Il Sole 23.2.18
Il metodo di Heidegger per imparare a pensare
di Armando Torno
23 febbraio 2018
Adelphi ha ristampato in una “nuova edizione ampliata” il saggio che Martin Heidegger intitolò “Nietzsche” (pp. 1040, euro 28). La prima traduzione italiana risale al 1994, l'edizione originale è del 1961.
A dire il vero, questo libro non è una monografia del più grande filosofo del Novecento sul pensatore-chiave del mondo contemporaneo. L'opera, composta da testi scritti tra il 1936 e il 1946, utilizza come titolo il nome di Nietzsche ma indica - usiamo le parole dello stesso Heidegger – “la cosa in questione nel suo pensiero”. Dove “cosa” va intesa come la metafisica dell'Occidente, la gabbia speculativa che è stata adoperata per secoli e che in Nietzsche si manifesta in una sua ultima espressione. O, meglio, in una forma esasperata.
Queste pagine non contengono quindi l'analisi di un particolare sistema utilizzando uno schema tradizionale ma, pur esaminando parti del lascito di Nietzsche (e anche di altri, quali Platone, Protagora, Descartes, Schelling o Kierkegaard), intraprendono una sorta di lotta per svincolarsi dalla ricordata metafisica. Heidegger, insomma, combatte una battaglia ricorrendo al filosofo che per primo l'aveva tentata.
In una nota Roberto Calasso pone in evidenza il fatto che Heidegger, che non ha nulla da condividere con i manipoli dei critici di Nietzsche, sia l'unico che gli “risponda”. Del resto, come scriveva nella postfazione Franco Volpi, nel secolo scorso Nietzsche ha suscitato al tempo stesso “entusiasmi e attirato anatemi”; ha inoltre ispirato “atteggiamenti, mode culturali e stili di pensiero, ma al tempo stesso provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti”.
Heidegger, è il caso di aggiungere, non è stato da meno. Se si consultano le tante storie della filosofia che circolano, in ciascuna di esse si può trovare una definizione che lo riguardi; ma tutte, ci si accorge ben presto, gli stanno strette.
Anche la recente polemica, che si fondava su un presunto antisemitismo di Heidegger, non ha tenuto conto del fatto che tra i suoi allievi vi sono stati alcuni tra i migliori intellettuali ebrei del secolo scorso, come prova il caso di Karl Löwith; o, guardando oltre, basterà ricordare Leo Strauss, anch'egli esule dalla Germania per le leggi razziali, che applicò il metodo heideggeriano di decostruzione storica in alcuni suoi importanti scritti. Entrambi, insieme a molti altri, tra cui il cattolico Romano Guardini, furono affascinati da Heidegger.
E anche chi leggerà, meditandolo, il suo “Nietzsche” difficilmente potrà restare indifferente. Vi troverà non la descrizione di un pensiero (anche se non manca) ma un metodo per imparare a pensare. Cosa che non si nota in molti filosofi dei nostri talk show.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 24 febbraio 2018
il manifesto 24.2.18
Roma, sul cinema America voltiamo pagina
di Valerio Carocci
Roma Capitale ha consapevolmente scelto di inserire Piazza San Cosimato nel bando dell’Estate Romana, una decisione esclusivamente politica, da noi non condivisa, ma nelle libertà e possibilità dell’amministrazione.
Bergamo sarebbe stato corretto se avesse presentato la scelta in quanto tale, senza cercare rifugio dietro inesistenti necessità normative oppure cadere in errore nella diffamazione, ma così non è stato, non ha avuto la forza, quindi ora voltiamo pagina per il bene della città. Chiediamo di non essere più rincorsi: questo tentativo, a posteriori, di convincerci a partecipare al bando non è dignitoso e sta esponendo, a nostro giudizio, l’amministrazione pubblica ad una distorsione del principio di concorrenza e trasparenza in materia di bandi pubblici.
A che titolo il comune, ente pubblico, chiede reiteratamente al Piccolo America, ente privato di partecipare ad un concorso pubblico, sottolineando spesso anche le sue capacità e possibilità di vittoria. Da cosa nasce il concorso pubblico? Dalla volontà dell’amministrazione comunale di garantire a tutti la possibilità di proporre progetti per Piazza San Cosimato, ed in teoria le altre piazze della città, al fine di garantire che a realizzarsi sia il progetto migliore. In sintesi: tutti devono poter richiedere la piazza, non c’è alcun diritto di prelazione, di nessuno.
Allora a che titolo veniamo tirati per la giacchetta affinché ci sia una nostra partecipazione? Roma Capitale la smetta di perdere tempo e lavori con gli altri operatori per garantire attività culturali a San Cosimato.
Per assurdo, alla luce di quanto appena affermato, se il Piccolo Cinema America cambiasse idea, non ci sarebbero neanche più le condizioni per una partecipazione al bando per Piazza San Cosimato né di qualunque altra area, in quanto sia in caso di vittoria che di sconfitta temiamo che non si potrebbe più avere certezza che la valutazione «tecnica» avverrebbe esclusivamente per merito. Questo anche nel rispetto di tutti gli altri operatori che vorranno partecipare.
Pertanto, sulla base della nostra decisione politica di non partecipare (rafforzata dal rasentato processo diffamatorio di cui riteniamo di essere stati vittime, per via delle parole del Vice Sindaco), ma anche per quanto appena esposto: confermiamo che non vogliamo, né oramai possiamo partecipare.
Chiediamo al Campidoglio di rispettare la nostra scelta, iniziare a lavorare per trovare un altro soggetto idoneo ed inoltre di metterci nelle condizioni di lavorare per portare il Cinema Gratis nella periferia di Roma.
In riferimento alle location Municipali (Tor Spaienza IV Muncipio e Valle Aurelia XIV Municipio), a differenza di quanto dichiarato, non è arrivata alcuna concessione. Ci dicano se vogliono o meno che portiamo il Cinema Gratis nella periferia di Roma, basta saperlo.
Valerio Carocci è presidente ass. Piccolo Cinema America
Roma, sul cinema America voltiamo pagina
di Valerio Carocci
Roma Capitale ha consapevolmente scelto di inserire Piazza San Cosimato nel bando dell’Estate Romana, una decisione esclusivamente politica, da noi non condivisa, ma nelle libertà e possibilità dell’amministrazione.
Bergamo sarebbe stato corretto se avesse presentato la scelta in quanto tale, senza cercare rifugio dietro inesistenti necessità normative oppure cadere in errore nella diffamazione, ma così non è stato, non ha avuto la forza, quindi ora voltiamo pagina per il bene della città. Chiediamo di non essere più rincorsi: questo tentativo, a posteriori, di convincerci a partecipare al bando non è dignitoso e sta esponendo, a nostro giudizio, l’amministrazione pubblica ad una distorsione del principio di concorrenza e trasparenza in materia di bandi pubblici.
A che titolo il comune, ente pubblico, chiede reiteratamente al Piccolo America, ente privato di partecipare ad un concorso pubblico, sottolineando spesso anche le sue capacità e possibilità di vittoria. Da cosa nasce il concorso pubblico? Dalla volontà dell’amministrazione comunale di garantire a tutti la possibilità di proporre progetti per Piazza San Cosimato, ed in teoria le altre piazze della città, al fine di garantire che a realizzarsi sia il progetto migliore. In sintesi: tutti devono poter richiedere la piazza, non c’è alcun diritto di prelazione, di nessuno.
Allora a che titolo veniamo tirati per la giacchetta affinché ci sia una nostra partecipazione? Roma Capitale la smetta di perdere tempo e lavori con gli altri operatori per garantire attività culturali a San Cosimato.
Per assurdo, alla luce di quanto appena affermato, se il Piccolo Cinema America cambiasse idea, non ci sarebbero neanche più le condizioni per una partecipazione al bando per Piazza San Cosimato né di qualunque altra area, in quanto sia in caso di vittoria che di sconfitta temiamo che non si potrebbe più avere certezza che la valutazione «tecnica» avverrebbe esclusivamente per merito. Questo anche nel rispetto di tutti gli altri operatori che vorranno partecipare.
Pertanto, sulla base della nostra decisione politica di non partecipare (rafforzata dal rasentato processo diffamatorio di cui riteniamo di essere stati vittime, per via delle parole del Vice Sindaco), ma anche per quanto appena esposto: confermiamo che non vogliamo, né oramai possiamo partecipare.
Chiediamo al Campidoglio di rispettare la nostra scelta, iniziare a lavorare per trovare un altro soggetto idoneo ed inoltre di metterci nelle condizioni di lavorare per portare il Cinema Gratis nella periferia di Roma.
In riferimento alle location Municipali (Tor Spaienza IV Muncipio e Valle Aurelia XIV Municipio), a differenza di quanto dichiarato, non è arrivata alcuna concessione. Ci dicano se vogliono o meno che portiamo il Cinema Gratis nella periferia di Roma, basta saperlo.
Valerio Carocci è presidente ass. Piccolo Cinema America
il manifesto 24.2.18
Quella memoria condivisa che non si interroga su se stessa
Berlinale 68. Il regista ucraino Sergei Loznitsa presenta al Forum il suo nuovo documentario «Victory Day». Girato a Berlino nel memoriale russo costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti
di Cristina Piccino
BERLINO Il tramonto è rosso fuoco ma l’aria è freddissima, la Berlinale si chiude oggi e stasera scopriremo l’Orso d’oro, sembra che nel cuore dei giurati – che bello incontrare in qualche proiezione il sempre elegantissimo Sakamoto – sia molto piaciuto anche Las Herederas melò appena tratteggiato con molto realismo da Marcelo Martinessi, racconto di un desiderio e insieme dei rapporti di potere che si stabiliscono in ogni relazione. Al centro c’è una coppia di donne borghesi, in Paraguay, costrette a un radicale cambiamento della loro esistenza con l’arresto di una di loro e la perdita della bellissima casa. Così mentre Chiqui è in prigione, Chela svuota la loro abitazione e comincia a scoprire per sé stessa altre possibilità: un lavoro e un nuovo amore … Sembra però che anche Alba Rohrwacher (Figlia mia di Laura Bispuri) sia molto piaciuta ai giurati nel ruolo dell’imprevedibile (e un po’ selvatica) Angelica… Si vedrà.
Sergei Loznitsa lo definisce «un film su un monumento all’ambiguità» Victory Day – presentato al Forum ma poteva essere nel concorso se (come Cannes) fosse meno irrigidito – girato a Berlino, a Treptower Park, nel memoriale sovietico costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti. Un titolo che conferma la sezione tra le migliori del festival, l’unica in cui sperimentazione e diverse proposte di ricerca sul cinema riescono ancora a trovare uno spazio in una selezione che comprende autori contemporanei, omaggi al pink giapponese nella figura della meravigliosa attrice Keiko Sato, la presenza di James Benning con un suo lavoro «storico» 11×14 e l’eclissi di L.Cohen, restauri e giovanissimi.
l giorno della Vittoria è il 9 maggio, che fino al 1965 era festa nazionale in tutta l’Europa dell’est e che di recente Putin ha reinvestito di orgoglio nazionale. A Berlino arrivano nel monumento di Treptower Park cittadini da ogni repubblica dell’ex-Urss, anziani, più giovani, uomini, donne, famiglie, bambini vestiti da piccoli soldati; coccarde e bandiere rosse e russe, garofani rossi, fiori e corone; eroi di guerra, veterani e medaglie; cori patritottici e danze. «Abbiamo combattuto tutti insieme» dice qualcuno. Un altro, kazako saluta il suo Paese. Qualcuno parla di fascismo e di neo-fascismo, accusa la Germania di non avere mai affrontato con sincerità il passato nazista. Due quasi litigano, la Germania era solo quella socialista, gli altri sono ancora oggi una finta democrazia…. I cosacchi suonano, si ride, si mangia, un ragazzino non vuole infilare la casacca dell’Armata Rossa, smart-phone, qualche videocamera, nessuno sembra preoccuparsi della presenza del regista.
Se il dispositivo è lo stesso utilizzato in Austerlitz, Victory Day ne rappresenta una sorta di controcampo: lì i visitatori del campo di concentramento erano una massa distratta, distante, che si poneva nei confronti del luogo come verso ogni museo o monumento dei tour turistici, con la stessa indifferenza e gli stessi rituali..Qui invece tutte le persone che si ritrovano a Treptower Park sono coinvolte in ciò che quel giorno e quel luogo rappresenta, l’avvenimento storico e la sua retorica. Lo stesso vale per il regista. Nelle note al film Loznitsa scrive: «Ci sono questioni cruciali riguardo al ruolo dell’Unione sovietica nella seconda guerra mondiale. Per esempio il patto Ribbentrop-Molotov, la divisione della Polonia, la guerra contro la Finlandia …
Per questo visti poi i crimini commessi da un regime quale lo stalinismo, ogni monumento eretto nell’era sovietica che ne celebra le mitologie, racchiude per me una forte ambiguità. È molto difficile riuscire a confrontarsi con questo». La sua posizione è dunque differente, c’è una vicinanza seppure critica, e un coinvolgimento che muta il rapporto coi corpi delle persone e il modo di filmare la loro presenza nello spazio. Quello che vedevamo in Austerlitz era il compimento di una rimozione nella quale la memoria dell’Olocausto finiva per coincidere col consumo turistico indistinto; qui il regista illumina invece una memoria condivisa e sempre viva ma allo stesso modo parziale, che non si interroga cioè su se stessa. L’adesione al sentimento patriottico che mischia falce e martello e icone religiose, è come se cancellasse la possibilità di una consapevolezza storica, che sia nella gravità (di facciata) nel campo di concentramento o nell’adesione festiva è sempre qualcosa che si arresta alla superficie, i simboli e i rilievi con la storia degli eroi e del popoli lasciano ovunque indietro le contraddizioni passate e presenti.
Le questionio che Loznitsa solleva riguardano la rappresentazione di un Paese, della Storia, in che modo rispondono a una idea comune e dove invece si possono scorgere le crepe e quanto ormai si è perduto. In entrambi i film, Austerlitz e Victory Day al centro c’è proprio il gesto della celebrazione: cosa significa e in che modo svuota di consapevolezza chi vi partecipa, quasi dispiegando una strategia dell’accettazione, messaggio rassicurante, rito portato a compimento. Senza domande, senza esitazioni.
Quella memoria condivisa che non si interroga su se stessa
Berlinale 68. Il regista ucraino Sergei Loznitsa presenta al Forum il suo nuovo documentario «Victory Day». Girato a Berlino nel memoriale russo costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti
di Cristina Piccino
BERLINO Il tramonto è rosso fuoco ma l’aria è freddissima, la Berlinale si chiude oggi e stasera scopriremo l’Orso d’oro, sembra che nel cuore dei giurati – che bello incontrare in qualche proiezione il sempre elegantissimo Sakamoto – sia molto piaciuto anche Las Herederas melò appena tratteggiato con molto realismo da Marcelo Martinessi, racconto di un desiderio e insieme dei rapporti di potere che si stabiliscono in ogni relazione. Al centro c’è una coppia di donne borghesi, in Paraguay, costrette a un radicale cambiamento della loro esistenza con l’arresto di una di loro e la perdita della bellissima casa. Così mentre Chiqui è in prigione, Chela svuota la loro abitazione e comincia a scoprire per sé stessa altre possibilità: un lavoro e un nuovo amore … Sembra però che anche Alba Rohrwacher (Figlia mia di Laura Bispuri) sia molto piaciuta ai giurati nel ruolo dell’imprevedibile (e un po’ selvatica) Angelica… Si vedrà.
Sergei Loznitsa lo definisce «un film su un monumento all’ambiguità» Victory Day – presentato al Forum ma poteva essere nel concorso se (come Cannes) fosse meno irrigidito – girato a Berlino, a Treptower Park, nel memoriale sovietico costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti. Un titolo che conferma la sezione tra le migliori del festival, l’unica in cui sperimentazione e diverse proposte di ricerca sul cinema riescono ancora a trovare uno spazio in una selezione che comprende autori contemporanei, omaggi al pink giapponese nella figura della meravigliosa attrice Keiko Sato, la presenza di James Benning con un suo lavoro «storico» 11×14 e l’eclissi di L.Cohen, restauri e giovanissimi.
l giorno della Vittoria è il 9 maggio, che fino al 1965 era festa nazionale in tutta l’Europa dell’est e che di recente Putin ha reinvestito di orgoglio nazionale. A Berlino arrivano nel monumento di Treptower Park cittadini da ogni repubblica dell’ex-Urss, anziani, più giovani, uomini, donne, famiglie, bambini vestiti da piccoli soldati; coccarde e bandiere rosse e russe, garofani rossi, fiori e corone; eroi di guerra, veterani e medaglie; cori patritottici e danze. «Abbiamo combattuto tutti insieme» dice qualcuno. Un altro, kazako saluta il suo Paese. Qualcuno parla di fascismo e di neo-fascismo, accusa la Germania di non avere mai affrontato con sincerità il passato nazista. Due quasi litigano, la Germania era solo quella socialista, gli altri sono ancora oggi una finta democrazia…. I cosacchi suonano, si ride, si mangia, un ragazzino non vuole infilare la casacca dell’Armata Rossa, smart-phone, qualche videocamera, nessuno sembra preoccuparsi della presenza del regista.
Se il dispositivo è lo stesso utilizzato in Austerlitz, Victory Day ne rappresenta una sorta di controcampo: lì i visitatori del campo di concentramento erano una massa distratta, distante, che si poneva nei confronti del luogo come verso ogni museo o monumento dei tour turistici, con la stessa indifferenza e gli stessi rituali..Qui invece tutte le persone che si ritrovano a Treptower Park sono coinvolte in ciò che quel giorno e quel luogo rappresenta, l’avvenimento storico e la sua retorica. Lo stesso vale per il regista. Nelle note al film Loznitsa scrive: «Ci sono questioni cruciali riguardo al ruolo dell’Unione sovietica nella seconda guerra mondiale. Per esempio il patto Ribbentrop-Molotov, la divisione della Polonia, la guerra contro la Finlandia …
Per questo visti poi i crimini commessi da un regime quale lo stalinismo, ogni monumento eretto nell’era sovietica che ne celebra le mitologie, racchiude per me una forte ambiguità. È molto difficile riuscire a confrontarsi con questo». La sua posizione è dunque differente, c’è una vicinanza seppure critica, e un coinvolgimento che muta il rapporto coi corpi delle persone e il modo di filmare la loro presenza nello spazio. Quello che vedevamo in Austerlitz era il compimento di una rimozione nella quale la memoria dell’Olocausto finiva per coincidere col consumo turistico indistinto; qui il regista illumina invece una memoria condivisa e sempre viva ma allo stesso modo parziale, che non si interroga cioè su se stessa. L’adesione al sentimento patriottico che mischia falce e martello e icone religiose, è come se cancellasse la possibilità di una consapevolezza storica, che sia nella gravità (di facciata) nel campo di concentramento o nell’adesione festiva è sempre qualcosa che si arresta alla superficie, i simboli e i rilievi con la storia degli eroi e del popoli lasciano ovunque indietro le contraddizioni passate e presenti.
Le questionio che Loznitsa solleva riguardano la rappresentazione di un Paese, della Storia, in che modo rispondono a una idea comune e dove invece si possono scorgere le crepe e quanto ormai si è perduto. In entrambi i film, Austerlitz e Victory Day al centro c’è proprio il gesto della celebrazione: cosa significa e in che modo svuota di consapevolezza chi vi partecipa, quasi dispiegando una strategia dell’accettazione, messaggio rassicurante, rito portato a compimento. Senza domande, senza esitazioni.
il manifesto 24.2.18
Trump accelera, ambasciata Usa a Gerusalemme il 14 maggio
Israele/Territori palestinesi occupati. Anticipata dai media israeliani e dal ministro Yisrael Katz la notizia è stata confernata da una fonte del Dipartimento di Stato. La rabbia dei palestinesi: è una provocazione.
di Michele Giorgio
Yisrael Katz non ce l’ha fatta a contenere la sua felicità e ha anticipato tutti ieri, incluso il premier Netanyahu. «Mi voglio congratulare con Donald Trump, il presidente Usa, della sua decisione di trasferire l’ambasciata nella nostra capitale nel 70 anniversario della Giornata dell’indipendenza (la fondazione di Israele, ndr). Non c’è un regalo più grande di questo. La decisione più giusta e corretta. Grazie, amici!», ha scritto il ministro dei trasporti sul suo profilo Twitter, commentando il nuovo schiaffo dell’Amministrazione Usa al diritto internazionale e alle rivendicazioni palestinesi sulla città santa. La risposta palestinese è arrivata poco dopo, per bocca di Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente dell’Anp Abu Mazen. «Qualsiasi iniziativa incoerente con la legittimità internazionale – ha spiegato – impedisce ogni tentativo di raggiungere accordi nella regione e crea un clima negativo e dannoso». Più netta è stata la condanna di Hamas. Il trasferimento dell’ambasciata, ha scritto in un comunicato il movimento islamico «è una dichiarazione di guerra nei confronti della nazione araba e musulmana». Si attendono ora le risposte della popolazione palestinese che ha già reagito con grandi manifestazioni di protesta a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e a Gaza al riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele e all’annuncio del trasferimento dell’ambasciata fatti da Donald Trump lo scorso 6 dicembre.
La data ufficiale del trasferimento della sede diplomatica ieri sera non era stata ancora comunicata dalla Casa Bianca. Un funzionario del Dipartimento di Stato ha soltanto confermato il passaggio a maggio della sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, senza fornire dettagli. Secondo i media locali, in una prima fase sarà aperta una ambasciata provvisoria nella struttura consolare di Gerusalemme Ovest, da dove l’ambasciatore David Friedman lavorerà con uno staff ridotto. In seguito questa sede sarà ampliata e, infine, sarà aperta un’ambasciata permanente con ogni probabilità nella zona sud-est di Gerusalemme, quindi nella parte araba della città occupata da Israele nel 1967. Qualcuno parla di mossa “simbolica” il prossimo 14 maggio, per celebrare i 70 anni dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Simbolica non lo è per niente. Tutto ciò che riguarda Gerusalemme e il suo status ha una eccezionale importanza politica e genera passioni e reazioni in almeno metà del pianeta.
Trump ha voluto accelerare i tempi. Solo il scorso mese, il vicepresidente Usa Mike Pence aveva parlato di uno spostamento dell’ambasciata entro la fine del 2019. Poi è intervenuto qualcosa. Anzi qualcuno, il miliardario israelo-americano Sheldon Adelson, da anni alfiere del primo ministro Netanyahu. I media israeliani scrivono che Sheldon, tra maggiori finanziatori dei Republicani, si è offerto di coprire una buona parte dei costi (decine di milioni di dollari) della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme a patto che il progetto vada avanti ad alta velocità. E il Dipartimento di Stato starebbe ora valutando se sia legale accettare donazioni private. In quel caso oltre a Sheldon, l’Amministrazione Trump potrebbe sollecitare contributi dalle comunità evangeliche sioniste ed ebraiche degli Usa.
Dietro questa accelerazione c’è con ogni probabilità anche la prossima, così pare, presentazione del cosiddetto “Accordo del secolo” tra israeliani e palestinesi, ossia il “piano di pace” della Casa Bianca. L’ambasciatrice americana all’Onu Nikky Haley ha detto durante un incontro all’Istituto Politico dell’Università di Chicago che gli Usa «stanno arrivando con un piano, non sarà amato da entrambe le parti e non sarà odiato da entrambe le parti». Parole che significano tutto e nulla. Di certo si sa solo che gli Usa non appoggiano più la soluzione dei Due Stati ed escludono quella dello Stato Unico, e che i palestinesi respingono con forza la mediazione americana dopo la dichiarazione di Trump su Gerusalemme.
Trump accelera, ambasciata Usa a Gerusalemme il 14 maggio
Israele/Territori palestinesi occupati. Anticipata dai media israeliani e dal ministro Yisrael Katz la notizia è stata confernata da una fonte del Dipartimento di Stato. La rabbia dei palestinesi: è una provocazione.
di Michele Giorgio
Yisrael Katz non ce l’ha fatta a contenere la sua felicità e ha anticipato tutti ieri, incluso il premier Netanyahu. «Mi voglio congratulare con Donald Trump, il presidente Usa, della sua decisione di trasferire l’ambasciata nella nostra capitale nel 70 anniversario della Giornata dell’indipendenza (la fondazione di Israele, ndr). Non c’è un regalo più grande di questo. La decisione più giusta e corretta. Grazie, amici!», ha scritto il ministro dei trasporti sul suo profilo Twitter, commentando il nuovo schiaffo dell’Amministrazione Usa al diritto internazionale e alle rivendicazioni palestinesi sulla città santa. La risposta palestinese è arrivata poco dopo, per bocca di Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente dell’Anp Abu Mazen. «Qualsiasi iniziativa incoerente con la legittimità internazionale – ha spiegato – impedisce ogni tentativo di raggiungere accordi nella regione e crea un clima negativo e dannoso». Più netta è stata la condanna di Hamas. Il trasferimento dell’ambasciata, ha scritto in un comunicato il movimento islamico «è una dichiarazione di guerra nei confronti della nazione araba e musulmana». Si attendono ora le risposte della popolazione palestinese che ha già reagito con grandi manifestazioni di protesta a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e a Gaza al riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele e all’annuncio del trasferimento dell’ambasciata fatti da Donald Trump lo scorso 6 dicembre.
La data ufficiale del trasferimento della sede diplomatica ieri sera non era stata ancora comunicata dalla Casa Bianca. Un funzionario del Dipartimento di Stato ha soltanto confermato il passaggio a maggio della sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, senza fornire dettagli. Secondo i media locali, in una prima fase sarà aperta una ambasciata provvisoria nella struttura consolare di Gerusalemme Ovest, da dove l’ambasciatore David Friedman lavorerà con uno staff ridotto. In seguito questa sede sarà ampliata e, infine, sarà aperta un’ambasciata permanente con ogni probabilità nella zona sud-est di Gerusalemme, quindi nella parte araba della città occupata da Israele nel 1967. Qualcuno parla di mossa “simbolica” il prossimo 14 maggio, per celebrare i 70 anni dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Simbolica non lo è per niente. Tutto ciò che riguarda Gerusalemme e il suo status ha una eccezionale importanza politica e genera passioni e reazioni in almeno metà del pianeta.
Trump ha voluto accelerare i tempi. Solo il scorso mese, il vicepresidente Usa Mike Pence aveva parlato di uno spostamento dell’ambasciata entro la fine del 2019. Poi è intervenuto qualcosa. Anzi qualcuno, il miliardario israelo-americano Sheldon Adelson, da anni alfiere del primo ministro Netanyahu. I media israeliani scrivono che Sheldon, tra maggiori finanziatori dei Republicani, si è offerto di coprire una buona parte dei costi (decine di milioni di dollari) della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme a patto che il progetto vada avanti ad alta velocità. E il Dipartimento di Stato starebbe ora valutando se sia legale accettare donazioni private. In quel caso oltre a Sheldon, l’Amministrazione Trump potrebbe sollecitare contributi dalle comunità evangeliche sioniste ed ebraiche degli Usa.
Dietro questa accelerazione c’è con ogni probabilità anche la prossima, così pare, presentazione del cosiddetto “Accordo del secolo” tra israeliani e palestinesi, ossia il “piano di pace” della Casa Bianca. L’ambasciatrice americana all’Onu Nikky Haley ha detto durante un incontro all’Istituto Politico dell’Università di Chicago che gli Usa «stanno arrivando con un piano, non sarà amato da entrambe le parti e non sarà odiato da entrambe le parti». Parole che significano tutto e nulla. Di certo si sa solo che gli Usa non appoggiano più la soluzione dei Due Stati ed escludono quella dello Stato Unico, e che i palestinesi respingono con forza la mediazione americana dopo la dichiarazione di Trump su Gerusalemme.
Il Fatto 23.2.18
“Così è cominciata l’Italia, da un errore”
La Rai presenta “La mossa del cavallo”: un film tratto da un romanzo dello scrittore. E spiega i nodi irrisolti del Paese
di Pietrangelo Buttafuoco
C’era una volta Vigata. Ed ecco La Mossa del Cavallo. La Rai presenta lo smagliante ultimo suo prodotto – nientemeno che un film in costume tratto da un romanzo storico, un vero lusso – e il racconto di Andrea Camilleri torna indietro nel tempo, nella Montelusa del 1877, con la storia di Giovanni Bovara, ispettore capo dei mulini – siciliano di nascita, ma cresciuto in Continente – deciso a far rispettare l’obbligo, fosse pure l’odiosa tassa sul macinato.
C’era una volta quello che c’è sempre, ovvero qualcosa di grande e pericoloso, un sistema di avidità e crimine. Ed è una scacchiera perfino intraducibile con la lingua della Legge. E c’era dunque a Vigata – e ancora adesso c’è – l’errore che ha generato l’Unità d’Italia.
La voce di Camilleri domina come ex cathedra e denuda l’errore: “Il colonnello dei Carabinieri che di nome fa Carlo Alberto Dalla Chiesa – il nonno del generale omonimo ucciso a Palermo dalla Mafia – giunto in Sicilia incita gli uomini al suo seguito a fare fuoco”.
Quella voce, dà voce a una ferita mai sanata. È il colonnello che parla: “Non abbiate timore a sparare ai contadini, in quei campi troverete più fucili che pane”.
C’era una volta Vigata e c’era l’esercito fucilatore. E adesso c’è la “P di politica che è diventata minuscola”. No però, non di politica vuole parlare Camilleri, ma di storia se alla folla che lo applaude a viale Mazzini – nell’atrio della sede Rai – per la conferenza stampa di presentazione del film La Mossa del Cavallo (regia di Gianluca Maria Tavarelli) racconta il fatto per come fu: “Su cinquecentomila aventi diritto al voto, solo settanta, in Sicilia, dissero no a Roma ma l’Italia, pur beneficiata da tanto consenso, ricambiò quell’entusiasmo con l’esercito fucilatore”.
Ci vuole il romanzo per far conoscere la storia: “I siciliani ebbero a vivere il servizio di leva come un lutto provvisorio; i parenti dei soldati, infatti, vestivano il lutto stretto fino al completamento degli obblighi militari”.
L’Italia si doveva pur fare e Camilleri, potente nella sua presenza, affabula in realismo e dice: “Ragazzi del Piemonte, della Liguria, della Sicilia, della Puglia e del Veneto, messi l’uno accanto all’altro, cominciavano a parlare una stessa lingua”. Dopo di che, zolfo di viva intelligenza, cauterizza con l’ironia: “Così è cominciata l’Italia, da un errore”.
Ecco la Mossa, ed ecco un Camilleri in una nuova prova tivù confezionata con tutti i crismi delle arti. Ci sono, infatti, con la letteratura del suo Autore, la maestria del grande teatro in ogni singolo attore, la ricostruzione impeccabile di scenografia e costumi, la cifra del miglior cinema, il contenuto storico e la regia originale di Tavarelli in così grande spolvero da far sembrare la tivù troppo poca cosa. A benedire il tutto, la bedda Sicilia, ancora una volta gli scorci incantevoli di Scicli, Ibla, Modica e Ispica (e il mare di Donnalucata, va da sé).
Nel ruolo di protagonista c’è Michele Riondino. Attore eccellente, già interprete del Commissario Montalbano da “giovane” – dove è perfino superiore a Luca Zingaretti – in questo film dalla scrittura limpida, Riondino si concede un virtuosismo di sdoppiamento: parla con l’inflessione ligure per poi decidersi, nello scacco, a ragionare in vigatese, una sorta di scavo nella lingua madre con cui apparecchiare il colpo di scena.
Bedda, degna dell’archetipo della Lupa, è Ester Pantano nel ruolo della femmina che porta alla dannazione pure il padre parroco. La scena più erotica si consuma quando lei ordina a un garzone di preparare il letto all’ispettore dei mulini cui ha affittato la casa. Fulmina con un’occhiata il ragazzo e gli intima: “…mi raccomando le lenzuola, tese!”.
Inesorabile, ma nella disinvoltura di una saggezza bieca, è la ferina natura di quella Vigata. Una brocca sta appoggiata alla bocca di un pozzo. Un tiratore accecato di rabbia spara, tira, tira e spara senza mai beccare il bersaglio. Un vecchio caracollante gli strappa il revolver dalla mano, lo impugna, spara e mette a segno sulla brocca: “Non si spara con il cuore, si spara con la testa!”.
Prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e da RaiFiction, scritto da Camilleri con Leonardo Marini, Valentina Alferj e Francesco Bruni, il film prelude – lo ha detto Tinny Andreatta, direttrice di RaiFiction – “a una collezione che pensiamo possa nascere su questa radice”.
Disegnato come a godere dei Tre Moschettieri, a volte come un western, a tratti come commedia e Opera dei Pupi (magnifico il delegato di polizia, tanto è fetente come un Gano di Magonza, e così Filippo Luna, l’avvocato Fasulo), il film prenderà, con il largo pubblico televisivo, anche i palati più esigenti perché quell’alchimia dell’intrattenimento popolare di cui teorizzò Umberto Eco, qui si conferma con un Camilleri definitivamente letterario. Questa volta, infatti, non c’è il genere poliziesco. Adesso torna in campo il grande romanzo. E la sequenza perfetta, coerente in nitore di parola e ragionamento, è solo una. Ed è tutto quello che deriva da Vigata: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri.
“Così è cominciata l’Italia, da un errore”
La Rai presenta “La mossa del cavallo”: un film tratto da un romanzo dello scrittore. E spiega i nodi irrisolti del Paese
di Pietrangelo Buttafuoco
C’era una volta Vigata. Ed ecco La Mossa del Cavallo. La Rai presenta lo smagliante ultimo suo prodotto – nientemeno che un film in costume tratto da un romanzo storico, un vero lusso – e il racconto di Andrea Camilleri torna indietro nel tempo, nella Montelusa del 1877, con la storia di Giovanni Bovara, ispettore capo dei mulini – siciliano di nascita, ma cresciuto in Continente – deciso a far rispettare l’obbligo, fosse pure l’odiosa tassa sul macinato.
C’era una volta quello che c’è sempre, ovvero qualcosa di grande e pericoloso, un sistema di avidità e crimine. Ed è una scacchiera perfino intraducibile con la lingua della Legge. E c’era dunque a Vigata – e ancora adesso c’è – l’errore che ha generato l’Unità d’Italia.
La voce di Camilleri domina come ex cathedra e denuda l’errore: “Il colonnello dei Carabinieri che di nome fa Carlo Alberto Dalla Chiesa – il nonno del generale omonimo ucciso a Palermo dalla Mafia – giunto in Sicilia incita gli uomini al suo seguito a fare fuoco”.
Quella voce, dà voce a una ferita mai sanata. È il colonnello che parla: “Non abbiate timore a sparare ai contadini, in quei campi troverete più fucili che pane”.
C’era una volta Vigata e c’era l’esercito fucilatore. E adesso c’è la “P di politica che è diventata minuscola”. No però, non di politica vuole parlare Camilleri, ma di storia se alla folla che lo applaude a viale Mazzini – nell’atrio della sede Rai – per la conferenza stampa di presentazione del film La Mossa del Cavallo (regia di Gianluca Maria Tavarelli) racconta il fatto per come fu: “Su cinquecentomila aventi diritto al voto, solo settanta, in Sicilia, dissero no a Roma ma l’Italia, pur beneficiata da tanto consenso, ricambiò quell’entusiasmo con l’esercito fucilatore”.
Ci vuole il romanzo per far conoscere la storia: “I siciliani ebbero a vivere il servizio di leva come un lutto provvisorio; i parenti dei soldati, infatti, vestivano il lutto stretto fino al completamento degli obblighi militari”.
L’Italia si doveva pur fare e Camilleri, potente nella sua presenza, affabula in realismo e dice: “Ragazzi del Piemonte, della Liguria, della Sicilia, della Puglia e del Veneto, messi l’uno accanto all’altro, cominciavano a parlare una stessa lingua”. Dopo di che, zolfo di viva intelligenza, cauterizza con l’ironia: “Così è cominciata l’Italia, da un errore”.
Ecco la Mossa, ed ecco un Camilleri in una nuova prova tivù confezionata con tutti i crismi delle arti. Ci sono, infatti, con la letteratura del suo Autore, la maestria del grande teatro in ogni singolo attore, la ricostruzione impeccabile di scenografia e costumi, la cifra del miglior cinema, il contenuto storico e la regia originale di Tavarelli in così grande spolvero da far sembrare la tivù troppo poca cosa. A benedire il tutto, la bedda Sicilia, ancora una volta gli scorci incantevoli di Scicli, Ibla, Modica e Ispica (e il mare di Donnalucata, va da sé).
Nel ruolo di protagonista c’è Michele Riondino. Attore eccellente, già interprete del Commissario Montalbano da “giovane” – dove è perfino superiore a Luca Zingaretti – in questo film dalla scrittura limpida, Riondino si concede un virtuosismo di sdoppiamento: parla con l’inflessione ligure per poi decidersi, nello scacco, a ragionare in vigatese, una sorta di scavo nella lingua madre con cui apparecchiare il colpo di scena.
Bedda, degna dell’archetipo della Lupa, è Ester Pantano nel ruolo della femmina che porta alla dannazione pure il padre parroco. La scena più erotica si consuma quando lei ordina a un garzone di preparare il letto all’ispettore dei mulini cui ha affittato la casa. Fulmina con un’occhiata il ragazzo e gli intima: “…mi raccomando le lenzuola, tese!”.
Inesorabile, ma nella disinvoltura di una saggezza bieca, è la ferina natura di quella Vigata. Una brocca sta appoggiata alla bocca di un pozzo. Un tiratore accecato di rabbia spara, tira, tira e spara senza mai beccare il bersaglio. Un vecchio caracollante gli strappa il revolver dalla mano, lo impugna, spara e mette a segno sulla brocca: “Non si spara con il cuore, si spara con la testa!”.
Prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e da RaiFiction, scritto da Camilleri con Leonardo Marini, Valentina Alferj e Francesco Bruni, il film prelude – lo ha detto Tinny Andreatta, direttrice di RaiFiction – “a una collezione che pensiamo possa nascere su questa radice”.
Disegnato come a godere dei Tre Moschettieri, a volte come un western, a tratti come commedia e Opera dei Pupi (magnifico il delegato di polizia, tanto è fetente come un Gano di Magonza, e così Filippo Luna, l’avvocato Fasulo), il film prenderà, con il largo pubblico televisivo, anche i palati più esigenti perché quell’alchimia dell’intrattenimento popolare di cui teorizzò Umberto Eco, qui si conferma con un Camilleri definitivamente letterario. Questa volta, infatti, non c’è il genere poliziesco. Adesso torna in campo il grande romanzo. E la sequenza perfetta, coerente in nitore di parola e ragionamento, è solo una. Ed è tutto quello che deriva da Vigata: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri.
Il Fatto 24.2.18
Il testo “Orlando” e la nuova circolare
Il governo, sulla base di una delega affidatagli dal Parlamento, ha riscritto a fine 2017 la normativa sulle intercettazioni in senso più restrittivo quanto alla tutela della privacy. In sostanza il testo voluto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, prevede il divieto di trascrizione “anche sommaria” delle “comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti”. Nel verbale delle operazioni va indicato solo data, ora e dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Curiosamente la decisione su cosa sia rilevante o meno viene presa dalla polizia giudiziaria e non dal pm, che può però fare brevi annotazioni all’autorità giudiziaria: una circolare del ministero, però, ha recentemente (e di nuovo curiosamente) limitato la possibilità per le forze dell’ordine di informare il pm. Negli atti, peraltro, si potranno citare, “ove necessario” solo i “brani essenziali” delle intercettazioni. L’archivio delle registrazioni e dei brogliacci sarà custodito dal pubblico ministero.
Il testo “Orlando” e la nuova circolare
Il governo, sulla base di una delega affidatagli dal Parlamento, ha riscritto a fine 2017 la normativa sulle intercettazioni in senso più restrittivo quanto alla tutela della privacy. In sostanza il testo voluto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, prevede il divieto di trascrizione “anche sommaria” delle “comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti”. Nel verbale delle operazioni va indicato solo data, ora e dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Curiosamente la decisione su cosa sia rilevante o meno viene presa dalla polizia giudiziaria e non dal pm, che può però fare brevi annotazioni all’autorità giudiziaria: una circolare del ministero, però, ha recentemente (e di nuovo curiosamente) limitato la possibilità per le forze dell’ordine di informare il pm. Negli atti, peraltro, si potranno citare, “ove necessario” solo i “brani essenziali” delle intercettazioni. L’archivio delle registrazioni e dei brogliacci sarà custodito dal pubblico ministero.
Il Fatto 24.2.18
“Ma di che si parla? L’agente provocatore in Italia c’è già”
“Queste operazioni le facciamo per droga, armi, riciclaggio, ecc”
di Antonella Mascali
La lotta alla corruzione, sempre dilagante in Italia, è tornata a dividere non solo politici ma anche magistrati tra chi, da anni, chiede gli agenti provocatori, come l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e chi è contrario, come il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte o il presidente dell’Anac Raffaele Cantone.
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, presidente di sezione della Cassazione, non capisce proprio queste obiezioni: “La legge italiana prevede già operazioni sotto copertura ( con agenti provocatori, ndr) ma non per la corruzione. Queste operazioni sono quelle in cui un ufficiale di polizia giudiziaria, dissimulando tale sua qualità, prende notizia di attività illecite, cioè può infiltrarsi in organizzazioni criminali o in altri casi, già previsti dalla legge italiana, può determinare un reato, per esempio facendo un acquisto simulato di stupefacenti”.
Ma chi è contro l’agente provocatore in indagini contro la corruzione dice che nelle situazioni appena descritte il reato c’era già, non sarebbe indotto…
Non sempre è così. Per le grandi quantità di droga, ad esempio, chi deve venderla prima trova l’acquirente e poi si mette d’accordo con il cartello che si trova all’estero per farla arrivare in Italia. Inoltre, anche queste operazioni sotto copertura prevedono che l’ufficiale di polizia giudiziaria commetta un reato (deve dotarsi di falsi documenti e acquistare stupefacenti) al fine di poter arrestare trafficanti e, dunque, non è punibile. Nessuno, però, si è mai scandalizzato.
Ci sarebbe anche una convenzione dell’Onu contro la corruzione firmata dall’Italia, ma ignorata.
È la convenzione di Merida, ratificata dall’Italia senza alcuna obiezione, ma mai attuata in 15 anni. All’articolo 50 prevede l’introduzione di operazioni sotto copertura e fa anche esplicito riferimento alle consegne controllate.
Mazzette?
È evidente che si tratta dell’oggetto del patto illecito e prevedono che costituiscano prova al processo.
Perché la Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo ha condannato alcuni Paesi che hanno usato gli agenti provocatori?
La Cedu ha detto che non possono essere l’unica causale del reato. Non si tratta, però, di fare operazioni sotto copertura per punire la propensione a commettere un reato (come dice Cantone, ndr) ma scatterebbero solo nei confronti di persone che commettono un’attività illecita seriale. I trafficanti sono tali non se spacciano una volta soltanto, allo stesso modo un funzionario pubblico che si vende, ragionevolmente lo fa tutte le volte che ha occasione. La ratio è la stessa. Non capisco questa durissima opposizione all’estensione alla corruzione, sia pur prevista da una convenzione Onu, mentre va bene per lotta alla droga, armi, riciclaggio e pedopornografia.
Come si spiega questa levata di scudi? È per l’inchiesta giornalistica di Fanpage che ha coinvolto il figlio del governatore campano Vincenzo De Luca?
Di Napoli non parlo, c’è un processo in corso. Le ragioni di queste obiezioni le chieda a quelli che le fanno. Io non le comprendo, altra cosa è, invece, la cautela. Ci vuole un controllo dell’autorità giudiziaria ed eventualmente queste operazioni vanno concentrate nelle procure capoluogo di distretto dove sono possibili le specializzazioni. Altra cosa importante: va disciplinata la scelta dell’obiettivo per non prendere persone a caso ma solo nel momento in cui emerge una sproporzione tra il reddito, il tenore di vita e/o la situazione patrimoniale. Ci vogliono indizi che la persona oggetto di attenzione ragionevolmente commetta questo tipo di reati.
Perché è così importante l’utilizzo di agenti provocatori nella lotta alla corruzione?
La corruzione non viene scoperta praticamente mai, è nota solo a corrotti, corruttori e intermediari che hanno l’interesse convergente al silenzio. Per poterla sconfiggere ci vogliono anche forti sconti di pena per chi collabora, fino all’impunità se racconta tutto. Chi lo fa diventa onesto per forza, nessuno lo avvicinerà più. Ma per poter individuare i corrotti e avere prove nei loro confronti ci vogliono le operazioni sotto copertura, solo dopo si può convincerli a collaborare, un pentimento spontaneo è altamente improbabile.
“Ma di che si parla? L’agente provocatore in Italia c’è già”
“Queste operazioni le facciamo per droga, armi, riciclaggio, ecc”
di Antonella Mascali
La lotta alla corruzione, sempre dilagante in Italia, è tornata a dividere non solo politici ma anche magistrati tra chi, da anni, chiede gli agenti provocatori, come l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e chi è contrario, come il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte o il presidente dell’Anac Raffaele Cantone.
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, presidente di sezione della Cassazione, non capisce proprio queste obiezioni: “La legge italiana prevede già operazioni sotto copertura ( con agenti provocatori, ndr) ma non per la corruzione. Queste operazioni sono quelle in cui un ufficiale di polizia giudiziaria, dissimulando tale sua qualità, prende notizia di attività illecite, cioè può infiltrarsi in organizzazioni criminali o in altri casi, già previsti dalla legge italiana, può determinare un reato, per esempio facendo un acquisto simulato di stupefacenti”.
Ma chi è contro l’agente provocatore in indagini contro la corruzione dice che nelle situazioni appena descritte il reato c’era già, non sarebbe indotto…
Non sempre è così. Per le grandi quantità di droga, ad esempio, chi deve venderla prima trova l’acquirente e poi si mette d’accordo con il cartello che si trova all’estero per farla arrivare in Italia. Inoltre, anche queste operazioni sotto copertura prevedono che l’ufficiale di polizia giudiziaria commetta un reato (deve dotarsi di falsi documenti e acquistare stupefacenti) al fine di poter arrestare trafficanti e, dunque, non è punibile. Nessuno, però, si è mai scandalizzato.
