sabato 2 aprile 2016

Corriere 2.4.16
Ecco il Talmud in italiano Il sapere antico degli ebrei
di Paolo Salom

Un’impresa titanica per un’opera titanica che ha superato i millenni, accompagnando le sorti degli ebrei. È la traduzione in italiano, la prima nella storia, del Talmud , il corpus di sapienza, usi, leggi e consuetudini ebraiche compilato in epoche diverse in due luoghi differenti. Testo sacro secondo soltanto alla Bibbia ( Torah , in ebraico, ovvero il Pentateuco ), il trattato si divide nel Talmud di Gerusalemme , terminato alla fine del IV secolo, e nel Talmud Babilonese , concluso un secolo più tardi. «Noi — dice al “Corriere” rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma e presidente del progetto (mentre direttore è la professoressa Clelia Piperno) — abbiamo affrontato la traduzione del solo Talmud Babilonese , il più corposo, completo e studiato: un’impresa titanica, è vero. Ma in passato altri hanno trasferito l’opera in altre lingue, come l’inglese e il tedesco, dunque era possibile farlo anche in italiano».
Il 5 aprile il primo volume di un’opera che, alla fine, si svilupperà in oltre trenta tomi, tutti editi da Giuntina, verrà donato al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sede dell’Accademia dei Lincei, a Roma: è il Trattato di Rosh haShanà (Capodanno), 450 pagine comprensive di note, indici e tabelle esplicative. Certo non un libro alla portata di tutti. «Però necessario — puntualizza rav Di Segni — anzi indispensabile, direi, per tutti gli studiosi, non soltanto di area ebraica, interessati ad approfondire la conoscenza di un universo culturale che nel Talmud ha il suo cuore».
Cuore che ha visto le stampe interamente per la prima volta a Venezia, nel 1523, a opera di Daniel Bomberg. E contiene migliaia di frasi che spesso pronunciamo senza saperne l’origine. Come «chi salva una vita, salva il mondo intero»; «la pace è per il mondo quello che il lievito è per la pasta»; «se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?». Originale a fronte, la versione italiana del testo sacro ha avuto la sua genesi in un finanziamento di 5 milioni di euro del ministero dell’Istruzione (Miur) e nella fruttuosa collaborazione tra la presidenza del Consiglio, lo stesso Miur, il Cnr e l’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane. Cinquanta esperti-traduttori hanno lavorato al volume, che comprende 70 pagine nell’originale del Talmud su un totale di oltre cinquemila. «Il Cnr ci ha fornito un programma che ha consentito di lavorare digitalmente non importa da che luogo, se in Italia o al di là dell’oceano», racconta rav Di Segni. Ne è scaturito un lavoro su carta. «Ma in futuro sarà a disposizione anche una versione digitale dell’opera».
Talmud , in ebraico «studio». È la summa della tradizione orale compilata per preservare caratteristiche e unità di un popolo che, dopo la Diaspora, rischiava di scomparire. Diviso sostanzialmente in Mishnah , insegnamento da ripetere, e Ghemarah , complemento, ovvero commenti vari al testo, nel suo insieme il Talmud è tutt’altro che un testo monolitico, anche se contiene la Halakah , ovvero la «via da seguire»: il codice penale e civile degli ebrei. Piuttosto, qualunque questione affrontata da rabbini e saggi del tempo viene esaminata e risolta attraverso i pareri (anche contrapposti) annotati a margine. In alcuni passi il Talmud sa essere anche oscuro, o ambiguo. Scritto in ebraico e in aramaico, non può certo essere affrontato come si affronta un saggio qualunque.
Nella storia dei rapporti tra cristiani ed ebrei, il Talmud è stato motivo di dispute feroci. Che spesso si concludevano con il rogo pubblico del testo sacro (il primo nel 1244) o con il sequestro dei volumi trovati nei Ghetti. Questo perché frasi estrapolate dal contesto portavano ad accuse di «perfidia» e «blasfemia». Addirittura, siccome in alcuni brani sparsi qua e là («che messi insieme in totale non fanno più di 2 o 3 fogli, un millesimo dell’intera opera», spiega rav Di Segni), si parla di un certo «Yeshu» (Gesù) e di una certa «Miriam» (Maria) — con riferimenti molto dubbi ai personaggi del Vangelo —, nei secoli il Talmud ha subito censure e autocensure, e dunque le edizioni classiche sono state «espurgate» dei delicati riferimenti. Si parlerà di Yeshu nell’edizione italiana? «La nostra versione terrà conto dei testi originali e degli interventi censori, che anch’essi sono parte della storia — conferma il rabbino capo di Roma —. E lo studioso, o chiunque sarà interessato, troverà tutti i riferimenti o nel testo stesso o nelle note». L’intero lavoro sarà terminato nel giro di qualche anno: al momento i 50 esperti hanno trascritto un quarto del totale, anche se una data certa di «fine lavoro» non è prevedibile, considerata la complessità dell’opera. Ma, come è scritto nel Talmud : «Tu non sei tenuto a finire il lavoro ma non te ne puoi esimere».
Repubblica 2.4.16
Turchia
La battaglia di Can per la democrazia tiene in scacco Erdogan
Il processo al direttore di Cumhuriyet ha attirato l’attenzione mondiale sui diritti violati da Ankara
di Bernardo Valli

ISTANBUL LA vera requisitoria l’ha pronunciata l’imputato, Can Dundar, il direttore di
Cumhuriyet. Più che difendersi dalle pesanti imputazioni elencate dal procuratore, quel pacato, ironico collega con gli occhiali sottili, dalla montatura metallica, e con il pizzo color pepe, ha accusato il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, di non rispettare le regole democratiche, alle quali si richiama, di violare la libertà di stampa e i più elementari diritti umani tenendo in prigione decine di giornalisti e appropriandosi di quotidiani dell’opposizione con vari espedienti fiscali. Non ho ascoltato di persona le severe e audaci parole di Can Dundar. L’udienza si svolgeva a porte chiuse ma il suo discorso arrivava a brandelli nei corridoi tramite i difensori. E si direbbe che è rimbalzato ben al di là del Bosforo, producendo un effetto imprevisto. Dundar, e il suo collega Erdem Gul, capo della redazione di Ankara, sono usciti liberi dal Palazzo di giustizia, nonostante si prevedesse il loro arresto, chiesto a gran voce dal presidente della Repubblica, costituitosi parte civile, al fine di annullare la decisione della Corte costituzionale che ne aveva ordinato la scarcerazione. Non è stata pronunciata un’assoluzione. Il processo riprenderà il 28 aprile. Ma l’interesse internazionale che ha suscitato, l’ampio dibattito sulla libertà di stampa in Turchia che ha provocato, hanno trasformato quella che era una delle solite rivalse di Erdogan contro i giornalisti indisciplinati in una sua personale bruciante sconfitta. Un’altra dopo quella del 28 marzo, quando c’è stata la prima udienza. Allora la presenza in aula di numerosi diplomatici europei (l’ambasciatore tedesco e i consoli generali di Francia, Gran Bretagna, Italia e altri paesi dell’Unione) aveva sorpreso e indignato Erdogan, che l’aveva definita un’intrusione negli affari interni del suo paese. L’azione simultanea di una decina di deputati dell’opposizione schieratisi a difesa degli imputati per evitare il loro arresto, aveva impedito che il processo si svolgesse a porte chiuse.
