sabato 5 giugno 2010

Ansa 4.6.10
Libri: Letteratura italiana e cinese in volume double face
ROMA, 4 GIU - Un volo parallelo attraverso i millenni, tra culture e identita' molto diverse. Da Confucio a Shanghai Baby, dalle opere latine di epoca romana al Nobel Dario Fo. E' 'La rosa e la peonia' un libro ''double face'' con il fior fiore della letteratura italiana e di quella cinese, pubblicato da L'Asino d'oro edizioni. Testo bilingue, a cura della studiosa Valentina Pedone, docente di letteratura cinese all'Universita' di Firenze e di Urbino, il libro e' destinato alle nuove generazioni, gli insegnanti, gli studenti, i mediatori culturali, e inaugura una nuova collana 'Cina' della casa editrice di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli. Dalle iscrizioni degli indovini sui gusci di tartaruga, tracciate all'epoca della arcaica dinastia Shang, ai romanzi erotici degli anni 2000 alle popolarissime eroine della narrativa web. La storia della cultura e letteratura cinese, da un lato, nei suoi passaggi piu' salienti e dall'altro, quella delle principali vicende letterarie italiane, sono ripercorse nel volume. Scritto in due lingue, questo libro, a cura di Valentina Pedone, e' curato per la parte cinese da Wei Yi, insegnante di letteratura italiana contemporanea presso l'Universita' di Lingue Straniere di Pechino. ''La rosa e la peonia - spiega nella postfazione Valentina Pedone - e' rivolto a tutti coloro che incontrano quotidianamente culture diverse dalla propria, a lettori curiosi ed entusiasti, a chiunque voglia conoscere, imparare e crescere nutrendosi di pluralita'''.

Agi 5.6.10
Libri: È uscito La rosa e la petunia, double face italia Cina
Roma, 5 giu. - Un libro bilingue e 'double face' che racchiude il fior fiore della letteratura italiana e di quella cinese: da Confucio a Shanghai Baby, dalle opere latine di epoca romana al Nobel Dario Fo. E' 'La rosa e la peonia' per le edizioni 'L'Asino d'oro', della studiosa Valentina Pedone in libreria in tutta Italia da venerdi' 4 giugno. Destinatari: le nuove generazioni, insegnanti, studenti e mediatori culturali. Scritto in due lingue, il libro della Pedone, ricercatrice e docente di letteratura cinese presso l'Universita' di Firenze e di Urbino, e' un'opera, dunque, "double face". E "inaugura una nuova collana della casa editrice di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli - si legge in una nota - dedicata a letteratura, poesia e saggistica dell'immenso paese orientale dal titolo 'Cina'. La rosa, elegante e profumata, e la peonia, la rosa senza spine, fiore tradizionale della Cina (ne esistono oltre 600 specie), che puo' vivere anche trecento anni, si dividono il fronte e il retro dell'agile volumetto rosso, con due distinte copertine e testi in italiano e in cinese: un modo originale per mettere in comunicazione tra loro cultura e identita' di due Paesi molti diversi e lontanissimi uno dall'altro. I principali eventi letterari di oltre 4000 anni di civilta' cinese, in lingua italiana, si combinano quindi con i "caratteri" ideografici, che narrano invece le tappe fondamentali della storia della letteratura del nostro Paese. Da Confucio a Shanghai Baby, passando per la letteratura nell'epoca maoista, le fasi storiche e artistiche della "Terra di Mezzo" si ibridano in poche pagine, attraverso le epoche, con quelle italiane: una carrellata che va dalla letteratura in latino di epoca romana, fino al premio Nobel Dario Fo, la cui prima piu' evidente differenza si manifesta, per significato e suono, nelle immagini della scrittura". Il libro, spiega la Pedone, e' rivolto "a tutti coloro che incontrano quotidianamente culture diverse dalla propria, a lettori curiosi ed entusiasti, a chiunque voglia conoscere, imparare e crescere nutrendosi di pluralita'. Ai tanti piccoli cittadini cinesi che si incontrano nelle scuole e nelle piazze delle nostre citta', che parlano benissimo l'italiano, che si sentono italiani, che riescono a confrontarsi con tutti senza chiedersi nulla e che sarebbe bello sentire parlare anche in lingua cinese". (AGI) Pat

Agi 5.6.10
Cultura: Bonino, riconoscere identità umana della donna
Impegnata da sempre, 'solitaria e testarda', nelle battaglie sociali e civili per elevare la condizione della donna considerata al piu' un oggetto, Emma Bonino, oggi alza la posta: e' il momento di riconoscere 'l'identita' umana' della donna. Ed ecco che "l'equiparazione dell'eta' pensionabile nel pubblico impiego e' una manovra che l'Europa ci chiede da tempo per ripristinare equita' sociale e per evitare che con risarcimenti pelosi si perpetrino danni nei confronti delle donne che non hanno alcun vantaggio da una uscita anticipata dal mercato del lavoro", si integra con "la difesa" della RU486 quale "scelta insindacabile" della donna e dell'aborto terapeutico contro l'aborto clandestino. "Non e' l'aborto il diritto ma la scelta - precisa - di una maternita' consapevole". Lunedì 7 giugno la Bonino, insieme ad esponenti del Pd di Roma, Giulio Pelonzi e Gianluca Santilli, discutera' sul libro 'L'identita' umana' e la nuova politica di Livia Profeti per le edizioni 'L'asino d'oro'. Ci tiene pero' a precisare che dalla equiparazione dell'eta' pensionabile, una delle battaglie dei Radicali portate avanti in 'solitudine', non verra', "nessun vantaggio se non quello di dover continuare a fare le funambole per ovviare a servizi di assistenza e cura totalmente insufficienti e per giunta avere, per via di una norma anacronistica, qualcosa che sancisce di diritto una discriminazione pecuniaria tra uomini e donne". Ed aggiunge, "sono anni che ci battiamo per l'equiparazione ma l'urgenza di questa misura, in questo preciso momento di crisi e di necessita' di reperire risorse, e' ancor piu' lungimirante e opportuna". Emma la laica non ci sta a ridurre la donna al ruolo di "moglie fedele, madre di famiglia sempre contenta" o di "belle signorine bizzarramente vestite accanto a uomini vestiti di tutto punto" o "manager, che vuole fare carriera, odiosa antipatica e respingente". Insopportabile dunque l'idea della donna relegata a custode del focolare domestico. Ci sono in questo paese, che "si muove guardando lo specchietto retrovisore - ricorda - i teocretini che pare abbiano solo loro valori da difendere". Ma lei la 'fluoriclasse' di Pier Luigi Bersani che ha battuto a Roma con il 54,18% di voti Renata Polverini, non cede di un millimetro, "dico quel penso e faccio quel che dico", ripete. Si' proprio come quella "nobile onesta intelligente 'razza' azionista e giellista", cui appartengono i Radicali. I 'solitari e cocciuti', di ieri erano persone come Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Emilio Lussu, Altiero Spinelli e l'Ingegenere 'acomunista', Riccardo Lombardi che fa parte della "nostra comunita' capitiniana", conclude, quella della non-violenza. (AGI) Pat

l’Unità 5.6.10
A Gaza, dove s’impara
a sopravvivere senza cibo né acqua
Cresce l’attesa mentre si avvicina la nave Rachel Corrie, ultima della Flottilla L’embargo è sempre più stretto. Ora sono vietati anche sapone, cemento persino carta igienica, spazzolini da denti e ceci. Il dramma dei bambini
di Umberto De Giovannangeli

Ragazzini. Un milione e mezzo di abitanti, il 54% ha meno di 18 anni
La sete. Il 90% dei pozzi è contaminato, si compra da bere dai privati
La fame. Tra le merci proibite anche pasta, riso datteri e marmellata
Hamas. È ovunque, controlla l’economia dei tunnel e le opere «caritatevoli»
La Flottilla. «Quei morti per noi sono degli eroi sono shahid, martiri»
Shayma, 13 anni: «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, ora non posso studiare»
Muhammad, 7 mesi: «È morto perché con l’embargo non abbiamo strumenti per operare»

Nemmeno al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» in questa prigione sventrata, con le fogne a cielo aperto, con i bambini che giocano a scalare montagne di rifiuti in una gabbia ridotta ad un cumulo di macerie, isolata dal mondo. Il caldo soffocante moltiplica il bisogno di acqua. Quasi un miraggio, un bene divenuto di lusso dopo tre anni di embargo. Perché nella Striscia il 90% dei pozzi è chimicamente contaminato e l'acqua di casa non è potabile, per cui la gente è costretta a comprare acqua da privati. Neanche al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» a Gaza. Di vivere in un paesaggio lunare, fatto di crateri che si susseguono per chilometri. Tra quelle macerie, dentro quei crateri si muove una umanità sofferente che scruta il mare perché dal mare può arrivare la Speranza, sotto forma di navi della libertà, come quelle assaltate dagli uomini rana israeliani l’altra notte.
La realtà di Gaza supera ogni metafora – prigione, gabbia, inferno utilizzata per raccontare di una striscia di terra popolata da un milione e mezzo di persone – 1.527.069 secondo l'ultimo censimento in maggioranza (il 54%) sotto i diciotto anni. Gaza dove –secondo una recente ricerca dell'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi)il numero delle persone che non hanno alcuna sicurezza per l'accesso al cibo e che non dispongono dei mezzi per procurarsi i beni più essenziali come il sapone o l'acqua pulita, è triplicato dall'imposizione del blocco nel giugno 2007. Gaza, dove 300mila rifugiati vivono in condizioni di povertà degradante contro 100mila all'inizio del 2007, con un tasso di disoccupazione tra i più alti al mondo: 41,8%. Gaza, dove il blocco –denuncia la Croce Rossa«continua ad ostacolare gravemente» il trasferimento nella Striscia di attrezzature mediche essenziali, ponendo a rischio le cure immediate e le terapie a più lungo termine di migliaia di pazienti. Gaza, dove il 90% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari distribuiti dalle agenzie dell'Onu.
Per entrare all’inferno devi superare a piedi –dopo un meticoloso controllo con fantascientifiche apparecchiature elettroniche da parte israelianail valico di Erez. Sono trecento metri in una terra di nessuno. Lo sguardo abbraccia un orizzonte fatto di macerie. E di bambini. Che camminano tra le rovine degli oltre 4mila edifici distrutti dall’aviazione e dall’artiglieria d’Israele nei 22 giorni dell’operazione «Piombo Fuso»: di quei 4000mila edifici, solo una minima parte sono stati ricostruiti. A Gaza manca il cemento per farlo. Israele ne proibisce l'entrata per timore che serva a ricostruire le infrastrutture di Hamas. Il cemento come mille altre cose: dalla fine di gennaio ci sono restrizioni su carburante, gas per cucinare, materiali per costruire. Poi a febbraio qualcuno ha denunciato che Israele bloccava anche i datteri, le bustine da tè, i puzzle per bambini, la carta per stampare i testi scolastici e la pasta (per Israele non è considerato bene umanitario, solo il riso lo è). Ora nella lista dei materiali proibiti sono entrati anche carta igienica, sapone, spazzolini e dentifricio, marmellata, alcuni tipi di formaggio e i ceci per fare l’hummus. Mancano a Beit Hanoun, a Rafah, Khan Yunis. E ancora: Jabaliya, Bureli, Al Nusayrat, Mughazi, Dayr al Balah, fatiscenti campi profughi trasformatisi in asfissianti centri urbani. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da quel 27 dicembre 2008 (inizio dell'offensiva israeliana); 18 mesi dopo, Hamas continua a restare padrone di Gaza. Padrone di una «prigione», ma pur sempre padrone incontrastato.
L'embargo non ha indebolito il movimento islamico. Hamas è ovunque. Nelle organizzazioni «caritatevoli» che dispensano un acconto di cento dollari -un’enormità per chi (oltre 950mila persone) vive sotto la soglia di sopravvivenza– ad ogni famiglia colpita dal fuoco israeliano. Hamas presiede all'«economia dei tunnel», quella che si dipana sottoterra, nella miriade di gallerie che dalla frontiera con l'Egitto (il valico di Rafah riaperto da Mubarak dopo l'assalto alle navi della Freedom Flotilla), fanno arrivare a Gaza merce di ogni tipo. Hamas si è appropriato politicamente delle «Navi della libertà». Almeno diecimila persone hanno partecipato alle manifestazioni organizzate ieri nella Striscia dal movimento islamico contro il blocco israeliano e a sostegno della Freedom Flotilla: a sventolare, per ordine di Hamas, sono bandiere palestinesi e turche. Affianco ai ritratti di sheikh Ahmed Yassin –fondatore di Hamas ucciso dagli israelianicompaiono quelli del «nuovo amico del popolo palestinese», il premier turco Erdogan.
Quello a Hamas è un consenso impastato di rabbia, paura, dolore. Alimentato da una rivendicazione di libertà repressa nel sangue. Per anni Ahmed Al-Jaru aveva sognato il mare, pur vivendo a poche centinaia di metri dalla distesa azzurra. Ma Ahmed e i suoi 9 bambini non potevano arrivarci perché a separarli dal mare c'erano i soldati israeliani che presidiavano uno degli undici insediamenti ebraici nella Striscia. Ora Ahmed e i suoi bambini li incontriamo al vecchio porto di Gaza City. Lui era lì la notte che la festa si è trasformata in tragedia. Era lì assieme a Faisal, Mahmud, Abdel, Zaira, e ad altre migliaia che attendevano la Freedom Flotilla. C'era anche una banda musicale per far festa... Ma a Gaza festeggiare è un sogno irrealizzabile. «Quei pacifisti sono eroi, shahid (martiri), e gli israeliani degli assassini», dice Faisal, 14 anni, il padre ucciso nella seconda Intifada. C'è chi affida il suo pensiero a Internet. È Ola, blogger di Gaza. «Per coloro che pensavano che l'era dei pirati fosse finita... o che rimanesse confinata alla fantasia dei film di Hollywood... Ripensateci. Voi, i martiri della Flotta della Libertà...Gaza voleva accogliervi come vincitori...ma il paradiso vi riceverà come martiri...Le onde del mare e i gabbiani e il tramonto piangono tutti per voi...». «Allah li accolga nel Paradiso degli shahid», le fa eco Yousef, che per sfamare la sua famiglia di undici persone ha ingrossato le fila dell'«esercito» di uomini-talpa che lavorano sottoterra al confine con l'Egitto. Un collega della Tv francese prova a dirgli: non dovete perdere la speranza. La risposta di Yousef è un pugno allo stomaco: «Non possiamo perdere una cosa che non abbiamo».
C'è animazione al porto. Si è sparsa la voce che un’altra nave di Freedom Flotilla la «Rachel Corrie», con a bordo la Premio Nobel per la pace, l'irlandese Mairead Maguire, e il suo connazionale Denis Halliday, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite è in avvicinamento alle coste di Gaza. «Siamo partiti per consegnare questo carico alla popolazione di Gaza e quello intendiamo fare è forzare il blocco di Gaza... Non abbiamo paura», fa sapere dalla nave, Mairead Maguire. La nave è carica di materiale da ricostruzione, 20 tonnellate di carta e molti altri prodotti che Israele rifiuta alla popolazione della Striscia. «Di navi ne dovrebbero arrivare cento al giorno per portarci via di qua», sussurra Zaira, dieci anni che tiene per mano il fratellino Yasser, tre anni. A Gaza le prime vittime sono i bambini. Bambini come Shayma, 13 anni, la cui casa è stata distrutta 18 mesi fa dai bombardamenti israeliani e ancora oggi vive con sei fratelli in una baracca di lamiere. Fredda d'inverno, torrida d'estate. «Ho smesso di fare le cose che mi piacevano, disegnare, giocare – dice Shayma -. Non mi piace neanche più guardare la televisione». Shayma ha solo tredici anni, ma il suo sguardo, la sua voce raccontano di una infanzia sfiorita nell'inferno di Gaza. «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, avevo buoni voti, adesso non lo sono per niente e ho paura che non riuscirò più a diventare dottore...». Anche Mahmud, 15 anni, ha perso la casa e ora vive in una tenda: «Non ho più sogni. Vorrei sentirmi come se avessi di nuovo una casa». Dalla prigione non si esce. Nella prigione si può solo morire. Anche se non hai alcuna colpa. Anche se hai solo sette mesi. Con le lacrime agli occhi, Yasmeen mi mostra una foto di Muhammad, il suo bambino. Due occhioni neri, un sorriso che apre il cuore. Ma il cuore di Muhammad Akram Khader non batte più. La sua morte – spiega Mu'awiya Hassanein, direttore generale dei servizi di Pronto soccorso nella Striscia è avvenuta a causa di un rigonfiamento del cervello, che richiedeva cure disponibili solo fuori Gaza a causa dell'embargo.
Muhammad è morto dopo che alla sua famiglia non è stato permesso di ricoverarlo in ospedali israeliani.
«Noi bambini diversi» Cosa sia crescere a Gaza, lo racconta Sani Yahya: un missile sparato da un F16 israeliano fece saltare per aria la festa del suo quindicesimo compleanno, uccidendo alcune delle sue sorelle e cugine. A Sany quell'attacco è costato il suo braccio sinistro: «Noi, bambini di Gaza, non siamo come gli altri –dice Sany che incontriamo a casa dei suoi nonni, alla periferia di Gaza City-. Da sempre dormiamo tutti insieme, abbracciati gli uni gli altri nello stesso letto per paura degli F16 che sorvolano di continuo le nostre case. Non parlo solo di adesso, di questa guerra. Noi siamo cresciuti così: senza luce e senz’acqua ogni volta che gli israeliani decidono di tagliarci l’energia; con l’eterna paura degli attacchi di punizione per i missili di Hamas e delle incursioni nelle nostre case. La mia scuola è stata bombardata tre volte in due anni. Non abbiamo diritto ad imparare né a sognare un futuro migliore. Nemmeno alla mia festa di compleanno avevo diritto...”. Il 31 luglio 2009, sulla spiaggia di Gaza, tremila bambini fecero volare in cielo gli aquiloni. Avevano sognato di volare con loro. Superando l'assedio, rompendo l'embargo. Volare via da quell'inferno chiamato Gaza.

l’Unità 5.6.10
La fortezza della paranoia
di Moni Ovadia

L’assetto psicologico che caratterizza i leader dell’attuale governo israeliano è ben rappresentato da una sola frase che il suo ministro della difesa Ehud Barak, il soldato più decorato della storia di Israele, ha pronunciato in occasione del discorso di congratulazione agli uomini del commando che hanno bloccato la Freedom Flottilla con un massacro:«...qui [in Medio Oriente] non c’è pietà per i deboli e non si da una seconda chance a chi non si difende». Eccola qui la Israele-fortezza delle vittime che ha in mente un politico con questa terribile visione. Andando di questo passo forse potrebbe proporre di istituire una Rupe Tarpea per i deboli come i refusnik, i soldati e gli ufficiali renitenti che sono pronti a dare la vita per il loro paese ma non sono disposti a massacrare civili a casa d’altri, o come lo scrittore Amos Oz perché sostiene che l’uso della forza è lecito solo a scopi puramente difensivi e non per colonizzare e schiacciare militarmente un intero popolo, o come Manuela Dviri scrittrice israeliana che ha perso un figlio in Libano per queste parole:« dopo tutto quell’assedio (della striscia di Gaza) figlio dell’ossessione militare e politica al dio della sicurezza, ci costringe a vivere, noi stessi, in un infinito stato d’assedio, chiusi in un invisibile fortino, isolati e condannati dai popoli. Adesso dicono che bisogna spiegare al mondo le nostre ragioni...non c’è nulla da spiegare. C’è solo da fare. C’è da ritirarsi finalmente, e per sempre, dai territori. E da Gaza!» Purtroppo queste parole non toccheranno né i cuori né le menti di questi ottusi governanti e dei loro fan acritici in Israele e nel mondo che vedono in Israele la vittima anche quando il suo esercito occupa e opprime e suoi cittadini colonizzano e rubano terre e vita ai palestinesi. A noi gente di pace e dialogo per rispondere a questa paranoia basta un nome: Itzkhak Rabin.

