Corriere 18.10.14
L’addio a Mare Nostrum una tragica ipocrisia che dimentica i drammi
Non fingiamo di dimenticare che ogni miglio in meno di pattugliamento significa vita o morte per centinaia di naufragni, mamme e bambini
di Goffredo Buccini
Almeno non usciamone come i soliti furbastri. Mentre si celebra il passo d’addio di Mare nostrum , la chiarezza ha molta importanza. Il nostro intervento a ridosso delle coste libiche, che in un anno «ha salvato centomila migranti di cui novemila minori» (parole di Angelino Alfano), viene archiviato in queste ore: il Consiglio dei ministri sta per formalizzarlo.
Ma non sarà affatto rimpiazzato da Triton , il servizio di vigilanza sulla frontiera mediterranea lanciato da Bruxelles dal 1° di novembre. Si tratta di impegni ben diversi, e il solo far coincidere la chiusura della più onorevole operazione umanitaria in mare portata a compimento dalla nostra Marina con il varo di questa specie di pattugliamento a trenta miglia dalle nostre coste (sulle duecento che ci separano dalla Libia!) ha un tragico retrogusto di commedia all’italiana: quasi credessimo davvero a un passaggio di consegne.
Siamo bravissimi nell’emergenza, noi: e nella rincorsa. Quando, a ottobre 2013, due naufragi a pochi giorni di distanza seppellirono nelle acque di Lampedusa centinaia di migranti, non vi fu anima bella che non si levò invocando la salvezza dei tanti altri poveretti che avrebbero continuato a imbarcarsi in quel tratto, consegnandosi agli scafisti, per cercare scampo da guerre e persecuzioni. Mare nostrum cominciò così, con la sua retorica e i suoi squilli di fanfara, e con l’abnegazione dei nostri marinai.
Ma noi siamo anche maestri di ambiguità. E questa coincidenza temporale — tra l’operazione che termina e quella che inizia — prosegue l’equivoco lessicale suscitato dal nostro ministro dell’Interno a fine agosto sul tema di Frontex plus , che avrebbe rianimato la frontiera meridionale dell’Europa, la nostra. Frontex plus , che adesso assume il meno burocratico appellativo di Tri ton , signore del mare, avrebbe «sostituito» (versione Alfano) o «affiancato» (versione della sua omologa europea Cecilia Malmström) la straordinaria missione che sino ad allora avevamo condotto in solitudine? In quell’imbrogliarsi di lingue c’era l’abisso tra ciò che noi speravamo e ciò che i partner europei erano disposti a concederci. Dunque? La risposta arriva adesso.
Ora la commedia degli equivoci va infatti consumandosi appieno. Tra pochi giorni ci sfileremo, fingendo appunto di credere alla staffetta umanitaria; e cercando di dimenticare che ben prima di Mare nostrum i marinai italiani andavano a salvare, come potevano, col proprio coraggio e la propria iniziativa, migranti in pericolo a cinquanta o sessanta miglia dalla nostra costa (il doppio di Triton , in sostanza) . Dovremmo ricordare che ogni miglio marittimo in più o in meno significa vita o morte per centinaia di naufraghi, non jihadisti, mamme e bambini. Ma ora agiamo sotto pressioni politiche ed emotive ben diverse da un anno fa. Certamente Mare nostrum aveva per noi un costo molto alto (il triplo di Triton , che verrà peraltro ripartito tra partner europei); certamente — anche se pochi lo dichiarano ad alta voce e anzi il presidente della Croce Rossa pronuncia in proposito parole di umanità e buonsenso — lo spettro di Ebola inquieta ben più dei fantasmi del Canale di Sicilia; e il salvataggio in mare aperto di profughi scappati dall’Africa senza alcun filtro sanitario può turbare i sonni di molti.
Tuttavia bisogna dirselo. Dirsi senza ipocrisie che dal 1° novembre pietà l’è morta, basta saperlo. Oggi, a Milano e Reggio Calabria, Lega e Fratelli d’Italia manifestano contro l’idea sottesa a Mare nostrum , che era quella del dovere d’accoglienza: il pendolo di un’opinione pubblica isterica ora chiede ponti levatoi alzati. Il segretario leghista Salvini, molto preso nella costruzione di un fronte lepenista nostrano, definisce «una demenza» l’operazione umanitaria che sta concludendosi. Cinque anni fa, da capogruppo del Carroccio a Palazzo Marino, proponeva carrozze della metro segregazioniste: «per soli milanesi».
Siamo un Paese confuso, spesso ad arte. Il capo di Stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, spiegava a fine agosto che gli sbarchi erano aumentati ben prima di Mare nostrum , con buona pace dei razzisti nostrani: la vera molla del grande esodo è ovviamente il crollo degli Stati d’origine dei migranti, la vera partita dovremmo giocarla laggiù (aveva ragione Lorenzo Cremonesi, ieri, su queste colonne). Così siamo condannati a ripetere la nostra storia, i nostri drammi, forse i nostri naufragi.
Alla prossima ecatombe davanti a Lampedusa però sarebbe decente non prendersela con la Marina. Non cercare di scaricare colpe (men che meno sui partner europei che sono stati chiarissimi). E — vale soprattutto per quei politici che dichiarano d’ispirarsi al magistero della Chiesa — sarebbe dignitoso non stracciarsi le vesti quando papa Francesco fustigherà la nostra indifferenza, il nostro cinismo. Il Cristianesimo senza pietà cristiana è un trucco che nemmeno i commedianti italici dovrebbero potersi
Europa 18.10.14
Il rischio grave di lasciare Mare nostrum
Renzi e i suoi ministri devono pensarci meglio: la riduzione di forze per il pattugliamento del Mediterraneo connessa all'avvio di Triton può causare danni incomparabili con calcoli economici e politici
di Stefano Menichini
qui
il Fatto 18.10.14
La lettera
Pippo Civati coraggio, non rischi mica il rogo
di Luisella Costamagna
Qualcuno ci giudicherà è il titolo del suo libro. Le spiace se do il mio contributo?
Da malpancista del Pd è diventato apertamente dissidente, ma – al di là delle etichette – nella sostanza non mi sembra sia cambiato molto. La coerenza, valore inestimabile cui lei in queste ore si appella per partecipare alla manifestazionedella Cgil contro il Jobs Act, è secondo il vocabolario “conformità tra le proprie convinzioni e l’agire pratico”. Scusi ma questa conformità, nel suo comportamento parlamentare, mi sfugge.
È stato coerente non votare la fiducia al governo Letta e poi far passare tutto il resto? Promettere di vendicare Prodi, ma non fare i nomi dei 101 che l’hanno impallinato? E siamo a Renzi. Capisco che ci sia anche del risentimento personale, per essere stato rottamato ben due volte nonostante l’età (dopo Leopolda 2010 e alle primarie 2013), ma è coerente dire “Matteo sbagli” e poi votargli la fiducia? Soprattutto: adesso cosa farà quando il Jobs Act – che lei critica duramente e giustamente – arriverà alla Camera? Darà un’ennesima prova di coerenza, facendo come altri dissidenti: non condivido ma dico sì lo stesso o mi astengo o esco dall’aula? O farà come il civatiano Tocci che, dopo aver annunciato “voto la fiducia ma mi dimetto da senatore”, ha poi trovato il tempo di salvare il governo nel Def?
Forse è davvero il Palazzo a confondere le idee e a creare queste scappatoie formali: sono quasi da rivalutare i voltagabbana di ieri, quelli del “solo i cretini non cambiano idea” – almeno ammettevano di aver cambiato idea –, di fronte ai tanti incoerenti di oggi che rivendicano la coerenza. Il maestro – lei ha ragione – è Renzi, ma non si può rispondere alla sua incoerenza (annunci, “promesse che non si realizzano” – come scrive nel suo blog – infedeltà al programma elettorale e delle primarie) razzolando allo stesso modo. Tuonando e poi lasciando passare, gettando il sasso e nascondendo la mano, con l’alibi della “democrazia interna al partito”, del “comportamento corretto e leale verso gli elettori” o, peggio ancora, del “bene del paese”.
LA COERENZA è molto più semplice: se non si condivide un provvedimento, si vota no (solo così si può poi criticarlo anche in piazza, non dopo averlo comunque avallato in Parlamento) ; se si dice “mi dimetto” si va via; se non si è d’accordo con la linea del premier-segretario si saluta e si prova ad affermare altrove le proprie idee. Questa è coerenza. Questo sarebbe un comportamento leale e corretto verso gli elettori. Questo farebbe il bene del paese. Caro Civati, lo so: ci vuole coraggio. La coerenza è l’opposto della convenienza, e può far pagare prezzi salati. Non voglio arrivare a ricordare, a lei ex ricercatore in Filosofia, quel tal Giordano Bruno che pagò col rogo la mancata abiura delle sue idee (giuste) sull’universo e sui mondi infiniti. Non esageriamo. I roghi fortunatamente non ci sono più, e di coraggio oggi ne basterebbe anche poco. Lei ne conserva almeno un grammo?
Ci pensi quando passa per Campo de’ Fiori, magari per un aperitivo.
Un cordiale saluto.
il Fatto 18.10.14
Toh, sorpresa. La manovra va riscritta
Ma che cosa ha approvato il Cdm?
di Marco Palombi
AL TESORO IERI LAVORAVANO SU COSETTE COME GLI 80 EURO, IL TFR IN BUSTA PAGA, I TAGLI AI COMUNI, LE CLAUSOLE DI SALVAGUARDIA E LE TABELLE (CIOÈ I NUMERI VERI)
Gentili signori del governo, permettete una domanda? Esattamente cosa ha votato il Consiglio dei ministri che mercoledì ha approvato la manovra? Al Fatto Quotidiano, infatti, risulta che il testo sia ancora in fase di scrittura, o meglio di riscrittura, all’ufficio legislativo del ministero del Tesoro sotto il coordinamento del capo di gabinetto di Pier Carlo Padoan, Roberto Garofoli (già a Palazzo Chigi con Enrico Letta), l’uomo che deve confrontarsi con la Presidenza del Consiglio e sopportare le pressioni dei ministri che hanno strappato eventuali promesse dal premier. Ancora ieri, ad esempio, circolavano bozze del provvedimento, una visionata dal nostro giornale risaliva a giovedì, il giorno successivo cioè a quello in cui i ministri hanno formalmente approvato la manovra da 36 miliardi a Palazzo Chigi, poi annunciata da Matteo Renzi in conferenza stampa (“entro stasera avrete i testi”, s’era sbilanciato il nostro). Maria Elena Boschi, peraltro, ha spiegato a Montecitorio che il testo sarà in Parlamento solo martedì.
Si potrebbe obiettare che sempre c’è un coordinamento formale dei testi, che bisogna controllare i riferimenti normativi e i numeri per evitare errori che falsifichino le intenzioni del governo. A parte che sarebbe buona norma arrivare in Consiglio dei ministri con le leggi già scritte, a parte che la legge impone all’esecutivo di presentare il ddl Stabilità entro il 15 ottobre (e s’intende alle Camere), ma in questo caso non si tratta nemmeno di mere questioni formali: in questi giorni è in corso una vera e propria riscrittura di punti qualificanti della manovra e delle relative tabelle, cioè il Bilancio dello Stato, ancora largamente incomplete.
TRADOTTO: il valore della manovra non è affatto chiaro, né conoscibile ad oggi. Potrebbe non essere affatto 36 miliardi, anzi sicuramente non lo sarà: visto che gli 11 miliardi di deficit guadagnati dal tendenziale (2,9 anziché 2,2%) esistono appunto solo nel tendenziale. Il governo avrebbe dovuto risparmiarli e non lo farà: mai esistiti, mai esisteranno. L’unica cosa certa, invece, è che il deficit reale passa dal 3% di quest’anno al 2,9% dell’anno prossimo. Un esempio: il taglio dell’Irap da 6,5 miliardi, che poi in termini di cassa è 5, ingloba pure i 2 miliardi tagliati col decreto degli 80 euro. Il centro studi di Unimpresa non l’ha presa bene: “Al netto della partita di giro messa sul tavolo dal governo, i 5 miliardi di sconto Irap annunciato dal governo si riducono a soli 2,9 miliardi”. Non di sole tabelle vive però la riscrittura del ddl Stabilità, anche interi pezzi dell’articolato sono in via di definizione.
A QUANTO raccontano al Fatto fonti governative qualificate, anche tutta la parte che riguarda il Tfr in busta paga è in corso di ridefinizione. Per dirla col parlamentare del Pd - peraltro presidente della fondamentale commissione Bilancio della Camera - Francesco Boccia “è stata scritta coi piedi” (così, ieri mattina, a Omnibus su La7) da “consulenti frettolosi” ha detto riferendosi a Yoram Gutgeld, deputato Pd ex McKinsey che fa parte dello staff di Renzi (pesante la battuta: “Mi ricordo che Demattè all’università ci diceva chisafa, chi non sa insegna, chi non sa nemmeno insegnare fa il consulente”). Al Tesoro hanno intuito, bontà loro, che così com’è scritta la norma sul Tfr in busta paga non ha senso: sottoporre la liquidazione liberata alla tassazione ordinaria non rende conveniente l’operazione per il lavoratore; è mal scritta la parte che riguarda le imprese sotto e sopra i 50 dipendenti (queste ultime parcheggiano il Tfr in un fondo dell’Inps) ; forse incostituzionale la parte che esclude i dipendenti statali dal beneficio; manca un limite massimo alla platea interessata che potrebbe, ad esempio, svuotare i fondi pensioni con effetti spiacevoli per i nostri piccoli e malmessi mercati finanziari. Tutte crepe a cui si tenta di porre riparo.
Non finisce comunque col Tfr il lavoro del Mef. Renzi, per dire, è rimasto sorpreso - e un po’ irritato - dal significato preso nella pratica dall’aver imposto il pareggio di bilancio agli enti locali nel 2015: delle Regioni al premier non interessa granché, ma non si aspettava che ai Comuni toccasse sborsare un miliardo e mezzo. Il sindaco d’Italia non voleva mettere i colleghi in condizione di chiudere bottega: “Molti comuni così rischiano il dissesto”, ha detto lo stesso deputato renziano Matteo Richetti. Il Tesoro sta cercando di attenuare l’impatto, ma il fondo del barile è stato già raschiato.
FINITO? Macché. Sugli 80 euro, ieri sera in tv, Pier Carlo Padoan diceva “stiamo studiando la soluzione migliore”. Anche le clausole di salvaguardia ereditate da Enrico Letta e inserite nella manovra - sono due: una generale che aumenta Iva e benzina, una per le Regioni - sono in corso di ridefinizione per essere adeguate ai saldi (un paio di miliardi almeno della “grande lotta all’evasione” sono pura fuffa). Si tratta di punti - tabelle, Tfr, 80 euro, tagli ai Comuni, clausole di salvaguardia - di enorme importanza per la manovra. Torniamo dunque alla domanda iniziale: il Consiglio dei ministri ha approvato il ddl Stabilità o il suo trailer? È accettabile che in uno stato di diritto i passaggi formali previsti dalla legge siano trattati alla stregua di quelle chiacchiere che, com’è noto, disturbano il conducente?
La Stampa 18.10.14
La rabbia della Camusso: “Niente garanzie sul lavoro. Così la manovra non dà crescita”
Il segretario della Cgil: le imprese prenderanno gli sgravi senza assumere
intervista di Francesco Manacorda
«Non credo davvero che una legge di stabilità che distribuisce risorse alle imprese, senza porre alcun vincolo per cui queste risorse siano destinate a investimenti e innovazione, sia espansiva. Quel che è certo, invece, è che si tratta di una manovra che non mette al centro il lavoro e la creazione di lavoro, ossia proprio quello di cui l’Italia ha più bisogno». Il segretario della Cgil Susanna Camusso ha «sentito gli annunci del governo, più che vedere i testi che ancora non ci sono. Ma se l’impostazione che abbiamo sentito sarà confermata», allora la sua bocciatura suona senza appello. E la manifestazione del 25 ottobre, dice, «trae ulteriori ragioni d’essere da quanto annunciato perché la nostra vuole essere proposta prima che protesta».
Anche il Presidente Napolitano, però, parla di «misure importanti per la crescita».
«Il problema centrale è uno: sgravi fiscali come quelli sull’Irap alle imprese, senza garanzie sull’occupazione, non servono. Vogliamo favorire la ThyssenKrupp di Terni che sta licenziando o la Trw, azienda di 500 lavoratori di Livorno che ha appena annunciato i licenziamenti? O le tante imprese che invece di creare nuova occupazione la distruggono? Così non si riparte. I Paesi che manifestano una ripresa dell’occupazione lo hanno fatto alzando i salari, come in Giappone, e non creando maggiore incertezza. Del resto anche misure come gli 80 euro, seppure giuste, possono risultare deboli quando in famiglia c’è un disoccupato: finiscono ad alimentare un risparmio dettato dalla preoccupazione per il futuro e non certo i consumi».
Riconosce almeno a Renzi il fatto che questa sia una manovra che riduce la pressione di Irpef e Irap?
«E’ indubbio che l’Italia abbia un carico fiscale molto alto. Ma, lo ripeto, non esiste nessuna prova che abbassare questo carico sulle imprese porti a miglioramenti sull’occupazione. E per quel che riguarda i lavoratori mi pare che non siamo certo a un alleggerimento fiscale. Anzi».
Perché questo giudizio?
«Penso alla tassazione annunciata sulla previdenza complementare, che da quel che si legge salirebbe dall’11,5 al 20%, colpendo così una forma di risparmio. E anche al fatto che i soldi del Tfr messi in busta paga verrebbero tassati con le aliquote normali, più alte di quella agevolata propria del Trattamento di fine rapporto. O vogliamo prendere il blocco degli stipendi nel pubblico impiego? Non si agisce sulla pressione fiscale, ma non si aumenta nemmeno il reddito disponibile. Sentiamo dal governo la demagogia del “meno tasse” e intanto continuiamo a essere il Paese che ha l’imposta di successione più bassa e dove i proprietari di un appartamento sono in proporzione più colpiti di chi ha enormi patrimoni immobiliari. Io ascolto ogni giorno cassintegrati o disoccupati che non sanno più come pagare le imposte sulle loro case. Di fronte a questa situazione una patrimoniale avrebbe senso e darebbe un forte segno di equità».
Teme anche che le Regioni aumentino le tasse?
«Con tagli per 4 miliardi o aumentano le tasse o, a loro volta, ridurranno i servizi ai cittadini nella sanità e nei trasporti. E siccome il prossimo è un anno elettorale per molte Regioni penso che non alzeranno le tasse ma sceglieranno di tagliare questi servizi».
L’opinione di molti, però, è che il governo ha preferito favorire le imprese, scommettendo sul fatto che gli sgravi destinati a loro rimettano in moto l’economia. E voi non ci volete stare.
«Lo schema, ormai lo conosciamo, è sempre quello di mettere tutti contro tutti. E il nostro obiettivo non è certo andare contro chi con questa legge di stabilità ha ottenuto risultati. Ma, se nella stessa dichiarazione in cui il presidente di Confindustria Squinzi dice che il governo ha realizzato i sogni degli imprenditori leggo che, nonostante le misure, gli industriali non intendono investire e assumere “perché c’è la crisi”, mi appare evidente che queste misure non porteranno lavoro».
Appunto, Confindustria soddisfatta e voi a bocca asciutta...
«Più che altro mi concentrerei su come Renzi ha cambiato strada: qualche mese fa diceva ai giovani che non dovevano accettare di avere meno diritti e adesso disegna un modello sociale diseguale quanto quello che voleva cambiare».
Lei protesta, ma con il suo collega della Uil Luigi Angeletti ieri siete stati fischiati anche voi dagli operai a Terni...
«C’è stato un gruppetto che prima ha contestato lui e poi me. Ma quello che colpisce e preoccupa non è certo il dissenso di poche persone, quanto la sensazione che i lavoratori e i cittadini di Terni si sentano sempre più soli e abbandonati a se stessi».
Proprio su La Stampa il nostro editorialista Luca Ricolfi ha lanciato la proposta di un «Italy job», sgravi mirati per le aziende che creano nuova occupazione. Cosa ne pensa?
«Tutte le proposte che puntano a creare occupazione aggiuntiva vanno nella direzione giusta. Certo, ciascuna va poi esaminata nel merito e anche quella di Ricolfi andrebbe approfondita, ha degli spunti interessanti. Quel che è certo è che serve una regia, una mano pubblica che intervenga per spingere gli investimenti e far sì che le aziende creino occupazione».
Le daranno ancora una volta della dirigista e statalista...
«E’ molto meno statalista un’idea di un governo dell’economia che predispone una seria politica industriale e investe nei settori strategici, che non l’occupazione dello Stato con le nomine politiche dei dirigenti nella pubblica amministrazione come ha fatto questo governo».
il Fatto 18.10.14
L’ultimo slogan di Matteo: “Ora paghino le Regioni”
La sforbiciata da 4 miliardi difesa al Tg1: “Le famiglie hanno già dato”
La strategia del nemico sprecone
L’occupazione televisiva continua
di F.d’E
La manovra mediatica. Matteo Renzi non si sottrae al suo comandamento principe, apparire-twittare-annunciare, e comincia il suo nuovo tour televisivo per spiegare la buona novella della stabilità. Così in prima serata, nel Tg più visto dagli italiani, quello di Raiuno, compare un inedito Renzi statico e immobile, che non agita mani e corpo, e che accanto alla finestra che dà sul cortile di Palazzo Chigi difende tagli e scelte. La replica tv, ancora più pop, domani nel programma pomeridiano di Barbara D’Urso su Canale 5, l’emittente ammiraglia del suo amico Condannato con cui ha scritto il patto segreto del Nazareno. Renzi non arretra e non si spezza. A partire dai quattro miliardi di tagli imposti alle Regioni e che stanno causando la rivolta di tanti governatori sia amici sia avversari. Anzi, al Tg1, Renzi usa come scudo gli scandali regionali dell’ultimo biennio per giustificare la mannaia: “Le regioni hanno qualcosa da farsi perdonare, facciano la loro parte. Sono 30 anni che i sacrifici li fanno solo le famiglie. Ora è bene che li facciano altri, a cominciare dai ministeri e dalle regioni”.