Ci sarebbe anche una convenzione dell’Onu contro la corruzione firmata dall’Italia, ma ignorata.
È la convenzione di Merida, ratificata dall’Italia senza alcuna obiezione, ma mai attuata in 15 anni. All’articolo 50 prevede l’introduzione di operazioni sotto copertura e fa anche esplicito riferimento alle consegne controllate.
Mazzette?
È evidente che si tratta dell’oggetto del patto illecito e prevedono che costituiscano prova al processo.
Perché la Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo ha condannato alcuni Paesi che hanno usato gli agenti provocatori?
La Cedu ha detto che non possono essere l’unica causale del reato. Non si tratta, però, di fare operazioni sotto copertura per punire la propensione a commettere un reato (come dice Cantone, ndr) ma scatterebbero solo nei confronti di persone che commettono un’attività illecita seriale. I trafficanti sono tali non se spacciano una volta soltanto, allo stesso modo un funzionario pubblico che si vende, ragionevolmente lo fa tutte le volte che ha occasione. La ratio è la stessa. Non capisco questa durissima opposizione all’estensione alla corruzione, sia pur prevista da una convenzione Onu, mentre va bene per lotta alla droga, armi, riciclaggio e pedopornografia.
Come si spiega questa levata di scudi? È per l’inchiesta giornalistica di Fanpage che ha coinvolto il figlio del governatore campano Vincenzo De Luca?
Di Napoli non parlo, c’è un processo in corso. Le ragioni di queste obiezioni le chieda a quelli che le fanno. Io non le comprendo, altra cosa è, invece, la cautela. Ci vuole un controllo dell’autorità giudiziaria ed eventualmente queste operazioni vanno concentrate nelle procure capoluogo di distretto dove sono possibili le specializzazioni. Altra cosa importante: va disciplinata la scelta dell’obiettivo per non prendere persone a caso ma solo nel momento in cui emerge una sproporzione tra il reddito, il tenore di vita e/o la situazione patrimoniale. Ci vogliono indizi che la persona oggetto di attenzione ragionevolmente commetta questo tipo di reati.
Perché è così importante l’utilizzo di agenti provocatori nella lotta alla corruzione?
La corruzione non viene scoperta praticamente mai, è nota solo a corrotti, corruttori e intermediari che hanno l’interesse convergente al silenzio. Per poterla sconfiggere ci vogliono anche forti sconti di pena per chi collabora, fino all’impunità se racconta tutto. Chi lo fa diventa onesto per forza, nessuno lo avvicinerà più. Ma per poter individuare i corrotti e avere prove nei loro confronti ci vogliono le operazioni sotto copertura, solo dopo si può convincerli a collaborare, un pentimento spontaneo è altamente improbabile.
Il Fatto 24.2.18
Intercettazioni, il ministero cancella il “metodo Falcone”
di Roberto Scarpinato
Procuratore generale a Palermo
Uno degli aspetti più ambigui ed insidiosi della nuova disciplina delle intercettazioni introdotta con il decreto legislativo n. 216 del 2017, riguarda la ridefinizione dei rapporti tra pubblico ministero e organi di polizia nella selezione delle conversazioni rilevanti per le indagini.
L’attuale normativa prevede che il pubblico ministero può procedere all’ascolto personalmente (articolo 267, comma 4, c.p.p.) oppure avvalendosi, come sua longa manus, di un ufficiale della polizia giudiziaria al quale l’articolo 268 c.p.p. attribuisce il compito meramente esecutivo di trascrivere anche sommariamente il contenuto delle comunicazioni intercettate, senza operare alcuna selezione.
Tali trascrizioni, in gergo definite brogliacci, vengono quindi esaminate dal pubblico ministero al quale è attribuito dalla legge il potere di individuare le comunicazioni rilevanti per le indagini.
La nuova disciplina, che entrerà in vigore il prossimo 25 luglio, attribuisce invece agli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di selezionare le comunicazioni rilevanti, stabilendo per essi il divieto di trascrivere, anche in modo sommario, le comunicazioni o conversazioni a loro giudizio irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle sempre a loro giudizio parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge.
L’articolo 268 bis c.p.p. di nuovo conio stabilisce inoltre che gli ufficiali di polizia giudiziaria non solo devono omettere di trascrivere le conversazioni da essi ritenute irrilevanti, ma devono altresì omettere in tali casi qualsiasi indicazione sull’identità delle persone dialoganti e sull’oggetto delle loro conversazioni. Nel verbale delle operazioni devono essere indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.
Per evitare che a causa di tale modalità di trascrizione delle conversazioni intercettate, che determina il totale oscuramento di quelle ritenute irrilevanti dalle forze di polizia, il pm sia privato di ogni potere di autonoma e successiva valutazione sulla rilevanza o meno delle predette conversazioni, un altro articolo della nuova disciplina (articolo 267, comma 4, c.p.p. come modificato), prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria devono provvedere a trasmettere al pubblico ministero “annotazioni” contenenti una sintesi delle conversazioni da essi non ritenute rilevanti e la cui trascrizione è stata omessa.
In tal modo viene conseguito un triplice scopo: 1) mantenere integro il ruolo di dominus del potere di indagine e di valutazione del materiale probatorio esclusivamente in capo al pubblico ministero, il quale sulla base di tali annotazioni delle forze di polizia viene messo in grado di conoscere anche il contenuto sommario delle conversazioni di cui è stata omessa la trascrizione perché ritenute irrilevanti dalla polizia giudiziaria, operando eventualmente una valutazione difforme di rilevanza; 2) garantire ai difensori, ai quali pure è attribuito il diritto di esaminare le annotazioni, di individuare eventuali conversazioni scartate dalla polizia giudiziaria ed invece aventi a loro giudizio rilevanza processuale per i propri assistititi, chiedendone così la successiva trascrizione al giudice; 3) garantire il diritto alla privacy dei terzi o degli stessi indagati in quanto la nuova normativa prevede che le “annotazioni” sul contenuto delle conversazioni ritenute irrilevanti siano coperte dal segreto e custodite presso un archivio riservato del pubblico ministero unitamente alle registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono (articolo 89 bis delle norme di attuazione), senza che i difensori possano estrarne copia essendo loro attribuito solo il diritto di esaminarle, così come ad essi è attribuito solo il diritto di ascoltare le conversazioni intercettate ritenute irrilevanti ma non il diritto di avere copia delle registrazioni.
A causa dell’ambigua formulazione della norma sulle annotazioni, il ministero della Giustizia nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 216 del 2017, ha invece fornito l’indicazione che tale norma deve essere interpretata nel senso che gli ufficiali di polizia giudiziaria non hanno l’obbligo di informare sistematicamente il pubblico ministero con apposite annotazioni sul contenuto di tutte le conversazioni da essi ritenute irrilevanti e dunque radicalmente omissate, ma solo nei casi in cui essi nutrano il dubbio se si tratti di conversazioni rilevanti o meno e quindi se procedere alla loro trascrizione. Tale interpretazione riduttiva sposta l’asse del potere selettivo delle conversazioni rilevanti per le indagini a favore delle forze di polizia, che così vengono abilitate a stabilire autonomamente quali tra quelle da essi ritenute irrilevanti siano meritevoli di essere sottoposte o meno al vaglio del pubblico ministero.
Si tratta di un’interpretazione che oltre a non avere una base testuale nella lettera della norma, non appare costituzionalmente orientata ponendosi in contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 112, 104, 24 e 111 che sanciscono rispettivamente l’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza e autonomia della magistratura da ogni altro potere, l’inviolabilità del diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento, l’attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo: principi tutti che verrebbero sacrificati sull’altare del diritto alla privacy di cui all’art. 15, con un evidente sbilanciamento nel contemperamento dei valori che appare tanto più irragionevole ove si consideri che il regime di segretezza assicurato alle annotazioni è pienamente idoneo a garantire pure quest’ultimo diritto.
Ove venisse seguita l’indicazione ministeriale il pubblico ministero verrebbe infatti privato, a favore delle forze di polizia, della pienezza del potere-dovere di operare una autonoma valutazione di tutte le risultanze processuali acquisite, nessuna esclusa, ivi comprese quelle a favore della persona sottoposta ad indagini, obbligo quest’ultimo imposto espressamente dall’articolo 358 del c.p.p. solo a carico del pubblico ministero e non anche a carico delle forze di polizia. Verrebbe inoltre pregiudicata l’effettività del diritto di difesa, essendo evidente che i difensori in assenza di annotazioni che riguardino tutte le conversazioni ritenute irrilevanti e dunque non trascritte, verrebbero privati di una indispensabile bussola per orientarsi nell’individuare quelle per essi rilevanti e dunque da trascrivere. In assenza delle annotazioni, l’unica alternativa, impraticabile, sarebbe quella di procedere personalmente al riascolto di migliaia di ore di intercettazioni a volte protrattesi per lunghi mesi su varie decine di soggetti.
Purtroppo l’interpretazione riduttiva del ministero è stata fatta propria da alcuni procuratori della Repubblica i quali hanno già emanato direttive agli organi di polizia e ai magistrati dei loro uffici con ricadute sul piano degli equilibri generali che si profilano tanti più gravi quanto più tale interpretazione dovesse divenire maggioritaria.
Poiché, come accennato, la nuova normativa entrerà in vigore solo il prossimo 25 luglio, è bene assumere consapevolezza che sul terreno dell’interpretazione e dell’applicazione pratica della nuova normativa si giocherà nei prossimi mesi una partita di grande rilevanza istituzionale il cui esito è destinato ad incidere anche sulla latitudine dei poteri di indagine e di acquisizione delle prove del pubblico ministero nel settore del contrasto alla criminalità mafiosa e terroristica.
Infatti in tale strategico settore, la rilevanza delle conversazioni intercettate ai fini delle indagini non viene valutata solo in relazione all’oggetto e ai soggetti coinvolti nel singolo procedimento penale nel quale sono disposte le intercettazioni, ma anche con riferimento ad altri procedimenti penali pendenti presso la stessa Procura della Repubblica e in tutte le altre procure italiane sedi di direzioni distrettuali antimafia e di dipartimenti antiterrorismo.
Conversazioni ritenute irrilevanti in un procedimento instaurato per traffico di droga presso la Procura di Milano possono rivelarsi rilevantissime per un procedimento per omicidio alla Procura di Palermo e per un procedimento per misure di prevenzione patrimoniali alla Procura antimafia di Torino. Gli esempi concreti tratti dalla quotidianità della prassi operativa potrebbero essere migliaia.
L’obbligo della circolazione delle informazioni, eredità preziosa del metodo Falcone, finalizzato ad evitare il pericolo di dispersione di risultanze processuali irrilevanti nel procedimento in cui sono state acquisite, ma rilevanti in altri procedimenti, è sancito dall’articolo 102 del decreto legislativo n. 159 del 2011 (codice antimafia) e viene realizzato mediante l’inserimento costante dei flussi informatici di tutte le indagini concernenti reati in materia di mafia nelle banche dati logiche delle singole procure distrettuali antimafia, consultabili non solo dai magistrati di quelle procure ma anche dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo nell’ambito della banca dati nazionale condivisa gestita dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo quale prezioso supporto per il proficuo svolgimento della sua funzione di coordinamento.
Tale metodo di lavoro si è reso sinora possibile grazie all’attuale disciplina normativa delle intercettazioni che ha consentito di popolare costantemente le banche dati con le trascrizioni ed i brogliacci di tutte le intercettazioni eseguite nelle varie procure distrettuali italiane, trascrizioni che riguardano tutte le conversazioni sia quelle immediatamente rilevanti per il procedimento in cui sono state disposte sia quelle irrilevanti per quel procedimento ma potenzialmente rilevanti per altri procedimenti.
A seguito della entrata in vigore della nuova disciplina normativa sulle intercettazioni, tale metodo di lavoro potrà essere mantenuto solo se gli ufficiali di polizia giudiziaria oltre a trascrivere le conversazioni da essi ritenute rilevanti con esclusivo riferimento al procedimento in cui sono state disposte, redigeranno sistematicamente annotazioni per tutte le altre conversazioni da essi ritenute irrilevanti in quel procedimento ma che potrebbero avere grande rilevanza in altri procedimenti di cui essi non possono e non debbono avere cognizione.
Se invece dovesse affermarsi l’interpretazione secondo cui gli ufficiali di polizia giudiziaria possono omettere completamente non solo di trascrivere ma anche di annotare per il successivo controllo da parte del pubblico ministero, tutte o gran parte delle conversazioni da essi ritenute non rilevanti per quel singolo procedimento, si verificherebbe la dispersione di un enorme patrimonio informativo di cui non resterebbe traccia documentale, con gravi ricadute negative per l’efficacia del contrasto alla mafia ed al terrorismo.
Intercettazioni, il ministero cancella il “metodo Falcone”
di Roberto Scarpinato
Procuratore generale a Palermo
Uno degli aspetti più ambigui ed insidiosi della nuova disciplina delle intercettazioni introdotta con il decreto legislativo n. 216 del 2017, riguarda la ridefinizione dei rapporti tra pubblico ministero e organi di polizia nella selezione delle conversazioni rilevanti per le indagini.
L’attuale normativa prevede che il pubblico ministero può procedere all’ascolto personalmente (articolo 267, comma 4, c.p.p.) oppure avvalendosi, come sua longa manus, di un ufficiale della polizia giudiziaria al quale l’articolo 268 c.p.p. attribuisce il compito meramente esecutivo di trascrivere anche sommariamente il contenuto delle comunicazioni intercettate, senza operare alcuna selezione.
Tali trascrizioni, in gergo definite brogliacci, vengono quindi esaminate dal pubblico ministero al quale è attribuito dalla legge il potere di individuare le comunicazioni rilevanti per le indagini.
La nuova disciplina, che entrerà in vigore il prossimo 25 luglio, attribuisce invece agli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di selezionare le comunicazioni rilevanti, stabilendo per essi il divieto di trascrivere, anche in modo sommario, le comunicazioni o conversazioni a loro giudizio irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle sempre a loro giudizio parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge.
L’articolo 268 bis c.p.p. di nuovo conio stabilisce inoltre che gli ufficiali di polizia giudiziaria non solo devono omettere di trascrivere le conversazioni da essi ritenute irrilevanti, ma devono altresì omettere in tali casi qualsiasi indicazione sull’identità delle persone dialoganti e sull’oggetto delle loro conversazioni. Nel verbale delle operazioni devono essere indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.
Per evitare che a causa di tale modalità di trascrizione delle conversazioni intercettate, che determina il totale oscuramento di quelle ritenute irrilevanti dalle forze di polizia, il pm sia privato di ogni potere di autonoma e successiva valutazione sulla rilevanza o meno delle predette conversazioni, un altro articolo della nuova disciplina (articolo 267, comma 4, c.p.p. come modificato), prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria devono provvedere a trasmettere al pubblico ministero “annotazioni” contenenti una sintesi delle conversazioni da essi non ritenute rilevanti e la cui trascrizione è stata omessa.
In tal modo viene conseguito un triplice scopo: 1) mantenere integro il ruolo di dominus del potere di indagine e di valutazione del materiale probatorio esclusivamente in capo al pubblico ministero, il quale sulla base di tali annotazioni delle forze di polizia viene messo in grado di conoscere anche il contenuto sommario delle conversazioni di cui è stata omessa la trascrizione perché ritenute irrilevanti dalla polizia giudiziaria, operando eventualmente una valutazione difforme di rilevanza; 2) garantire ai difensori, ai quali pure è attribuito il diritto di esaminare le annotazioni, di individuare eventuali conversazioni scartate dalla polizia giudiziaria ed invece aventi a loro giudizio rilevanza processuale per i propri assistititi, chiedendone così la successiva trascrizione al giudice; 3) garantire il diritto alla privacy dei terzi o degli stessi indagati in quanto la nuova normativa prevede che le “annotazioni” sul contenuto delle conversazioni ritenute irrilevanti siano coperte dal segreto e custodite presso un archivio riservato del pubblico ministero unitamente alle registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono (articolo 89 bis delle norme di attuazione), senza che i difensori possano estrarne copia essendo loro attribuito solo il diritto di esaminarle, così come ad essi è attribuito solo il diritto di ascoltare le conversazioni intercettate ritenute irrilevanti ma non il diritto di avere copia delle registrazioni.
A causa dell’ambigua formulazione della norma sulle annotazioni, il ministero della Giustizia nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 216 del 2017, ha invece fornito l’indicazione che tale norma deve essere interpretata nel senso che gli ufficiali di polizia giudiziaria non hanno l’obbligo di informare sistematicamente il pubblico ministero con apposite annotazioni sul contenuto di tutte le conversazioni da essi ritenute irrilevanti e dunque radicalmente omissate, ma solo nei casi in cui essi nutrano il dubbio se si tratti di conversazioni rilevanti o meno e quindi se procedere alla loro trascrizione. Tale interpretazione riduttiva sposta l’asse del potere selettivo delle conversazioni rilevanti per le indagini a favore delle forze di polizia, che così vengono abilitate a stabilire autonomamente quali tra quelle da essi ritenute irrilevanti siano meritevoli di essere sottoposte o meno al vaglio del pubblico ministero.
Si tratta di un’interpretazione che oltre a non avere una base testuale nella lettera della norma, non appare costituzionalmente orientata ponendosi in contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 112, 104, 24 e 111 che sanciscono rispettivamente l’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza e autonomia della magistratura da ogni altro potere, l’inviolabilità del diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento, l’attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo: principi tutti che verrebbero sacrificati sull’altare del diritto alla privacy di cui all’art. 15, con un evidente sbilanciamento nel contemperamento dei valori che appare tanto più irragionevole ove si consideri che il regime di segretezza assicurato alle annotazioni è pienamente idoneo a garantire pure quest’ultimo diritto.
Ove venisse seguita l’indicazione ministeriale il pubblico ministero verrebbe infatti privato, a favore delle forze di polizia, della pienezza del potere-dovere di operare una autonoma valutazione di tutte le risultanze processuali acquisite, nessuna esclusa, ivi comprese quelle a favore della persona sottoposta ad indagini, obbligo quest’ultimo imposto espressamente dall’articolo 358 del c.p.p. solo a carico del pubblico ministero e non anche a carico delle forze di polizia. Verrebbe inoltre pregiudicata l’effettività del diritto di difesa, essendo evidente che i difensori in assenza di annotazioni che riguardino tutte le conversazioni ritenute irrilevanti e dunque non trascritte, verrebbero privati di una indispensabile bussola per orientarsi nell’individuare quelle per essi rilevanti e dunque da trascrivere. In assenza delle annotazioni, l’unica alternativa, impraticabile, sarebbe quella di procedere personalmente al riascolto di migliaia di ore di intercettazioni a volte protrattesi per lunghi mesi su varie decine di soggetti.
Purtroppo l’interpretazione riduttiva del ministero è stata fatta propria da alcuni procuratori della Repubblica i quali hanno già emanato direttive agli organi di polizia e ai magistrati dei loro uffici con ricadute sul piano degli equilibri generali che si profilano tanti più gravi quanto più tale interpretazione dovesse divenire maggioritaria.
Poiché, come accennato, la nuova normativa entrerà in vigore solo il prossimo 25 luglio, è bene assumere consapevolezza che sul terreno dell’interpretazione e dell’applicazione pratica della nuova normativa si giocherà nei prossimi mesi una partita di grande rilevanza istituzionale il cui esito è destinato ad incidere anche sulla latitudine dei poteri di indagine e di acquisizione delle prove del pubblico ministero nel settore del contrasto alla criminalità mafiosa e terroristica.
Infatti in tale strategico settore, la rilevanza delle conversazioni intercettate ai fini delle indagini non viene valutata solo in relazione all’oggetto e ai soggetti coinvolti nel singolo procedimento penale nel quale sono disposte le intercettazioni, ma anche con riferimento ad altri procedimenti penali pendenti presso la stessa Procura della Repubblica e in tutte le altre procure italiane sedi di direzioni distrettuali antimafia e di dipartimenti antiterrorismo.
Conversazioni ritenute irrilevanti in un procedimento instaurato per traffico di droga presso la Procura di Milano possono rivelarsi rilevantissime per un procedimento per omicidio alla Procura di Palermo e per un procedimento per misure di prevenzione patrimoniali alla Procura antimafia di Torino. Gli esempi concreti tratti dalla quotidianità della prassi operativa potrebbero essere migliaia.
L’obbligo della circolazione delle informazioni, eredità preziosa del metodo Falcone, finalizzato ad evitare il pericolo di dispersione di risultanze processuali irrilevanti nel procedimento in cui sono state acquisite, ma rilevanti in altri procedimenti, è sancito dall’articolo 102 del decreto legislativo n. 159 del 2011 (codice antimafia) e viene realizzato mediante l’inserimento costante dei flussi informatici di tutte le indagini concernenti reati in materia di mafia nelle banche dati logiche delle singole procure distrettuali antimafia, consultabili non solo dai magistrati di quelle procure ma anche dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo nell’ambito della banca dati nazionale condivisa gestita dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo quale prezioso supporto per il proficuo svolgimento della sua funzione di coordinamento.
Tale metodo di lavoro si è reso sinora possibile grazie all’attuale disciplina normativa delle intercettazioni che ha consentito di popolare costantemente le banche dati con le trascrizioni ed i brogliacci di tutte le intercettazioni eseguite nelle varie procure distrettuali italiane, trascrizioni che riguardano tutte le conversazioni sia quelle immediatamente rilevanti per il procedimento in cui sono state disposte sia quelle irrilevanti per quel procedimento ma potenzialmente rilevanti per altri procedimenti.
A seguito della entrata in vigore della nuova disciplina normativa sulle intercettazioni, tale metodo di lavoro potrà essere mantenuto solo se gli ufficiali di polizia giudiziaria oltre a trascrivere le conversazioni da essi ritenute rilevanti con esclusivo riferimento al procedimento in cui sono state disposte, redigeranno sistematicamente annotazioni per tutte le altre conversazioni da essi ritenute irrilevanti in quel procedimento ma che potrebbero avere grande rilevanza in altri procedimenti di cui essi non possono e non debbono avere cognizione.
Se invece dovesse affermarsi l’interpretazione secondo cui gli ufficiali di polizia giudiziaria possono omettere completamente non solo di trascrivere ma anche di annotare per il successivo controllo da parte del pubblico ministero, tutte o gran parte delle conversazioni da essi ritenute non rilevanti per quel singolo procedimento, si verificherebbe la dispersione di un enorme patrimonio informativo di cui non resterebbe traccia documentale, con gravi ricadute negative per l’efficacia del contrasto alla mafia ed al terrorismo.
il manifesto 24.2.18
Scuola, sciopero dei sindacati di base: «Gli aumenti del contratto sono miserabili»
La protesta. Indetto da Cobas, Cub, Unicobas e Usb. Poi il corteo a Roma. La rottura con i confederali
di Roberto Ciccarelli
Insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia che protestano contro una sentenza del Consiglio di Stato che mette a rischio il posto di lavoro, insieme ai docenti delle scuole di ogni grado e personale Ata, hanno aderito ieri allo sciopero della scuola indetto dai sindacati di base Cobas, Cub, Unicobas, Usb. Ragione della protesta è il contratto della scuola firmato il 9 febbraio scorso da Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, ma non dalla Gilda e dallo Snals. L’intesa è stata criticata anche dall’Anief.
A Roma i manifestanti si sono mossi in corteo dal Ministero dell’Istruzione in Viale Trastevere verso il Pantheon e sono stati raggiunti da lavoratori della sanità che hanno aderito allo sciopero indetto da Cub Sanità Italiana, Usb Pubblico Impiego Sanità e Nursing Up (le categorie di Cgil, Cisl e Uil lo hanno sospeso). Questi ultimi erano in presidio davanti al Ministero della Salute. Per Usb il contratto della sanità conterrebbe «solo peggioramenti sia per quanto riguarda i diritti che le condizioni di lavoro che si traducono in un peggioramento dei servizi per i cittadini». Nel corso della giornata la protesta si è spostata anche alla sede dell’Aran, dove si è discusso il contratto.
Tornando al contratto della scuola, i motivi della protesta dei sindacati di base sono articolati e molto tecnici. Su tutti, prevale la critica dell’aumento ottenuto dai confederali: da un minimo di 81 euro ad un massimo di 111. Questi importi, giudicati modesti («mancette elettorali» per Piero Bernocchi dei Cobas), sono stati criticati perché assegnati su base percentuale anziché in termini assoluti. Gli importi potrebbero essere dunque anche più bassi rispetto a quelli annunciati, pari a un «medio netto mensile di 45 euro per gli Ata e 50 per i docenti, dopo che in dieci anni di blocco contrattuale la categoria ha perso almeno il 20% del proprio salario, alcune decine di migliaia di euro» sostiene Bernocchi. «Un contratto si valuta se aumenta i diritti e i salari. questo non ha fatto né una cosa né l’altra – ha commentato l’Usb -I nostri aumenti sono un terzo dei metalmeccanici e un sesto dei presidi sceriffo aumenti da fame specie se paragonati ai contratti privati». Un altro motivo dello scontro riguarda l’integrazione dell’aumento con il «bonus» Renzi assegnato dai presidi ai docenti «migliori» e al ruolo dei sindacati nell’assegnazione.
La trattativa sul contratto ha permesso di migliorare la parte normativa rispetto alla prima bozza, evitando le ricadute negative della legge 107 sul contratto. Resta invariato l’orario di servizio, non sono introdotti compiti aggiuntivi obbligatori e non retribuiti né per la formazione, né per l’Alternanza Scuola-Lavoro, il Collegio dei Docenti mantiene la prerogativa di deliberare le attività. Parere diverso sul contratto è stato espresso dal segretario Flc-Cgil Francesco Sinopoli secondo il quale, grazie all’intesa, «la buona scuola non esiste più». Alle obiezioni sulla modestia degli aumenti è stato risposto che è preferibile «riprendersi qualche soldo dopo 10 anni di astinenza» con un triennio contrattuale già in scadenza (dicembre 2018). L’accordo è, al momento, in attesa di una ratifica da parte degli iscritti del sindacato.
Scuola, sciopero dei sindacati di base: «Gli aumenti del contratto sono miserabili»
La protesta. Indetto da Cobas, Cub, Unicobas e Usb. Poi il corteo a Roma. La rottura con i confederali
di Roberto Ciccarelli
Insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia che protestano contro una sentenza del Consiglio di Stato che mette a rischio il posto di lavoro, insieme ai docenti delle scuole di ogni grado e personale Ata, hanno aderito ieri allo sciopero della scuola indetto dai sindacati di base Cobas, Cub, Unicobas, Usb. Ragione della protesta è il contratto della scuola firmato il 9 febbraio scorso da Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, ma non dalla Gilda e dallo Snals. L’intesa è stata criticata anche dall’Anief.
A Roma i manifestanti si sono mossi in corteo dal Ministero dell’Istruzione in Viale Trastevere verso il Pantheon e sono stati raggiunti da lavoratori della sanità che hanno aderito allo sciopero indetto da Cub Sanità Italiana, Usb Pubblico Impiego Sanità e Nursing Up (le categorie di Cgil, Cisl e Uil lo hanno sospeso). Questi ultimi erano in presidio davanti al Ministero della Salute. Per Usb il contratto della sanità conterrebbe «solo peggioramenti sia per quanto riguarda i diritti che le condizioni di lavoro che si traducono in un peggioramento dei servizi per i cittadini». Nel corso della giornata la protesta si è spostata anche alla sede dell’Aran, dove si è discusso il contratto.
Tornando al contratto della scuola, i motivi della protesta dei sindacati di base sono articolati e molto tecnici. Su tutti, prevale la critica dell’aumento ottenuto dai confederali: da un minimo di 81 euro ad un massimo di 111. Questi importi, giudicati modesti («mancette elettorali» per Piero Bernocchi dei Cobas), sono stati criticati perché assegnati su base percentuale anziché in termini assoluti. Gli importi potrebbero essere dunque anche più bassi rispetto a quelli annunciati, pari a un «medio netto mensile di 45 euro per gli Ata e 50 per i docenti, dopo che in dieci anni di blocco contrattuale la categoria ha perso almeno il 20% del proprio salario, alcune decine di migliaia di euro» sostiene Bernocchi. «Un contratto si valuta se aumenta i diritti e i salari. questo non ha fatto né una cosa né l’altra – ha commentato l’Usb -I nostri aumenti sono un terzo dei metalmeccanici e un sesto dei presidi sceriffo aumenti da fame specie se paragonati ai contratti privati». Un altro motivo dello scontro riguarda l’integrazione dell’aumento con il «bonus» Renzi assegnato dai presidi ai docenti «migliori» e al ruolo dei sindacati nell’assegnazione.
La trattativa sul contratto ha permesso di migliorare la parte normativa rispetto alla prima bozza, evitando le ricadute negative della legge 107 sul contratto. Resta invariato l’orario di servizio, non sono introdotti compiti aggiuntivi obbligatori e non retribuiti né per la formazione, né per l’Alternanza Scuola-Lavoro, il Collegio dei Docenti mantiene la prerogativa di deliberare le attività. Parere diverso sul contratto è stato espresso dal segretario Flc-Cgil Francesco Sinopoli secondo il quale, grazie all’intesa, «la buona scuola non esiste più». Alle obiezioni sulla modestia degli aumenti è stato risposto che è preferibile «riprendersi qualche soldo dopo 10 anni di astinenza» con un triennio contrattuale già in scadenza (dicembre 2018). L’accordo è, al momento, in attesa di una ratifica da parte degli iscritti del sindacato.
Repubblica 24.2.18
Il caso Lombardi
La deriva a destra sui migranti
di Tomaso Montanari
Quando penso alle province del Lazio e ai suoi borghi, penso ad accogliere più turismo, che rilanci l’economia locale, e meno migranti, che invece pesano sull’economia locale. Non è questione di destra o di sinistra, ma di #buonsenso».
Questa dichiarazione di Roberta Lombardi, candidata 5 Stelle alla presidenza del Lazio, è un sintomo da non trascurare. Di quale “buon senso” si parla? Di quel senso comune, per nulla buono, per cui dei migranti non si ragiona come di esseri umani, ma come di numeri o come di minacce (la “bomba sociale”). Lo stesso “buon senso” per cui bisognerebbe «aiutarli a casa loro» (e questo l’ha scritto Matteo Renzi, dimenticando l’articolo 10 della Costituzione, che dice che l’Italia è casa di tutti coloro che non hanno i nostri stessi diritti), o sostenere mamme e famiglie italiane, «se uno vuole continuare la nostra razza» (Patrizia Prestipino, Pd). Non cito le innumerevoli frasi di esponenti della Lega, Fratelli d’Italia e organizzazioni fasciste perché ciò che mi interessa stigmatizzare è la penetrazione di idee di fatto razziste in quello che appunto si presenta come il senso comune. È lo slittamento generale a destra, addirittura l’egemonia di questo non-pensiero, il principale avversario di ogni prospettiva democratica. Luigi Manconi e Federica Resta hanno recentemente argomentato (nel libro Non sono razzista, ma…, Feltrinelli 2017) circa i nessi tra questa indifferenza morale verso i migranti e quella verso gli ebrei, al tempo dell’Olocausto: «L’indifferenza della vita di ogni singolo in un mondo la cui legge era disinteresse per l’altro e vantaggio individuale universale» (T. Adorno). Nel caso di Lombardi la dichiarazione ha anche un’altra chiave di lettura. Sarebbe di “buon senso” immaginare i borghi spopolati delle aree interne come grandi alberghi diffusi per turisti. Questa idea rischia di dare la mazzata finale a una parte del Paese in cui è ancora possibile coltivare uno stile di vita non del tutto appiattito sull’alienazione morale delle metropoli.
Come spiega Vito Teti in Quel che resta.
L’Italia dei Paesi tra abbandoni e ritorni
(Donzelli 2017) è proprio questa Italia minore e sofferente che può ridare senso e sapore all’Italia apparentemente vincente. A patto che non la trasformiamo in un gigantesco parco a tema per turisti, ma la aiutiamo a rifarsi tessuto civile: anche con l’integrazione di nuovi italiani, qualunque sia il colore della loro pelle.
«Ripopoliamo le aree spopolate dell’Appennino con immigrati e rifugiati», ha proposto il “paesologo” Franco Arminio. «Nella città vecchia il popolo nuovo», ha detto l’urbanista Ilaria Agostini, chiedendo che i centri storici spopolati delle città d’arte siano luoghi di integrazione. E i concreti esempi positivi non mancano, a partire da quello notissimo di Riace.
Investire in questa direzione significa, sul medio e lungo periodo, favorire il “progresso materiale e spirituale della società” (articolo 4 della Costituzione).
Con quali soldi? È stato calcolato che con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia di Erdogan per bloccare i rifugiati, si sarebbero potuti accogliere e integrare tre milioni di migranti. Questo è buon senso. Così come è buon senso trovare intollerabile che i migranti affoghino nel mare in cui facciamo il bagno d’estate, o che siano chiusi in campi di concentramento pagati dai nostri governi. E questa orrenda campagna elettorale ha un bisogno di trovare un senso. Possibilmente buono.
Il caso Lombardi
La deriva a destra sui migranti
di Tomaso Montanari
Quando penso alle province del Lazio e ai suoi borghi, penso ad accogliere più turismo, che rilanci l’economia locale, e meno migranti, che invece pesano sull’economia locale. Non è questione di destra o di sinistra, ma di #buonsenso».
Questa dichiarazione di Roberta Lombardi, candidata 5 Stelle alla presidenza del Lazio, è un sintomo da non trascurare. Di quale “buon senso” si parla? Di quel senso comune, per nulla buono, per cui dei migranti non si ragiona come di esseri umani, ma come di numeri o come di minacce (la “bomba sociale”). Lo stesso “buon senso” per cui bisognerebbe «aiutarli a casa loro» (e questo l’ha scritto Matteo Renzi, dimenticando l’articolo 10 della Costituzione, che dice che l’Italia è casa di tutti coloro che non hanno i nostri stessi diritti), o sostenere mamme e famiglie italiane, «se uno vuole continuare la nostra razza» (Patrizia Prestipino, Pd). Non cito le innumerevoli frasi di esponenti della Lega, Fratelli d’Italia e organizzazioni fasciste perché ciò che mi interessa stigmatizzare è la penetrazione di idee di fatto razziste in quello che appunto si presenta come il senso comune. È lo slittamento generale a destra, addirittura l’egemonia di questo non-pensiero, il principale avversario di ogni prospettiva democratica. Luigi Manconi e Federica Resta hanno recentemente argomentato (nel libro Non sono razzista, ma…, Feltrinelli 2017) circa i nessi tra questa indifferenza morale verso i migranti e quella verso gli ebrei, al tempo dell’Olocausto: «L’indifferenza della vita di ogni singolo in un mondo la cui legge era disinteresse per l’altro e vantaggio individuale universale» (T. Adorno). Nel caso di Lombardi la dichiarazione ha anche un’altra chiave di lettura. Sarebbe di “buon senso” immaginare i borghi spopolati delle aree interne come grandi alberghi diffusi per turisti. Questa idea rischia di dare la mazzata finale a una parte del Paese in cui è ancora possibile coltivare uno stile di vita non del tutto appiattito sull’alienazione morale delle metropoli.
Come spiega Vito Teti in Quel che resta.
L’Italia dei Paesi tra abbandoni e ritorni
(Donzelli 2017) è proprio questa Italia minore e sofferente che può ridare senso e sapore all’Italia apparentemente vincente. A patto che non la trasformiamo in un gigantesco parco a tema per turisti, ma la aiutiamo a rifarsi tessuto civile: anche con l’integrazione di nuovi italiani, qualunque sia il colore della loro pelle.
«Ripopoliamo le aree spopolate dell’Appennino con immigrati e rifugiati», ha proposto il “paesologo” Franco Arminio. «Nella città vecchia il popolo nuovo», ha detto l’urbanista Ilaria Agostini, chiedendo che i centri storici spopolati delle città d’arte siano luoghi di integrazione. E i concreti esempi positivi non mancano, a partire da quello notissimo di Riace.
Investire in questa direzione significa, sul medio e lungo periodo, favorire il “progresso materiale e spirituale della società” (articolo 4 della Costituzione).
Con quali soldi? È stato calcolato che con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia di Erdogan per bloccare i rifugiati, si sarebbero potuti accogliere e integrare tre milioni di migranti. Questo è buon senso. Così come è buon senso trovare intollerabile che i migranti affoghino nel mare in cui facciamo il bagno d’estate, o che siano chiusi in campi di concentramento pagati dai nostri governi. E questa orrenda campagna elettorale ha un bisogno di trovare un senso. Possibilmente buono.
Corriere 24.2.18
Il tifo (inaspettato) per Emma Bonino
Il leader di Forza Italia e il tifo perché Bonino superi la soglia del 3%
Le preoccupazioni di Meloni per le strategie azzurre
di Francesco Verderami
Da giorni il nome più evocato nel centrodestra è quello di un’avversaria, Emma Bonino, al centro di una strana disputa tra alleati.
Il primo a parlarne è stato Berlusconi, che discretamente fa il tifo per l’esponente radicale e confida riesca a superare il 3%. Ce n’è traccia in alcuni conversari, discussioni che come spesso accade hanno superato i cancelli di Arcore e hanno fatto drizzare le antenne agli alleati. Non è chiaro se l’interesse del Cavaliere sia riconducibile proprio alla Bonino o ai candidati della sua lista, che diverrebbero parlamentari se +Europa superasse la soglia di sbarramento. E tra questi — raccontavano autorevoli esponenti di Forza Italia — ci sarebbero «potenziali sostenitori» di un governo di centrodestra, che sembra rimanere sempre «a un passo» dalla conquista della maggioranza assoluta di seggi nelle Camere.
La storia dell’ipotetica transumanza subito dopo il voto non aveva però convinto i partner, e infatti i dirigenti di Nci si erano premurati a dare una veste politica ai pour parler di Berlusconi sulla Bonino, ricordando che era stato il Cavaliere a indicarla come commissario italiano a Bruxelles, e che magari — con un gabinetto a trazione moderata, guidato dall’attuale presidente dell’Europarlamento — potrebbe convincerla a garantire un esecutivo nell’interesse del Paese. Supposizioni e congetture al limite del fantasioso erano rimaste custodite fino a ieri nel recinto della riservatezza, finché la Meloni ha reso pubblica la querelle.
«Nella scelta del candidato-premier della coalizione non mi impegno a sostenere persone che non conosco», è sbottata la presidente di FdI: «Abbiamo stabilito che il partito più votato dell’alleanza esprimerà il presidente del Consiglio, ma i nomi vanno annunciati prima del 4 marzo o per me non se ne fa nulla». Il motivo della sortita è legato al fatto che Berlusconi continua a ripetere di avere «nomi coperti» per Palazzo Chigi, e la Meloni da tempo cova il sospetto. «Se mi dice la Bonino salta tutto. Ed è la Bonino, datemi retta», aveva confidato al suo gruppo dirigente: «La sostengono i poteri forti nazionali e internazionali, le cancellerie europee, Israele. Manca solo la Chiesa...».
Forse la Curia no, ma il Papa aveva avuto per lei parole di elogio nella conversazione con Massimo Franco pubblicata dal Corriere nel febbraio del 2016: «È la persona che conosce meglio l’Africa. Mi dicono: è gente che la pensa in modo diverso da noi. Vero, ma pazienza. Bisogna guardare alle persone, a quello che fanno». Ora, a parte il fatto che la Bonino sarebbe il primo caso di candidato premier di un altro schieramento a sua insaputa, se nel centrodestra sono a un passo da una crisi di nervi è perché compiere quel «passo» che li separa dalla vittoria appare faticoso.
Perciò Berlusconi ha annunciato — a sorpresa — di esser pronto per una manifestazione comune con gli alleati: i focus e gli amatissimi sondaggi gli hanno fatto capire che così (forse) potrebbe spingere una parte degli indecisi a votare per Forza Italia. E non c’è dubbio che il risultato di Nci potrebbe essere quello che ieri l’ Economist definiva «l’asso nella manica del centrodestra». Superasse il 3% poi, offrirebbe un’ulteriore chance per la conquista di Palazzo Chigi: «Potremmo essere decisivi per tutto», dice Fitto, che giusto per spiegarsi ha già piazzato il veto su Salvini premier.
Ma siccome la maggioranza assoluta dei seggi sembra ormai una sorta di Graal della politica, la sua ricerca ha assunto contorni mitologici: così il dibattito attorno al nome di un avversario finisce per provocare un conflitto tra alleati. Se non fosse che la questione è solo all’apparenza surreale, perché la Bonino si è già espressa a favore di un governo di larga coalizione e non sarebbe l’innesto per la nascita di un gabinetto di centrodestra. Anche perché — oltre la Meloni — lo stesso Salvini non accetterebbe certe soluzioni se non battesse Berlusconi e non potesse reclamare il ruolo di premier.
La Bonino semmai è il cavallo di Troia con cui c’è chi mira ad espugnare definitivamente la cittadella diroccata del vecchio bipolarismo, è il possibile punto di riferimento di una parte del Palazzo contro l’altra. L’altra è quella a cui ieri ha dato voce il governatore pugliese Emiliano: «Se Di Maio fosse incaricato di formare il governo, il Pd dovrebbe sostenerlo». Pare incredibile, ma è l’effetto del Graal.
Il tifo (inaspettato) per Emma Bonino
Il leader di Forza Italia e il tifo perché Bonino superi la soglia del 3%
Le preoccupazioni di Meloni per le strategie azzurre
di Francesco Verderami
Da giorni il nome più evocato nel centrodestra è quello di un’avversaria, Emma Bonino, al centro di una strana disputa tra alleati.
Il primo a parlarne è stato Berlusconi, che discretamente fa il tifo per l’esponente radicale e confida riesca a superare il 3%. Ce n’è traccia in alcuni conversari, discussioni che come spesso accade hanno superato i cancelli di Arcore e hanno fatto drizzare le antenne agli alleati. Non è chiaro se l’interesse del Cavaliere sia riconducibile proprio alla Bonino o ai candidati della sua lista, che diverrebbero parlamentari se +Europa superasse la soglia di sbarramento. E tra questi — raccontavano autorevoli esponenti di Forza Italia — ci sarebbero «potenziali sostenitori» di un governo di centrodestra, che sembra rimanere sempre «a un passo» dalla conquista della maggioranza assoluta di seggi nelle Camere.
La storia dell’ipotetica transumanza subito dopo il voto non aveva però convinto i partner, e infatti i dirigenti di Nci si erano premurati a dare una veste politica ai pour parler di Berlusconi sulla Bonino, ricordando che era stato il Cavaliere a indicarla come commissario italiano a Bruxelles, e che magari — con un gabinetto a trazione moderata, guidato dall’attuale presidente dell’Europarlamento — potrebbe convincerla a garantire un esecutivo nell’interesse del Paese. Supposizioni e congetture al limite del fantasioso erano rimaste custodite fino a ieri nel recinto della riservatezza, finché la Meloni ha reso pubblica la querelle.
«Nella scelta del candidato-premier della coalizione non mi impegno a sostenere persone che non conosco», è sbottata la presidente di FdI: «Abbiamo stabilito che il partito più votato dell’alleanza esprimerà il presidente del Consiglio, ma i nomi vanno annunciati prima del 4 marzo o per me non se ne fa nulla». Il motivo della sortita è legato al fatto che Berlusconi continua a ripetere di avere «nomi coperti» per Palazzo Chigi, e la Meloni da tempo cova il sospetto. «Se mi dice la Bonino salta tutto. Ed è la Bonino, datemi retta», aveva confidato al suo gruppo dirigente: «La sostengono i poteri forti nazionali e internazionali, le cancellerie europee, Israele. Manca solo la Chiesa...».
Forse la Curia no, ma il Papa aveva avuto per lei parole di elogio nella conversazione con Massimo Franco pubblicata dal Corriere nel febbraio del 2016: «È la persona che conosce meglio l’Africa. Mi dicono: è gente che la pensa in modo diverso da noi. Vero, ma pazienza. Bisogna guardare alle persone, a quello che fanno». Ora, a parte il fatto che la Bonino sarebbe il primo caso di candidato premier di un altro schieramento a sua insaputa, se nel centrodestra sono a un passo da una crisi di nervi è perché compiere quel «passo» che li separa dalla vittoria appare faticoso.
Perciò Berlusconi ha annunciato — a sorpresa — di esser pronto per una manifestazione comune con gli alleati: i focus e gli amatissimi sondaggi gli hanno fatto capire che così (forse) potrebbe spingere una parte degli indecisi a votare per Forza Italia. E non c’è dubbio che il risultato di Nci potrebbe essere quello che ieri l’ Economist definiva «l’asso nella manica del centrodestra». Superasse il 3% poi, offrirebbe un’ulteriore chance per la conquista di Palazzo Chigi: «Potremmo essere decisivi per tutto», dice Fitto, che giusto per spiegarsi ha già piazzato il veto su Salvini premier.
Ma siccome la maggioranza assoluta dei seggi sembra ormai una sorta di Graal della politica, la sua ricerca ha assunto contorni mitologici: così il dibattito attorno al nome di un avversario finisce per provocare un conflitto tra alleati. Se non fosse che la questione è solo all’apparenza surreale, perché la Bonino si è già espressa a favore di un governo di larga coalizione e non sarebbe l’innesto per la nascita di un gabinetto di centrodestra. Anche perché — oltre la Meloni — lo stesso Salvini non accetterebbe certe soluzioni se non battesse Berlusconi e non potesse reclamare il ruolo di premier.
La Bonino semmai è il cavallo di Troia con cui c’è chi mira ad espugnare definitivamente la cittadella diroccata del vecchio bipolarismo, è il possibile punto di riferimento di una parte del Palazzo contro l’altra. L’altra è quella a cui ieri ha dato voce il governatore pugliese Emiliano: «Se Di Maio fosse incaricato di formare il governo, il Pd dovrebbe sostenerlo». Pare incredibile, ma è l’effetto del Graal.
