del partito comunista. Oggi al contrario la reazione iniziale è il disgusto verso l´Occidente, accusato di avere dei pregiudizi anti-cinesi, di essere invidioso del successo di Pechino. Ma nel lungo termine questa apertura all´informazione può costringere la gente ad avere uno sguardo più razionale sul proprio paese. Ci vorranno anni, non mi faccio illusioni».
Nel frattempo che impressione le fa rientrare a Pechino nel clima olimpico?
«Mi sembra una città finta, trasformata in un salone d´esposizione. Niente deve essere fuori posto, è stata ripulita dei mendicanti e di chiunque desse fastidio. Il governo ha trasformato questi Giochi in una grande operazione politica. Un quartiere storico vicino a Piazza Tienanmen è stato raso al suolo e poi ricostruito come una replica di se stesso, una cosa disgustosa. Le misure di sicurezza sono eccessive, non puoi neppure salire su un autobus con una bottiglia di vino per paura che sia esplosivo. Si percepisce che questo regime all´apparenza così forte ha poca fiducia nella propria solidità. Li spaventa l´idea che possa infilarsi un granello di sabbia nei loro ingranaggi».
Eppure chi arriva per la prima volta e visita il quartiere dei pittori, la 789, o i locali di musica rock, ha l´impressione di una grande creatività artistica.
«In superficie c´è questo movimento di avanguardia artistica che fa finta di essere dissidente, si atteggia a controcultura. Ma stanno tutti molto attenti, sanno quali sono i limiti, evitano i temi di attualità politica e sociale più scottanti. Certi sedicenti artisti dissidenti vanno all´estero a portare le loro opere sponsorizzati dalle ambasciate cinesi. Quest´arte cosiddetta sovversiva è un ottimo business. Dietro ci sono troppi compromessi. I veri dissidenti sono in carcere. Qualcosa di più interessante accade nelle università, alcuni docenti riescono a trattare problemi gravi e hanno accesso anche ai mass media. E´ una critica dall´interno del sistema».
Lei è severo con il suo paese ma continua a tornarci.
«Devo tornare perché qui trovo la mia ispirazione, il mio materiale narrativo. La mia letteratura sarà sempre cinese e sempre sui cinesi».
Il sogno di Tienanmen è finito, o lei spera che il cambiamento politico torni all´ordine del giorno?
«Questo regime, all´interno della sua logica, ha realizzato il massimo che poteva. Da qui in poi sarà indispensabile accettare delle forme di democrazia. L´anno prossimo con il ventesimo anniversario di Piazza Tienanmen sarà difficile non fare i conti con quell´evento. Non potranno sottrarsi alla necessità di rivedere il loro giudizio storico».

Repubblica 8.8.08
Quanto pesa un’emozione
È sempre più plausibile e studi recenti lo dimostrano che la reazione emotiva giochi un ruolo determinante nel corso dello sviluppo umano e soprattutto della comunicazione sociale e affettiva
di Massimo Ammaniti


In un libro di qualche anno fa il neurobiologo di origine portoghese Antonio Damasio puntava il dito contro Cartesio che, attraverso la ben nota separazione fra «res cogitans» e «res extensa», ratificava la distanza ma anche la superiorità della mente sul corpo. Nel riferirsi alla mente Cartesio metteva in primo piano il «cogito», la funzione mentale superiore, ben diversa dalle passioni, che sarebbero sostenute invece dai meccanismi fisiologici del corpo e che pertanto dovrebbero essere governate dalla ragione. Ma anche prima di Cartesio Platone aveva parlato nel Fedro del mito della biga alata, tirata da due cavalli, uno bianco corrispondente all´anima irascibile, ossia all´emotività, ed uno nero all´anima concupiscibile, ossia all´istinto, entrambi guidate da un auriga che costituisce potremmo dire la sintesi e la superiorità dell´anima razionale.
Molti secoli dopo la psicoanalisi con Freud ha riproposto questo stesso conflitto fra istinto e ragione, in cui la naturalità umana delle pulsioni dovrebbe essere addomesticata dall´Io, che agirebbe come l´auriga di Platone.