l’Unità 5.6.10
«Privato è peggio per gli operai della Cina»
La scrittrice: «Ritmi massacranti, molti divieti e straordinari non pagati, meglio le aziende di Stato. Ma oggi i lavoratori cominciano a chiedere»
Intervista a Lijia Zhang
di Marina Mastroluca

Suicidi. «Su internet ho letto commenti di questo tipo: “Perché uccidersi in fabbrica? Meglio organizzare una protesta”»

Per essere una fabbrica non è male. C’è anche la piscina e l’ospedale». Steve Jobs, boss della Apple, cancella con qualche battuta la pubblicità negativa che insudicia l’immagine asetticamente avveniristica del suo ultimo gioiello. Alla fabbrica dei suicidi, quella Foxconn di Shenzhen dove nascono gli I-pad, hanno steso delle reti protettive e assoldato una trentina di monaci buddisti e psicologi per prevenire nuovi tentativi. L’impresa taiwanese che prima aveva imposto ai lavoratori un impegno scritto a non suicidarsi e alle famiglie la rinuncia preventiva a rivalersi sull’azienda ha fatto un passo indietro e ha concesso un aumento salariale. Più soldi e migliori condizioni in fabbrica dovrebbero bastare, questa è anche la speranza del boss della Apple.
Per due volte in pochi giorni la vita nelle fabbriche cinesi è finita sotto la lente dei media. Dopo la Foxconn, in un impianto della Honda i 1900 operai tutti giovani hanno scioperato bloccando la produzione in 4 stabilimenti: paghe troppo basse, chiedevano il doppio dei loro 150 dollari al mese. Per Lijia Zhang, scrittrice e giornalista cinese, operaia ai tempi di Mao, come ha raccontato nel suo libro «Socialismo è grande» (Cooper), è il segno di una maggiore consapevolezza dei lavoratori. Operai che scioperano, non è all’ordine del giorno in Cina.
«In effetti è così, anche se è sicuramente più frequente di quanto non fosse nel passato. Molto dipende dal fatto che i sindacati non funzionano, non difendono i diritti dei lavoratori. Quanto alle proteste alla Honda va detto che i salari nelle fabbriche giapponesi in Cina sono particolarmente bassi, più di quanto non siano in aziende britanniche, o italiane. Ora lo sciopero è finito e sono stati concessi degli aumenti. Ma c’è un’altra cosa interessante...»
E cioé?
«La coincidenza di queste proteste con la serie di suicidi alla Foxconn. Mi è capitato di leggere su internet commenti di questo tenore: “Se non sei contento di come vanno le cose, perché uccidersi? Meglio organizzare una lotta”. Ed è esattamente quello che è successo, con gli scioperi e la richiesta di aumenti salariali. C’è stata poi anche una pressione da parte delle autorità centrali cinesi, perché si prestasse maggiore attenzione ai diritti dei lavoratori. Si è creata una serie di circostanze favorevoli». Solo un problema salariale dietro ai suicidi?
«No, certo. Per esempio alla Foxconn gli operai sono costretti a sottoscrivere la disponibilità “volontaria” a fare straordinari. Ci sono ritmi di lavoro estremamente intensi 12 o più ore di lavoro al giorno davvero un rischio per la salute mentale. In particolare per i lavoratori emigrati, che sono molto soli e si trovano in città dove non si sentono accettati. Guardando ai singoli casi, le ragioni dei suicidi sembrano spesso insignificanti: soldi persi, la rottura con un fidanzato. Ma la ragione vera è la profonda infelicità: sono giovani che speravano di avere in cambio dei loro sacrifici almeno i soldi da mandare a casa ma neanche il denaro è abbastanza». Che cosa è cambiato da quando lei era operaia in una fabbrica? Nel suo libro lei parla di una «polizia mestruale»: un controllo ossessivo nella vita privata degli operai. «Devo dire che io lavoravo per un’impresa statale. Anche oggi le condizioni di lavoro in questo tipo di fabbriche sono spesso migliori che nel settore privato, dove non sempre vengono rispettate le regole. Per esempio non vengono pagati gli straordinari. E ci sono regolamenti interni molto rigidi: non si può parlare, si viene sgridati. Per certi versi si può dire che le condizioni di lavoro siano persino peggiorate rispetto al passato. Ma anche che i lavoratori cominciano a chiedere. E a differenza che nel passato hanno maggiori opportunità di lasciare la fabbrica: io mi sentivo in fondo ad un pozzo. Ora è diverso».
C’è una maggiore consapevolezza dei propri diritti? «Politici non direi. Alla fine degli anni ‘80 c’era l’idea di poter arrivare a riforme politiche. Dopo l’89, dopo Tianamen, non è più così, non c’è questa speranza. Ma c’è sicuramente più consapevolezza dei diritti individuali».
Anche quest’anno ci sono stati arresti in occasione dell’anniversario di Tienanmen. Lei stessa aveva partecipato alle proteste dell’89. È ancora una ferita aperta?
«Non se ne parla. È in qualche modo tabù. I giovani non ne sanno un granché e non solo perché è accaduto 21 anni fa. È perché nessuno glielo ha insegnato».
E per quello che la riguarda, quale è il suo grado di libertà? «Non bisogna immaginare la Cina come un Grande fratello che controlla tutto. È una realtà confusa. Io non mi definisco una dissidente, non appartengo a nessuna organizzazione. Mi limito a scrivere in inglese. E il mio libro non è stato tradotto in cinese. Si può comprare su Amazone, certo, ma la pubblicazione non è mai stata autorizzata».

l’Unità 5.6.10
Vittorio Foa dal carcere all’Europa
La politica intesa come azione, le radici dell’europeismo, la vibrante polemica antirazzista: ecco le lettere di un gigante della sinistra italiana scritte negli otto anni passati dietro le sbarre durante il regime fascista
di Federica Montevecchi

L’epistolario. In otto anni poté comunicare solo con i familiari più stretti

Vittorio Foa riteneva le lettere che aveva scritto dal carcere fascista la memoria di riferimento della sua lunga vita: ne parlava spesso, ne ricordava con precisione brani, che poi voleva rileggere e verificare, e tutte le volte ogni lettura, lungi dal risolversi in un omaggio al passato, apriva inesauribili possibilità di riflessione e di discussione. Questo accadeva non soltanto perché Vittorio viveva la vecchiaia in maniera progettuale, con rare concessioni alla malinconia, ma anche perché il suo epistolario si presta a interpretazioni molteplici. Esso è a un tempo il documento di un'esperienza storicamente fonda-
mentale, la testimonianza indiretta di un mondo, quello della Torino antifascista degli anni ’30 del Novecento, e il resoconto di una educazione politico-intellettuale. L’intreccio di questi aspetti si riflette naturalmente anche nella scelta di lettere (o di parti di lettere) che Vittorio preparò, nell'estate del 2008, per questa edizione: il criterio adottato per tale scelta era riconducibile in primo luogo al bisogno di mettere in risalto quello che egli riteneva essere il suo carattere prevalente, vale a dire quell'identità profonda e invariabile che permane in ogni età e nelle mutevoli espressioni dell’esistenza. Le comunicazioni ai genitori e alla famiglia, le riflessioni, le analisi di libri contenute in questa scelta di lettere mostrano come il carattere prevalente di Vittorio fosse intellettuale: questo era il continuum che costituiva il suo modo di essere e che, per il legame inscindibile di intellettualità e politica, ha trovato necessariamente e coerentemente espressione nei diversi ruoli che egli ha ricoperto nella vita pubblica italiana. Prova di tutto ciò è dunque la vita stessa di Vittorio a partire proprio dall'esperienza del carcere, luogo dove egli trascorse gran pate della giovinezza, dai 25 ai 33 anni. (...)
Negli otto anni, tre mesi e otto giorni di reclusione a Vittorio Foa fu concesso di comunicare soltanto con i famigliari più stretti per mezzo di lettere che inizialmente avevano cadenza bisettimanale e poi, dopo il processo, cadenza settimanale: alcune lettere straordinarie erano permesse in occasione delle festività o per comunicare alla famiglia eventuali trasferimenti. Della corrispondenza di questi anni ossia delle 525 lettere, cinque cartoline postali e un telegramma conservate dai genitori di Vittorio restano 498 lettere e quattro cartoline postali.
Nel carcere fascista per scrivere la lettera era concesso un solo foglio quasi sempre di carta assorbente e a spese del detenuto che con lo scoppio della guerra venne ridotto alla metà; ogni lettera era poi sottoposta al controllo della censura presso la direzione centrale della polizia politica (OVRA) al ministero dell’Interno e lì in alcuni casi archiviata, in altri censurata parzialmente, a volte con inchiostro spennellato, altre volte con i tratti minuti di un pennino. Nell’epistolario sono presenti 103 lettere censurate parzialmente e solo tre di queste più alcune righe di altre due furono lette, all’epoca dell’edizione integrale, nella parte coperta grazie all’impegno dell’Istituto di patologia del libro e della Polizia scientifica; per quanto riguarda le lettere trattenute dalla censura, infine, resta tuttora valida l’ipotesi che si possano ancora trovare negli archivi del ministero dell’Interno. (...) Nelle lettere selezionate per questa edizione le riflessioni di Vittorio su se stesso e sulla sua esperienza carceraria si intrecciano con analisi storiche, economiche e letterarie che mostrano il suo modo di pensare e, al tempo stesso, anticipano alcuni dei temi che resteranno per lui essenziali. (...) È sempre attraverso il richiamo all’azione, alla necessità di una politica che sia tale, e cioè capace di comprendere il proprio tempo e di agirlo, che Vittorio risponde anche alla campagna razziale e al dolore di assistere dal carcere alla dispersione della propria famiglia. (...) Anche in questo momento drammatico Vittorio cerca di capire, di trovare il senso degli accadimenti: interessante a tal proposito è, ad esempio, la lettera del 7 luglio 1938 si afferma l’inutilità delle frequenti conversioni di ebrei al cattolicesimo poiché appariva chiaro che la persecuzione antisemita non aveva carattere religioso ma razzista. (...) Rivendicare l’appartenenza al proprio tempo significa anche condividerne le responsabilità riconoscendo, soprattutto nel caso della campagna razziale, che è solo «la diretta esperienza del male che può dare a noi uomini comuni la piena coscienza del male e della necessità di combatterlo; fuori di quella esperienza si dicono delle belle parole e si dorme».(...)
L’EUROPEISTA RESPONSABILE
Va da sé che la Resistenza e la storia successiva alla seconda mondiale avrebbero mostrato come la lotta contro il nazi-fascismo «richiedeva anche il recupero di quelle identità nazionali che il nazismo aveva tentato di annullare e che erano le precondizioni per avviarsi a disegni più alti». Il fatto stesso che, già all’epoca del carcere, Vittorio fosse un convinto europeista e, al tempo stesso, orgoglioso della sua identità italiana formata sulla memoria risorgimentale (...) è l’esempio più chiaro della duplicità dell’idea di nazione, del fatto cioè che anche le forme politiche più nobili sono soggette a rischi di degenerazione risultando così tanto positive quanto potenzialmente negative. Questa ambiguità, che si riflette inevitabilmente nel linguaggio politico, costituisce un richiamo indiretto alla responsabilità, che per Vittorio Foa era il criterio primo dell’azione politica e punto di vista privilegiato da cui guardare alla storia del Novecento.

Repubblica 5.6.10
La battaglia non è finita
di Stefano Rodotà

Ora che sembra profilarsi una qualche marcia indietro, varrebbe la pena di stilare un impietoso catalogo delle dichiarazioni tracotanti che, nei giorni scorsi e nei luoghi più disparati, erano venute da "autorevoli" esponenti di governo e maggioranza per difendere le norme contenute nel disegno di legge sulle intercettazioni.
Norme di cui si proclamavano l´assoluta necessità e immodificabilità per tutelare i diritti delle persone, l´intangibilità dello Stato di diritto, e via imbrogliando. Sarebbe un buon servizio per i cittadini, almeno per quelli che vogliono mantenere una attitudine critica verso chi li rappresenta e governa. Ma non credo che avrebbe alcun effetto su un ceto politico ormai abituato ad una disinvoltura che sconfina in una sfrontatezza che fa negare l´evidenza, dimenticare le dichiarazioni del giorno prima, dire tutto e il suo contrario. Per questo bisogna mantenere un giusto distacco, essere massimamente cauti di fronte all´annuncio di emendamenti che dovrebbero migliorare quel testo sciagurato.
Costretti a rimettere le mani su norme di cui al Senato si erano addirittura induriti gli aspetti più aggressivi, Berlusconi e i suoi hanno conosciuto una sconfitta politica, resa possibile dal congiungersi di diversi fattori. Una opposizione parlamentare finalmente determinata. Una attenzione vigile di quegli organi istituzionali ai quali spetta sempre il compito di vegliare sul rispetto della legalità repubblicana, questa volta il presidente della Repubblica e il presidente dalla Camera. Un movimento che ha coinvolto direttamente centinaia di migliaia di persone, che si è manifestato nelle piazze virtuali e in quelle reali, che si è progressivamente allargato con una benefica "discesa in campo" dei più diversi gruppi e associazioni, di editori d´ogni parte, del sistema dell´informazione con quasi tutte le sue componenti più significative. Non dirò che proprio da qui, da questa reazione diffusa e determinata, sia venuto l´impulso maggiore. Ma è certo che questa sorta di mobilitazione generale e quotidiana ha dato il senso di una urgenza, di un confine non valicabile, che ha messo le istituzione di fronte a tutta la loro responsabilità, all´impossibilità di girare la testa dall´altra parte.
Vinta una battaglia, però, bisogna sempre ricordarsi che si può perdere la guerra. Per questo occorre mantenere la tensione, essere rigorosissimi nella valutazione delle novità o presunte tali, non correre frettolosamente alla conclusione che comunque qualcosa si è ottenuto e che non è il caso di cadere nel peccato dell´intransigenza. Non è tempo di sconti, non si può finire nella trappola vecchissima di chi chiede mille, finge poi di negoziare, scende a novecento, convince il compratore che questo è "un buon punto di equilibrio" e così porta a casa quasi tutto quello che si era prefisso, illudendo la controparte d´aver fatto un affare. Non si è alzata la voce oltre il giusto, e oggi non è venuto il momento di abbassarla. Si è detto a chiare lettere che si stava consumando un attentato alla democrazia, che vanificare aspetti essenziali del controllo di legalità e imbavagliare l´informazione determinava un cambiamento di regime. È questo il metro che dobbiamo continuare ad adoperare, anche a costo di scontentare quelli che non vedono l´ora di trovare un pretesto per dire che non è più il caso di agitarsi.
Tre sono le istruzioni che debbono guidarci in questa nuova fase. La prima impone di non dare giudizi definitivi prima d´aver letto le proposte della maggioranza: qui, davvero, il diavolo si annida nei dettagli, soprattutto quando si tratta di disciplinare uno strumento importante e delicatissimo qual è quello delle intercettazioni. La seconda riguarda la necessità di guardare all´intero circuito informativo: la limitazione delle possibilità d´indagare porta con sé l´impossibilità di conoscere e rendere pubbliche vicende rilevanti, così come il ritorno a norme più ragionevoli sulle intercettazioni non può compensare il mantenimento di limiti gravi al diritto d´informare e essere informati. La terza suggerisce di non abbandonare la messa a punto di una strategia capace di contrastare efficacemente il permanere di limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero: disobbedienza civile, ricorsi alla Corte costituzionale, lettura in Parlamento dei documenti "vietati".
Da quel che si apprende, l´emendamento della maggioranza conterrebbe alcune aperture per quanto riguarda la durata delle intercettazioni, ma questa possibilità sarebbe accompagnata da una macchinosa procedura che, per i reati ordinari, prevede una richiesta di proroga ogni 48 ore, con evidentissime complicazioni organizzative e con le difficoltà derivanti dall´obbligo di indicare ogni volta ragioni per la prosecuzione dell´intercettazione diverse da quelle prodotte in precedenza. Rimarrebbe immutata la norma riguardante la prima autorizzazione ad intercettare, che dovrebbe essere rivolta al tribunale distrettuale: una procedura motivata con l´argomento che una valutazione collegiale garantisce meglio dal rischio di abusi, ma di cui è stata da più parti sottolineata la irrazionalità. Tre giudici al posto di uno, quando un solo magistrato può addirittura condannare all´ergastolo in caso di rito abbreviato; lungaggini e problemi di sicurezza legati al trasferimento dell´intero fascicolo processuale (anche molti "faldoni") in una sede diversa e lontana da quella delle indagini; difficoltà per le sedi con organico ridotto, perché i magistrati partecipanti all´autorizzazione diverrebbero poi "incompatibili" per la celebrazione dei relativi processi. La necessità di evitare abusi, e di responsabilizzare maggiormente i magistrati, rischia così di produrre derive analoghe a quelle determinate in passato da norme, che, introdotte con l´intento di garantire meglio i diritti dell´indagato e dell´imputato, hanno contribuito grandemente ad accrescere i tempi processuali.
Si presentano come emendamenti migliorativi quelli riguardanti la possibilità di effettuare intercettazioni ambientali e di registrare e trasmettere le udienze. Di nuovo, però, il giudizio è sospeso in attesa di leggere i testi relativi. E lo stralcio della norma riguardante le conversazioni degli appartenenti ai servizi di sicurezza, accolta con favore da maggioranza e opposizione, richiederà molta attenzione in futuro, per evitare che una nuova disciplina venga orientata verso ampliamenti ulteriori del segreto di Stato, seguendo una discutibile sentenza della Corte costituzionale e creando una situazione che contrasta assai con le esigenze, riemerse proprio in questi giorni, di uscire dall´oscurità tutte le volte che vi siano situazioni pericolose per le istituzioni.
Sul versante dell´informazione, la novità sarebbe rappresentata dal ritorno alla norma del testo a suo tempo approvato dalla Camera, e poi cancellato dal Senato, secondo il quale è lecita la pubblicazione "per riassunto" degli atti giudiziari. Ma questo passo in avanti non scioglie una grave contraddizione. Rimane, infatti, il divieto di pubblicare in qualsiasi forma, dunque anche per riassunto, il contenuto delle intercettazioni, anche quando queste non siano più segrete. Poiché, per giustificare questo divieto si ricordano indubbi abusi del passato, è bene ripetere per l´ennesima volta che gli abusi e le violazioni della privacy si evitano con divieti mirati, riguardanti le conversazioni di chi sia estraneo alle indagini o le parti non rilevanti delle conversazioni degli stessi indagati. Il resto non ha nulla a che fare con la privacy, ma riguarda la trasparenza del potere, il diritto dei cittadini di controllare chiunque abbia ruoli pubblici, com´è chiaramente stabilito fin dal 1998 dal Codice di deontologia dell´attività giornalistica. E che dire della sanzione a carico degli editori che, pure dopo lo sconto da 465.000 a 309.000 euro, legittima un potere di controllo dei proprietari, aprendo così la strada ad una censura di mercato?
No, non siamo ancora entrati in una zona di bonaccia.