Il Fatto 24.2.18
Crollo Pd, il Colle “studia” un governo per la transizione
Fragili i numeri per le larghe intese Dem-Fi o un esecutivo del centrodestra: un dossier coi precedenti indica la via a Mattarella
di Fabrizio d’Esposito
È stato alla fine della scorsa estate che al Quirinale s’iniziò a formare un dossier sulle prassi seguite dai dieci presidenti della Repubblica in oltre sei decenni di governi. In linea con la sua storia di professore universitario di Diritto parlamentare, Sergio Mattarella diede mandato ai suoi consiglieri di raccogliere sostanza e dettagli di ogni consultazione, conscio e convinto che la dinamica politica di questo antico rito sfugga a una situazione pre-ordinata. In pratica, per dirla fuori dal “quirinalese”, il capo dello Stato mandò il primo segnale ai partiti. Per la serie: con me non ci sarà alcun governo del presidente, tecnico oppure no.
Quando il lavoro fu avviato il quadro delle forze in campo era diverso da oggi: il Pd veniva accreditato di un possibile 25 per cento, i Cinquestelle non arrivavano al 30 e il centrodestra viaggiava alla solita altezza del 37. A distanza di quasi sei mesi da allora, il quadro si è completamente ribaltato: il Pd potrebbe crollare al 20, se non sotto; il M5S toccherà o sfonderà il tetto del 30; il centrodestra non schioda dal 37/38 ma nel frattempo ha cristalizzato le divisioni interne tra Silvio Berlusconi e il blocco fascioleghista di Salvini e Meloni.
Risultato: al Colle matura la sensazione che il voto del 4 marzo non consegnerà vincitori in una sorta di deriva tripolare che poi tanto tripolare non è per le citate fratture tra l’ex Cavaliere e il capo leghista. Nessuno quindi, tra i leader politici, dovrebbe avere il mazzo in mano per distribuire le carte. E qui sovviene il dossier sulle prassi seguite in passato al Colle nella formazione dei governi, un documento diventato corposo e meticoloso.
Punto di partenza, per sgombrare dal campo retroscena ed equivoci di oggi, il destino del governo di Paolo Gentiloni. Oggi l’esecutivo non è dimissionario e quindi è in carica per l’ordinaria amministrazione. Il 23 marzo, giorno d’insediamento delle Camere, al Colle danno per certo l’arrivo del premier per la fatidiche e dovute dimissioni. A quel punto sì che sarà un governo dimissionario in carica per “il disbrigo degli affari correnti”, in attesa dell’esito delle consultazioni di Mattarella con le delegazioni dei partiti.
Il metodo poi. E l’approccio, che partirà dalla fotografia del voto. Esaurita definitivamente la fase bipolarista della Seconda Repubblica (un vincitore e uno sconfitto), il Colle-arbitro dirigerà la partita come ai tempi del proporzionale della Prima Repubblica. Un mero dato di fatto: questa campagna elettorale sta confermando che ogni partito corre per prendere un voto più degli altri e il tema delle coalizioni è scomparso, a meno di non prendere per buona l’alleanza finta o bugiarda del centrodestra. Chiarito il quadro, Mattarella certificherà innanzitutto l’impossibilità di un “governo organico” sia formato dallo stesso centrodestra oppure da Pd e Forza Italia insieme, le cosiddette larghe intese. Questione di numeri, ovviamente.
A quel punto, il Colle riguarderà tre capitoli del dossier fatto preparare. Tre precedenti già sottolineati e vagliati in ogni aspetto. Obiettivo: varare comunque un esecutivo, pur su basi fragili, per poi sperare di sbloccare l’impasse e allargare la base della maggioranza. Il primo precedente è “il governo della non sfiducia” di Giulio Andreotti, votato nel 1976 (e preludio alla tragedia di Aldo Moro). Quel governo prevedeva un accordo tra le due grandi forze “nemiche” di allora: la Dc, da sempre al potere, e il Pci, che per la prima volta si astenne sulla fiducia. Collegato a questa formula nell’agenda del Colle c’è pure il governo Fanfani del 1960, basato sulle “convergenze parallele” morotee per la formazione del centro-sinistra. Due precedenti che presuppongono quindi un accordo tra partiti oggi avversari. Ed è qui che potrebbe entrare in gioco la forza parlamentare del M5S. Le combinazioni sono varie e Mattarella non ne escluderebbe nessuna: Pd al governo e astensione grillina, o viceversa; idem Pd e centrodestra. Qualora dovessero andare in porto la non sfiducia o le convergenze parallele, uno dei tre blocchi di media grandezza è destinato a rimanere fuori. Quale tra Pd, M5S e centrodestra?
Il terzo precedente storico è di mera transizione per poi andare allo scioglimento autunnale: “il governo balneare” o “di decantazione” di Giovanni Leone dopo le Politiche del 1963. Nel novero delle variabili potrebbe rientrare Paolo Gentiloni, investito pure di un’altra formula. Questa: verificata l’impossibilità di formare un governo, Mattarella potrebbe rinviare alle Camere l’attuale esecutivo. Ricevuta una scontata sfiducia, si avrebbe comunque un governo di minoranza per gli affari correnti e per portare il Paese al voto.
La transizione potrebbe però portare anche un cosiddetto “governo di scopo”, con l’obiettivo di fare la manovra economica e una nuova legge elettorale, magari con un accordo a tre fra Pd, 5 Stelle e Liberi e Uguali.
Questo è dunque il quadro tracciato al Colle in queste ore, a una settimana dal voto. E quelle che erano le preoccupazioni estive del Quirinale, e cioè una mancata tenuta del Pd, alla fine si stanno per rivelare giuste, a meno di clamorosi rovesciamenti di tendenza negli ultimi giorni giorni di campagna elettorale. Senza un governo di centrodestra o le larghe intese renzusconiane, la dinamica delle consultazioni metterà in gioco il M5S di Luigi Di Maio per varie formule. È questa la maggiore novità che emerge dall’analisi basata sul dossier confezionato per Mattarella. E non è poco.
Crollo Pd, il Colle “studia” un governo per la transizione
Fragili i numeri per le larghe intese Dem-Fi o un esecutivo del centrodestra: un dossier coi precedenti indica la via a Mattarella
di Fabrizio d’Esposito
È stato alla fine della scorsa estate che al Quirinale s’iniziò a formare un dossier sulle prassi seguite dai dieci presidenti della Repubblica in oltre sei decenni di governi. In linea con la sua storia di professore universitario di Diritto parlamentare, Sergio Mattarella diede mandato ai suoi consiglieri di raccogliere sostanza e dettagli di ogni consultazione, conscio e convinto che la dinamica politica di questo antico rito sfugga a una situazione pre-ordinata. In pratica, per dirla fuori dal “quirinalese”, il capo dello Stato mandò il primo segnale ai partiti. Per la serie: con me non ci sarà alcun governo del presidente, tecnico oppure no.
Quando il lavoro fu avviato il quadro delle forze in campo era diverso da oggi: il Pd veniva accreditato di un possibile 25 per cento, i Cinquestelle non arrivavano al 30 e il centrodestra viaggiava alla solita altezza del 37. A distanza di quasi sei mesi da allora, il quadro si è completamente ribaltato: il Pd potrebbe crollare al 20, se non sotto; il M5S toccherà o sfonderà il tetto del 30; il centrodestra non schioda dal 37/38 ma nel frattempo ha cristalizzato le divisioni interne tra Silvio Berlusconi e il blocco fascioleghista di Salvini e Meloni.
Risultato: al Colle matura la sensazione che il voto del 4 marzo non consegnerà vincitori in una sorta di deriva tripolare che poi tanto tripolare non è per le citate fratture tra l’ex Cavaliere e il capo leghista. Nessuno quindi, tra i leader politici, dovrebbe avere il mazzo in mano per distribuire le carte. E qui sovviene il dossier sulle prassi seguite in passato al Colle nella formazione dei governi, un documento diventato corposo e meticoloso.
Punto di partenza, per sgombrare dal campo retroscena ed equivoci di oggi, il destino del governo di Paolo Gentiloni. Oggi l’esecutivo non è dimissionario e quindi è in carica per l’ordinaria amministrazione. Il 23 marzo, giorno d’insediamento delle Camere, al Colle danno per certo l’arrivo del premier per la fatidiche e dovute dimissioni. A quel punto sì che sarà un governo dimissionario in carica per “il disbrigo degli affari correnti”, in attesa dell’esito delle consultazioni di Mattarella con le delegazioni dei partiti.
Il metodo poi. E l’approccio, che partirà dalla fotografia del voto. Esaurita definitivamente la fase bipolarista della Seconda Repubblica (un vincitore e uno sconfitto), il Colle-arbitro dirigerà la partita come ai tempi del proporzionale della Prima Repubblica. Un mero dato di fatto: questa campagna elettorale sta confermando che ogni partito corre per prendere un voto più degli altri e il tema delle coalizioni è scomparso, a meno di non prendere per buona l’alleanza finta o bugiarda del centrodestra. Chiarito il quadro, Mattarella certificherà innanzitutto l’impossibilità di un “governo organico” sia formato dallo stesso centrodestra oppure da Pd e Forza Italia insieme, le cosiddette larghe intese. Questione di numeri, ovviamente.
A quel punto, il Colle riguarderà tre capitoli del dossier fatto preparare. Tre precedenti già sottolineati e vagliati in ogni aspetto. Obiettivo: varare comunque un esecutivo, pur su basi fragili, per poi sperare di sbloccare l’impasse e allargare la base della maggioranza. Il primo precedente è “il governo della non sfiducia” di Giulio Andreotti, votato nel 1976 (e preludio alla tragedia di Aldo Moro). Quel governo prevedeva un accordo tra le due grandi forze “nemiche” di allora: la Dc, da sempre al potere, e il Pci, che per la prima volta si astenne sulla fiducia. Collegato a questa formula nell’agenda del Colle c’è pure il governo Fanfani del 1960, basato sulle “convergenze parallele” morotee per la formazione del centro-sinistra. Due precedenti che presuppongono quindi un accordo tra partiti oggi avversari. Ed è qui che potrebbe entrare in gioco la forza parlamentare del M5S. Le combinazioni sono varie e Mattarella non ne escluderebbe nessuna: Pd al governo e astensione grillina, o viceversa; idem Pd e centrodestra. Qualora dovessero andare in porto la non sfiducia o le convergenze parallele, uno dei tre blocchi di media grandezza è destinato a rimanere fuori. Quale tra Pd, M5S e centrodestra?
Il terzo precedente storico è di mera transizione per poi andare allo scioglimento autunnale: “il governo balneare” o “di decantazione” di Giovanni Leone dopo le Politiche del 1963. Nel novero delle variabili potrebbe rientrare Paolo Gentiloni, investito pure di un’altra formula. Questa: verificata l’impossibilità di formare un governo, Mattarella potrebbe rinviare alle Camere l’attuale esecutivo. Ricevuta una scontata sfiducia, si avrebbe comunque un governo di minoranza per gli affari correnti e per portare il Paese al voto.
La transizione potrebbe però portare anche un cosiddetto “governo di scopo”, con l’obiettivo di fare la manovra economica e una nuova legge elettorale, magari con un accordo a tre fra Pd, 5 Stelle e Liberi e Uguali.
Questo è dunque il quadro tracciato al Colle in queste ore, a una settimana dal voto. E quelle che erano le preoccupazioni estive del Quirinale, e cioè una mancata tenuta del Pd, alla fine si stanno per rivelare giuste, a meno di clamorosi rovesciamenti di tendenza negli ultimi giorni giorni di campagna elettorale. Senza un governo di centrodestra o le larghe intese renzusconiane, la dinamica delle consultazioni metterà in gioco il M5S di Luigi Di Maio per varie formule. È questa la maggiore novità che emerge dall’analisi basata sul dossier confezionato per Mattarella. E non è poco.
il manifesto 24.2.18
Camusso: «L’Italia acquisisca gli anticorpi contro il fascismo»
La manifestazione di Roma. La segretaria Cgil: sciogliere i gruppi razzisti, ma una risposta si dà anche con politiche sociali che contrastino il disagio. È sbagliato mettere sullo stesso piano i cortei fascisti e quelli antifascisti: ma il movimento di reazione democratica deve essere pacifico. I Cinquestelle assenti? Sbagliato avere ambiguità su questi temi
di Antonio Sciotto
«Gli episodi di fascismo e di razzismo che stanno accadendo in diverse parti d’Italia, a partire dai fatti di Macerata, ci dicono che abbiamo bisogno di costruire un grande movimento antifascista. Le organizzazioni fasciste devono essere sciolte, ma nello stesso tempo la politica deve costruire un quadro di diritti e di garanzie sociali ed economiche per tutti i cittadini. È questo il miglior argine contro alcune forze politiche che tentano di guadagnare consenso scaricando il disagio sui migranti, in una guerra tra poveri che alimenta scontri e violenze». La segretaria generale della Cgil Susanna Camusso si prepara a partecipare, questo pomeriggio, alla manifestazione di Roma, indetta dalle 23 organizzazioni che hanno aderito all’appello Mai più fascismo, tra cui la stessa Cgil, Anpi, Arci, Libera.
Esiste un reale pericolo di ricostruzione del fascismo o forse lo scontro si sta alzando solo in vista delle elezioni?
Sicuramente la campagna elettorale amplifica, ma ritenere che i tanti episodi di aggressione e minaccia che stanno accadendo siano isolati o determinati solo dal fatto che siamo sotto elezioni è un errore. Non solo Macerata, ma possiamo citare il caso del Baobab di Roma di qualche giorno fa, i militanti di Forza Nuova intervenuti contro il presidio antifascista a Forlì, segnali che incrociati agli episodi di razzismo creano una miscela esplosiva. Che si alimenta sulla condizione di disagio sociale ed economico crescente tra i cittadini, a cui la politica con i continui tagli allo stato sociale e ai diritti del lavoro non ha dato risposta. Da qui il nostro appello, per contrastare uno sdoganamento del fascismo e del razzismo che non ha avuto per ora adeguata reazione. E la nostra richiesta di sciogliere le organizzazioni di stampo fascista, di non autorizzare le loro manifestazioni a tutti i livelli – dalle prefetture ai sindaci. L’Anpi aveva anche chiesto che questi partiti non potessero presentarsi alle elezioni, ma non è stata ascoltata.
A proposito di Macerata, come avete vissuto la scelta di ritirare – come organizzazione – la vostra partecipazione alla manifestazione del 10 febbraio? Comunque molti iscritti Cgil sono scesi in piazza.
L’abbiamo vissuta con sofferenza, ma abbiamo scelto di rispettare la sensibilità manifestata sia dalla Cgil locale che dalla comunità cittadina attraverso il sindaco. Istintivamente pensavo e pensavamo che dovesse essere proprio il territorio a dover respingere con immediatezza e forza quello che è accaduto. Poi nelle valutazioni ci metti anche il rispetto della tua organizzazione locale e delle istituzioni. Da qui la convinzione e una motivazione più forte a indire una grande manifestazione nazionale.
Gli scontri si moltiplicano, e le violenze si manifestano purtroppo da entrambi i lati della barricata: da Palermo a Perugia fino a Torino. Ma ha senso mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo?
Penso che un grande movimento antifascista sia pacifico: la violenza è sempre sbagliata. Bisogna pretendere con la forza della ragione e della legge che lo Stato faccia la sua parte. Quando l’interpretazione dell’appello del sindaco di Macerata è diventata «bisogna vietare tutte le manifestazioni», mettendole sullo stesso piano, io ho detto no non ci siamo. Ci sono manifestazioni che devono essere sempre vietate – quelle fasciste – e quelle che non devono essere vietate. Mettere tutto sullo stesso piano è sbagliato e dannoso, è lo stesso errore del revisionismo.
Il ministro Minniti ha detto che ha fermato gli sbarchi proprio perché aveva previsto un possibile Traini. Una soluzione può essere un diverso rapporto con l’immigrazione?
È un errore politico ritenere che sia la presenza dei migranti in sé a determinare queste reazioni, perché significa accettare l’idea che le diversità non possono coesistere . La politica, anziché dire che c’è la ripresa e tutto va bene, dovrebbe piuttosto affrontare l’alta disoccupazione, la precarietà e la povertà in crescita, l’impoverimento anche di chi lavora. Il disagio sociale tende purtroppo a scaricarsi su chi è diverso anche se sta male come te e quindi sui migranti. Allora per contrastare il rischio della guerra tra poveri, devi ricostruire politiche sociali e lavoro di qualità, ma parallelamente anche regole di certezza sulle migrazioni. Avere la forza di dire che ai rifugiati va salvata la vita e costruire politiche di accoglienza, sui migranti economici politiche di regolazione e governo dei flussi. Ma le leggi del nostro Paese hanno fatto il contrario, finora: con la Bossi-Fini bastava perdere il lavoro e subito si diventava un clandestino.
Tutti i partiti del centro-sinistra saranno in piazza con voi, la Lega evidentemente no, ma spicca anche l’assenza dei Cinquestelle. Vi preoccupa che una parte della politica non faccia propria la pregiudiziale dell’antifascismo?
Fa parte di quel problema generale che dicevo: acquisire gli anticorpi, l’esigenza di ricostruire una nuova cultura antifascista, che passa anche per le risposte date con uno stato sociale e un lavoro di qualità. La nostra manifestazione punta proprio a creare una cesura: non permettere che fascismo e razzismo siano sdoganati senza che nessuno reagisca. Al di là del quadro politico contingente e dell’esito delle elezioni. Se poi andiamo sul particolare, sì, mi preoccupa chi dice che il fascismo non c’è più perché è storia del passato. Non vedono quello che accade in Italia e in Europa? Mi preoccupa chi usa gli argomenti del razzismo per costruirsi una audience politica. Il comportamento che mi stupisce di più è quello dei Cinquestelle: mi sarei aspettata che aderissero fin dall’origine al nostro appello, è sbagliato avere in questo terreno delle ambiguità.
Un’ultima domanda che esula dal tema fascismo. Soddisfatti per la chiusura di tutti i contratti degli statali? Si diffonderà una nuova immagine di questi lavoratori?
Ci auguriamo di sì, anche perché non solo abbiamo rinnovato i contratti dopo quasi dieci anni di assenza, ma abbiamo anche riaffermato la centralità della contrattazione. La riforma Brunetta aveva tolto peso al contratto, e poi era partita la campagna sui «fannulloni». Certo, l’aumento che spuntiamo fa parte comunque di una stagione di crisi, ma è un inizio e presto ripartiremo con le nuove piattaforme. In sanità siamo riusciti a far rimuovere le deroghe ai riposi: una conquista non solo per i lavoratori, ma per la qualità che assicuri ai cittadini utenti.
Camusso: «L’Italia acquisisca gli anticorpi contro il fascismo»
La manifestazione di Roma. La segretaria Cgil: sciogliere i gruppi razzisti, ma una risposta si dà anche con politiche sociali che contrastino il disagio. È sbagliato mettere sullo stesso piano i cortei fascisti e quelli antifascisti: ma il movimento di reazione democratica deve essere pacifico. I Cinquestelle assenti? Sbagliato avere ambiguità su questi temi
di Antonio Sciotto
«Gli episodi di fascismo e di razzismo che stanno accadendo in diverse parti d’Italia, a partire dai fatti di Macerata, ci dicono che abbiamo bisogno di costruire un grande movimento antifascista. Le organizzazioni fasciste devono essere sciolte, ma nello stesso tempo la politica deve costruire un quadro di diritti e di garanzie sociali ed economiche per tutti i cittadini. È questo il miglior argine contro alcune forze politiche che tentano di guadagnare consenso scaricando il disagio sui migranti, in una guerra tra poveri che alimenta scontri e violenze». La segretaria generale della Cgil Susanna Camusso si prepara a partecipare, questo pomeriggio, alla manifestazione di Roma, indetta dalle 23 organizzazioni che hanno aderito all’appello Mai più fascismo, tra cui la stessa Cgil, Anpi, Arci, Libera.
Esiste un reale pericolo di ricostruzione del fascismo o forse lo scontro si sta alzando solo in vista delle elezioni?
Sicuramente la campagna elettorale amplifica, ma ritenere che i tanti episodi di aggressione e minaccia che stanno accadendo siano isolati o determinati solo dal fatto che siamo sotto elezioni è un errore. Non solo Macerata, ma possiamo citare il caso del Baobab di Roma di qualche giorno fa, i militanti di Forza Nuova intervenuti contro il presidio antifascista a Forlì, segnali che incrociati agli episodi di razzismo creano una miscela esplosiva. Che si alimenta sulla condizione di disagio sociale ed economico crescente tra i cittadini, a cui la politica con i continui tagli allo stato sociale e ai diritti del lavoro non ha dato risposta. Da qui il nostro appello, per contrastare uno sdoganamento del fascismo e del razzismo che non ha avuto per ora adeguata reazione. E la nostra richiesta di sciogliere le organizzazioni di stampo fascista, di non autorizzare le loro manifestazioni a tutti i livelli – dalle prefetture ai sindaci. L’Anpi aveva anche chiesto che questi partiti non potessero presentarsi alle elezioni, ma non è stata ascoltata.
A proposito di Macerata, come avete vissuto la scelta di ritirare – come organizzazione – la vostra partecipazione alla manifestazione del 10 febbraio? Comunque molti iscritti Cgil sono scesi in piazza.
L’abbiamo vissuta con sofferenza, ma abbiamo scelto di rispettare la sensibilità manifestata sia dalla Cgil locale che dalla comunità cittadina attraverso il sindaco. Istintivamente pensavo e pensavamo che dovesse essere proprio il territorio a dover respingere con immediatezza e forza quello che è accaduto. Poi nelle valutazioni ci metti anche il rispetto della tua organizzazione locale e delle istituzioni. Da qui la convinzione e una motivazione più forte a indire una grande manifestazione nazionale.
Gli scontri si moltiplicano, e le violenze si manifestano purtroppo da entrambi i lati della barricata: da Palermo a Perugia fino a Torino. Ma ha senso mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo?
Penso che un grande movimento antifascista sia pacifico: la violenza è sempre sbagliata. Bisogna pretendere con la forza della ragione e della legge che lo Stato faccia la sua parte. Quando l’interpretazione dell’appello del sindaco di Macerata è diventata «bisogna vietare tutte le manifestazioni», mettendole sullo stesso piano, io ho detto no non ci siamo. Ci sono manifestazioni che devono essere sempre vietate – quelle fasciste – e quelle che non devono essere vietate. Mettere tutto sullo stesso piano è sbagliato e dannoso, è lo stesso errore del revisionismo.
Il ministro Minniti ha detto che ha fermato gli sbarchi proprio perché aveva previsto un possibile Traini. Una soluzione può essere un diverso rapporto con l’immigrazione?
È un errore politico ritenere che sia la presenza dei migranti in sé a determinare queste reazioni, perché significa accettare l’idea che le diversità non possono coesistere . La politica, anziché dire che c’è la ripresa e tutto va bene, dovrebbe piuttosto affrontare l’alta disoccupazione, la precarietà e la povertà in crescita, l’impoverimento anche di chi lavora. Il disagio sociale tende purtroppo a scaricarsi su chi è diverso anche se sta male come te e quindi sui migranti. Allora per contrastare il rischio della guerra tra poveri, devi ricostruire politiche sociali e lavoro di qualità, ma parallelamente anche regole di certezza sulle migrazioni. Avere la forza di dire che ai rifugiati va salvata la vita e costruire politiche di accoglienza, sui migranti economici politiche di regolazione e governo dei flussi. Ma le leggi del nostro Paese hanno fatto il contrario, finora: con la Bossi-Fini bastava perdere il lavoro e subito si diventava un clandestino.
Tutti i partiti del centro-sinistra saranno in piazza con voi, la Lega evidentemente no, ma spicca anche l’assenza dei Cinquestelle. Vi preoccupa che una parte della politica non faccia propria la pregiudiziale dell’antifascismo?
Fa parte di quel problema generale che dicevo: acquisire gli anticorpi, l’esigenza di ricostruire una nuova cultura antifascista, che passa anche per le risposte date con uno stato sociale e un lavoro di qualità. La nostra manifestazione punta proprio a creare una cesura: non permettere che fascismo e razzismo siano sdoganati senza che nessuno reagisca. Al di là del quadro politico contingente e dell’esito delle elezioni. Se poi andiamo sul particolare, sì, mi preoccupa chi dice che il fascismo non c’è più perché è storia del passato. Non vedono quello che accade in Italia e in Europa? Mi preoccupa chi usa gli argomenti del razzismo per costruirsi una audience politica. Il comportamento che mi stupisce di più è quello dei Cinquestelle: mi sarei aspettata che aderissero fin dall’origine al nostro appello, è sbagliato avere in questo terreno delle ambiguità.
Un’ultima domanda che esula dal tema fascismo. Soddisfatti per la chiusura di tutti i contratti degli statali? Si diffonderà una nuova immagine di questi lavoratori?
Ci auguriamo di sì, anche perché non solo abbiamo rinnovato i contratti dopo quasi dieci anni di assenza, ma abbiamo anche riaffermato la centralità della contrattazione. La riforma Brunetta aveva tolto peso al contratto, e poi era partita la campagna sui «fannulloni». Certo, l’aumento che spuntiamo fa parte comunque di una stagione di crisi, ma è un inizio e presto ripartiremo con le nuove piattaforme. In sanità siamo riusciti a far rimuovere le deroghe ai riposi: una conquista non solo per i lavoratori, ma per la qualità che assicuri ai cittadini utenti.
il manifesto 24.2.18
L’antifascismo non è un’arma di propaganda
di Marco Revelli
L’Italia antifascista va in piazza oggi in un clima pesante. «Clima di violenza», recitano i media mainstream, falsando ancora una volta lo scenario, come se si trattasse di violenza simmetrica. Di opposte minoranze estremiste, ugualmente intolleranti, quando invece la violenza a cui si è assistito non solo in queste ultime settimane, ma negli ultimi mesi e negli ultimi anni è una violenza totalmente asimmetrica, distribuita lungo un rosario di intimidazioni, intrusioni, aggressioni sempre dalla stessa parte, per opera degli stessi gruppi, con le stesse divise, gli stessi rituali, gli stessi simboli e tatuaggi: Casa Pound e Forza nuova con i rispettivi indotti. E sempre col medesimo disegno politico: occupare parti di territorio fino a ieri off limits per l’estrema destra.
Periferie metropolitane e piccoli centri, aree in cui la marginalizzazione e il declassamento sociale hanno creato disagio e rabbia, con lo scopo “strategico” di diventare referenti politici di quel disagio e di quella rabbia.
Vicofaro, il 27 di agosto dello scorso anno. Roma, Tiburtino III, il 6 di settembre. Como, il 28 novembre. Sono solo le tappe principali di un percorso che culmina nell’atto estremo di terrorismo razzista a Macerata, il 3 febbraio. Dall’altra parte un solo episodio, quello di Palermo, che per odioso che possa essere considerato – ed è atto odioso il pestaggio di una persona legata, incompatibile con i valori dell’antifascismo quale che ne sia l’idea dei suoi autori -, non può certo mutare il profilo di un quadro politico estremamente preoccupante.
Per fortuna, c’è stato il 10 febbraio a Macerata: quei 30.000 che hanno capito da subito qual’era “la cosa giusta”.
E per fortuna c’è la mobilitazione di oggi, la piazza romana e le tante piazze italiane. Proprio perché pensiamo che minimizzare la minaccia di questa destra orribile e spudorata sia un atto suicida per una democrazia già lesionata. E restiamo convinti che dichiarare il fascismo “morto e sepolto”, come ha fatto il ministro di polizia Marco Minniti, o invitare a sdrammatizzare e abbassare i toni per non turbare una campagna elettorale in salita, sia prova di cinismo e irresponsabilità. Proprio perché sappiamo che dall’onda nera che attraversa l’Europa non è immune l’Italia, anzi! Proprio per questi motivi crediamo che ogni persona in più oggi in piazza sia una vittoria.
Non si tratta qui di rivendicare primogeniture, o giocare al frusto gioco del rinfacciamento. L’antifascismo non è un’arma leggera da portarsi nella battaglia elettorale per contendere qualche decimo di punto. Si tratta di saper vedere il pericolo che incombe. E quel pericolo è grande, inquietante, per certi versi inedito. Non stiamo oggi vivendo una riedizione in sedicesimo dei conflitti degli anni Settanta, quando le bande nere colpivano duro, al servizio di padroni più o meno occulti, di servizi deviati e di agenzie internazionali, ma non avevano un seguito di massa. Il neofascismo di oggi – ma forse sarebbe meglio chiamarlo neonazismo – intuisce (per ora), annusa e avverte un’opportunità nuova di un inedito radicamento “popolare”, per così dire. Di poter attingere a nuovi serbatoi dell’ira.
Dopo il 4 marzo non ci aspetta una tiepida primavera, piuttosto un gelido inverno fuori stagione. L’Europa ha già battuto il suo colpo. Nessuna franchigia prolungata. Un establishment europeo in via di dissoluzione e un’Unione dissestata nei suoi equilibri si preparano a riservare, a un’Italia attardata da un debito insostenibile, un trattamento forse non troppo diverso da quello imposto – nel silenzio di tutti – alla Grecia quasi tre anni or sono. Con una differenza sostanziale: che al governo là c’era saldamente una forza esplicitamente di sinistra come Syriza, che ha salvato il salvabile negli strati più fragili della popolazione, e ha costruito una solida barriera contro la sfida di Alba dorata (che è arretrata da allora).
Qui no, ci sarà o un governo debolissimo, o una destra tanto arrogante quanto divisa: le condizioni per una ulteriore depressione sociale di grandi dimensioni, che amplierà l’esercito della rabbia, del rancore e del risentimento. Alle promesse smodate della campagna elettorale non potrà che seguire la doccia fredda di un’ulteriore deprivazione, col seguito di senso di abbandono, tradimento, solitudine, spirito di vendetta da parte di chi avverte di essere sul versante sbagliato del piano inclinato. L’acqua ideale in cui si preparano a nuotare gli squali che del rancore e della frustrazione si alimentano.
Per questo è da considerare prova d’irresponsabilità grave la decisione del ministero dell’Interno di ammettere alle elezioni le formazioni esplicitamente ispirate al fascismo, contrariamente a quanto era accaduto, correttamente, per le regionali in Sicilia. E assume sempre più rilevanza politica programmatica la richiesta di una rapida, legittima, messa al bando di organizzazioni come Forza Nuova e Casa Pound , con la loro sola presenza, un fattore di disordine e di violenza.
L’antifascismo non è un’arma di propaganda
di Marco Revelli
L’Italia antifascista va in piazza oggi in un clima pesante. «Clima di violenza», recitano i media mainstream, falsando ancora una volta lo scenario, come se si trattasse di violenza simmetrica. Di opposte minoranze estremiste, ugualmente intolleranti, quando invece la violenza a cui si è assistito non solo in queste ultime settimane, ma negli ultimi mesi e negli ultimi anni è una violenza totalmente asimmetrica, distribuita lungo un rosario di intimidazioni, intrusioni, aggressioni sempre dalla stessa parte, per opera degli stessi gruppi, con le stesse divise, gli stessi rituali, gli stessi simboli e tatuaggi: Casa Pound e Forza nuova con i rispettivi indotti. E sempre col medesimo disegno politico: occupare parti di territorio fino a ieri off limits per l’estrema destra.
Periferie metropolitane e piccoli centri, aree in cui la marginalizzazione e il declassamento sociale hanno creato disagio e rabbia, con lo scopo “strategico” di diventare referenti politici di quel disagio e di quella rabbia.
Vicofaro, il 27 di agosto dello scorso anno. Roma, Tiburtino III, il 6 di settembre. Como, il 28 novembre. Sono solo le tappe principali di un percorso che culmina nell’atto estremo di terrorismo razzista a Macerata, il 3 febbraio. Dall’altra parte un solo episodio, quello di Palermo, che per odioso che possa essere considerato – ed è atto odioso il pestaggio di una persona legata, incompatibile con i valori dell’antifascismo quale che ne sia l’idea dei suoi autori -, non può certo mutare il profilo di un quadro politico estremamente preoccupante.
Per fortuna, c’è stato il 10 febbraio a Macerata: quei 30.000 che hanno capito da subito qual’era “la cosa giusta”.
E per fortuna c’è la mobilitazione di oggi, la piazza romana e le tante piazze italiane. Proprio perché pensiamo che minimizzare la minaccia di questa destra orribile e spudorata sia un atto suicida per una democrazia già lesionata. E restiamo convinti che dichiarare il fascismo “morto e sepolto”, come ha fatto il ministro di polizia Marco Minniti, o invitare a sdrammatizzare e abbassare i toni per non turbare una campagna elettorale in salita, sia prova di cinismo e irresponsabilità. Proprio perché sappiamo che dall’onda nera che attraversa l’Europa non è immune l’Italia, anzi! Proprio per questi motivi crediamo che ogni persona in più oggi in piazza sia una vittoria.
Non si tratta qui di rivendicare primogeniture, o giocare al frusto gioco del rinfacciamento. L’antifascismo non è un’arma leggera da portarsi nella battaglia elettorale per contendere qualche decimo di punto. Si tratta di saper vedere il pericolo che incombe. E quel pericolo è grande, inquietante, per certi versi inedito. Non stiamo oggi vivendo una riedizione in sedicesimo dei conflitti degli anni Settanta, quando le bande nere colpivano duro, al servizio di padroni più o meno occulti, di servizi deviati e di agenzie internazionali, ma non avevano un seguito di massa. Il neofascismo di oggi – ma forse sarebbe meglio chiamarlo neonazismo – intuisce (per ora), annusa e avverte un’opportunità nuova di un inedito radicamento “popolare”, per così dire. Di poter attingere a nuovi serbatoi dell’ira.
Dopo il 4 marzo non ci aspetta una tiepida primavera, piuttosto un gelido inverno fuori stagione. L’Europa ha già battuto il suo colpo. Nessuna franchigia prolungata. Un establishment europeo in via di dissoluzione e un’Unione dissestata nei suoi equilibri si preparano a riservare, a un’Italia attardata da un debito insostenibile, un trattamento forse non troppo diverso da quello imposto – nel silenzio di tutti – alla Grecia quasi tre anni or sono. Con una differenza sostanziale: che al governo là c’era saldamente una forza esplicitamente di sinistra come Syriza, che ha salvato il salvabile negli strati più fragili della popolazione, e ha costruito una solida barriera contro la sfida di Alba dorata (che è arretrata da allora).
Qui no, ci sarà o un governo debolissimo, o una destra tanto arrogante quanto divisa: le condizioni per una ulteriore depressione sociale di grandi dimensioni, che amplierà l’esercito della rabbia, del rancore e del risentimento. Alle promesse smodate della campagna elettorale non potrà che seguire la doccia fredda di un’ulteriore deprivazione, col seguito di senso di abbandono, tradimento, solitudine, spirito di vendetta da parte di chi avverte di essere sul versante sbagliato del piano inclinato. L’acqua ideale in cui si preparano a nuotare gli squali che del rancore e della frustrazione si alimentano.
Per questo è da considerare prova d’irresponsabilità grave la decisione del ministero dell’Interno di ammettere alle elezioni le formazioni esplicitamente ispirate al fascismo, contrariamente a quanto era accaduto, correttamente, per le regionali in Sicilia. E assume sempre più rilevanza politica programmatica la richiesta di una rapida, legittima, messa al bando di organizzazioni come Forza Nuova e Casa Pound , con la loro sola presenza, un fattore di disordine e di violenza.
il manifesto 24.2.18
Il Pd c’è ma ha paura dei fischi, sul palco solo l’Anpi e i ragazzi. Renzi farà solo un breve tratto del corteo, Gentiloni sotto il palco? Leu quasi al completo. Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
di Daniela Preziosi
«E’ stato tollerato troppo, è stato sdoganato troppo. La manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi” sarà una risposta a quanto sta succedendo in Italia e in Europa, ma anche l’inizio di un’altra stagione: stiamo già organizzando un 25 aprile in cento piazze, e così poi il 2 giugno, festa della Repubblica nel 70esimo della Costituzione, bisogna tornare a far sentire la presenza democratica e antifascista in tutte le città». Dalla sala macchine dell’Anpi Carlo Ghezzi racconta della risposta sorprendente, del superamento «degli obiettivi che molte città si erano date». E questo nonostante fischi il vento e infuri la bufera: fuor di metafora, sono annunciati Burian e la pioggia, ma i vecchi leoni (e le leonesse) che non si sono fatti fermare dal nazi-fascismo non capitolano di fronte al meteo.
GHEZZI ELENCA LE PRESENZE annunciate oggi a Roma al corteo che parte alle 13 e 30 da piazza della Repubblica e arriva alle 15 a piazza del Popolo. Lì un gruppo di ragazzi leggerà lettere di partigiani e brani delle leggi razziali. Verrà proiettato il messaggio video della senatrice a vita Liliana Segre. Sul palco nessun politico, il discorso finale sarà di Carla Nespoli, presidente dell’Anpi.
UNA VITA NEL SINDACATO, ora alla fondazione Di Vittorio e nel comitato nazionale dell’Anpi, Ghezzi è un dirigente realista non incline ai toni enfatici. Eppure l’elenco delle presenze è davvero lungo: decine di gonfaloni delle città, fra cui quelle di Milano, Napoli, e della città metropolitana di Roma. Ci sarà probabilmente anche quello di Macerata portato dal sindaco Carancini che due giorni fa ha ricevuto minacce contro i suoi figli. L’aria che tira nel paese è questa, e se il ministro dell’interno Marco Minniti si adopera per negare «l’escalation», non c’è da abbassare la guardia. Sfileranno anche le insegne della regione Toscana e della Regione Lazio. Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, ha aderito ma non ci sarà: il sabato è «giorno dedicato ritualmente alle attività di culto e preghiera».
LO STRISCIONE DI APERTURA sarà portato dai rappresentanti delle ventitré associazioni firmatarie dell’appello che chiede lo scioglimento delle organizzazioni ispirate al fascismo e lancia «un allarme democratico» per i crescenti fenomeni di xenofobia. In prima fila le associazioni della Resistenza (Anpi, Anppia, Aned, Fivl, Fiap), poi i sindacati confederali Cgil Cisl e Uil, Libera, Arci, Acli, Comitati Dossetti, Coordinamento democrazia costituzionale, Istituto Cervi, Uisp, Ars, Altra Europa, Articolo 21, Libertà e Giustizia.
IN MEZZO ALLE ASSOCIAZIONI, i quattro partiti firmatari dell’appello e che quindi dovrebbero darsi da fare – anche dopo la campagna elettorale – per lo scioglimento delle associazioni che si richiamano apertamente al fascismo: Pd, Liberi e Uguali, Prc e Pci (ex Pdci-Pcdi). Per il momento comunque la passerella «antifà» è assicurata. Il leader del Pd Matteo Renzi ha confermato la sua presenza. Al Nazareno programmano di farlo arrivare in un tratto finale del corteo, poco prima dell’arrivo. Si teme qualche fischio, non sarebbe un’immagine bella far circolare sulla rete e sulle tv a una settimana dal voto.
MA LA VERA STAR POLITICA del corteo potrebbe essere il premier Paolo Gentiloni. La sua presenza fino a ieri non era ancora confermata causa le perplessità del Viminale: la partecipazione a un evento del genere sarebbe un unicum, un evento ad alto tasso simbolico. Ma porrebbe molti problemi di sicurezza: in città ci sono altri quattro cortei e il livello di allarme è alto.
ANCHE SE LE «PIAZZE» considerate più a rischio sono altre: quella di Milano, dove contro la manifestazione della Lega e il comizio di Casapound ci sarà un corteo antifascista. E a Palermo dove arriva Roberto Fiore, leader di Forza nuova, dopo il pestaggio del suo capo locale: anche lì sono stato organizzate contro-manifestazioni. In fondo Roma è la città meno “calda” del week end. Il premier potrebbe arrivare sotto il palco di piazza del Popolo, a fine corteo.
QUASI AL COMPLETO LEU: ci sarà Bersani, Grasso, Laura Boldrini, Speranza e Fratoianni. Non D’Alema, che resta in Puglia per il finale della campagna elettorale. E neanche Civati: ieri è andato a Brescia a portare la sua vicinanza ai ragazzi del centro sociale Magazzino 47 alla cui biblioteca giovedì notte è stato dato fuoco. Civati oggi resta in città, dove del resto è candidato. Non ci sarà neanche Potere al popolo: a Roma manifesta contro la Legge Fornero e contro il jobs act e al mattino «processerà» con «una giuria popolare» la legge Fornero sulle pensioni alla Città dell’altra economia. E a Palermo e Milano nei cortei antifascisti di movimento.
Il Pd c’è ma ha paura dei fischi, sul palco solo l’Anpi e i ragazzi. Renzi farà solo un breve tratto del corteo, Gentiloni sotto il palco? Leu quasi al completo. Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
di Daniela Preziosi
«E’ stato tollerato troppo, è stato sdoganato troppo. La manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi” sarà una risposta a quanto sta succedendo in Italia e in Europa, ma anche l’inizio di un’altra stagione: stiamo già organizzando un 25 aprile in cento piazze, e così poi il 2 giugno, festa della Repubblica nel 70esimo della Costituzione, bisogna tornare a far sentire la presenza democratica e antifascista in tutte le città». Dalla sala macchine dell’Anpi Carlo Ghezzi racconta della risposta sorprendente, del superamento «degli obiettivi che molte città si erano date». E questo nonostante fischi il vento e infuri la bufera: fuor di metafora, sono annunciati Burian e la pioggia, ma i vecchi leoni (e le leonesse) che non si sono fatti fermare dal nazi-fascismo non capitolano di fronte al meteo.
GHEZZI ELENCA LE PRESENZE annunciate oggi a Roma al corteo che parte alle 13 e 30 da piazza della Repubblica e arriva alle 15 a piazza del Popolo. Lì un gruppo di ragazzi leggerà lettere di partigiani e brani delle leggi razziali. Verrà proiettato il messaggio video della senatrice a vita Liliana Segre. Sul palco nessun politico, il discorso finale sarà di Carla Nespoli, presidente dell’Anpi.
UNA VITA NEL SINDACATO, ora alla fondazione Di Vittorio e nel comitato nazionale dell’Anpi, Ghezzi è un dirigente realista non incline ai toni enfatici. Eppure l’elenco delle presenze è davvero lungo: decine di gonfaloni delle città, fra cui quelle di Milano, Napoli, e della città metropolitana di Roma. Ci sarà probabilmente anche quello di Macerata portato dal sindaco Carancini che due giorni fa ha ricevuto minacce contro i suoi figli. L’aria che tira nel paese è questa, e se il ministro dell’interno Marco Minniti si adopera per negare «l’escalation», non c’è da abbassare la guardia. Sfileranno anche le insegne della regione Toscana e della Regione Lazio. Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, ha aderito ma non ci sarà: il sabato è «giorno dedicato ritualmente alle attività di culto e preghiera».
LO STRISCIONE DI APERTURA sarà portato dai rappresentanti delle ventitré associazioni firmatarie dell’appello che chiede lo scioglimento delle organizzazioni ispirate al fascismo e lancia «un allarme democratico» per i crescenti fenomeni di xenofobia. In prima fila le associazioni della Resistenza (Anpi, Anppia, Aned, Fivl, Fiap), poi i sindacati confederali Cgil Cisl e Uil, Libera, Arci, Acli, Comitati Dossetti, Coordinamento democrazia costituzionale, Istituto Cervi, Uisp, Ars, Altra Europa, Articolo 21, Libertà e Giustizia.
IN MEZZO ALLE ASSOCIAZIONI, i quattro partiti firmatari dell’appello e che quindi dovrebbero darsi da fare – anche dopo la campagna elettorale – per lo scioglimento delle associazioni che si richiamano apertamente al fascismo: Pd, Liberi e Uguali, Prc e Pci (ex Pdci-Pcdi). Per il momento comunque la passerella «antifà» è assicurata. Il leader del Pd Matteo Renzi ha confermato la sua presenza. Al Nazareno programmano di farlo arrivare in un tratto finale del corteo, poco prima dell’arrivo. Si teme qualche fischio, non sarebbe un’immagine bella far circolare sulla rete e sulle tv a una settimana dal voto.
MA LA VERA STAR POLITICA del corteo potrebbe essere il premier Paolo Gentiloni. La sua presenza fino a ieri non era ancora confermata causa le perplessità del Viminale: la partecipazione a un evento del genere sarebbe un unicum, un evento ad alto tasso simbolico. Ma porrebbe molti problemi di sicurezza: in città ci sono altri quattro cortei e il livello di allarme è alto.
ANCHE SE LE «PIAZZE» considerate più a rischio sono altre: quella di Milano, dove contro la manifestazione della Lega e il comizio di Casapound ci sarà un corteo antifascista. E a Palermo dove arriva Roberto Fiore, leader di Forza nuova, dopo il pestaggio del suo capo locale: anche lì sono stato organizzate contro-manifestazioni. In fondo Roma è la città meno “calda” del week end. Il premier potrebbe arrivare sotto il palco di piazza del Popolo, a fine corteo.
QUASI AL COMPLETO LEU: ci sarà Bersani, Grasso, Laura Boldrini, Speranza e Fratoianni. Non D’Alema, che resta in Puglia per il finale della campagna elettorale. E neanche Civati: ieri è andato a Brescia a portare la sua vicinanza ai ragazzi del centro sociale Magazzino 47 alla cui biblioteca giovedì notte è stato dato fuoco. Civati oggi resta in città, dove del resto è candidato. Non ci sarà neanche Potere al popolo: a Roma manifesta contro la Legge Fornero e contro il jobs act e al mattino «processerà» con «una giuria popolare» la legge Fornero sulle pensioni alla Città dell’altra economia. E a Palermo e Milano nei cortei antifascisti di movimento.