La strategia del nemico sprecone
Chiaro il riferimento a quegli scandali che hanno avuto come epigono e simbolo il noto Franco Fiorito, consigliere regionale del Lazio nell’era del centrodestra di Renata Polverini. È questo uno dei punti chiave della nuova campagna mediatica. Anche per questo, l’ultima uscita renziana non ha disteso il clima nonostante le prove di mediazione avviate sia da Chiamparino, governatore del Piemonte e stavolta renziano ipercritico, e sia da Bersani, capo della minoranza dem disponibile a studiare soluzioni di compromesso e non di rottura totale sulla legge di Stabilità. Tutti segnali che confermano la forza contrattuale di Renzi e che ieri ha incassato il sostegno e la blindatura del Quirinale. Curiosa la motivazione, vista che Napolitano ammette di non aver letto “con attenzione” il presunto testo approvato dal Consiglio dei ministri mercoledì scorso: “Mi sembra ci siano misure importanti sia per la crescita sia per gli investimenti”. In ogni caso il fronte contrario dei governatori del Pd resta ampio. Si fa prima a dire chi è schierato con il premier: Marcello Pittella in Basilacata, Debora Serracchiani in Friuli Venezia Giulia, Gian Mario Spacca nelle Marche. Tra i sindaci, oltre allo scontato sì dell’amico Dario Nardella, che lo ha sostituito a Firenze, spicca il favore di Ignazio Marino a Roma, che ha ottenuto 110 milioni di euro per la città. Sull’altro fronte, l’attacco di Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio, indicato da più parti come potenziale leader antirenziano del Pd, è violento, senza giri di parole: “Si chiede alle Regioni di finanziare scelte del governo che non abbiamo preso noi, come gli ottanta euro.
L’occupazione televisiva continua
Il governatore della Puglia Nichi Vendola, capo di Sel, ribalta tutte le accuse di Renzi: “Ha ragione Renzi, le Regioni hanno una grave colpa da farsi perdonare: la colpa di aver consentito ai governi di saccheggiare le risorse dei territori. Non dobbiamo ripetere l’errore. Vedo poi che Renzi occupa le tv e i Tg con la sua propaganda, più che ai tempi di Berlusconi. Qui non si cambia verso, al massimo si cambia canale! ”. La battaglia sulle Regioni sarà indicativa non solo dei futuri equilibri interni del Pd ma soprattutto della volontà del premier di usare questa manovra come pretesto per andare al voto anticipato. Del resto, lo scudo degli scandali regionali per giustificare i tagli rappresenta anche un formidabile argomento da campagna elettorale. A Palazzo Chigi, nonostante le smentite quasi quotidiane, lo staff di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, sta mettendo a punto un emendamento per agganciare il Senato (abolito solo nella prima lettura delle riforme) all’Italicum. I sospetti su un election day che abbini elezioni politiche e regionali sono stati rilanciati ieri dall’Huffington Post, quotidiano online. La scenario descritto è clamoroso: Berlusconi subirebbe un cappotto di 9 a zero, sommando le sette Regioni al voto nella prossima primavere e le due invece che andranno alle urne tra poco, Emilia Romagna e Calabria.
il Fatto 18.10.14
Qui Fiumicino
Vittime di Renzi: scuola, bus, servizi
“Non possiamo più sostenere i 420 indigenti”
di Giampiero Calapà
Glielo spiegherà il presidente del Consiglio Matteo Renzi alle 420 persone indigenti di Fiumicino che il Comune non potrà più pagare le bollette di luce e gas? E che ai più sfortunati di loro, quelli a reddito zero, non sarà più garantito il contributo per l’affitto? Vorrà dire Renzi due parole ai genitori dei mille e quattrocento bambini in lista d’attesa per asilo e materna che le due scuole in costruzione non saranno aperte a causa del miliardo e 200 milioni di tagli ai Comuni previsto dalla cosiddetta legge di Stabilità nell’anno primo dell’Era della rottamazione?
A Fiumicino, città da 80 mila abitanti famosa per l’aeroporto di Roma, c’è un sindaco, ex senatore dei Ds, poi bersaniano nel Pd prima della conversione al renzismo, che non sa che pesci pigliare, non in darsena, ma in municipio. “La preoccupazione è davvero tanta – dice affranto – sono qui dal 13 giugno 2013: abbiamo già risparmiato un milione di euro. Sa come? Ho ridotto tutto. Io non prendo lo stipendio da sindaco, non sono un martire, ho il vitalizio da senatore, comunque sia ho rinunciato. Assessori e presidente del Consiglio comunale hanno accettato una riduzione del 30 per cento. Così come i compensi della partecipata Fiumicino tributi. Eliminate tutte le auto di servizio tranne ai vigili e alla protezione civile. Gli unici due ad avere un telefonino comunale sono il capo dei vigili e il dirigente della Protezione civile. Questo per dire che gli sprechi non c’erano già più. Sa cosa rimane da tagliare? ”. Di seguito le risposte che lo stesso sindaco Montino mette in fila una a una.
POVERI. Un milione di euro dal fondo nazionale e dai trasferimenti regionali. “Sono le risorse per gli indigenti della mia città. Significa pagar loro le bollette, altrimenti gli tagliano luce e gas. E nei casi peggiori l’affitto perché c’è anche chi è a reddito zero. Dal 2013 gli indigenti a Fiumicino sono passati da 250 a 420, oltre il 50 per cento in più in un anno.
SCUOLABUS. Sei milioni di euro, due dalla Regione e quattro del Comune stesso. “Qui si parla di trasporto pubblico locale. Se si riduce la cifra bisognerà tagliare le corse. Poi ci sono gli scuolabus. Abbiamo cinquanta plessi scolastici, Fiumicino è estesa per 220 chilometri quadrati. Dal centro per arrivare alla frazione di Tragliatella ci vogliono quaranta minuti in auto. I bambini di Tragliatella chi li porta a scuola se elimino l’autobus? ”.
BIMBI DISABILI. Un milione e mezzo di euro. “Lasciamo perdere questa voce di spesa destinata a interventi culturali e scolastici aggiuntivi? Stiamo parlando di assistenza ai bambini disabili, solo per chiarire”.
EDILIZIA SCOLASTICA. Tre milioni di euro. “È la cifra che destiniamo ad asili nido e scuole materne. Ho 600 bambini in lista d’attesa per le materne e ottocento per il nido. A Fiumicino ci sono due scuole in costruzione che potrebbero risolvere parte del problema, ma non ho più la certezza che una volta ultimate potranno essere aperte”.
Questi “sono i fondi che si possono tagliare a Fiumicino”, sentenzia scoraggiato il sindaco. Montino scelse Renzi alle ultime primarie per la guida del suo partito: “Sembrava necessario un cambiamento. Ma dovrebbe fare le cose con più... saggezza”.
il Fatto 18.10.14
Qui Parma
“Già alluvionati. Dovrò alzare tutte le tariffe”
di Luca De Carolis
Io sono alle prese con la peggiore piena dal 1910 ad oggi, con danni stimati per 100 milioni di euro. E ora questa manovra...”. Federico Pizzarotti, sindaco M5S di Parma dal maggio 2012, vive giorni e notti complicate, dopo che il maltempo ha disseminato di acqua e fango la città. Ma trova il tempo di parlare della manovra prossima ventura: “Non sono ancora calcoli definitivi, ma a Parma costerebbe tagli per almeno dieci milioni”. E sarebbe l’ennesimo guaio, per una città che Pizzarotti sta provando a risollevare dal disastro della precedente giunta di centrodestra, naufragata tra scandali, arresti e conti da fallimento. Pizzarotti ricorda: “Due anni fa, appena arrivati in Comune, abbiamo trovato un deficit di 870 milioni. I primi tempi l’opposizione ci invitava a dichiarare il pre-dissesto: ‘Con questi numeri non potete fare nulla’. Ma con molti sacrifici siamo riusciti a tenere l’amministrazione a galla, tagliando il deficit di 350 milioni e pagando le fatture inevase alle imprese. Ora stiamo ritrattando il debito con le banche”. Ma su tutto pende la manovra. “Le risorse da Roma si sono già ridotte, se non azzerate, e abbiamo dovuto portare le tasse al massimo per non ridurre i servizi. La cosa grave è che questo governo nella finanziaria dà lo ‘svincolo’ ai Comuni per alzarle ancora. Di fatto, vuole scaricare sulle amministrazioni locali la responsabilità di aumentare la pressione fiscale”. Ma Parma come si arrangerebbe, cosa dovrebbe tagliare? “Noi abbiamo circa 235 milioni di spesa corrente , di cui 65 per il sociale, 20 per il settore educativo e più di 50 per il personale. Ne rimangono 120-130 per tutto il resto, dall’illuminazione al verde. Tradotto, dovremmo recuperare soldi alzando le tariffe e tagliando i servizi. Il costo insomma lo pagherebbero i cittadini: e sarebbe carissimo”.
NON SOLO: “Non ne parla quasi nessuno, ma ci sono tagli pesanti anche per le province. E io mi chiedo: chi toglierà la neve dalle strade, con quali soldi? Per noi è un nodo pesante. Per dire, i nostri prosciuttifici non saprebbero come distribuire i propri prodotti”. Pizza-rotti fa parte dell’ufficio di presidenza dell’Anci. E allora compie il passo successivo: “La mia è un’opinione, ma credo che l’Anci dovrebbe intraprendere un’azione più forte e più incisiva per opporsi a questa manovra. Il governo deve innanzitutto abolire enti inutili, o tagliare nei ministeri. E recuperare l’evasione con norme adeguate: non certo spremere i Comuni, l’ultimo fronte di tenuta sociale”. Cosa resta? L’amarezza per un governo centrale che già toglie tanto: “I capoluoghi pagano anche molte delle spese dei tribunali. A Parma lo Stato dovrebbe ridare milioni: ma questi soldi non li abbiamo mai rivisti”. Per ora si intravede solo la manovra. Che fa tanta paura.
Repubblica 18.10.14
Sergio Chiamparino
“O tagliamo i servizi oppure tutto il resto. L’aritmetica non gufa. Matteo ora ci ascolti”
intervista di Paolo Griseri
TORINO È un renziano della primissima ora, non certo uno di quelli che si sono accoccolati sul carro del premier quando era ormai chiaro che si trattava di quello vincente. Per questo colpisce che Sergio Chiamparino abbia attaccato con tanta durezza la manovra del premier: «Sugli sprechi delle Regioni Renzi ha usato toni offensivi ».
Chiamparino, Renzi è diventato improvvisamente un nemico?
«E quando mai? Non è un nemico, è un interlocutore. Che ha fatto una proposta di manovra e che noi contestiamo su alcuni punti».
La manovra del governo è giusta o sbagliata?
«Personalmente condivido l’impianto della manovra».
E allora perché protesta?
«Perché propone per le Regioni cose impossibili. Non dico che siano giuste o sbagliate. Dico semplicemente che l’aritmetica gli dà torto. E l’aritmetica non è di destra o di sinistra, non gufa o sta col premier».
Bocciato in matematica?
«Il calcolo è presto fatto. Il 90 per cento della spese delle Regioni è fatto di sanità e trasporti pubblici. Se Renzi dice che le Regioni italiane devono risparmiare 4 miliardi senza toccare sanità e trasporto pubblico, dice una cosa impossibile da realizzare perché sul resto le Regioni spendono meno di 4 miliardi. Se vogliamo fare un po’ di demagogia, allora vale tutto. Ma se vogliamo parlare della realtà, la matematica è imprescindibile. Tagliando 4 miliardi, le Regioni azzererebbero ogni altro loro intervento che non sia nei due settori che non si vogliono toccare. E questo è semplicemente impossibile ».
Renzi dice che le Regioni devono tagliare gli sprechi. Non avete sprechi?
«Renzi ha ragione: ci sono sprechi nel funzionamento delle Regioni. Come ce ne sono nel funzionamento dei ministeri. Ma la battaglia contro gli sprechi deve essere comune. Non può essere giocata gli uni contro gli altri. Questo è un modo offensivo di rappresentare la realtà come se ci fosse un mondo di virtuosi e un altro di reprobi. Non è così. Facendo di tutta l’erba un fascio non si va da nessuna parte».
I ministeri sprecano di più?
«Io penso di sì. Ma non perché siano malvagi: semplicemente hanno avuto più tempo per organizzarsi. I ministeri esistono da 150 anni, le Regioni dal 1970».
Però se le Regioni cominciassero ad eliminare i loro sprechi non sarebbe male. Non crede?
«Certamente. Ma non dobbiamo illudere nessuno. Ci sono ordini di grandezza incomparabili. Se io taglio i vitalizi o se riduco le partecipate non risparmio i miliardi. Faccio opere meritorie ma riduco di decine di milioni la spesa complessiva ».
Dunque voi dite no ai tagli?
«Noi abbiamo una proposta alternativa che è quella di aumentare i tagli ai ministeri e ridurli alle Regioni».
Ma vi diranno di no. E allora?
«Allora, se ci dicono di no (e, si badi bene, noi crediamo che sbaglino) abbiamo anche una seconda proposta».
Che cosa dice la proposta B?
«L’abbiamo inviata in queste ore ai tecnici di Palazzo Chigi e abbiamo chiesto un incontro a Renzi per illustrarla, senza tweet anticipatori».
Di quanto riduce i costi la vostra proposta B?
«La nostra è una proposta a saldi invariati. Una strada per risparmiare i 4 miliardi in modo diverso da quanto è previsto nella legge di stabilità. Senza aumentare ticket, tariffe e tasse.».
Rinuncerete ai 2 miliardi di aumento dei fondi della sanità già concordati con il ministro Lorenzin?
«Questa è una parte del progetto ».
Se fosse così rimarrebbero comunque altri due miliardi da tagliare. Come farete?
«C’è un documento tecnico inviato a Palazzo Chigi. Prevede di modulare diversamente i fondi delle Regioni che sono a disposizione del ministero dell’Economia a copertura dei mutui e dei derivati. Una cifra ingente dalla quale, secondo i nostri calcoli, si possono risparmiare i due miliardi che mancano. Ma abbiamo bisogno di discuterne a Palazzo Chigi nei prossimi giorni».
Renzi le ha mandato sms in queste ore?
«Certo. Ma restano una cosa tra noi. Di sicuro non glieli faccio vedere».
il Fatto 18.10.14
Furto sui salari pubblici? Non per i “vip”
Il blocco degli stipendi - salasso da 2,5 miliardi - non riguarda toghe, avvocatura, forze armate e polizia
di Marco Palombi
Sei miliardi e centomila euro in questa manovra sono risparmi dello Stato”. Così l’ha raccontata Matteo Renzi in conferenza stampa. Parole perfette per indurre nel pubblico tv un senso di soddisfazione: vedi, il governo risparmia e con quei soldi abbassa le tasse. Intanto quei 6,1 miliardi sono tagli lineari e non “risparmi” e soprattutto per una cifra oscillante tra i 2,1 e i 2,5 miliardi sono tagli di stipendio ai dipendenti statali: chi lavora per lo Stato – insegnanti, medici, infermieri, impiegati, assistenti sociali e quant’altro – avrà infatti lo stipendio bloccato per il quinto anno di fila (l’ultimo rinnovo contrattuale risale al 2009). Non solo: la legge di Stabilità provvede pure a sancire che al caro vecchio travet non tocca nemmeno l’indennità di vacanza contrattuale prevista dalla legge in questi casi. Il risparmio dello Stato - cioè il furto ai danni degli stipendi dei dipendenti pubblici - in questi anni è stato di 11 miliardi e mezzo con l’opera di Renzi si toccheranno i 14 (cui aggiungere altri soldi dovuti al blocco del turn over e alla diminuzione di 300 mila unità del personale).
DIVISO PER SINGOLE buste paga un impiegato medio sui 24 mila euro l’anno il 1 gennaio del 2016 guadagnerà oltre 3 mila euro in meno di quello che avrebbe dovuto solo recuperando l’inflazione: se lo stipendio è fermo da cinque anni, infatti, i prezzi non lo sono stati affatto. Se si calcola poi che il Def - cioè il Documento in cui il governo scrive sotto forma di numeri cosa intende fare nei prossimi anni - considera bloccati i salari dei suoi dipendenti fino al 2020 si capisce l’entità del furto definito “risparmio” e anche quanto sia bizzarro parlare di una manovra “che agisce sul lato della domanda” (come si sa, sono i consumi interni che stanno tirando giù il nostro Pil). Il problema vero è che a leggere la manovra - almeno in una sua forma provvisoria (per quanto successiva al Consiglio dei ministri) - pare che non tutti i dipendenti pubblici siano uguali, non tutti meritevoli di venire puniti facendo risparmiare lo Stato. Alcuni di loro aspettano nella saletta business, separati dagli altri: sono gli statali plus il cui stipendio non viene bloccato.
Nella legge di Stabilità, infatti, c’è scritto che i travet brutti e cattivi sono tutti tranne magistrati, avvocatura dello Stato, Forze Armate e di polizia: loro no, anche se i poliziotti dovranno rinunciare ad alcune assunzioni e a fondi che gli erano stati promessi per il riordino delle carriere. Poco male, la rivolta di qualche tempo fa ha avuto effetto: d’altronde fa più paura un soldato irritato che un bidello o una segretaria. Va peraltro notata l’immagine che si ricava dalle categorie scelte da Renzi per entrare nella saletta vip degli statali: toghe, gran commis e uomini con la pistola (o il carroarmato). Un trimurti da governo d’ordine, puro reazionariato dantan, altro che rottamazione e #cambiaverso. Manca la benedizione del parroco - ma intanto è arrivata quella di Giorgio Napolitano - e saremmo a un passo dagli anni Cinquanta. D’altronde, come dice lui, da quant’è che un partito non prendeva il 41?
il Fatto 18.10.14
“Piazze piene contro Renzi, e arrivano i manganelli”
Lavoro in piazza da Torino a Terni Landini: “Reazione spropositata della polizia. Governo dietro le botte?”
Fiom. L’accusa del leader dei metalmeccanici nel giorno dei cortei anti-Jobs Act (con cariche e lacrimogeni)
di Salvatore Cannavò
Le piazze si stanno riempiendo. Contro il Jobs Act, la manovra, l’austerità. E anche contro Matteo Renzi. E la risposta rischia di essere, stando alla denuncia fatta ieri da Maurizio Landini, quella del manganello, classico riflesso condizionato. Il segretario della Fiom, che ha chiuso un lungo e partecipato corteo della Fiom a Torino davanti a una piazza in fuga sotto il lancio di lacrimogeni da parte della polizia, non ha utilizzato mediazioni: “Una gestione come quella vista in piazza non sta in piedi – spiega al Fatto – ho visto un’evidente sproporzione tra quanto avvenuto e la reazione della polizia che giudico ampiamente sproporzionata”.
LA MANIFESTAZIONE della Fiom che si è svolta ieri a Torino rappresentava lo sciopero generale piemontese proclamato in preparazione della manifestazione nazionale del 25 ottobre. Quella promossa dalla Cgil, ma che vede la Fiom giocare un ruolo di primo piano. Il corteo ha preso il via alle 9:30 da Porta Susa per concludersi intorno alle 12 in piazza Castello. In testa alla manifestazione i lavoratori della De Tomaso, che non hanno ancora un futuro occupazionale, e tantissime fabbriche dell’intera regione. “È il corteo più grande degli ultimi venti anni” dice Federico Bellono, segretario torinese della Fiom. Al corteo si sono accodati anche un centinaio di giovani dei centri sociali e studenti che, a differenza della Fiom, volevano contestare il vertice dei ministri europei del Lavoro che si concluderà oggi al Teatro Regio di Torino. Poco prima dell’arrivo in piazza Castello, lo spezzone di coda ha cercato di deviare il proprio percorso per dirigersi verso il vertice. Da lì, le cariche della polizia e il lancio di lacrimogeni, giudicati eccessivi dalla Fiom. “Non ce n’era alcuna necessità” dice ancora Landini. Le cariche della polizia, infatti, si sono dirette verso il grosso del corteo che, a quel punto, già entrato in piazza Castello, è stato costretto a disperdersi.
“Quello che mi viene da dire ancora il segretario della Fiom – è ‘ma come vi permettete? ’. Non so se c’è una strategia preordinata dal governo ma sarebbe bene che le forze di polizia si dessero una calmata”, aggiunge ancora il leader delle tute blu.
NEL POMERIGGIO la Fiom ha avuto un incontro con la Questura torinese mentre in mattinata lo stesso Landini ha guidato una delegazione di operai che hanno incontrato il ministro Poletti. Il quale, riferendosi alle proteste, ha lamentato “la scarsa informazione” che a suo parere esisterebbe in merito alla riforma del lavoro. Il dato politico della giornata torinese, però, è legato soprattutto a quanto avvenuto il giorno prima a Bologna (e nelle stesse ore a Terni) dove lo sciopero della Cgil ha riempito piazza Maggiore. “C’è una carica in giro e una crescita consistente della mobilitazione. Il mio giudizio – assicura Landini – è che il governo non ha il consenso dei lavoratori”. La manifestazione di Roma del 25 ottobre, con queste premesse, si annuncia molto partecipata. Le adesioni dai luoghi di lavoro stanno crescendo ogni giorno che passa. Tanto che la Cgil ha deciso di tenere due cortei, uno con partenza da piazza della Repubblica e l’altro da piazzale Ostiense. Entrambi confluiranno in piazza San Giovanni.
Repubblica 18.10.14
Landini: gli agenti hanno esagerato ma gli ordini venivano dall’alto
“Non si lanciano lacrimogeni su migliaia di lavoratori pacifici solo perché in fondo al corteo c’è un gruppo di provocatori”
“Non vorrei che l’input fosse arrivato dal governo: troppo facile trasformare ogni iniziativa del sindacato in una gazzarra”
intervista di Paolo Griseri
TORINO Ha appena concluso il comizio. Sta in fondo al palco con una bottiglietta in mano e lo sguardo sul limitare della piazza, sul fumo dei lacrimogeni e sulla gente che abbandona il comizio per non piangere. Maurizio Landini se la prende «con quelli che non rappresentano nessuno e cercano di strumentalizzare le nostre manifestazioni per un po’ di visibilità». Ma anche «con l’eccesso di reazione delle forze dell’ordine. Frutto di inesperienza o una precisa indicazione del governo?».
Landini, pensa davvero che ci possa essere una manovra del governo per screditare le vostre manifestazioni?
«Io ho grande rispetto per i lavoratori delle forze dell’ordine. Penso che se hanno lanciato lacrimogeni contro chi pacificamente ascoltava un comizio sindacale, lo abbiano fatto eseguendo ordini che arrivavano dall’alto».
Pensa al ministro dell’Interno o al premier?
«Non lo so. Vedo che di fronte alla provocazione di alcune decine di persone senza rappresentanza che cercano visibilità accodandosi ai nostri cortei, si è deciso di lanciare i lacrimogeni verso le migliaia di lavoratori che ascoltavano il nostro comizio. Questo non è accettabile. Siccome penso che le forze dell’ordine eseguano degli ordini, non me la prendo certo con chi era in piazza ad operare ma con chi ha dato certe indicazioni».
Ma perché pensa al governo?
«Perché sarebbe fin troppo facile tentare di trasformare ogni manifestazione sindacale in una gazzarra con scontri e incidenti. Noi siamo sempre andati in piazza pacificamente e continuiamo a condannare chi, come ieri, arriva con sassi, bastoni, biglie. Gente che non sa come ottenere spazi mediatici e che strumentalizza le nostre manifestazioni».
Gli antagonisti torinesi ieri l’accusavano di stare con la polizia..
«Ecco, appunto. Io ho difeso e difenderò il diritto dei metalmeccanici di manifestare pacificamente senza gente che voglia mettere il cappello con inaccettabili violenze sulle nostre iniziative ».