Repubblica 5.6.10
Ecologia e ambiente
Per Heidegger su questa parola si basano tutte le lingue Aristotele, Kant e Chomsky però la ridimensionano
La meravigliosa debolezza del verbo essere
a cura di Antonio Cianciullo

L´ontologia è la disciplina filosofica che si occupa dell´essere, ed è stata battezzata molto tardi (per i tempi quasi biblici della filosofia), all´inizio del Seicento, partendo da ontos, il genitivo del participio presente di einai, "essere" in greco. La sua domanda fondamentale, d´accordo con il filosofo americano Willard Van Orman Quine (1908-2000) è "Che cosa c´è?". In un certo senso Andrea Moro, professore di Linguistica generale presso il San Raffaele di Milano si mette a indagare il seguito della frase, non in Quine, ma in Ornella Vanoni e Gino Paoli: «C´è che mi sono innamorato di te», e si chiede che cosa esattamente significhi questo "C´è". La sua scienza non riguarda gli enti, ma il verbo essere, e Moro propone ironicamente di chiamarla "einaiologia", da einai. Diciamo subito che, al di là della linguistica, l´einaiologia è utilissima per l´ontologia, e aiuta a liberarla da tante fisime, in particolare quella secondo cui il verbo essere sarebbe un verbo fortissimo, che, come una specie di Atlante, regge il mondo sulle proprie spalle.
La formula canonica del giudizio, S è p, un certo soggetto è un certo predicato, "il tavolo è nero", "Socrate è musico", porta in sé qualcosa del "fiat lux", della creazione del mondo. Heidegger scriveva con una certa ebbrezza che se nella lingua mancasse la parola "essere" non è che avremmo una parola in meno, non avremmo nessuna lingua. All´iperbole soggiaceva anche il solitamente sobrio Quine, perché alla domanda "Che cosa c´è?" rispondeva "C´è tutto", lasciando intendere che il verbo essere conferiva una esistenza, sia pure umbratile, a tutto quanto, compresi i ferri lignei e i rotondiquadrati. In questo titanismo si cela un retrogusto di prova ontologica, quasi che la copula è facesse esistere le cose, o quantomeno che nella terza persona dell´indicativo presente del verbo essere si nascondesse il segreto dell´esistenza.
Ed è qui che, a svegliare l´ontologia dal suo sonno dogmatico, interviene l´einaiologia. Prendiamo la frase "Vietato attraversare i binari". Se io metto "È vietato attraversare i binari" cambia qualcosa? No, il concetto resta tale e quale. Kant, nel dire che "essere" non è un predicato reale, bensì una posizione assoluta, ha messo tutti sull´avviso. Pretendere che l´essere aggiunga qualcosa a un concetto è un po´ come andare al bar e ordinare una birra piccola, chiara e reale: quell´ultima specificazione apparirebbe bizzarra e lascerebbe di stucco il barista. Che cosa cambia allora? È il tempo. Potrei mettere «era vietato attraversare i binari» (e ora non lo è più) o «sarà vietato attraversare i binari» (e non lo è ancora). Essere e tempo? Sì, proprio così, in Aristotele molto prima e molto meglio che in Heidegger: la copula "è" in S è p, non serve per far esistere le cose (al punto che se dicessi "Beato lui!" dovrei necessariamente supporre che il giudizio implichi "Lui è beato"), ma serve essenzialmente per marcare il tempo, nella fattispecie il presente.
Questo è il primo degli indebolimenti dell´essere a cui si impegna Moro, che però non si limita al recupero di Aristotele e Kant, ma ne propone un secondo sulla scia della linguistica di Noam Chomsky: il verbo essere è flessibilissimo, cioè, appunto, più debole di altri verbi. In italiano, osserva Moro con una scoperta originale, in una sequenza sintagma nominale / verbo / sintagma nominale (in parole più imprecise nome / verbo / nome), il verbo si accorda sempre con il sintagma nominale di sinistra: si dice "Caino uccise Abele e Pinocchio", e non "Caino uccisero Abele e Pinocchio". Quando però il verbo è l´essere, le cose vanno diversamente. Posso dire sia "Due foto del muro furono la causa della rivolta", sia "La causa della rivolta furono due foto del muro", dove il verbo si accorda con "due foto sul muro", il sintagma nominale di destra. Abbiamo dunque sia la frase copulare canonica, sia la frase copulare inversa, e questo appunto perché il verbo essere è molto più arrendevole degli altri.
Questa breve storia del verbo essere non è una storia, ma una teoria, però siamo contenti lo stesso. L´asimmetria tra il ruolo centrale degli enti (naturali, ideali, sociali) nella nostra vita e l´evanescenza del verbo essere ci fa toccare con mano, ancora una volta, la differenza tra ontologia, quello che c´è, e l´epistemologia, quello che pensiamo e diciamo a proposito di quello che c´è. Hanno sbagliato i filosofi a pretendere che l´essere costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse l´essere. Niente di grave. Proprio perché quello che c´è ha in una grande quantità di casi una bellissima autonomia rispetto a tutti i linguaggi e a tutte le teorie, ci può essere ontologia, che si chiede "Che cosa c´è?", e indaga gli enti (cioè in parole povere gli oggetti) in quanto possono anche rivelarsi indipendenti dalle nostre cogitazioni e formulazioni linguistiche. E ci può essere einaiologia (da intendersi come una branca dell´epistemologia), che studia frasi tutt´altro che trasparenti – anche dal punto di vista linguistico – come «C´è che mi sono innamorato di te».

il Riformista 5.6.10
Prodi vede un «Vis-conti»
Vendola vuole la piazza
e il Pd fa contro-proposte
di Ettore Colombo
qui
http://www.scribd.com/doc/32558309/il-Riformista-5-6-10-p6


Repubblica 5.6.10
Nessuna pietà per chi chiede asilo

Il senso del libro di Laura Boldrini sta tutto nel titolo: Tutti indietro. Dove "tutti" sono i richiedenti asilo, i profughi e i rifugiati che l´autrice, portavoce dell´Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), ha incontrato in anni di lavoro dai Balcani all´Afghanistan, passando per l´Africa e il Medio Oriente, fino ad arrivare in Italia. Spinta dall´attualità – ovvero la decisione dell´estate 2009 del governo Berlusconi di respingere in mare tutti coloro che tentano di raggiungere il paese in barca – Boldrini racconta chi sono e da dove arrivano quelli che l´Italia manda via senza neanche guardarli in faccia: somali, afgani, sudanesi, ghanesi, iracheni. «Se sei in mezzo al mare perché nel tuo paese c´è la guerra poco importa. Se sei su un gommone perché a casa rischi la tortura è lo stesso», scrive. Eppure, a guardarli da vicino, questi «sono soltanto esseri umani che non hanno il privilegio di vivere a casa loro e cercano altrove pace e sicurezza». Laura Boldrini dà voce alle loro storie: e all´Italia "che c´è ma non si vede", fa di tutto per aiutare e in questo modo salva la coscienza del paese.

Repubblica 5.6.10
Una grande mostra al Santa Maria della Scala, al Battistero e al Duomo In prestito opere preziose ottenute grazie a sei anni di preparazione
Da Jacopo a Donatello Siena celebra il suo ‘400

SIENA. Ricordate il divertente spot pubblicitario che magnificava un pennello da imbianchini, giocando argutamente sulla inversione «pennello grande, grande pennello»? Ebbene, di fronte a tante maxirassegne dalla millantata grandezza viene spontaneo chiedersi se è ancora possibile allestire «grandi mostre» e non solo «mostre grandi».
Una squillante risposta affermativa al nostro quesito giunge in questi giorni da Siena, dove in quello straordinario palinsesto di storia artistica e sociale cittadina che è lo Spedale di Santa Maria della Scala, e nei due vicini ambienti del Battistero e della Cripta del Duomo, si può visitare una mostra che non esito a definire la più importante e anche spettacolare dell´odierna stagione: «Da Jacopo della Quercia a Donatello. Le Arti a Siena nel primo Rinascimento», a cura di Max Seidel, fino all´11 luglio).
Si tratta di una rassegna di ampio respiro, che allinea un numero imponente di sculture, dipinti, disegni, oreficerie e tessuti, a testimonianza di una stagione artistica vivacissima durata oltre mezzo secolo, dal 1400 al 1460. Ma questi dati quantitativi, come ho anticipato, non sarebbero di per sé sufficienti a farne una «grande mostra». Altri infatti sono i fattori che rendono questa esposizione memorabile, dalla progettazione in ogni minimo dettaglio all´affidamento di ogni singola sezione ad alcuni tra i migliori esperti in materia. O ancora, l´aver saputo sfruttare al meglio le eccezionali opportunità offerte dai luoghi in cui è allestita, integrando le opere convenute dai musei di ogni parte del mondo con quegli straordinari complessi scolpiti o dipinti che lo Spedale e il Battistero offrono in pianta stabile.
Ma tutte queste, a ben vedere, sono solo concause della buona riuscita della rassegna: la causa prima, il fattore-chiave all´origine di tutto è un altro, e Max Seidel lo rivendica orgogliosamente fin dall´insolito titolo, «Sei anni di preparazione», della sua introduzione al catalogo. In paesi di maggior civiltà espositiva del nostro (che da tempo sembra aver rinunciato al ruolo guida conquistato in questo campo negli anni ´50 e ‘60), un´incubazione di parecchi anni per una grande mostra non è l´eccezione, ma la norma. Ma nel trafelato fast food espositivo che impazza oggi da noi, una simile richiesta suona come un´insensata e snobistica pretesa. Ha pertanto ragione Seidel a dichiarare tutta la sua gratitudine agli sponsor, prima fra tutti la Fondazione del Monte dei Paschi, che hanno accettato senza fiatare questa sua «precondizione». D´altra parte è solo grazie all´autorevolezza dei richiedenti e ai tempi lunghi di una preparazione certosina che si deve il dato quantitativo, questo sì determinante nel qualificare la mostra, di cui Seidel giustamente si compiace: delle tante richieste di opere in prestito da lui avanzate alle raccolte, pubbliche e private, di tutto il mondo, ben l´87% sono state esaudite. Una percentuale eccezionale, specie se si tien conto che si è trattato quasi sempre di sculture o di opere su tavola delicatissime. Grazie a questi prestiti è stato possibile ricostruire in mostra, recuperandone le disiecta membra sparse ai quattro angoli del mondo, la Pala di San Pietro a Ovile di Matteo di Giovanni, alcuni polittici cruciali di Giovanni di Paolo, il famoso Trittico dell´Arte della Lana del Sassetta e la stupefacente Pala di S. Antonio Abate del Maestro dell´Osservanza. E si è potuto esporre le sculture originali della Fonte Gaia, accanto ai due frammenti di pergamena(uno proveniente da New York, l´altro da Londra) in cui Jacopo della Quercia vergò il progetto per quel suo capolavoro destinato alla Piazza del Campo.
Sono queste le differenze tra una bella mostra e una mostra che fa epoca. Differenze che sono perfettamente percepite tanto dal grande pubblico che dagli studiosi. Studiosi che nel vedere l´una accanto all´altro tutte le opere principali del Maestro dell´Osservanza e di Sano di Pietro potranno dire una parola definitiva sull´eterna querelle che divide chi li considera due maestri diversi da chi invece sostiene che il primo altri non è che Sano da giovane.
Ma queste sono solo alcune delle tante leccornie imbandite da una mostra che offre in apertura una vera e propria rassegna monografica dell´eroe del primo Rinascimento senese, Jacopo della Quercia, che con la sua scultura, elegante e al contempo vigorosa, si mantiene in bilico tra squisitezze gotiche e prorompente plasticità rinascimentale, incarnando alla perfezione la riluttante e un po´ trasognata ambiguità di questa stagione dell´arte senese, incerta tra nostalgia di un illustre passato e aperture sul futuro. Un dilemma che è plasticamente sintetizzato in mostra anche dal confronto ravvicinato tra una Madonna con il Bambino in terracotta di Jacopo e una folgorante interpretazione dello stesso tema proposta da Donatello.
Uno degli snodi più spettacolari della rassegna è la sala in cui si affollano varie coppie di statue lignee con l´Annunciazione, intagliate da Jacopo della Quercia e dai suoi due seguaci, il raffinatissimo Francesco di Valdambrino e il più arcaizzante Niccolò dei Cori. Ma non meno riuscito è il fitto dialogo che si è riusciti a intrecciare, alternando sezioni cronologiche a sezioni tematiche e mettendo a confronto dipinti e sculture con oreficerie, tessuti, manoscritti miniati, altaroli portatili, cofanetti e tanti altri deliziosi «oggetti da maneggiare» di devozione privata o di prezioso arredo tra il sacro e il profano.
Ma a elencare le cose mirabili non basterebbe un´intera pagina. Mi limito perciò a segnalarne solo una ancora: la parete di una sala, in cui è perfettamente messa a fuoco, con tre esempi scelti in modo esemplare, la stretta, quasi palpabile contiguità stilistica che si venne a stabilire in una certa fase tra la pittura del senese Domenico di Bartolo, e l´arte di due suoi colleghi fiorentini, il pittore Filippo Lippi e lo scultore Luca della Robbia.

venerdì 4 giugno 2010

l’Unità 4.6.10
Gli errori e la paura
Israele-Anp Il baratro è dietro l’angolo
di Tobia Zevi

Visti da qui, israeliani e palestinesi appaiono come due lottatori, ormai stanchi, incapaci di liberarsi da una morsa che rischia di rivelarsi reciprocamente mortale. L’assalto israeliano alla flottiglia pacifista è stato un assurdo errore politico dalle conseguenze tragiche. A poco servono le immagini dei militanti di quaranta paesi che impugnano coltelli e lanciano granate: come ha rilevato la stampa israeliana si trattava di una trappola (turca), in cui il governo israeliano si è infilato sbagliando l’azione sul piano militare e causando le vittime civili.
A ben vedere, però, l’episodio rivela l’assoluta incapacità di entrambi di immaginare un futuro migliore. Gli israeliani sentono sulla loro pelle la minaccia della bomba iraniana e dei vicini arabi che li circondano e che vogliono «buttarli a mare»; paradossalmente fanno di tutto per allontanare anche gli unici alleati regionali, l’Egitto (che ha riaperto il valico di Gaza) e la Turchia, senza considerare le relazioni burrascose degli ultimi mesi con l’alleato americano. I palestinesi, dal canto loro, possono mostrare al mondo quante siano dure le loro condizioni, ma non riescono a dotarsi di una leadership vera, che sia interlocutore credibile nel processo per la pace, e a Gaza hanno preferito i fondamentalisti di Hamas ai moderati di Fatah, cacciati nel 2007.
In questo contesto le opinioni pubbliche non sono in grado di invertire la rotta. La politica, se esiste, non indica il sentiero ragionevole e stretto. Prevale un senso di disperazione miope che supporta scelte sbagliate, che non scorge il limite da non oltrepassare. Il punto dove la morte dell’uno è anche la morte dell’altro. Difficile dire cosa bisognerebbe fare: sul piano del negoziato, conosciamo le tappe necessarie. Ma Israele non è disposta a trattare con Hamas e Hamas continua a dichiarare di voler distruggere Israele (oltre a lanciare migliaia di missili), e dunque le trattative vere neanche partono, mentre quelle indirette con Abu Mazen sembrano ormai solamente uno stanco rituale tra due leadership screditate.
Personalmente speravo molto nella nuova aria iniettata da Obama. Un presidente che fin dall’insediamento si è interessato a questa tragedia cronicizzata – mentre Bush si recò nell’area dopo sette anni di mandato! – e che sembra disposto a mettere il suo fedele alleato, unica democrazia dell’area, di fronte alle sue responsabilità, rafforzato anche dalla nascita di gruppi di pressione ebraici decisi ad appoggiare Israele in modo critico (Jstreet).
Finora non ci sono stati effetti positivi. E il tempo è sempre meno, se fare un passo in avanti sembra quasi impossibile, e il baratro è pericolosamente dietro l’angolo.

l’Unità 4.6.10
L’assedio di Gaza divide Israele. Il mondo preme: deve finire
Dopo la strage sulla nave della pace, a Gerusalemme prime crepe nel Muro dell’intransigenza Critiche all’embargo sulla stampa e alla Knesset. Per le strade c’è chi dice: la forza non basta più
di Umberto De Giovannangeli