La Stampa 24.2.18
Il ramo rosa dell’estrema destra sceglie per sé il modello militare
Sono il 30 per cento degli iscritti e partecipano a tutte le attività
Ma i temi di genere non hanno spazio sulla rivista del movimento
di Flavia Perina
In corteo Le foto sono state scattate durante il corteo in memoria delle vittime delle foibe a Roma, tenutosi lo scorso 10 febbraio. Secondo i dati di CasaPound, le donne sono il 30 per cento degli iscritti. Erano circa 6 mila nel 2017, secondo fonti non ufficiali triplicate negli ultimi mesi. Partecipano a tutte le attività, tranne l’affissione dei manifesti che è da sempre riservata solo agli uomini
La foto da guardare bene è quella in alto, con le ragazze al corteo in memoria delle foibe che stanno sull’attenti, senza saper bene dove mettere le mani: una stringe un libro, un’altra la borsa, tutte cercano la postura del soldato con risultati piuttosto goffi. Le donne di CasaPound, fra i tanti modelli femminili che la destra ha coltivato senza adottarne fino in fondo nessuno, si sono prese il più militaresco: quello delle Ausiliarie, il Corpo militare della contessa Piera Gatteschi nato nel ’44 per gestire assistenza sanitaria, mense, servizi d’ufficio e magazzini della Rsi. «Sì, sono loro l’esempio che scelgo» conferma Carlotta Chiaraluce, il volto più mediatico di Cpi, candidata e dirigente a Ostia. Forse non poteva essere altrimenti. In un mondo dove prevale l’estetica della disciplina sarebbe difficile immaginare l’assertività materna di Donna Rachele, l’ardore tragico di Claretta, la naturale leadership di Evita, l’abilità salottiera di Donna Assunta, per non parlare del protagonismo da amazzoni della Meloni, della Santanché, della Mussolini.
Quante sono, cosa pensano, perché sono lì queste signorine e queste signore? Secondo i dati forniti dal movimento sono donne il 30 per cento degli iscritti a Cpi (circa 6000 nel 2017, oggi il triplo, dicono fonti non ufficiali). Partecipano a tutte le attività, salvo l’affissione di manifesti che è riservata agli uomini. Questo perché CasaPound, come si afferma nei documenti ufficiali, «nell’articolazione dei singoli ruoli da attribuire in base al genere» rifiuta «la confusione». Ma c’è un No molto esplicito anche alla sottomissione: l’umiliazione della donna è definita un fattore «tipico del mondo contemporaneo, nei suoi due aspetti consumista e fondamentalista». La parola magica per indicare il rapporto ideale fra il mondo maschile e quello femminile è complementarietà, che pare resuscitata dai documenti della Nuova Destra degli Anni 70, e in particolare dalla rivista delle ragazze dei Campi Hobbit, Eowyn, peraltro inimmaginabili allineate in ranghi spartani (erano piuttosto scapigliate e casiniste, non molto diverse dalla loro controparte femminista).
Dunque, complementarietà. Si cerca la declinazione di questo termine nelle questioni che oggi fanno discutere le donne - l’utero in affitto, le teorie gender, il giudizio sulla prostituzione, le quote - sulle pagine di Primato Nazionale, la rivista del movimento, ma non c’è quasi niente. Pochissime anche le firme al femminile: nell’edizione cartacea ha una rubrica Chiara Del Fiacco, i suoi ultimi articoli sono un elogio delle sapienze contadine e un’invettiva contro Oprah Winfrey e «l’isteria femminista» del sistema-Hollywood.
La sensazione è che questo ramo rosa sia cosa recente, ancora un germoglio appena nato, e che la linea del movimento non abbia ancora preso atto delle questioni che porta con sè e della necessità di elaborarle oltre l’istintiva contrapposizione frontale con tutto ciò che si apparenta alla sinistra. «Sono all’inizio, magari col tempo...», dice Annalisa Terranova, che alla destra femminile ha dedicato uno dei pochi saggi in circolazione, Camicette Nere.
Il paradosso è che il mondo marziale di CasaPound deve proprio alle sue ragazze il primo e più importante sdoganamento, quello della satira, con la mitica Vichi di Casa Pound interpretata da Caterina Guzzanti che strillava «Ah zzecche» alla platea di RaiTre, mentre il suo fidanzato Tullio si rifugiava spaventato su un albero. Era simpatica, Vichi, e rese più umana un’area che all’epoca (era il 2012) ancora non si presentava alle elezioni, parlava di fascismo del Terzo Millennio e si situava su un crinale extra-parlamentare assai più accentuato di oggi. Chissà se sono grati alla Guzzanti i militanti di Cpi, chissà se si rendono conto delle potenzialità del «recinto delle ragazze» oltre il ruolo di portabandiera e di furiere.
Il ramo rosa dell’estrema destra sceglie per sé il modello militare
Sono il 30 per cento degli iscritti e partecipano a tutte le attività
Ma i temi di genere non hanno spazio sulla rivista del movimento
di Flavia Perina
In corteo Le foto sono state scattate durante il corteo in memoria delle vittime delle foibe a Roma, tenutosi lo scorso 10 febbraio. Secondo i dati di CasaPound, le donne sono il 30 per cento degli iscritti. Erano circa 6 mila nel 2017, secondo fonti non ufficiali triplicate negli ultimi mesi. Partecipano a tutte le attività, tranne l’affissione dei manifesti che è da sempre riservata solo agli uomini
La foto da guardare bene è quella in alto, con le ragazze al corteo in memoria delle foibe che stanno sull’attenti, senza saper bene dove mettere le mani: una stringe un libro, un’altra la borsa, tutte cercano la postura del soldato con risultati piuttosto goffi. Le donne di CasaPound, fra i tanti modelli femminili che la destra ha coltivato senza adottarne fino in fondo nessuno, si sono prese il più militaresco: quello delle Ausiliarie, il Corpo militare della contessa Piera Gatteschi nato nel ’44 per gestire assistenza sanitaria, mense, servizi d’ufficio e magazzini della Rsi. «Sì, sono loro l’esempio che scelgo» conferma Carlotta Chiaraluce, il volto più mediatico di Cpi, candidata e dirigente a Ostia. Forse non poteva essere altrimenti. In un mondo dove prevale l’estetica della disciplina sarebbe difficile immaginare l’assertività materna di Donna Rachele, l’ardore tragico di Claretta, la naturale leadership di Evita, l’abilità salottiera di Donna Assunta, per non parlare del protagonismo da amazzoni della Meloni, della Santanché, della Mussolini.
Quante sono, cosa pensano, perché sono lì queste signorine e queste signore? Secondo i dati forniti dal movimento sono donne il 30 per cento degli iscritti a Cpi (circa 6000 nel 2017, oggi il triplo, dicono fonti non ufficiali). Partecipano a tutte le attività, salvo l’affissione di manifesti che è riservata agli uomini. Questo perché CasaPound, come si afferma nei documenti ufficiali, «nell’articolazione dei singoli ruoli da attribuire in base al genere» rifiuta «la confusione». Ma c’è un No molto esplicito anche alla sottomissione: l’umiliazione della donna è definita un fattore «tipico del mondo contemporaneo, nei suoi due aspetti consumista e fondamentalista». La parola magica per indicare il rapporto ideale fra il mondo maschile e quello femminile è complementarietà, che pare resuscitata dai documenti della Nuova Destra degli Anni 70, e in particolare dalla rivista delle ragazze dei Campi Hobbit, Eowyn, peraltro inimmaginabili allineate in ranghi spartani (erano piuttosto scapigliate e casiniste, non molto diverse dalla loro controparte femminista).
Dunque, complementarietà. Si cerca la declinazione di questo termine nelle questioni che oggi fanno discutere le donne - l’utero in affitto, le teorie gender, il giudizio sulla prostituzione, le quote - sulle pagine di Primato Nazionale, la rivista del movimento, ma non c’è quasi niente. Pochissime anche le firme al femminile: nell’edizione cartacea ha una rubrica Chiara Del Fiacco, i suoi ultimi articoli sono un elogio delle sapienze contadine e un’invettiva contro Oprah Winfrey e «l’isteria femminista» del sistema-Hollywood.
La sensazione è che questo ramo rosa sia cosa recente, ancora un germoglio appena nato, e che la linea del movimento non abbia ancora preso atto delle questioni che porta con sè e della necessità di elaborarle oltre l’istintiva contrapposizione frontale con tutto ciò che si apparenta alla sinistra. «Sono all’inizio, magari col tempo...», dice Annalisa Terranova, che alla destra femminile ha dedicato uno dei pochi saggi in circolazione, Camicette Nere.
Il paradosso è che il mondo marziale di CasaPound deve proprio alle sue ragazze il primo e più importante sdoganamento, quello della satira, con la mitica Vichi di Casa Pound interpretata da Caterina Guzzanti che strillava «Ah zzecche» alla platea di RaiTre, mentre il suo fidanzato Tullio si rifugiava spaventato su un albero. Era simpatica, Vichi, e rese più umana un’area che all’epoca (era il 2012) ancora non si presentava alle elezioni, parlava di fascismo del Terzo Millennio e si situava su un crinale extra-parlamentare assai più accentuato di oggi. Chissà se sono grati alla Guzzanti i militanti di Cpi, chissà se si rendono conto delle potenzialità del «recinto delle ragazze» oltre il ruolo di portabandiera e di furiere.
La Stampa 24.2.18
Motti di Mussolini e saluti romani
Ma Facebook non censura il fascismo
Il social è una zona franca per le pagine nere: “Standard rispettati, non le togliamo”
di Filippo Femia
«Il contenuto rispetta gli standard della comunità». Facebook sembra ignorare la storia del fascismo e la legge italiana. Ospita una galassia di pagine nere, affollate da migliaia di messaggi ogni giorno. Bacheche che grondano odio, xenofobia e antisemitismo. Pagine che, sin da titolo e foto di copertina, inneggiano al fascismo. E inoltrare una segnalazione al social, spesso, non serve: «La pagina non viola la nostra policy», è la risposta.
Una ricerca dell’Anpi ha catalogato le pagine neofasciste, contandone 450. La black list risale allo scorso maggio e include alcune pagine rimosse, nel frattempo rimpiazzate da altre decine. I nemici? I soliti: «zecche comuniste», «ebrei maiali» e la casta dei politici. Immancabili, poi, i deliri sulla purezza della razza a rischio a causa dell’invasione di immigrati.
Con un finto profilo abbiamo seguito e segnalato 25 gruppi. In meno di 12 ore arriva la risposta di Facebook: quattro pagine vengono rimosse per incitamento all’odio. Negli altri casi il social ritiene che i contenuti «rispettano gli standard della nostra comunità». E suggerisce la soluzione: «Togli mi piace alla pagina». Un po’ come dire: voltati dall’altra parte e il problema sparisce. «Per rimuovere le pagine che inneggiano al fascismo - dice Laura Bononcini - serve una segnalazione alla polizia postale o all’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale, ndr). A quel punto procediamo». Ma è evidente che il meccanismo sia inadeguato, specie in un clima politico avvelenato come quello di questi giorni.
Ecco allora che ci si imbatte nel messaggio di Giulia, «guardate cos’ho nel giardino di casa. È originale», e la foto di una stele di marmo con un fascio littorio in rilievo. Il messaggio è accompagnato da due emoticon: un cuore nero e un braccio teso. Orazio, invece, pubblica una foto dove Mussolini «consiglia» Luca Traini, l’estremista di Macerata che ha sparato a sei nigeriani, senza far vittime: «Serve più mira», è il messaggio.
Ma come è possibile che il social più diffuso al mondo ospiti contenuti che fanno una chiara apologia di fascismo, inserita nel nostro codice penale dal 1952? «Non è prevista nella nostra policy, perché si tratta di una legge in vigore solo in Italia. La comunità di Facebook comprende quasi due miliardi di utenti, di culture e Paesi differenti: abbiamo dovuto adottare norme valide a livello globale», spiega Laura Bononcini, responsabile della policy di Facebook Italia.
Molte pagine nere, sin dal titolo, fanno chiara apologia di fascismo («Viva il duce»), inneggiano alla violenza («Istinto fascista: nel dubbio mena») o vendono cimeli fascisti («Duxstore.it»). Le più seguite hanno oltre 135 mila like. Al loro interno fioccano motti del Ventennio, cartoline nostalgiche del Duce e una miriade di selfie con il braccio teso. Nella carrellata c’è spazio anche per un bambino - definito «piccolo balilla» - che intona Faccetta nera.
Per la verità dopo il nostro colloquio telefonico con Facebook 24 pagine su 30 della lista nera dell’Anpi - le stesse che poche ore prima non violavano le regole della comunità - sono state rimosse. Una coincidenza? Difficile. Ciò che è indubbio è la rabbia degli utenti neofascisti. Nei gruppi superstiti gridano vendetta. «Qualche bastardo comunista ci ha segnalati», scrive uno; «ancora gruppi fascisti chiusi, è guerra», aggiunge un altro; «dopo il 4 marzo chiuderemo le loro bocche del cazzo», arriva a dire un terzo tra la pioggia di «a morte» e «diamogli fuoco».
Il cuore nero di Facebook pulsa anche nei gruppi chiusi, a cui si accede solo dopo una richiesta. Bisogna dimostrare la fede fascista e superare un test: «Quando è stata la marcia su Roma?», «quando è nato Mussolini?»
La costante di tutte le pagine neofasciste, che si promuovono tra loro come un network, sono le fake news a tema elettorale. La politica ha un certo peso: nel profilo di alcuni utenti appare il simbolo di CasaPound o Forza Nuova. Il bersaglio preferito sono gli immigrati. Molti fotomontaggi, alcuni tragicomici, addebitano loro tutti i guai dell’Italia con toni xenofobi e razzisti. Nei commenti piogge di insulti che incitano all’odio. Questi sì, segnalati, vengono rimossi quasi subito da Facebook.
Motti di Mussolini e saluti romani
Ma Facebook non censura il fascismo
Il social è una zona franca per le pagine nere: “Standard rispettati, non le togliamo”
di Filippo Femia
«Il contenuto rispetta gli standard della comunità». Facebook sembra ignorare la storia del fascismo e la legge italiana. Ospita una galassia di pagine nere, affollate da migliaia di messaggi ogni giorno. Bacheche che grondano odio, xenofobia e antisemitismo. Pagine che, sin da titolo e foto di copertina, inneggiano al fascismo. E inoltrare una segnalazione al social, spesso, non serve: «La pagina non viola la nostra policy», è la risposta.
Una ricerca dell’Anpi ha catalogato le pagine neofasciste, contandone 450. La black list risale allo scorso maggio e include alcune pagine rimosse, nel frattempo rimpiazzate da altre decine. I nemici? I soliti: «zecche comuniste», «ebrei maiali» e la casta dei politici. Immancabili, poi, i deliri sulla purezza della razza a rischio a causa dell’invasione di immigrati.
Con un finto profilo abbiamo seguito e segnalato 25 gruppi. In meno di 12 ore arriva la risposta di Facebook: quattro pagine vengono rimosse per incitamento all’odio. Negli altri casi il social ritiene che i contenuti «rispettano gli standard della nostra comunità». E suggerisce la soluzione: «Togli mi piace alla pagina». Un po’ come dire: voltati dall’altra parte e il problema sparisce. «Per rimuovere le pagine che inneggiano al fascismo - dice Laura Bononcini - serve una segnalazione alla polizia postale o all’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale, ndr). A quel punto procediamo». Ma è evidente che il meccanismo sia inadeguato, specie in un clima politico avvelenato come quello di questi giorni.
Ecco allora che ci si imbatte nel messaggio di Giulia, «guardate cos’ho nel giardino di casa. È originale», e la foto di una stele di marmo con un fascio littorio in rilievo. Il messaggio è accompagnato da due emoticon: un cuore nero e un braccio teso. Orazio, invece, pubblica una foto dove Mussolini «consiglia» Luca Traini, l’estremista di Macerata che ha sparato a sei nigeriani, senza far vittime: «Serve più mira», è il messaggio.
Ma come è possibile che il social più diffuso al mondo ospiti contenuti che fanno una chiara apologia di fascismo, inserita nel nostro codice penale dal 1952? «Non è prevista nella nostra policy, perché si tratta di una legge in vigore solo in Italia. La comunità di Facebook comprende quasi due miliardi di utenti, di culture e Paesi differenti: abbiamo dovuto adottare norme valide a livello globale», spiega Laura Bononcini, responsabile della policy di Facebook Italia.
Molte pagine nere, sin dal titolo, fanno chiara apologia di fascismo («Viva il duce»), inneggiano alla violenza («Istinto fascista: nel dubbio mena») o vendono cimeli fascisti («Duxstore.it»). Le più seguite hanno oltre 135 mila like. Al loro interno fioccano motti del Ventennio, cartoline nostalgiche del Duce e una miriade di selfie con il braccio teso. Nella carrellata c’è spazio anche per un bambino - definito «piccolo balilla» - che intona Faccetta nera.
Per la verità dopo il nostro colloquio telefonico con Facebook 24 pagine su 30 della lista nera dell’Anpi - le stesse che poche ore prima non violavano le regole della comunità - sono state rimosse. Una coincidenza? Difficile. Ciò che è indubbio è la rabbia degli utenti neofascisti. Nei gruppi superstiti gridano vendetta. «Qualche bastardo comunista ci ha segnalati», scrive uno; «ancora gruppi fascisti chiusi, è guerra», aggiunge un altro; «dopo il 4 marzo chiuderemo le loro bocche del cazzo», arriva a dire un terzo tra la pioggia di «a morte» e «diamogli fuoco».
Il cuore nero di Facebook pulsa anche nei gruppi chiusi, a cui si accede solo dopo una richiesta. Bisogna dimostrare la fede fascista e superare un test: «Quando è stata la marcia su Roma?», «quando è nato Mussolini?»
La costante di tutte le pagine neofasciste, che si promuovono tra loro come un network, sono le fake news a tema elettorale. La politica ha un certo peso: nel profilo di alcuni utenti appare il simbolo di CasaPound o Forza Nuova. Il bersaglio preferito sono gli immigrati. Molti fotomontaggi, alcuni tragicomici, addebitano loro tutti i guai dell’Italia con toni xenofobi e razzisti. Nei commenti piogge di insulti che incitano all’odio. Questi sì, segnalati, vengono rimossi quasi subito da Facebook.
Il Fatto 24.2.18
Perché l’astensione preoccupa i padroni
di Massimo Fini
In vista della fatidica data del 4 marzo Peter Gomez ha pubblicato un interessante libretto, Il vecchio che avanza, che è una sorta di “avviso ai naviganti” per un voto se non “utile” almeno consapevole, mentre si moltiplicano gli inviti, istituzionali e non, anche larvatamente minacciosi, a recarsi alle urne come sacro diritto/dovere del cittadino democratico.
Ma cosa sia la democrazia, e in che senso si differenzi da qualsiasi altro sistema di potere nessuno ce lo spiega, dandolo per scontato.
Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava già Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Evidentemente noi contemporanei questa capacità di riflessione l’abbiamo perduta e che ci sia un potere sopra le nostre teste lo diamo come irreversibile, ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer.
I Nuer sono un popolo nilotico che vive, o meglio viveva, nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “È impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza… Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza… Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”.
Così li descrive l’antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Non proprio. Si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l’equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l’Africa stessa.
Queste società erano riuscite a coniugare libertà e uguaglianza, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Il fatto è che i Nuer, o tutte le società consimili, pensano, proprio come Locke uno dei padri della democrazia liberale, che gli uomini nascano, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ma questo nel mondo liberale o marxista non è mai avvenuto e tuttora non è.
Il nocciolo della questione è che nessun potere, qualsiasi potere, è legittimo. Si tratta solo di finzioni. Conviene Stuart Mill: “Il potere stesso è illegittimo, il miglior governo non ha più diritti del peggiore”. Nessun potere è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, del tutto arbitrario.
Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso. Ma nell’Italia democratica, e anche in molte altre democrazie occidentali, questa credibilità è venuta meno in fasce sempre più larghe della popolazione.
Da qui il fenomeno crescente dell’astensione che preoccupa i “padroni del vapore”, in particolare i partiti, perché capiscono benissimo che se si estendesse ulteriormente la sarebbe finita una volta per tutte col loro potere illegittimo e prevaricatorio. E noi torneremmo a essere liberi, indipendenti e uguali. Come i Nuer.
Perché l’astensione preoccupa i padroni
di Massimo Fini
In vista della fatidica data del 4 marzo Peter Gomez ha pubblicato un interessante libretto, Il vecchio che avanza, che è una sorta di “avviso ai naviganti” per un voto se non “utile” almeno consapevole, mentre si moltiplicano gli inviti, istituzionali e non, anche larvatamente minacciosi, a recarsi alle urne come sacro diritto/dovere del cittadino democratico.
Ma cosa sia la democrazia, e in che senso si differenzi da qualsiasi altro sistema di potere nessuno ce lo spiega, dandolo per scontato.
Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava già Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Evidentemente noi contemporanei questa capacità di riflessione l’abbiamo perduta e che ci sia un potere sopra le nostre teste lo diamo come irreversibile, ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer.
I Nuer sono un popolo nilotico che vive, o meglio viveva, nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “È impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza… Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza… Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”.
Così li descrive l’antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Non proprio. Si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l’equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l’Africa stessa.
Queste società erano riuscite a coniugare libertà e uguaglianza, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Il fatto è che i Nuer, o tutte le società consimili, pensano, proprio come Locke uno dei padri della democrazia liberale, che gli uomini nascano, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ma questo nel mondo liberale o marxista non è mai avvenuto e tuttora non è.
Il nocciolo della questione è che nessun potere, qualsiasi potere, è legittimo. Si tratta solo di finzioni. Conviene Stuart Mill: “Il potere stesso è illegittimo, il miglior governo non ha più diritti del peggiore”. Nessun potere è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, del tutto arbitrario.
Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso. Ma nell’Italia democratica, e anche in molte altre democrazie occidentali, questa credibilità è venuta meno in fasce sempre più larghe della popolazione.
Da qui il fenomeno crescente dell’astensione che preoccupa i “padroni del vapore”, in particolare i partiti, perché capiscono benissimo che se si estendesse ulteriormente la sarebbe finita una volta per tutte col loro potere illegittimo e prevaricatorio. E noi torneremmo a essere liberi, indipendenti e uguali. Come i Nuer.
Ex teorico “operaista” negli anni Settanta, dopo aver scritto “Operai
e capitale” ed essere stato a lungo un punto di riferimento della
sinistra radicale, convertitosi al cattolicesimo, divenne il più
fanatico di quelli che furono allora indicati come i “marxisti
ratzingheriani”, oggi supporter entusiasti di Bergoglio.
Repubblica 24.2.18
Intervista a Mario Tronti
“L’antipolitica che fregatura. Ha coperto le colpe dei padroni”
di Concetto Vecchio
Senatore uscente del Pd
Mario Tronti, 86 anni, filosofo, è stato uno dei protagonisti del ‘68 italiano. Militante del Pci, fece parte del comitato centrale. Negli anni Sessanta con Raniero Panzieri ha fondato la rivista “Quaderni Rossi”. Nel 2013 è stato eletto in Senato nel Pd. Non si ricandida
ROMA «In questi anni passati in Parlamento ho capito che la crisi della politica è una cosa molto seria», dice Mario Tronti, 86 anni, nel suo studio di fronte al Senato. La sua avventura nel Palazzo è finita. Cinquant’anni dopo il ’68, di cui fu uno dei protagonisti, come teorico dell’operaismo, la sinistra appare divisa come non mai e il fascismo è tornato di attualità.
Per chi voterà?
«Per il governo Gentiloni. Se il Pd chiedesse agli elettori: siete a favore o contro Gentiloni, crescerebbe di molti punti. Non vedo alternative di eguale qualità: ho apprezzato Minniti, Orlando, Padoan. Anche Calenda, quando parla, sa quel che dice».
Lei però è entrato in Parlamento grazie a Bersani.
«Sì, restano i miei compagni, ma la scissione è stata un errore.
Bisogna sempre stare dove sta la forza maggiore, provare a orientarla dall’interno».
Perché la sinistra è messa così male?
«Una delle colpe è stata quella di non aver combattuto l’antipolitica come nemico principale».
Può spiegarsi meglio?
«Vede, l’antipolitica è stata un’operazione gestita essenzialmente dall’alto che infatti ha messo a riparo dalle critiche i padroni, il grande capitale, mentre la classe politica è stata trasformata nella destinataria di tutte le collere popolari. È capitato anche a me, uscendo dal Senato, di essere investito da insulti per il solo fatto di essere un parlamentare».
La gente però non crede più ai partiti. Si può avere fiducia in organismi che sono tutt’al più dei comitati elettorali?
«Ma restano il canale più corretto per selezionare il ceto politico: nella prossima legislatura bisognerà mettere mano a questo tema, a partire dall’articolo 49 della Costituzione».
C’è in Italia un problema di classe dirigente?
«Sì. Non ci sono più i canali tradizionali, che erano i partiti e il Parlamento, adesso il ceto politico viene selezionato dagli umori della piazza o dai capricci del capo».
Lei vive in periferia. Che umori coglie?
«Gli ultimi sono sempre più abbandonati a se stessi, ma anche i penultimi. Non ho nulla contro la politica dei diritti, ma al Laurentino 38 non sanno che farsene, perché lì hanno dei bisogni molto più urgenti».
Per chi votano al Laurentino 38?
«Un tempo per la destra, soprattutto An, ora in massa Cinquestelle e centrodestra. Qui il Pd non ha alcuna presa politica».
I Cinquestelle restano i grandi favoriti nonostante Rimborsopoli. È stupito?
«Mah, seguo la vicenda distrattamente».
L’ha detto anche Sergio Zavoli.
«È un uomo saggio».
Ma che giudizio politico dà del M5S?
«Se andassero al governo sarebbe un disastro per il Paese.
Cavalcano la rabbia, senza trasformarla in politica. Ma la cosa che temo di più è un’eventuale alleanza con la Lega. Speriamo di salvarci da questa deriva ultima dell’anomalia italiana».
È preoccupato del ritorno del neofascismo?
«Come tutti, ma penso anche che non bisogna sopravvalutare il fenomeno. Va evitato lo scontro tra minoranze armate».
Sarà in piazza oggi?
«Sì, è la risposta giusta».
La campagna elettorale si gioca sul tema dell’immigrazione. Il Pd rincorre la destra?
«È un problema che non si risolve con gli appelli del Papa, né ideologicamente, dicendo: “Accogliamoli tutti”. Chi lo dice spesso vive in quartieri dove gli immigrati in carne e ossa non si vedono mai. Nelle periferie invece l’immigrato è quello della porta accanto, ed è percepito talvolta come un problema reale. Temono la microcriminalità o di perdere il posto di lavoro».
Il fatto che il Pd sia forte soprattutto nei quartieri benestanti distorce la sua visuale?
«Sì, perché non capisce che la persona che fatica ad arrivare alla fine del mese non può aprire le braccia a chiunque».
Il Pci invece era popolare.
Poi cos’è successo?
«La sinistra ha smarrito la sensibilità di capire quello che vive e pensa la persona comune.
Non coglie più il disagio delle persone. E lo paga, perdendo consenso».
Vede in Italia un rischio autoritario?
«No, quello no. I veri pericoli piuttosto vengono dal basso, da questo rancore sordo, incapace di ascoltare, un umor nero che rischia di travolgere tutto».
L’astensionismo sarà il primo partito?
«Non saprei. Però nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro bisognerebbe distribuire in milioni di copie l’articolo del giovane Gramsci: “Odio gli indifferenti”. I giovani contano poco perché sono sempre di meno, ma devono capire che la politica non è quella cosa sporca descritta in questi anni: la politica è lo strumento per cambiare le cose».
Repubblica 24.2.18
Intervista a Mario Tronti
“L’antipolitica che fregatura. Ha coperto le colpe dei padroni”
di Concetto Vecchio
Senatore uscente del Pd
Mario Tronti, 86 anni, filosofo, è stato uno dei protagonisti del ‘68 italiano. Militante del Pci, fece parte del comitato centrale. Negli anni Sessanta con Raniero Panzieri ha fondato la rivista “Quaderni Rossi”. Nel 2013 è stato eletto in Senato nel Pd. Non si ricandida
ROMA «In questi anni passati in Parlamento ho capito che la crisi della politica è una cosa molto seria», dice Mario Tronti, 86 anni, nel suo studio di fronte al Senato. La sua avventura nel Palazzo è finita. Cinquant’anni dopo il ’68, di cui fu uno dei protagonisti, come teorico dell’operaismo, la sinistra appare divisa come non mai e il fascismo è tornato di attualità.
Per chi voterà?
«Per il governo Gentiloni. Se il Pd chiedesse agli elettori: siete a favore o contro Gentiloni, crescerebbe di molti punti. Non vedo alternative di eguale qualità: ho apprezzato Minniti, Orlando, Padoan. Anche Calenda, quando parla, sa quel che dice».
Lei però è entrato in Parlamento grazie a Bersani.
«Sì, restano i miei compagni, ma la scissione è stata un errore.
Bisogna sempre stare dove sta la forza maggiore, provare a orientarla dall’interno».
Perché la sinistra è messa così male?
«Una delle colpe è stata quella di non aver combattuto l’antipolitica come nemico principale».
Può spiegarsi meglio?
«Vede, l’antipolitica è stata un’operazione gestita essenzialmente dall’alto che infatti ha messo a riparo dalle critiche i padroni, il grande capitale, mentre la classe politica è stata trasformata nella destinataria di tutte le collere popolari. È capitato anche a me, uscendo dal Senato, di essere investito da insulti per il solo fatto di essere un parlamentare».
La gente però non crede più ai partiti. Si può avere fiducia in organismi che sono tutt’al più dei comitati elettorali?
«Ma restano il canale più corretto per selezionare il ceto politico: nella prossima legislatura bisognerà mettere mano a questo tema, a partire dall’articolo 49 della Costituzione».
C’è in Italia un problema di classe dirigente?
«Sì. Non ci sono più i canali tradizionali, che erano i partiti e il Parlamento, adesso il ceto politico viene selezionato dagli umori della piazza o dai capricci del capo».
Lei vive in periferia. Che umori coglie?
«Gli ultimi sono sempre più abbandonati a se stessi, ma anche i penultimi. Non ho nulla contro la politica dei diritti, ma al Laurentino 38 non sanno che farsene, perché lì hanno dei bisogni molto più urgenti».
Per chi votano al Laurentino 38?
«Un tempo per la destra, soprattutto An, ora in massa Cinquestelle e centrodestra. Qui il Pd non ha alcuna presa politica».
I Cinquestelle restano i grandi favoriti nonostante Rimborsopoli. È stupito?
«Mah, seguo la vicenda distrattamente».
L’ha detto anche Sergio Zavoli.
«È un uomo saggio».
Ma che giudizio politico dà del M5S?
«Se andassero al governo sarebbe un disastro per il Paese.
Cavalcano la rabbia, senza trasformarla in politica. Ma la cosa che temo di più è un’eventuale alleanza con la Lega. Speriamo di salvarci da questa deriva ultima dell’anomalia italiana».
È preoccupato del ritorno del neofascismo?
«Come tutti, ma penso anche che non bisogna sopravvalutare il fenomeno. Va evitato lo scontro tra minoranze armate».
Sarà in piazza oggi?
«Sì, è la risposta giusta».
La campagna elettorale si gioca sul tema dell’immigrazione. Il Pd rincorre la destra?
«È un problema che non si risolve con gli appelli del Papa, né ideologicamente, dicendo: “Accogliamoli tutti”. Chi lo dice spesso vive in quartieri dove gli immigrati in carne e ossa non si vedono mai. Nelle periferie invece l’immigrato è quello della porta accanto, ed è percepito talvolta come un problema reale. Temono la microcriminalità o di perdere il posto di lavoro».
Il fatto che il Pd sia forte soprattutto nei quartieri benestanti distorce la sua visuale?
«Sì, perché non capisce che la persona che fatica ad arrivare alla fine del mese non può aprire le braccia a chiunque».
Il Pci invece era popolare.
Poi cos’è successo?
«La sinistra ha smarrito la sensibilità di capire quello che vive e pensa la persona comune.
Non coglie più il disagio delle persone. E lo paga, perdendo consenso».
Vede in Italia un rischio autoritario?
«No, quello no. I veri pericoli piuttosto vengono dal basso, da questo rancore sordo, incapace di ascoltare, un umor nero che rischia di travolgere tutto».
L’astensionismo sarà il primo partito?
«Non saprei. Però nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro bisognerebbe distribuire in milioni di copie l’articolo del giovane Gramsci: “Odio gli indifferenti”. I giovani contano poco perché sono sempre di meno, ma devono capire che la politica non è quella cosa sporca descritta in questi anni: la politica è lo strumento per cambiare le cose».
La Stampa TuttoLibri 24.2.18
Dal sangue di Gennaro al prepuzio di Gesù:
il corpo dei santi moltiplica fede e miracoli
Una guida quasi turistica alle reliquie conservate nel nostro Paese fra ritrovamenti, furti, ostensioni. E qualche doppione di troppo
di Alberto Mattioli
Corpi interi o a pezzi. Disseppelliti, ritrovati, trafugati, traslati, inumati, imbalsamati, mummificati. E poi smembrati, divisi, moltiplicati: dita, mani, gambe, piedi, teste, lingue, cuori. Ma anche, per esempio, il prepuzio di Cristo. Corpi miracolosi, adorati, pregati, invocati, baciati. Reliquie offerte alla devozione dei fedeli, al business dei mercanti, all’incredulità degli scettici, all’ironia degli illuministi, alla curiosità di tutti. Reliquie di prima classe, quelle provenienti direttamente dal corpo del santo, «ex ossibus, ex carne, ex praecordis, ex piliis, ex cineribus, ex tela imbuta sanguine», oppure di seconda, diciamo così, «indirette»: gli abiti, il cilicio, la polvere grattata dal sepolcro, la manna stillata dalle ossa, l’olio della lampada votiva e così via. Fino ai sandali di Gesù, alla Sacra Culla, alle lenticchie dell’Ultima Cena, alla spugna imbevuta d’aceto della Crocifissione.
Ecco un saggio di Marco Orletti che è una delizia dall’inizio alla fine, per credenti e non. Guida alle reliquie miracolose d’Italia è un vademecum per orientarsi fra queste testimonianze, vere o presunte, del Sacro. Un Sacro tutt’altro che trascendente, anzi a portata di vista, di tocco, di bacio. Una religiosità prêt-à-porter, per tutti i san Tommaso che non credono se non vedono.
Appunto: crederci o non crederci? Orletti è moderatamente scettico, talvolta ironico, mai irrispettoso. Certo, non rinuncia a rilevare contraddizioni anche clamorose. I denti di sant’Apollonia sono così numerosi che quando Paolo VI ordinò di raccogliere tutti quelli sparsi per l’Italia riempirono una cassetta di tre chili e mezzo.
Il Santissimo Prepuzio di Gesù (discusso, però: dal 3 febbraio 1900, un decreto della Congregazione per la Dottrina della fede «vieta a chiunque di scrivere o parlare della reliquia») sarebbe conservato a Calcata, 906 abitanti in provincia di Viterbo. Ma in giro per l’Europa ce ne sono almeno altri dodici. Per la precisione, a Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Metz, Hildesheim, Conques, Langres, Fécamp, Puy-en-Velay, Coulombs, Charroux e Anversa. Dopo i pani e i pesci, la moltiplicazione dei prepuzi. Che dire se non: miracolo!
Ci sono anche personaggi dubbi. San Giorgio (il cranio è a Roma, un braccio a Brindisi, una mano a Varzi, e una costola del drago che avrebbe ucciso ad Almenno) forse non è mai esistito, e infatti la Chiesa lo ha declassato a «memoria facoltativa». Santa Barbara (il corpo è a Burano, la testa a Montecatini, ma senza una mandibola che si trova a Pisa. Però una mammella ce l’hanno gli ortodossi, a Novgorod) non è documentata storicamente. I tre Re Magi (reliquie estradate dal Barbarossa da Milano a Colonia, ma due fibule, una vertebra e una tibia sono ancora a Milano) forse non erano tre e forse non erano nemmeno Re.
Compaiono, ovviamente, tutte le reliquie più famose, a cominciare dalla Sindone, dalla lingua di sant’Antonio (celebre predicatore quindi, come dire, era il suo strumento di lavoro) e dal sangue di san Gennaro. Altre sono più oscure, come la goccia del Sacro Latte della Vergine conservata a Montevarchi o il Sacro Capello, sempre della Madonna, tuttora portato in processione a Palmi.
In ogni caso, l’aneddoto più divertente benché volgarissimo, da film di Pierino con Alvaro Vitali, riguarda san Gengolfo martire, poco popolare in Italia ma assai venerato in Francia e nell’Europa del Nord: del resto, era borgognone. Però nella ricchissima collezione conservata a Torino, in santa Maria Ausiliatrice, così ben provvista che fino a qualche tempo fa si esibiva alla venerazione dei fedeli una «reliquia del giorno», tipo l’analogo piatto in trattoria, c’è anche un frammento del suo corpo. Gengolfo è il patrono dei malmaritati, viste le sue disavventure coniugali con una moglie che, informa Orletti, «non aveva molta simpatia per il marito e lo considerava un idiota», mentre lui la sopportava, è il caso di dirlo, con santa pazienza. L’aneddoto riguarda appunto questa Santippe. Saputo che sulla tomba del marito si verificavano miracoli a ripetizione, la (poco) gentildonna esclamò: «Gengolfo fa miracoli? Sì, come il mio culo». E qui se ne verificò subito un altro. Lasciamo la parola all’autore: «Tanto cinismo le si ritorce contro: appena pronunciate queste parole, si sente una gran scoreggia. Così, ogni volta che la donna apre bocca, si sente una scoreggia. E non solo quel giorno, che è un venerdì, ma tutti i venerdì a venire: una squallida e fragorosa fanfara, per dirla con le parole di Roswitha di Gandersheim», autrice appunto, nel X secolo, di un Martirio di san Gengolfo.
In effetti, quanto a martirio di peggio non ci sono che certi matrimoni.
Dal sangue di Gennaro al prepuzio di Gesù:
il corpo dei santi moltiplica fede e miracoli
Una guida quasi turistica alle reliquie conservate nel nostro Paese fra ritrovamenti, furti, ostensioni. E qualche doppione di troppo
di Alberto Mattioli
Corpi interi o a pezzi. Disseppelliti, ritrovati, trafugati, traslati, inumati, imbalsamati, mummificati. E poi smembrati, divisi, moltiplicati: dita, mani, gambe, piedi, teste, lingue, cuori. Ma anche, per esempio, il prepuzio di Cristo. Corpi miracolosi, adorati, pregati, invocati, baciati. Reliquie offerte alla devozione dei fedeli, al business dei mercanti, all’incredulità degli scettici, all’ironia degli illuministi, alla curiosità di tutti. Reliquie di prima classe, quelle provenienti direttamente dal corpo del santo, «ex ossibus, ex carne, ex praecordis, ex piliis, ex cineribus, ex tela imbuta sanguine», oppure di seconda, diciamo così, «indirette»: gli abiti, il cilicio, la polvere grattata dal sepolcro, la manna stillata dalle ossa, l’olio della lampada votiva e così via. Fino ai sandali di Gesù, alla Sacra Culla, alle lenticchie dell’Ultima Cena, alla spugna imbevuta d’aceto della Crocifissione.
Ecco un saggio di Marco Orletti che è una delizia dall’inizio alla fine, per credenti e non. Guida alle reliquie miracolose d’Italia è un vademecum per orientarsi fra queste testimonianze, vere o presunte, del Sacro. Un Sacro tutt’altro che trascendente, anzi a portata di vista, di tocco, di bacio. Una religiosità prêt-à-porter, per tutti i san Tommaso che non credono se non vedono.
Appunto: crederci o non crederci? Orletti è moderatamente scettico, talvolta ironico, mai irrispettoso. Certo, non rinuncia a rilevare contraddizioni anche clamorose. I denti di sant’Apollonia sono così numerosi che quando Paolo VI ordinò di raccogliere tutti quelli sparsi per l’Italia riempirono una cassetta di tre chili e mezzo.
Il Santissimo Prepuzio di Gesù (discusso, però: dal 3 febbraio 1900, un decreto della Congregazione per la Dottrina della fede «vieta a chiunque di scrivere o parlare della reliquia») sarebbe conservato a Calcata, 906 abitanti in provincia di Viterbo. Ma in giro per l’Europa ce ne sono almeno altri dodici. Per la precisione, a Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Metz, Hildesheim, Conques, Langres, Fécamp, Puy-en-Velay, Coulombs, Charroux e Anversa. Dopo i pani e i pesci, la moltiplicazione dei prepuzi. Che dire se non: miracolo!
Ci sono anche personaggi dubbi. San Giorgio (il cranio è a Roma, un braccio a Brindisi, una mano a Varzi, e una costola del drago che avrebbe ucciso ad Almenno) forse non è mai esistito, e infatti la Chiesa lo ha declassato a «memoria facoltativa». Santa Barbara (il corpo è a Burano, la testa a Montecatini, ma senza una mandibola che si trova a Pisa. Però una mammella ce l’hanno gli ortodossi, a Novgorod) non è documentata storicamente. I tre Re Magi (reliquie estradate dal Barbarossa da Milano a Colonia, ma due fibule, una vertebra e una tibia sono ancora a Milano) forse non erano tre e forse non erano nemmeno Re.
Compaiono, ovviamente, tutte le reliquie più famose, a cominciare dalla Sindone, dalla lingua di sant’Antonio (celebre predicatore quindi, come dire, era il suo strumento di lavoro) e dal sangue di san Gennaro. Altre sono più oscure, come la goccia del Sacro Latte della Vergine conservata a Montevarchi o il Sacro Capello, sempre della Madonna, tuttora portato in processione a Palmi.
In ogni caso, l’aneddoto più divertente benché volgarissimo, da film di Pierino con Alvaro Vitali, riguarda san Gengolfo martire, poco popolare in Italia ma assai venerato in Francia e nell’Europa del Nord: del resto, era borgognone. Però nella ricchissima collezione conservata a Torino, in santa Maria Ausiliatrice, così ben provvista che fino a qualche tempo fa si esibiva alla venerazione dei fedeli una «reliquia del giorno», tipo l’analogo piatto in trattoria, c’è anche un frammento del suo corpo. Gengolfo è il patrono dei malmaritati, viste le sue disavventure coniugali con una moglie che, informa Orletti, «non aveva molta simpatia per il marito e lo considerava un idiota», mentre lui la sopportava, è il caso di dirlo, con santa pazienza. L’aneddoto riguarda appunto questa Santippe. Saputo che sulla tomba del marito si verificavano miracoli a ripetizione, la (poco) gentildonna esclamò: «Gengolfo fa miracoli? Sì, come il mio culo». E qui se ne verificò subito un altro. Lasciamo la parola all’autore: «Tanto cinismo le si ritorce contro: appena pronunciate queste parole, si sente una gran scoreggia. Così, ogni volta che la donna apre bocca, si sente una scoreggia. E non solo quel giorno, che è un venerdì, ma tutti i venerdì a venire: una squallida e fragorosa fanfara, per dirla con le parole di Roswitha di Gandersheim», autrice appunto, nel X secolo, di un Martirio di san Gengolfo.
In effetti, quanto a martirio di peggio non ci sono che certi matrimoni.
Il Fatto 24.2.18
Violenza sessuale ed esorcismi: arrestato sacerdote
Un sacerdote del Casertano di 42 anni, è stato arrestato con l’accusa di aver compiuto “medievali e brutali riti esorcisti” su numerose donne, tra cui una minore e una giovane, le cui modalità – secondo la Procura di Santa Maria Capua Vetere – hanno concretizzato la realizzazione della violenza sessuale aggravata. Ai domiciliari sono finite altre tre persone, due delle quali sono genitori della minore vittima e un dirigente della Polizia, amico del sacerdote. Il sacerdote arrestato, Michele Barone, era stato sospeso appena una settimana fa per un anno dalle funzioni sacerdotali dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo. Del caso si erano occupate Le Iene in un servizio in cui si denunciavano esorcismi praticati su una tredicenne che avrebbe avuto problemi psichici. Il dirigente di Polizia finito ai domiciliari è Luigi Schettino, alla guida del commissariato di Maddaloni fino a pochi giorni fa. Secondo i pm era vicino al sacerdote e avrebbe fatto pressioni sulla sorella della vittima minorenne affinché ritirasse una denuncia contro il sacerdote e non avrebbe impedito il compimento delle azioni violente. Gli altri due finiti ai domiciliari sono i genitori della minorenne che avrebbero permesso gli esorcismi.
Violenza sessuale ed esorcismi: arrestato sacerdote
Un sacerdote del Casertano di 42 anni, è stato arrestato con l’accusa di aver compiuto “medievali e brutali riti esorcisti” su numerose donne, tra cui una minore e una giovane, le cui modalità – secondo la Procura di Santa Maria Capua Vetere – hanno concretizzato la realizzazione della violenza sessuale aggravata. Ai domiciliari sono finite altre tre persone, due delle quali sono genitori della minore vittima e un dirigente della Polizia, amico del sacerdote. Il sacerdote arrestato, Michele Barone, era stato sospeso appena una settimana fa per un anno dalle funzioni sacerdotali dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo. Del caso si erano occupate Le Iene in un servizio in cui si denunciavano esorcismi praticati su una tredicenne che avrebbe avuto problemi psichici. Il dirigente di Polizia finito ai domiciliari è Luigi Schettino, alla guida del commissariato di Maddaloni fino a pochi giorni fa. Secondo i pm era vicino al sacerdote e avrebbe fatto pressioni sulla sorella della vittima minorenne affinché ritirasse una denuncia contro il sacerdote e non avrebbe impedito il compimento delle azioni violente. Gli altri due finiti ai domiciliari sono i genitori della minorenne che avrebbero permesso gli esorcismi.