Ma il governo?
«È chiaro qual è la posta in gioco. Renzi ha deciso di sposare una parte, quella di Confindustria, contro l’altra, quella dei lavoratori. Può farlo perché pensa di avere il consenso nel Paese. Lo fa saltando la discussione in Parlamento a colpi di fiducia e saltando il confronto con i sindacati. Le manifestazioni di questi giorni sono fatte da lavoratori che dicono il contrario. Più persone partecipano ai nostri scioperi, più la linea del governo vacilla e con quella linea, la tesi che il sindacato non rappresenta nessuno».
Dunque si lanciano i lacrimogeni?
«Dunque a qualcuno può anche venire in mente di far salire la tensione per scoraggiare la partecipazione della gente. Non sarebbe una novità nella storia italiana. Per questo ho voluto mettere le cose in chiaro all’inizio di quello che io penso sia un ciclo di proteste destinato a crescere nelle prossime settimane. Per dire che non accettiamo le strumentalizzazioni di chi si accoda ai nostri cortei con le borse piene di sassi. E nemmeno quelle di chi volesse gestire l’ordine pubblico in piazza sparando lacrimogeni sui cortei sindacali per far salire la tensione e tenere la gente a casa. Se l’episodio di ieri a Torino è stato il frutto dell’inesperienza di chi in quel momento gestiva la piazza è un conto. Se, al contrario, è l’applicazione di una direttiva governativa è bene che il governo sappia che questo gioco è inaccettabile».
Non era lei il sindacalista che aveva un rapporto privilegiato con Renzi?
«Con Renzi ho sempre discusso nel merito perché penso che un sindacalista debba accettare il confronto e avanzare delle proposte. Fino a pochi mesi fa questo è stato possibile. Poi, evidentemente, il premier ha scelto una strada diversa. Ha accettato le ricette fallimentari di Confindustria e dell’Unione europea, che hanno già creato 25 milioni di disoccupati. E ha teorizzato che i sindacati sono inutili. Stiamo dandoci da fare per smentirlo».
il Fatto 18.10.14
Livorno: gli operai Trw “sequestrano” industriali e prefetto
PER OTTENERE un tavolo di mediazione hanno dovuto occupare la sede di Confindustria con il Prefetto dentro. Una cinquantina di lavoratori della Trw di Livorno, multinazionale Usa dell’automotive con 17 miliardi di fatturato, hanno assediato la sede degli industriali dopo aver saputo che l’azienda sarà chiusa. Dentro si stava tenendo il confronto con i sindacati ma quando, i circa 400 operai, hanno saputo che l’unica soluzione prospettata dall’azienda era un indennizzo per il licenziamento, hanno deciso di passare all’azione: “Tanto non abbiamo più niente da perdere”, il commento di uno di loro. Nel primo pomeriggio è arrivato anche il sindaco Filippo Nogarin che si è fatto garante della ripresa della trattativa. E così, dopo due ore di confronto, dalla sede di Confindustria è partito un corteo verso la prefettura con il sindaco che in auto ha accompagnato i rappresentanti della Trw. Intanto, in serata, l’ex sindaco Pd di Livorno Alessandro Cosimi è stato contestato quando si è presentato al presidio dei lavoratori Trw. I lavoratori hanno indirizzato cori e fischi all’indirizzo dell’ex sindaco, e calorosi inviti ad andarsene.
il Fatto 18.10.14
Ast Tyssen-Krupp
Tutta Terni in corteo per il lavoro. Camusso fischiata: “Buffona”
La sindacalista Gcil attacca il premier: “Chi sta lontano dalla gente non viene contestato”
di Sandra Amurri
Oggi sono chiuso per difendere il futuro della nostra città”. È una delle tante scritte sulle serrande abbassate dei negozi. La lotta per il diritto al posto di lavoro di 537 operai della Ast-TyssenKrupp che rischiano la mobilità entro fine anno in nome di un risparmio di 100 milioni di euro, condivisa da professionisti, commercianti, studenti, sindaci arrivati da tutta la regione, nonni che sfilano con i nipoti, mamme con i figli e perfino gli ultras, quelli di sinistra che esultavano per i gol di Zampagna. Una bara rossa con scritto: “La fine di Terni” a raccontare un’intera città muta in segno di lutto e rabbia. “Anche questo è un attentato alla pace sociale”, spiega Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della Pace e della marcia Perugia-Assisi. C’è il sindaco renziano Leopoldo Di Girolamo che giustifica l’assenza del premier con un sarcastico: “Sta facendo la legge di Stabilità, io sto con gli operai”. Il renzismo che si incrina sta anche nell’imbarazzo del giovane sindaco Pd di Gualdo Cattaneo, Andrea Pensi, responsabile regionale enti locali: “Io non sono Renzi, parlo per me, questa è una tragedia dobbiamo impedirla”. La pensa così anche la presidente dell’Umbria, Catiuscia Marini che sul taglio di 4 miliardi della legge di Stabilità dice: “Noi taglieremo pure gli sprechi, ma non ci stiamo a far pagare le fasce più deboli. Spero in un incontro proficuo”. Il sindacato qui, sfila compatto. Il segretario della Uil, Luigi Angeletti, che in caso di chiusura propone la nazionalizzazione, risponde: “Certamente, stanno distruggendo la produzione di acciaio a favore di altri Paesi come la Germania” però la Uil il 25 ottobre non ci sarà a Piazza San Giovanni. No” taglia corto, come dire che quella è un’altra storia. “È emozionante vedere un’intera città a fianco degli operai” è il commento di Susanna Camusso che non nasconde un certo imbarazzo quasi percepisse la contestazione che la attende sul palco. Fischi a lei e ad Angeletti al grido di: “Buffoni, buffoni che siete venuti a fare?”. “Quando si sta in mezzo alle persone si respira anche la tensione che le attraversa, solo chi sta lontano e non sa cosa accade nel Paese reale non verrà mai fischiato”. Chiaro riferimento al premier che preferisce promettere a distanza la soluzione delle tre “T”: Terni, Taranto e Termini Imerese. E la vita reale racconta la tragedia di Federico, 56 anni, alla scadenza dell’ennesimo contratto a termine il 14 agosto non gli è stato rinnovato. Padre di due figli universitari a Roma grazie alle borse di studio, moglie operaia, affetto da una malattia cronica, cammina stretto dai compagni di lotta. “Federico lavorava come manutentore meccanico, è una persona speciale” racconta Michele, 34 anni. Gli fa eco Saverio che di anni ne ha 41 mentre Federico, assalito dalla commozione di fronte all’affetto dei più giovani si allontana timidamente. “Fino all’ultimo bullone la lotta non molliamo”, urlano a squarciagola gli operai in corteo che sorreggono lo striscione insieme ai figli, Marco di 12 anni e Luca di 13 a voler dimostrare che il presente è già futuro. Volano anche insulti all’ad della Thyssenkrupp, Lucia Morselli, chiamata per svolgere il lavoro sporco e non è un bel sentire, ma come si può chiedere saggezza a uno stomaco vuoto?
Repubblica 18.10.14
''Operai come marziani, qui Renzi non viene''
Viaggio tra i lavoratori delle acciaierie di Terni, da giorni in presidio all'ingresso della fabbrica per protestare contro il piano di tagli previsto dalla Thyssenkroup, che prevede tra l'altro oltre cinquecento licenziamenti su un totale di 2500 dipendenti e forti decurtazioni agli stipendivideo di Marco Billeci e Fabio Butera
qui
http://video.repubblica.it/dossier/crisi-euro-merkozy/tra-i-lavoratori-delle-acciaierie-di-terni-operai-come-marziani-qui-renzi-non-viene/180624/179417?ref=HRBV-1
il Fatto 18.10.14
Non solo Art.18. Raffaele Guariniello
“Morti sul lavoro in aumento”
intervista di Andrea Giambartolomei
Torino Non ci sono mai stati tanti morti sul lavoro come quest’anno. Eppure il tema della sicurezza manca alla discussione sul jobs act”. Raffaele Guariniello, sostituto procuratore di Torino, lancia l’allarme. Con la crisi e i tagli delle imprese, le vittime sui luoghi di lavoro crescono. Il pm dei processi ThyssenKrupp ed Eternit cita numeri preoccupanti: “Dall’inizio dell’anno i morti sono stati 511, senza contare quelli sulle strade e in itinere. Nello stesso periodo del 2013 erano stati 453”.
Cosa significano questi dati?
Sono un campanello d’allarme, soprattutto in un contesto come quello attuale.
La situazione economica-sociale sta facendo peggiorare le condizioni della sicurezza sui luoghi di lavoro?
È uno scenario possibile. Capisco che dobbiamo aiutare le imprese, ma non possiamo accettare che tutto ciò avvenga a scapito della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro. E non parliamo delle patologie professionali e dei tumori…
È un problema di leggi e sanzioni?
Sarebbe sbagliato dire: ‘Modifichiamo le leggi, aumentiamo le sanzioni’. Abbiamo già il testo unico della sicurezza sul lavoro e il codice penale, e un regime sanzionatorio che se applicato è più che sufficiente per punire le violazioni.
Cosa fare allora?
Bisogna dare un aiuto economico alle aziende virtuose, alle piccole e medie imprese, per far fronte ai costi legati alla sicurezza e alla formazione.
E nei confronti di chi sbaglia?
Dare una risposta più penetrante e forte su due piani. Il primo è quello ispettivo: dobbiamo avere in tutto il Paese organi di vigilanza che facciano ispezioni accurate e non episodiche. Nei cantieri edili c’è la piaga degli infortuni mortali. Perché si lavora male e in nero? Il nodo è che i privati committenti che affidano i lavori a costi bassi recuperando sulla sicurezza. Gli ispettori devono capire quali sono le responsabilità reali.
E il secondo piano?
Riguarda la magistratura. I suoi interventi sono a macchia di leopardo e i processi vanno troppo a rilento. La prescrizione corre nei processi sulle morti bianche, dove gli accertamenti sono difficili e gli imputati ben difesi. Si dovrebbero irrobustire le strutture giudiziarie col personale amministrativo: inutile ridurre le ferie ai magistrati se non si possono fare udienze al pomeriggio e i processi si prescrivono. Inoltre è necessaria una procura nazionale per questo settore.
Cosa consiglierebbe al governo?
Si sta affrontando la questione ‘lavoro’, penso sia giusto farlo anche dal punto di vista della sicurezza. Lo scopo della discussione dev’essere aiutare a trovarlo, il lavoro: e sicuro.
il Fatto 18.10.14
Il giurista: “Norma su Tar è irragionevole”
Il professore Alessandro Pajno, presidente della V Sezione del Consiglio di Stato, è critico verso l’emendamento allo Sblocca Italia che prevede in caso di ricorso pendente di fronte a un Tar, di proseguire comunque i lavori delle opere pubbliche: “Capisco perfettamente l’esigenza del governo di dare una risposta - spiega Pajno - ma quest’emendamento, per come è formulato, rischia di generare perplessità rispetto a quanto stabilisce il codice del processo amministrativo, dove già si prevede un bilanciamento tra gli interessi del ricorrente e quelli generali. E questi ultimi prevalgono quando ci sono ragioni di incolumità pubblica”. Per Pajno il concetto “andrebbe ribaltato”. Come? “Innanzitutto, se ci si riferisce al caso Genova questo è piuttosto singolare perché per Genova il Tar aveva negato la sospensiva, proprio ritenendo prevalente l’interesse generale. A non andare avanti con i lavori è stata l’amministrazione”. Quindi “un emendamento ragionevole sarebbe quello che, quando il Tar rigetta la sospensiva, sollecita l’amministrazione a procedere”.
il Fatto 18.10.14
Polizia penitenziaria
Quei 22 agenti che rimangono a Palazzo Chigi
Il Ministero della giustizia vorrebbe farli lavorare nelle carceri. La presidenza frena
di Paola Zanca
Tutti li cercano, tutti li vogliono. Eppure, i ventidue agenti di polizia penitenziaria in servizio a Palazzo Chigi non hanno nessuna intenzione di uscire dalle stanze del governo. Come biasimarli: chi avrebbe il dubbio su cosa scegliere tra un turno di lavoro in carcere e una giornata a scarrozzare Maria Elena Boschi? Già, perché il gruppetto di agenti, anziché la divisa, indossa l’abito “borghese”, quello dell’impiegato: c’è chi si occupa di statistiche e banche dati, chi affianca le attività della Protezione civile, chi siede alla scrivania dell’ufficio legislativo diretto dalla fedelissima di Matteo Renzi, Antonella Manzione. E poi, dicevamo, al posto di celle e detenuti, auto blu e ministre: oltre alla Boschi, uno degli agenti è l’autista di Marianna Madia, un altro sta a capo dell’autoparco della Presidenza. Ad altri è andata meno bene e devono accontentarsi di un posto all'ufficio “passi” o di fare i parcheggiatori: ovvero controllare che nessuno si imbuchi nei posti riservati agli inquilini di Palazzo Chigi.
IL PUNTO è che mentre i 22 agenti vigilano sul traffico e sulle scartoffie di Roma, nelle case circondariali di mezza Italia sono in emergenza continua.
Paradossi dell’era dell’ex rottamatore: a giugno il premier ha firmato un decreto in cui stabiliva perentorio che “per i prossimi due anni”, tutto “il personale appartenente ai ruoli del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, ndr) ” non potesse essere né “comandato o distaccato presso altri ministeri”, né vedersi rinnovati i trasferimenti già in corso. Si erano scordati, però, che alcuni di quegli agenti sono i loro vicini di stanza, insieme ad un altro paio di centinaia tra finanzieri, poliziotti e carabinieri in servizio al governo con funzioni lontanissime da quelle del loro corpo di appartenenza.
Il ministero della Giustizia si è accorto di quella ventina di agenti penitenziari “imboscati” a Palazzo Chigi e dintorni e ha scritto alla Presidenza del Consiglio per chiedere di farli tornare ai compiti per i quali sono stati assunti, ricordando il decreto firmato a giugno. Ma dalla sede del governo hanno preso tempo: sicuri – questo il senso del quesito posto al ministro Andrea Orlando – che noi della Presidenza del Consiglio valiamo quanto gli altri ministeri? Ebbene sì, hanno replicato da via Arenula: la situazione nelle carceri è tale che non ci possiamo permettere di fare sconti a nessuno.
IL SINDACATO indipendente Sipre ha scritto al governo per chiedere conto del perché “una legge voluta dal governo stesso, non trovi applicazione proprio nella sede del governo”. Sono passati tre mesi da quando il primo agente avrebbe dovuto dire addio agli stucchi delle stanze vicine a Matteo Renzi. Ma a Palazzo Chigi continuano a sperare che non tocchi proprio a loro dover rinunciare.
Corriere 18.10.14
Fondi pensione, un errore (grave) punire investitori e lavoratori
di Alberto Brambilla
Funzionano come un «libretto di risparmio». La stangata delle imposte Eravamo ben impressionati da questo premier che pensa sempre ai giovani; facevamo il «tifo» per lui quando i media o i politici lo incalzavano chiedendo meno promesse e più fatti. Poi sono arrivati i «fatti» in materia di previdenza e Tfr nella legge di Stabilità e tutte le speranze riposte nel «nuovo corso» sono crollate. Ci siamo trovati di fronte ai soliti provvedimenti.
Anzitutto gli 11 miliardi di deficit aggiuntivo; panem et circenses tanto poi qualcuno pagherà il debito e quel qualcuno saranno sicuramente loro, i giovani a cui oggi diamo pochi spicci da spendere che poi dovranno restituire con interessi enormi. Successe così anche nel 1979 quando il rapporto tra stock di debito e Pil era all’incirca del 59% e in meno di 20 anni, abbiamo più che raddoppiato il debito. Pensate a quante cose oggi si potrebbero fare se anziché dover pagare circa 85 miliardi di interessi sul debito ne avessimo solo 70.
Peggio è la manovra sul Tfr, diseducativa, ingannevole e miope. Diseducativa perché anziché informare i giovani sulla loro posizione previdenziale e spiegare che occorre pensare al futuro, si spinge al consumo immediato. Crearsi un piano previdenziale è indispensabile per integrare la pensione pubblica ma è altrettanto indispensabile per far fronte a problemi di salute, della casa o spese impreviste ma anche per sopperire a momenti di inoccupazione. Infatti la legge prevede che l’iscritto ad un fondo pensione possa prelevare dalla sua posizione complessiva (Tfr, contributi e rendimenti) in qualsiasi momento fino al 75% per gravi motivi di salute per se e i suoi familiari; decorsi 8 anni di iscrizione fino al 75% per acquisto e ristrutturazione della casa per sé e per i figli e fino al 30% per qualsiasi altro motivo (istruzione, cambio mobili, auto ecc).
Non solo. In caso di disoccupazione fino a 48 mesi è possibile prelevare fino al 50% del montante complessivo e fino al 100% se la disoccupazione è maggiore dei 48 mesi. Come si vede il fondo è un «libretto di risparmio» che sopperisce a molte esigenze della vita; inoltre le somme prelevate possono essere reinvestite ed in questo caso si recuperano le tasse pagate.
La media dei Paesi Ocse presenta un rapporto tra patrimonio dei fondi pensione e Pil pari a 77%. L’Italia è a 7%. Ingannevole perché non dice la verità nemmeno sulle opzioni fiscali a disposizione dei lavoratori. Già oggi tutti possono volontariamente mettere il Tfr nei fondi pensione o lasciarlo in azienda. Se lo si investe nei fondi si pagherà una imposta sostitutiva tra il 15% e il 9% in base agli anni di iscrizione. Se lo lascio in azienda (tassazione separata) tra il 23% e il 27% per i redditi medio bassi. Se in busta paga sarà assoggettato alla aliquota marginale che va dal 23 al 45% più le addizionali Irpef comunali e regionali. Un bel danno per il lavoratore; un vantaggio per il Fisco e per giunta cash. Anche nel caso delle anticipazioni la tassazione va dal 9 al 15% per la salute e al 23% per le altre ipotesi.
Non si dice che per quelli che hanno iniziato a lavorare da gennaio 1996 non ci saranno più gli interventi assistenziali dello Stato poiché la legge ha cancellato le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali di cui beneficiano oggi quasi la metà dei 16,5 milioni di pensionati. Chi farà fronte a questa autentica «bomba sociale»?
È miope perché disincentivando il risparmio previdenziale carica tutto sulle fragili gambe dello Stato che avrà sempre meno soldi per far fronte agli aumentati bisogni di uno stato sociale caratterizzato da un vistoso invecchiamento della popolazione.
Che dire poi della frase «io non aumenterò mai le tasse»? Risultato: la tassazione sul rendimento del Tfr in azienda passa dall’11,5% al 17%. Quella sui rendimenti dei contributi e del Tfr versati ai fondi pensione dall’11,5% al 20% e quella sui rendimenti dei contributi previdenziali delle Casse dei liberi professionisti (unico caso in Europa addirittura di doppia tassazione) dal 20 al 26%.
Tutto questo ha anche due risvolti negativi: a) «uccide» 20 anni di sforzi per portare il nostro Paese da un sistema di welfare state (tutto a carico della Stato) ad un welfare mix ; b) rompe il «patto di fiducia» tra i lavoratori e lo Stato e quindi mina pesantemente il «patto intergenerazionale» sul quale si basa il nostro sistema pensionistico.
Avevamo incentivato i lavoratori ad aderire ai fondi pensioni promettendo forti agevolazioni fiscali. Ora si cambiano in corsa le regole e i lavoratori non si fidano più. Chi garantisce loro che domani anche la tassazione agevolata delle prestazioni finali in capitale o rendita non verrà aumentata dall’attuale 9-15%?
Ma questa manovra è subdola perché se il lavoratore non perde il posto di lavoro non può uscire per legge dai fondi pensione e si dovrà prendere per intero l’aumento della tassazione che si tradurrà in almeno un 10% in meno di pensione e con più soldi in busta paga si perderanno tante agevolazioni (trasporti, coniuge a carico, asili nido ecc). Tutta questa complicazione per far avere a un lavoratore medio (con 1.500 euro di reddito lordo l’anno) meno di 80 euro al mese, creando forti problemi di liquidità alle imprese, soprattutto alle piccole (qual è la banca che rischia i soldi e costruisce la pratica per l’1,5% di interesse?) e prevedendo un fondo di garanzia costoso e complesso per le piccole e frazionate cifre in gioco, che era già fatto ed è stato eliminato dal duo Prodi Visco.
A parte il modo in cui è scritta la legge (incomprensibile, forse volutamente, e in burocratese), i contenuti sono davvero preoccupanti per il futuro del nostro Paese.
Corriere 18.10.14
Il giudice che si è dimesso per il caso Ruby: un fatto di coscienza, ci ho pensato tre mesi
«Non me la sento di decidere domani per un marocchino in modo diverso rispetto a Berlusconi»
di Luigi Ferrarella
MILANO Dai piani alti della Corte d’appello di Milano, nella tarda serata di giovedì, avevano provato a rivolgergli un ultimo pressante appello a ripensarci, o a prendersi almeno un altro po’ di tempo per riflettere: «Ci ho già riflettuto negli ultimi tre mesi», si erano però sentiti rispondere dal giudice Enrico Tranfa, con un riferimento cronologico (appunto i 90 giorni per il deposito della motivazione della sentenza del processo Ruby del 18 luglio scorso) che legava esplicitamente e inequivocabilmente la sue clamorose dimissioni dalla magistratura a un insanabile contrasto in camera di consiglio con gli altri due colleghi sull’assoluzione di Silvio Berlusconi, e sulle motivazioni di questo ribaltone rispetto alla condanna di primo grado a 7 anni per concussione e prostituzione minorile.
E del resto ieri qualcosa di analogo hanno sperimentato, se possibile ancora più nitidamente, almeno una mezza dozzina di magistrati milanesi che — per esprimere solidarietà e apprezzamento a Tranfa o invece per manifestargli incredulità e disappunto —, dopo aver letto la notizia delle dimissioni del presidente di quel collegio e dell’intera seconda sezione penale della Corte d’appello, l’hanno chiamato al telefono per capire che cosa lo avesse spinto a un gesto così dirompente da non avere precedenti nella storia giudiziaria italiana: «La mia coscienza. Non me la sento di giudicare domani un marocchino in un modo diverso da quanto fatto con Berlusconi», riferiscono che Tranfa abbia risposto loro. Segno che il giudice, abbandonata la toga giovedì immediatamente dopo aver firmato le 330 pagine delle motivazioni della sentenza di assoluzione frutto della camera di consiglio del 18 luglio scorso, dopo 39 anni di servizio ha scelto di andare in pensione con 15 mesi di anticipo sul previsto come protesta per quella che, nella sua percezione, evidentemente sarebbe l’incompatibilità del metro di misura quotidiano rispetto allo standard probatorio adoperato per analizzare le prove a favore o contro l’ex presidente del Consiglio.
Alle agenzie di stampa e tv che gli domandavano delle dimissioni, Tranfa si è invece limitato a confermarle, ribadendo di non voler aggiungere altro se non il fatto che la sua sarebbe stata «una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile».