Che posto hanno le emozioni nella vita di ogni giorno: sono passioni che accecano la ragione, come sembrava credere anche il grande umanista Erasmo da Rotterdam, oppure emozioni, secondo il linguaggio scientifico più recente utilizzato ad esempio dallo psicologo Paul Ekman o dal cognitivista Daniel Goleman, che hanno una propria finalità ed utilità? E´ indubbio che per rispondere a questa domanda occorre capire se le emozioni abbiano una propria razionalità oppure siano risposte irrazionali che non aiutano nella vita sociale. Sono molti gli studiosi che riconoscono la razionalità evoluzionistica delle emozioni, che, come Darwin sottolineava in un suo scritto del 1872, si sarebbero evolute nel corso dei secoli per facilitare l´adattamento all´ambiente e lo scambio sociale.
Come ha mostrato lo psicologo Paul Ekman, che ha svolto un lavoro pionieristico in questo campo, se si mostrano delle diapositive con varie espressioni emotive a persone appartenenti a culture e a gruppi etnici diversi vi è una forte concordanza nel riconoscimento, nonostante si usino parole diverse per descriverle. Questa osservazione è in favore del carattere universale delle emozioni, quantunque ci possano essere influenze culturali che possono rafforzare un´emozione rispetto ad un´altra.
Per fare un esempio, nel mondo occidentale, anche sulla base della profonda influenza esercitata dal cristianesimo, il sentimento di colpa è continuamente presente nell´esperienza personale e collettiva, per cui non ci si sente mai a posto e si cercano continue rassicurazioni per convincersi di non aver sbagliato.
Se la letteratura ottocentesca ha svelato sentimenti, turbamenti e conflitti dei suoi protagonisti, basti pensare all´amore disperato di Anna Karenina per il principe Vronskij, in questi ultimi decenni la ricerca scientifica si è confrontata in modo sempre più approfondito con lo sviluppo delle emozioni in campo infantile, con il funzionamento psicologico delle emozioni nella vita quotidiana e più recentemente con i meccanismi neurobiologici che ne sono alla base. Forse era inevitabile che ci fosse un impegno così serrato perché, come scrive Damasio, «le emozioni costituiscono il continuo spartito musicale, il rumore che non si ferma mai delle melodie universali».
Il ribaltamento di ottica è totale, l´intelligenza non è solo quella cognitiva ratificata dal Quoziente Intellettivo ma vi è anche un´intelligenza emozionale, come viene definita da Daniel Goleman. Ma forse il pendolo è andato troppo in là, addirittura qualcuno ha messo in relazione il Quoziente Emozionale, misura per valutare la capacità di riconoscimento e di regolazione delle emozioni proprie e degli altri, con il successo nel lavoro e nella vita, dato questo smentito dallo stesso Goleman. Forse si può dire che un buon funzionamento emotivo, soprattutto se corrisponde ad un buon grado di maturazione cognitiva, aiuta a sentirsi meglio con se stessi e con gli altri e a trovare forme di comunicazione più immediate.
Ma per ritornare ai nuovi sviluppi della ricerca nel campo delle emozioni, in questi ultimi anni sono comparsi così tanti libri, pubblicazioni ed articoli a livello internazionale che è difficile darne un quadro di insieme. Se sul piano dello sviluppo infantile va ricordato il libro Lo sviluppo delle emozioni di Alan Sroufe (Cortina Editore) molti libri riguardano soprattutto la neurobiologia delle emozioni come ad esempio Affective Neuroscience, non ancora tradotto in Italia, di Jaak Panksepp venuto recentemente per una serie di conferenze presso l´Università La Sapienza. Altri libri da segnalare sono Il cervello emotivo di Joseph LeDoux pubblicato da Baldini Castoldi Dalai e quello più recente di Antonio Damasio Alla ricerca di Spinoza pubblicato da Adelphi.