La Stampa 24.2.18
Caserta. Don Michele Barone (41 anni)
Violenza sessuale durante esorcismi, arrestato sacerdote
Il prete avrebbe agito con il «contributo consapevole e volontario» dei genitori della tredicenne e l’appoggio di un dirigente di Polizia
Il prete convinceva le donne di essere indemoniate
qui
Il Fatto 24.2.18
Violenza sessuale ed esorcismi: arrestato sacerdote
Un sacerdote del Casertano di 42 anni, è stato arrestato con l’accusa di aver compiuto “medievali e brutali riti esorcisti” su numerose donne, tra cui una minore e una giovane, le cui modalità – secondo la Procura di Santa Maria Capua Vetere – hanno concretizzato la realizzazione della violenza sessuale aggravata. Ai domiciliari sono finite altre tre persone, due delle quali sono genitori della minore vittima e un dirigente della Polizia, amico del sacerdote. Il sacerdote arrestato, Michele Barone, era stato sospeso appena una settimana fa per un anno dalle funzioni sacerdotali dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo. Del caso si erano occupate Le Iene in un servizio in cui si denunciavano esorcismi praticati su una tredicenne che avrebbe avuto problemi psichici. Il dirigente di Polizia finito ai domiciliari è Luigi Schettino, alla guida del commissariato di Maddaloni fino a pochi giorni fa. Secondo i pm era vicino al sacerdote e avrebbe fatto pressioni sulla sorella della vittima minorenne affinché ritirasse una denuncia contro il sacerdote e non avrebbe impedito il compimento delle azioni violente. Gli altri due finiti ai domiciliari sono i genitori della minorenne che avrebbero permesso gli esorcismi.
La Stampa TuttoLibri 24.2.18
Dal sangue di Gennaro al prepuzio di Gesù:
il corpo dei santi moltiplica fede e miracoli
Una guida quasi turistica alle reliquie conservate nel nostro Paese fra ritrovamenti, furti, ostensioni. E qualche doppione di troppo
di Alberto Mattioli
Corpi interi o a pezzi. Disseppelliti, ritrovati, trafugati, traslati, inumati, imbalsamati, mummificati. E poi smembrati, divisi, moltiplicati: dita, mani, gambe, piedi, teste, lingue, cuori. Ma anche, per esempio, il prepuzio di Cristo. Corpi miracolosi, adorati, pregati, invocati, baciati. Reliquie offerte alla devozione dei fedeli, al business dei mercanti, all’incredulità degli scettici, all’ironia degli illuministi, alla curiosità di tutti. Reliquie di prima classe, quelle provenienti direttamente dal corpo del santo, «ex ossibus, ex carne, ex praecordis, ex piliis, ex cineribus, ex tela imbuta sanguine», oppure di seconda, diciamo così, «indirette»: gli abiti, il cilicio, la polvere grattata dal sepolcro, la manna stillata dalle ossa, l’olio della lampada votiva e così via. Fino ai sandali di Gesù, alla Sacra Culla, alle lenticchie dell’Ultima Cena, alla spugna imbevuta d’aceto della Crocifissione.
Ecco un saggio di Marco Orletti che è una delizia dall’inizio alla fine, per credenti e non. Guida alle reliquie miracolose d’Italia è un vademecum per orientarsi fra queste testimonianze, vere o presunte, del Sacro. Un Sacro tutt’altro che trascendente, anzi a portata di vista, di tocco, di bacio. Una religiosità prêt-à-porter, per tutti i san Tommaso che non credono se non vedono.
Appunto: crederci o non crederci? Orletti è moderatamente scettico, talvolta ironico, mai irrispettoso. Certo, non rinuncia a rilevare contraddizioni anche clamorose. I denti di sant’Apollonia sono così numerosi che quando Paolo VI ordinò di raccogliere tutti quelli sparsi per l’Italia riempirono una cassetta di tre chili e mezzo.
Il Santissimo Prepuzio di Gesù (discusso, però: dal 3 febbraio 1900, un decreto della Congregazione per la Dottrina della fede «vieta a chiunque di scrivere o parlare della reliquia») sarebbe conservato a Calcata, 906 abitanti in provincia di Viterbo. Ma in giro per l’Europa ce ne sono almeno altri dodici. Per la precisione, a Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Metz, Hildesheim, Conques, Langres, Fécamp, Puy-en-Velay, Coulombs, Charroux e Anversa. Dopo i pani e i pesci, la moltiplicazione dei prepuzi. Che dire se non: miracolo!
Ci sono anche personaggi dubbi. San Giorgio (il cranio è a Roma, un braccio a Brindisi, una mano a Varzi, e una costola del drago che avrebbe ucciso ad Almenno) forse non è mai esistito, e infatti la Chiesa lo ha declassato a «memoria facoltativa». Santa Barbara (il corpo è a Burano, la testa a Montecatini, ma senza una mandibola che si trova a Pisa. Però una mammella ce l’hanno gli ortodossi, a Novgorod) non è documentata storicamente. I tre Re Magi (reliquie estradate dal Barbarossa da Milano a Colonia, ma due fibule, una vertebra e una tibia sono ancora a Milano) forse non erano tre e forse non erano nemmeno Re.
Compaiono, ovviamente, tutte le reliquie più famose, a cominciare dalla Sindone, dalla lingua di sant’Antonio (celebre predicatore quindi, come dire, era il suo strumento di lavoro) e dal sangue di san Gennaro. Altre sono più oscure, come la goccia del Sacro Latte della Vergine conservata a Montevarchi o il Sacro Capello, sempre della Madonna, tuttora portato in processione a Palmi.
In ogni caso, l’aneddoto più divertente benché volgarissimo, da film di Pierino con Alvaro Vitali, riguarda san Gengolfo martire, poco popolare in Italia ma assai venerato in Francia e nell’Europa del Nord: del resto, era borgognone. Però nella ricchissima collezione conservata a Torino, in santa Maria Ausiliatrice, così ben provvista che fino a qualche tempo fa si esibiva alla venerazione dei fedeli una «reliquia del giorno», tipo l’analogo piatto in trattoria, c’è anche un frammento del suo corpo. Gengolfo è il patrono dei malmaritati, viste le sue disavventure coniugali con una moglie che, informa Orletti, «non aveva molta simpatia per il marito e lo considerava un idiota», mentre lui la sopportava, è il caso di dirlo, con santa pazienza. L’aneddoto riguarda appunto questa Santippe. Saputo che sulla tomba del marito si verificavano miracoli a ripetizione, la (poco) gentildonna esclamò: «Gengolfo fa miracoli? Sì, come il mio culo». E qui se ne verificò subito un altro. Lasciamo la parola all’autore: «Tanto cinismo le si ritorce contro: appena pronunciate queste parole, si sente una gran scoreggia. Così, ogni volta che la donna apre bocca, si sente una scoreggia. E non solo quel giorno, che è un venerdì, ma tutti i venerdì a venire: una squallida e fragorosa fanfara, per dirla con le parole di Roswitha di Gandersheim», autrice appunto, nel X secolo, di un Martirio di san Gengolfo.
In effetti, quanto a martirio di peggio non ci sono che certi matrimoni.
Ex teorico “operaista” negli anni Settanta, dopo aver scritto “Operai e capitale” ed essere stato a lungo un punto di riferimento della sinistra radicale, convertitosi al cattolicesimo, divenne il più fanatico di quelli che furono allora indicati come i “marxisti ratzingheriani”, oggi supporter entusiasti di Bergoglio.
Repubblica 24.2.18
Intervista a Mario Tronti
“L’antipolitica che fregatura. Ha coperto le colpe dei padroni”
di Concetto Vecchio
Senatore uscente del Pd
Mario Tronti, 86 anni, filosofo, è stato uno dei protagonisti del ‘68 italiano. Militante del Pci, fece parte del comitato centrale. Negli anni Sessanta con Raniero Panzieri ha fondato la rivista “Quaderni Rossi”. Nel 2013 è stato eletto in Senato nel Pd. Non si ricandida
ROMA «In questi anni passati in Parlamento ho capito che la crisi della politica è una cosa molto seria», dice Mario Tronti, 86 anni, nel suo studio di fronte al Senato. La sua avventura nel Palazzo è finita. Cinquant’anni dopo il ’68, di cui fu uno dei protagonisti, come teorico dell’operaismo, la sinistra appare divisa come non mai e il fascismo è tornato di attualità.
Per chi voterà?
«Per il governo Gentiloni. Se il Pd chiedesse agli elettori: siete a favore o contro Gentiloni, crescerebbe di molti punti. Non vedo alternative di eguale qualità: ho apprezzato Minniti, Orlando, Padoan. Anche Calenda, quando parla, sa quel che dice».
Lei però è entrato in Parlamento grazie a Bersani.
«Sì, restano i miei compagni, ma la scissione è stata un errore.
Bisogna sempre stare dove sta la forza maggiore, provare a orientarla dall’interno».
Perché la sinistra è messa così male?
«Una delle colpe è stata quella di non aver combattuto l’antipolitica come nemico principale».
Può spiegarsi meglio?
«Vede, l’antipolitica è stata un’operazione gestita essenzialmente dall’alto che infatti ha messo a riparo dalle critiche i padroni, il grande capitale, mentre la classe politica è stata trasformata nella destinataria di tutte le collere popolari. È capitato anche a me, uscendo dal Senato, di essere investito da insulti per il solo fatto di essere un parlamentare».
La gente però non crede più ai partiti. Si può avere fiducia in organismi che sono tutt’al più dei comitati elettorali?
«Ma restano il canale più corretto per selezionare il ceto politico: nella prossima legislatura bisognerà mettere mano a questo tema, a partire dall’articolo 49 della Costituzione».
C’è in Italia un problema di classe dirigente?
«Sì. Non ci sono più i canali tradizionali, che erano i partiti e il Parlamento, adesso il ceto politico viene selezionato dagli umori della piazza o dai capricci del capo».
Lei vive in periferia. Che umori coglie?
«Gli ultimi sono sempre più abbandonati a se stessi, ma anche i penultimi. Non ho nulla contro la politica dei diritti, ma al Laurentino 38 non sanno che farsene, perché lì hanno dei bisogni molto più urgenti».
Per chi votano al Laurentino 38?
«Un tempo per la destra, soprattutto An, ora in massa Cinquestelle e centrodestra. Qui il Pd non ha alcuna presa politica».
I Cinquestelle restano i grandi favoriti nonostante Rimborsopoli. È stupito?
«Mah, seguo la vicenda distrattamente».
L’ha detto anche Sergio Zavoli.
«È un uomo saggio».
Ma che giudizio politico dà del M5S?
«Se andassero al governo sarebbe un disastro per il Paese.
Cavalcano la rabbia, senza trasformarla in politica. Ma la cosa che temo di più è un’eventuale alleanza con la Lega. Speriamo di salvarci da questa deriva ultima dell’anomalia italiana».
È preoccupato del ritorno del neofascismo?
«Come tutti, ma penso anche che non bisogna sopravvalutare il fenomeno. Va evitato lo scontro tra minoranze armate».
Sarà in piazza oggi?
«Sì, è la risposta giusta».
La campagna elettorale si gioca sul tema dell’immigrazione. Il Pd rincorre la destra?
«È un problema che non si risolve con gli appelli del Papa, né ideologicamente, dicendo: “Accogliamoli tutti”. Chi lo dice spesso vive in quartieri dove gli immigrati in carne e ossa non si vedono mai. Nelle periferie invece l’immigrato è quello della porta accanto, ed è percepito talvolta come un problema reale. Temono la microcriminalità o di perdere il posto di lavoro».
Il fatto che il Pd sia forte soprattutto nei quartieri benestanti distorce la sua visuale?
«Sì, perché non capisce che la persona che fatica ad arrivare alla fine del mese non può aprire le braccia a chiunque».
Il Pci invece era popolare.
Poi cos’è successo?
«La sinistra ha smarrito la sensibilità di capire quello che vive e pensa la persona comune.
Non coglie più il disagio delle persone. E lo paga, perdendo consenso».
Vede in Italia un rischio autoritario?
«No, quello no. I veri pericoli piuttosto vengono dal basso, da questo rancore sordo, incapace di ascoltare, un umor nero che rischia di travolgere tutto».
L’astensionismo sarà il primo partito?
«Non saprei. Però nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro bisognerebbe distribuire in milioni di copie l’articolo del giovane Gramsci: “Odio gli indifferenti”. I giovani contano poco perché sono sempre di meno, ma devono capire che la politica non è quella cosa sporca descritta in questi anni: la politica è lo strumento per cambiare le cose».
Il Fatto 24.2.18
Perché l’astensione preoccupa i padroni
di Massimo Fini
In vista della fatidica data del 4 marzo Peter Gomez ha pubblicato un interessante libretto, Il vecchio che avanza, che è una sorta di “avviso ai naviganti” per un voto se non “utile” almeno consapevole, mentre si moltiplicano gli inviti, istituzionali e non, anche larvatamente minacciosi, a recarsi alle urne come sacro diritto/dovere del cittadino democratico.
Ma cosa sia la democrazia, e in che senso si differenzi da qualsiasi altro sistema di potere nessuno ce lo spiega, dandolo per scontato.
Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava già Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Evidentemente noi contemporanei questa capacità di riflessione l’abbiamo perduta e che ci sia un potere sopra le nostre teste lo diamo come irreversibile, ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer.
I Nuer sono un popolo nilotico che vive, o meglio viveva, nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “È impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza… Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza… Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”.
Così li descrive l’antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Non proprio. Si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l’equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l’Africa stessa.
Queste società erano riuscite a coniugare libertà e uguaglianza, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Il fatto è che i Nuer, o tutte le società consimili, pensano, proprio come Locke uno dei padri della democrazia liberale, che gli uomini nascano, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ma questo nel mondo liberale o marxista non è mai avvenuto e tuttora non è.
Il nocciolo della questione è che nessun potere, qualsiasi potere, è legittimo. Si tratta solo di finzioni. Conviene Stuart Mill: “Il potere stesso è illegittimo, il miglior governo non ha più diritti del peggiore”. Nessun potere è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, del tutto arbitrario.
Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso. Ma nell’Italia democratica, e anche in molte altre democrazie occidentali, questa credibilità è venuta meno in fasce sempre più larghe della popolazione.
Da qui il fenomeno crescente dell’astensione che preoccupa i “padroni del vapore”, in particolare i partiti, perché capiscono benissimo che se si estendesse ulteriormente la sarebbe finita una volta per tutte col loro potere illegittimo e prevaricatorio. E noi torneremmo a essere liberi, indipendenti e uguali. Come i Nuer.
La Stampa 24.2.18
Motti di Mussolini e saluti romani
Ma Facebook non censura il fascismo
Il social è una zona franca per le pagine nere: “Standard rispettati, non le togliamo”
di Filippo Femia
«Il contenuto rispetta gli standard della comunità». Facebook sembra ignorare la storia del fascismo e la legge italiana. Ospita una galassia di pagine nere, affollate da migliaia di messaggi ogni giorno. Bacheche che grondano odio, xenofobia e antisemitismo. Pagine che, sin da titolo e foto di copertina, inneggiano al fascismo. E inoltrare una segnalazione al social, spesso, non serve: «La pagina non viola la nostra policy», è la risposta.
Una ricerca dell’Anpi ha catalogato le pagine neofasciste, contandone 450. La black list risale allo scorso maggio e include alcune pagine rimosse, nel frattempo rimpiazzate da altre decine. I nemici? I soliti: «zecche comuniste», «ebrei maiali» e la casta dei politici. Immancabili, poi, i deliri sulla purezza della razza a rischio a causa dell’invasione di immigrati.
Con un finto profilo abbiamo seguito e segnalato 25 gruppi. In meno di 12 ore arriva la risposta di Facebook: quattro pagine vengono rimosse per incitamento all’odio. Negli altri casi il social ritiene che i contenuti «rispettano gli standard della nostra comunità». E suggerisce la soluzione: «Togli mi piace alla pagina». Un po’ come dire: voltati dall’altra parte e il problema sparisce. «Per rimuovere le pagine che inneggiano al fascismo - dice Laura Bononcini - serve una segnalazione alla polizia postale o all’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale, ndr). A quel punto procediamo». Ma è evidente che il meccanismo sia inadeguato, specie in un clima politico avvelenato come quello di questi giorni.
Ecco allora che ci si imbatte nel messaggio di Giulia, «guardate cos’ho nel giardino di casa. È originale», e la foto di una stele di marmo con un fascio littorio in rilievo. Il messaggio è accompagnato da due emoticon: un cuore nero e un braccio teso. Orazio, invece, pubblica una foto dove Mussolini «consiglia» Luca Traini, l’estremista di Macerata che ha sparato a sei nigeriani, senza far vittime: «Serve più mira», è il messaggio.
Ma come è possibile che il social più diffuso al mondo ospiti contenuti che fanno una chiara apologia di fascismo, inserita nel nostro codice penale dal 1952? «Non è prevista nella nostra policy, perché si tratta di una legge in vigore solo in Italia. La comunità di Facebook comprende quasi due miliardi di utenti, di culture e Paesi differenti: abbiamo dovuto adottare norme valide a livello globale», spiega Laura Bononcini, responsabile della policy di Facebook Italia.
Molte pagine nere, sin dal titolo, fanno chiara apologia di fascismo («Viva il duce»), inneggiano alla violenza («Istinto fascista: nel dubbio mena») o vendono cimeli fascisti («Duxstore.it»). Le più seguite hanno oltre 135 mila like. Al loro interno fioccano motti del Ventennio, cartoline nostalgiche del Duce e una miriade di selfie con il braccio teso. Nella carrellata c’è spazio anche per un bambino - definito «piccolo balilla» - che intona Faccetta nera.
Per la verità dopo il nostro colloquio telefonico con Facebook 24 pagine su 30 della lista nera dell’Anpi - le stesse che poche ore prima non violavano le regole della comunità - sono state rimosse. Una coincidenza? Difficile. Ciò che è indubbio è la rabbia degli utenti neofascisti. Nei gruppi superstiti gridano vendetta. «Qualche bastardo comunista ci ha segnalati», scrive uno; «ancora gruppi fascisti chiusi, è guerra», aggiunge un altro; «dopo il 4 marzo chiuderemo le loro bocche del cazzo», arriva a dire un terzo tra la pioggia di «a morte» e «diamogli fuoco».
Il cuore nero di Facebook pulsa anche nei gruppi chiusi, a cui si accede solo dopo una richiesta. Bisogna dimostrare la fede fascista e superare un test: «Quando è stata la marcia su Roma?», «quando è nato Mussolini?»
La costante di tutte le pagine neofasciste, che si promuovono tra loro come un network, sono le fake news a tema elettorale. La politica ha un certo peso: nel profilo di alcuni utenti appare il simbolo di CasaPound o Forza Nuova. Il bersaglio preferito sono gli immigrati. Molti fotomontaggi, alcuni tragicomici, addebitano loro tutti i guai dell’Italia con toni xenofobi e razzisti. Nei commenti piogge di insulti che incitano all’odio. Questi sì, segnalati, vengono rimossi quasi subito da Facebook.
La Stampa 24.2.18
Il ramo rosa dell’estrema destra sceglie per sé il modello militare
Sono il 30 per cento degli iscritti e partecipano a tutte le attività
Ma i temi di genere non hanno spazio sulla rivista del movimento
di Flavia Perina
In corteo Le foto sono state scattate durante il corteo in memoria delle vittime delle foibe a Roma, tenutosi lo scorso 10 febbraio. Secondo i dati di CasaPound, le donne sono il 30 per cento degli iscritti. Erano circa 6 mila nel 2017, secondo fonti non ufficiali triplicate negli ultimi mesi. Partecipano a tutte le attività, tranne l’affissione dei manifesti che è da sempre riservata solo agli uomini
La foto da guardare bene è quella in alto, con le ragazze al corteo in memoria delle foibe che stanno sull’attenti, senza saper bene dove mettere le mani: una stringe un libro, un’altra la borsa, tutte cercano la postura del soldato con risultati piuttosto goffi. Le donne di CasaPound, fra i tanti modelli femminili che la destra ha coltivato senza adottarne fino in fondo nessuno, si sono prese il più militaresco: quello delle Ausiliarie, il Corpo militare della contessa Piera Gatteschi nato nel ’44 per gestire assistenza sanitaria, mense, servizi d’ufficio e magazzini della Rsi. «Sì, sono loro l’esempio che scelgo» conferma Carlotta Chiaraluce, il volto più mediatico di Cpi, candidata e dirigente a Ostia. Forse non poteva essere altrimenti. In un mondo dove prevale l’estetica della disciplina sarebbe difficile immaginare l’assertività materna di Donna Rachele, l’ardore tragico di Claretta, la naturale leadership di Evita, l’abilità salottiera di Donna Assunta, per non parlare del protagonismo da amazzoni della Meloni, della Santanché, della Mussolini.
Quante sono, cosa pensano, perché sono lì queste signorine e queste signore? Secondo i dati forniti dal movimento sono donne il 30 per cento degli iscritti a Cpi (circa 6000 nel 2017, oggi il triplo, dicono fonti non ufficiali). Partecipano a tutte le attività, salvo l’affissione di manifesti che è riservata agli uomini. Questo perché CasaPound, come si afferma nei documenti ufficiali, «nell’articolazione dei singoli ruoli da attribuire in base al genere» rifiuta «la confusione». Ma c’è un No molto esplicito anche alla sottomissione: l’umiliazione della donna è definita un fattore «tipico del mondo contemporaneo, nei suoi due aspetti consumista e fondamentalista». La parola magica per indicare il rapporto ideale fra il mondo maschile e quello femminile è complementarietà, che pare resuscitata dai documenti della Nuova Destra degli Anni 70, e in particolare dalla rivista delle ragazze dei Campi Hobbit, Eowyn, peraltro inimmaginabili allineate in ranghi spartani (erano piuttosto scapigliate e casiniste, non molto diverse dalla loro controparte femminista).
Dunque, complementarietà. Si cerca la declinazione di questo termine nelle questioni che oggi fanno discutere le donne - l’utero in affitto, le teorie gender, il giudizio sulla prostituzione, le quote - sulle pagine di Primato Nazionale, la rivista del movimento, ma non c’è quasi niente. Pochissime anche le firme al femminile: nell’edizione cartacea ha una rubrica Chiara Del Fiacco, i suoi ultimi articoli sono un elogio delle sapienze contadine e un’invettiva contro Oprah Winfrey e «l’isteria femminista» del sistema-Hollywood.
La sensazione è che questo ramo rosa sia cosa recente, ancora un germoglio appena nato, e che la linea del movimento non abbia ancora preso atto delle questioni che porta con sè e della necessità di elaborarle oltre l’istintiva contrapposizione frontale con tutto ciò che si apparenta alla sinistra. «Sono all’inizio, magari col tempo...», dice Annalisa Terranova, che alla destra femminile ha dedicato uno dei pochi saggi in circolazione, Camicette Nere.
Il paradosso è che il mondo marziale di CasaPound deve proprio alle sue ragazze il primo e più importante sdoganamento, quello della satira, con la mitica Vichi di Casa Pound interpretata da Caterina Guzzanti che strillava «Ah zzecche» alla platea di RaiTre, mentre il suo fidanzato Tullio si rifugiava spaventato su un albero. Era simpatica, Vichi, e rese più umana un’area che all’epoca (era il 2012) ancora non si presentava alle elezioni, parlava di fascismo del Terzo Millennio e si situava su un crinale extra-parlamentare assai più accentuato di oggi. Chissà se sono grati alla Guzzanti i militanti di Cpi, chissà se si rendono conto delle potenzialità del «recinto delle ragazze» oltre il ruolo di portabandiera e di furiere.
il manifesto 24.2.18
Il Pd c’è ma ha paura dei fischi, sul palco solo l’Anpi e i ragazzi. Renzi farà solo un breve tratto del corteo, Gentiloni sotto il palco? Leu quasi al completo. Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
di Daniela Preziosi
«E’ stato tollerato troppo, è stato sdoganato troppo. La manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi” sarà una risposta a quanto sta succedendo in Italia e in Europa, ma anche l’inizio di un’altra stagione: stiamo già organizzando un 25 aprile in cento piazze, e così poi il 2 giugno, festa della Repubblica nel 70esimo della Costituzione, bisogna tornare a far sentire la presenza democratica e antifascista in tutte le città». Dalla sala macchine dell’Anpi Carlo Ghezzi racconta della risposta sorprendente, del superamento «degli obiettivi che molte città si erano date». E questo nonostante fischi il vento e infuri la bufera: fuor di metafora, sono annunciati Burian e la pioggia, ma i vecchi leoni (e le leonesse) che non si sono fatti fermare dal nazi-fascismo non capitolano di fronte al meteo.
GHEZZI ELENCA LE PRESENZE annunciate oggi a Roma al corteo che parte alle 13 e 30 da piazza della Repubblica e arriva alle 15 a piazza del Popolo. Lì un gruppo di ragazzi leggerà lettere di partigiani e brani delle leggi razziali. Verrà proiettato il messaggio video della senatrice a vita Liliana Segre. Sul palco nessun politico, il discorso finale sarà di Carla Nespoli, presidente dell’Anpi.
UNA VITA NEL SINDACATO, ora alla fondazione Di Vittorio e nel comitato nazionale dell’Anpi, Ghezzi è un dirigente realista non incline ai toni enfatici. Eppure l’elenco delle presenze è davvero lungo: decine di gonfaloni delle città, fra cui quelle di Milano, Napoli, e della città metropolitana di Roma. Ci sarà probabilmente anche quello di Macerata portato dal sindaco Carancini che due giorni fa ha ricevuto minacce contro i suoi figli. L’aria che tira nel paese è questa, e se il ministro dell’interno Marco Minniti si adopera per negare «l’escalation», non c’è da abbassare la guardia. Sfileranno anche le insegne della regione Toscana e della Regione Lazio. Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, ha aderito ma non ci sarà: il sabato è «giorno dedicato ritualmente alle attività di culto e preghiera».
LO STRISCIONE DI APERTURA sarà portato dai rappresentanti delle ventitré associazioni firmatarie dell’appello che chiede lo scioglimento delle organizzazioni ispirate al fascismo e lancia «un allarme democratico» per i crescenti fenomeni di xenofobia. In prima fila le associazioni della Resistenza (Anpi, Anppia, Aned, Fivl, Fiap), poi i sindacati confederali Cgil Cisl e Uil, Libera, Arci, Acli, Comitati Dossetti, Coordinamento democrazia costituzionale, Istituto Cervi, Uisp, Ars, Altra Europa, Articolo 21, Libertà e Giustizia.
IN MEZZO ALLE ASSOCIAZIONI, i quattro partiti firmatari dell’appello e che quindi dovrebbero darsi da fare – anche dopo la campagna elettorale – per lo scioglimento delle associazioni che si richiamano apertamente al fascismo: Pd, Liberi e Uguali, Prc e Pci (ex Pdci-Pcdi). Per il momento comunque la passerella «antifà» è assicurata. Il leader del Pd Matteo Renzi ha confermato la sua presenza. Al Nazareno programmano di farlo arrivare in un tratto finale del corteo, poco prima dell’arrivo. Si teme qualche fischio, non sarebbe un’immagine bella far circolare sulla rete e sulle tv a una settimana dal voto.
MA LA VERA STAR POLITICA del corteo potrebbe essere il premier Paolo Gentiloni. La sua presenza fino a ieri non era ancora confermata causa le perplessità del Viminale: la partecipazione a un evento del genere sarebbe un unicum, un evento ad alto tasso simbolico. Ma porrebbe molti problemi di sicurezza: in città ci sono altri quattro cortei e il livello di allarme è alto.
ANCHE SE LE «PIAZZE» considerate più a rischio sono altre: quella di Milano, dove contro la manifestazione della Lega e il comizio di Casapound ci sarà un corteo antifascista. E a Palermo dove arriva Roberto Fiore, leader di Forza nuova, dopo il pestaggio del suo capo locale: anche lì sono stato organizzate contro-manifestazioni. In fondo Roma è la città meno “calda” del week end. Il premier potrebbe arrivare sotto il palco di piazza del Popolo, a fine corteo.
QUASI AL COMPLETO LEU: ci sarà Bersani, Grasso, Laura Boldrini, Speranza e Fratoianni. Non D’Alema, che resta in Puglia per il finale della campagna elettorale. E neanche Civati: ieri è andato a Brescia a portare la sua vicinanza ai ragazzi del centro sociale Magazzino 47 alla cui biblioteca giovedì notte è stato dato fuoco. Civati oggi resta in città, dove del resto è candidato. Non ci sarà neanche Potere al popolo: a Roma manifesta contro la Legge Fornero e contro il jobs act e al mattino «processerà» con «una giuria popolare» la legge Fornero sulle pensioni alla Città dell’altra economia. E a Palermo e Milano nei cortei antifascisti di movimento.
il manifesto 24.2.18
L’antifascismo non è un’arma di propaganda
di Marco Revelli
L’Italia antifascista va in piazza oggi in un clima pesante. «Clima di violenza», recitano i media mainstream, falsando ancora una volta lo scenario, come se si trattasse di violenza simmetrica. Di opposte minoranze estremiste, ugualmente intolleranti, quando invece la violenza a cui si è assistito non solo in queste ultime settimane, ma negli ultimi mesi e negli ultimi anni è una violenza totalmente asimmetrica, distribuita lungo un rosario di intimidazioni, intrusioni, aggressioni sempre dalla stessa parte, per opera degli stessi gruppi, con le stesse divise, gli stessi rituali, gli stessi simboli e tatuaggi: Casa Pound e Forza nuova con i rispettivi indotti. E sempre col medesimo disegno politico: occupare parti di territorio fino a ieri off limits per l’estrema destra.
Periferie metropolitane e piccoli centri, aree in cui la marginalizzazione e il declassamento sociale hanno creato disagio e rabbia, con lo scopo “strategico” di diventare referenti politici di quel disagio e di quella rabbia.
Vicofaro, il 27 di agosto dello scorso anno. Roma, Tiburtino III, il 6 di settembre. Como, il 28 novembre. Sono solo le tappe principali di un percorso che culmina nell’atto estremo di terrorismo razzista a Macerata, il 3 febbraio. Dall’altra parte un solo episodio, quello di Palermo, che per odioso che possa essere considerato – ed è atto odioso il pestaggio di una persona legata, incompatibile con i valori dell’antifascismo quale che ne sia l’idea dei suoi autori -, non può certo mutare il profilo di un quadro politico estremamente preoccupante.
Per fortuna, c’è stato il 10 febbraio a Macerata: quei 30.000 che hanno capito da subito qual’era “la cosa giusta”.
E per fortuna c’è la mobilitazione di oggi, la piazza romana e le tante piazze italiane. Proprio perché pensiamo che minimizzare la minaccia di questa destra orribile e spudorata sia un atto suicida per una democrazia già lesionata. E restiamo convinti che dichiarare il fascismo “morto e sepolto”, come ha fatto il ministro di polizia Marco Minniti, o invitare a sdrammatizzare e abbassare i toni per non turbare una campagna elettorale in salita, sia prova di cinismo e irresponsabilità. Proprio perché sappiamo che dall’onda nera che attraversa l’Europa non è immune l’Italia, anzi! Proprio per questi motivi crediamo che ogni persona in più oggi in piazza sia una vittoria.
Non si tratta qui di rivendicare primogeniture, o giocare al frusto gioco del rinfacciamento. L’antifascismo non è un’arma leggera da portarsi nella battaglia elettorale per contendere qualche decimo di punto. Si tratta di saper vedere il pericolo che incombe. E quel pericolo è grande, inquietante, per certi versi inedito. Non stiamo oggi vivendo una riedizione in sedicesimo dei conflitti degli anni Settanta, quando le bande nere colpivano duro, al servizio di padroni più o meno occulti, di servizi deviati e di agenzie internazionali, ma non avevano un seguito di massa. Il neofascismo di oggi – ma forse sarebbe meglio chiamarlo neonazismo – intuisce (per ora), annusa e avverte un’opportunità nuova di un inedito radicamento “popolare”, per così dire. Di poter attingere a nuovi serbatoi dell’ira.
Dopo il 4 marzo non ci aspetta una tiepida primavera, piuttosto un gelido inverno fuori stagione. L’Europa ha già battuto il suo colpo. Nessuna franchigia prolungata. Un establishment europeo in via di dissoluzione e un’Unione dissestata nei suoi equilibri si preparano a riservare, a un’Italia attardata da un debito insostenibile, un trattamento forse non troppo diverso da quello imposto – nel silenzio di tutti – alla Grecia quasi tre anni or sono. Con una differenza sostanziale: che al governo là c’era saldamente una forza esplicitamente di sinistra come Syriza, che ha salvato il salvabile negli strati più fragili della popolazione, e ha costruito una solida barriera contro la sfida di Alba dorata (che è arretrata da allora).
Qui no, ci sarà o un governo debolissimo, o una destra tanto arrogante quanto divisa: le condizioni per una ulteriore depressione sociale di grandi dimensioni, che amplierà l’esercito della rabbia, del rancore e del risentimento. Alle promesse smodate della campagna elettorale non potrà che seguire la doccia fredda di un’ulteriore deprivazione, col seguito di senso di abbandono, tradimento, solitudine, spirito di vendetta da parte di chi avverte di essere sul versante sbagliato del piano inclinato. L’acqua ideale in cui si preparano a nuotare gli squali che del rancore e della frustrazione si alimentano.
Per questo è da considerare prova d’irresponsabilità grave la decisione del ministero dell’Interno di ammettere alle elezioni le formazioni esplicitamente ispirate al fascismo, contrariamente a quanto era accaduto, correttamente, per le regionali in Sicilia. E assume sempre più rilevanza politica programmatica la richiesta di una rapida, legittima, messa al bando di organizzazioni come Forza Nuova e Casa Pound , con la loro sola presenza, un fattore di disordine e di violenza.
il manifesto 24.2.18
Camusso: «L’Italia acquisisca gli anticorpi contro il fascismo»
La manifestazione di Roma. La segretaria Cgil: sciogliere i gruppi razzisti, ma una risposta si dà anche con politiche sociali che contrastino il disagio. È sbagliato mettere sullo stesso piano i cortei fascisti e quelli antifascisti: ma il movimento di reazione democratica deve essere pacifico. I Cinquestelle assenti? Sbagliato avere ambiguità su questi temi
di Antonio Sciotto
«Gli episodi di fascismo e di razzismo che stanno accadendo in diverse parti d’Italia, a partire dai fatti di Macerata, ci dicono che abbiamo bisogno di costruire un grande movimento antifascista. Le organizzazioni fasciste devono essere sciolte, ma nello stesso tempo la politica deve costruire un quadro di diritti e di garanzie sociali ed economiche per tutti i cittadini. È questo il miglior argine contro alcune forze politiche che tentano di guadagnare consenso scaricando il disagio sui migranti, in una guerra tra poveri che alimenta scontri e violenze». La segretaria generale della Cgil Susanna Camusso si prepara a partecipare, questo pomeriggio, alla manifestazione di Roma, indetta dalle 23 organizzazioni che hanno aderito all’appello Mai più fascismo, tra cui la stessa Cgil, Anpi, Arci, Libera.
Esiste un reale pericolo di ricostruzione del fascismo o forse lo scontro si sta alzando solo in vista delle elezioni?
Sicuramente la campagna elettorale amplifica, ma ritenere che i tanti episodi di aggressione e minaccia che stanno accadendo siano isolati o determinati solo dal fatto che siamo sotto elezioni è un errore. Non solo Macerata, ma possiamo citare il caso del Baobab di Roma di qualche giorno fa, i militanti di Forza Nuova intervenuti contro il presidio antifascista a Forlì, segnali che incrociati agli episodi di razzismo creano una miscela esplosiva. Che si alimenta sulla condizione di disagio sociale ed economico crescente tra i cittadini, a cui la politica con i continui tagli allo stato sociale e ai diritti del lavoro non ha dato risposta. Da qui il nostro appello, per contrastare uno sdoganamento del fascismo e del razzismo che non ha avuto per ora adeguata reazione. E la nostra richiesta di sciogliere le organizzazioni di stampo fascista, di non autorizzare le loro manifestazioni a tutti i livelli – dalle prefetture ai sindaci. L’Anpi aveva anche chiesto che questi partiti non potessero presentarsi alle elezioni, ma non è stata ascoltata.
A proposito di Macerata, come avete vissuto la scelta di ritirare – come organizzazione – la vostra partecipazione alla manifestazione del 10 febbraio? Comunque molti iscritti Cgil sono scesi in piazza.
L’abbiamo vissuta con sofferenza, ma abbiamo scelto di rispettare la sensibilità manifestata sia dalla Cgil locale che dalla comunità cittadina attraverso il sindaco. Istintivamente pensavo e pensavamo che dovesse essere proprio il territorio a dover respingere con immediatezza e forza quello che è accaduto. Poi nelle valutazioni ci metti anche il rispetto della tua organizzazione locale e delle istituzioni. Da qui la convinzione e una motivazione più forte a indire una grande manifestazione nazionale.
Gli scontri si moltiplicano, e le violenze si manifestano purtroppo da entrambi i lati della barricata: da Palermo a Perugia fino a Torino. Ma ha senso mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo?
Penso che un grande movimento antifascista sia pacifico: la violenza è sempre sbagliata. Bisogna pretendere con la forza della ragione e della legge che lo Stato faccia la sua parte. Quando l’interpretazione dell’appello del sindaco di Macerata è diventata «bisogna vietare tutte le manifestazioni», mettendole sullo stesso piano, io ho detto no non ci siamo. Ci sono manifestazioni che devono essere sempre vietate – quelle fasciste – e quelle che non devono essere vietate. Mettere tutto sullo stesso piano è sbagliato e dannoso, è lo stesso errore del revisionismo.
Il ministro Minniti ha detto che ha fermato gli sbarchi proprio perché aveva previsto un possibile Traini. Una soluzione può essere un diverso rapporto con l’immigrazione?
È un errore politico ritenere che sia la presenza dei migranti in sé a determinare queste reazioni, perché significa accettare l’idea che le diversità non possono coesistere . La politica, anziché dire che c’è la ripresa e tutto va bene, dovrebbe piuttosto affrontare l’alta disoccupazione, la precarietà e la povertà in crescita, l’impoverimento anche di chi lavora. Il disagio sociale tende purtroppo a scaricarsi su chi è diverso anche se sta male come te e quindi sui migranti. Allora per contrastare il rischio della guerra tra poveri, devi ricostruire politiche sociali e lavoro di qualità, ma parallelamente anche regole di certezza sulle migrazioni. Avere la forza di dire che ai rifugiati va salvata la vita e costruire politiche di accoglienza, sui migranti economici politiche di regolazione e governo dei flussi. Ma le leggi del nostro Paese hanno fatto il contrario, finora: con la Bossi-Fini bastava perdere il lavoro e subito si diventava un clandestino.
Tutti i partiti del centro-sinistra saranno in piazza con voi, la Lega evidentemente no, ma spicca anche l’assenza dei Cinquestelle. Vi preoccupa che una parte della politica non faccia propria la pregiudiziale dell’antifascismo?
Fa parte di quel problema generale che dicevo: acquisire gli anticorpi, l’esigenza di ricostruire una nuova cultura antifascista, che passa anche per le risposte date con uno stato sociale e un lavoro di qualità. La nostra manifestazione punta proprio a creare una cesura: non permettere che fascismo e razzismo siano sdoganati senza che nessuno reagisca. Al di là del quadro politico contingente e dell’esito delle elezioni. Se poi andiamo sul particolare, sì, mi preoccupa chi dice che il fascismo non c’è più perché è storia del passato. Non vedono quello che accade in Italia e in Europa? Mi preoccupa chi usa gli argomenti del razzismo per costruirsi una audience politica. Il comportamento che mi stupisce di più è quello dei Cinquestelle: mi sarei aspettata che aderissero fin dall’origine al nostro appello, è sbagliato avere in questo terreno delle ambiguità.
Un’ultima domanda che esula dal tema fascismo. Soddisfatti per la chiusura di tutti i contratti degli statali? Si diffonderà una nuova immagine di questi lavoratori?
Ci auguriamo di sì, anche perché non solo abbiamo rinnovato i contratti dopo quasi dieci anni di assenza, ma abbiamo anche riaffermato la centralità della contrattazione. La riforma Brunetta aveva tolto peso al contratto, e poi era partita la campagna sui «fannulloni». Certo, l’aumento che spuntiamo fa parte comunque di una stagione di crisi, ma è un inizio e presto ripartiremo con le nuove piattaforme. In sanità siamo riusciti a far rimuovere le deroghe ai riposi: una conquista non solo per i lavoratori, ma per la qualità che assicuri ai cittadini utenti.
Il Fatto 24.2.18
Crollo Pd, il Colle “studia” un governo per la transizione
Fragili i numeri per le larghe intese Dem-Fi o un esecutivo del centrodestra: un dossier coi precedenti indica la via a Mattarella
di Fabrizio d’Esposito
È stato alla fine della scorsa estate che al Quirinale s’iniziò a formare un dossier sulle prassi seguite dai dieci presidenti della Repubblica in oltre sei decenni di governi. In linea con la sua storia di professore universitario di Diritto parlamentare, Sergio Mattarella diede mandato ai suoi consiglieri di raccogliere sostanza e dettagli di ogni consultazione, conscio e convinto che la dinamica politica di questo antico rito sfugga a una situazione pre-ordinata. In pratica, per dirla fuori dal “quirinalese”, il capo dello Stato mandò il primo segnale ai partiti. Per la serie: con me non ci sarà alcun governo del presidente, tecnico oppure no.
Quando il lavoro fu avviato il quadro delle forze in campo era diverso da oggi: il Pd veniva accreditato di un possibile 25 per cento, i Cinquestelle non arrivavano al 30 e il centrodestra viaggiava alla solita altezza del 37. A distanza di quasi sei mesi da allora, il quadro si è completamente ribaltato: il Pd potrebbe crollare al 20, se non sotto; il M5S toccherà o sfonderà il tetto del 30; il centrodestra non schioda dal 37/38 ma nel frattempo ha cristalizzato le divisioni interne tra Silvio Berlusconi e il blocco fascioleghista di Salvini e Meloni.
Risultato: al Colle matura la sensazione che il voto del 4 marzo non consegnerà vincitori in una sorta di deriva tripolare che poi tanto tripolare non è per le citate fratture tra l’ex Cavaliere e il capo leghista. Nessuno quindi, tra i leader politici, dovrebbe avere il mazzo in mano per distribuire le carte. E qui sovviene il dossier sulle prassi seguite in passato al Colle nella formazione dei governi, un documento diventato corposo e meticoloso.
Punto di partenza, per sgombrare dal campo retroscena ed equivoci di oggi, il destino del governo di Paolo Gentiloni. Oggi l’esecutivo non è dimissionario e quindi è in carica per l’ordinaria amministrazione. Il 23 marzo, giorno d’insediamento delle Camere, al Colle danno per certo l’arrivo del premier per la fatidiche e dovute dimissioni. A quel punto sì che sarà un governo dimissionario in carica per “il disbrigo degli affari correnti”, in attesa dell’esito delle consultazioni di Mattarella con le delegazioni dei partiti.
Il metodo poi. E l’approccio, che partirà dalla fotografia del voto. Esaurita definitivamente la fase bipolarista della Seconda Repubblica (un vincitore e uno sconfitto), il Colle-arbitro dirigerà la partita come ai tempi del proporzionale della Prima Repubblica. Un mero dato di fatto: questa campagna elettorale sta confermando che ogni partito corre per prendere un voto più degli altri e il tema delle coalizioni è scomparso, a meno di non prendere per buona l’alleanza finta o bugiarda del centrodestra. Chiarito il quadro, Mattarella certificherà innanzitutto l’impossibilità di un “governo organico” sia formato dallo stesso centrodestra oppure da Pd e Forza Italia insieme, le cosiddette larghe intese. Questione di numeri, ovviamente.
A quel punto, il Colle riguarderà tre capitoli del dossier fatto preparare. Tre precedenti già sottolineati e vagliati in ogni aspetto. Obiettivo: varare comunque un esecutivo, pur su basi fragili, per poi sperare di sbloccare l’impasse e allargare la base della maggioranza. Il primo precedente è “il governo della non sfiducia” di Giulio Andreotti, votato nel 1976 (e preludio alla tragedia di Aldo Moro). Quel governo prevedeva un accordo tra le due grandi forze “nemiche” di allora: la Dc, da sempre al potere, e il Pci, che per la prima volta si astenne sulla fiducia. Collegato a questa formula nell’agenda del Colle c’è pure il governo Fanfani del 1960, basato sulle “convergenze parallele” morotee per la formazione del centro-sinistra. Due precedenti che presuppongono quindi un accordo tra partiti oggi avversari. Ed è qui che potrebbe entrare in gioco la forza parlamentare del M5S. Le combinazioni sono varie e Mattarella non ne escluderebbe nessuna: Pd al governo e astensione grillina, o viceversa; idem Pd e centrodestra. Qualora dovessero andare in porto la non sfiducia o le convergenze parallele, uno dei tre blocchi di media grandezza è destinato a rimanere fuori. Quale tra Pd, M5S e centrodestra?
Il terzo precedente storico è di mera transizione per poi andare allo scioglimento autunnale: “il governo balneare” o “di decantazione” di Giovanni Leone dopo le Politiche del 1963. Nel novero delle variabili potrebbe rientrare Paolo Gentiloni, investito pure di un’altra formula. Questa: verificata l’impossibilità di formare un governo, Mattarella potrebbe rinviare alle Camere l’attuale esecutivo. Ricevuta una scontata sfiducia, si avrebbe comunque un governo di minoranza per gli affari correnti e per portare il Paese al voto.
La transizione potrebbe però portare anche un cosiddetto “governo di scopo”, con l’obiettivo di fare la manovra economica e una nuova legge elettorale, magari con un accordo a tre fra Pd, 5 Stelle e Liberi e Uguali.
Questo è dunque il quadro tracciato al Colle in queste ore, a una settimana dal voto. E quelle che erano le preoccupazioni estive del Quirinale, e cioè una mancata tenuta del Pd, alla fine si stanno per rivelare giuste, a meno di clamorosi rovesciamenti di tendenza negli ultimi giorni giorni di campagna elettorale. Senza un governo di centrodestra o le larghe intese renzusconiane, la dinamica delle consultazioni metterà in gioco il M5S di Luigi Di Maio per varie formule. È questa la maggiore novità che emerge dall’analisi basata sul dossier confezionato per Mattarella. E non è poco.