«Ne prendo atto e mi preoccupo di assicurare la funzionalità della sezione», è stato ieri mattina il commento del presidente dell’intera Corte d’appello di Milano, Gianni Canzio, mentre anche gli altri due giudici del collegio (la relatrice delle motivazioni, Ketty Locurto, e il consigliere Alberto Puccinelli) sono stati presi completamente di sorpresa dalle dimissioni del collega, che avevano salutato giovedì mattina al momento del deposito e della firma della sentenza. Canzio ha ugualmente chiesto a Tranfa (benché questi ormai non indossi più la toga) un colloquio di persona nei prossimi giorni; e, per non lasciare la seconda sezione senza guida, ha intanto diramato un interpello interno che già nel giro di pochi giorni dovrebbe riassicurarne la funzionalità con un presidente supplente.
Sul caso, nel frattempo, monta già la contrapposta lettura politica: «Solidarietà e un profondo senso di vicinanza nei riguardi del giudice Tranfa che lascia la toga con un gesto fermo e dignitoso» vengono ad esempio espressi dalla vicepresidente del Partito democratico, l’onorevole Sandra Zampa (ex portavoce di Prodi), e dalla senatrice pd Donella Mattesini, per la quale «il nostro sistema giudiziario dimostra tutta la sua debolezza quando si tratta di garantire i diritti dei più indifesi, in questo caso minori vittime di reati sessuali».
Da Forza Italia rispondono l’onorevole Luca D’Alessandro («Uno così fazioso, da lasciare la toga per non essere riuscito a condannare Berlusconi in un processo farsa e guardone come il processo Ruby, non avrebbe mai dovuto fare il giudice e dovrebbe essere dimenticato»), e l’ex ministro della Giustizia, Nitto Palma, secondo il quale «il primo a non rispettare la sentenza è proprio il presidente di quel collegio che l’ha emessa: per certi versi mi ricorda il bambino padrone della palla, che se la portava via ogni qualvolta gli veniva negato un calcio di rigore».
La Stampa 18.10.14
“Caso Ruby, no ai Ponzio Pilato”. Parla il giudice che si è dimesso
Il dissenso del presidente della Corte per l’assoluzione di Berlusconi
di Paolo Colonnello
«Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato».
L’ex giudice Enrico Tranfa l’altra mattina, dopo aver firmato come presidente la sentenza d’appello che motivava la clamorosa assoluzione di Silvio Berlusconi, si è trovato di fronte a due strade: o tacere e mandare giù un rospo grosso come una casa, oppure far parlare il suo dissenso con un gesto clamoroso: ha scelto la seconda strada, dimettendosi (con una raccomandata all’Inps) un minuto dopo aver consegnato in cancelleria un verdetto non privo di aspetti contraddittori che riassumevano tutto il tormento di questi mesi nel collegio della seconda sezione, ora privo di una guida. Un dissenso non solo “culturale” rispetto alla valutazione dei fatti, ma anche “metodologico”. Per esempio: è mai possibile considerare falsi i testimoni che hanno raccontato delle “cene eleganti ad Arcore”, scrivere chiaramente che il “sistema prostitutivo” di Villa San Martino è provato, rilevare il mestiere di baby prostituta di Ruby, osservare che Berlusconi quando telefonò in Questura aveva interesse a fare in modo che la ragazza non andasse in una comunità a raccontare dei suoi rapporti sessuali con il presidente del Consiglio e poi dichiarare che non vi sono prove di alcun reato?
E’ vero che le Sezioni Unite della Cassazione, richiamate in sentenza, hanno fissato dei paletti precisi per la definizione del reato di concussione per costrizione o per induzione ma hanno anche chiarito che la minaccia a un pubblico ufficiale può essere implicita. E quindi, se un funzionario di polizia riceve a mezzanotte, a casa sua, la telefonata di un Presidente del Consiglio che gli chiede di liberare in fretta «la nipote di Mubarak», come vive una richiesta del genere? Per non parlare del fatto che il povero dirigente Ostuni, cui alla fine viene addossata la colpa di eccessiva solerzia, continuò a ricevere telefonate del capo scorta di Berlusconi fino all’alba. Davvero si attivò «per disinteressata accondiscendenza»? Ecco, par di capire che Tranfa non abbia condiviso nemmeno una virgola di questa tesi, schiacciato dalla maggioranza del suo stesso collegio. Composto non da due fan di Forza Italia ma da un giudice, Ketty Lo Curto, vicina alle posizioni di Magistratura democratica, e un altro, Alberto Puccinelli, considerato un moderato, come del resto Tranfa.
Ieri non tutti hanno apprezzato il gesto dell’ex magistrato - 70 anni, di cui 39 in stimatissima toga - che ad alcuni è sembrato troppo plateale. Perché il “dissenso” nei collegi «è fisiologico». Ma l’ex giudice, che solo ieri a mezzogiorno ha notificato le dimissioni al presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio, agli amici ha raccontato che «ho fatto il massimo che potevo per togliermi un peso dallo stomaco». Un peso che ha iniziato a far male fin dalla camera di consiglio che il 18 luglio scorso assolse Berlusconi dall’accusa di prostituzione minorile e concussione e quindi da una condanna a 7 anni. Da quel momento Tranfa si è sentito isolato. Avrebbe potuto limitarsi a mettere in una busta il suo dissenso come gesto di autotutela, ma invece ha preferito bere fino in fondo l’amaro calice, firmando la sentenza e poi lasciare, anticipando la pensione di 15 mesi. Nessun altro sospetto. Questione di «punti di vista».
il Fatto 18.10.14
Ruby, il giudice di B. si dimette “Segnale contro la Severino”
Enrico Tranfa, presidente del Collegio, non era d’accordo con l’assoluzione
di Gianni Barbacetto
Milano È passato in secondo piano perfino lo scontro Robledo-Bruti: al palazzo di giustizia di Milano il caso del giorno è quello delle dimissioni di Enrico Tranfa, il presidente del collegio che ha assolto in appello Silvio Berlusconi. “Una cosa mai vista”, ripetono negli uffici e nei corridoi i magistrati milanesi. “In tanti anni di carriera, non mi è mai capitato di vedere un giudice dimettersi perché in disaccordo con la sentenza del suo collegio”, scuote la testa un giudice che pure ne ha viste tante. In questa storia, di certo c’è soltanto che Tranfa, subito dopo aver firmato, il 16 ottobre, la sentenza d’assoluzione Ruby, ha presentato le sue dimissioni dalla magistratura, andando in pensione con 15 mesi d’anticipo dopo 39 anni di servizio. Il giorno dopo, le sue dimissioni sono raccontate dal Corriere della sera, che spiega il suo disaccordo con i giudici a latere, Ketty Locurto (che ha materialmente scritto le motivazioni) e Alberto Puccinelli: il presidente avrebbe condannato, loro assolto. È prevalsa l’assoluzione, due a uno, dopo una camera di consiglio rapida, durata solo poche ore.
Una collega della procura generale lo sente al telefono e lui si dice sereno. È già scappato in campagna e ha intenzione di seguire il consiglio che gli hanno dato gli amici: viaggiare in giro per il mondo. Spiegazioni non ne dà. “In tutta la mia vita non ho fatto mai nulla d’impulso”, aggiunge poi all’Ansa. “La mia è stata una scelta meditata. Del resto, tutti possono essere utili, nessuno è indispensabile”. Ma perché ha lasciato? “Ho dato le dimissioni, punto. Ognuno pensi quel che vuole”.
MA LA DOMANDA continua a rimbalzare dentro il palazzo di giustizia. Dagli uffici del settimo piano, dove Tranfa – 70 anni, in magistratura dal 1975 – è stato a lungo giudice delle indagini preliminari, fino ai corridoi della Corte d’appello, dove è stato presidente di sezione dal 2012 fino all’altro ieri: perché andarsene? Una autorevole toga milanese prova a fare un ragionamento: “È fisiologico che in un collegio giudicante si possa essere in disaccordo. Ricordo che Francesco Saverio Borrelli, prima di diventare procuratore della Repubblica, da presidente di corte d’assise fu messo in minoranza dai giurati popolari in un processo per terrorismo. Lui voleva condannare, loro si erano convinti dell’innocenza di un imputato. Alla fine dovette assolvere e fu la Cassazione a dargli ragione, annullando la sentenza”.
In un collegio di tre giudici, chi è in disaccordo con gli altri può non apporre la propria firma sulla sentenza. “Ma Tranfa ha dovuto firmare, perché era il presidente”. C’è anche la possibilità della “busta”: chi è in minoranza mette per iscritto il suo dissenso in una busta segreta che viene chiusa in cassaforte. Ma può farlo chi vorrebbe assolvere, per lasciare una traccia da riesumare in caso di futura richiesta risarcitoria dell’imputato, per ingiusta condanna. Qui invece c’è stata un’assoluzione.
Ecco allora che il giudice messo in minoranza ha scelto la via inedita delle dimissioni. “È come se però ci fosse qualcosa di più della fisiologica diversità di vedute con i colleghi”, dice un magistrato, “un quid pluris”.
E allora siamo da capo: qual è il quid pluris? Che cosa è scattato durante la discussione per decidere se assolvere o condannare? In mancanza di risposte che arrivino dall’interessato, a palazzo di giustizia si raccolgono due possibili spiegazioni. La prima è che ci sia stato qualcosa “di esterno” che ha fatto pendere la bilancia, assai incerta, dalla parte dell’assoluzione. Qualcuno arriva fino a dire che il clima di larghe intese, con il condannato chiamato a riscrivere la Costituzione, può essere penetrato fin dentro la camera di consiglio. Uno butta lì anche la battuta: “L’assoluzione era scritta nel patto del Nazareno”, ma la condisce con una sonora risata. Nessuno mette però in dubbio il rigore dei due giudici a latere. Anche se ormai, come in altre vicende che hanno come protagonisti i magistrati, lo schema destra/sinistra non funziona più: Tranfa ha fama di moderato, vicino alla corrente di centro di Unicost, mentre è Ketty Locurto che potrebbe essere iscritta al partito delle “toghe rosse”, visto che simpatizza per Magistratura democratica. Eppure, è il centrista Tranfa, nato a Ceppaloni come l’ex ministro Clemente Mastella, a essere oggi indicato dai berlusconiani come un pericoloso sovversivo.
LA SECONDA spiegazione possibile è che “Tranfa abbia voluto segnalare in maniera drammatica il suo dissenso sulla legge che, cambiando i confini della concussione, ha portato all’assoluzione”.
Ora la parola passa alla Cassazione, che dovrà confermare o annullare la sentenza. Davanti ai supremi giudici arriveranno non soltanto i motivi del ricorso della procura generale, che marcheranno le apparenti contraddizioni in sentenza tra enunciazioni e verdetto: “Ma come fanno ad assolvere”, si chiedono in procura generale, “dopo aver scritto che ‘è sicuramente accertato che l’imputato abusò della sua qualità di presidente del Consiglio’, e che ‘Berlusconi intervenne pesantemente sulla libertà di autodeterminazione del funzionario della questura’? Come fanno a parlare di ‘timore reverenziale’? Quello ce l’ha un bambino nei confronti del professore, non un funzionario raggiunto da dieci telefonare nella notte del presidente del Consiglio”. Ma oltre a questo, arriverà al Palazzaccio anche il quid pluris delle irrituali, inedite dimissioni di un presidente di corte d’appello che firma e se ne va.
il Fatto 18.10.14
Giustizia
L’assurda giungla dei ricorsi infiniti
di Bruno Tinti
Un mio ex collega racconta questa storia.
Tizio patteggia una condanna per guida senza patente. Poi fa ricorso personale (cioè sottoscritto da lui e non dall’avvocato) in Cassazione. Dice che il patteggiamento è nullo perché il fatto non sussiste: la patente ce l’aveva, è allegata al ricorso. Quello che non dice è che la patente è del 15 luglio e che lui è stato beccato alla guida il 6 luglio.
Il ricorso è ammissibile: contiene una motivazione (infondata ma questo lo deve decidere la Corte in udienza) ed è stato presentato nei termini. Sicché è fissata l’udienza: 16 mesi dopo perché in Cassazione pende qualche decina di migliaia di processi e tutte le udienze sono già piene.
Renzi & C. dovrebbero riflettere su questo caso.
LA POSSIBILITÀ di presentare ricorso in Cassazione personalmente, senza passare attraverso un avvocato, moltiplica i ricorsi. Perché Tizio ha presentato personalmente il ricorso (chiaramente elaborato da un avvocato) mi dice l’ex collega? Perché sostenere che il fatto-guida senza patente non sussiste per via di una patente conseguita dopo il fatto stesso è cosa che – probabilmente – nemmeno l’ultimo dei mozzorecchi (così in gergo i romani chiamano gli avvocati) farebbe mai. Però se la firma il cliente in prima persona...
I ricorsi di questo tipo (migliaia) sono causa di danno emergente e lucro cessante. Se la mia automobile è danneggiata in un incidente, il danno non consiste solo nella somma che dovrò spendere per ripararla (danno emergente) ma anche nel fatto che, per un certo tempo, resterò privo di automobile (lucro cessante). Quindi un ricorso infondato comporta una prima serie di conseguenze negative: la Cancelleria deve procedere con le notifiche che costano soldi e lavoro; la Corte deve riunirsi e pronunciare una sentenza che non può che essere di rigetto; la sentenza va depositata e vanno fatte nuove notifiche. Tutto lavoro buttato dalla finestra. Questo è il danno emergente. Ma tutto ciò ha anche un’altra conseguenza: lavoro e soldi spesi per questo ricorso infondato avrebbero potuto essere utilizzati per un altro ricorso, certo più dignitoso, forse addirittura fondato; che invece dovrà aspettare il suo turno. Questo è il lucro cessante. Migliaia di casi di lucro cessante come questo ed ecco spiegato perché il processo dura tanto tempo.
Fondati o no che siano, ricorsi e appelli impediscono che la sentenza divenga definitiva. E, se definitiva non è, non si esegue. Quindi il debitore non paga e il colpevole non va in prigione. Questo è il motivo per cui si impugna tutto, fosse anche una sentenza emessa dallo spirito santo in persona. D’altra parte, se l’impugnazione è rigettata non ci sono conseguenze negative: la pena non è aumentata, i soldi che si è stati condannati a pagare restano gli stessi. Però si è guadagnato tempo, i soldi spesi per l’avvocato hanno fruttato. Ecco perché tre gradi di giudizio (in penale, contando Gip e Tribunale della Libertà, ce ne sono cinque) sono non solo una sciocchezza (chi l’ha detto che il giudice successivo sia più bravo del precedente e che la sentenza “giusta” sia quella d’appello e non quella di tribunale?) ma comunque un lusso che non ci si può permettere sul piano economico e su quello dell’efficienza.
TUTTAVIA, se sconfiggere la lobby degli avvocati che su appelli e ricorsi ci campa non fosse al momento possibile, si potrebbe almeno sottoporre ricorsi e appelli a una verifica preliminare da parte del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Se si trattasse di impugnazioni chiaramente inammissibili o infondate (come quella della storiella che ho raccontato), ciò potrebbe essere dichiarato all’istante e si risparmierebbe tutto il grado successivo.
Ricorsi e appelli hanno un secondo obiettivo preciso: arrivare alla prescrizione. Con un termine di 7 anni e mezzo per il 90 % dei reati (ivi compresi – naturalmente – falso in bilancio, corruzione e frode fiscale) 6 mesi guadagnati possono rappresentare la differenza tra la prigione e la bottiglia di champagne.
ECCO PERCHÉ solo pochissimi normodotati accettano di patteggiare prima del processo. Lo si fa quando la prospettiva è quella di prendersi 10 anni e te ne offrono 2; in caso contrario, perché scontare subito una pena che, con molta probabilità, non arriverà mai? Con il che tutto il meccanismo pensato per deflazionare il carico dei Tribunali mediante i riti alternativi va a... alla malora e la durata media del processo si allunga. Si è arrivati a otto anni. Allora, se proprio non si riesce a superare l’ostilità degli avvocati verso l’abolizione di un grado di giudizio, si potrebbero almeno eliminare alla radice i ricorsi infondati.
Ecco, Renzi & C. : prima di riformare passate qualche tempo in quella che è chiamata due diligence.
Prima imparate e poi...
il Fatto 18.10.14
Soldi pubblici al privatista Baricco
Finanziamenti regionali al “Centro studi Holden”
Nel 2009 lo scrittore tuonava contro gli aiuti alla cultura
di Andrea Giambartolomei
Torino Impresa culturale privata sì, ma con fondi pubblici. Nel 2009, dalle colonne di Repubblica, Alessandro Baricco tuonava contro il flusso di denaro pubblico “che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni”. Erano i tempi dello scandalo Grinzane Cavour, quelli per le malversazioni di Giuliano Soria, patron del premio letterario, e del fratello Angelo, dirigente alla Regione Piemonte. Baricco lanciava l’idea: meno soldi pubblici, più spazio ai privati. Nel frattempo lui spingeva la sua creatura, la Scuola Holden, ma intanto accettava le sovvenzioni dalle amministrazioni locali.
A denunciare il caso è Lo Spiffero, giornale on-line di politica torinese. Ha scoperto che dal 2009 al 2013 il Centro studi Holden ha intascato quasi 360 mila euro dalla Regione Piemonte. Nel 2009 ha ottenuto 125 mila euro per i corsi: 85 mila sono per la “Palestra” di narrazione e 40 mila per le borse di studio degli studenti. L’anno dopo si arriva a uno stanziamento unico di 110 mila euro, che sono a calati a 90 mila nel 2011, fino ai 20 mila euro del 2013 per il progetto “Palestra”. Altri soldi sono stati stanziati dalla Regione all’associazione culturale Holden Art & Art, che ha sede negli stessi spazi del centro studi, in corso Dante 118: 35 mila nel 2009, 30 mila nel 2010. Proseguendo la ricerca cominciata da Lo Spiffero si scoprono molti altri piccoli stanziamenti, nell’ordine di alcune decine di migliaia di euro, a quest’ultima associazione. Poi, come se non bastasse, altri fondi pubblici sono arrivati al Centro studi Holden dalle giunte di Sergio Chiamparino prima e di Piero Fassino poi. “Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell’ambito della cultura – scriveva ancora Baricco nel 2009 –. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo”. E ancora: “Abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti”.
NONOSTANTE i fondi pubblici e la concessione trentennale gratuita della caserma Cavalli a Torino (il cui restauro è costato alla società di Baricco quasi 3,5 milioni di euro), i corsi della Holden non hanno fruttato ancora utili. Come segnala il giornalista finanziario Andrea Giacobino sul suo blog, l’ultimo bilancio della Holden srl non è roseo. La società, di cui lo scrittore è amministratore delegato e azionista di maggioranza con il 40 per cento delle quote (la Feltrinelli ha 35%, mentre il gruppo Eataly di Oscar Farinetti detiene il 25%) ha chiuso il 2013 perdendo più di 426 mila euro, risultato peggiore di quello del 2012. Sono stati fatti tanti investimenti, quasi 4,3 milioni di euro, ma sono arrivati anche tre milioni di euro dalle banche.
Adesso però Baricco può contare su appoggi istituzionali più forti. Nella giunta di Sergio Chiamparino la poltrona di assessore alla Cultura è occupata da Antonella Parigi, che nel 1994 ha fondato con lui la scuola Holden. Inoltre seduta ai banchi del Pd in consiglio regionale c’è Enrica Baricco, sua sorella.
il Fatto 18.10.14
Porsche, affittasi Cappella Sistina
di Andrea Valdambrini
La Cappella Sistina va in affitto, con modalità che – sembra perfino banale dirlo – inedite. Non è la prima volta che tra i capolavori di Michelangelo vengono ospitate visite o eventi privati, ma è una novità l’accordo con una azienda, Porsche in questo caso, anche se il Vaticano non dice se si tratti di un evento unico o ci saranno altre occasioni, come sembra plausibile. Quel che è certo è che dalla Santa Sede sottolineano come i ricavi andranno a poveri, senzatetto e ammalati, usando i tesori della Chiesa per fare del bene, come papa Bergoglio vuole. Dopo la visita privata, gli ospiti assisteranno a un concerto stasera alle 18 con la Petite messe solennelle di Rossini suonata dall’orchestra di S. Cecilia, e poi resteranno nella Sistina per cena, come informa il programma del “Porsche Tour of Rome”, consultabile online. Il pubblico sarà composto di 38 fortunati (e non indigenti) turisti che hanno acquistato un pacchetto venduto dalla casa automobilistica tedesca: viaggio di lusso di 5 giorni a Roma e dintorni al prezzo di 5 mila euro, affreschi di Michelangelo inclusi. Il che vuol dire 200 mila euro in totale per Porsche. Il Vaticano da parte sua non rivela quanti soldi riceverà, facendo solo sapere che l’azienda verserà un’offerta – calibrata, si suppone al prezzo pagato dagli acquirenti del pacchetto romano e all’assoluta eccezionalità della sala da concerto.
“La Cappella Sistina non potrà mai essere affittata perché non è un luogo commerciale” si affretta a precisare il direttore amministrativo dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini, che teme evidentemente semplificazioni giornalistiche su un tema che non si lega benissimo alla solennità del luogo.
E VA BENE, non chiamiamolo affitto e teniamo fermo che l’accordo con i tedeschi di Porsche, e magari con altre aziende in futuro, è tutto a fin di bene. È vero però che la notizia riapre un vecchio dibattito sull’uso dei tesori d’arte a scopo commerciale. Nel 2013, il Comune di Firenze era finito sotto i riflettori per il progetto di affitto delle stanze dei tesori del Rinascimento, con tanto di tariffario: cenare davanti al Botticelli, ad esempio, era stimato qualcosa come 10 mila euro. Ancora più feroci le critiche quando l’allora sindaco Matteo Renzi chiuse Ponte Vecchio per consentire un evento privato della Ferrari, in fondo proprio come Porsche una casa automobilistica di lusso. A suo dire, la legge italiana sulle opere d’arte gli dava ragione, anche se il caso è ovviamente soggetto a interpretazioni. Certo, il Vaticano di regole ha solo le sue. Però, come gli Uffizi, Ponte Vecchio e gli altri gioielli dell’arte, la Sistina non è solo un fatto privato.