Ieri c’è stato un preludio americano alla seconda udienza a porte chiuse di Istanbul. Erdogan si trovava a Washington per il vertice sul nucleare e tutto lascia immaginare che il difficile incontro con Obama, mentre si moltiplicavano le accuse al presidente turco per il suo accanimento contro la stampa, sia stato decisivo per quel che è accaduto più tardi nell’aula del tribunale in cui venivano giudicati Dundar e Gul. Obama aveva concesso a Erdogan soltanto qualche minuto, per una conversazione “informale”, in piedi, tra un impegno e l’altro. E invece poi l’incontro è durato cinquanta minuti, e si è concluso con una generica dichiarazione sul terrorismo. L’ampiezza delle proteste internazionali per il processo di Istanbul non era certo sfuggita, né aveva lasciato insensibile, il presidente americano. Il quale non avrebbe perduto l’occasione per richiamare alla ragione l’irrequieto ma indispensabile alleato nel Medio Oriente terremotato. Ed Erdogan non poteva far arrestare i due giornalisti subito dopo l’incontro con Obama. La sua guardia del corpo non ha certo raccolto grandi simpatie quando ha manganellato, senza risparmiare un cronista americano, i manifestati procurdi che si raccoglievano per protestare nei luoghi in cui era segnalata la sua presenza. Erdogan ha pubblicamente difeso le sue posizioni. Alla Cnn ha dichiarato il suo rispetto per la libertà di stampa e ha sostenuto che i giornalisti imprigionati in patria non lo sono per reati che la riguardano. Anche l’Unione europea sta prospettando l’invio di una missione in Turchia per studiare la situazione dei giornali. I legami tra Ankara e Bruxelles sono più stretti, più vincolanti, da quando è stato concluso l’accordo del 18 marzo sui migranti. Una notizia sconcertante solleva tuttavia dei dubbi sulla volontà turca di rispettare quel contratto. Amnesty International ha fatto sapere che dai campi in cui sono raccolti gran parte dei tre milioni di profughi in Turchia almeno una decina vengono ogni giorno costretti a ritornare nelle zone in guerra appena abbandonate. Una preoccupazione espressa anche dall’Alto commissariato per i profughi delle Nazioni Unite. Se queste informazioni fossero confermate si tratterebbe di un’infrazione gravissima alle regole internazionali. La credibilità della Turchia come “paese terzo sicuro” crollerebbe. E l’intesa tra l’Unione e il governo di Ankara potrebbe essere rimessa in discussione.
La giornata che doveva essere quella della punizione inflitta ai giornalisti indisciplinati si è conclusa infelicemente per il presidente turco. Ritorno nell’aula del Palazzo di giustizia dove con una procedura forzata gli imputati rischiavano pene pesanti, decenni di carcere o addirittura l’ergastolo. Erano accusati di avere pubblicato nel maggio dello scorso anno, con l’appoggio di un video, il passaggio di camion carichi di armi alla frontiera siriana, destinati ai movimenti jihadisti. Il trasporto avveniva, nel 2014, sotto il controllo dei servizi segreti turchi, i quali dissero poi che i destinatari erano gruppi turcomanni, nemici del regime di Damasco ma anche di Daesh, lo Stato islamico. Il guaio è che i turcomanni avrebbero poi fatto sapere che loro non avevano ricevuto nulla. Ma negli atti d’accusa, in cui si parla di spionaggio e di complicità in un tentativo di colpo di Stato, non si entra in quei dettagli tutt’altro che trascurabili. Nella sua requisitoria il procuratore ha puntato sui principali capi di imputazione, imitato dalla parte civile (che rappresentava il presidente della Repubblica e i servizi segreti), rivelando tuttavia una inattesa esitazione nel pronunciarsi sullo status degli accusati, nell’attesa della sentenza. Dopo 92 giorni di detenzione i due giornalisti sono stati liberati dalla Corte costituzionale, che ha ritenuto inutile il carcere per un reato di stampa. E che quindi non riteneva valide le altre ben più pesanti imputazioni. Il presidente in persona ha definito scorretta la decisione della corte suprema e si è costituito appunto parte civile con l’intenzione di rimandare in prigione Dundar e il suo collega Gul. Ma ieri il procuratore si è ben guardato dal chiedere il loro arresto nonostante le pesanti accuse formulate nella requisitoria. Il colloquio con Obama avvenuto poche ore prima aveva cambiato la tattica giudiziaria. Quasi cinquecento avvocati hanno chiesto con insistenza di assistere al processo. I giudici hanno ammesso quelli che l’aula poteva contenere. Abbastanza per rendere impermeabili le porte chiuse.
In realtà il processo al direttore e al redattore capo di Cumhuriyet, quotidiano laico d’opposizione, si è trasformato in un grande processo internazionale al regime di Erdogan. La prima udienza del 28 marzo ha dato una dimensione inattesa all’avvenimento. La ferma risposta a catena dei governi accusati da Erdogan di intromettersi negli affari interni turchi, con la presenza dei diplomatici in aula, ha dimostrato la decisione di proseguire l’azione in favore della libertà di stampa nel paese alleato. Gli europei hanno risposto in coro che i loro rappresentanti avevano il pieno diritto di entrare nelle aule dei tribunali. E della loro posizione è arrivata notizia fino alla Casa Bianca.
La Stampa 2.4.16
Il Cairo mente anche all’America sulla morte del ricercatore italiano
Il ministro Shoukry ha raccontato a Kerry che il giovane è rimasto invischiato in una gang e ha fatto sesso sadomaso
di Paolo Mastrolilli

L’Egitto sta raccontando versioni sempre meno credibili dell’omicidio di Giulio Regeni, e non solo ai diplomatici italiani. L’unica ragione per cui continua ad essere tollerato è il rischio che il Paese imploda, provocando una crisi che trascinerebbe nel baratro l’intera regione. Questo pone un serio dilemma anche al governo di Roma, che deve decidere se usare i giacimenti di gas appena scoperti dall’Eni come una leva per risolvere questo caso.
A margine del summit nucleare di Washington, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha incontrato il segretario di Stato Kerry, che ha sollevato il problema di Regeni. Finché queste cose le fate ai vostri cittadini - è stato il ragionamento - non ci piace, ma non possiamo interferire più di tanto: se però cominciate a colpire gli stranieri, il discorso cambia. La risposta di Shoukry è stata quasi imbarazzante. L’ultima versione del Cairo è che Regeni si era immischiato in una gang criminale, e aveva partecipato anche a sedute di sesso sadomaso. I membri di questa gang lo avrebbero torturato e poi ucciso. Le forze di sicurezza egiziane hanno scoperto i colpevoli, ma quando sono andate a prenderli è scoppiato un conflitto a fuoco in cui sono morti tutti. Quindi non ci sono più testimoni oculari diretti, in grado di raccontare cosa sia successo a Giulio.