Il blocco di Gaza deve essere immediatamente revocato» perché «punisce civili innocenti». Così Ban ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite. «Rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza con ogni mezzo». Così i ministri degli Esteri della Lega Araba. E così l'Unione Europea. La Comunità internazionale preme su Israele. E in Israele il «Muro» dell'intransigenza comincia a mostrare le sue prime crepe. Nei palazzi della politica. Tra la gente.
«L'embargo deve finire». È perentorio il deputato laburista Raleb Majadele, da sei settimane vice presidente della Knesset (il Parlamento israeliano), in un'intervista pubblicata ieri con grande risalto dal quotidiano Haaretz. «Il governo di Israele deve decidere di indire un ordine del giorno saggio e togliere l'assedio a Gaza», dice colui che è stato il primo arabo musulmano a diventare ministro dello Stato ebraico. «Mi chiedo, l'assedio ha favorito il rilascio di Gilad Shalit (il caporale israeliano rapito da Hamas nel giugno 2006, ndr)? L'assedio è stato dannoso solo per i membri di Hamas? si chiede Majadele -. La risposta è che l'assedio non ha portato alcun vantaggio e ha danneggiato Israele agli occhi della Comunità internazionale. In ogni modo Israele invia beni a Gaza ogni giorno. L'assedio è durato più di tre anni. Ci ha dato qualcosa?».
Secondo l'ex ministro della Cultura, con l'embargo a Gaza «abbiamo solo rafforzato Hamas. È probabile che ottenga il Premio Nobel (per la pace, ndr). Presto avremo colloqui diretti con Hamas». A una
domanda circa il suo rapporto con il ministro della Difesa Ehud Barak, leader del partito laburista, Majadele ammette di «non capirlo». E non è il solo nel Labour e in un sempre più disorientato elettorato di sinistra. «Come ha fatto a cadere in questa trappola? Non capisco dove vuole arrivare. Se, Dio non voglia, un elicottero fosse esploso sopra la nave (della Freedom Flotillla, attaccata lunedì dalla Marina israeliana, ndr), i morti sarebbero stati a centinaia. Ci sono modi migliori per fermare la flottiglia». Il «Muro dell'intransigenza» s'incrina anche sulla commissione d'inchiesta internazionale. Due dei cinque ministri laburisti il titolare dell'Industria, Benyamin Ben Eliezer, e quello degli Affari Sociali, Avishai Braverman non si dicono contrari. «Israele dichiara in particolare Ben Eliezer non deve aver paura di una indagine internazionale, perché ha agito nel rispetto del diritto internazionale e non ha niente da nascondere». Da chiarire, però, sì. Il numero delle vittime del blitz sulla Mavi Marmara , ad esempio: i morti accertati sono nove, ma, secondo alcuni testimoni e attivisti, molti corpi potrebbero essere stati buttati in mare dai militari. Le nove vittime «ufficiali» erano di età compresa fra 19 e 61 anni ed erano tutte turche (il più giovane aveva anche la cittadinanza statunitense). Secondo i testimoni, di diverse nazionalità, il bilancio si aggirerebbe invece fra i 16 e i 20 morti.
Israele s'interroga. E si scopre più isolato, più solo. Nessuno mette sotto accusa i ragazzi in divisa, ma i politici che hanno dato l'ordine, questo sì. «Quelli della nave turca saranno stati pure dei provocatori, ma c'è qualcuno che oggi può sostenere con orgoglio quello che è stato fatto dai nostri?», dice Yael Katz, 22 anni, studentessa all'Università ebraica di Gerusalemme. «Ma non si rendono conto quelli al governo che in questo modo fanno solo il gioco di Hamas?», le fa eco Uri Lappin, suo compagno di studi.
Un capannello si crea nell'assolata isola pedonale di Ben Yehuda, nel cuore della Gerusalemme ebraica. Il dibattito si anima: «Hanno fatto bene a sparare, se non lo facevano loro l'avrebbero fatto quei terroristi», taglia corto Avishav Selig, il padrone di un negozio che vende magliette e gadget dell'Idf, le forze armate d'Israele. «Non dire fesserie – ribatte David Izenberg , che ha da poco finito i tre anni di servizio militare – Il nostro diritto a difenderci è fuori discussione, ma non possiamo pensare che tutto si risolva con la forza». «Tutto no, ma non possiamo neanche subire i ricatti dei turchi diventati amici di quel criminale di Ahmadinejad», s'inserisce Yaakov Lazaroff, sessantenne sostenitore di Avigdor Lieberman, il super falco ministro degli Esteri. Israele s'interroga. E il malessere, l'incertezza, la paura di essere sempre più risucchiati in una spirale di violenza e di terrore, si rispecchiano nelle pagine dei giornali, mai come ora specchio fedele di un'opinione pubblica disorientata, divisa. Haaretz, bandiera dell'intellighenzia liberal del Paese, pubblica un editoriale che definisce «fallimentare» la strategia del blocco e critica severamente l'atteggiamento di Netanyahu (ma anche del ministro della Difesa laburista, Barak). Secondo Haaretz il blocco va ripensato non solo per le critiche internazionali ma anche perché ingiusto nei confronti della popolazione civile dell'enclave palestinese controllata da Hamas. E soprattutto perché «inutile e dannoso». Da destra, le critiche arrivano invece dal generale della riserva Ghiora Eiland, già consigliere per la sicurezza nazionale dell'ex premier Ariel Sharon. In un'analisi pubblicata da Yediot Ahronot, Eiland invoca «un nuovo approccio», fondato sul pragmatismo, con Hamas, il cui potere nella Striscia va ormai considerato «legittimo». Un approccio che accetti di esplorare i canali di dialogo aperti con gli integralisti da altri Paesi e si limiti a proteggere i confini terrestri di Israele, rinunciando a velleità di assedio totale. Senza pretendere restrizioni alla frontiera fra la Striscia e l'Egitto e lasciando passare sul fronte marittimo tutte le navi dirette a Gaza: purché allestite da «entità riconosciute da Israele» e previo «il diritto a ispezionarne» il carico.

l’Unità 4.6.10
«Israele come Polifemo
I suoi leader sono ciechi»
Lo scrittore israeliano: «Non c’è nessuna lungimiranza, il governo è debole e ostaggio delle frange più oltranziste. Si fa dettare l’agenda dai coloni»
di Umberto De Giovannangeli

Israele si comporta come un Polifemo. Un Polifemo cieco. Privo di lungimiranza, che prova a mascherare con la forza la sua debolezza politica». A sostenerlo è uno dei più grandi scrittori israeliani: Meir Shalev. «La leadership dell'Israele di oggi – rimarca Shalev – naviga a vista, senza alcuna strategia né di pace né di guerra. E a dettarne l'agenda sono i coloni. Dobbiamo essere onesti con noi stessi e guardare in faccia la realtà: se oggi siamo nei guai è per responsabilità di governi prigionieri delle frange più radicali e oltranziste, e non perché nel mondo c'è una opposizione a Israele che a volte sfocia nell'antisemitismo».
Lei ha usato tempo fa, per descrivere Israele, l'immagine di Polifemo, che fende colpi a destra e a manca, perde le sue energie e, alla fine perde anche la sua vista ...
«Rimango fedele a questa immagine e riprendo soprattutto l'aspetto della cecità. Israele oggi non ha una visione a distanza, nel tempo. Non sa dove vuole arrivare di qui ad alcuni anni. La sua leadership non ha capacità e coraggio di dire "noi crediamo in questa o quella idea e vogliamo portare il Paese a realizzarla". Guardi, le mie idee politiche sono piuttosto note: credo ancora alla soluzione di due Stati per due popoli, anche se la cosa sembra diventare sempre più difficile da realizzare. Eppure, con tutto il rammarico personale ma nel rispetto della democrazia, accetterei la legittimità anche di un Governo che sostenesse la Grande Israele dal Giordano al Mediterraneo e che si muovesse in quella direzione con la chiara intenzione di conseguirla. Invece, la leadership dell' Israele di oggi, vive il momento, reagisce senza pensare a dove la porteranno le sue azioni e di conseguenza compie azioni che si rivelano poi fallimentari per il suo stesso futuro e per quello di altri. Naviga-
no a vista, illudendosi di poter mantenere nel tempo, magari con la forza, l'attuale status quo. Ma questa rischia di rivelarsi, per tutti noi, una tragica, devastante, illusione. Come si è rivelata un'illusione pensare che il blocco di Gaza facesse crollare Hamas. Ma Hamas vive sulla sofferenza della gente palestinese, se ne alimenta e indirizza il malcontento contro il Nemico: Israele. Purtroppo, stiamo facendo di tutto per aiutarli in questo».
Sembra comunque che l'aspetto più devastante, sul fronte interno, sia quello della tensione fra la popolazione ebraica e quella araba che l'altro ieri è giunta perfino alla Knesset e che potrebbe arrivare nelle strade e nei quartieri in cui le due popolazioni vivono una accanto all'altra...
«Non esiste governo che possa decretare una legge secondo cui ebrei e arabi, da domani, devono volersi bene ed essere buoni vicini. Un governo deve preoccuparsi di dare al ragazzo e alla ragazza arabi pari occasioni di vita, studio, sanità, occupazione e i cittadini arabi che vogliono vivere come israeliani, devono trovare il modo di integrarsi maggiormente nella società, facendo per esempio nel periodo che i ragazzi ebrei e drusi sono militari, un servizio civile sostitutivo all'esterno o nelle proprie comunità, che li faccia sentire parte della realtà del Paese, alla pari dei loro coetanei. Devo comunque dire che le leadership delle due parti hanno pesanti responsabilità. Personalmente, penso che i parlamentari arabi stiano dando un contributo negativo alla situazione esistente fra le due popolazioni. È una critica che sento spesso anche da parte della popolazione araba nei confronti dei propri stessi rappresentanti. Si occupano quasi esclusivamente di quanto succede a Gaza e ai propri fratelli palestinesi che vivono fuori dai confini dello Stato d'Israele, ma fanno poco o nulla per confrontarsi e cercare di risolvere i problemi chi li ha fatti eleggere, vale a dire gli Arabi Israeliani. La cosa, oltre che assicurare molto più eco nei mass media, risponde anche alle necessità della parte più militante e religiosamente fanatica della popolazione araba. Ciò che succede nel Parlamento israeliano non è molto diverso da quello che succede nel Medio Oriente: gli arabi estremisti cercano di attirare Israele in provocazioni che causino reazioni estreme e non sagge, e noi li accontentiamo. In fondo, la quasi rissa di ieri (mercoledì, ndr) alla Knesset non è molto diversa da quanto è avvenuto tre giorni fa in mare aperto: in ambedue i casi si è agito senza prendere in alcuna considerazione le conseguenze».
La linea di difesa di Israele su quanto è avvenuto è una controaccusa al mondo ipocrita che ama abbracciare cause fotogeniche lasciando il lavoro sporco a Israele che è costretta a farlo perché nel suo caso non si tratta di apparire più o meno bene, ma di sopravvivenza. È una tesi sostenibile?
«Ci sono situazioni in cui questo è vero e non solo nella politica. Ci si potrebbe chiedere perché si hanno campagne mondiali per il salvataggio dall'estinzione dei panda e non dei rospi, che in alcune parti del mondo corrono un rischio identico se non maggiore. Ma Israele non può permettersi e non deve pensare in questi termini. Per la leadership israeliana è il modo più semplice per sfuggire alle proprie responsabilità e se anche in questa tesi può esserci del vero, non è rilevante ai fini della gestione di un Paese come Israele. Si deve pensare alla vera risoluzione dei problemi partendo dal fatto che dal '67 ad oggi tutti i governi israeliani – chi più o chi meno – si sono fatti trascinare dalle azioni compiute da estremisti di tutte le fazioni, compresi quelli della destra israeliana – i coloni – che hanno il sopravvento e dettano l'agenda politica del Paese. Siamo onesti con noi stessi e non facciamo confusione: è questo il motivo per cui oggi siamo nei guai e non perché nel mondo c'è una opposizione a Israele che talvolta sfocia in antisemitismo».
Per Israele la forza di coesione interna è non meno importante di quella militare. Le due sembrano essere intaccate drammaticamente negli ultimi tempi. Che può significare per il futuro del Paese?
«Non consiglio a chi vorrebbe la scomparsa di Israele, di contare troppo sul fatto che commetta questo suicidio. Penso che Israele e la sua società abbiano ancora, nonostante tutto, riserve e anticorpi che assicurano il loro futuro il loro risanamento. È una forza che deriva dalla coscienza, dal senso di moralità e – non meno importante per una società in continua pressione dal tradizionale senso dell' humor ebraico. Non la forza che ti fa desiderare la morte del nemico, bensì quella che ti fa desiderare la vita del tuo popolo».

Repubblica 4.6.10
Salvare Israele da se stesso
di Nicholas D. Kristof

Quando su Twitter è cominciata a circolare la notizia di un attacco sanguinoso delle unità speciali israeliane contro la flottiglia diretta a Gaza, io non l´ho inoltrata perché mi sembrava inverosimile. «Israele non può essere tanto ottuso da sparare contro presunti pacifisti in acque internazionali sotto gli occhi di decine di giornalisti».
E invece sì, Israele può essere tanto ottuso. Si è tirato la zappa sui piedi, suoi e dell´America, compromettendo tutti i suoi obbiettivi strategici di lungo termine. Abba Eban, l´ex uomo di Stato israeliano, è rimasto famoso per aver detto, nel 1973: «Gli arabi non perdono mai un´occasione di perdere un´occasione». Fu una frase che ebbe grande risonanza perché in buona parte coincideva con la verità.
I palestinesi sono rimasti bloccati per anni in una dinamica autolesionistica di violenza e autocommiserazione, che ha portato a terrorismo e intransigenza. Sentendosi incompresi, non si curavano dell´opinione pubblica mondiale e colpivano alla cieca ogni volta che potevano, danneggiando la loro stessa causa.
Ma ora, come fa notare un rabbino sulla mia pagina Facebook, è Israele che non perde mai un´occasione di perdere un´occasione.
Sotto il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, Israele sembra bloccato in una dinamica autolesionistica in cui si sente incompreso e non si cura dell´opinione pubblica internazionale. Colpisce con forza usando modalità che danneggiano i propri stessi interessi. Ha imboccato una strada che potrebbe rivelarsi catastrofica.
È indiscutibile che Israele deve fronteggiare minacce alla propria esistenza. È per questo motivo che i suoi leader dovrebbero concentrarsi innanzitutto su due cose: un trattato arabo-israeliano e le pressioni sull´Iran per indurlo ad abbandonare il suo programma nucleare.
Non sono traguardi semplici, e per il momento un accordo fra israeliani e palestinesi potrebbe rivelarsi impossibile. Israele, però, potrebbe congelare tutti gli insediamenti e prendere altre misure propedeutiche a un accordo. Sappiamo già come dovrà essere l´assetto finale: una soluzione basata sui due Stati sulla base dei «parametri di Clinton», le condizioni che l´allora presidente americano propose nel 2000.
Israele farebbe bene anche a coltivare i rapporti con la Turchia, una pedina fondamentale negli sforzi per convincere l´Iran a desistere dai suoi intenti. E invece l´assalto in acque internazionali a una nave battente bandiera turca ha inflitto un duro colpo agli sforzi per imporre nuove sanzioni all´Iran. Uno dei grandi vincitori del disastro di questa settimana è il regime di Teheran.
Israele si sta alienando anche la sua base di consenso negli Stati Uniti, che è un elemento fondamentale per garantire la sua sopravvivenza.
Nell´ultimo numero della New York Review of Books, Peter Beinart ha scritto un articolo molto efficace sui giovani ebrei americani, la cui identificazione con Israele è molto meno forte rispetto alla generazione precedente. Beinart osserva che perfino il senato studentesco dell´Università Brandeis, che ha forti legami con la comunità ebraica, ha bocciato una risoluzione che chiedeva di commemorare il sessantesimo anniversario della fondazione di Israele.
Le politiche intransigenti di Israele stanno sperperando non solo il proprio capitale politico internazionale, ma anche quello dell´America. Il generale David Petraeus due mesi fa ha osservato che la percezione di un trattamento di favore da parte dell´America nei confronti di Israele genera antiamericanismo e rafforza Al Qaeda. Il capo del Mossad, Meir Dagan, ha espresso questo punto in modo più succinto: «Israele si sta gradualmente trasformando in un peso per gli Stati Uniti».
A molti israeliani tutto questo appare profondamente ingiusto. Israele è una democrazia vera, che si è ritirata da Gaza eppure continua a essere bersagliata dai razzi sia da nord che da sud. Di conseguenza, gli israeliani e i loro supporter più intransigenti tendono a liquidare le critiche esterne definendole ingiuste e antisemite, e optano per soluzioni unilaterali basate sulla forza. Come suggerisce il quotidiano Haaretz, Israele ormai è «disperso in mare».
Che cosa possiamo fare per cambiare questa dinamica? Un passo indispensabile è un´indagine approfondita su quello che è successo. Un altro è mettere fine in tempi rapidi al blocco di Gaza, sia da parte egiziana che da parte israeliana. Il blocco non è riuscito nel suo intento di far cadere Hamas, non è riuscito a ottenere la liberazione di Gilad Shalit, il soldato israeliano prigioniero di Hamas, e non è riuscito a far cessare i lanci di razzi da Gaza.
Chi si reca a Gaza vede con i propri occhi che l´assedio non ha prodotto nessun risultato tranne quello di devastare la vita di un milione e mezzo di semplici cittadini.
Il presidente Obama deve trovare una sua voce e premere con decisione per la fine dell´embargo a Gaza. Deve far ragionare a Israele e convincerlo a smetterla di tirarsi la zappa sui piedi, suoi e nostri.
©2010 New York Times
News Service (Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 4.6.10
Il servo liberato che divenne tiranno
Andrea Carandini svela il mistero che circondava le origini di Servio Tullio re bastardo dopo Tarquinio Prisco
di Stefano Miliani

Manovre di potere, sangue, appelli al popolo. In una Roma aperta a genti latine, sabine, etrusche, con greci e orientali, tra il616a.C.eil534a.C.,unasequenza regale cambiò la cosa pubblica e gli ordinamenti: prima re Lucio Tarquinio Prisco, greco-etrusco, seguito da Servio Tullio, ex servo che sarebbe stato suo figlio e in quanto tale non poteva di salire al trono, perché la Roma di allora vietava la successione diretta e richiedeva l’interruzione almeno di un regno. Andrea Carandini, archeologo, il maggior studioso delle origini di Roma, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha scritto una saga avvincente di trame, tradimenti e manipolazione del «popolo»: Re Tarquinio e il divino bastardo (Rizzoli, 171 pagine, 18 euro). Fondata su documenti testuali e visivi (come le pitture della tomba etrusca a Vulci detta di François), la narrazione sbroglia, con incursioni nei pensieri e nei sentimenti dei protagonisti, intricate faccende che evocano temi dell’Italia di oggi: costituzioni violate, demagogia, privilegi di oligarchie in discussione. A chi legge, fa pensare anche a Berlusconi.
Professore, perché ha voluto raccontare questa storia con piglio narrativo? «È la prima metà di una grande saga che riguarda la seconda età regia di Roma. Racconterò la seconda parte in un prossimo libro Rizzoli. Ho fatto ricerche su quel tempo e dopo tanti lavori eruditi ho voluto rivolgermi, per una volta, al grande pubblico. In Italia gli studiosi non hanno un rapporto con il popolo, la divulgazione pertanto è generalmente cattiva (salvo Piero Angela in tv): altera date e inventa misteri. Invece il dotto ha il dovere di raccontare quello che sa in modo semplice. Questo ho tentato».
A pagina 100 e oltre lei descrive un tiranno capace di parlare alla «pancia e alla fantasia» del popolo, che lo plasma ambendo a poteri più personali rispetto ai sovrani antichi o alle magistrature repubblicane. Ci ricorda la nostra Italia odierna.
«Questo è un libro sul potere. Generalmente il re trova la sua forza nel rapporto con il popolo favorendolo e manipolandolo perché l’aristocrazia ha beni, una sua autonomia, una libertà privilegiata, e fa la Fronda. È una trama che può esistere anche in forme democratiche: possono esserci gruppi elitari che vogliono conservare il potere e un popolo che si fa trascinare da un leader carismatico». Come Servio Tullio, il figlio bastardo sostiene lei. Alla morte di Lucio Tarquinio, diventerà re reggente, grazie alle manovre della vedova del re Tanaquil, eliminerà il fratello legittimo Gneo facendolo uccidere e dal 578 sarà il primo tiranno di Roma. Il quale si rivolge direttamente ai romani scavalcando tutti.
«Sì, lui cerca un rapporto con il popolo non filtrato dai nobili. È stato un tiranno riformatore, modernizzatore, cui seguirà il superbissimo Tarquinio il Superbo: le tirannidi, anche quelle con le migliori intenzioni, finiscono per degenerare. Prima delle democrazie, solo una tirannide poteva mettere nell’angolo un’oligarchia. Ma anche nelle democrazie possono esserci tendenze più costituzionali e altre tendenti alla rottura delle regole».
Sembra di vedere un ritratto in nuce di Berlusconi, con tutte le differenze del caso. Il premier, almeno fino a poco fa, ha saputo comunicare direttamente ai cittadini, al «popolo» dice lui, e al «popolo» si appella quando travalica le regole.
«Rimango pur sempre uno storico e so bene come i paragoni possono indurre a interpretazioni partigiane. Servio Tullio poteva prendere il potere solo illegalmente, rompendo ogni regola, perché era figlio illegittimo e segreto di re: un servo liberato. Questo potentissimo liberto ha rifondato una Costituzione, superando quella di Romolo. Ha avuto aspetti liberatori, come la cittadinanza basata sulla residenza, e ha creato le basi della futura potenza di Roma. D’altronde ogni rottura delle regole può esser fatta a fin di bene (Servio) e a fin di male (Tarquinio il Superbo)». Ma qualcosa richiama l’attuale premier.
«Un aspetto tipico di tutte personalità carismatiche nella storia è la loro illimitatezza. Starei però molto attento a vedere una metafora dell’oggi nel mio racconto. Se devo fare un paragone con i nostri giorni, vedo l’emergere nuovi ceti, che incontro alle mostre, che popolano gli outlet. È facile dire: ecco i barbari! È come se ci fosse stata una lotta di classe... La vecchia borghesia è stata sconfitta e questo nuovo ceto medio diffuso è antropologicamente diverso. Tutte le vecchie classi hanno visto male l’emergere di nuovi ceti: nei balli parigini sotto Napoleone gli ufficiali avevano mani coperte di diamanti! Ai nuovi ceti bisogna offrire scelte diverse. Loro votano e la storia torna a macinare...».