Ma quali sono le novità che emergono in questo campo? E´ sempre più plausibile che le emozioni giochino un ruolo determinante nel corso dello sviluppo umano, per cui fin dai primi mesi di vita si crea fra il bambino e i genitori un sistema comunicativo affettivo che consente ad entrambi di costruire un lessico affettivo comune.
Se il bambino sorride o ride compiaciuto la madre capisce che può continuare a comportarsi con lui come sta facendo, ma se la bocca del bambino si increspa e poi scoppia a piangere questo rappresenta un segnale forte diretto ai genitori perché intervengano a consolarlo e a tranquillizzarlo. In questo modo il bambino apprende un codice affettivo che lo aiuterà nel corso della vita, ad esempio quando si trova a scuola con i coetanei oppure quando dovrà affrontare le prime esperienze sentimentali e più in generale nei rapporti con gli altri. Ma se queste osservazioni sono facilmente verificabili, va riconosciuto che non sempre le emozioni ci aiutano perché certe risposte emotive, ad esempio la rabbia cieca o la gelosia che agisce come un tarlo nella mente, ostacolano il comportamento quotidiano.
E´ senz´altro utile distinguere le risposte emotive automatiche che possono spingerci all´azione, come la fuga quando siamo minacciati da un pericolo, rispetto alle emozioni di cui siamo consapevoli. Mentre le reazioni automatiche possono essere irrazionali e non favorire l´adattamento, nel secondo caso la consapevolezza delle proprie emozioni può farci desistere da una determinata azione oppure correggerla, garantendo un certo grado di razionalità nel prendere una decisione.
Questi due livelli nella risposta emotiva sono stati confermati dagli studi fatti nel cervello come riferisce Le Doux nel suo libro. Se da una parte esiste un percorso cerebrale breve incentrato sull´amigdala cerebrale, che spiega ad esempio le risposte automatiche alla paura, dall´altra vi è un percorso più complesso che comporta un riconoscimento delle emozioni che possono essere comunicate anche a parole ed incentrato, in questo caso, sull´ippocampo e diverse aree della corteccia cerebrale.
Come si vede il quadro esplicativo delle emozioni sta diventando via via più complesso e forse il filosofo olandese di origine ebraica Spinoza può rappresentare un importante riferimento filosofico, come scrive Damasio nel suo ultimo libro. Nei suoi scritti Spinoza non usa le parole emozione o sentimento, ma «affectus» ossia affetto con cui vengono indicate anche le modificazioni del corpo. In questo modo il termine affetto, utilizzato anche molto in campo psicoanalitico, ricompone la dualità fra l´emozione che sottolinea il teatro del corpo e soprattutto del cervello e il sentimento che, al contrario, sottolinea lo scenario della mente, raccontato da scrittori ed artisti che hanno avuto in questo campo intuizioni illuminanti.

Repubblica 8.8.08
Quando la fabbrica è una roulette russa
di Maria Pia Fusco


Il documentario di Pietro Balla e Monica Repetto sarà il 5 settembre alla Mostra di Venezia Nella giornata dedicata alle morti bianche anche "La fabbrica dei tedeschi" di Mimmo Calopresti
Anche prima del disastro di Torino del 6 dicembre, costato la vita a sette operai, tra i lavoratori era alta la consapevolezza dei rischi cui andavano incontro

«Secondo me le affermazioni del ministro Castelli sulle morti bianche sono una messinscena. Come se tutti quelli che fanno politica oggi dovessero per forza dire qualcosa, nel bene o nel male, come se ci fosse un copione da rispettare: abbiamo il potere e dunque parliamo. Il paradosso è che, almeno al Nord, molti operai un tempo legati alla sinistra hanno votato Lega», dice Pietro Bolla, autore con Monica Repetto di ThyssenKrupp Blues, il film che il 5 settembre sarà presentato a Venezia nella giornata dedicata alle morti bianche, insieme al film di Mimmo Calopresti La fabbrica dei tedeschi. Più indignata la reazione della Repetto: «Non sono un´esperta, non so se la cifra delle morti bianche sia a due, tre o quattro zeri, ma per me anche un solo numero è una vita perduta e morire in quel modo, morire per lavorare, è un oltraggio alla dignità dell´uomo».