Queste versioni sarebbero ridicole, se dietro non ci fosse una tragedia. Il problema però è molto ampio, e riguarda in generale la stabilità di un Paese di 90 milioni di abitanti, che è sempre stato la chiave della stabilità in Medio Oriente, ma è privo delle risorse economiche necessarie a restare in piedi. Una versione più attendibile dei fatti, e ancora più preoccupante, è che gli apparati di sicurezza che tengono in piedi l’Egitto sono spaccati: da una parte c’è il gruppo del presidente al Sisi, sostenuto dal ministero dell’Interno, che era favorevole alle riforme economiche e a un maggior rispetto dei diritti umani; dall’altra una fazione più estremista, sempre laica, che invece vuole bloccare tutto usando la forza. Questa disputa interna è la scusa che il gruppo di al Sisi sta usando per rifiutare qualunque progresso sul piano delle riforme, e il sospetto è che Regeni sia stato ucciso dall’altra fazione, proprio per mettere in difficoltà il governo e favorirne la caduta. Giulio, secondo gli egiziani, si era esposto frequentando ambienti che doveva evitare. Nei giorni precedenti alla sua morte aveva chiesto un incontro all’ambasciata italiana al Cairo, che però non era avvenuto. Questo forse ha contribuito a convincere i suoi killer che era vulnerabile e poteva essere aggredito. L’Egitto è problematico anche sul fronte della lotta al terrorismo. Chiede aiuti per combattere al Qaeda e l’espansione dell’Isis nella Penisola del Sinai, ma non consente poi nemmeno l’accesso agli alleati da cui bussa. In Libia, appoggiando Tripoli e spingendo il generale Haftar a cercare una soluzione militare alla crisi nazionale, ha complicato la mediazione dell’Onu che tutta la comunità internazionale invece sosteneva.
Per l’Italia ora tutto questo pone un serio dilemma strategico. I giacimenti di gas che l’Eni ha scoperto sarebbero molto importanti per la sostenibilità dell’economia egiziana, ma sono anche una leva che Roma potrebbe usare per spingere il Cairo a chiarire il caso Regeni. Col rischio, però, di favorire lo sgretolamento del Paese.
La Stampa 2.4.16
Omicidio Regeni
Ora gli inglesi soffiano sulla crisi Italia-Egitto
I timori degli 007: Londra punta ai giacimenti dell’Eni
Dettagli e nuove foto nel dossier egiziano in arrivo a Roma
di Francesco Grignetti

Si avvicina il momento della verità per l’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni. Il 5 aprile il team investigativo egiziano sarà a Roma, a incontrare i nostri. Al pomeriggio, poi, il ministro Paolo Gentiloni riferirà in Parlamento. E però le pressioni sul governo mettono a disagio Palazzo Chigi. In ambienti del governo si fa esplicito riferimento alla posta in palio: il mega-giacimento di gas scoperto dall’Eni nel Mediterraneo, in acque egiziane. Qualcuno ipotizza una manovra della Gran Bretagna per approfondire la frattura tra Italia ed Egitto in modo da defenestrare l’Eni e avvicinarsi così ai ricchi giacimenti di gas scoperti nel Mediterraneo. Emergono più elementi nell’alimentare il sospetto di un ruolo britannico nello sfruttare a proprio vantaggio la crisi fra Il Cairo e Roma innescata dal caso Regeni.
Le richieste italiane
In Italia, il pm Sergio Colaiocco ha incontrato ieri poliziotti e carabinieri, chiedendo di acquisire dagli egiziani i tabulati telefonici e il traffico di celle di una decina di persone tra cui amici e conoscenti di Giulio per ricostruire i suoi spostamenti nei giorni precedenti la sua scomparsa.
Il dossier egiziano
Molte risposte verranno dal dossier che gli egiziani stanno approntando; ne ha parlato diffusamente il quotidiano «Al Akhbar». Non ci sono però rivelazioni-bomba, come pure era sembrato. Non ci sono, per essere chiari, alcuna ammissione dei servizi segreti egiziani, né il risultato di pedinamenti che avrebbero dovuto cominciare dal primo giorno in cui Giulio mise piede al Cairo, e tantomeno fotografie che immortalino i suoi incontri semiclandestini con operai e sindacalisti. «Se è vero, l’Egitto ci ha detto frottole», riconosceva il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi.
Il dossier - si legge sempre su «Al Akhbar» - raccoglie tutte le indagini fin qui svolte; «comprende numerosi documenti e informazioni importanti munite di foto dalla data di inizio dell’accaduto», e la ricostruzione «delle complesse relazioni della vittima», fino agli «incontri con operai egiziani ed alcuni sindacalisti per la sua ricerca». Non è chiaro se ci sono anche le fondamentali informazioni sui tabulati, e sui video di sorveglianza.
La gang dei rapinatori
Non manca un capitolo sull’uccisione dei banditi a New Cairo. E gli egiziani dovranno spiegare la storia inverosimile di questi documenti. «La parte egiziana - scrive sempre il quotidiano cairota - presenterà gli effetti personali del ricercatore italiano ritrovati al governatorato di Kalubia nell’abitazione della sorella del colpevole principale. Gli effetti sono: uno zaino di colore rosso con bandiera dell’Italia dentro il quale c’erano il passaporto di Giulio Regeni, una tessera dell’Auc (Università americana del Cairo, ndr), una tessera dell’Università di Cambridge , una carta Visa a nome di Giulio, e due cellulari». A parte, molto più cautamente del primo giorno, si indica che «sono stati anche ritrovati un portafoglio di pelle da donna con la parola Love, la somma di 5 mila lire egiziane, un pezzo oscuro di 15 grammi della sostanza di hashish, un orologio da donna di colore nero, tre occhiali da sole».
Gli amici della vittima
La procura di Giza ha sentito molti amici di Regeni. Tra gli altri, il professor Gennaro, docente di economia presso l’università britannica al Cairo: erano d’accordo per incontrarsi nel quartiere di Bab El Loq e andare insieme alla festa di compleanno di un loro amico, un docente. Gennaro ha atteso invano all’appuntamento, poi è andato a casa dell’amico dove si festeggiava il compleanno «e ha aspettato Regeni fino alle 23, però non si è presentato alla festa». Tramite la comune amica Noura, è stato chiamato il coinquilino Mohamed, che non era a casa, ma è rientrato per vedere se Giulio era in casa. A quel punto Gennaro ha contattato l’ambasciata.
La sindacalista
La procura ha sentito anche l’attivista del Centro egiziano per i diritti Economici e Sociali, Hoda Kamel. «Hoda lo aiutava nella sua ricerca sul campo riguardante i sindacati indipendenti, ha organizzato incontri con gli operai perché il ricercatore potesse completare il suo dottorato, e lo ha incontrato sei volte. L’ultima volta, sei giorni prima della scomparsa. Nell’ultimo incontro hanno discusso del reddito minimo degli operai».