il Fatto 4.6.10
Legge bavaglio. È un pericolo per gli altri Paesi
Tabucchi: l’Europa dovrebbe farci
un esame di democrazia
di Silvia Truzzi
nelle edicole

Repubblica 4.6.10
Proposta dei ginecologi "Trattamento obbligatorio per neomamme depresse"

ROMA Applicare la procedura del trattamento sanitario obbligatorio alle donne affette da depressione post partum e a rischio di infanticidio, come il recente caso a Passo Corese (Ri). È quanto propongono al ministro della Salute Fazio Giorgio Vittori, presidente della Sigo (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia) e Antonio Picano, presidente dell´Associazione Strade onlus. Un´equipe specializzata potrebbe occuparsi 24 ore su 24 delle donne con comportamenti potenzialmente omicidi. I casi che richiederebbero un provvedimento di Tso sarebbero circa mille per anno.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/06/03/visualizza_new.html_1818817677.html

http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Tso-alle-neomamme-per-combattere-depressione-post-partum-e-infanticidio_487886937.html

Cangemi Novelli

Repubblica 4.6.10
Coraggio. Una proteina e passa la paura
di Elena Dusi

L´iniezione di una molecola ha cancellato il timore di esperienze dolorose dal cervello di alcuni topolini Un primo passo per chi punta a un farmaco che elimini terrore, ansia e stress anche negli uomini
Questi esperimenti subiscono un´accelerazione nei periodi di guerra

Se a qualcuno un´iniezione lascia brutti ricordi, per un gruppo di topolini la puntura è servita a cancellare la paura. La somministrazione di un farmaco, hanno dimostrato i neuroscienziati dell´università di San Juan nel Portorico, può annullare gli effetti di uno spavento sul cervello, rendendo gli animali spavaldi anche dopo un´esperienza dolorosa.
L´esperimento pubblicato oggi su Science segna una nuova tappa nella ricerca di un metodo efficace per cancellare dalla mente i traumi del passato. Questo filone delle neuroscienze subisce sempre delle accelerazioni nei periodi di guerra. I ricercatori portoricani hanno ricevuto parte dei loro finanziamenti dagli Stati Uniti, e un precedente studio americano aveva dimostrato che un soldato su otto torna dal fronte con disturbi di ansia o disordini da stress post-traumatico. Sono problemi causati dalle violenze vissute in battaglia che si riaffacciano anche dopo il ritorno alla vita normale.
Come prima tappa, i topolini di San Juan sono stati indotti a temere un certo suono. Subito dopo averlo udito, i roditori subivano uno shock elettrico che gli provocava dolore a una zampa. Ogni volta che il suono si ripresentava, gli animali si rannicchiavano spaventati. Non importava che a volte la scossa non arrivasse: la paura era sempre puntuale.
Ma ogni paura appresa nel corso della vita è frutto di un brutto ricordo. E i ricercatori portoricani hanno pensato di cancellare gli effetti dell´esperienza negativa sui topolini agendo sul meccanismo di formazione della memoria. Nel cervello dei roditori hanno iniettato una proteina che rende malleabile le cellule e impedisce ai ricordi degli eventi spaventosi di crescere troppo, ripresentandosi in maniera ossessiva e impedendo una vita normale. Questa sostanza si chiama Bdnf (fattore neurotrofico di derivazione cerebrale), non è dissimile dal fattore di crescita scoperto da Rita Levi Montalcini e gioca un ruolo importante nel rafforzare le connessioni fra i neuroni, cioè nel consolidare la memoria.
Normalmente, per cancellare dalla testa dei topolini una paura, il suono viene ripetuto molte volte senza essere associato ad alcuna scossa. "Noi abbiamo scoperto con sorpresa - racconta su Science lo psichiatra Gregory Quirk che ha diretto l´esperimento - che non c´è bisogno di un nuovo condizionamento per riportare il topolino alla tranquillità. È sufficiente la somministrazione del fattore Bdnf all´interno della corteccia prefrontale". Quest´area situata nella parte anteriore del cervello è considerata la sede del pensiero razionale e bilancia la sua attività con quella dell´amigdala, che regola la paura a livello istintivo. Se un leone ci comparisse davanti, l´amigdala prenderebbe il comando facendoci scappare a gambe levate. Poco spazio resterebbe alla corteccia per pensarci su e decidere il da farsi. Ma nei topolini portoricani, "potenziare" la corteccia prefrontale con un´iniezione del fattore di crescita Bdnf è servito a ridimensionare la paura legata al suono.
Un esperimento complementare a quello di oggi, condotto a gennaio alla Emory University, aveva dimostrato che bloccando nei topolini il gene che regola la produzione di Bdnf nell´amigdala, i ricordi paurosi non riuscivano a consolidarsi. E i roditori continuavano a muoversi spavaldi nonostante suoni e scosse elettriche. Un altro filone delle ricerche anti-paura punta invece a bloccare il consolidamento del ricordo subito dopo il trauma, somministrando un farmaco che blocca temporaneamente le nuove connessioni fra i neuroni. Ma anche se questi esperimenti sono utili alla comprensione dei meccanismi della mente, le applicazioni pratiche per l´uomo sono lontane. Il farmaco anti-terrore assunto per bocca non esiste ancora. E l´idea di un´iniezione nel cervello fa paura anche a chi non ne abbia mai fatto esperienza.

Repubblica 4.6.10
Ritrovata una conferenza tenuta nel 1946 dal leader del Pci alla Normale
La lezione di Togliatti sul riformista Mazzini
di Lucio Villari

"Serve un rinnovamento profondo dell´ordine sociale, in modo da permettere agli uomini di vivere in pace tra loro. Questo è il problema centrale della vita"

Il 10 marzo 1946 Palmiro Togliatti tenne una lezione alla Normale inaugurando un istituto di studi intitolato a Mazzini. In quell´anno Togliatti era ministro di grazia e giustizia, l´Italia era ancora una monarchia (il Luogotenente Umberto di Savoia era il capo dello Stato), e si era alla agitata vigilia del referendum del 2 giugno. Togliatti era stato invitato a Pisa, dove la memoria di Mazzini era più viva che mai: qui Mazzini era morto sotto falso nome nel 1872 ,in casa degli antenati di Carlo e Nello Rosselli.
Il tema della lezione: le riforme sociali attraverso un giudizio storico su Mazzini, il marxismo, l´Italia risorgimentale, con un accenno distaccato a Cattaneo (manca in lui, «una concezione generale storicistica e riformatrice»). Terminata la lezione Togliatti non comunicò il suo testo a nessuno. Nel 1967 Rinascita, diretta da Luca Pavolini, decise di pubblicarlo senza alcuna indicazione sulla sua provenienza. Poi l´oblio.
Togliatti parlò del marxismo come di «una dottrina capace di liberare le forze che hanno in se stesse la possibilità di costruire un mondo nuovo...». Ne parlò quasi da liberale (è molto crociano quel "hanno in se stesse"...) rifiutando le ortodosse litanie sovietiche («Marx irrideva coloro che facevano piani per la società futura...»). I relativi nodi teorici di una utilizzazione politica di questo marxismo "riformista" sono filtrati attraverso la storia dell´Italia risorgimentale e la rievocazione di rivoluzionari e di riformatori spesso trascurati. Riemerge così, proveniente dalla grande madre, la rivoluzione francese, l´eredità positiva degli utopisti (che Marx nel Manifesto del 1848 aveva sminuito e che per Togliatti rappresentavano invece «un sistema di idee, di propositi, di piani che essi non traevano da una intuizione sociale astratta»; erano, disse, veri e propri "riformatori sociali"), del giacobino Vincenzo Russo, di Spaventa e Labriola, dei positivisti politici e soprattutto di Giuseppe Mazzini.
Certo, Togliatti aveva letto i Quaderni del carcere di Gramsci, non ancora pubblicati, e non celava gli stimoli avuti dalle riflessioni gramsciane, preannunziandone, anzi, il grande valore: «...il nostro Gramsci, di cui pubblicheremo tra poche settimane gli scritti filosofici e scientifici. Tutti si stupiranno della profondità di quel pensiero per il modo come egli riesce a collegare ed a fondere il pensiero rigidamente marxista con la tradizione culturale millenaria italiana». Togliatti dichiarava di credere in questa tradizione, appunto perché millenaria, dunque ben fondata nella storia reale, più di qualunque teoria politica o filosofica elaborate su contingenti motivazioni ideologiche. Di qui il suo dichiarato fastidio per le palingenesi rivoluzionarie, «come se noi conducessimo una battaglia per creare un mondo in cui tutti dovrebbero vivere, pensare e sentire allo stesso modo». Si diceva perciò convinto che per evitare altre catastrofi si dovesse finalmente aprire la strada «all´idea della riforma sociale, nel senso di un rinnovamento profondo delle basi del nostro ordinamento sociale, in modo da permettere agli uomini di vivere in pace tra loro... Questo problema è oggi il problema centrale della vita, il problema dei problemi per il nostro paese e per tutti gli altri paesi. Per questo io non posso salutare che con simpatia l´iniziativa che voi avete preso di fondare questo istituto [...] dedicato al nome del nostro grande riformatore sociale Giuseppe Mazzini». Era la prima volta che un esponente comunista chiamava "nostro" Giuseppe Mazzini. L´aggettivo possessivo apriva un varco vitale. Togliatti anticipava anche un giudizio su Gramsci di Benedetto Croce (avversario sempre del comunismo in ogni sua forma) che fece scalpore. Fu quando nel 1947 apparvero le Lettere dal carcere. Croce, commosso da quelle lettere chiamò Gramsci uno "dei nostri".
Togliatti, accogliendo il "riformismo", cancellava l´anatema comunista della Terza Internazionale scagliato contro la cultura borghese delle riforme e le correlative idee socialdemocratiche della Seconda Internazionale. «Mi pare che quella discussione sia chiusa e non si adatti più alle condizioni nelle quali si svolge oggi la lotta politica e la lotta sociale».
Dunque Mazzini. «Giganteggia in questo periodo la figura di Giuseppe Mazzini. Giganteggia perché la sua intuizione riformatrice e le sue idee riformatrici sono inserite in una concezione generale del mondo e della vita dalla quale egli ricava una direttiva per l´azione. Per questo egli è grande e lo riconoscono grande tutti gli italiani, anche noi che non siamo d´accordo con la sua posizione ideologica di partenza. Lo riconoscono grande tutti gli italiani, i quali sanno come, con la sua azione, con il suo sforzo di lotta, di pensiero, di attività, di educazione, egli abbia dato un valido contributo alla redenzione del nostro paese».
Nel nome del Mazzini che Marx aveva sempre osteggiato e irriso, Togliatti chiudeva davanti agli studenti della Normale «una questione che, credo, non possa dar luogo nemmeno a una discussione seria, in sede scientifica. Alludo alla polemica [...] tra una cosiddetta ala riformista del movimento socialista ed operaio e coloro che invece si chiamarono rivoluzionari». Nei successivi decenni di guerra fredda e di democrazia imperfetta della prima repubblica, questa indicazione non ebbe grandi sviluppi, ma l´equivalenza tra la mazziniana "educazione" del popolo e la "redenzione" dell´Italia non è del tutto inattuale.

Agi.4.10
Togliatti: Tamburrano, abile stalinista per pensiero e azione
Roma, 4 giu. - Palmiro Togliatti e' stato un abilissimo stalinista: di Stalin accetto' tutto ed e' il caso di dirlo con le parole di Giuseppe Mazzini: pensiero ed azione. Lo sostiene lo storico e Presidente della 'Fondazione Nenni', Giuseppe Tamburrano replicando ad un storico di formazione comunista, Lucio Villari. "Nel suo lucido articolo ('la Repubblica' di oggi) Villari ricorda una pagina del versatile Togliatti su Mazzini dalla quale pero' non emerge alcuna prova di presa di distanza dal marxismo-leninismo-stalinismo - nota Tamburrano - Togliatti testimonia per Mazzini una stima che Carlo Marx non ebbe: e questa e' l'unica originalita'. Ma tra il marxismo di Marx e quello sovietico - avverte - vi e' un abisso. Quanto a riabilitatore annessionista di grandi personaggi della storia italiana, Togliatti fu maestro: riusci' anche a farlo con Giovanni Giolitti". Poi l'affondo. "Togliatti rifornista? E' ridicolo - chiosa Tamburrano - quello che scrisse sul padre del riformismo Filippo Turati (un "traditore") e sugli esuli che - disse - passavano il loro tempo seduti ai tavolini degli Champs Elyse'es fu semplicemente ignobile: quegli esuli hanno combattuto con le armi alle mano contro Franco in Spagna (laddove Togliatti svolgeva il ruolo gregario di emissario di Stalin) e alcuni di loro sono stati assassinati dai fascisti come i fratelli Nello e Carlo Rosselli". Togliatti il Migliore, non amo' gli 'azionisti' e i 'giellisti', dispezzava lo stesso Ferruccio Parri. "Togliatti e' stato - conclude lo storico socialista - un abilissimo stalinista: di Stalin accetto' tutto. E' il caso di dirlo con le parole di Mazzini: pensiero ed azione".

giovedì 3 giugno 2010

l’Unità 3.6.10
«Mi minacciano vogliono zittirmi. Ma non ho paura»
Hanin Zuabi, parlamentare araba nella Knesset, insultata in aula dalla collega Miri Reghev, del Likud: «Vai via Traditrice, sei il cavallo di Troia dei terroristi»
di U. D. G.

Provano a zittirci. Ci gridano traditori. Ci considerano dei cittadini-paria, ma non riusciranno a chiuderci la bocca. Continueremo a protestare contro lo scempio perpetrato a Gaza e non ci faremo intimidire dai razzisti che stanno nel Governo». È un torrente in piena, Hanin Zuabi, parlamentare del partito nazionalista arabo Balad. La incontriamo poche ore dopo essere stata aggredita verbalmente alla Knesset da Miri Reghev, parlamentare del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Per gli oltranzisti israeliani Zuabi è «colpevole» di aver partecipato alla spedizione della Freedom Flotilla e di aver poi descritto come brutale
il blitz delle forze speciali. «Vattene a Gaza, traditrice!», le ha urlato contro Reghev incrociandola. «Hanin Zoabi ha quindi tuonato in aula si è resa responsabile di un doppio delitto: si è unita a terroristi e ha commesso un crimine morale contro lo Stato d’Israele». «Va punita sentenzia la parlamentare del Likud non vogliamo cavalli di Troia dentro la Knesset».
«Sono orgogliosa di ciò che ho fatto dice Hanin Zuppi a l’Unità come cittadina israeliana e come persona che combatte per una pace giusta, tra pari, con i palestinesi. Sono altri, quelli che hanno esaltato l’assalto contro la nave turca, che dovrebbero vergognarsi».
La voce di Hanin Zuppi si fa flebile, il suo sguardo si vela di lacrime quando torna a quei drammatici momenti vissuti in prima persona. Lei, durante il blitz dei commando della Marina israeliana, si trovava al secondo piano della nave. Non ha visto alcun atto di violenza da parte dei passeggeri contro i militari israeliani. «Ho visto racconta persone innocenti uccise dai soldati. Ho visto feriti gravi abbandonati per ore, senza soccorsi. Quando i militari uccidono, possono anche aspettarsi una reazione delle loro vittime».
Per avere denunciato tutto questo, Hanin Zuppi è entrata nel mirino della destra internazionalista. «Ho ricevuto minacce di morte rivela a l’Unità se pensano di zittiremo si sono sbagliati di grosso. Quello che mi spaventa è pensare che il futuro d’Israele e della pace sia nelle mani di questi fanatici».
Gli arabi israeliani rappresentano oltre il 20% della popolazione d’Israele (più di un milione di persone), ma c’è chi considera questa presenza «ingombrante». Di più: un pericolo per la sicurezza d’Israele e per la sua «purezza ebraica». «Non mi meravigliano gli insulti della Reggeva afferma Zuppi lei non fa che ripetere quello che molti dei suoi amici di partito, anche nel Governo, pensano ma non hanno il coraggio di dire pubblicamente». Quel «coraggio» che non manca al ministro degli Esteri, il super falco: Avigdor Lieberman: «Per lui annota Hanin Zuppi siamo più pericolosi di Aames... Voleva imporre per legge che giurassimo fedeltà a Israele come Stato ebraico e sionista... L’Israele di cui ci sentiamo parte non ha nulla a che spartire con quello propugnato da questi razzisti. Loro vogliono solo ghettizzerai, sognano di cacciarci dalle nostre città».