Corriere 24.2.18
Il tifo (inaspettato) per Emma Bonino
Il leader di Forza Italia e il tifo perché Bonino superi la soglia del 3%
Le preoccupazioni di Meloni per le strategie azzurre
di Francesco Verderami
Da giorni il nome più evocato nel centrodestra è quello di un’avversaria, Emma Bonino, al centro di una strana disputa tra alleati.
Il primo a parlarne è stato Berlusconi, che discretamente fa il tifo per l’esponente radicale e confida riesca a superare il 3%. Ce n’è traccia in alcuni conversari, discussioni che come spesso accade hanno superato i cancelli di Arcore e hanno fatto drizzare le antenne agli alleati. Non è chiaro se l’interesse del Cavaliere sia riconducibile proprio alla Bonino o ai candidati della sua lista, che diverrebbero parlamentari se +Europa superasse la soglia di sbarramento. E tra questi — raccontavano autorevoli esponenti di Forza Italia — ci sarebbero «potenziali sostenitori» di un governo di centrodestra, che sembra rimanere sempre «a un passo» dalla conquista della maggioranza assoluta di seggi nelle Camere.
La storia dell’ipotetica transumanza subito dopo il voto non aveva però convinto i partner, e infatti i dirigenti di Nci si erano premurati a dare una veste politica ai pour parler di Berlusconi sulla Bonino, ricordando che era stato il Cavaliere a indicarla come commissario italiano a Bruxelles, e che magari — con un gabinetto a trazione moderata, guidato dall’attuale presidente dell’Europarlamento — potrebbe convincerla a garantire un esecutivo nell’interesse del Paese. Supposizioni e congetture al limite del fantasioso erano rimaste custodite fino a ieri nel recinto della riservatezza, finché la Meloni ha reso pubblica la querelle.
«Nella scelta del candidato-premier della coalizione non mi impegno a sostenere persone che non conosco», è sbottata la presidente di FdI: «Abbiamo stabilito che il partito più votato dell’alleanza esprimerà il presidente del Consiglio, ma i nomi vanno annunciati prima del 4 marzo o per me non se ne fa nulla». Il motivo della sortita è legato al fatto che Berlusconi continua a ripetere di avere «nomi coperti» per Palazzo Chigi, e la Meloni da tempo cova il sospetto. «Se mi dice la Bonino salta tutto. Ed è la Bonino, datemi retta», aveva confidato al suo gruppo dirigente: «La sostengono i poteri forti nazionali e internazionali, le cancellerie europee, Israele. Manca solo la Chiesa...».
Forse la Curia no, ma il Papa aveva avuto per lei parole di elogio nella conversazione con Massimo Franco pubblicata dal Corriere nel febbraio del 2016: «È la persona che conosce meglio l’Africa. Mi dicono: è gente che la pensa in modo diverso da noi. Vero, ma pazienza. Bisogna guardare alle persone, a quello che fanno». Ora, a parte il fatto che la Bonino sarebbe il primo caso di candidato premier di un altro schieramento a sua insaputa, se nel centrodestra sono a un passo da una crisi di nervi è perché compiere quel «passo» che li separa dalla vittoria appare faticoso.
Perciò Berlusconi ha annunciato — a sorpresa — di esser pronto per una manifestazione comune con gli alleati: i focus e gli amatissimi sondaggi gli hanno fatto capire che così (forse) potrebbe spingere una parte degli indecisi a votare per Forza Italia. E non c’è dubbio che il risultato di Nci potrebbe essere quello che ieri l’ Economist definiva «l’asso nella manica del centrodestra». Superasse il 3% poi, offrirebbe un’ulteriore chance per la conquista di Palazzo Chigi: «Potremmo essere decisivi per tutto», dice Fitto, che giusto per spiegarsi ha già piazzato il veto su Salvini premier.
Ma siccome la maggioranza assoluta dei seggi sembra ormai una sorta di Graal della politica, la sua ricerca ha assunto contorni mitologici: così il dibattito attorno al nome di un avversario finisce per provocare un conflitto tra alleati. Se non fosse che la questione è solo all’apparenza surreale, perché la Bonino si è già espressa a favore di un governo di larga coalizione e non sarebbe l’innesto per la nascita di un gabinetto di centrodestra. Anche perché — oltre la Meloni — lo stesso Salvini non accetterebbe certe soluzioni se non battesse Berlusconi e non potesse reclamare il ruolo di premier.
La Bonino semmai è il cavallo di Troia con cui c’è chi mira ad espugnare definitivamente la cittadella diroccata del vecchio bipolarismo, è il possibile punto di riferimento di una parte del Palazzo contro l’altra. L’altra è quella a cui ieri ha dato voce il governatore pugliese Emiliano: «Se Di Maio fosse incaricato di formare il governo, il Pd dovrebbe sostenerlo». Pare incredibile, ma è l’effetto del Graal.
Repubblica 24.2.18
Il caso Lombardi
La deriva a destra sui migranti
di Tomaso Montanari
Quando penso alle province del Lazio e ai suoi borghi, penso ad accogliere più turismo, che rilanci l’economia locale, e meno migranti, che invece pesano sull’economia locale. Non è questione di destra o di sinistra, ma di #buonsenso».
Questa dichiarazione di Roberta Lombardi, candidata 5 Stelle alla presidenza del Lazio, è un sintomo da non trascurare. Di quale “buon senso” si parla? Di quel senso comune, per nulla buono, per cui dei migranti non si ragiona come di esseri umani, ma come di numeri o come di minacce (la “bomba sociale”). Lo stesso “buon senso” per cui bisognerebbe «aiutarli a casa loro» (e questo l’ha scritto Matteo Renzi, dimenticando l’articolo 10 della Costituzione, che dice che l’Italia è casa di tutti coloro che non hanno i nostri stessi diritti), o sostenere mamme e famiglie italiane, «se uno vuole continuare la nostra razza» (Patrizia Prestipino, Pd). Non cito le innumerevoli frasi di esponenti della Lega, Fratelli d’Italia e organizzazioni fasciste perché ciò che mi interessa stigmatizzare è la penetrazione di idee di fatto razziste in quello che appunto si presenta come il senso comune. È lo slittamento generale a destra, addirittura l’egemonia di questo non-pensiero, il principale avversario di ogni prospettiva democratica. Luigi Manconi e Federica Resta hanno recentemente argomentato (nel libro Non sono razzista, ma…, Feltrinelli 2017) circa i nessi tra questa indifferenza morale verso i migranti e quella verso gli ebrei, al tempo dell’Olocausto: «L’indifferenza della vita di ogni singolo in un mondo la cui legge era disinteresse per l’altro e vantaggio individuale universale» (T. Adorno). Nel caso di Lombardi la dichiarazione ha anche un’altra chiave di lettura. Sarebbe di “buon senso” immaginare i borghi spopolati delle aree interne come grandi alberghi diffusi per turisti. Questa idea rischia di dare la mazzata finale a una parte del Paese in cui è ancora possibile coltivare uno stile di vita non del tutto appiattito sull’alienazione morale delle metropoli.
Come spiega Vito Teti in Quel che resta.
L’Italia dei Paesi tra abbandoni e ritorni
(Donzelli 2017) è proprio questa Italia minore e sofferente che può ridare senso e sapore all’Italia apparentemente vincente. A patto che non la trasformiamo in un gigantesco parco a tema per turisti, ma la aiutiamo a rifarsi tessuto civile: anche con l’integrazione di nuovi italiani, qualunque sia il colore della loro pelle.
«Ripopoliamo le aree spopolate dell’Appennino con immigrati e rifugiati», ha proposto il “paesologo” Franco Arminio. «Nella città vecchia il popolo nuovo», ha detto l’urbanista Ilaria Agostini, chiedendo che i centri storici spopolati delle città d’arte siano luoghi di integrazione. E i concreti esempi positivi non mancano, a partire da quello notissimo di Riace.
Investire in questa direzione significa, sul medio e lungo periodo, favorire il “progresso materiale e spirituale della società” (articolo 4 della Costituzione).
Con quali soldi? È stato calcolato che con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia di Erdogan per bloccare i rifugiati, si sarebbero potuti accogliere e integrare tre milioni di migranti. Questo è buon senso. Così come è buon senso trovare intollerabile che i migranti affoghino nel mare in cui facciamo il bagno d’estate, o che siano chiusi in campi di concentramento pagati dai nostri governi. E questa orrenda campagna elettorale ha un bisogno di trovare un senso. Possibilmente buono.
il manifesto 24.2.18
Scuola, sciopero dei sindacati di base: «Gli aumenti del contratto sono miserabili»
La protesta. Indetto da Cobas, Cub, Unicobas e Usb. Poi il corteo a Roma. La rottura con i confederali
di Roberto Ciccarelli
Insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia che protestano contro una sentenza del Consiglio di Stato che mette a rischio il posto di lavoro, insieme ai docenti delle scuole di ogni grado e personale Ata, hanno aderito ieri allo sciopero della scuola indetto dai sindacati di base Cobas, Cub, Unicobas, Usb. Ragione della protesta è il contratto della scuola firmato il 9 febbraio scorso da Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, ma non dalla Gilda e dallo Snals. L’intesa è stata criticata anche dall’Anief.
A Roma i manifestanti si sono mossi in corteo dal Ministero dell’Istruzione in Viale Trastevere verso il Pantheon e sono stati raggiunti da lavoratori della sanità che hanno aderito allo sciopero indetto da Cub Sanità Italiana, Usb Pubblico Impiego Sanità e Nursing Up (le categorie di Cgil, Cisl e Uil lo hanno sospeso). Questi ultimi erano in presidio davanti al Ministero della Salute. Per Usb il contratto della sanità conterrebbe «solo peggioramenti sia per quanto riguarda i diritti che le condizioni di lavoro che si traducono in un peggioramento dei servizi per i cittadini». Nel corso della giornata la protesta si è spostata anche alla sede dell’Aran, dove si è discusso il contratto.
Tornando al contratto della scuola, i motivi della protesta dei sindacati di base sono articolati e molto tecnici. Su tutti, prevale la critica dell’aumento ottenuto dai confederali: da un minimo di 81 euro ad un massimo di 111. Questi importi, giudicati modesti («mancette elettorali» per Piero Bernocchi dei Cobas), sono stati criticati perché assegnati su base percentuale anziché in termini assoluti. Gli importi potrebbero essere dunque anche più bassi rispetto a quelli annunciati, pari a un «medio netto mensile di 45 euro per gli Ata e 50 per i docenti, dopo che in dieci anni di blocco contrattuale la categoria ha perso almeno il 20% del proprio salario, alcune decine di migliaia di euro» sostiene Bernocchi. «Un contratto si valuta se aumenta i diritti e i salari. questo non ha fatto né una cosa né l’altra – ha commentato l’Usb -I nostri aumenti sono un terzo dei metalmeccanici e un sesto dei presidi sceriffo aumenti da fame specie se paragonati ai contratti privati». Un altro motivo dello scontro riguarda l’integrazione dell’aumento con il «bonus» Renzi assegnato dai presidi ai docenti «migliori» e al ruolo dei sindacati nell’assegnazione.
La trattativa sul contratto ha permesso di migliorare la parte normativa rispetto alla prima bozza, evitando le ricadute negative della legge 107 sul contratto. Resta invariato l’orario di servizio, non sono introdotti compiti aggiuntivi obbligatori e non retribuiti né per la formazione, né per l’Alternanza Scuola-Lavoro, il Collegio dei Docenti mantiene la prerogativa di deliberare le attività. Parere diverso sul contratto è stato espresso dal segretario Flc-Cgil Francesco Sinopoli secondo il quale, grazie all’intesa, «la buona scuola non esiste più». Alle obiezioni sulla modestia degli aumenti è stato risposto che è preferibile «riprendersi qualche soldo dopo 10 anni di astinenza» con un triennio contrattuale già in scadenza (dicembre 2018). L’accordo è, al momento, in attesa di una ratifica da parte degli iscritti del sindacato.
Il Fatto 24.2.18
Intercettazioni, il ministero cancella il “metodo Falcone”
di Roberto Scarpinato
Procuratore generale a Palermo
Uno degli aspetti più ambigui ed insidiosi della nuova disciplina delle intercettazioni introdotta con il decreto legislativo n. 216 del 2017, riguarda la ridefinizione dei rapporti tra pubblico ministero e organi di polizia nella selezione delle conversazioni rilevanti per le indagini.
L’attuale normativa prevede che il pubblico ministero può procedere all’ascolto personalmente (articolo 267, comma 4, c.p.p.) oppure avvalendosi, come sua longa manus, di un ufficiale della polizia giudiziaria al quale l’articolo 268 c.p.p. attribuisce il compito meramente esecutivo di trascrivere anche sommariamente il contenuto delle comunicazioni intercettate, senza operare alcuna selezione.
Tali trascrizioni, in gergo definite brogliacci, vengono quindi esaminate dal pubblico ministero al quale è attribuito dalla legge il potere di individuare le comunicazioni rilevanti per le indagini.
La nuova disciplina, che entrerà in vigore il prossimo 25 luglio, attribuisce invece agli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di selezionare le comunicazioni rilevanti, stabilendo per essi il divieto di trascrivere, anche in modo sommario, le comunicazioni o conversazioni a loro giudizio irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle sempre a loro giudizio parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge.
L’articolo 268 bis c.p.p. di nuovo conio stabilisce inoltre che gli ufficiali di polizia giudiziaria non solo devono omettere di trascrivere le conversazioni da essi ritenute irrilevanti, ma devono altresì omettere in tali casi qualsiasi indicazione sull’identità delle persone dialoganti e sull’oggetto delle loro conversazioni. Nel verbale delle operazioni devono essere indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.
Per evitare che a causa di tale modalità di trascrizione delle conversazioni intercettate, che determina il totale oscuramento di quelle ritenute irrilevanti dalle forze di polizia, il pm sia privato di ogni potere di autonoma e successiva valutazione sulla rilevanza o meno delle predette conversazioni, un altro articolo della nuova disciplina (articolo 267, comma 4, c.p.p. come modificato), prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria devono provvedere a trasmettere al pubblico ministero “annotazioni” contenenti una sintesi delle conversazioni da essi non ritenute rilevanti e la cui trascrizione è stata omessa.
In tal modo viene conseguito un triplice scopo: 1) mantenere integro il ruolo di dominus del potere di indagine e di valutazione del materiale probatorio esclusivamente in capo al pubblico ministero, il quale sulla base di tali annotazioni delle forze di polizia viene messo in grado di conoscere anche il contenuto sommario delle conversazioni di cui è stata omessa la trascrizione perché ritenute irrilevanti dalla polizia giudiziaria, operando eventualmente una valutazione difforme di rilevanza; 2) garantire ai difensori, ai quali pure è attribuito il diritto di esaminare le annotazioni, di individuare eventuali conversazioni scartate dalla polizia giudiziaria ed invece aventi a loro giudizio rilevanza processuale per i propri assistititi, chiedendone così la successiva trascrizione al giudice; 3) garantire il diritto alla privacy dei terzi o degli stessi indagati in quanto la nuova normativa prevede che le “annotazioni” sul contenuto delle conversazioni ritenute irrilevanti siano coperte dal segreto e custodite presso un archivio riservato del pubblico ministero unitamente alle registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono (articolo 89 bis delle norme di attuazione), senza che i difensori possano estrarne copia essendo loro attribuito solo il diritto di esaminarle, così come ad essi è attribuito solo il diritto di ascoltare le conversazioni intercettate ritenute irrilevanti ma non il diritto di avere copia delle registrazioni.
A causa dell’ambigua formulazione della norma sulle annotazioni, il ministero della Giustizia nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 216 del 2017, ha invece fornito l’indicazione che tale norma deve essere interpretata nel senso che gli ufficiali di polizia giudiziaria non hanno l’obbligo di informare sistematicamente il pubblico ministero con apposite annotazioni sul contenuto di tutte le conversazioni da essi ritenute irrilevanti e dunque radicalmente omissate, ma solo nei casi in cui essi nutrano il dubbio se si tratti di conversazioni rilevanti o meno e quindi se procedere alla loro trascrizione. Tale interpretazione riduttiva sposta l’asse del potere selettivo delle conversazioni rilevanti per le indagini a favore delle forze di polizia, che così vengono abilitate a stabilire autonomamente quali tra quelle da essi ritenute irrilevanti siano meritevoli di essere sottoposte o meno al vaglio del pubblico ministero.
Si tratta di un’interpretazione che oltre a non avere una base testuale nella lettera della norma, non appare costituzionalmente orientata ponendosi in contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 112, 104, 24 e 111 che sanciscono rispettivamente l’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza e autonomia della magistratura da ogni altro potere, l’inviolabilità del diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento, l’attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo: principi tutti che verrebbero sacrificati sull’altare del diritto alla privacy di cui all’art. 15, con un evidente sbilanciamento nel contemperamento dei valori che appare tanto più irragionevole ove si consideri che il regime di segretezza assicurato alle annotazioni è pienamente idoneo a garantire pure quest’ultimo diritto.
Ove venisse seguita l’indicazione ministeriale il pubblico ministero verrebbe infatti privato, a favore delle forze di polizia, della pienezza del potere-dovere di operare una autonoma valutazione di tutte le risultanze processuali acquisite, nessuna esclusa, ivi comprese quelle a favore della persona sottoposta ad indagini, obbligo quest’ultimo imposto espressamente dall’articolo 358 del c.p.p. solo a carico del pubblico ministero e non anche a carico delle forze di polizia. Verrebbe inoltre pregiudicata l’effettività del diritto di difesa, essendo evidente che i difensori in assenza di annotazioni che riguardino tutte le conversazioni ritenute irrilevanti e dunque non trascritte, verrebbero privati di una indispensabile bussola per orientarsi nell’individuare quelle per essi rilevanti e dunque da trascrivere. In assenza delle annotazioni, l’unica alternativa, impraticabile, sarebbe quella di procedere personalmente al riascolto di migliaia di ore di intercettazioni a volte protrattesi per lunghi mesi su varie decine di soggetti.
Purtroppo l’interpretazione riduttiva del ministero è stata fatta propria da alcuni procuratori della Repubblica i quali hanno già emanato direttive agli organi di polizia e ai magistrati dei loro uffici con ricadute sul piano degli equilibri generali che si profilano tanti più gravi quanto più tale interpretazione dovesse divenire maggioritaria.
Poiché, come accennato, la nuova normativa entrerà in vigore solo il prossimo 25 luglio, è bene assumere consapevolezza che sul terreno dell’interpretazione e dell’applicazione pratica della nuova normativa si giocherà nei prossimi mesi una partita di grande rilevanza istituzionale il cui esito è destinato ad incidere anche sulla latitudine dei poteri di indagine e di acquisizione delle prove del pubblico ministero nel settore del contrasto alla criminalità mafiosa e terroristica.
Infatti in tale strategico settore, la rilevanza delle conversazioni intercettate ai fini delle indagini non viene valutata solo in relazione all’oggetto e ai soggetti coinvolti nel singolo procedimento penale nel quale sono disposte le intercettazioni, ma anche con riferimento ad altri procedimenti penali pendenti presso la stessa Procura della Repubblica e in tutte le altre procure italiane sedi di direzioni distrettuali antimafia e di dipartimenti antiterrorismo.
Conversazioni ritenute irrilevanti in un procedimento instaurato per traffico di droga presso la Procura di Milano possono rivelarsi rilevantissime per un procedimento per omicidio alla Procura di Palermo e per un procedimento per misure di prevenzione patrimoniali alla Procura antimafia di Torino. Gli esempi concreti tratti dalla quotidianità della prassi operativa potrebbero essere migliaia.
L’obbligo della circolazione delle informazioni, eredità preziosa del metodo Falcone, finalizzato ad evitare il pericolo di dispersione di risultanze processuali irrilevanti nel procedimento in cui sono state acquisite, ma rilevanti in altri procedimenti, è sancito dall’articolo 102 del decreto legislativo n. 159 del 2011 (codice antimafia) e viene realizzato mediante l’inserimento costante dei flussi informatici di tutte le indagini concernenti reati in materia di mafia nelle banche dati logiche delle singole procure distrettuali antimafia, consultabili non solo dai magistrati di quelle procure ma anche dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo nell’ambito della banca dati nazionale condivisa gestita dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo quale prezioso supporto per il proficuo svolgimento della sua funzione di coordinamento.
Tale metodo di lavoro si è reso sinora possibile grazie all’attuale disciplina normativa delle intercettazioni che ha consentito di popolare costantemente le banche dati con le trascrizioni ed i brogliacci di tutte le intercettazioni eseguite nelle varie procure distrettuali italiane, trascrizioni che riguardano tutte le conversazioni sia quelle immediatamente rilevanti per il procedimento in cui sono state disposte sia quelle irrilevanti per quel procedimento ma potenzialmente rilevanti per altri procedimenti.
A seguito della entrata in vigore della nuova disciplina normativa sulle intercettazioni, tale metodo di lavoro potrà essere mantenuto solo se gli ufficiali di polizia giudiziaria oltre a trascrivere le conversazioni da essi ritenute rilevanti con esclusivo riferimento al procedimento in cui sono state disposte, redigeranno sistematicamente annotazioni per tutte le altre conversazioni da essi ritenute irrilevanti in quel procedimento ma che potrebbero avere grande rilevanza in altri procedimenti di cui essi non possono e non debbono avere cognizione.
Se invece dovesse affermarsi l’interpretazione secondo cui gli ufficiali di polizia giudiziaria possono omettere completamente non solo di trascrivere ma anche di annotare per il successivo controllo da parte del pubblico ministero, tutte o gran parte delle conversazioni da essi ritenute non rilevanti per quel singolo procedimento, si verificherebbe la dispersione di un enorme patrimonio informativo di cui non resterebbe traccia documentale, con gravi ricadute negative per l’efficacia del contrasto alla mafia ed al terrorismo.
Il Fatto 24.2.18
“Ma di che si parla? L’agente provocatore in Italia c’è già”
“Queste operazioni le facciamo per droga, armi, riciclaggio, ecc”
di Antonella Mascali
La lotta alla corruzione, sempre dilagante in Italia, è tornata a dividere non solo politici ma anche magistrati tra chi, da anni, chiede gli agenti provocatori, come l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e chi è contrario, come il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte o il presidente dell’Anac Raffaele Cantone.
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, presidente di sezione della Cassazione, non capisce proprio queste obiezioni: “La legge italiana prevede già operazioni sotto copertura ( con agenti provocatori, ndr) ma non per la corruzione. Queste operazioni sono quelle in cui un ufficiale di polizia giudiziaria, dissimulando tale sua qualità, prende notizia di attività illecite, cioè può infiltrarsi in organizzazioni criminali o in altri casi, già previsti dalla legge italiana, può determinare un reato, per esempio facendo un acquisto simulato di stupefacenti”.
Ma chi è contro l’agente provocatore in indagini contro la corruzione dice che nelle situazioni appena descritte il reato c’era già, non sarebbe indotto…
Non sempre è così. Per le grandi quantità di droga, ad esempio, chi deve venderla prima trova l’acquirente e poi si mette d’accordo con il cartello che si trova all’estero per farla arrivare in Italia. Inoltre, anche queste operazioni sotto copertura prevedono che l’ufficiale di polizia giudiziaria commetta un reato (deve dotarsi di falsi documenti e acquistare stupefacenti) al fine di poter arrestare trafficanti e, dunque, non è punibile. Nessuno, però, si è mai scandalizzato.
Ci sarebbe anche una convenzione dell’Onu contro la corruzione firmata dall’Italia, ma ignorata.
È la convenzione di Merida, ratificata dall’Italia senza alcuna obiezione, ma mai attuata in 15 anni. All’articolo 50 prevede l’introduzione di operazioni sotto copertura e fa anche esplicito riferimento alle consegne controllate.
Mazzette?
È evidente che si tratta dell’oggetto del patto illecito e prevedono che costituiscano prova al processo.
Perché la Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo ha condannato alcuni Paesi che hanno usato gli agenti provocatori?
La Cedu ha detto che non possono essere l’unica causale del reato. Non si tratta, però, di fare operazioni sotto copertura per punire la propensione a commettere un reato (come dice Cantone, ndr) ma scatterebbero solo nei confronti di persone che commettono un’attività illecita seriale. I trafficanti sono tali non se spacciano una volta soltanto, allo stesso modo un funzionario pubblico che si vende, ragionevolmente lo fa tutte le volte che ha occasione. La ratio è la stessa. Non capisco questa durissima opposizione all’estensione alla corruzione, sia pur prevista da una convenzione Onu, mentre va bene per lotta alla droga, armi, riciclaggio e pedopornografia.
Come si spiega questa levata di scudi? È per l’inchiesta giornalistica di Fanpage che ha coinvolto il figlio del governatore campano Vincenzo De Luca?
Di Napoli non parlo, c’è un processo in corso. Le ragioni di queste obiezioni le chieda a quelli che le fanno. Io non le comprendo, altra cosa è, invece, la cautela. Ci vuole un controllo dell’autorità giudiziaria ed eventualmente queste operazioni vanno concentrate nelle procure capoluogo di distretto dove sono possibili le specializzazioni. Altra cosa importante: va disciplinata la scelta dell’obiettivo per non prendere persone a caso ma solo nel momento in cui emerge una sproporzione tra il reddito, il tenore di vita e/o la situazione patrimoniale. Ci vogliono indizi che la persona oggetto di attenzione ragionevolmente commetta questo tipo di reati.
Perché è così importante l’utilizzo di agenti provocatori nella lotta alla corruzione?
La corruzione non viene scoperta praticamente mai, è nota solo a corrotti, corruttori e intermediari che hanno l’interesse convergente al silenzio. Per poterla sconfiggere ci vogliono anche forti sconti di pena per chi collabora, fino all’impunità se racconta tutto. Chi lo fa diventa onesto per forza, nessuno lo avvicinerà più. Ma per poter individuare i corrotti e avere prove nei loro confronti ci vogliono le operazioni sotto copertura, solo dopo si può convincerli a collaborare, un pentimento spontaneo è altamente improbabile.
Il Fatto 24.2.18
Il testo “Orlando” e la nuova circolare
Il governo, sulla base di una delega affidatagli dal Parlamento, ha riscritto a fine 2017 la normativa sulle intercettazioni in senso più restrittivo quanto alla tutela della privacy. In sostanza il testo voluto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, prevede il divieto di trascrizione “anche sommaria” delle “comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti”. Nel verbale delle operazioni va indicato solo data, ora e dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Curiosamente la decisione su cosa sia rilevante o meno viene presa dalla polizia giudiziaria e non dal pm, che può però fare brevi annotazioni all’autorità giudiziaria: una circolare del ministero, però, ha recentemente (e di nuovo curiosamente) limitato la possibilità per le forze dell’ordine di informare il pm. Negli atti, peraltro, si potranno citare, “ove necessario” solo i “brani essenziali” delle intercettazioni. L’archivio delle registrazioni e dei brogliacci sarà custodito dal pubblico ministero.
Il Fatto 23.2.18
“Così è cominciata l’Italia, da un errore”
La Rai presenta “La mossa del cavallo”: un film tratto da un romanzo dello scrittore. E spiega i nodi irrisolti del Paese
di Pietrangelo Buttafuoco
C’era una volta Vigata. Ed ecco La Mossa del Cavallo. La Rai presenta lo smagliante ultimo suo prodotto – nientemeno che un film in costume tratto da un romanzo storico, un vero lusso – e il racconto di Andrea Camilleri torna indietro nel tempo, nella Montelusa del 1877, con la storia di Giovanni Bovara, ispettore capo dei mulini – siciliano di nascita, ma cresciuto in Continente – deciso a far rispettare l’obbligo, fosse pure l’odiosa tassa sul macinato.
C’era una volta quello che c’è sempre, ovvero qualcosa di grande e pericoloso, un sistema di avidità e crimine. Ed è una scacchiera perfino intraducibile con la lingua della Legge. E c’era dunque a Vigata – e ancora adesso c’è – l’errore che ha generato l’Unità d’Italia.
La voce di Camilleri domina come ex cathedra e denuda l’errore: “Il colonnello dei Carabinieri che di nome fa Carlo Alberto Dalla Chiesa – il nonno del generale omonimo ucciso a Palermo dalla Mafia – giunto in Sicilia incita gli uomini al suo seguito a fare fuoco”.
Quella voce, dà voce a una ferita mai sanata. È il colonnello che parla: “Non abbiate timore a sparare ai contadini, in quei campi troverete più fucili che pane”.
C’era una volta Vigata e c’era l’esercito fucilatore. E adesso c’è la “P di politica che è diventata minuscola”. No però, non di politica vuole parlare Camilleri, ma di storia se alla folla che lo applaude a viale Mazzini – nell’atrio della sede Rai – per la conferenza stampa di presentazione del film La Mossa del Cavallo (regia di Gianluca Maria Tavarelli) racconta il fatto per come fu: “Su cinquecentomila aventi diritto al voto, solo settanta, in Sicilia, dissero no a Roma ma l’Italia, pur beneficiata da tanto consenso, ricambiò quell’entusiasmo con l’esercito fucilatore”.
Ci vuole il romanzo per far conoscere la storia: “I siciliani ebbero a vivere il servizio di leva come un lutto provvisorio; i parenti dei soldati, infatti, vestivano il lutto stretto fino al completamento degli obblighi militari”.
L’Italia si doveva pur fare e Camilleri, potente nella sua presenza, affabula in realismo e dice: “Ragazzi del Piemonte, della Liguria, della Sicilia, della Puglia e del Veneto, messi l’uno accanto all’altro, cominciavano a parlare una stessa lingua”. Dopo di che, zolfo di viva intelligenza, cauterizza con l’ironia: “Così è cominciata l’Italia, da un errore”.
Ecco la Mossa, ed ecco un Camilleri in una nuova prova tivù confezionata con tutti i crismi delle arti. Ci sono, infatti, con la letteratura del suo Autore, la maestria del grande teatro in ogni singolo attore, la ricostruzione impeccabile di scenografia e costumi, la cifra del miglior cinema, il contenuto storico e la regia originale di Tavarelli in così grande spolvero da far sembrare la tivù troppo poca cosa. A benedire il tutto, la bedda Sicilia, ancora una volta gli scorci incantevoli di Scicli, Ibla, Modica e Ispica (e il mare di Donnalucata, va da sé).
Nel ruolo di protagonista c’è Michele Riondino. Attore eccellente, già interprete del Commissario Montalbano da “giovane” – dove è perfino superiore a Luca Zingaretti – in questo film dalla scrittura limpida, Riondino si concede un virtuosismo di sdoppiamento: parla con l’inflessione ligure per poi decidersi, nello scacco, a ragionare in vigatese, una sorta di scavo nella lingua madre con cui apparecchiare il colpo di scena.
Bedda, degna dell’archetipo della Lupa, è Ester Pantano nel ruolo della femmina che porta alla dannazione pure il padre parroco. La scena più erotica si consuma quando lei ordina a un garzone di preparare il letto all’ispettore dei mulini cui ha affittato la casa. Fulmina con un’occhiata il ragazzo e gli intima: “…mi raccomando le lenzuola, tese!”.
Inesorabile, ma nella disinvoltura di una saggezza bieca, è la ferina natura di quella Vigata. Una brocca sta appoggiata alla bocca di un pozzo. Un tiratore accecato di rabbia spara, tira, tira e spara senza mai beccare il bersaglio. Un vecchio caracollante gli strappa il revolver dalla mano, lo impugna, spara e mette a segno sulla brocca: “Non si spara con il cuore, si spara con la testa!”.
Prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e da RaiFiction, scritto da Camilleri con Leonardo Marini, Valentina Alferj e Francesco Bruni, il film prelude – lo ha detto Tinny Andreatta, direttrice di RaiFiction – “a una collezione che pensiamo possa nascere su questa radice”.
Disegnato come a godere dei Tre Moschettieri, a volte come un western, a tratti come commedia e Opera dei Pupi (magnifico il delegato di polizia, tanto è fetente come un Gano di Magonza, e così Filippo Luna, l’avvocato Fasulo), il film prenderà, con il largo pubblico televisivo, anche i palati più esigenti perché quell’alchimia dell’intrattenimento popolare di cui teorizzò Umberto Eco, qui si conferma con un Camilleri definitivamente letterario. Questa volta, infatti, non c’è il genere poliziesco. Adesso torna in campo il grande romanzo. E la sequenza perfetta, coerente in nitore di parola e ragionamento, è solo una. Ed è tutto quello che deriva da Vigata: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri.
La Stampa 24.2.18
L’inferno senza fine di Goutha, duemila morti nel silenzio del mondo
L’assedio di Assad e dei russi alla provincia ribelle: «Vogliono lo sterminio». All’Onu si negozia la tregua. Merkel e Macron a Putin: «È il momento di agire»
di Domenico Quirico
qui
il manifesto 24.2.18
Trump accelera, ambasciata Usa a Gerusalemme il 14 maggio
Israele/Territori palestinesi occupati. Anticipata dai media israeliani e dal ministro Yisrael Katz la notizia è stata confernata da una fonte del Dipartimento di Stato. La rabbia dei palestinesi: è una provocazione.
di Michele Giorgio
Yisrael Katz non ce l’ha fatta a contenere la sua felicità e ha anticipato tutti ieri, incluso il premier Netanyahu. «Mi voglio congratulare con Donald Trump, il presidente Usa, della sua decisione di trasferire l’ambasciata nella nostra capitale nel 70 anniversario della Giornata dell’indipendenza (la fondazione di Israele, ndr). Non c’è un regalo più grande di questo. La decisione più giusta e corretta. Grazie, amici!», ha scritto il ministro dei trasporti sul suo profilo Twitter, commentando il nuovo schiaffo dell’Amministrazione Usa al diritto internazionale e alle rivendicazioni palestinesi sulla città santa. La risposta palestinese è arrivata poco dopo, per bocca di Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente dell’Anp Abu Mazen. «Qualsiasi iniziativa incoerente con la legittimità internazionale – ha spiegato – impedisce ogni tentativo di raggiungere accordi nella regione e crea un clima negativo e dannoso». Più netta è stata la condanna di Hamas. Il trasferimento dell’ambasciata, ha scritto in un comunicato il movimento islamico «è una dichiarazione di guerra nei confronti della nazione araba e musulmana». Si attendono ora le risposte della popolazione palestinese che ha già reagito con grandi manifestazioni di protesta a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e a Gaza al riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele e all’annuncio del trasferimento dell’ambasciata fatti da Donald Trump lo scorso 6 dicembre.
La data ufficiale del trasferimento della sede diplomatica ieri sera non era stata ancora comunicata dalla Casa Bianca. Un funzionario del Dipartimento di Stato ha soltanto confermato il passaggio a maggio della sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, senza fornire dettagli. Secondo i media locali, in una prima fase sarà aperta una ambasciata provvisoria nella struttura consolare di Gerusalemme Ovest, da dove l’ambasciatore David Friedman lavorerà con uno staff ridotto. In seguito questa sede sarà ampliata e, infine, sarà aperta un’ambasciata permanente con ogni probabilità nella zona sud-est di Gerusalemme, quindi nella parte araba della città occupata da Israele nel 1967. Qualcuno parla di mossa “simbolica” il prossimo 14 maggio, per celebrare i 70 anni dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Simbolica non lo è per niente. Tutto ciò che riguarda Gerusalemme e il suo status ha una eccezionale importanza politica e genera passioni e reazioni in almeno metà del pianeta.
Trump ha voluto accelerare i tempi. Solo il scorso mese, il vicepresidente Usa Mike Pence aveva parlato di uno spostamento dell’ambasciata entro la fine del 2019. Poi è intervenuto qualcosa. Anzi qualcuno, il miliardario israelo-americano Sheldon Adelson, da anni alfiere del primo ministro Netanyahu. I media israeliani scrivono che Sheldon, tra maggiori finanziatori dei Republicani, si è offerto di coprire una buona parte dei costi (decine di milioni di dollari) della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme a patto che il progetto vada avanti ad alta velocità. E il Dipartimento di Stato starebbe ora valutando se sia legale accettare donazioni private. In quel caso oltre a Sheldon, l’Amministrazione Trump potrebbe sollecitare contributi dalle comunità evangeliche sioniste ed ebraiche degli Usa.
Dietro questa accelerazione c’è con ogni probabilità anche la prossima, così pare, presentazione del cosiddetto “Accordo del secolo” tra israeliani e palestinesi, ossia il “piano di pace” della Casa Bianca. L’ambasciatrice americana all’Onu Nikky Haley ha detto durante un incontro all’Istituto Politico dell’Università di Chicago che gli Usa «stanno arrivando con un piano, non sarà amato da entrambe le parti e non sarà odiato da entrambe le parti». Parole che significano tutto e nulla. Di certo si sa solo che gli Usa non appoggiano più la soluzione dei Due Stati ed escludono quella dello Stato Unico, e che i palestinesi respingono con forza la mediazione americana dopo la dichiarazione di Trump su Gerusalemme.
La Stampa 24.2.18
Trump insiste: “Armiamo e addestriamo gli insegnanti, ma vietiamole ai malati mentali”
Il presidente ribadisce il bisogno di armare e addestrare i docenti. Tra i primi atti all’inizio del mandato ci fu quello di cancellare la normativa Obama che vietava il possesso di armi a chi soffre di problemi psichici
qui
il manifesto 24.2.18
Quella memoria condivisa che non si interroga su se stessa
Berlinale 68. Il regista ucraino Sergei Loznitsa presenta al Forum il suo nuovo documentario «Victory Day». Girato a Berlino nel memoriale russo costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti
di Cristina Piccino
BERLINO Il tramonto è rosso fuoco ma l’aria è freddissima, la Berlinale si chiude oggi e stasera scopriremo l’Orso d’oro, sembra che nel cuore dei giurati – che bello incontrare in qualche proiezione il sempre elegantissimo Sakamoto – sia molto piaciuto anche Las Herederas melò appena tratteggiato con molto realismo da Marcelo Martinessi, racconto di un desiderio e insieme dei rapporti di potere che si stabiliscono in ogni relazione. Al centro c’è una coppia di donne borghesi, in Paraguay, costrette a un radicale cambiamento della loro esistenza con l’arresto di una di loro e la perdita della bellissima casa. Così mentre Chiqui è in prigione, Chela svuota la loro abitazione e comincia a scoprire per sé stessa altre possibilità: un lavoro e un nuovo amore … Sembra però che anche Alba Rohrwacher (Figlia mia di Laura Bispuri) sia molto piaciuta ai giurati nel ruolo dell’imprevedibile (e un po’ selvatica) Angelica… Si vedrà.
Sergei Loznitsa lo definisce «un film su un monumento all’ambiguità» Victory Day – presentato al Forum ma poteva essere nel concorso se (come Cannes) fosse meno irrigidito – girato a Berlino, a Treptower Park, nel memoriale sovietico costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti. Un titolo che conferma la sezione tra le migliori del festival, l’unica in cui sperimentazione e diverse proposte di ricerca sul cinema riescono ancora a trovare uno spazio in una selezione che comprende autori contemporanei, omaggi al pink giapponese nella figura della meravigliosa attrice Keiko Sato, la presenza di James Benning con un suo lavoro «storico» 11×14 e l’eclissi di L.Cohen, restauri e giovanissimi.
l giorno della Vittoria è il 9 maggio, che fino al 1965 era festa nazionale in tutta l’Europa dell’est e che di recente Putin ha reinvestito di orgoglio nazionale. A Berlino arrivano nel monumento di Treptower Park cittadini da ogni repubblica dell’ex-Urss, anziani, più giovani, uomini, donne, famiglie, bambini vestiti da piccoli soldati; coccarde e bandiere rosse e russe, garofani rossi, fiori e corone; eroi di guerra, veterani e medaglie; cori patritottici e danze. «Abbiamo combattuto tutti insieme» dice qualcuno. Un altro, kazako saluta il suo Paese. Qualcuno parla di fascismo e di neo-fascismo, accusa la Germania di non avere mai affrontato con sincerità il passato nazista. Due quasi litigano, la Germania era solo quella socialista, gli altri sono ancora oggi una finta democrazia…. I cosacchi suonano, si ride, si mangia, un ragazzino non vuole infilare la casacca dell’Armata Rossa, smart-phone, qualche videocamera, nessuno sembra preoccuparsi della presenza del regista.
Se il dispositivo è lo stesso utilizzato in Austerlitz, Victory Day ne rappresenta una sorta di controcampo: lì i visitatori del campo di concentramento erano una massa distratta, distante, che si poneva nei confronti del luogo come verso ogni museo o monumento dei tour turistici, con la stessa indifferenza e gli stessi rituali..Qui invece tutte le persone che si ritrovano a Treptower Park sono coinvolte in ciò che quel giorno e quel luogo rappresenta, l’avvenimento storico e la sua retorica. Lo stesso vale per il regista. Nelle note al film Loznitsa scrive: «Ci sono questioni cruciali riguardo al ruolo dell’Unione sovietica nella seconda guerra mondiale. Per esempio il patto Ribbentrop-Molotov, la divisione della Polonia, la guerra contro la Finlandia …
Per questo visti poi i crimini commessi da un regime quale lo stalinismo, ogni monumento eretto nell’era sovietica che ne celebra le mitologie, racchiude per me una forte ambiguità. È molto difficile riuscire a confrontarsi con questo». La sua posizione è dunque differente, c’è una vicinanza seppure critica, e un coinvolgimento che muta il rapporto coi corpi delle persone e il modo di filmare la loro presenza nello spazio. Quello che vedevamo in Austerlitz era il compimento di una rimozione nella quale la memoria dell’Olocausto finiva per coincidere col consumo turistico indistinto; qui il regista illumina invece una memoria condivisa e sempre viva ma allo stesso modo parziale, che non si interroga cioè su se stessa. L’adesione al sentimento patriottico che mischia falce e martello e icone religiose, è come se cancellasse la possibilità di una consapevolezza storica, che sia nella gravità (di facciata) nel campo di concentramento o nell’adesione festiva è sempre qualcosa che si arresta alla superficie, i simboli e i rilievi con la storia degli eroi e del popoli lasciano ovunque indietro le contraddizioni passate e presenti.
Le questionio che Loznitsa solleva riguardano la rappresentazione di un Paese, della Storia, in che modo rispondono a una idea comune e dove invece si possono scorgere le crepe e quanto ormai si è perduto. In entrambi i film, Austerlitz e Victory Day al centro c’è proprio il gesto della celebrazione: cosa significa e in che modo svuota di consapevolezza chi vi partecipa, quasi dispiegando una strategia dell’accettazione, messaggio rassicurante, rito portato a compimento. Senza domande, senza esitazioni.
La Stampa TuttoLibri 24.2.18
“Churchill è il nostro mito ma non è stato lui a farci vincere”
Gli inglesi continuano a essere orgogliosi della guerra e della sofferenza In realtà Hitler è stato beffato da Chamberlain, l’uomo che cercava la pace
di Robert Harris
qui
il manifesto 24.2.18
Roma, sul cinema America voltiamo pagina
di Valerio Carocci
Roma Capitale ha consapevolmente scelto di inserire Piazza San Cosimato nel bando dell’Estate Romana, una decisione esclusivamente politica, da noi non condivisa, ma nelle libertà e possibilità dell’amministrazione.
Bergamo sarebbe stato corretto se avesse presentato la scelta in quanto tale, senza cercare rifugio dietro inesistenti necessità normative oppure cadere in errore nella diffamazione, ma così non è stato, non ha avuto la forza, quindi ora voltiamo pagina per il bene della città. Chiediamo di non essere più rincorsi: questo tentativo, a posteriori, di convincerci a partecipare al bando non è dignitoso e sta esponendo, a nostro giudizio, l’amministrazione pubblica ad una distorsione del principio di concorrenza e trasparenza in materia di bandi pubblici.
A che titolo il comune, ente pubblico, chiede reiteratamente al Piccolo America, ente privato di partecipare ad un concorso pubblico, sottolineando spesso anche le sue capacità e possibilità di vittoria. Da cosa nasce il concorso pubblico? Dalla volontà dell’amministrazione comunale di garantire a tutti la possibilità di proporre progetti per Piazza San Cosimato, ed in teoria le altre piazze della città, al fine di garantire che a realizzarsi sia il progetto migliore. In sintesi: tutti devono poter richiedere la piazza, non c’è alcun diritto di prelazione, di nessuno.
Allora a che titolo veniamo tirati per la giacchetta affinché ci sia una nostra partecipazione? Roma Capitale la smetta di perdere tempo e lavori con gli altri operatori per garantire attività culturali a San Cosimato.
Per assurdo, alla luce di quanto appena affermato, se il Piccolo Cinema America cambiasse idea, non ci sarebbero neanche più le condizioni per una partecipazione al bando per Piazza San Cosimato né di qualunque altra area, in quanto sia in caso di vittoria che di sconfitta temiamo che non si potrebbe più avere certezza che la valutazione «tecnica» avverrebbe esclusivamente per merito. Questo anche nel rispetto di tutti gli altri operatori che vorranno partecipare.
Pertanto, sulla base della nostra decisione politica di non partecipare (rafforzata dal rasentato processo diffamatorio di cui riteniamo di essere stati vittime, per via delle parole del Vice Sindaco), ma anche per quanto appena esposto: confermiamo che non vogliamo, né oramai possiamo partecipare.
Chiediamo al Campidoglio di rispettare la nostra scelta, iniziare a lavorare per trovare un altro soggetto idoneo ed inoltre di metterci nelle condizioni di lavorare per portare il Cinema Gratis nella periferia di Roma.
In riferimento alle location Municipali (Tor Spaienza IV Muncipio e Valle Aurelia XIV Municipio), a differenza di quanto dichiarato, non è arrivata alcuna concessione. Ci dicano se vogliono o meno che portiamo il Cinema Gratis nella periferia di Roma, basta saperlo.