ThyssenKrupp Blues racconta la storia di Carlo Marrapodi che, ricorda la Repetto, «avrebbe dovuto far parte di un film corale di RaiTre sugli operai negli anni 2000. Nel montaggio è rimasta fuori, insieme ad altre storie: pensavamo di farne un altro film così abbiamo continuato a seguire Carlo. Per il rapporto che abbiamo stabilito con lui, per la sua potenza sulla scena, l´energia, l´onestà e la forza vitale, lo abbiamo raggiunto dopo la tragedia della notte tra il 5 e il 6 dicembre a Torino. Pur raccontando la vicenda privata di Carlo, ThyssenKrupp Blues è diventato anche un film di denuncia».
Il film racconta l´inizio del declino della fabbrica, la manifestazione del giugno 2007, l´incontro con il sindaco Chiamparino, fino alla decisione della cassa integrazione per 150 operai, Carlo compreso, che non riuscendo a vivere a Torino con lo stipendio dimezzato, torna in Calabria, al suo paese. È impressionante la consapevolezza che c´era già allora, sulle condizioni ad alto rischio in cui gli operai erano costretti a lavorare. E le condizioni erano ancora peggiori quando, pur essendo la fabbrica in fase di smantellamento, la ThyssenKrupp decise di continuare la produzione. A ottobre 2007, Carlo è tra quanti rientrano a Corso Regina 400.
«La storia di Carlo è la storia di una solitudine che va oltre la tragedia della notte tra il 5 e il 6 dicembre a Torino. È la storia di una classe lasciata sola nel silenzio della sinistra, persino Chiamparino non dice più niente. I professionisti della politica non sono più capaci di parlare e, quando parlano, sembrano tutti fuori sincrono», dice Bolla che vive nella provincia di Torino dove fa il capostazione. «Non sono un cittadino, sono figlio di un panettiere, vengo dalla cultura contadina, la fabbrica l´ho osservata sempre dal di fuori come la osservavano i torinesi, andavo a scuola a due passi dal Lingotto, vedevo i treni e i pullman carichi di operai addormentati in viaggio verso il turno del mattino. Adesso non ci sono più».
All´inizio degli anni Ottanta, dopo la marcia dei 40 mila - «C´erano Lama e Carniti ma vinse la Fiat» - cominciò l´interesse di Bolla per le storie degli operai. Il primo film era "Ai confini della realtà" e raccontava «da una parte la dura ristrutturazione della Fiat in termini tecnologici e un processo di automazione che tendeva all´eliminazione degli operai, dall´altra quelli che la subivano, che, gettati fuori dal processo produttivo, si dovevano riciclare. Fu un momento molto duro, fu l´inizio della fine di un´appartenenza e della disgregazione dell´orgoglio della classe operaia. Quello che è accaduto alla ThyssenKrupp è una delle conseguenze».
Carlo Marrapodi ha una spalla coperta di tatuaggi, ha un piercing, porta un orecchino. «È un trentenne come tanti, non somiglia all´immagine tradizionale, anche ideale dell´operaio», dice la Repetto. «E come tutti i giovani aspirava a un rapporto equilibrato tra il tempo per il lavoro e quello per la vita. Oggi per lui c´è solo il tempo dell´incertezza, del dubbio sul futuro. Abbiamo volutamente raccontato la storia di un operaio che non è morto solo perché quel giorno di dicembre faceva un altro turno, eppure, attraverso la sua storia, credo che si possa capire esattamente il rischio che i lavoratori corrono in questa società».
Una società in cui, dice Bolla, «la legislazione contro le morti bianche c´è ed è precisa. La prevenzione viene vissuta dall´industria come un obbligo, bisogna appendere i cartelli di pericolo, bisogna controllare le scarpe e l´abbigliamento, ma è solo una serie di pratiche burocratiche, di scadenze di controlli, di avvisi e comunicati da firmare. Ma non c´è e non si è mai sviluppata una cultura della prevenzione, e cioè una vera attenzione quotidiana alle condizioni di lavoro. Nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi. Per questo si continua a rischiare la vita ogni giorno».