La Stampa 18.10.14
Da Serra a Landi e Romeo Ecco i finanziatori della Leopolda 2014
Al lavoro tre persone, Carrai, Lotti e Boschi
di Jacopo Iacoboni
qui
Corriere 18.10.14
I militari, le auto blu e il divieto di usare l’ombrello
di Lorenzo Salvia
ROMA «Se piove ci si bagna», dicono gli alpini. Se piove si prende l’auto blu, hanno raccontato a Carlo Cottarelli. È la dura legge dell’ombrello, quella che vieta ai militari di ripararsi dalla pioggia come il resto del mondo. Quella che secondo il commissario alla spending review è stata usata come scudo per resistere al taglio delle macchine di servizio. Ma c’è davvero una regola così? Signorsì, è nel regolamento sulle uniformi che ha ogni forza armata. I carabinieri sono espliciti. L’ombrello è «sempre vietato», così come «ingombrare tasche con oggetti» o «portare capi di vestiario sbottonati». Esercito e Marina sono più sottili: la parola ombrello non compare ma si puntualizza che «in caso di condizioni meteorologicamente avverse viene indossato il soprabito». Basta quello. Ma perché? «È proprio la logica dell’uniforme, la necessità che i soldati appaiano tutti uguali», spiega Virgilio Ilari, presidente della società di storia militare. L’Aeronautica, però, fa eccezione. Il 23 ottobre 2012 una direttiva del generale Nicola Lanza de Cristoforis ha comunicato a «tutto il personale che è autorizzato, in caso di tempo piovoso, l’uso dell’ombrello personale». Naturalmente rispettando regole precise: «Dovrà essere di colore nero, con montatura metallica argentata o nera, fodero ed impugnatura di colore nero, tenuto con la mano sinistra...». Una fuga in avanti persino rispetto agli Usa, dove il divieto c’è e Obama si è dovuto scusare per aver chiesto a un marine di ripararlo dalla pioggia, facendogli violare il regolamento. Anche lì, però, c’è chi invoca la libertà di ombrello. Nel 1988 la proposta venne fatta proprio dal comandante della Marina americana. In Italia la palla venne presa al balzo da un giovane radicale, Francesco Rutelli, con un’interrogazione al ministro della Difesa Valerio Zanone. Rutelli chiedeva di consentire l’uso del parapioggia ai militari per «rendere più omogeneo l’atteggiamento al riguardo dei Paesi Nato». L’ombrello atlantico, insomma. Zanone disse di no. Forse ci saremmo risparmiati qualche auto blu.
La Stampa 18.10.14
La mappa degli sprechi è in ospedale. In farmaci spesi 270 milioni di troppo
Un posto letto a Roma costa 500 mila euro l’anno, a Parma 130 mila. A Firenze bolletta elettrica record
di Paolo Russo
qui
Corriere 18.10.14
Le spese e gli organici lievitati di venti piccoli Stati indipendenti
Con l’aumento dei poteri delle Regioni la spesa sanitaria è salita del 22%
di Sergio Rizzo
Facciamo davvero fatica, e tanta, a comprendere il lamento delle Regioni dopo che il governo di Matteo Renzi ha chiesto loro di tagliare 4 miliardi. Il sacrificio equivale a circa il 2 per cento di una spesa pubblica regionale che da quando nel 2001 è stato approvato il nuovo Titolo V della Costituzione è andata letteralmente in orbita. In un solo decennio la crescita reale, depurata cioè dell’inflazione, è stata di oltre il 45 per cento. Con una qualità dei servizi che certo non ha seguito lo stesso andamento.
I presidenti delle Regioni minacciano ripercussioni sulla Sanità. Argomento cui si ricorre spesso quando viene paventato un giro di vite, nella speranza di conquistare il sostegno dei cittadini. I quali però avrebbero anche diritto di conoscere le cifre.
Nel 2000, prima dell’entrata in vigore del famoso Titolo V che ha esteso in modo scriteriato le autonomie regionali, la spesa sanitaria era di poco superiore a 70 miliardi. Nel 2015 ammonterà invece a 112 miliardi. L’aumento monetario è del 60 per cento, che si traduce in un progresso reale del 22 per cento.
Si potrà giustamente sostenere che in quindici anni sono cambiate molte cose: la vita media si è allungata e la popolazione è più anziana. Per giunta, la Sanità italiana è considerata fra le migliori d’Europa, al netto delle grandi differenze territoriali al suo interno che si traducono in un abisso del diritto fondamentale alla salute tra il Nord e il Sud: altro effetto inaccettabile del nostro regionalismo.
Resta il fatto che nel 2000 la spesa sanitaria pro capite era di 1.215 euro e oggi è di 1.941, con un aumento monetario del 59,7 per cento e reale del 26,7. La differenza di qualità del servizio è tale da giustificarlo?
Con un documento di qualche settimana fa il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha spiegato che in un anno è riuscito a ridurre di 181 milioni la bolletta sanitaria senza colpo ferire: solo razionalizzando acquisti e spesa farmaceutica. Dal canto suo la Consip, la società statale che gestisce gli acquisti della pubblica amministrazione, ha fatto risparmiare 100 milioni su 320 soltanto con la fornitura centralizzata delle strisce per la misurazione della glicemia, comprate a un prezzo unitario di 19 centesimi mentre prima si andava da un minimo di 45 centesimi a un massimo di un euro e 10. Tanto basta per far capire quanto grasso ci sia ancora nei conti della Sanità.Ma il grasso della Sanità è niente rispetto al resto. Il fatto è che la riforma del Titolo V ha scatenato un terremoto molto più dirompente di quanto non fosse prevedibile a causa della maggiore autonomia concessa alle Regioni. Queste hanno cominciato subito a comportarsi come piccoli Stati indipendenti i cui amministratori, ribattezzati pomposamente «governatori» con la colpevole complicità della stampa, non avevano però il dovere di rispondere agli elettori, visto che i soldi venivano pressoché tutti distribuiti attraverso lo Stato centrale.
Una sindrome dagli effetti sconcertanti, come dimostra la costosissima proliferazione di sedi estere, da Bruxelles al Sudamerica alla Cina: come se ogni Regione dovesse avere una sua politica internazionale. Si è arrivati perfino a creare strutture come il Centro estero per l’internazionalizzazione piemontese che ha come obiettivo quello di «rafforzare il made in Piemonte». Mentre la vicina Regione Lombardia lanciava il progetto «made in Lombardy».
Le conseguenze sono state nefaste. Al Nord come al Sud. I rigagnoli di spesa si sono moltiplicati, diventando fiumi in piena. Gli organici sono stati gonfiati a dismisura. Sul totale di 78.679 dipendenti regionali (Sanità esclusa), la Confartigianato ha calcolato esuberi teorici del 31 per cento: 24.396 unità. Ipotizzando un risparmio annuo possibile di 2 miliardi e 468 milioni. Il record spetta al Molise, con esuberi teorici del 75,4 per cento, seguito della Valle D’Aosta (71,2).
Le cronache offrono casi formidabili. Nella Calabria dove ci sarebbero 1.184 dipendenti di troppo, l’ispettore spedito dal Tesoro, come ha raccontato sul Corriere di Calabria Antonio Ricchio, ha scoperto cose turche. Per esempio 1.969 promozioni in un solo anno (il 2005 delle elezioni regionali) da lui ritenute illegittime, al pari degli aumenti di stipendio retroattivi assegnati a 85 impiegati dei gruppi politici.
Nel Lazio, invece, per tutti gli anni Duemila si è registrata un’impennata pazzesca del personale dei parchi: nel 2009 erano 1.271. Di cui 99 dirigenti.
Per non parlare delle società controllate e partecipate. La Corte dei conti ha appurato che quelle della sola Regione Siciliana occupano 7.300 persone, con una spesa di un miliardo e 89 milioni nel quadriennio 2009-2012 per le buste paga. Nello stesso periodo la Regione aveva versato nelle loro casse un miliardo e 91 milioni, cifra che secondo i giudici contabili comprende anche «il ricorso reiterato e improprio a interventi di mero soccorso finanziario a società prive di valide prospettive di risanamento».
E la politica? I consigli regionali, privati di ogni controllo centrale, hanno rivendicato prerogative pari a quelle del Parlamento nazionale, cominciando dall’autodichìa. Ovvero, l’insindacabilità assoluta su come spendono i soldi. Scandali a parte, è potuto accadere così che il consiglio regionale del Lazio abbia sfornato in meno di 40 anni 40 leggi locali ognuna delle quali ha accresciuto i privilegi retributivi e pensionistici dei consiglieri.
Il risultato è che oggi un terzo del bilancio del consiglio laziale se ne va per pagare i vecchi vitalizi. Grazie alle antiche regole mai cambiate c’è pure chi continua a prendere l’assegno a cinquant’anni e dopo una sola seduta.
Le Regioni spendono per i vitalizi 173 milioni l’anno. Cifra che sale in continuazione ma che potrebbe essere ridotta di almeno 50 milioni, dice il finora inascoltato rapporto sulla spending review , senza gettare sul lastrico nessuno. Ma su questo, da chi si straccia le vesti per i tagli chiesti dal governo, neppure un sussurro.
Repubblica 18.10.14
Ecco la mediazione dei governatori
“Pronti a rinunciare a 2 miliardi della sanità”
di Luisa Grion
ROMA Non vogliono quei tagli, ma cominciano a pensarci e a proporre strade alternative per evitare che i quattro miliardi messi in conto dalla Legge di Stabilità ai loro bilanci pesino sui servizi, sulla tassazione locale e quindi sul consenso degli elettori.
Il giorno dopo la rivolta contro la manovra del governo Renzi, le Regioni sono entrate nell’ottica della trattativa, hanno messo in conto di dover fare la loro parte e hanno stilato un piano B per contenere gli effetti di quello che continuano a ritenere un taglio insostenibile. Lo hanno messo nero su bianco su un foglio che sta già su un tavolo a Palazzo Chigi: pochi punti, i contorni e dettagli tecnici restano da definire in un incontro che sarà messo in calendario la prossima settimana.
Il documento, sul quale fra regioni e governo ora si aprirà la mediazione, mette sul piatto quattro ipotesi e una condizione. La prima, a dire il vero, è molto più che una ipotesi visto che la posta è certa e coprirebbe da sola il 50 per cento di quei 4 miliardi voluti dal governo. Dopo una lunga trattativa con il ministro della Salute Beatrice Lorenzin i governatori avevano infatti ottenuto di innalzare, per il 2015, da 110 a 112 miliardi il Fondo sanitario nazionale. Bene: ora Chiamparino e i colleghi sarebbero disposti a rinunciare a tale, faticoso, risultato. Rinuncia dolorosa (la spesa sanitaria assorbe il 75-80 per cento dei loro bilanci), ma che da sola basterebbe a coprire metà del budget richiesto loro da Renzi.
Come arrivare però al tetto? La seconda strada che propongono di percorrere coinvolgerebbe il Fondo aperto dalle Regioni presso il ministero dell’Economia: una riserva creata apposta per autoproteggersi dai rischi legati ai contratti derivati firmati in passato. Un Fondo cospicuo che, rimodulato a dovere, potrebbe garantire da solo gli altri 2 miliardi di risparmi. L’operazione, se accettata, richiederebbe però un meccanismo finanziario molto complesso ancora allo studio dagli esperti di bilancio. In alternativa a tale strada, se la misura non dovesse andare in porto o dovesse garantire una copertura inferiore al previsto, la rimodulazione potrebbe interessare anche le spese iscritte nei bilanci regionali, tenendo conto delle uscite effettive e della programmazione annuale. L’indebitamento, ipotizzano le Regioni, potrebbe essere ripartito e conteggiato in modo diverso dall’attuale. Per esempio: se per la realizzazione di un opera in tre anni si mettono in conto 90 milioni, l’iscrizione a bilancio riguarderà solo i 30 milioni effettivamente spesi nell’anno in corso. Manovra che generebbe risparmi contabili con i quali accontentare la richiesta di Palazzo Chigi. Anche qui possibilità e dettagli resterebbero però da definire. In «cambio» di tali aperture, è scritto nel documento, le Regioni si impegnerebbero a onorare una condizione: niente ticket sanitari, né aumento delle tasse locali. Niente impatto economico diretto sul cittadino: le due misure, se realizzate, vanificherebbero infatti gli effetti del bonus da 80 euro appena riconfermato e dei tagli al fisco annunciati dal premier.
Della partita se ne parlerà probabilmente nei primi giorni della settimana entrate, in un incontro fra lo stesso Chiamparino e il sottosegretario alla Presidenza Graziano Delrio. I contatti fra i due sono stati frequenti nelle ultime ore, ma la data del vertice per ora non è in agenda. Non sono escluse per altro altre soluzioni. «Fatta salda l’entità delle misure, non abbiamo imposto una soluzione unica - dice Yoram Gutgeld, consigliere economico di Palazzo Chigi - altri risparmi potrebbero venire anche dai trasporti locali: nella Legge di Stabilità ci saranno norme che aiuteranno le Regioni a contenere le spese».
La trattativa è aperta, conferma il governo, restando però fermi i saldi. «Questa è la manovra del Paese e il Paese in tutte le sue dimensioni contribuisce ai tagli» ha precisato Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia. «Siamo pronti a parlarne con le Regioni, ma nel disegno dei saldi. Il come si raggiungono poi è da discutere ».
Il Sole 18.10.14
Enrico Rossi, Presidente della Toscana
«Per salvare la sanità pubblica i ricchi devono pagare di più»
«Bene le scelte di Renzi ma attenzione alle partite di giro, altrimenti si affossa il Ssn»
intervista di Roberto Turno
«Non sarebbe uno scandalo far pagare di più chi ha redditi alti su tutte prestazioni sanitarie. Che so, 2mila euro se la prestazione ne costa 20mila. Chiamiamolo pure un superticket per i ricchi: siamo in emergenza, salveremo la sanità pubblica e chi ha più bisogno». Enrico Rossi, governatore della Toscana, promuove la manovra di Matteo Renzi, dall'Irap, alla decontribuzione fino al Tfr. Ma mette in guardia il premier: «Attenzione alle partite di giro: se meno tasse significano meno servizi e meno sanità, sarebbe una sconfitta: Renzi non vuole certo passare per colui che fa morire il Ssn».
Presidente Rossi, sta forse scoppiando la pace col Governo? Sembra che la prossima settima incontrerete Renzi con proposte che non toccano i 4 miliardi ma li articolano diversamente. La sanità è allora al sicuro?
Incontreremo il Governo con proposte concrete che possono riguardare anche altri comparti, non solo la sanità e le regioni. E ci confronteremo con chiarezza.
Ma la manovra è tutta da buttare?
Io credo che la manovra sia positiva. Proprio oggi ho visitato alcune aziende e tutte apprezzano le misure sull'Irap. Senza scordare la riduzione dei contributi nel primo triennio, il forfait per le partite Iva, le assunzioni del precariato nella scuola, il miliardo e mezzo per la protezione sociale dei precari, i 500 milioni per le famiglie, la possibilità di avare il Tfr in busta paga. La manovra è robusta e lancia un messaggio di fiducia al Paese. Però...
Però?
Stiamo attenti ai tagli alla sanità, altrimenti quel che acquistiamo da una parte, lo perdiamo dall'altra. Sarebbe solo una partita di giro. Tutti gli indicatori ci dicono che nei confronti internazionali la sanità spende poco e ha buoni risultati. È un orgoglio nazionale, un punto di sicurezza e di reputazione per l'Italia. Lo dico con la massima certezza.
Ma non può negare che la lotta agli sprechi va fatta a fondo in sanità, soprattutto in certe regioni.
Certo che va fatta. Gli sprechi vanno colpiti ovunque si annidano. Ma anche nei ministeri, sia chiaro.
Le siringhe super costose le hanno tutti, insomma.
Pare che in Toscana abbiamo i prezzi più bassi. Io ho fatto un conto a spanne, ci chiedono 400 milioni ma nel mio bilancio corrente non posso certo trovarli, al massimo 10-15 milioni, non di più. I compiti a casa li abbiano fatti da tempo e bene. Il bilancio è in pareggio ed è certificato, come quello della sanità.
Però il Governo li vuole.
Per farlo dovrei toccare la sanità. Certo, si può fare meglio. Ma non mi si chieda di eliminare gli extra Lea, di danneggiare i vecchi, non comprare i pc per i malati di sla, non aiutare i portatori di handicap ad avere una vita il più possibile indipendente. Questo mai.
E allora, cosa fare?
Si dovrebbe chiedere un contributo sulle prestazioni sanitarie ai redditi più alti.
Quanto alti?
Decidiamo quanto spingere sull'acceleratore e quanto tenere alta l'asticella, poi scegliamo la soglia dei redditi. Bisogna evitare come la peste i tagli lineari in sanità, che dequalificano il servizio e penalizzano le categorie più deboli che non possono andare dal privato. Mantenendo la struttura universalistica del Ssn e chiedendo in ogni caso un contributo inferiore a quello che si pagherebbe dal privato.
Chi più ha, più paga la sanità: ma i redditi più alti, almeno di chi non evade, non pagano già di più?
È vero, ma è anche vero che siamo in una situazione d'emergenza. Ed è necessario che il Ssn, che serve a tutti, resti un bene nazionale. Non è una tassa. Non sarebbe uno scandalo chiedere ai ricchi, che so, un superticket di 2mila euro per una prestazione che ne costa 20mila. Come non esentare un pensionato benestante.
Presidente, e se Renzi non vi ascolta e non riduce i tagli, che farete? Denuncerete il «Patto per la salute»?
Io voglio raggiungere un accordo col Governo, che è interessato a mantenere un Servizio sanitario nazionale. Davvero non credo che Renzi voglia passare per colui che fa saltare il banco della sanità pubblica.
Ma lei ha mai creduto alla promessa del «Patto» di tenere i risparmi dentro il Ssn?
Sarebbe perfetto. Speriamo che si possa fare. Ma ho idea che più dei risparmi, rischiano di restarci solo i deficit. Per tutte le regioni, questa volta, e con tutte le conseguenze del caso.
Il Sole 18.10.14
Speciale legge di stabilità
«Evasione, obiettivo 15 miliardi»
Rossella Orlandi: «Per la riscossione del canone Rai non possiamo fare niente»
intervista di Giovanni Minoli
Rossella Orlandi, laureata in Giurisprudenza all'Università di Firenze, inizia il suo percorso professionale nell'amministrazione finanziaria nel 1981, nell'ufficio imposte dirette di Empoli. A metà giugno è stata scelta dal Governo per succedere ad Attilio Befera come direttore dell'agenzia delle Entrate.
Dottoressa Orlandi, è vero che si arrabbia se le dicono che fa parte del cerchio magico di Renzi?
Non mi arrabbio. Dico che non è vero. Io non ho mai conosciuto Renzi prima della nomina, e credo che la mia nomina dipenda soprattutto dalla mia storia.
Lei ha detto che per capire come doveva pagare l'Imu di casa sua ci ha messo un pomeriggio. Non è un'istigazione a delinquere una complessità così?
Assolutamente sì. Perché io credo che il cittadino abbia diritto di avere una semplicità nei propri adempimenti come ha il dovere di pagare le tasse e quindi contribuire al benessere della collettività.
Lei per la Legge di stabilità di Renzi deve trovare 4,8 miliardi più o meno. Pensa di farcela?
Bisogna essere ottimisti. Sicuramente noi stiamo provando in ogni modo a far emergere una parte di sommerso, di nero, di un'economia che non si traccia.
Lei però vorrebbe fare un Fisco costruito non sui controlli ma sulla fiducia. Belle parole, ma come?
Cambiando innanzitutto la mentalità nostra e dei contribuenti. Bisogna partire dalla convinzione che il contribuente per principio è una persona onesta. Nella Legge di stabilità c'è una norma che qualcuno ha definito "Cambia verso": bisogna passare dall'idea secondo cui c'è un contribuente che dichiara e poi noi lo inseguiamo, ad una in cui noi forniamo al contribuente una serie di elementi per dichiarare il giusto.
Bisogna quindi impedire l'evasione più che inseguirla successivamente.
Chiaramente occorre fare tutt'e due le cose, ma bisogna partire soprattutto dall'idea di rendere difficile evadere o impossibile o comunque non utile.
Dall'unità d'Italia ad oggi ci sono stati 80 condoni. Non è che per "cambiare verso" intanto si fa un bel condono per risolvere un po' di problemi?
Lo escludo. Non solo perché per me, per noi, per la mia struttura sarebbe assolutamente sbagliato e deleterio. Ma perché la Commissione europea ci ha già detto nell'ultimo condono che siamo in infrazione se facciamo una cosa del genere.
Con l'evasore funziona la strategia della paura?
Non ha mai funzionato fino a oggi, perché sono quarant'anni che noi cerchiamo di far paura agli evasori e quelli continuano. È meglio costringerli, non con grida o minacce ma seguendoli punto punto e dimostrando che quello non lo possono fare.
Qual è l'obiettivo 2015 per l'Agenzia delle entrate sull'evasione?
Sui 15 miliardi.
Voi riscuotete anche una delle tasse più evase dagli italiani che è il canone televisivo. Perché non riuscite a farvi pagare?
Il canone televisivo è regolato da una legge del 1938 che è talmente astrusa e consente così pochi poteri che di fatto è molto difficile da applicare.
Quindi voi non potete applicarla?
Il canone Rai sta sotto i 2mila euro. Per una legge dello Stato fino a questo importo con la riscossione coattiva noi non possiamo fare niente.
In Svizzera si calcola che ci siano circa 70 miliardi in fuga dal fisco italiano. Dopo gli accordi che sono stati fatti, di quei 70 miliardi quanti potrebbero essere veramente rimpatriati o recuperati?
È stata approvata stanotte (ieri notte, ndr) dalla Camera una legge che si chiama voluntary disclosure su cui stiamo lavorando intensamente per recuperarne una gran parte.
Questa legge che strumenti vi dà in più?
Unita al fatto che ci sono gli accordi internazionali, consente al cittadino che deve riportare i soldi di presentarsi a noi. Noi faremo un riscontro puntuale, gli faremo pagare le tasse e le sanzioni ma la norma depenalizza, che è una delle preoccupazioni che hanno.
Repubblica 18.10.14
Indiani Sikh, "Dieci ore a lavorare sui campi ma te ne pagano solo due"
La condizione da schiavi alla luce del sole nelle testimonianze di lavoratori indiani raccolte nell'Agro Pontino in un nuovo rapporto di In Migrazione Onlus
Verrà pubblicato in occasione del convegno Terra e libertà a Latina, lunedì 20 ottobre
di Vladimiro Polchi
qui
il Fatto 18.10.14
Intanto in America
La capa della Fed cita Piketty: “Ricchi sempre più ricchi”
La Yellen sulla disuguaglianza crescente: “L’accesso a educazione e proprietà va rivisto
Non è un segreto - sostiene Janet Yellen - che negli ultimi decenni una crescente disuguaglianza abbia concentrato singificativamente i redditi e la ricchezza nei guadagni molto alti di pochi per lasciare alla maggioranza livelli di vita stagnanti”. La presidente della Fed, la banca centrale americana, ha ieri parafrasato uno dei concetti esposti da francese Thomas Piketty nel libro - fenomeno del momento - Il capitale nel XXI secolo - “la società affronta questioni difficili per promuovere più equamente e giustamente pari opportunità”. L’accesso all’istruzione superiore e all proprietà delle imprese presenta dei “blocchi” che occorre rimuovere per permettere l’accesso al benessere di più americani. La Fed si riunisce il 28 e 29 ottobre e molti analisti ritengono che il rallentamento dell’economia mondiale e le turbolenze sui mercati possano far ripensare al braccio monetario l’intenzione di procedere a uno stop degli acquisti di asset.