La Stampa 2.4.16
Tornano a crescere i disoccupati
A febbraio +0,1% però c’è un calo dello 0,1% fra i giovani. Si riducono le assunzioni stabili Negli Stati Uniti l’economia corre: a marzo creati 215.000 posti, più delle attese degli analisti
di Luigi Grassia

La ripresa economica italiana arranca, gli incentivi alle assunzioni sono dimezzati e così torna a crescere il numero dei disoccupati. L’Istat rileva un tasso di disoccupazione dell’11,7%, in aumento di 0,1 punti rispetto a gennaio. Non è molto, ma in teoria dovremmo essere in ripresa. In numeri assoluti l’Istat stima che i disoccupati a febbraio siano 7.000 in più. Resta favorevole la prospettiva sui dodici mesi, visto che nell’anno i disoccupati diminuiscono di 136 mila.
Ma un problema emerge considerando non il numero dei disoccupati ma quello degli occupati: a febbraio ce n’erano 97 mila in meno, soprattutto a causa dei lavoratori permanenti. E per i dipendenti a tempo indeterminato questo è il primo calo dall’inizio del 2015. Spiega l’Istat che «dopo la forte crescita registrata a gennaio 2016 (+0,7%, pari a +98 mila) presumibilmente associata al meccanismo di incentivi introdotto dalla legge di stabilità 2015», il riflusso di febbraio riporta i dipendenti permanenti ai livelli di dicembre 2015.
È positivo che a febbraio ci siano 96 mila occupati e 238 mila dipendenti a tempo indeterminato in più rispetto ai dodici mesi precedenti. La crescita su base annua è dello 0,4% mentre calano sia i disoccupati (-4,4%) sia gli inattivi (-0,7%). Nell’anno i dipendenti a termine diminuiscono di 39 mila e i lavoratori indipendenti di 103 mila.
Ci sono anche altri numeri da considerare. Il tasso di inattività a febbraio sale al 36% (+0,2 punti da gennaio) con una forte differenza di genere: per le donne è al 46,1% (+0,3 punti) mentre per gli uomini è del 25,8% (+0,1 punti).
In positivo si nota un calo del tasso di disoccupazione giovanile: diminuisce al 39,1% cioè -0,1 punti rispetto al mese precedente. Ma la forza lavoro italiana è sempre più anziana. A febbraio 2016 ci sono 286 mila occupati con più di 50 anni rispetto all’anno precedente (+3,9%) e 17 mila in più rispetto a gennaio (+0,2%) a fronte di cali nelle fasce di età centrali (tra i 25 e i 49 anni) di 210 mila persone nell’ultimo anno e 125 mila nel mese. Fra gli ultra-cinquantenni gli occupati sono 7,6 milioni mentre i disoccupati sono 478 mila, in calo di 49 mila rispetto a gennaio e di 27 mila rispetto al febbraio 2015.
Come commentare i numeri dell’Istat? Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, dice che «dopo i dati positivi di gennaio, quelli di febbraio indicano che il mercato del lavoro continua a registrare oscillazioni congiunturali legate a una situazione economica che presenta ancora incertezze. Queste oscillazioni non modificano, comunque, la tendenza positiva dell’occupazione nel medio periodo». Invece per Renata Polverini (Forza Italia) «i numeri attestano l’inutilità del Jobs Act. Siamo di fronte all’ennesimo fallimento delle politiche economiche e sociali del governo, non bastano misure tampone per creare opportunità e sviluppo». Secondo il Movimento Cinque Stelle «i numeri dimostrano che il Jobs Act è solo un bluff. Il lieve incremento dell’occupazione nei mesi scorsi è stato dovuto solo agli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato, che ora sono stati dimezzati. Questo ha annullato i pochi effetti del Jobs Act».
Tutto un altro mondo gli Stati Uniti, dove l’economia nel mese di marzo ha creato 215.000 posti di lavoro, cioè più delle attese degli analisti che nel stimavano 205.000. Il tasso di disoccupazione è salito al 5% (dal 4,9% di febbraio) ma solo perché più persone si sono sentite incoraggiate a cercare un impiego. Cinica la reazione delle Borse: gli indici sono andati giù perché più posti di lavoro significa tassi di interesse in rialzo in un una prospettiva più ravvicinata.
La Stampa 2.4.16
La sinistra punta sul referendum-trivelle
“Prova generale della spallata d’autunno”
Renziani tranquilli: azzurri e leghisti non voteranno
di Carlo Bertini

Non è tanto la mozione di sfiducia dei grillini il terreno di scontro che attende il governo di qui alle prossime settimane: quella non preoccupa granché, tanto più che all’appello dei 5stelle, definito «patetico» dal vicesegretario Guerini, la minoranza Pd ha ovviamente risposto picche, «non potendo fare altrimenti pena l’uscita dal partito», allarga le braccia uno degli uomini del premier. E’ piuttosto la data del 17 aprile, quella del referendum sulle trivelle, ad infiammare gli animi, perché nelle intenzioni della sinistra fuori dal Pd può costituire la prova generale della «spallata» che si vorrebbe infliggere a Renzi a ottobre col referendum sulle riforme costituzionali. Le opposizioni per due settimane proveranno a cavalcare la vicenda Guidi per svegliare gli elettori e convincerne il maggior numero possibile ad andare a votare. Non tanto con la speranza di superare il quorum, quanto piuttosto di usare questo referendum come primo attendibile sondaggio di ciò potrebbe accadere in autunno al secondo round.
In un corridoio della Camera, prima di infilarsi in una riunione di Sinistra Italiana, l’ex piddì Alfredo D’Attorre, svela il calcolo che c’è alla base di questo auspicio, che parte dalla previsione di affluenza: «Se al referendum sulle trivelle votasse il 40% di elettori e vi fossero 16 milioni di sì, sarebbe sufficiente per poter sperare in un esito positivo in autunno. Siccome gli aventi diritto al voto in Italia sono circa 50 milioni, si è calcolato che potrebbero votare al referendum costituzionale 32-34 milioni di italiani e quindi basterebbero 17-18 milioni di no in quel caso per mandare a casa questo governo. Non è impossibile...»
Ragionamenti tutti sul filo, che danno per scontate molte cose, come la circostanza che tutti coloro che andranno a votare contro le trivelle, in contrasto col dettato del Pd sull’astensione, sono automaticamente da considerare a sfavore delle riforme del governo nella tornata referendaria successiva. Ma questi calcoli degli oppositori fanno capire come lo scandalo che ha investito il governo sia considerato un buon viatico per affrontare la prima prova del 17 aprile. Ma gli uomini del premier sono tranquilli assai, malgrado la sinistra interna, cioè i bersaniani, sollevi grida contro «i fatti inquietanti» e lunedì in Direzione chiederà di «non mettere la testa sotto la sabbia», come ha già avvertito il lucano Speranza. I renziani - in un antipasto dello scontro che andrà in scena lunedì - già ricordano che non uno della minoranza fosse contrario a suo tempo a quell’emendamento su Tempa Rossa. E fanno i loro conti, «loro alzeranno i toni e proveranno ad aprire un fronte politico sulla trasparenza, ma è difficile che questa vicenda, pur grave, possa spostare una quota importante di italiani al referendum sulle trivelle». La convinzione è che l’elettorato leghista tutto concentrato al nord sia poco sensibile, così come quello berlusconiano. E il rammarico casomai è non aver già approvato la normativa sul conflitto di interessi ancora ferma alla Camera, che forse avrebbe evitato anzitempo questo pasticcio...