il Riformista 8.8.08
Testamento biologico accordo possibile
Eluana ci insegna e detta l'agenda per questo la vogliamo viva tra di noi
di Paola Binetti


Non idolatria della vita, ma garanzie per il paziente

A chi si chiedesse ancora che senso ha una vita come quella di Eluana, basterebbe sfogliare i giornali di questi giorni per comprendere fino a che punto è in grado di provocare le nostre intelligenze, di toccare i nostri cuori e di mobilitare le nostre volontà, proprio da quel letto in cui non sembra capire cosa accade intorno a lei. La sua vita ci obbliga ad uscire dalla indifferenza frettolosa con cui a volte ci poniamo i quesiti più importanti della nostra esistenza: non solo su cosa sia la vita e cosa sia la morte, ma anche su come dar senso alla nostra vita, anche quando sembrerebbe non averne. Senza Eluana tutto il nostro Paese sarebbe più povero, perché meno sollecitato a riflettere sul valore della vita, indipendentemente dalla sua apparente non-utilità. Per questo tutti le dobbiamo un grazie convinto. In tanti anni di professione medica ho sempre pensato, e cercato di insegnare agli studenti, che il letto del paziente è la cattedra più efficace ed eloquente da cui apprendere ciò che serve ai malati, ai medici e al progresso. Ed Eluana, pur nel suo silenzio, sta davvero insegnando molte cose, sempre che vogliamo ascoltarla e imparare da lei.
In questi ultimi anni, come tante persone, ho pensato molto ad Eluana, per cercare di capire un po' meglio anche attraverso di lei il mistero della vita, sottraendomi alla tentazione di mettermi dalla parte della morte, per chiedermi perché non arrivasse, dal momento che tutto lasciava supporre che fosse giunto il momento. Evidentemente non è così e la vita di Eluana conserva integro il suo valore, per lei e per noi, perché anche lei ha ancora molto da fare, molto da insegnare. 
Vorrei sintetizzare la lezione di Eluana, assumendo tre punti di vista apparentemente scollegati tra di loro o addirittura in contrasto: l'oggettiva fatica del parlamento a legiferare su certi temi, le contraddizioni dei politici nei vari schieramenti, l'apparente conservatorismo dei cattolici, che li fa apparire in ritardo, anche quando in realtà su certi temi sono in anticipo.
Il primo punto riguarda il dibattito sul cosiddetto testamento biologico e il brusco cambiamento di rotta a cui abbiamo assistito in questi giorni. L'accordo, che sembrava difficile e ancora lontano nella XV legislatura, è improvvisamente divenuto possibile, come se si fosse intravista una maniera concreta di superare le ben note tensioni etiche, scientifiche e politiche. L'ordine del giorno del Pd, evocato alla Camera e approvato con ampia maggioranza al Senato, ha sollecitato il parlamento ad approvare la legge entro l'anno. Sulla vita, il più laico di tutti i valori, è ora possibile trovare un accordo, anche se si parla di fine vita. E non c'è dubbio che l'input per questa accelerazione del processo è partito da Eluana e guarda ad Eluana come punto di ispirazione concreta per la formulazione della legge.
Il secondo punto riguarda la chiarezza con cui sono emerse convergenze e divergenze nei diversi schieramenti politici: come in una sorta di avvertimento esplicito perché nessuno si appropri della vicenda Englaro e la strumentalizzi per confermare le sue tesi. Ad Eluana guardano sia la maggioranza che l'opposizione, sia i laici che i credenti, o meglio ancora sia i credenti che i non credenti. La sua storia è diventata familiare a tutti noi, grazie alle testimonianze che ne hanno dato non solo la famiglia ma anche i suoi amici e i suoi insegnanti e che hanno riempito le pagine dei giornali in questi giorni. È una storia di amore alla vita, fatta di gesti e di parole che non possono lasciare indifferenti: basta guardare le immagini in circolazione, tutte tratte dal suo album, tutte illuminate dal suo sorriso. Eluana offre aiuto e chiede aiuto. È da tempo immemorabile che il malato guarda al medico come al migliore alleato su cui può contare nei momenti di maggiore difficoltà. Ed è a questo tipo di aiuto che deve ispirarsi la legge che nascerà in Parlamento, cercando di calarsi meglio nella dinamica del rapporto medico-paziente, visto come un patto, una alleanza in cui c'è piena fiducia reciproca.