Repubblica 3.6.10
I limiti delle armi
di Amos Oz

PER 2.000 anni gli ebrei hanno conosciuto la forza della forza solo sotto forma di frustate ricevute sulla schiena.
L´analisi dello scrittore ebraico: "Per battere Hamas bisogna fare l´accordo con i palestinesi"

Dalla guerra dei sei giorni del 1967 la potenza militare è diventata una fissazione per Israele, un mantra
Nessuna idea è mai stata sconfitta con l´assedio e i bombardamenti Nessuna idea si spiana con i cingoli dei carri armati

Da vari decenni abbiamo noi il potere di usare la forza. Ma è un potere che a lungo andare ci ha inebriato. A lungo andare immaginiamo di poter risolvere qualunque problema cui andiamo incontro usando la forza. A chi ha in mano un martello, dice il proverbio, ogni problema sembra un chiodo.
Prima che venisse fondato lo stato di Israele vasta parte della popolazione ebrea in Palestina non capiva che la forza ha dei limiti e pensava di poterla usare per realizzare qualunque obiettivo. Fortunatamente nei primi anni di Israele leader come David Ben-Gurion e Levi Eshkol compresero molto bene i limiti della forza e furono attenti a non superarli. Ma dalla guerra dei sei giorni del 1967 la forza militare è diventata una fissazione per Israele, un mantra: dove non si riesce con la forza si riesce con più forza.
L´assedio israeliano alla striscia di Gaza è una delle conseguenze negative di questo modo di pensare. Nasce dal falso presupposto che Hamas possa essere sconfitta con la forza delle armi, o in senso più lato, che la questione palestinese possa essere stroncata invece di risolverla.
Ma Hamas non è solo un´organizzazione terroristica. Hamas è un´idea. Un´idea disperata e fanatica nata dalla desolazione e dalla frustrazione di molti palestinesi. Nessuna idea è mai stata sconfitta con la forza - né con l´assedio, i bombardamenti, i commando della marina. Nessuna idea si spiana con i cingoli dei carrarmati. Per sconfiggere un´idea bisogna proporre un´idea migliore, più accattivante, più accettabile. L´unico modo che Israele ha per vincere su Hamas è stringere rapidamente un accordo con i palestinesi sull´istituzione di uno stato indipendente in Cisgiordania e nella striscia di Gaza in base ai confini stabiliti nel 1967, con capitale a Gerusalemme est. Israele deve firmare un accordo di pace con Mahmoud Abbas e il suo governo e ridurre così il conflitto israelo-palestinese ad un conflitto tra Israele e la striscia di Gaza. Quest´ultimo conflitto può essere risolto, infine, solo negoziando con Hamas o, cosa più ragionevole, tramite l´integrazione del movimento di Abbas, Fatah, con Hamas. Israele può sequestrare altre cento navi dirette a Gaza, inviare altre cento volte truppe di occupazione nella striscia, dispiegare a oltranza le sue forze militari, di polizia e i servizi segreti , ma non riuscirà a risolvere il problema. Il problema è che noi israeliani non siamo soli in questa terra e che i palestinesi non sono soli in questa terra. Noi israeliani non siamo soli a Gerusalemme e i palestinesi non sono soli a Gerusalemme. Fino a quando noi, israeliani e palestinesi, non accetteremo le conseguenze logiche di questo semplice dato di fatto, vivremo in perenne stato d´assedio-Gaza sotto l´assedio di Israele e Israele sotto l´assedio internazionale e arabo.
Non sottovaluto l´importanza della forza. La forza militare è vitale per Israele. Senza non potremmo sopravvivere un solo giorno. Guai al paese che sottovaluti l´efficacia della forza. Ma non possiamo permetterci di dimenticare neppure per un momento che la forza serve solo come misura di prevenzione - per impedire che Israele venga distrutto e conquistato, per proteggere le nostre vite e la nostra libertà. Qualunque iniziativa che preveda un uso della forza non come mezzo di prevenzione, di autodifesa, ma per stroncare i problemi e soffocare le idee, condurrà a nuovi disastri, come quello che ci siamo cercati in acque internazionali, in alto mare, di fronte alle rive di Gaza.

Repubblica 3.6.10
Una manovra, due Italie
di Salvatore Settis

Il testo finale della manovra di governo per la stabilizzazione finanziaria ha rinunciato a espropriare il ministero dei Beni culturali della competenza sui tagli agli istituti culturali, e ne ha ridotto la portata. Buone notizie? Certo. Ma, lo ha detto Mario Draghi nella sua importante relazione alla Banca d´Italia, «la correzione dei conti pubblici va accompagnata con il rilancio della crescita», e su questo punto capitale il decreto-legge Tremonti offre ben poco. La relazione Draghi martella cifre non eludibili: nel biennio 2008-09 il Pil è calato di 6 punti e mezzo, la metà della crescita dei 10 anni precedenti; calano redditi, consumi, esportazioni. Cresce la disoccupazione dei giovani, calano i salari iniziali, crollano le nuove assunzioni, quasi sempre precarie, e «la stagnazione distrugge capitale umano, soprattutto tra i giovani». A fronte di una situazione tanto drammatica, scrive Draghi, i tagli del governo «si concentrano sui costi di funzionamento delle amministrazioni pubbliche», e ciò proprio quando è necessario «aumentare la produttività della pubblica amministrazione». Secondo il presidente del Consiglio, le dichiarazioni del Governatore sono in piena sintonia con la manovra del Tesoro: ma questo embrassons-nous tanto ottimista non può esser preso sul serio.
La relazione Draghi contiene passaggi assai duri e severi, che danno dell´Italia un´istantanea assai più fedele di quella del governo. Nella situazione presente, «i costi dell´evasione fiscale e della corruzione divengono ancor più insopportabili». In particolare, ricorda Draghi, il 30% della base imponibile dell´Iva viene regolarmente evaso, per oltre 30 miliardi di euro l´anno, cifra che sale vertiginosamente (oltre i 100 miliardi) se si aggiunge l´evasione di altre imposte, come Irpef o Irap. Se tutti pagassero le tasse, non ci sarebbe alcun bisogno di manovre come quella che l´Italia dovrà ora subire. «L´evasione fiscale è un freno alla crescita perché richiede tasse più elevate per chi le paga e riduce le risorse alle politiche sociali». È la «macelleria sociale» di cui Draghi ha parlato commentando a braccio il proprio testo scritto: il taglio di oltre un miliardo e mezzo nel biennio al Servizio Sanitario Nazionale è un pezzo, e non il solo, di questa "macelleria".
Fra le vittime della "macelleria sociale" che affligge il Paese, non dimentichiamo il paesaggio, prezioso bene comune che la "manovra" e altre leggi di questa stagione consegnano al saccheggio indiscriminato di speculatori d´ogni sorta, cancellando il Codice dei Beni culturali con norme incostituzionali sul silenzio-assenso, rimaste tali e quali nella versione finale del decreto (si vedano i dati su Repubblica del 31 maggio). Non dimentichiamo le nostre città in preda a una frenesia costruttiva che non riflette i bisogni di una crescita demografica che non c´è, ma un "investire nel mattone" che vede in prima fila mafie e riciclatori di denaro sporco: cioè i protagonisti di quelle «relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, favorite dalla criminalità organizzata» di cui parla Draghi. Non dimentichiamo infine il Mezzogiorno, che la manovra del governo (art. 43) consegna legato mani e piedi alla condizione derogatoria di «zona a burocrazia zero» dove non esiste più la pubblica amministrazione, e «i provvedimenti amministrativi di qualsiasi natura ed oggetto avviati su istanza di parte» con riferimento a qualsivoglia «iniziativa produttiva» vengono decise ad arbitrio di un Commissario di governo (e non più dei prefetti, come nella bozza di pochi giorni fa). Sarà questo il modo di combattere la camorra e la ‘ndrangheta? E se i 15 miliardi di tagli (nel biennio) a Regioni ed Enti locali sono fatti «ai fini della tutela dell´unità economica della Repubblica» (art 14), come mai la «burocrazia zero» riguarda solo metà dell´Italia? Saranno i Commissari di Governo a risolvere l´annosa questione meridionale imbavagliando le procedure di legge dell´amministrazione ordinaria?
Nella manovra Tremonti e nella relazione Draghi si fronteggiano due Italie ben diverse. L´una e l´altra vogliono, a ragione, la correzione dei conti pubblici. Ma l´Italia di Draghi individua lo strumento primario nella lotta all´evasione e alla corruzione, l´Italia di Tremonti preferisce l´olocausto della pubblica amministrazione (additata al ludibrio come "burocrazia"), il taglio delle risorse a Regioni ed enti locali che possono rimediarvi svendendo il territorio, la promozione di condoni edilizi ed altre misure derogatorie. L´Italia di Draghi richiede «che l´Unità si celebri progettandone il rafforzamento e garantendone la vitalità», quella di Tremonti mette l´austerità e il sacrificio di tutti al servizio di un federalismo spendaccione e del separatismo leghista. L´Italia più competitiva che il Governatore della Banca d´Italia ha disegnato richiede una pubblica amministrazione più efficiente, rinsanguata da nuove assunzioni di giovani scelti per competenza e per merito. Richiede la lotta senza quartiere alle mafie e ai loro complici, agli evasori e a chi vi cerca serbatoi elettorali. Richiede di capovolgere la "macelleria sociale" mediante una politica di investimenti sulle nuove generazioni, sulla scuola, l´università e la ricerca. Pretende di non limitarsi a quello che Keynes chiamava «l´incubo del contabile», di mettere sì a posto i conti (partendo dalla lotta all´evasione e alla corruzione e non borseggiando i cittadini), ma con in mente un progetto per un Paese migliore

l’Unità 3.6.10
Don Cantini e gli altri:
l’elenco della vergogna che fa tremare la Chiesa
L’associazione delle vittime conta 130 episodi, la Cei un centinaio: ma la lista considera solo i casi accertati e perseguiti, tanti non fanno neppure denuncia
di Roberto Monteforte

Lo scorso 12 aprile un sacerdote di origini indiane che operava nella diocesi di Teramo è stato arrestato per violenza su di una bambina di 12 anni. I fatti sono accaduti il Natale scorso. Per la rapidità delle indagini è stata essenziale la piena collaborazione con gli inquirenti assicurata dal vescovo della città, monsignor Michele Seccia.
Sono i primi effetti della linea “verità ad ogni costo” indicata da Papa Benedetto XVI nella sua lettera ai cattolici d’Irlanda. Si è chiuso uno dei tanti casi di pedofilia nella Chiesa. Dovrebbero essere circa 130 i casi registrati in Italia, compresi quelli ancora da accertare. È il dato fornito dagli avvocati dell’associazione “Caramella buona”. Il dato ufficiale fornito dal segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata e confermato dal presidente, cardinale Angelo Bagnasco è di cento casi negli ultimi dieci anni giunti all’esame del tribunale canonico. Non si sa però quale sia stato l’esito di questi procedimenti. Il numero è significativo ma accertare l’entità del fenomeno pedofilia nella Chiesa in Italia non è semplice. La realtà è fluida. Vi sono le denunce e i processi all’esame della magistratura ordinaria: i proscioglimenti, i patteggiamenti, i ricorsi in gradi superiore di giudizio. Ma questo crimine odioso lascia il segno nel profondo e non sempre le vittime hanno il coraggio di affrontare un processo. Dicono gli psicologi che hanno bisogno di un lungo periodo per affrontare il trauma subito e poterlo denunciare. Per questo qualsiasi dato numerico molto probabilmente rappresenta solo la punta di un’iceberg di dolore. Quel “Non si arriva alle cento unità su circa 70 mila tra sacerdoti e religiosi” può sino ad un certo punto rassicurare le tante famiglie italiane che affidano i loro figli alle strutture ecclesiastiche. Malgrado la testimonianza di rigore, abnegazione e servizio reso della stragrande maggioranza dei sacerdoti, il dubbio e l’incertezza hanno finito per insinuarsi.
Se sino ad oggi ha prevalso la difesa del “buon nome” dell’istituzione da proteggere dagli scandali e quindi del sacerdote “paternamente protetto” dal suo vescovo, ora è finalmente la condizione della vittima a dover essere per prima considerata. Questo vuole dire che vescovi e “superiori” di religiosi che vengono a conoscenza di abusi sessuali compiuti su minori, anche se non hanno l’obbligo della denuncia, sono tenuti a garantire la massima collaborazione con gli inquirenti, e ad aiutare le vittime e gli stessi autori dei misfatti a sporgere denuncia alle autorità civili. L’invito è anche a riconsiderare comportamenti concreti dei responsabili delle diocesi, sottovalutazioni se non addirittura vere e proprie coperture dei preti “molestatori” spostati in parrocchie dove non erano conosciuti e dove sono tornati a commettere i loro abusi. Vi sono pure stati sacerdoti sotto denuncia “invitati” a ritirarsi in convento. Vi sono case religiose e monasteri per questo, come le strutture di Trento, Padova e di Roma gestite dai Padri Venturini, impegnati al recupero e al sostegno dei sacerdoti in «difficoltà» anche psicologica.
Dal dossier dalle associazioni di scarsa collaborazione con le procure da parte delle diocesi. Ne è testimone diretto e autorevole il magistrato «antipedofilia» Pietro Furno. Nei giorni scorsi ha confermato la denuncia resa già nel luglio 2002 al mensile del Paolini «Jesus». Niente sembra essere cambiato in questi otto anni. «È come la copertura che si registra nelle famiglie incestuose» aveva osservato. Nessuna denuncia, solo spostamenti: è il pericolo che si diffonde.
Che le cose non stiano così lo attestano le cause in corso contro il clero che ha abusato. Con una novità, sulla scia di quanto è accaduto in modo clamoroso negli Usa e in Irlanda , in Germania e in Austria, gli avvocati degli “abusati”, iniziano a porre in modo esplicito il problema del “favoreggiamento” di vescovi e superiori di religiosi che pur sapendo o messi nelle condizioni di sapere, poco hanno fatto per impedire la prosecuzione degli abusi. E’ stato esplicito l’avvocato Marazzita, legale dell’associazione «Caramella buona» che difende i giovani che hanno subito abusi da parte dell’ex parroco di Selva Candida don Ruggero Conti: ha annunciato l’ipotesi di incriminazione nei confronti di monsignor Gino Reali, vescovo di Porto Santa Rufina. È da lui che don Ruggero dipendeva. Il vescovo l’avrebbe «coperto» non prestando grande ascolto alle denuncie. Evasive le sue risposte ai magistrati. Ma questo non è l’unico caso di gerarchie ecclesiastiche chiamate a rispondere. L’avvocato delle vittime di don Marco Agostini, religioso della Congregazione degli Oblati di san Francesco di Sales, ex parroco a Torvajanica e a Pomezia accusato di abusi dal 1993 al 2002, condannato e poi morto suicida, hanno chiamato in causa l’attuale cardinal-vicario alla diocesi di Roma, Agostino Vallini allora vescovo di Albano.
Vi è anche la causa contro la curia di Napoli, per la copertura data a padre Giovanni, accusato di abusi verso minori nel 1999. L’arcivescovo della città era il cardinale Michele Giordano. Lo ha semplicemente spostato di parrocchia, malgrado vi fosse una relazione di specialisti e psichiatri che evidenziavano il rischio che il religioso continuasse a commettere abusi su minori. Non è stato ascoltato l’invito a tenerlo lontano dai bambini. Nel 2002, quando alla guida della curia vi era il cardinale Sepe, è stato nominato cappellano di un ospedale cittadino, con reparto pediatrico...
Ma c’è addirittura il caso del vescovo che arriva a chiedere 200 mila euro di risarcimento per danni alla vittima di abusi, perché la sua denuncia, troppo eclatante e pubblicizzata, avrebbe danneggiato l’immagine della diocesi. Diocesi di Agrigento nel 2000 retta da monsignor Carmelo Ferraro. L’ormai maggiorenne Marco Marchese denuncia di aver subito attenzioni particolari e violenze quando dodicenne frequentava il seminario minore di Favara. Fa il nome del “molestatore”: don Bruno Puleo. Non viene creduto. Il religioso viene condannato e patteggerà la pena. Nel 2006 Marchese avanza la richiesta di risarcimento simbolico verso chi, ignorando le denunce, avrebbe consentito che le molestie continuassero su altri minori. Per risposta la curia della Valle dei Templi fa partire una contro denuncia con richiesta di 200 mila euro per i danni recati all’immagine della Chiesa locale. «Difendere i bambini e non la diocesi» risponde a quello che era il suo vescovo il giovane.
Altro caso, questa volta di solidarietà del vescovo verso il prete condannato: curia di Brescia e don Marco Baresi a cui nel maggio 2009 il tribunale di Brescia infliggerà una condanna di sette anni e mezzo. Dopo la sentenza il vescovo gli esprime solidarietà, gli augura possa dimostrare la sua estraneità ai fatti contestatigli. Ad Aversa, monsignor Mario Milano non si è sentito di esprimere alcuna solidarietà alla vittima degli abusi subiti ad opera di don Marco Cerullo, vice parroco a Casal di Principe, colto in flagranza di reato e non pare abbia aperto alcun procedimento canonico nei confronti del sacerdote.
CASI ECLATANTI
Ma vi sono pure i casi eclatanti nella loro aberrazione come quello denunciato all’Istituto per sordomuti «Antonio Provolo» di Verona, gestito dai religiosi della congregazione della Compagnia di Maria. Tra gli anni 50 alla metà degli anni 80 sarebbe stato teatro di centinaia di abusi. Il reato è prescritto, ma gli autori degli abusi preti e laici sarebbero ancora lì. Le vittime hanno chiesto al vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti il loro allontanamento. Non hanno ottenuto risposta. “Ai tempi non presentarono alcuna denuncia circostanziata – è la risposta ma soli fatti generici”.
Più noto è il caso del fiorentino don Lelio Cantini, fino al 2005 parroco della Regina della Pace, che abusò per anni (dal 1973 al 1987) di ragazzine della sua parrocchia.
Ma solo dopo le ripetute denunce delle vittime nel 2007, malgrado la copertura della curia fiorentina dell’arcivescovo Antonelli e soprattutto del vescovo ausiliare monsignor Claudio Maniago, nell’ottobre 2008, oramai 85enne ,viene ridotto allo stato laicale con «l’obbligo di dimora vigilata in spirito di preghiera e penitenza». Contro l’ex prete era stata aperta un’inchiesta dalla Procura di Firenze.
Altro caso: don Giorgio Carli condannato a 7 anni e mezzo e al risarcimento delle vittime. La pena è caduta in prescrizione, ma è rimasto l’obbligo al risarcimento. Considerato innocente dalla sua diocesi don Giorgio non ha subito alcun procedimento canonico e ha continuato a svolgere la sua attività nella valli dell’Alto Adige. Chiede le dimissioni del vescovo di Savona , monsignor Vittorio Lupi, il giovane Francesco Zanardi, uno dei due ragazzi gay che il mese scorso si è “sposato” a Savona. Copertura anche per don Mauro Stefanoni parroco di Laglio (Como),all’epoca dei fatti il suo vescovo era monsignor Alessandro Maggiolini (defunto) e i maggiori collaboratori in diocesi monsignor Oscar Cantoni, ora vescovo di Crema e monsignor Enrico Benetti.
Ogni caso è a sé ma diverso è stato l’atteggiamento di monsignor Gualtiero Bassettii, vescovo di Arezzo nei confronti di don Pierpaolo Bertagna di Cortona (Arezzo), condannato a otto anni per aver molestato 38 bambini: lo ha sospeso a divinis. Il fondatore della Comunità Incontro di Amelia, Pierino Gelmini la riduzione alla condizione laicale ha dovuto chiederla lui stesso.
L’elenco dei casi di pedofilia, che non vuole dire necessariamente di colpevoli certi, è lungo. In attesa che la Conferenza episcopale renda noto l’elenco dei sacerdoti sottoposti a procedimento canonico con sentenza definitiva e di quelli condannati in modo definitivo dalla magistratura italiana, ci si può limitare a un generico elenco delle diocesi coinvolte negli ultimi anni. Nel 2004 ve ne sono stati a Forlì, Torino, Roma, Varese, Grosseto, Nuoro, Agrigento, Alessandria, Bari e Savona. Nel 2005 a Como, Cuneo,Arezzo e Napoli. L’anno seguente il 2006 a Roma, Ferrara, Lecce. Il resto è cronaca. L’aggiornamento non può che essere costante.

l’Unità 3.6.10
La storia di un gruppo di tredicenni violati da un prete a Pomezia
L’allora vescovo di Albano «impedì» ai Pm di fare luce
Gli abusi di Don Marco negati dalla Curia anche ai magistrati
di Andrea Palladino

«Dopo la nostra seconda denuncia raccontano le vittime il sacerdote fu spostato in un ostello per giovani ad Assisi». Gli investigatori si trovarono davanti a un muro di omertà. E così Don Marco venne sempre «coperto».