La Stampa 2.4.16
Il referendum doppiamente sbagliato
di Giovanni Sabbatucci

C’è qualcosa di sbagliato e di improprio nel dibattito che precede il cosiddetto «referendum sulle trivelle» del prossimo 17 aprile: qualcosa di sbagliato nella sostanza e di improprio nella forma.
La sostanza va ben al di là del quesito specifico, che chiede agli elettori di pronunciarsi sull’eventuale proroga delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare a meno di venti chilometri dalle coste: in gioco è la politica energetica del nostro Paese, che di energia a buon mercato ha sempre avuto un gran bisogno. Trovarne almeno una parte in casa propria - come accadde negli Anni Cinquanta, ai tempi dell’Eni di Mattei - sarebbe assai utile, non solo per ridurre la dipendenza da partner esteri instabili o imbarazzanti, ma anche per creare occupazione laddove scarseggia. A meno che non si dimostri che gli impianti (le trivelle) comportano eccessivi pericoli per chi vi lavora (finora non è stato così) o provocano inquinamento chimico dei fondali o danni irreparabili alla fauna marina e quindi alla pesca.
La sostanza del problema sta tutta qui: di questo dunque si dovrebbe discutere nelle sedi appropriate. E invece no: come spesso accade in questo Paese, il dibattito sfocia subito in contrapposizioni ideologiche o apertamente politico-partitiche: ambientalisti contro industrialisti, governo contro opposizioni, maggioranza contro minoranza del Partito democratico. Pochi si sono sottratti a queste logiche. Fra questi Romano Prodi che ha annunciato il suo No, coerentemente con la sua storia di studioso e di dirigente d’industria. Meno coraggioso, Pierluigi Bersani ha detto che voterà ma non come voterà, probabilmente per non rompere il fronte della minoranza Pd, schierata per un Sì dalle chiare implicazioni antirenziane. Il segretario-premier ha infatti scelto per il suo partito la via, abbastanza inusuale, dell’astensione. Ed è stato per questo criticato da sinistra.
La critica è ovviamente legittima sul piano politico. Ma - qui vengo alla questione di forma - non può essere estesa a chiunque abbia consapevolmente scelto di astenersi dalle urne. Il quesito è molto tecnico e di difficile comprensione (si tratta di dire sì o no all’abrogazione di una legge che consente la proroga di una concessione già in atto). L’elettore può decidere che la questione è per lui irrilevante o troppo complicata e rifiutarsi di rispondere: senza per questo essere trattato come un ignavo o come un baro che si appropria indebitamente delle astensioni fisiologiche o di quelle genericamente «antipolitiche» per far vincere una delle opzioni in campo. Del resto, la Costituzione (art.75) parla chiaro: quando fissa un tasso di affluenza minimo del 50 % come condizione della validità del referendum abrogativo, prevede la presenza degli astensionisti e implicitamente li riconosce come parte di un processo elettorale, lasciando ai promotori della consultazione l’onere di suscitare interesse e partecipazione intorno al quesito proposto.
Anche su questo punto, la Costituzione può essere cambiata: si è parlato spesso di abolire il quorum e di alzare contestualmente il numero di firme necessario per la tenuta del referendum. Ma, finché l’articolo 75 resta com’è, prendersela con chi non vota è inutile e ingiusto. Tanto più quando il vero tema di dibattito rischia di essere oscurato da scelte pregiudiziali e logiche di schieramento.
La Stampa 2.4.16
Sottosegretario e sindaca portavano sconosciuti a votare alle primarie Pd
La ricostruzione che emerge dai documenti dei pm
di Francesco Grignetti

No, non è il Texas. È la Basilicata. E così ci saranno pure il petrolio e le royalties, ma ci sono soprattutto la sindachessa che piazza i suoi fedeli, il vigile urbano che trucca le primarie del Pd, l’assistente che fa il giro delle sette chiese e chissà perché non vuole parlare al telefono, il sottosegretario che non molla la posizione e da Roma muove i fili della politica regionale.
L’inchiesta che ha fatto dimettere la ministra Federica Guidi, e che sta contribuendo a demolire l’immagine della ministra Maria Elena Boschi, è anche uno spaccato di piccole trame di paese in salsa dem. La grande multinazionale Total, infatti, alle prese con un business miliardario, deve vedersela innanzitutto con la signora Rosaria Vicino, Pd, primo cittadino di Corleto Perticara, 2.537 anime in provincia di Potenza. Il preziosissimo sito di Tempa Rossa ricade nel suo territorio. E lei, come da intercettazioni, ha un obiettivo solo: «Senti - dice all’ingegnere Rocco D’Amato, progettista del campo Total - ma poi... ma che devono fare una gara d’appalto normale, pubblica oppure se... per i lavori... o come funziona? Ah! e quindi la devono fare a chiamata diretta, forse».
Un tempo si sarebbe chiamato clientelismo. Oggi, chissà. «Una volta che si è sistemato il figlio da qualche parte - confida il vigile urbano a un amico - non ha motivo più di... sì, rimane nel partito, per dire, così, come persona... Poi è andata bene, cioè nel senso, ha fatto 25 anni di politica, è andata sempre bene, perché rischiare di trovarti in una indagine, in un qualcosa? Perché qua i soldi sono assai».
Già, i soldi. La politica locale gira tutta attorno alle royalties del petrolio che prima o poi arriveranno agli enti locali. E così è indispensabile presidiare il territorio. Il Governatore dem Marcello Pittella cerca di allargare la sua sfera d’influenza? Vuole «mettere le bandierine?». E lei si scatena alle primarie. Lei che è un baluardo della minoranza Pd, perciò è «nemica» dell’attuale Governatore, il renziano Pittella, e fedele del suo predecessore (Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute). «Frenetica - scrive il gip - è stata l’attività posta in essere dalla Vicino, che non solo ha effettuato, utilizzando sempre il cellulare di servizio della Provincia di Potenza, numerosissime telefonate a concittadini per indicare loro di votare Luongo, ma ha anche effettuato una propaganda “porta a porta”, utilizzando l’autovettura dei vigili urbani del paese».
Non vede scandalo, la sindachessa. Quell’auto dei vigili urbani in fondo è il suo taxi. E mentre la scarrozzano, lei parla di tutto, di politica e non solo, al telefonino pagato dalla Provincia. E non lascia nulla al caso. Su sua indicazione, il vigile urbano del paese, Giovanni Pagano, si reca «alle urne delle primarie del Pd, presiedute da Savino Luana (consigliere comunale di maggioranza e dipendente della società Total), al fine di esprimere numerose preferenze in favore del candidato Luongo, utilizzando documenti appartenenti ad altre persone».