Il terzo punto riguarda il dibattito che si è aperto nel mondo cattolico davanti a quello che a molti è sembrato un brusco viraggio di atteggiamento. Dopo tante titubanze dettate da una prudenza consapevole a tutela della vita e dei possibili rischi di una deriva eutanasica, la recente sentenza Englaro ora suggerisce, per lo stesso motivo di prudenza, non solo la necessità di una legge, ma anche l'urgenza stessa della legge. Il quesito che circola attualmente nel mondo cattolico, ma non solo in quello!, riguarda la qualità della legge, i temi che affronta, i criteri che detta. Di questo si parla, su questo ci si confronta. I timori non sono scomparsi. Tutti sanno quanto sia fallace la distinzione tra il far morire e il lasciar morire, dal momento che la sospensione di certe cure, ma ancor più la sospensione delle normali e fisiologiche funzioni del bere e del mangiare equivale a una morte annunciata. Non a caso quanti oggi reputano che per Eluana sarebbe meglio morire, ritengono sufficiente chiedere che venga tolto il sondino che per alcune ore al giorno, generalmente quelle notturne, le permette di nutrirsi. 
La legge, che molti di noi, proprio ragionando sulla vicenda di Eluana, hanno presentato alla Camera e al Senato, mette l'accento sulle cure di fine vita e non esclusivamente sulla autonomia del paziente, e quindi sul rapporto del malato con il medico, richiamando quest'ultimo alla responsabilità e alla suprema dignità del valore della vita. Non si tratta di fare idolatria della vita. Ma di garantire al paziente, in tutte le circostanze della sua vita, la piena tutela di un diritto sacrosanto per tutti, non solo per i cattolici, diritto su cui vale la pena ricordarlo si fondano tutti gli altri diritti, compreso quello di decidere non tanto quali cure accettare e quali rifiutare, ma quale programma di cura fare insieme. La centralità del paziente nei processi decisionali che lo riguardano non esclude affatto la responsabilità del medico, che dovrà informarlo adeguatamente, per aiutarlo a decidere nel miglior modo possibile. Per questo la sanità che si ispira ai valori cristiani ha sempre posto al centro della sua attenzione l'alleanza tra il medico e il paziente. 
Scienza & Vita, da sempre fedele al suo motto fondativo: La vita non può essere messa ai voti, non si vota sulla vita, ora, pur tra naturali divergenze al suo interno, sembra aver lanciato una nuova sfida al mondo politico. Lo fa guardando alla vicenda di Eluana e mette dei paletti chiari. Non vuole una legge sul testamento biologico, ma una legge di tutela della vita umana, soprattutto in condizioni di massima fragilità, per ribadire il principio della indisponibilità della vita umana. Una legge che vada oltre il principio di autodeterminazione, pur nel massimo rispetto della volontà del paziente, proprio per non lasciarlo solo nei momenti più critici della sua vita, per cui sì all'alleanza terapeutica medico-paziente, da cui discendono tre no e due sì molto chiari: no all'accanimento terapeutico e no all'abbandono terapeutico, per dire un no chiaro e distinto all'eutanasia. Sì, invece, alle cure palliative, alla terapia del dolore e all'alimentazione e all'idratazione, che certamente non sono configurabili come terapie. 
Non c'è dubbio che Eluana stia dettando l'agenda parlamentare e alla ripresa dei lavori sarà proprio la sua storia, con le sue caratteriste specifiche a determinare scelte di un tipo o dell'altro. Sarà sempre partendo da lei che prenderanno forma le diverse proposte di legge, che saranno discusse come se lei stessa fosse presente in commissione prima e in aula dopo. Per questo la vogliamo viva tra noi, perché non abbiamo ancora finito di imparare tutto ciò che la sua vita può continuare ad insegnarci. E credo che questo possa farle piacere, nessuno oserà mai considerare «inutile» una vita che ha tanto da dare e tanto da dire.