Valerio Carocci è presidente ass. Piccolo Cinema America
Caserta. Don Michele Barone (41 anni)
Violenza sessuale durante esorcismi, arrestato sacerdote
Il prete avrebbe agito con il «contributo consapevole e volontario» dei genitori della tredicenne e l’appoggio di un dirigente di Polizia
Il prete convinceva le donne di essere indemoniate
qui
Il Fatto 24.2.18
Violenza sessuale ed esorcismi: arrestato sacerdote
Un sacerdote del Casertano di 42 anni, è stato arrestato con l’accusa di aver compiuto “medievali e brutali riti esorcisti” su numerose donne, tra cui una minore e una giovane, le cui modalità – secondo la Procura di Santa Maria Capua Vetere – hanno concretizzato la realizzazione della violenza sessuale aggravata. Ai domiciliari sono finite altre tre persone, due delle quali sono genitori della minore vittima e un dirigente della Polizia, amico del sacerdote. Il sacerdote arrestato, Michele Barone, era stato sospeso appena una settimana fa per un anno dalle funzioni sacerdotali dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo. Del caso si erano occupate Le Iene in un servizio in cui si denunciavano esorcismi praticati su una tredicenne che avrebbe avuto problemi psichici. Il dirigente di Polizia finito ai domiciliari è Luigi Schettino, alla guida del commissariato di Maddaloni fino a pochi giorni fa. Secondo i pm era vicino al sacerdote e avrebbe fatto pressioni sulla sorella della vittima minorenne affinché ritirasse una denuncia contro il sacerdote e non avrebbe impedito il compimento delle azioni violente. Gli altri due finiti ai domiciliari sono i genitori della minorenne che avrebbero permesso gli esorcismi.
La Stampa TuttoLibri 24.2.18
Dal sangue di Gennaro al prepuzio di Gesù:
il corpo dei santi moltiplica fede e miracoli
Una guida quasi turistica alle reliquie conservate nel nostro Paese fra ritrovamenti, furti, ostensioni. E qualche doppione di troppo
di Alberto Mattioli
Corpi interi o a pezzi. Disseppelliti, ritrovati, trafugati, traslati, inumati, imbalsamati, mummificati. E poi smembrati, divisi, moltiplicati: dita, mani, gambe, piedi, teste, lingue, cuori. Ma anche, per esempio, il prepuzio di Cristo. Corpi miracolosi, adorati, pregati, invocati, baciati. Reliquie offerte alla devozione dei fedeli, al business dei mercanti, all’incredulità degli scettici, all’ironia degli illuministi, alla curiosità di tutti. Reliquie di prima classe, quelle provenienti direttamente dal corpo del santo, «ex ossibus, ex carne, ex praecordis, ex piliis, ex cineribus, ex tela imbuta sanguine», oppure di seconda, diciamo così, «indirette»: gli abiti, il cilicio, la polvere grattata dal sepolcro, la manna stillata dalle ossa, l’olio della lampada votiva e così via. Fino ai sandali di Gesù, alla Sacra Culla, alle lenticchie dell’Ultima Cena, alla spugna imbevuta d’aceto della Crocifissione.
Ecco un saggio di Marco Orletti che è una delizia dall’inizio alla fine, per credenti e non. Guida alle reliquie miracolose d’Italia è un vademecum per orientarsi fra queste testimonianze, vere o presunte, del Sacro. Un Sacro tutt’altro che trascendente, anzi a portata di vista, di tocco, di bacio. Una religiosità prêt-à-porter, per tutti i san Tommaso che non credono se non vedono.
Appunto: crederci o non crederci? Orletti è moderatamente scettico, talvolta ironico, mai irrispettoso. Certo, non rinuncia a rilevare contraddizioni anche clamorose. I denti di sant’Apollonia sono così numerosi che quando Paolo VI ordinò di raccogliere tutti quelli sparsi per l’Italia riempirono una cassetta di tre chili e mezzo.
Il Santissimo Prepuzio di Gesù (discusso, però: dal 3 febbraio 1900, un decreto della Congregazione per la Dottrina della fede «vieta a chiunque di scrivere o parlare della reliquia») sarebbe conservato a Calcata, 906 abitanti in provincia di Viterbo. Ma in giro per l’Europa ce ne sono almeno altri dodici. Per la precisione, a Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Metz, Hildesheim, Conques, Langres, Fécamp, Puy-en-Velay, Coulombs, Charroux e Anversa. Dopo i pani e i pesci, la moltiplicazione dei prepuzi. Che dire se non: miracolo!
Ci sono anche personaggi dubbi. San Giorgio (il cranio è a Roma, un braccio a Brindisi, una mano a Varzi, e una costola del drago che avrebbe ucciso ad Almenno) forse non è mai esistito, e infatti la Chiesa lo ha declassato a «memoria facoltativa». Santa Barbara (il corpo è a Burano, la testa a Montecatini, ma senza una mandibola che si trova a Pisa. Però una mammella ce l’hanno gli ortodossi, a Novgorod) non è documentata storicamente. I tre Re Magi (reliquie estradate dal Barbarossa da Milano a Colonia, ma due fibule, una vertebra e una tibia sono ancora a Milano) forse non erano tre e forse non erano nemmeno Re.
Compaiono, ovviamente, tutte le reliquie più famose, a cominciare dalla Sindone, dalla lingua di sant’Antonio (celebre predicatore quindi, come dire, era il suo strumento di lavoro) e dal sangue di san Gennaro. Altre sono più oscure, come la goccia del Sacro Latte della Vergine conservata a Montevarchi o il Sacro Capello, sempre della Madonna, tuttora portato in processione a Palmi.
In ogni caso, l’aneddoto più divertente benché volgarissimo, da film di Pierino con Alvaro Vitali, riguarda san Gengolfo martire, poco popolare in Italia ma assai venerato in Francia e nell’Europa del Nord: del resto, era borgognone. Però nella ricchissima collezione conservata a Torino, in santa Maria Ausiliatrice, così ben provvista che fino a qualche tempo fa si esibiva alla venerazione dei fedeli una «reliquia del giorno», tipo l’analogo piatto in trattoria, c’è anche un frammento del suo corpo. Gengolfo è il patrono dei malmaritati, viste le sue disavventure coniugali con una moglie che, informa Orletti, «non aveva molta simpatia per il marito e lo considerava un idiota», mentre lui la sopportava, è il caso di dirlo, con santa pazienza. L’aneddoto riguarda appunto questa Santippe. Saputo che sulla tomba del marito si verificavano miracoli a ripetizione, la (poco) gentildonna esclamò: «Gengolfo fa miracoli? Sì, come il mio culo». E qui se ne verificò subito un altro. Lasciamo la parola all’autore: «Tanto cinismo le si ritorce contro: appena pronunciate queste parole, si sente una gran scoreggia. Così, ogni volta che la donna apre bocca, si sente una scoreggia. E non solo quel giorno, che è un venerdì, ma tutti i venerdì a venire: una squallida e fragorosa fanfara, per dirla con le parole di Roswitha di Gandersheim», autrice appunto, nel X secolo, di un Martirio di san Gengolfo.
In effetti, quanto a martirio di peggio non ci sono che certi matrimoni.
Ex teorico “operaista” negli anni Settanta, dopo aver scritto “Operai e capitale” ed essere stato a lungo un punto di riferimento della sinistra radicale, convertitosi al cattolicesimo, divenne il più fanatico di quelli che furono allora indicati come i “marxisti ratzingheriani”, oggi supporter entusiasti di Bergoglio.
Repubblica 24.2.18
Intervista a Mario Tronti
“L’antipolitica che fregatura. Ha coperto le colpe dei padroni”
di Concetto Vecchio
Senatore uscente del Pd
Mario Tronti, 86 anni, filosofo, è stato uno dei protagonisti del ‘68 italiano. Militante del Pci, fece parte del comitato centrale. Negli anni Sessanta con Raniero Panzieri ha fondato la rivista “Quaderni Rossi”. Nel 2013 è stato eletto in Senato nel Pd. Non si ricandida
ROMA «In questi anni passati in Parlamento ho capito che la crisi della politica è una cosa molto seria», dice Mario Tronti, 86 anni, nel suo studio di fronte al Senato. La sua avventura nel Palazzo è finita. Cinquant’anni dopo il ’68, di cui fu uno dei protagonisti, come teorico dell’operaismo, la sinistra appare divisa come non mai e il fascismo è tornato di attualità.
Per chi voterà?
«Per il governo Gentiloni. Se il Pd chiedesse agli elettori: siete a favore o contro Gentiloni, crescerebbe di molti punti. Non vedo alternative di eguale qualità: ho apprezzato Minniti, Orlando, Padoan. Anche Calenda, quando parla, sa quel che dice».
Lei però è entrato in Parlamento grazie a Bersani.
«Sì, restano i miei compagni, ma la scissione è stata un errore.
Bisogna sempre stare dove sta la forza maggiore, provare a orientarla dall’interno».
Perché la sinistra è messa così male?
«Una delle colpe è stata quella di non aver combattuto l’antipolitica come nemico principale».
Può spiegarsi meglio?
«Vede, l’antipolitica è stata un’operazione gestita essenzialmente dall’alto che infatti ha messo a riparo dalle critiche i padroni, il grande capitale, mentre la classe politica è stata trasformata nella destinataria di tutte le collere popolari. È capitato anche a me, uscendo dal Senato, di essere investito da insulti per il solo fatto di essere un parlamentare».
La gente però non crede più ai partiti. Si può avere fiducia in organismi che sono tutt’al più dei comitati elettorali?
«Ma restano il canale più corretto per selezionare il ceto politico: nella prossima legislatura bisognerà mettere mano a questo tema, a partire dall’articolo 49 della Costituzione».
C’è in Italia un problema di classe dirigente?
«Sì. Non ci sono più i canali tradizionali, che erano i partiti e il Parlamento, adesso il ceto politico viene selezionato dagli umori della piazza o dai capricci del capo».
Lei vive in periferia. Che umori coglie?
«Gli ultimi sono sempre più abbandonati a se stessi, ma anche i penultimi. Non ho nulla contro la politica dei diritti, ma al Laurentino 38 non sanno che farsene, perché lì hanno dei bisogni molto più urgenti».
Per chi votano al Laurentino 38?
«Un tempo per la destra, soprattutto An, ora in massa Cinquestelle e centrodestra. Qui il Pd non ha alcuna presa politica».
I Cinquestelle restano i grandi favoriti nonostante Rimborsopoli. È stupito?
«Mah, seguo la vicenda distrattamente».
L’ha detto anche Sergio Zavoli.
«È un uomo saggio».
Ma che giudizio politico dà del M5S?
«Se andassero al governo sarebbe un disastro per il Paese.
Cavalcano la rabbia, senza trasformarla in politica. Ma la cosa che temo di più è un’eventuale alleanza con la Lega. Speriamo di salvarci da questa deriva ultima dell’anomalia italiana».
È preoccupato del ritorno del neofascismo?
«Come tutti, ma penso anche che non bisogna sopravvalutare il fenomeno. Va evitato lo scontro tra minoranze armate».
Sarà in piazza oggi?
«Sì, è la risposta giusta».
La campagna elettorale si gioca sul tema dell’immigrazione. Il Pd rincorre la destra?
«È un problema che non si risolve con gli appelli del Papa, né ideologicamente, dicendo: “Accogliamoli tutti”. Chi lo dice spesso vive in quartieri dove gli immigrati in carne e ossa non si vedono mai. Nelle periferie invece l’immigrato è quello della porta accanto, ed è percepito talvolta come un problema reale. Temono la microcriminalità o di perdere il posto di lavoro».
Il fatto che il Pd sia forte soprattutto nei quartieri benestanti distorce la sua visuale?
«Sì, perché non capisce che la persona che fatica ad arrivare alla fine del mese non può aprire le braccia a chiunque».
Il Pci invece era popolare.
Poi cos’è successo?
«La sinistra ha smarrito la sensibilità di capire quello che vive e pensa la persona comune.
Non coglie più il disagio delle persone. E lo paga, perdendo consenso».
Vede in Italia un rischio autoritario?
«No, quello no. I veri pericoli piuttosto vengono dal basso, da questo rancore sordo, incapace di ascoltare, un umor nero che rischia di travolgere tutto».
L’astensionismo sarà il primo partito?
«Non saprei. Però nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro bisognerebbe distribuire in milioni di copie l’articolo del giovane Gramsci: “Odio gli indifferenti”. I giovani contano poco perché sono sempre di meno, ma devono capire che la politica non è quella cosa sporca descritta in questi anni: la politica è lo strumento per cambiare le cose».
Il Fatto 24.2.18
Perché l’astensione preoccupa i padroni
di Massimo Fini
In vista della fatidica data del 4 marzo Peter Gomez ha pubblicato un interessante libretto, Il vecchio che avanza, che è una sorta di “avviso ai naviganti” per un voto se non “utile” almeno consapevole, mentre si moltiplicano gli inviti, istituzionali e non, anche larvatamente minacciosi, a recarsi alle urne come sacro diritto/dovere del cittadino democratico.
Ma cosa sia la democrazia, e in che senso si differenzi da qualsiasi altro sistema di potere nessuno ce lo spiega, dandolo per scontato.
Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava già Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Evidentemente noi contemporanei questa capacità di riflessione l’abbiamo perduta e che ci sia un potere sopra le nostre teste lo diamo come irreversibile, ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer.
I Nuer sono un popolo nilotico che vive, o meglio viveva, nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “È impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza… Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza… Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”.
Così li descrive l’antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Non proprio. Si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l’equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l’Africa stessa.
Queste società erano riuscite a coniugare libertà e uguaglianza, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Il fatto è che i Nuer, o tutte le società consimili, pensano, proprio come Locke uno dei padri della democrazia liberale, che gli uomini nascano, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ma questo nel mondo liberale o marxista non è mai avvenuto e tuttora non è.
Il nocciolo della questione è che nessun potere, qualsiasi potere, è legittimo. Si tratta solo di finzioni. Conviene Stuart Mill: “Il potere stesso è illegittimo, il miglior governo non ha più diritti del peggiore”. Nessun potere è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, del tutto arbitrario.
Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso. Ma nell’Italia democratica, e anche in molte altre democrazie occidentali, questa credibilità è venuta meno in fasce sempre più larghe della popolazione.
Da qui il fenomeno crescente dell’astensione che preoccupa i “padroni del vapore”, in particolare i partiti, perché capiscono benissimo che se si estendesse ulteriormente la sarebbe finita una volta per tutte col loro potere illegittimo e prevaricatorio. E noi torneremmo a essere liberi, indipendenti e uguali. Come i Nuer.
La Stampa 24.2.18
Motti di Mussolini e saluti romani
Ma Facebook non censura il fascismo
Il social è una zona franca per le pagine nere: “Standard rispettati, non le togliamo”
di Filippo Femia
«Il contenuto rispetta gli standard della comunità». Facebook sembra ignorare la storia del fascismo e la legge italiana. Ospita una galassia di pagine nere, affollate da migliaia di messaggi ogni giorno. Bacheche che grondano odio, xenofobia e antisemitismo. Pagine che, sin da titolo e foto di copertina, inneggiano al fascismo. E inoltrare una segnalazione al social, spesso, non serve: «La pagina non viola la nostra policy», è la risposta.
Una ricerca dell’Anpi ha catalogato le pagine neofasciste, contandone 450. La black list risale allo scorso maggio e include alcune pagine rimosse, nel frattempo rimpiazzate da altre decine. I nemici? I soliti: «zecche comuniste», «ebrei maiali» e la casta dei politici. Immancabili, poi, i deliri sulla purezza della razza a rischio a causa dell’invasione di immigrati.
Con un finto profilo abbiamo seguito e segnalato 25 gruppi. In meno di 12 ore arriva la risposta di Facebook: quattro pagine vengono rimosse per incitamento all’odio. Negli altri casi il social ritiene che i contenuti «rispettano gli standard della nostra comunità». E suggerisce la soluzione: «Togli mi piace alla pagina». Un po’ come dire: voltati dall’altra parte e il problema sparisce. «Per rimuovere le pagine che inneggiano al fascismo - dice Laura Bononcini - serve una segnalazione alla polizia postale o all’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale, ndr). A quel punto procediamo». Ma è evidente che il meccanismo sia inadeguato, specie in un clima politico avvelenato come quello di questi giorni.
Ecco allora che ci si imbatte nel messaggio di Giulia, «guardate cos’ho nel giardino di casa. È originale», e la foto di una stele di marmo con un fascio littorio in rilievo. Il messaggio è accompagnato da due emoticon: un cuore nero e un braccio teso. Orazio, invece, pubblica una foto dove Mussolini «consiglia» Luca Traini, l’estremista di Macerata che ha sparato a sei nigeriani, senza far vittime: «Serve più mira», è il messaggio.
Ma come è possibile che il social più diffuso al mondo ospiti contenuti che fanno una chiara apologia di fascismo, inserita nel nostro codice penale dal 1952? «Non è prevista nella nostra policy, perché si tratta di una legge in vigore solo in Italia. La comunità di Facebook comprende quasi due miliardi di utenti, di culture e Paesi differenti: abbiamo dovuto adottare norme valide a livello globale», spiega Laura Bononcini, responsabile della policy di Facebook Italia.
Molte pagine nere, sin dal titolo, fanno chiara apologia di fascismo («Viva il duce»), inneggiano alla violenza («Istinto fascista: nel dubbio mena») o vendono cimeli fascisti («Duxstore.it»). Le più seguite hanno oltre 135 mila like. Al loro interno fioccano motti del Ventennio, cartoline nostalgiche del Duce e una miriade di selfie con il braccio teso. Nella carrellata c’è spazio anche per un bambino - definito «piccolo balilla» - che intona Faccetta nera.
Per la verità dopo il nostro colloquio telefonico con Facebook 24 pagine su 30 della lista nera dell’Anpi - le stesse che poche ore prima non violavano le regole della comunità - sono state rimosse. Una coincidenza? Difficile. Ciò che è indubbio è la rabbia degli utenti neofascisti. Nei gruppi superstiti gridano vendetta. «Qualche bastardo comunista ci ha segnalati», scrive uno; «ancora gruppi fascisti chiusi, è guerra», aggiunge un altro; «dopo il 4 marzo chiuderemo le loro bocche del cazzo», arriva a dire un terzo tra la pioggia di «a morte» e «diamogli fuoco».
Il cuore nero di Facebook pulsa anche nei gruppi chiusi, a cui si accede solo dopo una richiesta. Bisogna dimostrare la fede fascista e superare un test: «Quando è stata la marcia su Roma?», «quando è nato Mussolini?»
La costante di tutte le pagine neofasciste, che si promuovono tra loro come un network, sono le fake news a tema elettorale. La politica ha un certo peso: nel profilo di alcuni utenti appare il simbolo di CasaPound o Forza Nuova. Il bersaglio preferito sono gli immigrati. Molti fotomontaggi, alcuni tragicomici, addebitano loro tutti i guai dell’Italia con toni xenofobi e razzisti. Nei commenti piogge di insulti che incitano all’odio. Questi sì, segnalati, vengono rimossi quasi subito da Facebook.
La Stampa 24.2.18
Il ramo rosa dell’estrema destra sceglie per sé il modello militare
Sono il 30 per cento degli iscritti e partecipano a tutte le attività
Ma i temi di genere non hanno spazio sulla rivista del movimento
di Flavia Perina
In corteo Le foto sono state scattate durante il corteo in memoria delle vittime delle foibe a Roma, tenutosi lo scorso 10 febbraio. Secondo i dati di CasaPound, le donne sono il 30 per cento degli iscritti. Erano circa 6 mila nel 2017, secondo fonti non ufficiali triplicate negli ultimi mesi. Partecipano a tutte le attività, tranne l’affissione dei manifesti che è da sempre riservata solo agli uomini
La foto da guardare bene è quella in alto, con le ragazze al corteo in memoria delle foibe che stanno sull’attenti, senza saper bene dove mettere le mani: una stringe un libro, un’altra la borsa, tutte cercano la postura del soldato con risultati piuttosto goffi. Le donne di CasaPound, fra i tanti modelli femminili che la destra ha coltivato senza adottarne fino in fondo nessuno, si sono prese il più militaresco: quello delle Ausiliarie, il Corpo militare della contessa Piera Gatteschi nato nel ’44 per gestire assistenza sanitaria, mense, servizi d’ufficio e magazzini della Rsi. «Sì, sono loro l’esempio che scelgo» conferma Carlotta Chiaraluce, il volto più mediatico di Cpi, candidata e dirigente a Ostia. Forse non poteva essere altrimenti. In un mondo dove prevale l’estetica della disciplina sarebbe difficile immaginare l’assertività materna di Donna Rachele, l’ardore tragico di Claretta, la naturale leadership di Evita, l’abilità salottiera di Donna Assunta, per non parlare del protagonismo da amazzoni della Meloni, della Santanché, della Mussolini.
Quante sono, cosa pensano, perché sono lì queste signorine e queste signore? Secondo i dati forniti dal movimento sono donne il 30 per cento degli iscritti a Cpi (circa 6000 nel 2017, oggi il triplo, dicono fonti non ufficiali). Partecipano a tutte le attività, salvo l’affissione di manifesti che è riservata agli uomini. Questo perché CasaPound, come si afferma nei documenti ufficiali, «nell’articolazione dei singoli ruoli da attribuire in base al genere» rifiuta «la confusione». Ma c’è un No molto esplicito anche alla sottomissione: l’umiliazione della donna è definita un fattore «tipico del mondo contemporaneo, nei suoi due aspetti consumista e fondamentalista». La parola magica per indicare il rapporto ideale fra il mondo maschile e quello femminile è complementarietà, che pare resuscitata dai documenti della Nuova Destra degli Anni 70, e in particolare dalla rivista delle ragazze dei Campi Hobbit, Eowyn, peraltro inimmaginabili allineate in ranghi spartani (erano piuttosto scapigliate e casiniste, non molto diverse dalla loro controparte femminista).
Dunque, complementarietà. Si cerca la declinazione di questo termine nelle questioni che oggi fanno discutere le donne - l’utero in affitto, le teorie gender, il giudizio sulla prostituzione, le quote - sulle pagine di Primato Nazionale, la rivista del movimento, ma non c’è quasi niente. Pochissime anche le firme al femminile: nell’edizione cartacea ha una rubrica Chiara Del Fiacco, i suoi ultimi articoli sono un elogio delle sapienze contadine e un’invettiva contro Oprah Winfrey e «l’isteria femminista» del sistema-Hollywood.
La sensazione è che questo ramo rosa sia cosa recente, ancora un germoglio appena nato, e che la linea del movimento non abbia ancora preso atto delle questioni che porta con sè e della necessità di elaborarle oltre l’istintiva contrapposizione frontale con tutto ciò che si apparenta alla sinistra. «Sono all’inizio, magari col tempo...», dice Annalisa Terranova, che alla destra femminile ha dedicato uno dei pochi saggi in circolazione, Camicette Nere.
Il paradosso è che il mondo marziale di CasaPound deve proprio alle sue ragazze il primo e più importante sdoganamento, quello della satira, con la mitica Vichi di Casa Pound interpretata da Caterina Guzzanti che strillava «Ah zzecche» alla platea di RaiTre, mentre il suo fidanzato Tullio si rifugiava spaventato su un albero. Era simpatica, Vichi, e rese più umana un’area che all’epoca (era il 2012) ancora non si presentava alle elezioni, parlava di fascismo del Terzo Millennio e si situava su un crinale extra-parlamentare assai più accentuato di oggi. Chissà se sono grati alla Guzzanti i militanti di Cpi, chissà se si rendono conto delle potenzialità del «recinto delle ragazze» oltre il ruolo di portabandiera e di furiere.
il manifesto 24.2.18
Il Pd c’è ma ha paura dei fischi, sul palco solo l’Anpi e i ragazzi. Renzi farà solo un breve tratto del corteo, Gentiloni sotto il palco? Leu quasi al completo. Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
Organizzatori ottimisti: «Risposta sorprendente». Interverrà in video messaggio anche Liliana Segre
di Daniela Preziosi
«E’ stato tollerato troppo, è stato sdoganato troppo. La manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi” sarà una risposta a quanto sta succedendo in Italia e in Europa, ma anche l’inizio di un’altra stagione: stiamo già organizzando un 25 aprile in cento piazze, e così poi il 2 giugno, festa della Repubblica nel 70esimo della Costituzione, bisogna tornare a far sentire la presenza democratica e antifascista in tutte le città». Dalla sala macchine dell’Anpi Carlo Ghezzi racconta della risposta sorprendente, del superamento «degli obiettivi che molte città si erano date». E questo nonostante fischi il vento e infuri la bufera: fuor di metafora, sono annunciati Burian e la pioggia, ma i vecchi leoni (e le leonesse) che non si sono fatti fermare dal nazi-fascismo non capitolano di fronte al meteo.
GHEZZI ELENCA LE PRESENZE annunciate oggi a Roma al corteo che parte alle 13 e 30 da piazza della Repubblica e arriva alle 15 a piazza del Popolo. Lì un gruppo di ragazzi leggerà lettere di partigiani e brani delle leggi razziali. Verrà proiettato il messaggio video della senatrice a vita Liliana Segre. Sul palco nessun politico, il discorso finale sarà di Carla Nespoli, presidente dell’Anpi.
UNA VITA NEL SINDACATO, ora alla fondazione Di Vittorio e nel comitato nazionale dell’Anpi, Ghezzi è un dirigente realista non incline ai toni enfatici. Eppure l’elenco delle presenze è davvero lungo: decine di gonfaloni delle città, fra cui quelle di Milano, Napoli, e della città metropolitana di Roma. Ci sarà probabilmente anche quello di Macerata portato dal sindaco Carancini che due giorni fa ha ricevuto minacce contro i suoi figli. L’aria che tira nel paese è questa, e se il ministro dell’interno Marco Minniti si adopera per negare «l’escalation», non c’è da abbassare la guardia. Sfileranno anche le insegne della regione Toscana e della Regione Lazio. Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, ha aderito ma non ci sarà: il sabato è «giorno dedicato ritualmente alle attività di culto e preghiera».
LO STRISCIONE DI APERTURA sarà portato dai rappresentanti delle ventitré associazioni firmatarie dell’appello che chiede lo scioglimento delle organizzazioni ispirate al fascismo e lancia «un allarme democratico» per i crescenti fenomeni di xenofobia. In prima fila le associazioni della Resistenza (Anpi, Anppia, Aned, Fivl, Fiap), poi i sindacati confederali Cgil Cisl e Uil, Libera, Arci, Acli, Comitati Dossetti, Coordinamento democrazia costituzionale, Istituto Cervi, Uisp, Ars, Altra Europa, Articolo 21, Libertà e Giustizia.
IN MEZZO ALLE ASSOCIAZIONI, i quattro partiti firmatari dell’appello e che quindi dovrebbero darsi da fare – anche dopo la campagna elettorale – per lo scioglimento delle associazioni che si richiamano apertamente al fascismo: Pd, Liberi e Uguali, Prc e Pci (ex Pdci-Pcdi). Per il momento comunque la passerella «antifà» è assicurata. Il leader del Pd Matteo Renzi ha confermato la sua presenza. Al Nazareno programmano di farlo arrivare in un tratto finale del corteo, poco prima dell’arrivo. Si teme qualche fischio, non sarebbe un’immagine bella far circolare sulla rete e sulle tv a una settimana dal voto.
MA LA VERA STAR POLITICA del corteo potrebbe essere il premier Paolo Gentiloni. La sua presenza fino a ieri non era ancora confermata causa le perplessità del Viminale: la partecipazione a un evento del genere sarebbe un unicum, un evento ad alto tasso simbolico. Ma porrebbe molti problemi di sicurezza: in città ci sono altri quattro cortei e il livello di allarme è alto.
ANCHE SE LE «PIAZZE» considerate più a rischio sono altre: quella di Milano, dove contro la manifestazione della Lega e il comizio di Casapound ci sarà un corteo antifascista. E a Palermo dove arriva Roberto Fiore, leader di Forza nuova, dopo il pestaggio del suo capo locale: anche lì sono stato organizzate contro-manifestazioni. In fondo Roma è la città meno “calda” del week end. Il premier potrebbe arrivare sotto il palco di piazza del Popolo, a fine corteo.
QUASI AL COMPLETO LEU: ci sarà Bersani, Grasso, Laura Boldrini, Speranza e Fratoianni. Non D’Alema, che resta in Puglia per il finale della campagna elettorale. E neanche Civati: ieri è andato a Brescia a portare la sua vicinanza ai ragazzi del centro sociale Magazzino 47 alla cui biblioteca giovedì notte è stato dato fuoco. Civati oggi resta in città, dove del resto è candidato. Non ci sarà neanche Potere al popolo: a Roma manifesta contro la Legge Fornero e contro il jobs act e al mattino «processerà» con «una giuria popolare» la legge Fornero sulle pensioni alla Città dell’altra economia. E a Palermo e Milano nei cortei antifascisti di movimento.
il manifesto 24.2.18
L’antifascismo non è un’arma di propaganda
di Marco Revelli
L’Italia antifascista va in piazza oggi in un clima pesante. «Clima di violenza», recitano i media mainstream, falsando ancora una volta lo scenario, come se si trattasse di violenza simmetrica. Di opposte minoranze estremiste, ugualmente intolleranti, quando invece la violenza a cui si è assistito non solo in queste ultime settimane, ma negli ultimi mesi e negli ultimi anni è una violenza totalmente asimmetrica, distribuita lungo un rosario di intimidazioni, intrusioni, aggressioni sempre dalla stessa parte, per opera degli stessi gruppi, con le stesse divise, gli stessi rituali, gli stessi simboli e tatuaggi: Casa Pound e Forza nuova con i rispettivi indotti. E sempre col medesimo disegno politico: occupare parti di territorio fino a ieri off limits per l’estrema destra.
Periferie metropolitane e piccoli centri, aree in cui la marginalizzazione e il declassamento sociale hanno creato disagio e rabbia, con lo scopo “strategico” di diventare referenti politici di quel disagio e di quella rabbia.
Vicofaro, il 27 di agosto dello scorso anno. Roma, Tiburtino III, il 6 di settembre. Como, il 28 novembre. Sono solo le tappe principali di un percorso che culmina nell’atto estremo di terrorismo razzista a Macerata, il 3 febbraio. Dall’altra parte un solo episodio, quello di Palermo, che per odioso che possa essere considerato – ed è atto odioso il pestaggio di una persona legata, incompatibile con i valori dell’antifascismo quale che ne sia l’idea dei suoi autori -, non può certo mutare il profilo di un quadro politico estremamente preoccupante.
Per fortuna, c’è stato il 10 febbraio a Macerata: quei 30.000 che hanno capito da subito qual’era “la cosa giusta”.
E per fortuna c’è la mobilitazione di oggi, la piazza romana e le tante piazze italiane. Proprio perché pensiamo che minimizzare la minaccia di questa destra orribile e spudorata sia un atto suicida per una democrazia già lesionata. E restiamo convinti che dichiarare il fascismo “morto e sepolto”, come ha fatto il ministro di polizia Marco Minniti, o invitare a sdrammatizzare e abbassare i toni per non turbare una campagna elettorale in salita, sia prova di cinismo e irresponsabilità. Proprio perché sappiamo che dall’onda nera che attraversa l’Europa non è immune l’Italia, anzi! Proprio per questi motivi crediamo che ogni persona in più oggi in piazza sia una vittoria.
Non si tratta qui di rivendicare primogeniture, o giocare al frusto gioco del rinfacciamento. L’antifascismo non è un’arma leggera da portarsi nella battaglia elettorale per contendere qualche decimo di punto. Si tratta di saper vedere il pericolo che incombe. E quel pericolo è grande, inquietante, per certi versi inedito. Non stiamo oggi vivendo una riedizione in sedicesimo dei conflitti degli anni Settanta, quando le bande nere colpivano duro, al servizio di padroni più o meno occulti, di servizi deviati e di agenzie internazionali, ma non avevano un seguito di massa. Il neofascismo di oggi – ma forse sarebbe meglio chiamarlo neonazismo – intuisce (per ora), annusa e avverte un’opportunità nuova di un inedito radicamento “popolare”, per così dire. Di poter attingere a nuovi serbatoi dell’ira.
Dopo il 4 marzo non ci aspetta una tiepida primavera, piuttosto un gelido inverno fuori stagione. L’Europa ha già battuto il suo colpo. Nessuna franchigia prolungata. Un establishment europeo in via di dissoluzione e un’Unione dissestata nei suoi equilibri si preparano a riservare, a un’Italia attardata da un debito insostenibile, un trattamento forse non troppo diverso da quello imposto – nel silenzio di tutti – alla Grecia quasi tre anni or sono. Con una differenza sostanziale: che al governo là c’era saldamente una forza esplicitamente di sinistra come Syriza, che ha salvato il salvabile negli strati più fragili della popolazione, e ha costruito una solida barriera contro la sfida di Alba dorata (che è arretrata da allora).
Qui no, ci sarà o un governo debolissimo, o una destra tanto arrogante quanto divisa: le condizioni per una ulteriore depressione sociale di grandi dimensioni, che amplierà l’esercito della rabbia, del rancore e del risentimento. Alle promesse smodate della campagna elettorale non potrà che seguire la doccia fredda di un’ulteriore deprivazione, col seguito di senso di abbandono, tradimento, solitudine, spirito di vendetta da parte di chi avverte di essere sul versante sbagliato del piano inclinato. L’acqua ideale in cui si preparano a nuotare gli squali che del rancore e della frustrazione si alimentano.
Per questo è da considerare prova d’irresponsabilità grave la decisione del ministero dell’Interno di ammettere alle elezioni le formazioni esplicitamente ispirate al fascismo, contrariamente a quanto era accaduto, correttamente, per le regionali in Sicilia. E assume sempre più rilevanza politica programmatica la richiesta di una rapida, legittima, messa al bando di organizzazioni come Forza Nuova e Casa Pound , con la loro sola presenza, un fattore di disordine e di violenza.
il manifesto 24.2.18
Camusso: «L’Italia acquisisca gli anticorpi contro il fascismo»
La manifestazione di Roma. La segretaria Cgil: sciogliere i gruppi razzisti, ma una risposta si dà anche con politiche sociali che contrastino il disagio. È sbagliato mettere sullo stesso piano i cortei fascisti e quelli antifascisti: ma il movimento di reazione democratica deve essere pacifico. I Cinquestelle assenti? Sbagliato avere ambiguità su questi temi
di Antonio Sciotto
«Gli episodi di fascismo e di razzismo che stanno accadendo in diverse parti d’Italia, a partire dai fatti di Macerata, ci dicono che abbiamo bisogno di costruire un grande movimento antifascista. Le organizzazioni fasciste devono essere sciolte, ma nello stesso tempo la politica deve costruire un quadro di diritti e di garanzie sociali ed economiche per tutti i cittadini. È questo il miglior argine contro alcune forze politiche che tentano di guadagnare consenso scaricando il disagio sui migranti, in una guerra tra poveri che alimenta scontri e violenze». La segretaria generale della Cgil Susanna Camusso si prepara a partecipare, questo pomeriggio, alla manifestazione di Roma, indetta dalle 23 organizzazioni che hanno aderito all’appello Mai più fascismo, tra cui la stessa Cgil, Anpi, Arci, Libera.
Esiste un reale pericolo di ricostruzione del fascismo o forse lo scontro si sta alzando solo in vista delle elezioni?
Sicuramente la campagna elettorale amplifica, ma ritenere che i tanti episodi di aggressione e minaccia che stanno accadendo siano isolati o determinati solo dal fatto che siamo sotto elezioni è un errore. Non solo Macerata, ma possiamo citare il caso del Baobab di Roma di qualche giorno fa, i militanti di Forza Nuova intervenuti contro il presidio antifascista a Forlì, segnali che incrociati agli episodi di razzismo creano una miscela esplosiva. Che si alimenta sulla condizione di disagio sociale ed economico crescente tra i cittadini, a cui la politica con i continui tagli allo stato sociale e ai diritti del lavoro non ha dato risposta. Da qui il nostro appello, per contrastare uno sdoganamento del fascismo e del razzismo che non ha avuto per ora adeguata reazione. E la nostra richiesta di sciogliere le organizzazioni di stampo fascista, di non autorizzare le loro manifestazioni a tutti i livelli – dalle prefetture ai sindaci. L’Anpi aveva anche chiesto che questi partiti non potessero presentarsi alle elezioni, ma non è stata ascoltata.
A proposito di Macerata, come avete vissuto la scelta di ritirare – come organizzazione – la vostra partecipazione alla manifestazione del 10 febbraio? Comunque molti iscritti Cgil sono scesi in piazza.
L’abbiamo vissuta con sofferenza, ma abbiamo scelto di rispettare la sensibilità manifestata sia dalla Cgil locale che dalla comunità cittadina attraverso il sindaco. Istintivamente pensavo e pensavamo che dovesse essere proprio il territorio a dover respingere con immediatezza e forza quello che è accaduto. Poi nelle valutazioni ci metti anche il rispetto della tua organizzazione locale e delle istituzioni. Da qui la convinzione e una motivazione più forte a indire una grande manifestazione nazionale.
Gli scontri si moltiplicano, e le violenze si manifestano purtroppo da entrambi i lati della barricata: da Palermo a Perugia fino a Torino. Ma ha senso mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo?
Penso che un grande movimento antifascista sia pacifico: la violenza è sempre sbagliata. Bisogna pretendere con la forza della ragione e della legge che lo Stato faccia la sua parte. Quando l’interpretazione dell’appello del sindaco di Macerata è diventata «bisogna vietare tutte le manifestazioni», mettendole sullo stesso piano, io ho detto no non ci siamo. Ci sono manifestazioni che devono essere sempre vietate – quelle fasciste – e quelle che non devono essere vietate. Mettere tutto sullo stesso piano è sbagliato e dannoso, è lo stesso errore del revisionismo.
Il ministro Minniti ha detto che ha fermato gli sbarchi proprio perché aveva previsto un possibile Traini. Una soluzione può essere un diverso rapporto con l’immigrazione?
È un errore politico ritenere che sia la presenza dei migranti in sé a determinare queste reazioni, perché significa accettare l’idea che le diversità non possono coesistere . La politica, anziché dire che c’è la ripresa e tutto va bene, dovrebbe piuttosto affrontare l’alta disoccupazione, la precarietà e la povertà in crescita, l’impoverimento anche di chi lavora. Il disagio sociale tende purtroppo a scaricarsi su chi è diverso anche se sta male come te e quindi sui migranti. Allora per contrastare il rischio della guerra tra poveri, devi ricostruire politiche sociali e lavoro di qualità, ma parallelamente anche regole di certezza sulle migrazioni. Avere la forza di dire che ai rifugiati va salvata la vita e costruire politiche di accoglienza, sui migranti economici politiche di regolazione e governo dei flussi. Ma le leggi del nostro Paese hanno fatto il contrario, finora: con la Bossi-Fini bastava perdere il lavoro e subito si diventava un clandestino.
Tutti i partiti del centro-sinistra saranno in piazza con voi, la Lega evidentemente no, ma spicca anche l’assenza dei Cinquestelle. Vi preoccupa che una parte della politica non faccia propria la pregiudiziale dell’antifascismo?
Fa parte di quel problema generale che dicevo: acquisire gli anticorpi, l’esigenza di ricostruire una nuova cultura antifascista, che passa anche per le risposte date con uno stato sociale e un lavoro di qualità. La nostra manifestazione punta proprio a creare una cesura: non permettere che fascismo e razzismo siano sdoganati senza che nessuno reagisca. Al di là del quadro politico contingente e dell’esito delle elezioni. Se poi andiamo sul particolare, sì, mi preoccupa chi dice che il fascismo non c’è più perché è storia del passato. Non vedono quello che accade in Italia e in Europa? Mi preoccupa chi usa gli argomenti del razzismo per costruirsi una audience politica. Il comportamento che mi stupisce di più è quello dei Cinquestelle: mi sarei aspettata che aderissero fin dall’origine al nostro appello, è sbagliato avere in questo terreno delle ambiguità.
Un’ultima domanda che esula dal tema fascismo. Soddisfatti per la chiusura di tutti i contratti degli statali? Si diffonderà una nuova immagine di questi lavoratori?
Ci auguriamo di sì, anche perché non solo abbiamo rinnovato i contratti dopo quasi dieci anni di assenza, ma abbiamo anche riaffermato la centralità della contrattazione. La riforma Brunetta aveva tolto peso al contratto, e poi era partita la campagna sui «fannulloni». Certo, l’aumento che spuntiamo fa parte comunque di una stagione di crisi, ma è un inizio e presto ripartiremo con le nuove piattaforme. In sanità siamo riusciti a far rimuovere le deroghe ai riposi: una conquista non solo per i lavoratori, ma per la qualità che assicuri ai cittadini utenti.
Il Fatto 24.2.18
Crollo Pd, il Colle “studia” un governo per la transizione
Fragili i numeri per le larghe intese Dem-Fi o un esecutivo del centrodestra: un dossier coi precedenti indica la via a Mattarella
di Fabrizio d’Esposito
È stato alla fine della scorsa estate che al Quirinale s’iniziò a formare un dossier sulle prassi seguite dai dieci presidenti della Repubblica in oltre sei decenni di governi. In linea con la sua storia di professore universitario di Diritto parlamentare, Sergio Mattarella diede mandato ai suoi consiglieri di raccogliere sostanza e dettagli di ogni consultazione, conscio e convinto che la dinamica politica di questo antico rito sfugga a una situazione pre-ordinata. In pratica, per dirla fuori dal “quirinalese”, il capo dello Stato mandò il primo segnale ai partiti. Per la serie: con me non ci sarà alcun governo del presidente, tecnico oppure no.
Quando il lavoro fu avviato il quadro delle forze in campo era diverso da oggi: il Pd veniva accreditato di un possibile 25 per cento, i Cinquestelle non arrivavano al 30 e il centrodestra viaggiava alla solita altezza del 37. A distanza di quasi sei mesi da allora, il quadro si è completamente ribaltato: il Pd potrebbe crollare al 20, se non sotto; il M5S toccherà o sfonderà il tetto del 30; il centrodestra non schioda dal 37/38 ma nel frattempo ha cristalizzato le divisioni interne tra Silvio Berlusconi e il blocco fascioleghista di Salvini e Meloni.
Risultato: al Colle matura la sensazione che il voto del 4 marzo non consegnerà vincitori in una sorta di deriva tripolare che poi tanto tripolare non è per le citate fratture tra l’ex Cavaliere e il capo leghista. Nessuno quindi, tra i leader politici, dovrebbe avere il mazzo in mano per distribuire le carte. E qui sovviene il dossier sulle prassi seguite in passato al Colle nella formazione dei governi, un documento diventato corposo e meticoloso.
Punto di partenza, per sgombrare dal campo retroscena ed equivoci di oggi, il destino del governo di Paolo Gentiloni. Oggi l’esecutivo non è dimissionario e quindi è in carica per l’ordinaria amministrazione. Il 23 marzo, giorno d’insediamento delle Camere, al Colle danno per certo l’arrivo del premier per la fatidiche e dovute dimissioni. A quel punto sì che sarà un governo dimissionario in carica per “il disbrigo degli affari correnti”, in attesa dell’esito delle consultazioni di Mattarella con le delegazioni dei partiti.
Il metodo poi. E l’approccio, che partirà dalla fotografia del voto. Esaurita definitivamente la fase bipolarista della Seconda Repubblica (un vincitore e uno sconfitto), il Colle-arbitro dirigerà la partita come ai tempi del proporzionale della Prima Repubblica. Un mero dato di fatto: questa campagna elettorale sta confermando che ogni partito corre per prendere un voto più degli altri e il tema delle coalizioni è scomparso, a meno di non prendere per buona l’alleanza finta o bugiarda del centrodestra. Chiarito il quadro, Mattarella certificherà innanzitutto l’impossibilità di un “governo organico” sia formato dallo stesso centrodestra oppure da Pd e Forza Italia insieme, le cosiddette larghe intese. Questione di numeri, ovviamente.
A quel punto, il Colle riguarderà tre capitoli del dossier fatto preparare. Tre precedenti già sottolineati e vagliati in ogni aspetto. Obiettivo: varare comunque un esecutivo, pur su basi fragili, per poi sperare di sbloccare l’impasse e allargare la base della maggioranza. Il primo precedente è “il governo della non sfiducia” di Giulio Andreotti, votato nel 1976 (e preludio alla tragedia di Aldo Moro). Quel governo prevedeva un accordo tra le due grandi forze “nemiche” di allora: la Dc, da sempre al potere, e il Pci, che per la prima volta si astenne sulla fiducia. Collegato a questa formula nell’agenda del Colle c’è pure il governo Fanfani del 1960, basato sulle “convergenze parallele” morotee per la formazione del centro-sinistra. Due precedenti che presuppongono quindi un accordo tra partiti oggi avversari. Ed è qui che potrebbe entrare in gioco la forza parlamentare del M5S. Le combinazioni sono varie e Mattarella non ne escluderebbe nessuna: Pd al governo e astensione grillina, o viceversa; idem Pd e centrodestra. Qualora dovessero andare in porto la non sfiducia o le convergenze parallele, uno dei tre blocchi di media grandezza è destinato a rimanere fuori. Quale tra Pd, M5S e centrodestra?
Il terzo precedente storico è di mera transizione per poi andare allo scioglimento autunnale: “il governo balneare” o “di decantazione” di Giovanni Leone dopo le Politiche del 1963. Nel novero delle variabili potrebbe rientrare Paolo Gentiloni, investito pure di un’altra formula. Questa: verificata l’impossibilità di formare un governo, Mattarella potrebbe rinviare alle Camere l’attuale esecutivo. Ricevuta una scontata sfiducia, si avrebbe comunque un governo di minoranza per gli affari correnti e per portare il Paese al voto.
La transizione potrebbe però portare anche un cosiddetto “governo di scopo”, con l’obiettivo di fare la manovra economica e una nuova legge elettorale, magari con un accordo a tre fra Pd, 5 Stelle e Liberi e Uguali.
Questo è dunque il quadro tracciato al Colle in queste ore, a una settimana dal voto. E quelle che erano le preoccupazioni estive del Quirinale, e cioè una mancata tenuta del Pd, alla fine si stanno per rivelare giuste, a meno di clamorosi rovesciamenti di tendenza negli ultimi giorni giorni di campagna elettorale. Senza un governo di centrodestra o le larghe intese renzusconiane, la dinamica delle consultazioni metterà in gioco il M5S di Luigi Di Maio per varie formule. È questa la maggiore novità che emerge dall’analisi basata sul dossier confezionato per Mattarella. E non è poco.