Il maestro nella gestione del consenso è Vito De Filippo, già Governatore della Basilicata dal 2005 al 2013, poi dimessosi per lo scandalo dei rimborsi (è stato condannato di recente dalla Corte dei Conti a rimborsare 2641 euro), attuale sottosegretario alla Salute. «Siamo come fratello e sorella», si vanta Rosaria Vicino. E infatti è De Filippo a preoccuparsi di far assumere il figlio all’Eni.
Ma il gip dedica ampio spazio anche a un incontro tra la sua assistente Mariachiara Montemurro e l’imprenditore del settore energetico Pasquale Criscuolo. C’è la telefonata preparatoria di De Filippo: «Pasquale ti devo chiedere una informazione molto semplice, io... la mia assistente, l’avvocato Montemurro, dovrebbe passare a chiederti una informazione per mio conto... ti può contattare... io forse è la prima telefonata che ti faccio negli ultimi 10 anni, non ti ho mai chiamato... non disturbo mai, non disturbo mai».
«Come si già in precedenza illustrato - chiosa il giudice - De Filippo ha utilizzato la giovane collaboratrice quale sua portavoce, affinché la stessa comunicasse a soggetti terzi, di persona, notizie e/o richieste che non potevano evidentemente essere comunicate per telefono».
La Stampa 2.4.16
Giudici di nuovo in campo. E ora la sfida è a Renzi
Le inchieste fecero cadere i governi di Berlusconi e Prodi
di Mattia Feltri

Ieri Fabrizio Cicchitto ha detto apertamente quello che Matteo Renzi sospetta e si limita a riferire a beneficio dei retroscena: «Bisogna parlare di una bomba ad orologeria fatta esplodere con il meccanismo procedurale della richiesta di custodie cautelari e la conseguente pubblicità degli atti». E poi: «Non a caso questa richiesta è stata avanzata adesso, indipendentemente dal fatto che l’indagine è stata aperta nel 2014 e in questo modo si fa esplodere la bomba proprio alla vigilia dei referendum di aprile». Il concetto di «giustizia a orologeria» sembrava ormai fuori moda, almeno da quando il massimo teorico, Silvio Berlusconi, occupa i margini della cronaca, compresa quella giudiziaria. Ed è forse la prima volta che esponenti di una maggioranza di centrosinistra - presidente del Consiglio compreso, e nonostante Cicchitto venga dal centrodestra - si esprimono così apertamente sui fini politici dell’azione giudiziaria.
Eppure l’ultimo governo caduto per effetti penali è stato quello di Romano Prodi nel 2008 (l’altro era quello di Berlusconi nel 1994). Ora è preminente e comodissima la tesi secondo cui l’esecutivo era venuto giù per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio, passato con la Casa delle libertà in cambio di finanziamenti e onori (e sempre che la teoria regga ai tre gradi di giudizio); ma chiunque capirà il diverso peso dell’uscita dalla maggioranza dell’Udeur di Clemente Mastella ministro della Giustizia. La moglie Sandra Lonardo era stata arrestata e messa ai domiciliari per una serie di accuse che otto anni dopo sono evaporate o disperse, e Mastella, in lite con un molto turgido Antonio Di Pietro, chiedeva a Prodi solidarietà. Fra i due, il Professore scelse naturalmente l’alleato prossimo alla magistratura, e Mastella votò la sfiducia.
È complicato sostenere che a Potenza coltivino progetti politici e calibrino i tempi d’intervento, anche perché dell’inchiesta in sé si è capito poco, nulla di quanti denari siano eventualmente girati, in che cosa consistano gli atti corruttivi e se non siano piuttosto di lobbying, ma tutto delle imbarazzanti implicazioni della ministra Federica Guidi e del suo fidanzato. È uno schema abbastanza ripetitivo. Pochi ricorderanno il nome di Ercole Incalza, nessuno i contorni degli addebiti con cui la procura di Firenze lo ha arrestato un anno fa, ma tutti del tracollo del ministero delle Infrastrutture retto da Maurizio Lupi e di cui Incalza era altissimo dirigente. Poche settimane fa Incalza è stato prosciolto nel disinteresse generale, e alla fine l’azione della procura magari non aveva obiettivi politici ma le conseguenze sono state tali, e gravi.
Dall’inizio della Seconda repubblica la maggior causa di mortalità in politica è dipesa dalle inchieste della magistratura, non sempre concluse con successo, spesso con condanne decisamente ridimensionate rispetto ai presupposti, altre volte con il trionfo pieno degli imputati (il caso di Calogero Mannino, assolto dopo quattordici anni da accuse di mafia è il più notevole) e viene in mente per esempio l’inchiesta Why Not di Luigi De Magistris (allora sostituto procuratore proprio a Potenza), una specie di kolossal giudiziario in cui era finito dentro chiunque, da Prodi in giù. Alla fine i condannati saranno stati cinque o sei su una cinquantina, e il pubblico ministero è stato premiato con la fama e l’elezione a sindaco di Napoli. Dimostrare la premeditazione di De Magistris è impossibile e inutile, però è dura trattenere il sospetto che tante inchieste contro la politica (così scalcagnata da offrire occasioni a ripetizione) dipendano almeno in parte dal rilievo che hanno in tv e sui giornali, dalla reputazione che garantiscono, dall’assenza di conseguenze in caso di errore, soprattutto dalla guerra fra politica e magistratura cominciata con Mani pulite nel 1992, e davanti alla quale una classe dirigente corrotta e squalificata, anche se ben oltre i suoi demeriti, accettò di arretrare. Un regola classica delle dinamiche istituzionali dice che un potere tende per sua natura ad espandersi: quello giudiziario ha occupato lo spazio lasciato libero da esecutivo e legislativo e, sempre per sua natura, non accetta di cederlo. Berlusconi e Prodi, per motivi opposti, hanno perso la partita. Ora sembra volerla riprendere Renzi, e promette di essere una partita avvincente.
La Stampa 2.4.16
La magistratura che fa paura alla politica
di Ugo Magri

C’è un’espressione che Renzi si guarda bene dal pronunciare, ma nel suo mondo circola con insistenza: «giustizia a orologeria». Amici fidati del premier vedono (o credono di scorgere) i segni premonitori di un nuovo protagonismo giudiziario. Temono che una parte delle toghe voglia profittare dei prossimi passaggi politici - le elezioni nelle grandi città, il referendum costituzionale d’autunno - per assestare un colpo al capo del governo e al partito di cui Renzi è il leader. In altre parole, provano la sgradevole sensazione di sentirsi nel mirino delle procure.
Non esattamente come lo fu Berlusconi, anzi il paragone verrebbe considerato oltraggioso dal presidente del Consiglio, però con qualche tratto in comune.