Repubblica Napoli 8.8.08
I classici greci nella città di Parmenide
di Nino Marchesano


Da domani la rassegna "Filosofi interrogano i filosofi" sull´acropoli dell´antica Elea-Velia ad Ascea
Viaggio verso la conoscenza del pensiero occidentale con dibattiti, incontri e spettacoli dai Dialoghi di Platone, opere tratte da Euripide Sofocle e Cicerone. Occasione per partecipare alle visite guidate da esperti agli scavi

A Velia sulle orme della filosofia greca, di Parmenide e di Zenone. Con rappresentazioni sceniche e dibattiti dove i "Filosofi interrogano i filosofi". L´undicesima edizione di "Velia Teatro" sposta l´asse sui grandi interrogativi del pensiero occidentale e invita gli spettatori a un viaggio verso la conoscenza con spettacoli che si terranno da domani al 27 agosto sull´acropoli dell´antica Elea-Velia, sulla collina che domina Ascea, nel Cilento.
Proprio a Elea, anticamente Hyele, la città fondata dai Focei, in fuga dalla loro terra assediata dai Persiani, nel V secolo a.C. nacque la scuola filosofica di Parmenide e del suo allievo Zenone. Ed ecco l´idea di Michele Murino, direttore artistico della rassegna, di dare una svolta alla tradizionale manifestazione teatrale mettendo in evidenza nel cartellone il tema, piuttosto che i grandi nomi dello spettacolo, e dividendo la manifestazione in due parti.
Nella prima, "Filosofi a Teatro", l´idea è dell´incontro tra il pensiero e la rappresentazione, con quattro spettacoli di ‘teatro filosofico´, tratti dai Dialoghi di Platone e ideati dagli attori Bob Marchese e Fiorenza Brogi. Si comincia domani alle 21 con "L´idea del filosofo e del filosofare", con un insieme di brani tratti dal "Protagora", "Menone", "Fedro", "Repubblica". Mentre domenica lo spettacolo "La violenza – La giustizia" farà riferimento al "Gorgia". Lunedì, invece, la rappresentazione "L´Eros" sarà legata al "Simposio" e martedì "Il teatro, l´arte, la politica" prenderà spunto dallo "Ione".
Ai quattro spettacoli, seguiranno altrettanti dibattiti sul proscenio coordinati dai docenti di filosofia Mariangela Ariotti e Giuseppe Cambiano. Ricordando che domani, durante la serata inaugurale sarà assegnato il "Premio Internazionale per il Teatro Elea-Velia" alla memoria dell´attore Carlo Rivolta, scomparso lo scorso 21 giugno, a cui è dedicata l´intera rassegna.
Nella seconda parte del cartellone, invece, dal 20 al 27 agosto, spazio al teatro greco e romano con opere tratte da Euripide, Sofocle e Cicerone e allestite dalle compagnie teatrali Lalineasottile (lo spettacolo "Ecuba"), la Bottega del Pane di Roma ("Contro Catilina - Attentato allo Stato"), il Teatro Popolare Salernitano ("Elettra").
L´occasione anche per visitare una parte dell´antica Elea-Velia, riportata alla luce grazie agli scavi iniziati nel primo Novecento, soffermandosi sulla medievale Torre Angioina, sul basamento del tempio ionico, il circuito murario o la Porta Rosa, l´unico esempio di arco di fattura greca esistente in Occidente.
Gli spettacoli inizieranno alle 21, l´ingresso costa 10 euro e include anche il trasporto con le navette dal parcheggio dell´area archeologica (a partire dalle 19.30). Inoltre, è previsto un servizio bus gratuito di andata e ritorno Salerno-Elea-Velia (info Ept 089 231 432). Per altre informazioni 0974 972 230 oppure www.veliateatro.it.