Corriere 24.2.18
Il tifo (inaspettato) per Emma Bonino
Il leader di Forza Italia e il tifo perché Bonino superi la soglia del 3%
Le preoccupazioni di Meloni per le strategie azzurre
di Francesco Verderami
Da giorni il nome più evocato nel centrodestra è quello di un’avversaria, Emma Bonino, al centro di una strana disputa tra alleati.
Il primo a parlarne è stato Berlusconi, che discretamente fa il tifo per l’esponente radicale e confida riesca a superare il 3%. Ce n’è traccia in alcuni conversari, discussioni che come spesso accade hanno superato i cancelli di Arcore e hanno fatto drizzare le antenne agli alleati. Non è chiaro se l’interesse del Cavaliere sia riconducibile proprio alla Bonino o ai candidati della sua lista, che diverrebbero parlamentari se +Europa superasse la soglia di sbarramento. E tra questi — raccontavano autorevoli esponenti di Forza Italia — ci sarebbero «potenziali sostenitori» di un governo di centrodestra, che sembra rimanere sempre «a un passo» dalla conquista della maggioranza assoluta di seggi nelle Camere.
La storia dell’ipotetica transumanza subito dopo il voto non aveva però convinto i partner, e infatti i dirigenti di Nci si erano premurati a dare una veste politica ai pour parler di Berlusconi sulla Bonino, ricordando che era stato il Cavaliere a indicarla come commissario italiano a Bruxelles, e che magari — con un gabinetto a trazione moderata, guidato dall’attuale presidente dell’Europarlamento — potrebbe convincerla a garantire un esecutivo nell’interesse del Paese. Supposizioni e congetture al limite del fantasioso erano rimaste custodite fino a ieri nel recinto della riservatezza, finché la Meloni ha reso pubblica la querelle.
«Nella scelta del candidato-premier della coalizione non mi impegno a sostenere persone che non conosco», è sbottata la presidente di FdI: «Abbiamo stabilito che il partito più votato dell’alleanza esprimerà il presidente del Consiglio, ma i nomi vanno annunciati prima del 4 marzo o per me non se ne fa nulla». Il motivo della sortita è legato al fatto che Berlusconi continua a ripetere di avere «nomi coperti» per Palazzo Chigi, e la Meloni da tempo cova il sospetto. «Se mi dice la Bonino salta tutto. Ed è la Bonino, datemi retta», aveva confidato al suo gruppo dirigente: «La sostengono i poteri forti nazionali e internazionali, le cancellerie europee, Israele. Manca solo la Chiesa...».
Forse la Curia no, ma il Papa aveva avuto per lei parole di elogio nella conversazione con Massimo Franco pubblicata dal Corriere nel febbraio del 2016: «È la persona che conosce meglio l’Africa. Mi dicono: è gente che la pensa in modo diverso da noi. Vero, ma pazienza. Bisogna guardare alle persone, a quello che fanno». Ora, a parte il fatto che la Bonino sarebbe il primo caso di candidato premier di un altro schieramento a sua insaputa, se nel centrodestra sono a un passo da una crisi di nervi è perché compiere quel «passo» che li separa dalla vittoria appare faticoso.
Perciò Berlusconi ha annunciato — a sorpresa — di esser pronto per una manifestazione comune con gli alleati: i focus e gli amatissimi sondaggi gli hanno fatto capire che così (forse) potrebbe spingere una parte degli indecisi a votare per Forza Italia. E non c’è dubbio che il risultato di Nci potrebbe essere quello che ieri l’ Economist definiva «l’asso nella manica del centrodestra». Superasse il 3% poi, offrirebbe un’ulteriore chance per la conquista di Palazzo Chigi: «Potremmo essere decisivi per tutto», dice Fitto, che giusto per spiegarsi ha già piazzato il veto su Salvini premier.
Ma siccome la maggioranza assoluta dei seggi sembra ormai una sorta di Graal della politica, la sua ricerca ha assunto contorni mitologici: così il dibattito attorno al nome di un avversario finisce per provocare un conflitto tra alleati. Se non fosse che la questione è solo all’apparenza surreale, perché la Bonino si è già espressa a favore di un governo di larga coalizione e non sarebbe l’innesto per la nascita di un gabinetto di centrodestra. Anche perché — oltre la Meloni — lo stesso Salvini non accetterebbe certe soluzioni se non battesse Berlusconi e non potesse reclamare il ruolo di premier.
La Bonino semmai è il cavallo di Troia con cui c’è chi mira ad espugnare definitivamente la cittadella diroccata del vecchio bipolarismo, è il possibile punto di riferimento di una parte del Palazzo contro l’altra. L’altra è quella a cui ieri ha dato voce il governatore pugliese Emiliano: «Se Di Maio fosse incaricato di formare il governo, il Pd dovrebbe sostenerlo». Pare incredibile, ma è l’effetto del Graal.
Repubblica 24.2.18
Il caso Lombardi
La deriva a destra sui migranti
di Tomaso Montanari
Quando penso alle province del Lazio e ai suoi borghi, penso ad accogliere più turismo, che rilanci l’economia locale, e meno migranti, che invece pesano sull’economia locale. Non è questione di destra o di sinistra, ma di #buonsenso».
Questa dichiarazione di Roberta Lombardi, candidata 5 Stelle alla presidenza del Lazio, è un sintomo da non trascurare. Di quale “buon senso” si parla? Di quel senso comune, per nulla buono, per cui dei migranti non si ragiona come di esseri umani, ma come di numeri o come di minacce (la “bomba sociale”). Lo stesso “buon senso” per cui bisognerebbe «aiutarli a casa loro» (e questo l’ha scritto Matteo Renzi, dimenticando l’articolo 10 della Costituzione, che dice che l’Italia è casa di tutti coloro che non hanno i nostri stessi diritti), o sostenere mamme e famiglie italiane, «se uno vuole continuare la nostra razza» (Patrizia Prestipino, Pd). Non cito le innumerevoli frasi di esponenti della Lega, Fratelli d’Italia e organizzazioni fasciste perché ciò che mi interessa stigmatizzare è la penetrazione di idee di fatto razziste in quello che appunto si presenta come il senso comune. È lo slittamento generale a destra, addirittura l’egemonia di questo non-pensiero, il principale avversario di ogni prospettiva democratica. Luigi Manconi e Federica Resta hanno recentemente argomentato (nel libro Non sono razzista, ma…, Feltrinelli 2017) circa i nessi tra questa indifferenza morale verso i migranti e quella verso gli ebrei, al tempo dell’Olocausto: «L’indifferenza della vita di ogni singolo in un mondo la cui legge era disinteresse per l’altro e vantaggio individuale universale» (T. Adorno). Nel caso di Lombardi la dichiarazione ha anche un’altra chiave di lettura. Sarebbe di “buon senso” immaginare i borghi spopolati delle aree interne come grandi alberghi diffusi per turisti. Questa idea rischia di dare la mazzata finale a una parte del Paese in cui è ancora possibile coltivare uno stile di vita non del tutto appiattito sull’alienazione morale delle metropoli.
Come spiega Vito Teti in Quel che resta.
L’Italia dei Paesi tra abbandoni e ritorni
(Donzelli 2017) è proprio questa Italia minore e sofferente che può ridare senso e sapore all’Italia apparentemente vincente. A patto che non la trasformiamo in un gigantesco parco a tema per turisti, ma la aiutiamo a rifarsi tessuto civile: anche con l’integrazione di nuovi italiani, qualunque sia il colore della loro pelle.
«Ripopoliamo le aree spopolate dell’Appennino con immigrati e rifugiati», ha proposto il “paesologo” Franco Arminio. «Nella città vecchia il popolo nuovo», ha detto l’urbanista Ilaria Agostini, chiedendo che i centri storici spopolati delle città d’arte siano luoghi di integrazione. E i concreti esempi positivi non mancano, a partire da quello notissimo di Riace.
Investire in questa direzione significa, sul medio e lungo periodo, favorire il “progresso materiale e spirituale della società” (articolo 4 della Costituzione).
Con quali soldi? È stato calcolato che con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia di Erdogan per bloccare i rifugiati, si sarebbero potuti accogliere e integrare tre milioni di migranti. Questo è buon senso. Così come è buon senso trovare intollerabile che i migranti affoghino nel mare in cui facciamo il bagno d’estate, o che siano chiusi in campi di concentramento pagati dai nostri governi. E questa orrenda campagna elettorale ha un bisogno di trovare un senso. Possibilmente buono.
il manifesto 24.2.18
Scuola, sciopero dei sindacati di base: «Gli aumenti del contratto sono miserabili»
La protesta. Indetto da Cobas, Cub, Unicobas e Usb. Poi il corteo a Roma. La rottura con i confederali
di Roberto Ciccarelli
Insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia che protestano contro una sentenza del Consiglio di Stato che mette a rischio il posto di lavoro, insieme ai docenti delle scuole di ogni grado e personale Ata, hanno aderito ieri allo sciopero della scuola indetto dai sindacati di base Cobas, Cub, Unicobas, Usb. Ragione della protesta è il contratto della scuola firmato il 9 febbraio scorso da Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, ma non dalla Gilda e dallo Snals. L’intesa è stata criticata anche dall’Anief.
A Roma i manifestanti si sono mossi in corteo dal Ministero dell’Istruzione in Viale Trastevere verso il Pantheon e sono stati raggiunti da lavoratori della sanità che hanno aderito allo sciopero indetto da Cub Sanità Italiana, Usb Pubblico Impiego Sanità e Nursing Up (le categorie di Cgil, Cisl e Uil lo hanno sospeso). Questi ultimi erano in presidio davanti al Ministero della Salute. Per Usb il contratto della sanità conterrebbe «solo peggioramenti sia per quanto riguarda i diritti che le condizioni di lavoro che si traducono in un peggioramento dei servizi per i cittadini». Nel corso della giornata la protesta si è spostata anche alla sede dell’Aran, dove si è discusso il contratto.
Tornando al contratto della scuola, i motivi della protesta dei sindacati di base sono articolati e molto tecnici. Su tutti, prevale la critica dell’aumento ottenuto dai confederali: da un minimo di 81 euro ad un massimo di 111. Questi importi, giudicati modesti («mancette elettorali» per Piero Bernocchi dei Cobas), sono stati criticati perché assegnati su base percentuale anziché in termini assoluti. Gli importi potrebbero essere dunque anche più bassi rispetto a quelli annunciati, pari a un «medio netto mensile di 45 euro per gli Ata e 50 per i docenti, dopo che in dieci anni di blocco contrattuale la categoria ha perso almeno il 20% del proprio salario, alcune decine di migliaia di euro» sostiene Bernocchi. «Un contratto si valuta se aumenta i diritti e i salari. questo non ha fatto né una cosa né l’altra – ha commentato l’Usb -I nostri aumenti sono un terzo dei metalmeccanici e un sesto dei presidi sceriffo aumenti da fame specie se paragonati ai contratti privati». Un altro motivo dello scontro riguarda l’integrazione dell’aumento con il «bonus» Renzi assegnato dai presidi ai docenti «migliori» e al ruolo dei sindacati nell’assegnazione.
La trattativa sul contratto ha permesso di migliorare la parte normativa rispetto alla prima bozza, evitando le ricadute negative della legge 107 sul contratto. Resta invariato l’orario di servizio, non sono introdotti compiti aggiuntivi obbligatori e non retribuiti né per la formazione, né per l’Alternanza Scuola-Lavoro, il Collegio dei Docenti mantiene la prerogativa di deliberare le attività. Parere diverso sul contratto è stato espresso dal segretario Flc-Cgil Francesco Sinopoli secondo il quale, grazie all’intesa, «la buona scuola non esiste più». Alle obiezioni sulla modestia degli aumenti è stato risposto che è preferibile «riprendersi qualche soldo dopo 10 anni di astinenza» con un triennio contrattuale già in scadenza (dicembre 2018). L’accordo è, al momento, in attesa di una ratifica da parte degli iscritti del sindacato.
Il Fatto 24.2.18
Intercettazioni, il ministero cancella il “metodo Falcone”
di Roberto Scarpinato
Procuratore generale a Palermo
Uno degli aspetti più ambigui ed insidiosi della nuova disciplina delle intercettazioni introdotta con il decreto legislativo n. 216 del 2017, riguarda la ridefinizione dei rapporti tra pubblico ministero e organi di polizia nella selezione delle conversazioni rilevanti per le indagini.
L’attuale normativa prevede che il pubblico ministero può procedere all’ascolto personalmente (articolo 267, comma 4, c.p.p.) oppure avvalendosi, come sua longa manus, di un ufficiale della polizia giudiziaria al quale l’articolo 268 c.p.p. attribuisce il compito meramente esecutivo di trascrivere anche sommariamente il contenuto delle comunicazioni intercettate, senza operare alcuna selezione.
Tali trascrizioni, in gergo definite brogliacci, vengono quindi esaminate dal pubblico ministero al quale è attribuito dalla legge il potere di individuare le comunicazioni rilevanti per le indagini.
La nuova disciplina, che entrerà in vigore il prossimo 25 luglio, attribuisce invece agli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di selezionare le comunicazioni rilevanti, stabilendo per essi il divieto di trascrivere, anche in modo sommario, le comunicazioni o conversazioni a loro giudizio irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle sempre a loro giudizio parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge.
L’articolo 268 bis c.p.p. di nuovo conio stabilisce inoltre che gli ufficiali di polizia giudiziaria non solo devono omettere di trascrivere le conversazioni da essi ritenute irrilevanti, ma devono altresì omettere in tali casi qualsiasi indicazione sull’identità delle persone dialoganti e sull’oggetto delle loro conversazioni. Nel verbale delle operazioni devono essere indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.
Per evitare che a causa di tale modalità di trascrizione delle conversazioni intercettate, che determina il totale oscuramento di quelle ritenute irrilevanti dalle forze di polizia, il pm sia privato di ogni potere di autonoma e successiva valutazione sulla rilevanza o meno delle predette conversazioni, un altro articolo della nuova disciplina (articolo 267, comma 4, c.p.p. come modificato), prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria devono provvedere a trasmettere al pubblico ministero “annotazioni” contenenti una sintesi delle conversazioni da essi non ritenute rilevanti e la cui trascrizione è stata omessa.
In tal modo viene conseguito un triplice scopo: 1) mantenere integro il ruolo di dominus del potere di indagine e di valutazione del materiale probatorio esclusivamente in capo al pubblico ministero, il quale sulla base di tali annotazioni delle forze di polizia viene messo in grado di conoscere anche il contenuto sommario delle conversazioni di cui è stata omessa la trascrizione perché ritenute irrilevanti dalla polizia giudiziaria, operando eventualmente una valutazione difforme di rilevanza; 2) garantire ai difensori, ai quali pure è attribuito il diritto di esaminare le annotazioni, di individuare eventuali conversazioni scartate dalla polizia giudiziaria ed invece aventi a loro giudizio rilevanza processuale per i propri assistititi, chiedendone così la successiva trascrizione al giudice; 3) garantire il diritto alla privacy dei terzi o degli stessi indagati in quanto la nuova normativa prevede che le “annotazioni” sul contenuto delle conversazioni ritenute irrilevanti siano coperte dal segreto e custodite presso un archivio riservato del pubblico ministero unitamente alle registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono (articolo 89 bis delle norme di attuazione), senza che i difensori possano estrarne copia essendo loro attribuito solo il diritto di esaminarle, così come ad essi è attribuito solo il diritto di ascoltare le conversazioni intercettate ritenute irrilevanti ma non il diritto di avere copia delle registrazioni.
A causa dell’ambigua formulazione della norma sulle annotazioni, il ministero della Giustizia nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 216 del 2017, ha invece fornito l’indicazione che tale norma deve essere interpretata nel senso che gli ufficiali di polizia giudiziaria non hanno l’obbligo di informare sistematicamente il pubblico ministero con apposite annotazioni sul contenuto di tutte le conversazioni da essi ritenute irrilevanti e dunque radicalmente omissate, ma solo nei casi in cui essi nutrano il dubbio se si tratti di conversazioni rilevanti o meno e quindi se procedere alla loro trascrizione. Tale interpretazione riduttiva sposta l’asse del potere selettivo delle conversazioni rilevanti per le indagini a favore delle forze di polizia, che così vengono abilitate a stabilire autonomamente quali tra quelle da essi ritenute irrilevanti siano meritevoli di essere sottoposte o meno al vaglio del pubblico ministero.
Si tratta di un’interpretazione che oltre a non avere una base testuale nella lettera della norma, non appare costituzionalmente orientata ponendosi in contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 112, 104, 24 e 111 che sanciscono rispettivamente l’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza e autonomia della magistratura da ogni altro potere, l’inviolabilità del diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento, l’attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo: principi tutti che verrebbero sacrificati sull’altare del diritto alla privacy di cui all’art. 15, con un evidente sbilanciamento nel contemperamento dei valori che appare tanto più irragionevole ove si consideri che il regime di segretezza assicurato alle annotazioni è pienamente idoneo a garantire pure quest’ultimo diritto.
Ove venisse seguita l’indicazione ministeriale il pubblico ministero verrebbe infatti privato, a favore delle forze di polizia, della pienezza del potere-dovere di operare una autonoma valutazione di tutte le risultanze processuali acquisite, nessuna esclusa, ivi comprese quelle a favore della persona sottoposta ad indagini, obbligo quest’ultimo imposto espressamente dall’articolo 358 del c.p.p. solo a carico del pubblico ministero e non anche a carico delle forze di polizia. Verrebbe inoltre pregiudicata l’effettività del diritto di difesa, essendo evidente che i difensori in assenza di annotazioni che riguardino tutte le conversazioni ritenute irrilevanti e dunque non trascritte, verrebbero privati di una indispensabile bussola per orientarsi nell’individuare quelle per essi rilevanti e dunque da trascrivere. In assenza delle annotazioni, l’unica alternativa, impraticabile, sarebbe quella di procedere personalmente al riascolto di migliaia di ore di intercettazioni a volte protrattesi per lunghi mesi su varie decine di soggetti.
Purtroppo l’interpretazione riduttiva del ministero è stata fatta propria da alcuni procuratori della Repubblica i quali hanno già emanato direttive agli organi di polizia e ai magistrati dei loro uffici con ricadute sul piano degli equilibri generali che si profilano tanti più gravi quanto più tale interpretazione dovesse divenire maggioritaria.
Poiché, come accennato, la nuova normativa entrerà in vigore solo il prossimo 25 luglio, è bene assumere consapevolezza che sul terreno dell’interpretazione e dell’applicazione pratica della nuova normativa si giocherà nei prossimi mesi una partita di grande rilevanza istituzionale il cui esito è destinato ad incidere anche sulla latitudine dei poteri di indagine e di acquisizione delle prove del pubblico ministero nel settore del contrasto alla criminalità mafiosa e terroristica.
Infatti in tale strategico settore, la rilevanza delle conversazioni intercettate ai fini delle indagini non viene valutata solo in relazione all’oggetto e ai soggetti coinvolti nel singolo procedimento penale nel quale sono disposte le intercettazioni, ma anche con riferimento ad altri procedimenti penali pendenti presso la stessa Procura della Repubblica e in tutte le altre procure italiane sedi di direzioni distrettuali antimafia e di dipartimenti antiterrorismo.
Conversazioni ritenute irrilevanti in un procedimento instaurato per traffico di droga presso la Procura di Milano possono rivelarsi rilevantissime per un procedimento per omicidio alla Procura di Palermo e per un procedimento per misure di prevenzione patrimoniali alla Procura antimafia di Torino. Gli esempi concreti tratti dalla quotidianità della prassi operativa potrebbero essere migliaia.
L’obbligo della circolazione delle informazioni, eredità preziosa del metodo Falcone, finalizzato ad evitare il pericolo di dispersione di risultanze processuali irrilevanti nel procedimento in cui sono state acquisite, ma rilevanti in altri procedimenti, è sancito dall’articolo 102 del decreto legislativo n. 159 del 2011 (codice antimafia) e viene realizzato mediante l’inserimento costante dei flussi informatici di tutte le indagini concernenti reati in materia di mafia nelle banche dati logiche delle singole procure distrettuali antimafia, consultabili non solo dai magistrati di quelle procure ma anche dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo nell’ambito della banca dati nazionale condivisa gestita dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo quale prezioso supporto per il proficuo svolgimento della sua funzione di coordinamento.
Tale metodo di lavoro si è reso sinora possibile grazie all’attuale disciplina normativa delle intercettazioni che ha consentito di popolare costantemente le banche dati con le trascrizioni ed i brogliacci di tutte le intercettazioni eseguite nelle varie procure distrettuali italiane, trascrizioni che riguardano tutte le conversazioni sia quelle immediatamente rilevanti per il procedimento in cui sono state disposte sia quelle irrilevanti per quel procedimento ma potenzialmente rilevanti per altri procedimenti.
A seguito della entrata in vigore della nuova disciplina normativa sulle intercettazioni, tale metodo di lavoro potrà essere mantenuto solo se gli ufficiali di polizia giudiziaria oltre a trascrivere le conversazioni da essi ritenute rilevanti con esclusivo riferimento al procedimento in cui sono state disposte, redigeranno sistematicamente annotazioni per tutte le altre conversazioni da essi ritenute irrilevanti in quel procedimento ma che potrebbero avere grande rilevanza in altri procedimenti di cui essi non possono e non debbono avere cognizione.
Se invece dovesse affermarsi l’interpretazione secondo cui gli ufficiali di polizia giudiziaria possono omettere completamente non solo di trascrivere ma anche di annotare per il successivo controllo da parte del pubblico ministero, tutte o gran parte delle conversazioni da essi ritenute non rilevanti per quel singolo procedimento, si verificherebbe la dispersione di un enorme patrimonio informativo di cui non resterebbe traccia documentale, con gravi ricadute negative per l’efficacia del contrasto alla mafia ed al terrorismo.
Il Fatto 24.2.18
“Ma di che si parla? L’agente provocatore in Italia c’è già”
“Queste operazioni le facciamo per droga, armi, riciclaggio, ecc”
di Antonella Mascali
La lotta alla corruzione, sempre dilagante in Italia, è tornata a dividere non solo politici ma anche magistrati tra chi, da anni, chiede gli agenti provocatori, come l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e chi è contrario, come il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte o il presidente dell’Anac Raffaele Cantone.
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, presidente di sezione della Cassazione, non capisce proprio queste obiezioni: “La legge italiana prevede già operazioni sotto copertura ( con agenti provocatori, ndr) ma non per la corruzione. Queste operazioni sono quelle in cui un ufficiale di polizia giudiziaria, dissimulando tale sua qualità, prende notizia di attività illecite, cioè può infiltrarsi in organizzazioni criminali o in altri casi, già previsti dalla legge italiana, può determinare un reato, per esempio facendo un acquisto simulato di stupefacenti”.
Ma chi è contro l’agente provocatore in indagini contro la corruzione dice che nelle situazioni appena descritte il reato c’era già, non sarebbe indotto…
Non sempre è così. Per le grandi quantità di droga, ad esempio, chi deve venderla prima trova l’acquirente e poi si mette d’accordo con il cartello che si trova all’estero per farla arrivare in Italia. Inoltre, anche queste operazioni sotto copertura prevedono che l’ufficiale di polizia giudiziaria commetta un reato (deve dotarsi di falsi documenti e acquistare stupefacenti) al fine di poter arrestare trafficanti e, dunque, non è punibile. Nessuno, però, si è mai scandalizzato.
Ci sarebbe anche una convenzione dell’Onu contro la corruzione firmata dall’Italia, ma ignorata.
È la convenzione di Merida, ratificata dall’Italia senza alcuna obiezione, ma mai attuata in 15 anni. All’articolo 50 prevede l’introduzione di operazioni sotto copertura e fa anche esplicito riferimento alle consegne controllate.
Mazzette?
È evidente che si tratta dell’oggetto del patto illecito e prevedono che costituiscano prova al processo.
Perché la Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo ha condannato alcuni Paesi che hanno usato gli agenti provocatori?
La Cedu ha detto che non possono essere l’unica causale del reato. Non si tratta, però, di fare operazioni sotto copertura per punire la propensione a commettere un reato (come dice Cantone, ndr) ma scatterebbero solo nei confronti di persone che commettono un’attività illecita seriale. I trafficanti sono tali non se spacciano una volta soltanto, allo stesso modo un funzionario pubblico che si vende, ragionevolmente lo fa tutte le volte che ha occasione. La ratio è la stessa. Non capisco questa durissima opposizione all’estensione alla corruzione, sia pur prevista da una convenzione Onu, mentre va bene per lotta alla droga, armi, riciclaggio e pedopornografia.
Come si spiega questa levata di scudi? È per l’inchiesta giornalistica di Fanpage che ha coinvolto il figlio del governatore campano Vincenzo De Luca?
Di Napoli non parlo, c’è un processo in corso. Le ragioni di queste obiezioni le chieda a quelli che le fanno. Io non le comprendo, altra cosa è, invece, la cautela. Ci vuole un controllo dell’autorità giudiziaria ed eventualmente queste operazioni vanno concentrate nelle procure capoluogo di distretto dove sono possibili le specializzazioni. Altra cosa importante: va disciplinata la scelta dell’obiettivo per non prendere persone a caso ma solo nel momento in cui emerge una sproporzione tra il reddito, il tenore di vita e/o la situazione patrimoniale. Ci vogliono indizi che la persona oggetto di attenzione ragionevolmente commetta questo tipo di reati.
Perché è così importante l’utilizzo di agenti provocatori nella lotta alla corruzione?
La corruzione non viene scoperta praticamente mai, è nota solo a corrotti, corruttori e intermediari che hanno l’interesse convergente al silenzio. Per poterla sconfiggere ci vogliono anche forti sconti di pena per chi collabora, fino all’impunità se racconta tutto. Chi lo fa diventa onesto per forza, nessuno lo avvicinerà più. Ma per poter individuare i corrotti e avere prove nei loro confronti ci vogliono le operazioni sotto copertura, solo dopo si può convincerli a collaborare, un pentimento spontaneo è altamente improbabile.
Il Fatto 24.2.18
Il testo “Orlando” e la nuova circolare
Il governo, sulla base di una delega affidatagli dal Parlamento, ha riscritto a fine 2017 la normativa sulle intercettazioni in senso più restrittivo quanto alla tutela della privacy. In sostanza il testo voluto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, prevede il divieto di trascrizione “anche sommaria” delle “comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti”. Nel verbale delle operazioni va indicato solo data, ora e dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Curiosamente la decisione su cosa sia rilevante o meno viene presa dalla polizia giudiziaria e non dal pm, che può però fare brevi annotazioni all’autorità giudiziaria: una circolare del ministero, però, ha recentemente (e di nuovo curiosamente) limitato la possibilità per le forze dell’ordine di informare il pm. Negli atti, peraltro, si potranno citare, “ove necessario” solo i “brani essenziali” delle intercettazioni. L’archivio delle registrazioni e dei brogliacci sarà custodito dal pubblico ministero.
Il Fatto 23.2.18
“Così è cominciata l’Italia, da un errore”
La Rai presenta “La mossa del cavallo”: un film tratto da un romanzo dello scrittore. E spiega i nodi irrisolti del Paese
di Pietrangelo Buttafuoco
C’era una volta Vigata. Ed ecco La Mossa del Cavallo. La Rai presenta lo smagliante ultimo suo prodotto – nientemeno che un film in costume tratto da un romanzo storico, un vero lusso – e il racconto di Andrea Camilleri torna indietro nel tempo, nella Montelusa del 1877, con la storia di Giovanni Bovara, ispettore capo dei mulini – siciliano di nascita, ma cresciuto in Continente – deciso a far rispettare l’obbligo, fosse pure l’odiosa tassa sul macinato.
C’era una volta quello che c’è sempre, ovvero qualcosa di grande e pericoloso, un sistema di avidità e crimine. Ed è una scacchiera perfino intraducibile con la lingua della Legge. E c’era dunque a Vigata – e ancora adesso c’è – l’errore che ha generato l’Unità d’Italia.
La voce di Camilleri domina come ex cathedra e denuda l’errore: “Il colonnello dei Carabinieri che di nome fa Carlo Alberto Dalla Chiesa – il nonno del generale omonimo ucciso a Palermo dalla Mafia – giunto in Sicilia incita gli uomini al suo seguito a fare fuoco”.
Quella voce, dà voce a una ferita mai sanata. È il colonnello che parla: “Non abbiate timore a sparare ai contadini, in quei campi troverete più fucili che pane”.
C’era una volta Vigata e c’era l’esercito fucilatore. E adesso c’è la “P di politica che è diventata minuscola”. No però, non di politica vuole parlare Camilleri, ma di storia se alla folla che lo applaude a viale Mazzini – nell’atrio della sede Rai – per la conferenza stampa di presentazione del film La Mossa del Cavallo (regia di Gianluca Maria Tavarelli) racconta il fatto per come fu: “Su cinquecentomila aventi diritto al voto, solo settanta, in Sicilia, dissero no a Roma ma l’Italia, pur beneficiata da tanto consenso, ricambiò quell’entusiasmo con l’esercito fucilatore”.
Ci vuole il romanzo per far conoscere la storia: “I siciliani ebbero a vivere il servizio di leva come un lutto provvisorio; i parenti dei soldati, infatti, vestivano il lutto stretto fino al completamento degli obblighi militari”.
L’Italia si doveva pur fare e Camilleri, potente nella sua presenza, affabula in realismo e dice: “Ragazzi del Piemonte, della Liguria, della Sicilia, della Puglia e del Veneto, messi l’uno accanto all’altro, cominciavano a parlare una stessa lingua”. Dopo di che, zolfo di viva intelligenza, cauterizza con l’ironia: “Così è cominciata l’Italia, da un errore”.
Ecco la Mossa, ed ecco un Camilleri in una nuova prova tivù confezionata con tutti i crismi delle arti. Ci sono, infatti, con la letteratura del suo Autore, la maestria del grande teatro in ogni singolo attore, la ricostruzione impeccabile di scenografia e costumi, la cifra del miglior cinema, il contenuto storico e la regia originale di Tavarelli in così grande spolvero da far sembrare la tivù troppo poca cosa. A benedire il tutto, la bedda Sicilia, ancora una volta gli scorci incantevoli di Scicli, Ibla, Modica e Ispica (e il mare di Donnalucata, va da sé).
Nel ruolo di protagonista c’è Michele Riondino. Attore eccellente, già interprete del Commissario Montalbano da “giovane” – dove è perfino superiore a Luca Zingaretti – in questo film dalla scrittura limpida, Riondino si concede un virtuosismo di sdoppiamento: parla con l’inflessione ligure per poi decidersi, nello scacco, a ragionare in vigatese, una sorta di scavo nella lingua madre con cui apparecchiare il colpo di scena.
Bedda, degna dell’archetipo della Lupa, è Ester Pantano nel ruolo della femmina che porta alla dannazione pure il padre parroco. La scena più erotica si consuma quando lei ordina a un garzone di preparare il letto all’ispettore dei mulini cui ha affittato la casa. Fulmina con un’occhiata il ragazzo e gli intima: “…mi raccomando le lenzuola, tese!”.
Inesorabile, ma nella disinvoltura di una saggezza bieca, è la ferina natura di quella Vigata. Una brocca sta appoggiata alla bocca di un pozzo. Un tiratore accecato di rabbia spara, tira, tira e spara senza mai beccare il bersaglio. Un vecchio caracollante gli strappa il revolver dalla mano, lo impugna, spara e mette a segno sulla brocca: “Non si spara con il cuore, si spara con la testa!”.
Prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e da RaiFiction, scritto da Camilleri con Leonardo Marini, Valentina Alferj e Francesco Bruni, il film prelude – lo ha detto Tinny Andreatta, direttrice di RaiFiction – “a una collezione che pensiamo possa nascere su questa radice”.
Disegnato come a godere dei Tre Moschettieri, a volte come un western, a tratti come commedia e Opera dei Pupi (magnifico il delegato di polizia, tanto è fetente come un Gano di Magonza, e così Filippo Luna, l’avvocato Fasulo), il film prenderà, con il largo pubblico televisivo, anche i palati più esigenti perché quell’alchimia dell’intrattenimento popolare di cui teorizzò Umberto Eco, qui si conferma con un Camilleri definitivamente letterario. Questa volta, infatti, non c’è il genere poliziesco. Adesso torna in campo il grande romanzo. E la sequenza perfetta, coerente in nitore di parola e ragionamento, è solo una. Ed è tutto quello che deriva da Vigata: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri.
La Stampa 24.2.18
L’inferno senza fine di Goutha, duemila morti nel silenzio del mondo
L’assedio di Assad e dei russi alla provincia ribelle: «Vogliono lo sterminio». All’Onu si negozia la tregua. Merkel e Macron a Putin: «È il momento di agire»
di Domenico Quirico
qui
il manifesto 24.2.18
Trump accelera, ambasciata Usa a Gerusalemme il 14 maggio
Israele/Territori palestinesi occupati. Anticipata dai media israeliani e dal ministro Yisrael Katz la notizia è stata confernata da una fonte del Dipartimento di Stato. La rabbia dei palestinesi: è una provocazione.
di Michele Giorgio
Yisrael Katz non ce l’ha fatta a contenere la sua felicità e ha anticipato tutti ieri, incluso il premier Netanyahu. «Mi voglio congratulare con Donald Trump, il presidente Usa, della sua decisione di trasferire l’ambasciata nella nostra capitale nel 70 anniversario della Giornata dell’indipendenza (la fondazione di Israele, ndr). Non c’è un regalo più grande di questo. La decisione più giusta e corretta. Grazie, amici!», ha scritto il ministro dei trasporti sul suo profilo Twitter, commentando il nuovo schiaffo dell’Amministrazione Usa al diritto internazionale e alle rivendicazioni palestinesi sulla città santa. La risposta palestinese è arrivata poco dopo, per bocca di Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente dell’Anp Abu Mazen. «Qualsiasi iniziativa incoerente con la legittimità internazionale – ha spiegato – impedisce ogni tentativo di raggiungere accordi nella regione e crea un clima negativo e dannoso». Più netta è stata la condanna di Hamas. Il trasferimento dell’ambasciata, ha scritto in un comunicato il movimento islamico «è una dichiarazione di guerra nei confronti della nazione araba e musulmana». Si attendono ora le risposte della popolazione palestinese che ha già reagito con grandi manifestazioni di protesta a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e a Gaza al riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele e all’annuncio del trasferimento dell’ambasciata fatti da Donald Trump lo scorso 6 dicembre.
La data ufficiale del trasferimento della sede diplomatica ieri sera non era stata ancora comunicata dalla Casa Bianca. Un funzionario del Dipartimento di Stato ha soltanto confermato il passaggio a maggio della sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, senza fornire dettagli. Secondo i media locali, in una prima fase sarà aperta una ambasciata provvisoria nella struttura consolare di Gerusalemme Ovest, da dove l’ambasciatore David Friedman lavorerà con uno staff ridotto. In seguito questa sede sarà ampliata e, infine, sarà aperta un’ambasciata permanente con ogni probabilità nella zona sud-est di Gerusalemme, quindi nella parte araba della città occupata da Israele nel 1967. Qualcuno parla di mossa “simbolica” il prossimo 14 maggio, per celebrare i 70 anni dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Simbolica non lo è per niente. Tutto ciò che riguarda Gerusalemme e il suo status ha una eccezionale importanza politica e genera passioni e reazioni in almeno metà del pianeta.
Trump ha voluto accelerare i tempi. Solo il scorso mese, il vicepresidente Usa Mike Pence aveva parlato di uno spostamento dell’ambasciata entro la fine del 2019. Poi è intervenuto qualcosa. Anzi qualcuno, il miliardario israelo-americano Sheldon Adelson, da anni alfiere del primo ministro Netanyahu. I media israeliani scrivono che Sheldon, tra maggiori finanziatori dei Republicani, si è offerto di coprire una buona parte dei costi (decine di milioni di dollari) della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme a patto che il progetto vada avanti ad alta velocità. E il Dipartimento di Stato starebbe ora valutando se sia legale accettare donazioni private. In quel caso oltre a Sheldon, l’Amministrazione Trump potrebbe sollecitare contributi dalle comunità evangeliche sioniste ed ebraiche degli Usa.
Dietro questa accelerazione c’è con ogni probabilità anche la prossima, così pare, presentazione del cosiddetto “Accordo del secolo” tra israeliani e palestinesi, ossia il “piano di pace” della Casa Bianca. L’ambasciatrice americana all’Onu Nikky Haley ha detto durante un incontro all’Istituto Politico dell’Università di Chicago che gli Usa «stanno arrivando con un piano, non sarà amato da entrambe le parti e non sarà odiato da entrambe le parti». Parole che significano tutto e nulla. Di certo si sa solo che gli Usa non appoggiano più la soluzione dei Due Stati ed escludono quella dello Stato Unico, e che i palestinesi respingono con forza la mediazione americana dopo la dichiarazione di Trump su Gerusalemme.
La Stampa 24.2.18
Trump insiste: “Armiamo e addestriamo gli insegnanti, ma vietiamole ai malati mentali”
Il presidente ribadisce il bisogno di armare e addestrare i docenti. Tra i primi atti all’inizio del mandato ci fu quello di cancellare la normativa Obama che vietava il possesso di armi a chi soffre di problemi psichici
qui
il manifesto 24.2.18
Quella memoria condivisa che non si interroga su se stessa
Berlinale 68. Il regista ucraino Sergei Loznitsa presenta al Forum il suo nuovo documentario «Victory Day». Girato a Berlino nel memoriale russo costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti
di Cristina Piccino
BERLINO Il tramonto è rosso fuoco ma l’aria è freddissima, la Berlinale si chiude oggi e stasera scopriremo l’Orso d’oro, sembra che nel cuore dei giurati – che bello incontrare in qualche proiezione il sempre elegantissimo Sakamoto – sia molto piaciuto anche Las Herederas melò appena tratteggiato con molto realismo da Marcelo Martinessi, racconto di un desiderio e insieme dei rapporti di potere che si stabiliscono in ogni relazione. Al centro c’è una coppia di donne borghesi, in Paraguay, costrette a un radicale cambiamento della loro esistenza con l’arresto di una di loro e la perdita della bellissima casa. Così mentre Chiqui è in prigione, Chela svuota la loro abitazione e comincia a scoprire per sé stessa altre possibilità: un lavoro e un nuovo amore … Sembra però che anche Alba Rohrwacher (Figlia mia di Laura Bispuri) sia molto piaciuta ai giurati nel ruolo dell’imprevedibile (e un po’ selvatica) Angelica… Si vedrà.
Sergei Loznitsa lo definisce «un film su un monumento all’ambiguità» Victory Day – presentato al Forum ma poteva essere nel concorso se (come Cannes) fosse meno irrigidito – girato a Berlino, a Treptower Park, nel memoriale sovietico costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti. Un titolo che conferma la sezione tra le migliori del festival, l’unica in cui sperimentazione e diverse proposte di ricerca sul cinema riescono ancora a trovare uno spazio in una selezione che comprende autori contemporanei, omaggi al pink giapponese nella figura della meravigliosa attrice Keiko Sato, la presenza di James Benning con un suo lavoro «storico» 11×14 e l’eclissi di L.Cohen, restauri e giovanissimi.
l giorno della Vittoria è il 9 maggio, che fino al 1965 era festa nazionale in tutta l’Europa dell’est e che di recente Putin ha reinvestito di orgoglio nazionale. A Berlino arrivano nel monumento di Treptower Park cittadini da ogni repubblica dell’ex-Urss, anziani, più giovani, uomini, donne, famiglie, bambini vestiti da piccoli soldati; coccarde e bandiere rosse e russe, garofani rossi, fiori e corone; eroi di guerra, veterani e medaglie; cori patritottici e danze. «Abbiamo combattuto tutti insieme» dice qualcuno. Un altro, kazako saluta il suo Paese. Qualcuno parla di fascismo e di neo-fascismo, accusa la Germania di non avere mai affrontato con sincerità il passato nazista. Due quasi litigano, la Germania era solo quella socialista, gli altri sono ancora oggi una finta democrazia…. I cosacchi suonano, si ride, si mangia, un ragazzino non vuole infilare la casacca dell’Armata Rossa, smart-phone, qualche videocamera, nessuno sembra preoccuparsi della presenza del regista.
Se il dispositivo è lo stesso utilizzato in Austerlitz, Victory Day ne rappresenta una sorta di controcampo: lì i visitatori del campo di concentramento erano una massa distratta, distante, che si poneva nei confronti del luogo come verso ogni museo o monumento dei tour turistici, con la stessa indifferenza e gli stessi rituali..Qui invece tutte le persone che si ritrovano a Treptower Park sono coinvolte in ciò che quel giorno e quel luogo rappresenta, l’avvenimento storico e la sua retorica. Lo stesso vale per il regista. Nelle note al film Loznitsa scrive: «Ci sono questioni cruciali riguardo al ruolo dell’Unione sovietica nella seconda guerra mondiale. Per esempio il patto Ribbentrop-Molotov, la divisione della Polonia, la guerra contro la Finlandia …
Per questo visti poi i crimini commessi da un regime quale lo stalinismo, ogni monumento eretto nell’era sovietica che ne celebra le mitologie, racchiude per me una forte ambiguità. È molto difficile riuscire a confrontarsi con questo». La sua posizione è dunque differente, c’è una vicinanza seppure critica, e un coinvolgimento che muta il rapporto coi corpi delle persone e il modo di filmare la loro presenza nello spazio. Quello che vedevamo in Austerlitz era il compimento di una rimozione nella quale la memoria dell’Olocausto finiva per coincidere col consumo turistico indistinto; qui il regista illumina invece una memoria condivisa e sempre viva ma allo stesso modo parziale, che non si interroga cioè su se stessa. L’adesione al sentimento patriottico che mischia falce e martello e icone religiose, è come se cancellasse la possibilità di una consapevolezza storica, che sia nella gravità (di facciata) nel campo di concentramento o nell’adesione festiva è sempre qualcosa che si arresta alla superficie, i simboli e i rilievi con la storia degli eroi e del popoli lasciano ovunque indietro le contraddizioni passate e presenti.
Le questionio che Loznitsa solleva riguardano la rappresentazione di un Paese, della Storia, in che modo rispondono a una idea comune e dove invece si possono scorgere le crepe e quanto ormai si è perduto. In entrambi i film, Austerlitz e Victory Day al centro c’è proprio il gesto della celebrazione: cosa significa e in che modo svuota di consapevolezza chi vi partecipa, quasi dispiegando una strategia dell’accettazione, messaggio rassicurante, rito portato a compimento. Senza domande, senza esitazioni.
La Stampa TuttoLibri 24.2.18
“Churchill è il nostro mito ma non è stato lui a farci vincere”
Gli inglesi continuano a essere orgogliosi della guerra e della sofferenza In realtà Hitler è stato beffato da Chamberlain, l’uomo che cercava la pace
di Robert Harris
qui
il manifesto 24.2.18
Roma, sul cinema America voltiamo pagina
di Valerio Carocci
Roma Capitale ha consapevolmente scelto di inserire Piazza San Cosimato nel bando dell’Estate Romana, una decisione esclusivamente politica, da noi non condivisa, ma nelle libertà e possibilità dell’amministrazione.
Bergamo sarebbe stato corretto se avesse presentato la scelta in quanto tale, senza cercare rifugio dietro inesistenti necessità normative oppure cadere in errore nella diffamazione, ma così non è stato, non ha avuto la forza, quindi ora voltiamo pagina per il bene della città. Chiediamo di non essere più rincorsi: questo tentativo, a posteriori, di convincerci a partecipare al bando non è dignitoso e sta esponendo, a nostro giudizio, l’amministrazione pubblica ad una distorsione del principio di concorrenza e trasparenza in materia di bandi pubblici.
A che titolo il comune, ente pubblico, chiede reiteratamente al Piccolo America, ente privato di partecipare ad un concorso pubblico, sottolineando spesso anche le sue capacità e possibilità di vittoria. Da cosa nasce il concorso pubblico? Dalla volontà dell’amministrazione comunale di garantire a tutti la possibilità di proporre progetti per Piazza San Cosimato, ed in teoria le altre piazze della città, al fine di garantire che a realizzarsi sia il progetto migliore. In sintesi: tutti devono poter richiedere la piazza, non c’è alcun diritto di prelazione, di nessuno.
Allora a che titolo veniamo tirati per la giacchetta affinché ci sia una nostra partecipazione? Roma Capitale la smetta di perdere tempo e lavori con gli altri operatori per garantire attività culturali a San Cosimato.
Per assurdo, alla luce di quanto appena affermato, se il Piccolo Cinema America cambiasse idea, non ci sarebbero neanche più le condizioni per una partecipazione al bando per Piazza San Cosimato né di qualunque altra area, in quanto sia in caso di vittoria che di sconfitta temiamo che non si potrebbe più avere certezza che la valutazione «tecnica» avverrebbe esclusivamente per merito. Questo anche nel rispetto di tutti gli altri operatori che vorranno partecipare.
Pertanto, sulla base della nostra decisione politica di non partecipare (rafforzata dal rasentato processo diffamatorio di cui riteniamo di essere stati vittime, per via delle parole del Vice Sindaco), ma anche per quanto appena esposto: confermiamo che non vogliamo, né oramai possiamo partecipare.
Chiediamo al Campidoglio di rispettare la nostra scelta, iniziare a lavorare per trovare un altro soggetto idoneo ed inoltre di metterci nelle condizioni di lavorare per portare il Cinema Gratis nella periferia di Roma.
In riferimento alle location Municipali (Tor Spaienza IV Muncipio e Valle Aurelia XIV Municipio), a differenza di quanto dichiarato, non è arrivata alcuna concessione. Ci dicano se vogliono o meno che portiamo il Cinema Gratis nella periferia di Roma, basta saperlo.
Valerio Carocci è presidente ass. Piccolo Cinema America