Per esempio, dell’inchiesta di Potenza sui petroli viene contestato il metodo. Che consiste nell’isolare e descrivere un sistema di potere, in questo caso del Pd in Basilicata, per poi cercare a strascico le prove del malaffare che lì e più in alto loco si sarebbe consumato. Dalla Guidi il premier ieri ha preso congedo senza rimpianti, ha colto anzi l’occasione per rivendicare la novità dei ministri che finalmente si dimettono alla prima telefonata «inopportuna», non come prima che restavano incollati alla poltrona. Però l’inchiesta di Potenza non si ferma qui, il premier ne è consapevole. Procede sulla base di un’ipotesi criminale che in Italia è al suo debutto: il cosiddetto «traffico di influenze». Cioè gli scambi di favori tra lobbismo e sottobosco del potere, in quella zona d’ombra dove il confine tra lecito e illecito è sempre stato incerto, spesso indefinibile. E adesso, con l’avvento di questo nuovo reato, lo diventa ancora di più.
È in fondo, a guardar bene, lo stesso mix di affari e politica locale che emerge dalle vicende di Banca Etruria, per cui risulta indagato Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena. Circolano da giorni i «rumor» di nuovi prossimi sviluppi giudiziari, figurarsi se a Palazzo Chigi non ne sono al corrente. Così come non è sfuggita a ottobre la proroga dell’inchiesta genovese che riguarda Tiziano Renzi, babbo del premier, da due anni sulla graticola (un tempo particolarmente lungo). Il sospetto è che si possa o si voglia sollevare un grande polverone. E guai se il metro di giudizio fosse quello di una magistratura prevenuta o vogliosa di riprendersi il centro della scena: questo si osserva non solo ai vertici del Pd, ma pure negli ambienti istituzionali più responsabili. La giustizia deve aiutare i partiti a liberarsi delle loro zavorre. L’allarme di questi giorni, invece, è che possa diventare la scusa per qualcos’altro: per l’esercizio di una tutela permanente nei confronti della politica. Anche di quella pulita, che Renzi è sicuro di incarnare.
Repubblica 2.4.16
Il fantasma del logoramento
di Stefano Folli

LA MOZIONE di sfiducia contro il governo sul caso Guidi non provocherà la caduta di Renzi. Servirà invece a rafforzare la leadership di Grillo e del suo movimento nel campo vasto ma frastagliato dell’opposizione.
I Cinque Stelle sono gli unici in grado di trarre qualche immediato vantaggio dall’iniziativa e infatti è subito esploso un contrasto con l’altro aspirante alla leadership, il leghista Salvini (altro che patto Carroccio-M5S in chiave anti-premier).
È una manovra politica già vista in passato. Con qualche differenza. La prima è che l’arcipelago del centrodestra d’opposizione non è mai stato così frammentato, causa il tramonto senza fine di Berlusconi e la mancanza di un nuovo federatore. E infatti i grillini, più che federare, si preoccupano di assorbire quel mondo, mescolandolo ai loro temi e ricavandone un’inedita ricetta nazional- populista in cui si aprono spazi originali per la seconda generazione, quella dei Di Maio e delle Raggi.
Ma la differenza maggiore riguarda il presidente del Consiglio. Il caso Guidi ha rivelato un principio di logoramento che rischia di essere molto pericoloso per le prospettive dell’esecutivo e del “renzismo” come progetto di riassetto politico a lungo termine. Per la verità era da qualche tempo che si avvertivano gli scricchiolii. Rispetto alla prima fase del suo governo, il premier-segretario è passato dalla condizione di giovane dinamico e innovatore, capace di mantenere un rapporto positivo con l’opinione pubblica, allo status di personaggio un po’ ingessato nel suo ruolo, tendente a ripetersi nei “tic” e negli schemi, interessato solo alla campagna elettorale permanente in cui sembra credere come a un mantra.
Questa crescente rigidità, solo in apparenza corretta da uno stile disinvolto all’americana, è figlia di problemi più grandi del previsto. E certo non è tutta colpa di Renzi. La ripresa economica promessa rimane ancora oggi poca cosa rispetto alle attese alimentate fin dell’estate del 2014, oltre un anno e mezzo fa. I dati sull’occupazione sono insoddisfacenti, nonostante le riforme. Altre priorità, dalla giustizia a una burocrazia più semplice, non hanno ancora cambiato la vita quotidiana degli italiani, in definitiva gli unici giudici. I lacci che soffocano il sistema economico sono stati tagliati solo in parte; il potere delle “lobby”, come dimostra proprio il caso Guidi, è ancora asfissiante; l’orizzonte di un regime di vera concorrenza è di là da venire.
C’è una crescente sfasatura fra il racconto pubblico renziano, intriso di ottimismo e volto — giustamente — a sollecitare le migliori energie del paese, e la realtà in cui vivono la maggior parte dei cittadini elettori. È quella che si può definire inerzia. L’inerzia di chi non ha saputo o voluto cambiare passo in questi due anni e ha continuato a usare le stesse formule comunicative ignorando che lo scenario intorno stava cambiando: non necessariamente in meglio. Sullo sfondo ci sono le angosce collettive non prevedibili: la paura del terrorismo, le incognite sulle nuove ondate di immigrati, la crisi in Libia e la sensazione diffusa che l’Italia non potrà restarne estranea.Certo, Renzi è un combattente e ha dimostrato in più occasioni la sua notevole personalità. E conosciamo l’argomento che viene usato a mo’ di scudo: non esistono autentiche alternative a questa maggioranza, al governo e all’attuale premier che non siano avventure demagogiche. Ma questo punto, pur vero, non giustifica l’inerzia di chi ha smesso di rinnovarsi, al di là delle tante parole, e di adeguare giorno per giorno il messaggio rivolto agli italiani. Se a ciò si aggiunge l’indifferenza, quando non l’ironia, verso quel che resta dei partiti politici, a cominciare dal suo; nonché il fastidio nemmeno dissimulato verso gli ostacoli lungo il percorso, quale il referendum sulle trivelle o le amministrative di giugno, si capiscono le radici del logoramento.
La vicenda Guidi ha messo in luce la distanza fra il premier che fa jogging nei parchi di Chicago e il piccolo cabotaggio di un governo che ha bisogno di sentire il suo timoniere e non sempre né avverte la presenza. La tendenza all’affarismo, quella mancanza di trasparenza che si avverte nei palazzi romani, è un virus che va debellato al più presto con scelte idonee. È inutile evocare il sindaco di Quarto per mettere in difficoltà i Cinque Stelle: la sproporzione fra i due episodi balza agli occhi. La spinta anti-politica Renzi può contenerla come fece all’inizio del suo mandato: governando con efficacia, circondandosi di una classe dirigente all’altezza dei tempi difficili in cui viviamo, riducendo la tentazione dell’enfasi e della retorica a favore di un discorso-verità, tale da stabilire una nuova corrente di fiducia fra il leader e i cittadini.