La Stampa 18.10.14
Hong Kong, torna la protesta dei manifestanti. Arrestati 26 attivisti pro-democrazia nella notte
Scontri con la polizia. In piazza quasi 9000 manifestanti che hanno occupato una strada nel quartiere di Mong Kok, dove sono rimasti accampati per quasi tre settimane
qui
Corriere 18.10.14
La Cina contro l’«arte degenerata»
Xi richiama al realismo socialista
Il leader di Pechino imita Mao e lancia un attacco alla «schiavitù del mercato»
di Guido Santevecchi
PECHINO La parola d’ordine è chiara: «Servire il popolo promuovendo il patriottismo e i valori morali del socialismo». I destinatari del monito pronunciato dal presidente cinese Xi Jinping questa volta non sono i soliti quadri del partito, ma gli artisti. Il leader ha convocato una bella rappresentanza di scrittori, poeti, sceneggiatori, danzatori, pittori e ha detto che non debbono essere schiavi del mercato, non debbono cedere alla tentazione di produrre opere «che puzzano di denaro».
Il discorso è stato ripreso dall’agenzia Xinhua , che in un commento ispirato lo ha paragonato a uno celebre pronunciato da Mao Zedong nel 1942 a Yan’an, la mitizzata base del partito comunista ai tempi del conflitto con i giapponesi e poi della guerra civile contro i nazionalisti. In quell’accampamento remoto il padre della rivoluzione aveva osservato che classe operaia e contadini, non gli intellettuali, erano il pubblico della produzione artistica. «Settantadue anni dopo, il segretario generale del partito comunista Xi Jinping si rivolge di nuovo agli artisti e letterati per chiedere che le loro opere incarnino i valori fondamentali del socialismo, mantengano lo spirito cinese e chiamino a raccolta la forza della Cina», commenta l’agenzia di Stato. Quindi, un altro passo di Xi per avvicinarsi al modello di Mao, imponendo la sottomissione della cultura all’interesse del popolo, vale a dire del partito.
Per la verità, l’editoriale della Xinhua cade subito in una contraddizione, perché accusa il mondo delle arti cinese di non essere stato in grado di lanciare nel mondo quel segnale di potenza che il Paese meriterebbe. «Paragonate con la notevole crescita dell’economia e della potenza dello Stato, le opere letterarie e artistiche cinesi sono meno impressionanti». L’agenzia cita come esempio virtuoso la Corea del Sud «Paese vicino, più piccolo e meno popoloso, che si è saputo ben presentare al mondo globalizzato... mentre non c’è una sola canzone pop cinese che abbia avuto un successo internazionale come Gangnam Style». C’è da dubitare che Xi Jinping, quando dice che l’arte deve servire il popolo, abbia in mente proprio il tormentone musicale dell’imbrillantinato sudcoreano Psy.
Xi dice che gli artisti non debbono perdersi nell’ondata dell’economia di mercato; la popolarità non dev’essere volgarità; «i lavori artistici debbono essere come raggi di sole che spuntano dal cielo azzurro, come brezza in primavera che ispira le menti, riscalda i cuori, coltiva il buon gusto e pulisce l’aria dagli stili indesiderati». Insomma, gli artisti debbono essere morali e soprattutto devoti al regime. La Cina è tutt’altro che povera di grandi artisti contemporanei: basterebbe ricordare Ai Weiwei, che esporta nel mondo le sue mostre, ma non può seguirle perché è confinato a casa, visto che contesta il primato del partito.
Il presidente Xi è tutt’altro che una persona rozza. Quando nel 1969 fu mandato in campagna a rieducarsi, durante la Rivoluzione Culturale, quel giovanotto magro, figlio di un rivoluzionario maoista incappato in una purga, si era portato tanti libri nel bagaglio da suscitare l’interesse dei contadini dello Shaanxi. Uno che l’aveva aiutato con le valigie in seguito ricordò di aver pensato: «Quanto pesano, ci saranno lingotti d’oro». Altri tempi, ora quel ragazzo è diventato presidente, segretario del partito e capo della commissione militare: il nuovo Mao .
Corriere 18.10.14
L’eterna tentazione dei regimi di dettare l’estetica
di Pierluigi Battista
Per i dittatori (non solo quelli moderni) non è una perdita di tempo occuparsi d’arte, musica e letteratura. Non sono raffinati amanti della cultura, ma pensano che i loro regimi siano più stabili se l’arte è controllata, se il dissenso dall’estetica ufficiale è bandito, se gli artisti si conformano alle direttive del Partito.
Fu Stalin a decretare la persecuzione per gli artisti che non volevano assoggettarsi agli imperativi del «realismo socialista». Fu Hitler a bruciare le opere «sovversive» e a voler rinchiudere in un recinto infetto l’«arte degenerata» da cui avrebbe dovuto purificarsi il Terzo Reich.
Fu Mao a scatenare con la «Rivoluzione culturale» un’offensiva contro l’«arte decadente» e la «letteratura piccolo borghese» che costò la vita a migliaia di poeti, scrittori, artisti, musicisti. Oggi incomincia in Cina la battaglia contro l’estetica non irreggimentata.
Una fatwa contro l’arte che non segue i canoni fissati da un’oligarchia di Partito. Un inizio di persecuzione che chiunque non voglia celebrare con il pennello o con la scrittura, con il cinema e con il teatro i fasti di un regime che vuole solo panegirici, sviolinate, consenso, adulazione per i Capi, ottimismo di Stato. L’ombra, il dubbio, l’incertezza, ma anche il dolore esistenziale devono essere messi al bando. Considerati come un sabotaggio ai danni dell’integrità dello Stato, alla salute pubblica, alla coesione nazionale. Malgrado le concessioni capitalistiche e l’apertura al mercato, i dirigenti cinesi restano abbarbicati a una visione monopartitica della società e dello Stato. A questo punto anche mono artistica, nel senso che lo Stato si arroga il compito di assegnare il titolo di arte solo alle opere che si adeguano all’estetica dominante e a considerare come «nemici» pubblici tutti gli artisti che recalcitrano agli ordini estetici fissati dal Partito secondo criteri indiscutibili.
Nella storia del Novecento i totalitarismi hanno sempre propagandato una visione quadrata, iper classicistica, monumentale dell’arte. In Germania la mostra dell’«arte degenerata» venne allestita nello stesso anno, il 1937, in cui Kandinskij capì che non era più possibile dipingere opere d’arte sotto il tallone di Stalin che detestava l’avanguardia, le linee sinuose, la decadenza, il «formalismo». Nel ventunesimo secolo, a Pechino, la triste tradizione continua. Con lo Stato onnipotente, anche nelle questioni artistiche.
La Stampa 18.10.14
L’Isis si impossessa di tre caccia, primi sorvoli sulla Siria
Militari iracheni unitisi allo Stato islamico addestrano i jihadisti per pilotare
Gli Usa: nessuna notizia di attività aerea
E aumentano i raid su Kobane. I curdi: presto libera
qui
Corriere 18.10.14
A quali mezzi ricorrere Per sconfiggere l’Isis
risponde Sergio Romano
Quali azioni l’Occidente dovrebbe adottare contro l’Isis, per affrontare quanto sta accadendo?
Cesare Reale
Caro Reale,
A dispetto del suo nome, l’Isis non è uno Stato. Non ha un territorio stabilmente soggetto al suo controllo. Non ha ministeri, caserme, sistemi di comunicazione, aziende, reti ferroviarie aeroporti: obiettivi che il nemico può distruggere. Le sue milizie si sono installate da qualche mese in una città siriana (Raqqa), ma lo Stato islamico della Siria e dell’Iraq continuerebbe a esistere e a combattere anche se le truppe siriane di Bashar Al Assad riuscissero a riconquistarla. L’efficacia dei bombardamenti dall’aria è modesta perché il drago ha molte teste e non muore se i droni americani riescono a colpire duramente una delle sue formazioni. Sarà meglio quindi che l’opinione pubblica non si aspetti impazientemente risultati immediati. Questa guerra di tipo nuovo non sarà breve e le armi non sono il solo mezzo a cui sia necessario ricorrere. Occorre intercettare i volontari che cercano di raggiungere le formazioni dell’Isis in Siria e in Iraq. Occorre impedire il mercato nero del petrolio con cui Isis ha finanziato le sue operazioni. Occorre bloccare la fornitura di armi che arrivano dalle più diverse provenienze. Occorre aiutare le popolazioni locali a organizzarsi per meglio resistere.
Queste strategie sono tanto più efficaci quanto maggiore è il numero dei Paesi che hanno interesse a lavorare insieme per sradicare Isis dalle regioni in cui si è installato. Ma è questo, sfortunatamente, il punto dolente dell’intera vicenda. In teoria il numero dei Paesi su cui contare è alto, ma non tutti, in realtà, hanno gli stessi obiettivi. Come abbiamo visto negli scorsi giorni, la Turchia odia il presidente siriano Bashar Al Assad ed è preoccupata dai curdi siriani del Pkk più di quanto tema le milizie del Califfato islamico. L’Arabia Saudita disapprova i metodi dell’Isis, ma chiude un occhio quando combattono contro gli odiati sciiti. Gli Stati Uniti sono impegnati militarmente con i loro aerei e i loro droni, ma non vogliono collaborare, almeno palesemente, con la Siria, vale a dire con lo Stato che può dare all’Isis i colpi più duri.
Molti si chiederanno, a questo punto, se non occorra intervenire sul terreno con un corpo combattente. Forse, ma non vedo un Paese occidentale, almeno per il momento, che voglia mandare i propri uomini a battersi in un ginepraio dove non esiste una linea del fronte e nessuno riesce a distinguere i buoni dai cattivi. Come molte altre guerre anche questa è una guerra di nervi e di logoramento. Vinceremo quando gli jihadisti saranno stanchi di morire per un obiettivo irraggiungibile.
Corriere 18.10.14
Un’apertura all’Iran farà bene anche a noi
di Antonio Armellini
È il momento di pensare alla carota nei confronti dell’Iran, dopo anni di bastone? Dai cantieri abbandonati nel cuore delle città all’autarchia commerciale forzata, al divieto di importazione per le tecnologie avanzate, il peso delle sanzioni si fa sentire. La retorica, gli slogan, i comportamenti pubblici di un sistema teocratico chiuso evocano un Islam occhiuto, austero prima ancora che intollerante. L’Occidente rimane l’avversario principale: forse non più tanto Satana, ma comunque nemico da tenere lontano per evitare il pericolo di contagio.
E tuttavia, del contagio non mancano i segnali. Man mano che ci si avvicina a Teheran il velo obbligatorio sul capo delle donne tende a scivolare liberando lunghe ciocche di capelli, il nero cede il passo a colori più squillanti. La nuova classe media affolla autostrade e centri commerciali nei weekend. Nelle case dei ricchi dietro il rigore esterno si scopre un’ansia di liberazione che nei giovani tende a travalicare nell’eccesso.
Le aperture di Rouhani sono importanti, ma il controllo è saldamente nelle mani di Khamenei e il rapporto di forze con la Guida Suprema rimane impari. Non è chiaro se la stabilità interna, su cui i mullah ostentano sicurezza, sia effettiva o se covino nuovi fuochi: svanite le speranze create dalla protesta popolare del 2009, il Paese sembra acconciarsi a convivere con un regime dal quale cerca di ritagliarsi margini di autonomia. Sarebbe un errore concludere da tutto ciò che l’Iran sia pronto a farsi Occidente: la società resta convintamente islamica e le moschee sono a un tempo centri di fede e di comunicazione sociale. Vuole che tale modello non sia offuscato da prescrizioni che la releghino ai margini della comunità internazionale di cui si considera a buon diritto partecipe.
Le sanzioni sono state importanti per far capire all’Iran che rinunciare a una capacità nucleare militare era la premessa essenziale per uscire dall’isolamento. Dopo fasi alterne il negoziato «P5+1/Ue» (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, più la Germania) è entrato in una fase cruciale e toccherà alla nuova Lady Pesc Francesca Mogherini tirarne le fila. Sullo sfondo restano altri temi non meno cruciali, primo fra tutti quello del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Ma quello dell’accordo sulla bomba atomica è la porta d’ingresso per tutto il resto. Le prossime settimane diranno se sono possibili progressi reali nella trattativa e se sarà ipotizzabile passare alla carota, in materia di sanzioni.
Si tratta di un «se» di peso. Riconoscere un ruolo all’Iran non significa soltanto acquisire strumenti che permettano di dipanare in maniera meno confusa il filo che dalla Siria passa all’Iraq e all’intero Medio Oriente, per approdare all’Isis. Significa recuperare un Paese che — al di là della cappa dei mullah — ha un forte senso di identità nazionale, una infrastruttura moderna e un potenziale economico importante. Insieme alla Turchia è l’unico grande Paese nella regione: anche Washington lo ha capito, sia pure con molte ambiguità.
La prospettiva della carota non è priva di rischi, ma le alternative potrebbero essere peggiori. La società civile iraniana respira Occidente, fa fatica a sopportare l’isolamento in cui è costretta e di cui stenta a capire fino in fondo le ragioni. Escluderla potrebbe significare rigettarla nel cono dell’intolleranza; dandole spazio si potrebbe favorire quella lenta evoluzione di cui si vedono le tracce. E recuperare — last but not least — un mercato per noi da sempre importante in cui la Cina si avvia a fare la parte del leone. L’Iran non diventerebbe per questo una democrazia liberale e i suoi standard in materia di diritti umani resterebbero lontani dai nostri. In questo si troverebbe in buona compagnia con molti altri partner dell’Occidente, nella regione e non.
La Stampa 18.10.14
Nigeria, speranza per le studentesse rapite: accordo governo-Boko Haram per il rilascio
Le 219 liceali erano state sequestrate dai miliziani islamisti in primavera
«Nei prossimi giorni la liberazione»
Nell’intesa raggiunta c’è anche un cessate il fuoco nella regione
qui
Corriere 18.10.14
Matera Capitale. I Sassi, i film, la storia
Sarà la città europea della Cultura 2019
La delusione di Siena: pesa la geopolitica
di Paolo Conti
Sarà Matera la Capitale europea della cultura 2019. Il nome prescelto tra le sei finaliste (Matera e poi Ravenna, Cagliari, Lecce, Perugia e Siena) lo ha annunciato ieri il ministro Dario Franceschini nella sala del Consiglio superiore dei Beni culturali al Collegio Romano. Franceschini aveva accanto Steve Green, presidente della giuria di tredici esperti tra italiani (sei) ed europei (sette). La votazione non è stata unanime, anzi. Matera ha ricevuto sette voti: la discussione è stata vivacissima e incerta fino all’ultimo.
Ha vinto la città amata da Adriano Olivetti, Pier Paolo Pasolini e Mel Gibson, solo per citare alcuni tra gli intellettuali che ne hanno subito il fascino. L’annuncio della designazione ha fatto esplodere la festa nella centralissima piazza San Giovanni nel pieno cuore storico. Entusiasta il sindaco Salvatore Adduce: «Sono cinque anni che lavoriamo a progetti straordinari. Noi siamo il malleolo dello Stivale, generalmente ritenuto una zona poco ospitale. Abbiamo sconfitto questa diceria. Ora possiamo essere un esempio per il Sud, per l’Italia e un’offerta per l’Europa».
Matera è la prima Capitale europea della cultura italiana del Sud, dopo Firenze (1986) e Genova (2004). Franceschini ha assicurato che lo sforzo creativo delle altre città non verrà disperso: «La cosa più importante della sfida vinta da Matera è la straordinaria capacità progettuale d’insieme che hanno messo in campo le sei città finaliste. Il presidente della Commissione ha affermato che nessun’altra competizione è mai stata di questo livello qualitativo. Il programma Europa 2019 prevede di sostenere la realizzazione del lavoro progettuale anche delle città che non hanno vinto». Il ministro ha poi annunciato che, a partire dal 2015, l’Italia ogni anno sceglierà una propria capitale della Cultura.
Ieri pomeriggio, nella sala del ministero, molte lacrime. Per esempio quelle del gruppo di Lecce 2019, incluso il direttore artistico Airan Berg, regista teatrale e animatore culturale internazionale, visibilmente commosso e insieme abbastanza spaesato poiché non parla la lingua italiana.
Il sindaco di Siena, Bruno Valentini, ha analizzato la sconfitta della sua città con una lieve ma chiara sottolineatura polemica: «Una città del Sud non aveva mai vinto e non so se sul risultato finale possano aver pesato i criteri geopolitici».
Più positivo il commento del sindaco di Perugia, Andrea Romizi: «Continueremo nel nostro progetto che è non solo riqualificare il centro urbano ma anche noi stessi, confermando la volontà di far uscire la città e il territorio da una certa marginalità rispetto a una società sempre più veloce». Fabrizio Matteucci, sindaco di Ravenna: «Siamo sereni perché c’è stato l’apprezzamento della giuria. Ora lavoriamo insieme perché quello che abbiamo costruito non vada disperso».
Corriere 18.10.14
La stella di Matera che può riscattare il sud
di Carmen Lasorella
Sull’orizzonte si accende una stella. Lo sfondo è quello del Sud dimenticato. Matera, capitale della cultura 2019, è molto di più che la vittoria di una piccola città contro le blasonate concorrenti del Nord: rappresenta una speranza.
È l’occasione per restituire fiducia alle donne e agli uomini di quella parte dell’Italia, che ogni giorno scontano pregiudizi e sconfitte, perché cittadini di territori che la cronaca racconta con il segno meno. La bella Matera, con i suoi Sassi, ma senza un treno che la raggiunga, né strade veloci, diventa il simbolo del cambiamento possibile. L’investimento nella cultura non è solo nelle suggestioni dei luoghi, nelle architetture preservate sin dalle ere neolitiche, l’investimento è nel capitale umano.
Il meridionalista Guido Dorso scriveva che «il Sud non ha bisogno di carità, ma di giustizia, non di aiuto, ma di libertà, non solo come valore democratico, ma come liberazione da un sistema negativo». Perché «la questione del mezzogiorno è soprattutto un problema di sviluppo civile» come ha poi spiegato Paolo Sylos Labini. Sviluppo, che è una nozione diversa dalla crescita, misurata sull’aumento dei beni e dei servizi, dunque sui consumi; sviluppo, in quanto disegno unitario di una comunità, che si espande nell’economia, nelle sue istituzioni e nella cultura.
Potrebbe essere giunto, allora, come suggeriva Kafka, «il momento giusto per svegliare il futuro addormentato», rieducandosi ai sogni e scegliendo l’azzardo. L’obiettivo, quello di fare di una città speciale come Matera, in una piccola regione come la Basilicata, il laboratorio di un modello di sviluppo per il riscatto del Sud. Per Italia, una sfida magnifica, che passerà per le tante teste e i cuori, capaci di scelte forti, verso un cambiamento prima di tutto etico e culturale, da opporre all’attuale degrado. Non è il sapere il petrolio del XXI secolo, come proclama la moderna economia? Per Matera, in più ci sono i pozzi di petrolio. La marginalità potrebbe dunque essere sconfitta: i giacimenti non mancano.
Repubblica 18.10.14
La depressione oscura il nostro futuro, quel buco nero dell'anima
Casi in aumento, più colpite le donne
Oggi la Giornata europea contro la malattia
In tutto il mondo colpisce 350 milioni di persone e provoca 850.000 morti ogni anno. Secondo alcune stime nel 2020 rappresenterà la seconda causa di disabilità lavorativa, anche perché la stretta correlazione tra perdita del lavoro, povertà e malattia è dimostrata scientificamente, con una crescita dello 0,79% del tasso di suicidi per ogni aumento dell'1% nel tasso di disoccupazione. Eppure con la giusta diagnosi, un trattamento farmacologico e la comprensione della società si può quasi sempre guarire
testo e video di Sara Ficocelli, con un commento di Michele Bocci
qui
Repubblica 18.10.14
Depressione, il parere della psichiatra: "Si può guarire sempre"
un video qui
Repubblica 18.10.14
Quando la depressione colpisce il compagno: "Che dolore sentirsi impotenti"
un video qui
Repubblica 18.10.14
Donne costrette a subire abusi
Sono più di 14 milioni le donne che in Italia subiscono una qualche forma di maltrattamento o violenza secondo i dati Istat. Eppure separarsi a volte fa più paura che subire. Perché ci si sente isolate. Questa è una delle 7 tipiche paure femminili che provocano ansia e impediscono di realizzarsi veramente, descritte dalla psicoterapeuta Michela Rosati nel suo libro La gabbia di carta. Noi le analizziamo una a una assieme alla psicologa che qui ci spiega come uscire dal muro di silenzio
di Brunella Gasperini
psicologa
qui
il Fatto 18.10.14
Il filosofo Maurizio Ferraris
“Nietzsche, così straordinario e così indifeso”
di Daniela Ranieri
Nietzsche è pop, Nietzsche è cool; compare sulle t-shirt degli hipster e nei tag dei writers. Su Google, appare persino sotto le sembianze di un altro. Maurizio Ferraris, in libreria con Spettri di Nietzsche (Guanda), dirada il mistero: quell’uomo che somiglia a N. ma in realtà è Re Umberto ingannò anche lui, tanto che lo mise sulla copertina di un libro. Insomma, non ci sono fatti, ma solo interpretazioni: “Essere frainteso era il suo destino. Se entri nello spazio pubblico sai che sarai citato nei modi più svariati e inappropriati. N. desiderava la pubblicità, voleva che l’Anticristo tirasse 800 mila copie. Spesso i filosofi sono il contrario di quello che professano. Schopenhauer professava l’ascetismo ed era lussurioso. Chi teorizza il Superuomo può avere personalmente delle difficoltà”.
Che tipo era N.? Perché più lo si conosce più emerge la sua fragilità, che lo faceva innamorare di chiunque in modo grandioso e patetico?
È un paradosso di N. Ci invita ad avere uno sguardo disincantato sull’esistenza e poi idealizza tutto quello che tocca. Era talmente poco demistificatore che è stato vittima dei miti che si costruiva.
Verso Wagner sviluppò “un Edipo strano e contorto”.
Non si sentì sostenuto da Wagner quando uscì la Nascita della tragedia. Immaginava si creasse una diarchia nella cultura tedesca, il grande artista e il grande pensatore. Wagner temeva di rompersi il collo difendendolo.
Per N., Wagner era un cialtrone e un narciso.
Disse che Wagner era diventato cristiano e perciò se ne allontana, ma non è convincente. La realtà è che si sentì messo ai margini.
La moglie di Wagner, Cosima, scrive nei diari che ridevano di lui.
Era facile ridere di lui. Ridevano anche quando pretese di far ascoltare le sue composizioni. Von Bülow le definì “uno stupro a Euterpe”.
Fu colpa della sorella Elisabeth se N. fu “preso” dal nazismo? Mistificò i suoi scritti?