Hanno nomi che non puoi dimenticare, che rimangono impressi appena ti stringono la mano, con vigore, guardandoti negli occhi. Sono ragazzi normali, di una normale periferia romana, qualcuno sposato, qualcuno con figli piccoli. Hanno alle spalle anni di paure, di vergogna e di abusi, venuti da un prete che avevano cercato di fermare. Prima rivolgendosi al loro vescovo, nel 1998. Poi al suo successore, nel 2002, che promise l’avvio di un processo ecclesiastico, chiedendo, però, di non denunciare nulla alla giustizia civile. E, dopo altri due anni di silenzio imposto, alla Polizia, perché a quella giustizia ecclesiastica ormai non credevano più.
Oggi ascoltano con rabbia le parole venute dalla massima autorità dei vescovi italiani: «Se vi sono state coperture di abusi sessuali anche in Italia ha spiegato il presidente della Cei Bagnasco qualche giorno fa il giudizio della Chiesa è quello noto: si tratta di una cosa sbagliata». La storia di questo gruppo di ragazzi di Pomezia, alle porte di Roma, mostra, se non bastassero le parole di Bagnasco, come la Chiesa abbia chiuse le porte alla giustizia nei casi di pedofilia. Prima chiedendo il silenzio, poi rifiutando ogni collaborazione con i magistrati che cercavano di ricostruire le responsabilità e le coperture. «Padre Marco raccontano a distanza di anni i ragazzi di Pomezia l’hanno semplicemente spostato dopo la nostra seconda denuncia, mandandolo in un ostello per giovani ad Assisi, lasciando che molti ragazzi continuassero a frequentarlo». Mostrano una foto, che ritrae un prete barbuto, forte padre Marco Agostini mentre concelebra la messa solo un paio di mesi prima degli arresti e quattro anni dopo la loro denuncia fatta davanti all’allora vescovo di Albano laziale Agostino Vallini, oggi cardinale vicario di Roma. Nessuna sospensione a divinis, nessuna condanna.
E’ dal fascicolo del processo, però, che esce il documento che racconta meglio di qualsiasi inchiesta come la chiesa ha evitato, almeno in questo caso, di collaborare con i magistrati. E’ una lettera con la firma autorevole del vescovo di Albano Laziale Marcello Semeraro, succeduto a Vallini nel 2004. La data è del 30 maggio 2006, quando Ratzinger già aveva assunto il nome di Benedetto XVI. Rispondeva alla richiesta arrivata dalla Procura di Velletri che aveva appena ottenuto dal Gip la misura cautelare per padre Marco Agostini di poter avere le informazioni raccolte dalla Curia. Gli investigatori, durante due anni di indagini delicatissime, si erano trovati davanti a un muro di omertà impenetrabile, tanto che altri due sacerdoti, della stessa congregazione del prete accusato di pedofilia, gli Oblati di San Francesco di Sales, erano finiti sotto processo per favoreggiamento.
«Sono spiacente di non poter esaudire la richiesta» è la frase lapidaria di risposta del vescovo di Albano. Motivo? La “disposizione dell’articolo 4, n. 4 dell’accordo che apporta modificazioni al Concordato Lateranense”, ovvero l’accordo stato-chiesa firmato da Bettino Craxi il 18 febbraio 1984. Un accordo che ha fornito il supporto legale per negare ai magistrati le informazioni sui preti pedofili: «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero», recita la norma firmata nel 1984.
La Procura della Repubblica di Velletri, non si arrese, risposte che se è vero che non c’è l’obbligo, è anche vero che non c’è il divieto, rimettendo tutto nella discrezionalità dei vescovi. Ma nulla è accaduto, gli atti del processo ecclesiastico non sono mai stati forniti.
Oggi paradossalmente il processo rischia di non arrivare nemmeno a conclusione. Padre Marco è morto tragicamente, uccidendosi nella casa della sorella dove stava scontando gli arresti domiciliari. L’unica imputazione rimasta in piedi riguarda un’accusa di favoreggiamento per un sacerdote della sua stessa congregazione, con una prescrizione ormai vicinissima. In questo processo per la prima volta il giudice aveva ammesso la possibilità di agire anche contro la Curia, per una omessa vigilanza. Tutto inutile, probabilmente. Ai ragazzi di Pomezia non resta che dimenticare, senza giustizia.

l’Unità 3.6.10
«Complice delle violenze» Indagato Zoellitsch capo della chiesa tedesca
Il vescovo di Friburgo e presidente della Conferenza episcopale, avrebbe coperto un caso avvenuto negli anni Sessanta. Germania sotto choc: il prelato siede al tavolo governativo istituito dalla Merkel contro gli abusi.
di Laura Lucchini

La Germania è tornata ieri a vivere l’incubo che l’ha tormentata per mesi. Robert Zollitsch, presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, è indagato dalla procura di Friburgo per presunta complicità in casi di abusi su minori. Dopo mesi di denunce di violenze sessuali, consumate all’interno di strutture educative cattoliche ora il sospetto raggiunge anche colui che si è fatto portavoce del cambiamento e della lotta contro la pedofilia.
L’apertura dell’inchiesta è stata confermata ieri dal procuratore capo di Friburgo, Wolfgang Maier, dopo che era stata anticipata dalla televisione pubblica ARD. La procedura è stata avviata in seguito alla denuncia di un cittadino, presentata a fine maggio, in cui si accusa Zollitsch di aver fatto assumere nel 1987 come referente un sacerdote, i cui abusi sessuali e tendenze pedofile erano gia state ampiamente documentate. I fatti si sarebbero verificati nella cittadina di Birnau, nei pressi di Costanza. All’epoca Zollitsch era responsabile del personale presso l’arcidiocesi di Friburgo. La presunta vittima del sacerdote accusa l’arcidiocesi di avere di fatto nascosto coscientemente un pedofilo.
LA RICHIESTA DI PERDONO
Lo scorso mese di marzo Zollitsch, in seguito allo scandalo di abusi che ha investito la Chiesa del paese, ha chiesto perdono alle vittime per i crimini commessi da alcuni sacerdoti tedeschi. La sua richiesta di perdono arrivava dopo una riunione in Vaticano con Papa Benedetto XVI. Allo stesso modo Zollitsch aveva assicurato, dopo la riunione con il Pontefice, che questi lo aveva spronato ad adottare misure efficaci per affrontare lo scandalo. In una sorta di dichiarazione d’intenti Zollitsch aveva promesso assistenza alle vittime, perché gli abusi non cadessero mai più nel silenzio, e aveva assicurato collaborazione con la giustizia per andare a fondo nelle denunce.
Sempre Robert Zollitsch, nel suo tentativo di far pulizia, aveva fatto pressione nelle scorse settimane affinché il polemico vescovo di Augsburg, Walter Mixa, si dimettesse perché accusato di aver picchiato numerosi ragazzi quando era ancora prete. Qualche giorno dopo Mixa presentò le dimissioni, che furono accolte da Benedetto XVI.
Come se non bastasse, il presidente della Conferenza Episcopale, partecipa come rappresentante della Chiesa nella tavola rotonda contro gli abusi, organizzata dal Governo di Angela Merkel in seguito allo scandalo. L’Ordinariato della diocesi di Friburgo ha immediatamente respinto come “infondate” le accuse. La procura di Friburgo deve ora stabilire se i fatti in questione possono ancora essere giudicati o sono prescritti.

il Fatto 3.6.10
Abusi, sotto accusa il capo della chiesa tedesca
L’arcivescovo di Friburgo, Zollittsch, avrebbe coperto un sacerdote nel 1987
di Nina Fabrizio

Il capo della Chiesa tedesca e arcivescovo di Friburgo, mons. Robert Zollitsch, avrebbe saputo di almeno un caso di abuso sessuale su minore all'interno della sua arcidiocesi e anzichè prendere provvedimenti, avrebbe coperto. L'accusa, pesantissima, arriva dalla Procura di Friburgo e cade come un macigno su una delle figure finora più credibili nella lotta alla pedofilia tra il clero e i vertici di una Chiesa già provata da una lunga lista di scandali a sfondo pedofilo, emersi di recente in Germania. L'indagine “preliminare” cui la procura tedesca sottoporrà Zollitsch, che al momento risulta indagato per complicità, parte da una denuncia a carico dell'arcivescovo presentata da una presunta vittima che negli anni Sessanta sarebbe stata abusata sessualmente da un sacerdote nel monastero di Birnau dell'arcivescovato di Friburgo. La vittima ha raccontato che l'arcidiocesi di Friburgo era a conoscenza delle orribili violenze subite ma nonostante ciò nel 1987 Zollitsch, che all'epoca era responsabile del personale dell'arcidiocesi, confermò il posto del sacerdote pedofilo nella comunità di Birnau. In buona sostanza, se ne lavò le mani. Una versione tenacemente respinta dall'arcidiocesi di Friburgo secondo cui le accuse al suo arcivescovo sono “false” perché l’arcidiocesi avrebbe saputo solo alla fine del 2006 di quell'abuso avvenuto a Birnau mentre mons. Zollitsch “non ha in alcun modo” confermato il posto del sacerdote pedofilo nel 1987. Un aspetto non del tutto chiaro però, dal momento che la nota dell'arcidiocesi prosegue affermando che Zollitsch non ha rinnovato la posizione del sacerdote, anche se ci sono indicazioni secondo cui “il padre sotto accusa” ha continuato a lavorare nella comunità di Birnau. Noto per le sue posizioni progressiste e liberali (ha parlato anche in favore delle unioni civili omosessuali e si è dimostrato aperto sul celibato), Zollisch è stato nominato arcivescovo di Friburgo nel 2003 da Giovanni Paolo II e poi eletto a capo dell'episcopato tedesco nel 2008. Da quando nel febbraio scorso lo scandalo pedofilia ha massicciamente coinvolto la Chiesa tedesca lambendo persino il fratello del Papa, Georg Ratzinger, che ha ammesso qualche schiaffo agli allievi del coro da lui diretto a Ratisbona, mons. Zollitsch si è contraddistinto per essere uno dei maggiori assertori della linea della tolleranza zero avviata da Benedetto XVI. La notizia del suo coinvolgimento è arrivata come un fulmine a ciel sereno in Vaticano. Il card. Walter Kasper, capo del dicastero per l'Unità dei Cristiani e suo connazionale, si dice “incredulo”. “Conosco Zollitsch benissimo dice al Fatto non credo una cosa del genere sia possibile”. Di sicuro la notizia è un nuovo choc per la Chiesa del Paese natale di Ratzinger dove già un vescovo, mons. Mixa, nominato alla diocesi di Augusta da Benedetto XVI si è dimesso per pedofilia. In Germania poi, mentre, secondo un recente sondaggio, il 23% dei cattolici pensa di abbandonare la Chiesa, il governo ha avviato una commissione speciale per fare piena luce sugli abusi dei preti. I risultati si attendono a fine anno e rischiano di presentare un conto salatissimo, soprattutto alla casse della Chiesa di Germania. Qui infatti gli iscritti come cattolici nelle liste dei contribuenti versano in automatico con la dichiarazione dei redditi un contributo alla Chiesa. A meno che, abbandonando il cattolicesimo, da quelle liste non si facciano togliere. Un rischio sempre più concreto che si trasformerebbe in un tracollo finanziario per la Chiesa locale.

il Fatto 3.6.10
Bambini vittime due volte: prima i pedofili, poi la legge
Gli psichiatri: “Non esiste la minore gravità del reato”
di Silvia D’Onghia

“Quando si tocca un bambino, non esistono reati di minore o maggiore entità”. Antonio Marzano, presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, è arrabbiatissimo. L’emendamento numero 1707, presentato da alcuni esponenti della maggioranza e giustificato come rimedio ad un errore tecnico, lascerebbe alle forze di polizia la discrezionalità sull’arresto di un pedofilo colto in flagranza, in base ad una presunta minore o maggiore gravità del reato. Vale a dire, per esempio, che la persona beccata mentre compie atti di libidine davanti ad una scuola elementare può tranquillamente non essere fermata, perché quel gesto viene considerato di minore entità. “La reazione di un bambino ad un atto di pedofilia è individuale – spiega la neuropsichiatra Alessandra Palattella – ma nella quasi totalità dei casi si configura in un trauma che, soprattutto se non affrontato all’interno di un contesto familiare favorevole, può generare gravi disturbi in età adulta”. Molto dipende, spiega l’esperta, dall’età del bambino e dal sostegno che riceve da genitori e parenti. Se si pensa che moltissimi casi di abusi avvengono tra le mura domestiche o comunque in un ambiente considerato familiare (amici dei genitori, per esempio), si comprende maggiormente la difficoltà che un minore ha di raccontare quanto accaduto, e quindi di iniziare a superarlo. “Anche laddove c’è ‘soltanto’ l’esposizione ad un atto sessuale – racconta Marziale – si possono verificare sintomi come la paura, la perdita di urina nel letto; si perde la fiducia nel rapporto con un adulto”. “Nel bambino si scatena un senso di vergogna molto grande – aggiunge Palattella – la paura dello stigma sociale. La risposta al trauma può avere una sindrome acuta da stress che rientra nelle prime ore, di solito dopo un giorno o due, ma poi si manifesta con una sindrome tardiva, definita post-traumatica da stress: problemi alimentari, condotte sessuali promiscue, abuso di alcol o droga, disturbi dell’umore, tendenza alla manipolazione. Un minore che viene sottoposto ad un atto di pedofilia, da adulto può essere portato a ripeterlo, può riproporlo nell’approccio con l’altro sesso: una sorta di coazione a ripetere che in realtà è una forma di difesa del soggetto. I traumi sessuali sono all’origine di reazioni psicopatologiche molto serie, che condizioneranno la vita adulta”. Da qualsiasi lato la si veda, gli effetti di questa modifica sarebbero devastanti. “Spesso, quando la polizia arresta un pedofilo, si sente dire: ‘Meno male che mi avete fermato perché da solo non riuscivo a farlo – spiega ancora Marziale – Bisogna sempre pensare che si tratta di una patologia compulsiva”. Se un esibizionista non viene fermato, non solo c’è la possibilità (“la certezza”, secondo Marziale) che lo rifaccia, ma si corre il rischio che possa commettere atti via via più gravi. Sono persone che hanno problemi e che vanno curate: “Nessuno dice che devono passare la loro vita in carcere”, afferma il presidente dell’Osservatorio, che lo scorso anno ha presentato in Senato un disegno di legge che prevede l’obbligo di un percorso di recupero psicoterapeutico per queste persone. “Intanto il pedofilo va fermato, per evitare che lo rifaccia, poi, se viene riconosciuto colpevole, va seguito e assistito, con o senza l’utilizzo di farmaci (a discrezione dello psicoterapeuta)”. L’Osservatorio chiede alle opposizioni di insorgere contro l’emendamento: “Ci saremmo aspettati una sollevazione di massa, invece si è alzata solo qualche sporadica voce. Non capiamo cosa significhino le motivazioni addotte dal Pdl per giustificare questo inserimento: chi ha a cuore la sorte dei bambini non può accettare che esistano cavilli a fare da paravento a motivazioni politiche. Porre limiti alle intercettazioni sui casi di violenza su minori significa agevolare la posizione dei pedofili”.

Repubblica 3.6.10
L’ultimo libro di Helena Janeczek: la storia dell’attacco all’abbazia tra realtà e finzione
Montecassino, la battaglia eterna
La madre di tutte le battaglie tra eroi, vittime e memorie
di Roberto Saviano

L´ultimo libro di Helena Janeczek racconta una storia di guerra: l´attacco all´abbazia Ma è anche un viaggio attraverso i ricordi dei soldati arrivati da tutto il mondo
A combattere non furono solo gli americani. Con loro c´erano polacchi e maori
Il romanzo mescola verità e finzione mostrando come quell´episodio ci riguardi ancora