Nel dopoguerra ci sono state due strategie: dire che il suo pensiero era tutto allegoria, e dire che ciò che c’era di male l’aveva messo la sorella. Ma le affermazioni politicamente problematiche, come quelle in cui dice che bisogna sparare agli operai, le dice lui nel pieno dei suoi spiriti. La sorella è intervenuta sull’epistolario, spacciandosi come interlocutrice alla pari, cosa che non era perché era abbastanza stupida.
Regalò a Hitler il bastone di N., ricevendolo nel ’33 all’Archivio di Weimar.
Se al posto di Hitler fosse stato nominato primo ministro non dico Renzi, ma Rathenau, lei lo avrebbe invitato senza dubbio. Non sorprende che si inviti il primo ministro a un archivio per cui ci si aspetta dei fondi.
Però eliminò le lettere in cui N. disprezza apertamente gli antisemiti, tra i quali suo marito.
Ha omesso dei frammenti, ma non ha aggiunto quelli in cui
N. se la prende con gli ebrei. Era preoccupata dagli attacchi alla Chiesa.
C’è un filo che lega la volontà di potenza alla “volontà di nulla” con cui Hitler annientò gli ebrei e distrusse il suo Paese?
N. e Hitler sono figure opposte. Uno filosemita l’altro antisemita, uno aristocratista l’altro populista. N. nella sua stanzetta a Torino e Hitler nel suo bunker sono sideralmente opposti. Ma il desiderio della catastrofe nibelungica, quel desiderio di naufragio, è comune.
Nel libro parla dei luoghi in cui ha soggiornato N. Quali sentimenti suscitano?
N. trasfigurava idealmente ogni luogo che vedeva. Villa Rubinacci a Sorrento ora è una pizzeria che accetta tutte le carte di credito.
Com’è la tomba di Nietzsche a Röcken?
Particolarmente sgraziata. N. scrisse che le statue classiche non erano bianche e apollinee ma dipinte e dionisiache: lì c’è la sua statua bianca insieme a quella della madre, come in una foto con N. già demente e la madre che lo tiene per un braccio.
Prova empatia per N.? Per le sue abitudini, la dieta, le sue ossessioni.
Se mi si chiede: se trovi N. così ridicolo e pericoloso perché te ne sei occupato per tutti questi anni, rispondo: perché è una specie di caricatura di tutti i vizi del professore. Un individuo insieme straordinario e straordinariamente indifeso. Impossibile trovare un cuore altrettanto messo a nudo.
Cosa succede a Nietzsche nel gennaio 1889?
“Impazzire di dolore” è una metafora che nel caso di N. è letterale.
Gli spettri di N. sono quelli che funestarono la sua vita o quelli che noi scambiamo per lui?
La vita di N. è piena di spettri. Il 900 è stato un secolo nietzschiano, comico e tragico. Lo spettro è anche ottico: ci sono tante rifrazioni dentro N. E c’è la mia vita. Ho fatto la tesi di laurea su N., e ora, prima di andare in pensione, questo libro. Una vita con Nietzsche.
La Stampa 18.10.14
Segantini
Il vitalista decadente che mise Nietzsche sulle tele
Tra divisionismo e simbolismo a Milano ritorna il maestro trentino di fine Ottocento capace di influenzare anche De Chirico
di Marco Vallora
Orfano precocissimo, sbandato, malamato, accolto da un fratellastro distratto in una bottega di ritocco fotografico (che molto influenzerà il suo sguardo «grafico») nutrito di cultura lombarda e scapigliata, talento nativo ed apolide per destino, il trentino-svizzero- austriaco Segantini, che non era nulla di queste cose, in quel momento drammatico di disgregazione dell’Impero austro-ungarico non conosceva davvero l’italiano. Lo storpiava con genialità espressionistica e parlava più volentieri il tedesco. Ascoltiamolo, nella sua eccitata sgrammaticatura esplosiva: «L’arte moderna deve dare delle sensazioni nuove, perciò ci vuole nervi di finissima delicatezza che radopino le più lievi impressioni». Quando declina questo «decalogo», probabilmente non sa e non si cura nemmeno di sapere che altrove sta scoppiando una rivoluzione impressionista. Lui che è colto ma come imbozzolato nel proprio mondo isolato e non può viaggiare, causa quel suo vagheggiato possesso d’un passaporto «dismesso». Secondo la curatrice Quinsac di questa finalmente completa mostra su di lui, riparatore «Ritorno a Milano», tale distacco solipsistico è quasi un atout, perché il «non contatto» con lo Zeitgeist del suo mondo «lo porta a sviluppi del tutto personali». Ma come possiamo non rimanere colpiti da quei «nervi di finissima delicatezza», che devono «raddoppiare», moltiplicare e far vibrare, le più «lievi impressioni», che la realtà sottopone? Qualcosa che va al di là della prosaica «poesia del vero», cara anche alla sua poetica d’esordio, quando lo vediamo levitare, disegnatore provetto, dallo schizzo innamorato del naturale, di quella rubiconda Ninetta del Verzé. Li conosce bene, i suoi nervi sensibili e nevropatici. Ma li usa appunto come un sensore, una vibrissa pittorica, che va al di là della sterile abitudinarietà riproduttiva . «Sotto il pennello la gamma deve scorrere smaliante e deve far nascere gli oggetti le persone le linie». Non esiste una realtà in sé, prima della mimesi pittorica: è la linia che fa sorgere figure e paesaggi. «Il vero cosidetto si deve oltrepassare, la pasione febriccitante dell’Arte deve involgere tutto d’un interno tremito». È una confessione dolorosa e dolorante, ove l’Arte con maiuscola, il Credo dell’Arte, si pone quale medium di veggenza e di oltrepassamento nicciano del «cosiddetto» reale umano troppo umano, come transustanziazione laica ed ebbra del vituperato Sacro cristiano.
«La nervosa commozione che prova l’artista», l’artista-sacerdote e Vate, deve saperla comunicare al mondo, stregato ed orante. L’Artista colto dalla febbre morbosa del Bello deve riuscire a sostituire alla Fede questa nuova fede dell’Oltre (e lo dimostrano bene i suoi Autoritratti, che ci accolgono ad inizio-mostra). È la via in fibrillazione della sua adesione al credo «scientifico» del Divisionismo: che lui declina però in un modo molto diverso da quello chimico-razionale ed ottico del Pointillisme francese. Per lui, più della religione dello sguardo e della percezione, è importante la serpentinata possanza simbolica della Vita e del Vitalismo decadente. I suoi coltivatori di patate non sono poi così lontani da quelli del «predicatore» Van Gogh, anche se Segantini pare pescare molto di più da Millet e Toorop e, in certi profili di scaricatori, da Dorè o Daumier. Altro che non aver visto! È quel cedimento al Simbolismo internazionale e «todesco», che farà indignare il nazionalista e sordo-ingrato Boccioni, che pure sappiamo esser nato divisionista: «Segantini ignorantissimo, circondato da tedescherie, posa a gran sacerdote di una nuova religione della natura e piano piano sdrucciola dagli azzurri ghiacciai italiani alla sterile bassura germanica».
Macché scientificità, Segantini è ben chiaro: «La vita deve essere dappertutto, la fatica non deve essere». Non si deve avvertire lo zelo diligente del pennello descrittore, ma l’«involgente tremito» della totalità trascinante. Altro che spettro ottico-analitico! «Davanti all’osservatore tutto si deve fondere in un solo pezzo, in una commozione profonda di Vita vera vita palpitante». «Insomma io non voglio che nel quadro si veda la fatica poverile dell’uomo», ch’era il suo modo di tradurre Nietzsche in pennellata. «Voglio che il quadro sia il pensiero fuso nel colore». E per fortuna che incontra la Natura! Lo dimostra anche questa mostra: a parte l’influsso di Magnasco, per un baffo di pittura sacra, che bamboleggio all’inizio! e che vagare, tra bozzettismo macchiaiolo e galoppi fattoriani, in quel boldineggio vacuo dei Sorrisi di donna. Ma ecco che, appena giunge alla fonte di natura, ed incontra l’incanto dei Grigioni, la pittura si solleva e trova la sua strada (potremmo dire ch’egli porta finalmente i prodigi di sprezzatura nevrile, delle spatolate alla Boldini, tra le sue malghe e le ossigenate verità alpine). E si fa subito maestro: di Mancini, Spadini, persino di De Chirico. Passa un treno alla Turner, la pittura s’illivida, sulle zucche, i bambini si terrorizzano, ma non c’è più bozzettismo carducciano. È ormai pura folata di pura pittura. Sino al contorto simbolismo grisaille delle Cattive Madri, al suo disperato progetto interrotto del Panorama d’Engadina, così ben evocato da Pietro Bellasi nel raccomandabile catalogo Skira.
La Stampa 18.10.14
Vincent Van Gogh al Palazzo Reale di Milano
“Un pittore di contadini in sintonia con la terra”
Si apre oggi a Milano la rassegna del maestro olandese in vista dell’Expo. Ne parla la curatrice Kathleen Adler
intervista di Manuela Gandini
«La pittura lineare pura mi rendeva pazzo da molto tempo quando ho incontrato Van Gogh che dipingeva, non linee o forme, ma cose della natura inerte come in piene convulsioni. E inerti», è l’incipit del libro di Antonin Artaud,
Van Gogh. Il suicidato della società che dichiara un folle amore per il pittore e una schiacciante critica alla società
E’ d’accordo con Artaud che dichiara la società responsabile del suicidio di Vincent Van Gogh?
«Penso che la morte di Van Gogh non sia il risultato di pressioni sociali, ma della sua stessa vita, intensa e ossessiva, e, naturalmente, della malattia mentale. Penso che Artaud scrivesse tenendo presente più se stesso che Van Gogh, e la recente mostra al Musée d’Orsay me lo ha chiarito ulteriormente. Non mi pare che Vincent sia “stato suicidato” dalla società. Ha sofferto qualche forma di malattia mentale, così come gli altri membri della sua famiglia, da parte di madre e di padre, nella cui famiglia ci sono stati diversi suicidi. Quindi non sono d’accordo con questa visione».
Nel suo testo in catalogo Lei ha fatto un excursus storico che ci porta indietro nel tempo, a Zundert, il villaggio di campagna della nascita e dell’infanzia di Vincent. La sua vita tragica è una componente imprescindibile nella valutazione della sua opera?
«La sua vita non era tragica perché colpita da eventi esterni - guerre, carestie, e così via. È stata tragica a causa della sua personalità. La “storia” della sua vita è nota a un’infinità di persone che altrimenti saprebbero poco o nulla di arte, ed è un travisamento. Tanto per cominciare, non si era tagliato l’orecchio, piuttosto, una parte del suo lobo sinistro».
C’è una mitologia intorno alla sua figura, la figura di un perdente, l’uomo comune, l’incompreso che si riscatta dopo la morte, non crede che questo significhi ancora una volta diminuire il valore del suo lavoro?
«La mitologia attorno a Van Gogh ci ricorda senza dubbio la pervasività della visione romantica dell’artista - isolato, incompreso, sottovalutato. Nonostante i molti esempi di artisti completamente diversi, egli sembra avere un particolare e duraturo appeal che non sminuisce il valore dell’opera. Ma dobbiamo ricordare che Van Gogh non voleva vivere isolato e desiderava far parte di una comunità di artisti. Sperava di creare uno “Studio del Sud” in cui gli artisti avrebbero lavorato insieme in una armonia creativa».
Come nasce questa mostra?
«La mostra è stata concepita per Expo 2015, “Nutrire il pianeta”, che punta la sua attenzione sulla terra e il nutrimento. Il tema di “Van Gogh, l’uomo e la terra”, si collega da vicino a queste tematiche. Vincent credeva all’idea di essere un pittore di contadini, in sintonia con la terra e le stagioni, ha creduto per tutta la vita nel legame tra l’uomo e la natura. L’idea che “come si semina, si raccoglie” è stata per lui fondamentale. Un’idea assorbita durante l’infanzia nelle prediche del padre. L’amore della madre per il giardino e per le lunghe camminate nella natura, ha instillato in lui un amore duraturo del mondo naturale che ha mantenuto fino alla fine dei suoi giorni. Si sentiva molto più vicino ai ritmi di vita contadini, in sintonia con le stagioni, che alla vita di città».
Qual è stato il rapporto di Vincent con la spiritualità?
«Aveva una conoscenza approfondita della Bibbia, e se a volte sembra aver voltato le spalle alla religione, non ha mai voltato le spalle ai fondamenti della dottrina. Era una persona profondamente spirituale, anche se non religiosa in senso ortodosso».
Perché Van Gogh è importante?
«Questa è una domanda convincente: cos’è che attira così tante persone al suo lavoro e alla sua storia, perché la gente si muove per la sua arte? In parte penso che sia il riconoscimento delle sue lotte - i suoi tentativi di trovare una direzione alla propria vita, le sue lotte per diventare un artista. Spero che la mostra sia eloquente in questo senso, dalla goffaggine dei suoi primi disegni all’abilità di esprimersi nel colore e nella linea. Forse la sua figura risponde al senso di onestà, integrità e sincerità che il pubblico trova nel suo lavoro. Non vi è nessuna pretesa, nessun atteggiamento. Ogni pittura esprime l’intensità e la convinzione delle sue idee, e questo è ciò che lo rende così commovente. E, naturalmente, il ricco tesoro di pensieri ed emozioni che troviamo nelle sue lettere fa si che ci si identifichi con le sue aspirazioni e la sua vita triste e solitaria. Questo sembra essere parte del suo fascino universale, che trascende ogni barriera geografica e cronologica».
La Stampa 18.10.14
Tra dipinti e disegni la fatica di vivere
50 opere ripercorrono il legame dell’artista con la natura e ne fanno capire la grandezza
di Elena Pontiggia
Chiariamo subito una cosa. La mostra «Van Gogh. L’uomo e la terra», che si apre oggi a Palazzo Reale, non vuole essere una mostra «completa» su Van Gogh, né avrebbe potuto esserlo. Se uno va a vederla aspettandosi di trovare le opere più famose dell’artista, i girasoli, gli iris, e via dicendo cioè quelle opere che si vedono anche nella pubblicità forse potrebbe rimanere deluso. Eppure il ritorno di Van Gogh al milanese Palazzo Reale a 61 anni dalla celebre retrospettiva del 1953 (oggi sarebbe impossibile realizzarla) è ricco di motivi di interesse e permette di approfondire un momento importante del suo percorso artistico.
Quello che la mostra propone lo annuncia già il titolo: punta sulle opere del Van Gogh giovane e su quelle della maturità legate al tema della terra. Paesaggi e nature morte, in gran parte. Come terra, qui si intende l’alma mater, la terra che dà nutrimento (tema anche dell’Expo 2015).
Il primo dipinto è l’Autoritratto, piccolo e quasi sperduto, con cui la mostra si apre. È un’opera tutta impostata sulla tecnica puntinista, ripresa da Seurat. Van Gogh era arrivato a Parigi nel 1886, a trentatré anni, e aveva subito compreso gli orientamenti più vitali del momento. Per lui, però, la stesura a punti e lineette non è un modo per illuminare il quadro, ma i sentimenti dell’io. «Ho cercato di esprimere col rosso e col verde le terribili passioni umane» scrive una volta al fratello Theo. È una dichiarazione di poetica emblematica. Van Gogh sta dicendo che la pittura è troppo importante per lasciarla ai pittori. Anche lui, come molti artisti della sua epoca, ragiona sulle leggi scientifiche della tavolozza: il rosso e il verde di cui scrive al fratello sono, non a caso, colori complementari. Capisce però che consultare le scale cromatiche o le grammatiche del disegno, come dipingere all’aria aperta o in studio, usare le gamme delle terre o quelle dell’arcobaleno, adoprare il chiaroscuro o le ombre azzurre, sono scelte stilistiche che hanno poca importanza, se poi la pittura non esprime la bellezza e la drammaticità della vita.
Van Gogh è stato definito post-impressionista, perché supera la stagione di Monet e compagni, e pre-espressionista, perché anticipa l’epoca dei fauves e della Brücke. Ma lui non era né pre né post. Era un pittore che si interrogava sull’esistenza: non un esistenzialista, intendiamoci, ma un pittore-filosofo.
Dopo l’Autoritratto la mostra - che comprende circa cinquanta opere, provenienti quasi tutte dal Kröller-Müller Museum di Otterlo, oltre a un gruppo di lettere del Museo Van Gogh di Amsterdam– presenta una serie di disegni e di quadri giovanili dell’artista, segnati dall’influsso di Millet. I contadini al lavoro nei campi, o fermi in un ritratto, esibiscono con dignità e perfino con fierezza la loro grama sorte, i volti neri come la terra che coltivano. Van Gogh trova in loro il suo soggetto preferito, quello che ripete con maggior ostinazione. «Zappatori, seminatori, aratori: ora devo disegnarli continuamente. Devo osservare e disegnare tutto ciò che fa parte della vita di un contadino» scrive ancora a Theo. Van Gogh non cerca particolari pittoreschi, scene bucoliche di maniera, pastorellerie edulcorate. Davanti a quegli uomini e a quelle donne si chiede prima di tutto che destino hanno. Non sono un «motivo» da dipingere, sono un motivo per pensare.
Ma continuiamo a seguire il percorso espositivo. Dopo una serie di ritratti, tra cui una versione del Postino Roulin che, visto un po’ dal basso e circondato da un’aureola di fiori, sembra imponente come una divinità, ecco una sequenza di nature morte. Che sono, soprattutto le più tarde, nature vive, disposte in uno spazio inquieto e pericolante. Ed ecco, ancora, i paesaggi, sempre sul tema della terra, con gli agitati e roteanti Covoni che chiudono la mostra. Paesaggio, etimologicamente, deriva dalla radice «pak», la stessa di «pace», ma in Van Gogh nulla è pacifico. Campi e prati, divorati dal sole, sono carichi di trasalimenti e di tensioni. Le nostre.
Van Gogh è uno di quegli artisti che non sono pittori, ma leggende. I requisiti da romanzo in lui c’erano tutti: il suo giovanile rapporto con una prostituta, l’apostolato presso i poveri e i minatori del Borinage, la miseria (anche se non tanta come si è detto), il dissidio con Gauguin che lo spinge al gesto estremo di tagliarsi un orecchio. E poi la pazzia e il suicidio. E’ invece un merito della mostra, col suo tema prosaico e antiretorico, farci dimenticare il Van Gogh tragicamente aneddotico che piace alla gente per restituirci un Van Gogh solo, splendidamente, pittore.
Chiariamo subito una cosa. La mostra «Van Gogh. L’uomo e la terra», che si apre oggi a Palazzo Reale, non vuole essere una mostra «completa» su Van Gogh, né avrebbe potuto esserlo. Se uno va a vederla aspettandosi di trovare le opere più famose dell’artista, i girasoli, gli iris, e via dicendo cioè quelle opere che si vedono anche nella pubblicità forse potrebbe rimanere deluso. Eppure il ritorno di Van Gogh al milanese Palazzo Reale a 61 anni dalla celebre retrospettiva del 1953 (oggi sarebbe impossibile realizzarla) è ricco di motivi di interesse e permette di approfondire un momento importante del suo percorso artistico.
Corriere 18.10.14
Van Gogh, terra mia
Sogno di una natura perduta
La vita contadina È metafora della purezza da raggiungere
di Roberta Scorranese
«I contadini e i pescatori dei piccoli paesi, ovunque si vada, sono diversi. Ricordano la terra, a volte sembra che ne siano plasmati». In quel fluviale dialogo scritto che per tutta la vita lo legò al fratello Theo, Vincent Van Gogh tracciò una metafisica del lavoro rurale che non è mai identificazione. I contadini che descriveva, dipingeva, frequentava nei soggiorni nella campagna del Brabante e poi della Francia, erano altro da sé : erano oggetto di ammirazione, studio, ascolto.
Erano un approdo spirituale: è nella vita nei campi che si nasconde l’intima natura della purezza da raggiungere. È questo il filo che cuce le 47 opere in mostra da oggi a Palazzo Reale in Van Gogh. L’uomo e la terra , un progetto che mette in scena uno degli aspetti più profondi dell’olandese. «Una visione spirituale della terra, che racconta le figure umane, le nature morte e i paesaggi con la stessa lingua», dice la curatrice, Kathleen Adler.
E sembra di vederlo, il fragile Vincent, mentre osserva i contadini «ispidi come uno spinone» che mangiano in silenzio, mani nodose e sporche («Ma un quadro con contadini non deve essere profumato», scrive a Theo). Li vedeva da lontano quando, da bambino, tutta la famiglia faceva lunghe passeggiate all’aria aperta e poi si leggeva tutti ad alta voce. Li vedeva già allora con l’occhio acceso del padre, pastore calvinista, una piccola comunità da tenere insieme in un territorio dominato da cattolici. Li vedeva semplici, puri nella preghiera, stanchi e silenziosi. Certo, come li aveva visti il suo amato pittore Jean-François Millet, il primo ad ideare un’estetica della terra che influenzerà anche Dalí. Ma in Vincent è diverso.
Qui, il Seminatore con cesta e lo Zappatore in un momento di riposo (1881), le Contadine che raccolgono patate (1885) e la litografia che precede il capolavoro del quale porta il nome, I mangiatori di patate , vanno oltre. C’è una santificazione del lavoro, una mistica febbrile della fatica che corre nei tratti durissimi, realistici (com’erano diverse le figure semi idealizzate di Millet) dei volti contadini. Sembrano i protagonisti di uno dei sermoni del padre tutto «rigore, fede e lavoro». Ecco l’evoluzione da Millet, che passa anche attraverso Gustave Courbet, padre del realismo e cantore degli ultimi: Van Gogh fonde la spiritualità del primo con il gusto naturalista del secondo, fino a ottenere quello che voleva: un’allegoria del sacro purificata nel sudore.
«Van Gogh ha cercato spesso conforto nella religione e ha seguito i sermoni del predicatore battista Charles Spurgeon», ricorda Adler. Ma, negli anni in cui Vincent si avvicina alla pittura, dalla fine del 1881, le città europee sono percorse da una vena mistico-sociale: Dostoevskij ha appena pubblicato I fratelli Karamazov , nel 1883 Nietzsche scrive Così parlò Zarathustra e nello stesso anno muoiono Wagner e Marx. Van Gogh matura una visione panteistica della natura, che non poteva però prescindere da una riflessione sul reale, riverberata negli still life come Natura morta con patate o Natura morta con statuetta di gesso e libri — in esposizione.
Nascono così anche i bellissimi ritratti in mostra, primo tra tutti Ritratto di Joseph Roulin (1889): la serenità del postino di Arles non affiora tanto dal personaggio quanto dal gioco di rimandi orientali (i fiori, lo sfondo): Vincent aveva scoperto il Giappone, un’estetica nuova attraverso la quale guardare la sua campagna. «La Provenza è il mio Giappone» dirà mentre aspettava l’amico Gauguin nel Midi. In quell’universo incontaminato (il Paese era appena uscito dall’isolamento durato oltre due secoli, conservando intatti i valori culturali) vedeva una strada dolce e pura per raggiungere una dimensione di assoluta bellezza.