Quando vengo a sapere che Helena Janeczek ha pubblicato un nuovo libro, faccio tutto il possibile per averlo prima che entri in libreria. Ogni uscita di Helena mi ossessiona: l´attesa di avere quelle pagine per le mani diventa urgenza. Da poco è uscito per Guanda Le rondini di Montecassino.
Helena Janeczek è una figlia di Auschwitz. Sua madre si è salvata dai campi di sterminio nazisti, e lei sa che a quel destino di salvezza deve la sua vita, ma anche l´eterno tormento che i figli dei sopravvissuti si portano dentro. Tedesca di nascita, figlia di ebrei polacchi, è in Italia dal 1983, e ha fatto della lingua italiana la sua lingua di scrittrice.
Il suo romanzo racconta di guerra. Anzi di una battaglia: la battaglia di Montecassino, una delle battaglie più feroci di tutti i tempi, definita la Stalingrado d´Italia. Lì si realizzò l´epopea dell´armata polacca al comando del generale Anders che si lasciò decimare sino all´ultimo uomo ma riuscì a far arretrare i nazisti. Quello che non erano riusciti a fare in Polonia, un manipolo di polacchi riuscì a farlo in Italia: respingere i tedeschi. Nelle quattro battaglie di Montecassino morirono più di cinquantamila uomini, furono scaricate 1250 tonnellate di bombe e dalle bocche di fuoco di 754 cannoni uscirono duecentomila proiettili. Gli alleati dovevano sfondare la linea Gustav per arrivare a Roma. E lo fecero con tutta la loro potenza. Senza risparmiare civili, abbazia, animali, case. Nei miei ricordi i cimiteri dei reduci non sono mai spariti. Le lapidi sbiadite dal tempo. Ricordo l´obelisco: «Per la nostra e la vostra libertà noi soldati polacchi demmo l´anima a Dio, i corpi alla terra d´Italia, alla Polonia i cuori". Cassino dalle mie parti non viene raccontata: viene tramandata. Come la discendenza di sangue. Helena Janeczek scrive un romanzo potentissimo con quella stessa forza tramandata. La sua è una gestazione di storie sconvolgenti. Se si passeggia sulle colline o semplicemente nelle campagne di Montecassino ancora si trovano schegge, granate inesplose, proiettili. Battaglia dimenticata perché lì il volto della guerra ha preso la forma del silenzio dopo gli stupri di massa seguiti alla vittoria francese. Le truppe in campo erano spesso cumuli di gente straniera. Carne da macello delle colonie. Animali feroci da combattimento sguinzagliati tra le greggi. La storia le ricorda come "marocchinate", la gente del luogo invece le ricorda come violenze di massa a danni di civili innocenti: si stimano 3000 vittime di stupro tra uomini donne e bambine, molti di loro sodomizzati a morte o impalati.
Ma Montecassino è stato anche il luogo dove si è testimoniato l´eroismo dei polacchi. Gente che ha combattuto in un paese estraneo in nome di una libertà collettiva. Marocchini, polacchi, algerini: etnie che tutt´oggi provengono dagli stessi posti e affollano il basso Lazio e il Casertano. Una volta arrivavano qui come soldati, ora arrivano come immigrati. Ed è proprio qui che la Janeczeck apre il sipario degli eventi scrivendo un libro che ti da un sapore mondiale. Dove tutto è connesso e annodato in un perimetro mondiale. Ci raccontano sempre di guerra mondiale ma vediamo solo americani e tedeschi. I fronti erano molti di più e le nazioni coinvolte molte di più.
"Non si può immaginare nulla di vero senza trovare un appiglio in ciò che si ha dentro, ma i disegni incisi nell´anima sono, a modo loro, astratti più di una mappa, impersonali quanto un documento, e io allora non posso fare a meno di figurarmeli a immagine e somiglianza di un moko che confonde nelle sue spire un più recente tatuaggio." Il romanzo di Helena Janeczeck è questo, un tatuaggio inciso nella pelle non senza dolore. Una mappa che raccoglie i fili di molte storie confluite nell´intrico della battaglia leggendaria ai piedi di un´abbazia distrutta dagli americani per un errore di valutazione. Questo diventa luogo mitico, un punto geografico al centro di una valle scura capace di contenere tutti i luoghi e di lasciar passare tutte le identità possibili.
All´ombra della grande battaglia di Montecassino si incrociano, come in una vertigine, la storia immaginata con quella reale. Si incrociano le vite del sergente texano Jako Wilkins, felice e fiero di servire la propria nazione, di Rapata Sullivan, il giovane maori che segue le orme eroiche del battaglione del nonno, di Edoardo Belinski e Anand Gupta, due studenti romani che nell´ultima estate della loro adolescenza inseguono le tracce deboli di una memoria che in pochi vogliono raccontare. Poi, un passo a lato accanto alla battaglia, Irka Szer, ebrea polacca che fugge ragazzina dal ghetto ma si ritrova in Siberia con la sola protezione del suo violino abbracciato forte contro la violenza invincibile del lager. E Milek Steinwurzel, sceso in Italia con le truppe del generale Andres, e morto a Milano senza lasciare dietro si sé una parola su quegli anni terribili, su come era riuscito a salvarsi. Milek sopravvive nel silenzio. La parola non sempre salva. Non sempre è necessaria. Sempre più spesso è superflua: è ritorno al dolore. Helena Janeczek questo lo sa.
In un suo libro, il primo, Lezioni di tenebra (che non si trova in libreria, inviterei gli editori a rioffrirlo al pubblico: è troppo prezioso per non essere ristampato) è proprio una battaglia con la memoria. Una lotta tra il decidere se ricordare o meno: anestetizzare il male emotivo oppure lasciar fluire tutto, come unica terapia per impedire alla storia di ripetersi, alla tragedia di tornare, al dolore di rinascere.
E questa scrittrice dal nome impronunciabile, dal viso di donna slava, con il passaporto tedesco, l´anima italiana, la memoria polacca, il figlio napoletano e la residenza lombarda fa del suo mondo e del suo passato una placenta dove si formano storie di individui che non si possono dimenticare. La bellezza di questo romanzo risiede nella struttura, nel coincidere degli opposti: il caos della battaglia coi silenzi dei vinti, la normalità con l´eroismo degli ultimi, la cura della memoria e l´irruenza delle nuove generazioni, il passato inanellato indissolubilmente col presente.
Sono tutte storie singolari, in qualche modo minori, quelle che Helena Janeczek racconta, eppure in ognuna il respiro e il battito del cuore è quello del coraggio e della generosità di chi si trova nei minuti decisivi della propria vita a scegliere tra il bene e il male nel frastuono della battaglia. Ed è anche la storia di chi si fa carico di questa scelta, di chi si trova molti anni dopo a fare i conti con una memoria di cui sa poco o nulla, perché in molti sono rimasti sommersi e i salvati non parlano. È una storia che si costruisce passo passo attraverso documenti falsificati per poter fuggire e le testimonianze brucianti raccolte senza fare domande, atterriti davanti all´enormità del ricordo. Quanto conta la verità dei fatti? Molto sembra, perché la ricerca dell´autrice è scrupolosa e maniacale al punto da suscitare nelle persone interrogate una do-manda spontanea: "Ma tu sei uno storico o stai scrivendo un romanzo?".
Dalle prime pagine il racconto si mescola con la menzogna, con l´invenzione. L´autrice sale su un taxi e per evitare le domande indiscrete del guidatore racconta di avere un cognome polacco e una madre italiana. Immagina di confessare che suo padre è stato soldato nella battaglia di Montecassino, tra le truppe del generale Andres. Ma immagina appunto tutto questo, non lo dice, e poi suo padre non ha mai combattuto a Montecassino. O forse sì? La sua immagine si confonde con quella dell´amico di una vita, quel Milek Steinwurzel che invece soldato lo era stato per davvero, le loro identità si sovrappongono in un gioco di specchi dove il giusto, il dato obiettivo, non sta mai da una parte sola, non è afferrabile perché i testimoni sono reticenti e la verità assume il tono della diceria inverificabile. Ma la verità non è l´elemento indispensabile in questa storia. La forza grandiosa e potente di queste pagine viene interamente da un gesto che è un azzardo, un atto di fiducia verso il potere dell´immaginazione di riempire un vuoto. Il tentativo di tendere un filo tra vero e falso, realtà e finzione, su cui far correre quel confine labile che a volte separa la vita dalla morte. Fa questo Helena Janeczeck. E lo fa con una maestria da scrittrice vera. Lo fa portando con sé la consapevolezza del piacere narrativo e il sapore del racconto tramandato col sangue, ancora prima che con le parole. Quando si arriva alla fine di questo romanzo, ci si sente addosso il torpore della battaglia, come se la polvere delle macerie della guerra fosse composta dalle molteplici schegge dei nostri conflitti quotidiani. E Montecassino diviene la guerra di tutti, il luogo da cui tutti veniamo.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara

l’Unità 3.6.10
Angeli, demoni e cellule
La Chiesa ha sottovalutato il «batterio artificiale». Ma la visione della natura è cambiata per sempre
di Enzo Mazzi

La notizia della «cellula artificiale» è rimbalzata nei giorni scorsi sui giornali e le tv di tutto il mondo che hanno subito interrogato esperti di scienza e uomini di chiesa. Noi profani, gente della strada, ne abbiamo preso atto non senza un groviglio di sensazioni: dallo stupore, alla speranza, al timore. Passato un po’ di tempo e a mente più fredda viene tuttavia spontanea una riflessione: è una scoperta fra le tante oppure siamo di fronte a nuova rivoluzione, a un cambiamento capace di incidere nella nostra esistenza, come quelli operati da Copernico, da Giordano Bruno, da Galileo? Questi tolsero, letteralmente, la terra sotto i piedi agli uomini e donne di quel tempo a cui veniva a mancare la stabilità del suolo. E fecero vacillare la cattedra di verità che, posta ben saldamente al centro della creazione, assicurava alla gerarchia ecclesiastica un potere assoluto. «È maggiore forse la paura con cui voi pronunciate la sentenza di quella che provo io nel riceverla», disse Giordano Bruno ai giudici che lo condannavano al rogo. Ci sono voluti cinquecento anni per elaborare quella grande paura e una quantità di scomuniche, condanne, roghi. E non siamo ancora alla fine.
Ebbene, la creazione artificiale della vita è una rivoluzione paragonabile a quella che fece da levatrice alla modernità? È capace di penetrare nella nostra vita e scuoterla dal profondo in tutte le sue dimensioni? Sembrerebbe di no a giudicare dai commenti sbiaditi della stampa e dalle reazioni possibiliste della gerarchia ecclesiastica la quale non sembra annusare odor di eresia.
Ritengo invece che la scoperta di Craig Venter, costituisca lo sbocco e un nuovo inizio del grande sforzo di liberazione che si è sviluppato negli ultimi tre secoli e che sembra condurre a legare la ridefinizione dei rapporti fra generi, classi, popoli, culture, che è stato l’obiettivo di tutte le rivoluzioni moderne, con la ridefinizione del rapporto fra umanità e natura. Lo sviluppo umano ha bisogno di un’etica nuova. La modernità si è sviluppata sulla base dell’etica dello sfruttamento sconsiderato della natura considerata come un oggetto. Ora s’impone una svolta: l’assunzione di responsabilità verso la natura in un’ottica evolutiva e non puramente conservatrice. Dall’etica dello sfruttamento aggressivo all’etica della creazione liberatrice.
Non è un caso che nei nuovi movimenti si faccia strada la riscoperta dell’originale naturalismo evolutivo e creativo di Pierre Teilard de Chardin, gesuita, teologo, grande scienziato, geologo e paleontologo, professore all’Istituto Cattolico di Parigi, poi ricercatore in Cina e quindi negli Stati Uniti dove è morto nel 1955. Attraverso la sua indagine di rigore scientifico sulla evoluzione biologica giunge alla convinzione che la Biosfera, il mondo della vita, tenda alla coscienza, cioè si evolva verso la Noosfera, parola difficile che significa in sostanza «il mondo della coscienza». Ma ciò avviene senza che all’inizio esista un ordine precostituito (quanto siamo lontani, qui, dalla teoria nuova del «disegno intelligente»!). La natura non è data una volta per tutte. L’evoluzione non segue una linea ben individuabile, si muove a tentoni, a strappi, a impennate inspiegabili. L’ordine è nel futuro, non nel passato: cioè va costruito. L’Universo si dipana nella libertà e nell’autonomia nutrite di relazioni. E sono precisamente questi valori di trasformazione che costituiscono il compito umano di «costruire la Terra costruire la natura». E Dio stesso è lì, nella trasformazione, non nella fissità.
Nello stesso periodo, anni 50, sosteneva cose simili Ernst Block, marxista antidogmatico ed eretico, perennemente in fuga da ogni regime, autore del Principio-speranza, dove scrive: «Quando si è sperimentata una volta la realtà come storia non è più possibile il ritorno alla fede astorica di ciò che sussiste e rimane in eterno. Dio: humanum futuro e non ancora raggiunto, “Deus absconditus”, Dio speranza».
Il Dio creatore immobile, onnipotente ed eterno, è «la cifra assoluta dell’aggressività umana», dirà il teologo fiorentino Ernesto Balducci sulla scia di Teilard de Chardin e di Block.
Ritengo che si possano considerare queste intuizioni, condannate tutte come eretiche, quali profezie del traguardo raggiunto oggi dalla creazione della vita artificiale. Il tutto da avvicinare, con indispensabile senso critico e estrema cautela, come «segni dei tempi» capaci di orientare il cammino in questa buia notte di luna nuova.

l’Unità 3.6.10
Perseguitati e poi respinti
Laura Boldrini racconta l’Italia feroce con i rifugiati

di Flore Murard- Yovanovitch

La portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati nel libro «Tutti indietro» ha raccolto le storie, durissime e tragiche, di afghani, eritrei, somali, iracheni e quant’altri cercano un approdo. Spesso invano. Per cinismo.

Questo libro Laura Boldrini ha deciso di scriverlo nell’estate del 2009, quando il governo italiano, in palese violazione del Diritto internazionale umanitario, mise in atto i respingimenti via mare. Eppure, i migranti che approdano esausti sulle nostre coste non sono tutti «clandestini», come vorrebbe la vulgata dominante, ma sono a maggioranza richiedenti asilo. Quale vita di persecuzione può spingere uomini e donne ad attraversare il Sahara rovente nelle mani di trafficanti, per salire su una barchetta sgangherata verso onde ignote? Torture e dittature: ecco da cosa fuggono, per cercare non solo un sostegno economico in Europa, ma spesso la libertà. Una realtà troppo spesso occultata. Afgani, eritrei, somali, sudanesi, iracheni che la portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati ha personalmente incontrato nei suoi tanti anni di lavoro nelle maggiori crisi umanitarie. Un patrimonio di racconti che Boldrini ci restituisce con passione in Tutti indietro (Rizzoli, 217 pp. 18 euro).
RICACCIATI NELL’ORRORE
I sopravvissuti ai naufragi di Lampedusa, gli sfollati kosovari o quei bambini afgani nascosti sotto i tir nel porto di Patrasso. Come il piccolo Sayed, perseguitato perché di etnia hazara, che lascia Kabul a 11 anni, attraversa tutta l’Asia, sopravvive alle botte nei famigerati centri di detenzione in Grecia (dove il diniego alle domande d’asilo è pressoché sistematico), per approdare a Bari a 20 anni! Ma soprattutto storie insostenibili di donne migranti, che pagano il prezzo più alto, tra violenze e abusi sessuali, come Astier, in fuga dai militari eritrei, finita nelle mani della polizia libica. Persone che vengono respinte verso gli stessi orrori da cui fuggono. Per evitare questo esiste il «diritto d’asilo», che il governo italiano ignora colpevolmente. Così, nel maggio 2009, iniziano massicci respingimenti via mare, senza alcuna valutazione della eventualità che tra i migranti ci siano potenziali rifugiati politici. Oltre a violare il principio del «non refoulement» verso Stati che potrebbero mettere in pericolo l’incolumità della persona, c’è il cinismo freddo dei Maroni e dei La Russa che rilasciano dichiarazioni «rassicuranti» su una fantomatica «protezione» in Libia, allorché il Paese di Gheddafi non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra ed è tristemente famoso per le torture.
I telefoni che scottano, le vacanze rimandate last minute per coordinare un recupero di gommoni tra Guardia costiera, pescherecci e assalti dei giornalisti: anche con note di ironia, Laura Boldrini ci racconta l’impegno 24 ore su 24 di chi salva vite umane. Come i coraggiosi marinai, i volontari dei centri di accoglienza, il sindaco di Riace: l’altro volto di un’Italia civile che non vuole diventare disumana, di fronte ai drammi che Tutti indietro ricorda. Dal mercantile Pinar, bloccato per giorni a causa del ping pong tra Malta e Italia, con a bordo 143 migranti e una donna già morta, agli «uomini-tonni», appesi senza soccorso ad una gabbia in balia delle onde. Arriva qui Laura Boldrini, dopo Iraq e Sudan, per dire di un’ultima frontiera, la nostra: razzista, crescentemente xenofoba. La Portavoce marchigiana ci fa guardare negli occhi i bambini rom forzatamente sgomberati o gli africani «cacciati» a Castel Volturno e Rosarno; o ci fa da guida nei palazzoni fatiscenti della piana di Gioia Tauro, senza acqua né elettricità, dove come animali si ammucchiano migranti. Storie insanabili, «sospese» tra una burocrazia lenta e l’impossibile ritorno indietro. Mesi che diventano anni. Perché per una vita dignitosa non bastano documenti o protezione sussidiaria, ci vorrebbe un sistema di accoglienza ben diverso. E se il Paese di approdo nega una vitale «seconda chance» ai rifugiati, le loro sono vite perse. Ci vorrà tanto lavoro per ridare pieno significato alla parola «asilo» in Italia.

il Fatto 3.6.10
Chelazzi, il pm vicino alla verità sulle stragi in “un’Italia sotto ricatto”
Gli mancava l’ultimo tassello per arrivare alla politica
di Sandra Amurri

Morì nel 2003, per un infarto in caserma. L’indagine sui mandanti esterni venne archiviata

Quattro giorni prima di morire, il 17 aprile 2003, stroncato da un infarto nella foresteria della Guardia di Finanza di via Sicilia a Roma Gabriele Chelazzi, applicato alla Dna aveva interrogato il generale Mario Mori come persona informata dei fatti nell’ambito dell’inchiesta sulle stragi del ’93. Dopo la sua morte tutto venne archiviato. Chi lo conosceva bene racconta che fosse teso e nervoso. Tanto che poche ore prima che il suo cuore si fermasse, nella solitudine di quella foresteria scrisse una lettera, amara come lo stato d’animo che la dettava. Una lettera mai spedita, indirizzata al procuratore capo di Firenze Nannucci, in cui denunciò l’isolamento che viveva nonostante, o forse proprio per, la complessità delle inchieste di cui si occupava. Un anno prima davanti alla Commissione nazionale Antimafia aveva descritto la stagione delle bombe del ’93, fino a quella non esplosa del 24 gennaio 94 allo Stadio Olimpico di Roma, stagione “unica e irripetibile, almeno nella storia repubblicana, dalla finalità eversiva”. Chiese al Parlamento di utilizzare gli strumenti della politica per trovare risposte che fin lì la magistratura non aveva trovato. Ma il Parlamento non si mosse. Un silenzio dentro cui si sono consumate molte storie. “Peggio di una guerra. L’Italia sotto ricatto” definì quella stagione Chelazzi nella requisitoria al processo per le stragi del ’93 ’94 da cui prende il titolo il libro curato dal cronista Francesco Nocentini, edito dall’associazione “Tra i familiari delle vittime di via dei Georgofili” e dal Comune di Firenze. Particolarmente significative le parole che Chelazzi scrive al termine di quella requisitoria: “Questa sentenza pone le fondamenta per andare avanti”. Ricorda di “non aver mai cessato di lavorare su quello che ci può essere oltre questi imputati e oltre questa organizzazione”. E aggiunge: “La campagna delle stragi voleva condizionare la storia di questo Paese”. Nella richiesta di archiviazione sugli autori 1 e 2, nomi in codice di Berlusconi e Dell’Utri si legge: “Mancava la possibilità di stabilire se il dinamismo politico di Cosa nostra” nel momento in cui le stragi erano state decise o erano in corso “attrasse anche l’interlocutore politico”. Dall’incrocio tra tabulati telefonici e testimonianze era emerso che i fratelli Graviano pochi mesi prima e subito dopo gli attentati del ’93 erano a spasso per l’Italia con le rispettive fidanzate: al Carnevale di Venezia, poi ad Abano Terme, quindi a Riccione dove affittano una casa nel periodo della strage di Firenze. Poi in Versilia e, infine, ad agosto, dopo gli attentati di Milano e Roma, in Costa Smeralda, dove abitano in un appartamento all’interno di una grande villa di Porto Rotondo, come confermato da un finanziere milanese il cui nome è coperto da segreto. Gabriele Chelazzi, sposato con Caterina, medico di Firenze, padre di Francesca, era un uomo gentile ed ironico, uno dei pochi magistrati non siciliani a conoscere veramente la mafia. Sapeva coniugare senso di responsabilità di indipendenza e di imparzialità. Era solito dire: ”Un’indagine nasce sempre dal basso dai piccoli indizi poi cresce. Mai il contrario. Mai innamorarsi di una tesi. Il magistrato deve essere il primo difensore dell’indagato”. Il teorema, spiegò in un incontro pubblico “non è una parolaccia solo in bocca ai denigratori della giustizia ,il pericolo del teorema c’è ed è reale, è vero. Ne parla lo ammette uno che il magistrato lo fa,il teorema è in agguato anche per i magistrati. Un teorema vuol dire assemblare spezzoni di realtà depurati dagli elementi, io li chiamo dinamici, farli diventare inerti, spersonalizzati, sistemarli come tessere sullo stesso piano di appoggio per la ricostruzione della realtà. Il ragionamento giudiziario è tutta un’altra cosa”. Ecco perché i colleghi che lo hanno conosciuto alla domanda: “Avrebbe potuto scoprire con chi Cosa nostra aveva interessi convergenti per destabilizzare, per ricattare lo Stato in cambio di nuove leggi, per usufruire di quel vuoto politico?”, rispondono: “Sì”, e aggiungono: “Perché era un magistrato capace, un investigatore puro e libero”. Forse per questo lo hanno lasciato solo finché il cuore non si è fermato. Le nuove inchieste rivelano convergenze di finalità tra mafia e servizi deviati legati all’eversione nera per destabilizzare l’apparato politico, creando le premesse per un colpo di Stato e impedire l’ascesa del “comunismo” non a caso nelle lettere di minacce ai magistrati si legge: ”Fate i paladini della libertà ma voi siete comunisti”.