La mostra corre lungo i toccanti scritti di Vincent, che accompagnano le opere. Si legge: «Nell’amore così come in tutta la natura c’è un appassire e un rifiorire, ma non una morte definitiva». Un’intuizione profonda che porta dritti all’ultima parte della mostra, quei paesaggi senza la linea dell’orizzonte che fondono la sensibilità occidentale con la prospettiva libera, tipica dell’arte orientale. Una sintesi? Non sarebbe un termine giusto: ogni fase di Van Gogh è stata una conquista strappata al tempo. Verso la fine, quando sentiva avvicinarsi l’indicibile, scrisse: «Lavoro febbrilmente, di fretta, come un minatore che non vede via di scampo». Anche qui non rinunciò a sentirsi uno degli «ultimi» che aveva raccontato.
Corriere 18.10.14
In quella gioia per i fiori la sensibilità verso gli ultimi
Soggetti minori della pittura, terapeutici per la sua mente
di Francesca Bonazzoli
Sono stati i fiori i prodotti della terra più amati da Van Gogh. Monet con le ninfee aveva semplicemente ingaggiato un ossessivo corpo a corpo con la luce; Van Gogh, invece, dipingeva ogni tipo di fiore perché quell’esercizio gli procurava gioia. «Sto dipingendo con l’entusiasmo di un marsigliese nel mangiare la bouillabaisse, e non ti sorprenderebbe se ti dicessi che sto dedicandomi ad alcuni girasoli. Se riesco a portare avanti questa idea si tratterà di una dozzina di dipinti. L’intero lavoro sarà una sinfonia di giallo e blu», scriveva al fratello Theo nel 1887, mentre si impegnava nella prima delle due serie dedicate ai girasoli terminate con il più audace di tutti gli accostamenti: il giallo dei petali su fondo giallo. L’apoteosi della gioia, motivo decorativo pensato per la stanza preparata ad Arles per l’amico Gauguin.
Ma c’erano altre due ragioni per cui Van Gogh dipingeva tanti fiori. La prima va ricercata nel fatto che erano, da secoli, il soggetto umile dell’arte — tema minore rispetto alla pittura di figura, religiosa o eroica — quasi un passatempo per dilettanti, accusa da cui si era dovuto a suo tempo difendere anche Caravaggio. Questa semplicità piaceva a Van Gogh che, per la sua sensibilità verso gli ultimi, aveva trascorso la prima parte della vita fra i minatori del Borinage condividendone gli stenti. Sempre a corto di soldi e dipendente economicamente dagli aiuti del fratello, i fiori erano inoltre un soggetto cui poter attingere senza affrontare la spesa per i modelli che van Gogh faticava a trovare fra i conoscenti. «Mi sono mancati i soldi per pagare dei modelli, altrimenti mi sarei dedicato completamente alla pittura di figura, ma ho fatto una serie di studi sui colori dipingendo semplici fiori, papaveri rossi, fiordalisi, myosotis; rose bianche e rosa, crisantemi gialli» racconta l’artista.
La seconda ragione era il fascino esercitato su di lui dalle stampe giapponesi, molto ben conosciute da Van Gogh che aveva fatto per un periodo il commesso presso il più grande mercante d’arte del tempo, Goupil. In quelle stampe c’erano fiori dappertutto che diventavano protagonisti, come mai si era visto prima nella pittura occidentale, e come Van Gogh ha rifatto, per esempio, nel suo splendido ramo di mandorlo fiorito che occupa l’intera tela come un arabesco: petali perlacei che si stagliano in un cielo turchese dipinti in occasione di un altro motivo di gioia: la nascita del nipote. Anche gli iris del Paul Getty Museum, con gli steli sinuosi in primo piano mossi dal vento, sono un’idea mutuata dagli artisti del Sol Levante che non amavano, come succedeva invece nella pittura occidentale, ritrarre il vaso di fiori recisi apparecchiato in una tavola elegante. La natura aveva una sua propria bellezza, assoluta, senza dover diventare, come nelle nostre nature morte barocche, una decorazione di lusso.
E infine non bisogna dimenticare le volte in cui Van Gogh ha usato i fiori per riempire lo sfondo dei ritratti: da quello di Madame Augustine Roulin a quello di suo marito, il postino Joseph Roulin. Solo Matisse, dopo di lui, sarà altrettanto audace. I fiori furono dunque una terapia della gioia, un alleggerimento per la mente, una liberazione del talento e della creatività, una fuga dalle ossessioni negative, dopo il periodo scuro in cui Van Gogh aveva tentato di mettere la pittura al servizio della sua missione umanitaria, celebrando la fatica di contadini e minatori con i toni bruni della scuola olandese di Rembrandt e Hals. La scoperta del colore avvenne proprio grazie all’esercizio sui fiori, ricercando le contrapposizioni del blu con l’arancione, del rosso con il verde, del giallo con il violetto. Chissà se Allen Ginsberg conosceva questa storia quando nel 1965 coniò il termine «flower power».
Corriere 18.10.14
I campi color caffé, poi gli alberi blu
Nelle campagne per cercare se stesso
di Giovanni Montanaro
È solo un ragazzo di ventisei anni, i capelli rossicci, gli occhi azzurro pallido, i vestiti laceri, stanchi. È scontroso e disoccupato. Ha un curriculum non dei migliori. L’hanno licenziato da una scuola elementare perché è incapace di incassare le rette dalle famiglie degli alunni. L’hanno allontanato dalla galleria d’arte dello zio perché sconsiglia di comprare i quadri che vende, che non gli piacciono. Ha ottenuto un contratto a termine, di sei mesi, per predicare nel Borinage, la zona mineraria del Belgio. Non gli viene rinnovato; non sta bene che un pastore venda i suoi beni, dorma sul pavimento, si cosparga la faccia di cenere per somigliare a quelli che riemergono la sera da sottoterra.
È il marzo del 1880 e Vincent van Gogh si mette a camminare. È il suo modo per mettere in ordine le idee. Niente di strano. A chi non capita, ogni tanto, di voler solo uscire, anche senza darsi una meta. Solo per far camminare un po’ tutti i dolori, i dispiaceri, le domande, le cose che non si capisce ancora che posto hanno nella vita. Che poi si arriva in un punto, e si sente che si deve tornare. E così va a finire che si decide la casa, il posto dove si deve stare. È che Van Gogh è fatto a modo suo, esce e cammina per ottanta chilometri. Va verso Courrières, in Francia, dove vive Jules Breton, un paesaggista vivido ma di maniera. Van Gogh ha sempre amato quello che lui stesso chiama «il paese dei quadri». Non sa ancora che finirà per abitarci; non ha mai dipinto nulla, solo qualche acquerello. Ma le sue torrenziali lettere ai familiari si interrompono spesso; quando le parole non gli bastano, fa un disegno.
Così, scrivendo a Theo del 24 ottobre 1880 ricorda quel pellegrinaggio decisivo. La piana è inospitale, brulla, ma la neve si sta ritirando, escono i colori. La terra è color caffè, più chiara di quella che conosce lui. Il cielo si fa terso, allontanandosi dal carbone. Ci sono campi giallo-verdi, pruno e torba. Van Gogh bivacca dentro le carrozze o, più spesso, all’addiaccio. Le case sono rare. Le persone povere. Quando arriva allo studio di Breton, si ferma.
Certo, raggiungere la meta, arrivare all’appuntamento, mette sempre paura, che tutto finisca, di non sapere cosa fare, di non essere all’altezza. Ma per Vincent è soprattutto una delusione. Scruta l’edificio; nuovo, geometrico, pulito, le finestre chiuse, banale. No, l’arte non abita lì. Van Gogh torna indietro. È fatto a modo suo: ottanta chilometri per andare da Breton e neanche lo saluta. Ma è intorno a quella passeggiata, nel quel lungo periodo — quasi un anno — di cui si sa poco o nulla della sua vita, che Van Gogh scriverà a Theo: «Riprenderò in mano la matita». Diventerà pittore. È una svolta dolorosa; trovare se stesso lo condanna per sempre, alla povertà, alla solitudine. Al colore. In qualche modo, preferisce la natura allo studio di Breton, e capisce che l’arte sta dappertutto, che gli alberi invecchiano e dicono come gli uomini, e le radici possono essere blu, se gonfie di vita, e le case gialle, quando sono spaventate. Dipende da chi le vede. Vincent non smetterà mai di camminare.
Cambierà spesso modo di dipingere; cambierà lui e, insieme, quel che ha intorno. Per dire, solo nella campagna di Arles troverà i colori che ha sempre cercato davvero, quella luce calda che al Nord non esiste. E solo dopo il manicomio di Saint-Rémy sentirà davvero il tempo, vedrà che il suo cielo si è riempito di corvi. Ma questo è, in fondo, Vincent van Gogh. Che dipinga un girasole o un ramo di mandorlo, il vuoto di una sedia o il volto di una donna, c’è sempre lui. E, chissà come è possibile, ci siamo sempre anche noi.
Repubblica 18.10.14
Van Gogh, alle origini della rivoluzione
di Valentina Tosoni
qui
Repubblica 18.1.14
Van Gogh Il genio inquieto che ricreò l’uomo e la terra con i suoi colori
di Fabrizio D’Amico
DA MOLTO prima d’aver deciso che sarebbe stato un pittore, da quell’inverno del 1876 in cui – lasciato per sempre l’impiego sicuro presso la casa d’arte Goupil, che gli aveva consentito di dar ordine per un attimo a una vita battuta sempre dall’ansia, e di conoscere L’Aia, poi Parigi e Londra, con i loro musei — predica per la prima volta in un’aula metodista di un sobborgo operaio di Londra, Vincent Van Gogh ha parlato con un cuore troppo gonfio d’amore perché chi lo ascoltava potesse davvero capirlo. Era stato poi sempre così: con il padre, con le donne, con i preti, con i poveri cui voleva destinare la propria esistenza. Solo a Theo, uno dei fratelli più giovani, riusciva a dire una parte di sé; e poi, gli sembrava, a Hugo, a Dickens e a Zola, a Delacroix e a Millet, a Shakespeare, alla Bibbia...
Tanto che quando tutti, finalmente, lo riconobbero per pazzo, fu quasi una liberazione: «Sono deciso ad accettare tranquillamente il mio mestiere di pazzo», scrive a Theo. È una resa. Come lo è ancora, poco dopo, quella testimoniata nelle lettere. Una parte di queste è oggi esposta al Palazzo Reale di Milano nella mostra Van Gogh. L’uomo e la terra ( Expo Milano 2015 è partner dell’esposizione; la curatela è di Kathleen Adler) accanto ai dipinti e ai disegni selezionati nelle collezioni del Kröller-Müller di Otterlo. In una lettera, l’artista quasi implora che gli sia consentito il ricovero all’ospedale di Saint-Rémy : «Non posso ricominciare la stessa vita da pittore che avevo condotto finora (...) subissato dalle critiche dei vicini; né mi sarebbe possibile vivere con un’altra persona, fosse pure un altro artista: è difficile, difficilissimo... Non voglio nemmeno pensarci».
Da Arles in poi, è il Sud, e con esso la rivelazione della luce mediterranea, a sedurlo. È ora il giallo il suo colore, vivido come una fiamma: il giallo che brucia la sua camera di Arles, e che incendia i suoi ultimi incubi a Saint-Rémy. Ma a lui, che è nato nel Brabante olandese, fra i colori scuri di quella terra e il grigio dei suoi cieli bassi e uniti, rimane nel cuore il colore annottato di quella sua prima malinconia: ed è su questo colore e su questa sua immagine che soprattutto insiste la mostra di oggi, indagando il tema della fatica dei contadini, degli zappatori, dei seminatori che furono i suoi primi modelli.
Van Gogh ricorderà sempre, con dolore, i giorni che aveva trascorso con Paul Gauguin ad Arles, e l’automutilazione che s’era inferto per scontare l’offesa fatta, in un accesso d’ira, all’amico, che aveva voluto al suo fianco nella speranza di costruire assieme a lui una solidarietà profonda di pensieri, affetti, lavoro; ma col quale infine l’incipiente malattia mentale non gli aveva consentito di trascorrere serenamente che poche settimane. Gauguin è adesso la sua intera passione, e assieme il suo tormento. È in lui che riconosce, prima di tutto, una “modernità” possibile; un vincolo con quella vicenda della pittura dei suoi giorni con la quale è entrato in contatto forse per la prima volta a Parigi, quando vi giunge nel marzo dell’86.
Lì l’entusiasmo per le nuove scoperte (prima fra tutte, Delacroix) viene un attimo prima della delusione di trovare il gruppo degli impressionisti in preda a gelosie e incomprensioni reciproche. Ammira adesso Monet e Pissarro, che tenta la nuova avventura pointilliste ; Seurat, il dominatore dell’ultima rassegna impressionista del 1886; e le stampe giapponesi di Hokusai e Hiroshige. Ma subito dopo è la cerchia di Charles Laval, Émile Bernard e soprattutto di Gauguin a costituire la sponda cui spera di appoggiare il suo bisogno di solidarietà (a Milano, oggi, si vedano Donne bretoni e il celebre Ritratto di Ginoux). Divengono allora, anch’essi, più che “maestri”, “padri”: a sanare la sua solitudine, il suo bisogno d’essere con altri. E sogna che quei suoi padri siano, comunque, immensi: anche a costo di farli diversi da quelli che essi sono stati in realtà. Così avvenne a Millet; che, anche lui, fu travisato: visto attraverso la lente deformante e banalmente agiografica della biografia di Alfred Sensier, che aveva reso quel grandissimo pittore della terra, e della luce disseminata come polvere lieve sulle figure del mondo, un cantore di buoni sentimenti, e di mani giunte in preghiera. Fino alla fine, nell’ospedale di Saint Rémy, Van Gogh guardò a lui: inseguendolo, copiandone i capolavori, e le incisioni; e dimostrando anche alla fine dei suoi giorni brevi di aver invano voluto e cercato un compagno per la sua pittura. Allo stesso modo, un “padre” era stato Gauguin. Non si nasconde che la sintesi estrema cui Gauguin sottopone il vero di natura finisce per scostare troppo la sua pittura da quella sponda di realtà di cui egli ha invece ancora, e sempre più, bisogno. Ma non è questo che conta: perché Van Gogh cerca in Gauguin un’anima. Che capisce infine di non riuscire a far sua. Questo è stato Van Gogh, negli anni della sua maturità, dal 1885, la data del suo primo capolavoro, I mangiatori di patate, al 1890, quando mise fine alla vita, nel manicomio di Saint-Rémy: una parola detta all’altro, cercando un ascolto; e una sorta di gancio, un rampino gettato sulla realtà, per tirarla a sé. Altrimenti, se guardassimo alla sua vicenda come ad una vicenda prevalentemente linguistica, ci troveremmo a contare, come fece – errando – Francesco Arcangeli, un «incerto alfabeto, fra l’ardimento e l’errore di grammatica », e a guardare «quei colori stesi troppo densamente, troppo ciecamente, perché splendano di vero splendore».
Repubblica 18.10.14
Le confessioni sulla sua pittura al fratello Theo
Il carteggio di Vincent ne rivela la cultura e il rapporto costante tra la scrittura e le opere su tela
di Franco Marcoaldi
QUASI 900 sono le lettere che Van Gogh ci ha lasciato: più o meno la stessa quantità di quadri e disegni, ricorda Stéphane Guégan nel saggio per il catalogo della mostra di Milano. È la dimostrazione plastica del rimbalzo continuo tra l’attività del pennello e la riflessione affidata alla penna; un’osmosi felicissima e irripetibile tra colori, segni e parole. Molte sono rivolte al fratello Theo, tra cui quella celeberrima del 19 giugno 1789, nella quale Vincent dà una definizione di arte a cui resterà per sempre legato: un inesausto corpo a corpo tra l’uomo e la natura, con l’artista impegnato a svelarne l’arcano.
Se nella mostra milanese si dà così ampio spazio alle lettere non è soltanto per via della coincidenza numerica tra missive e quadri, ma perché mai o quasi mai il carteggio di un pittore risuona altrettanto potente, completo, profondo. Basta leggere l’edizione antologica curata da Cynthia Saltzman (Einaudi). Vi si incontra un artista immenso che riflette con ardore e acume sul proprio lavoro, accompagnando le lettere con schizzi coevi; un uomo sfortunato che si dibatte nei mille problemi quotidiani di un’esistenza drammatica; uno scrittore suo malgrado, che scrive magnificamente ed è capace di squarci metafisici sorprendenti. Van Gogh è convinto della necessità di ragionare sulla pittura a partire dalle parole. Uomo colto – che maneggia la Bibbia come Shakespeare – Vincent si sofferma sovente sulla necessità di imparare a leggere per imparare a vedere, e viceversa. A fronte dell’intuizione baudelairiana che vuole la pittura moderna quale ininterrotta rêverie, Van Gogh, scrive ancora Guégan, «inverte, a modo suo e a proprio uso e consumo, il vecchio principio oraziano dell’ ut pictura poësis e si chiede come impadronirsi della superiorità del poeta, che consiste nella folgorazione delle immagini e nella loro capacità di illuminare istantaneamente lo spirito».
Questo è il corno alto, sublime della questione. Poi c’è il pittore terragno, che ama alla follia Millet, gli zoccoli ai piedi e la terra che sta sotto. E che quando raffigura i mangiatori di patate, vuole restituire l’idea «di come questa gente (…) avesse zappato la terra con quelle stesse mani poggiate nel piatto. Il quadro evoca quindi il lavoro manuale e l’idea che questi contadini si siano guadagnati onestamente il proprio cibo». Per ottenere tale risultato è necessario individuare con il massimo scrupolo il colore preciso della terra e dei volti di chi la lavora. Ed ecco Van Gogh che cerca la “nota” giusta e domanda a Theo con fare imperioso: «lo sai cos’è un ton entier e cos’è un ton rompu? Certamente sei in grado di vederlo in un quadro, ma saresti ugualmente in grado di spiegare cosa vedi? ». Aggiungendo: «Le leggi dei colori sono indicibilmente belle proprio perché non lasciano alcuno spazio al caso». Così come non crediamo più ai miracoli, né a un Dio «capriccioso e dispotico che salta di palo in frasca», allo stesso modo in arte «bisognerebbe non dico abbandonare le vecchie idee del genio innato, ispirazione eccetera, ma analizzarle per bene, verificarle e cambiarle notevolmente ». Basterebbe questo breve passo a smontare il cliché del Van Gogh tutto follia e sregolatezza. La pittura è studio, applicazione, ricerca. È fatica, come fanno fatica i contadini quando lavorano i campi.
Corriere 18.10.14
Quarantasette opere in un percorso che guarda all’Expo
A Palazzo Reale di Milano, fino all’8 marzo 2015, la mostra Van Gogh. L’uomo e la terra . Promossa dal Comune di Milano-Cultura, organizzata e prodotta da Palazzo Reale, Arthemisia Group e 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE in collaborazione con Kröller-Müller Museum, è curata da Kathleen Adler e realizzata anche grazie al contributo Gruppo Unipol, main sponsor. Con il sostegno di: Viabizzuno, Trenitalia, Trenord, Atm, UNA Hotels, Canale ARTE e Miffy, sponsor tecnici, e di Publitalia ‘80, Coop Lombardia, la Rinascente e Radio Montecarlo. Sono 47 le opere. Catalogo: 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE. L’allestimento è di Kengo Kuma. La mostra partecipa a Milano Cuore d’Europa , il palinsesto culturale promosso dal Comune di Milano. Il titolo rimanda al tema di Expo 2015, partner della mostra. Prenotazioni: tel.
02 54913, ticket.it/vangogh. Biglietti: intero € 12, ridotto € 10. Social: twitter.com/24Cultura, hashtag: #VanGoghMi. Info su vangoghmilano.it
Corriere 18.10.14
Fondation Vuitton, sede da 100 milioni
La nuova avventura di Gehry è un vascello nel bosco di Parigi
di Stefano Bucci
PARIGI L’ombra del Guggenheim di Bilbao, uno degli edifici simbolo del XX secolo e di un modo più moderno di intendere gli spazi dell’arte, aleggia sulla Fondation Louis Vuitton di Parigi, il nuovo progetto firmato dallo stesso architetto del Guggenheim Bilbao. Frank O. Gehry lo ha presentato ieri nella sua dimensione (quasi) definitiva: 11 mila metri quadrati di superficie, quasi 4 mila di vero e proprio museo, 11 gallerie per mostre e esposizioni temporanee che dovranno celebrare in contemporanea la collezione della Fondazione e quella privata del suo mecenate, Bernard Arnault (la sovrapposizione delle due collezioni rappresenterà uno degli elementi caratterizzanti dell’operazione). Inoltre, un auditorium da 350 posti: primo concerto, Lang Lang.
Un progetto complessivo (opere d’arte incluse) da 100 milioni, scaturito proprio nel 2001 dalla visione del Guggenheim Bilbao, da parte del patron della Fondation e di Lvmh, e dalla volontà di riprodurlo alle porte di Parigi, in mezzo al Bois de Boulogne, a fianco del Jardin d’Acclimatation, in bilico tra la Torre e i grattacieli de La Defense.
Il risultato assomiglia stavolta a un vascello, più leggero e luminoso del modello che l’ha ispirato. Sempre al vascello richiamano le 12 enormi vele di vetro che fanno da tetto e, forse ancora pensando al vascello, Gehry ha scelto l’acqua come segno ulteriore: l’acqua che scorre verso il Grotto, lo spazio sotterraneo dove adesso ha trovato posto l’installazione di Olafur Eliasson; l’acqua come elemento vitale dei pesci (firmati sempre da Gehry) che, sospesi, decorano il ristorante Le Frank.
«Ho amato sempre Parigi — ha assicurato ieri l’ottantacinquenne architetto — e in particolare ho amato Saint Sulpice, Palais Royale e il vino francese. Questo è per me un luogo speciale, che non sarà mai definitivamente completato, ma che crescerà e cambierà con i visitatori e con l’arte che vi verrà esposta».
Chiuse le polemiche che hanno fatto slittare l’apertura dal 2010 a oggi, la Fondation può oggi contare anche su un accordo con la municipalità che — ha spiegato Jean-Paul Clavier, consigliere di Arnault — consente a Lvmh di utilizzare l’edificio per 55 anni mentre dal 2062 Parigi ne diventerà proprietaria. Nell’attesa Suzanne Pagé, direttore artistico della Fondation, ha presentato una prima traccia del calendario espositivo: «Dovrà essere uno spazio di incontro fra ogni forma di espressione e di creatività». Si parte dunque con una mostra sul progetto di Gehry curata da Frederic Migayrou, lo stesso della mostra sull’architetto in corso al Centre Pompidou; poi a dicembre toccherà a Olafur Eliasson. In contemporanea saranno invece esposti, a rotazione, i lavori commissionati dalla Fondation (tra gli artisti: Janet Cardiff, Sarah Morris, Ellsworth Kelly, Andrian Villar Rojas) e quelli della collezione, privata e no, di Arnault (Gerard Richter, Isa Genzken, Christian Boltansky).