Sotto questo aspetto, la scelta del successore di Federica Guidi sarà un segnale di rilievo. Il premier deve dimostrare che l’inerzia e il logoramento non vanno a braccetto nel frenare e impantanare il governo. Può risalire la china e riguadagnare le simpatie di un’opinione pubblica che oggi lo guarda con qualche perplessità. Ma gli errori di sottovalutazione, il nervosismo, una certa inclinazione all’arroganza sono cattivi consiglieri. Al contrario, non piegarsi alla manovra politica dell’opposizione e difendere la dignità dell’esecutivo e dei ministri, in primo luogo la Boschi, esprime la volontà di battersi senza debolezze. Ma stavolta non basta vincere lo scontro parlamentare per uscire dalla palude e riprendere il cammino come se nulla fosse successo. Perché molte cose sono accadute in questi mesi e non tutte positive.
La Stampa 2.4.16
I pm vogliono sentire Boschi. Lei si difende: “Rifarei tutto”
Le accuse dell’inchiesta al Pd: brogli e clientele. Mozione di sfiducia del M5S
Boschi nel mirino, Renzi la difende: “L’emendamento l’ho voluto io”
Mozioni di sfiducia delle opposizioni
di Amedeo La Mattina

Dopo Federica Guidi ora è la ministra Maria Elena Boschi al centro della tempesta. Con le opposizioni scatenate contro di lei e i pm che lasciano filtrare l’intenzione di convocarla in procura. Tanto che il premier, per difenderla, passa al contrattacco.
All’unisono Renzi e Boschi rivendicano la concessione del progetto «Tempa Rossa». Nonostante «le telefonate inopportune» di Federica Guidi al fidanzato che l’abbiano costretta alle dimissioni. Per il premier erano inopportune, come quelle del ministro della Giustizia Cancellieri (governo Letta): allora vennero chieste da Renzi le dimissioni ma non ci furono. Ora «l’Italia non è più quella di una volta: se prima non ci si dimetteva, ora ci si dimette. Noi siamo un governo diverso dal passato». Va all’attacco Renzi. Precisa che Guidi non ha commesso alcun reato. Ha sbagliato ed è giusto che paghi. «Con noi la musica è cambiata».
La strategia del premier è chiara: evitare che cresca nell’opinione pubblica l’attenzione sul referendum anti-trivelle, l’avversione contro i petrolieri, consentendo alla consultazione popolare di raggiungere il quorum. Vincerebbe il Sì. Sarebbe il viatico negativo alle amministrative e, ancora peggio, al referendum sulla riforma costituzionale d’autunno. Una strategia per evitare che il caso Guidi si trasformi in quello Boschi. Non è un caso che ieri Renzi l’abbia difesa con forza. «La firma dell’emendamento da parte del ministro Boschi è un atto dovuto. L’emendamento è favorevole a un progetto del governo che avevo io stesso annunciato». E tanto per far capire di cosa si stia parlando, il premier ha ricordato che «Tempa Rossa» produce posti di lavoro, «è una cosa sacrosanta aver consentito a delle persone di venire in Italia e fare degli investimenti: io lavoro perché si creino posti di lavoro». Stesse identiche parole quelle usate dalla Boschi: «Rifirmerei domattina quell’emendamento».
Renzi risponde colpo su colpo, non vuole dare il minimo spazio ai 5 Stelle. Anzi sfida gli oppositori a presentare il prima possibile la mozione di sfiducia al governo. «Grillo non si può permettere di insultare il Pd , perché i nostri iscritti e militanti non sono un bersaglio su cui tirare», dice il vicesegretario Serracchiani. Il primo passo infatti lo hanno fatto i 5 Stelle. Mozioni di sfiducia anche da parte della Lega, Fi, i Fdi e i Conservatori di Fitto. Sfiducia anche dalla Sinistra italiana. La sinistra Dem non voterà la sfiducia, ma attacca Renzi evidenziando gli interessi familiari di molti esponenti dell’esecutivo e la concentrazione di potere. Da una posizione autonoma, il governatore pugliese Emiliano parla di «lobby» che influenzano le politiche energetiche e ambientali ma anche le istituzioni. «Se basta così poco per ottenere un emendamento in un provvedimento legislativo - osserva Emiliano - onestamente la preoccupazione è altissima. C’è una telefonata che dice tutto e sulla quale il Paese intero deve riflettere perché non è una questione che riguarda solo il ministro. Noi abbiamo bisogno di disinquinare anche le istituzioni». Al governatore pugliese, capofila del referendum anti-trivelle, vengono attribuite manovre di scalata al Pd. «Le mie posizioni vengono sempre strumentalizzate per evitare di discutere nel merito», spiega Emiliano che lunedì sarà alla direzione del Pd. Nelle intercettazioni della procura di Potenza il fidanzato della Guidi ricorda al manager della Total che Emiliano in campagna elettorale si è espresso contro «Tempa Rossa», ma una volta eletto cambierà idea. «Invece - commenta il governatore - io onoro i miei impegni elettorali, non prendo in giro chi mi vota». Intanto la procura di Potenza sta valutando di sentire Guidi e Boschi come persone informate dei fatti.
Repubblica 2.4.16
Il premier e l’incubo comunali “Nel mirino per farci perdere”
di Tommaso Ciriaco e Alberto D’argenio

ROMA. «Vogliono inchiodarci a questa storia, la sfruttano in vista del referendum sulle trivelle e per farci perdere anche le amministrative ». Di mezzo c’è ancora un oceano, ma la rabbia di Matteo Renzi da Washington raggiunge Roma. E suona come un allarme in vista delle sfide dei prossimi mesi. Peggio di quell’intercettazione piombata nel bel mezzo della missione negli Stati Uniti, poi, c’è solo la mozione di sfiducia in arrivo. Non per i numeri, blindati dall’ingresso dei verdiniani in maggioranza, ma perché riaprirà una ferita che brucia. Per questo la strategia è obbligata: «Spegniamo subito l’incendio». Come? Alzando il tiro contro i grillini, sostituendo al più presto Federica Guidi allo Sviluppo economico. Con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti, oppure con un clamoroso risiko ministeriale: dirottando Angelino Alfano in via Veneto e promuovendo Anna Finocchiaro al Viminale.
Il film dell’incidente culminato nelle dimissioni della ministra è fin troppo semplice, a dare retta alle confidenze di Renzi: «Va bene, Federica ha sbagliato, ma è stata responsabile e si è dimessa. Ora provano a trascinare dentro me, la Boschi e l’intero governo, ma questa è solo campagna elettorale». A dire il vero la prima reazione, sostenuta anche dal fidato Luca Lotti, è stata quella di ipotizzare un lungo interregno allo Sviluppo: «C’è il referendum, poi le amministrative: forse è meglio evitare di scontentare mezzo partito con una nomina. E se mi presentassi martedì prossimo al ministero per prendere l’interim?». Poche ore dopo, il premier cambia idea. «Spegnere l’incendio», appunto.
I nomi, allora. A favore della promozione di De Vincenti c’è il “modello Delrio”: come per il suo predecessore, non c’è più feeling con il premier. Resterebbe però scoperta la casella di sottosegretario alla Presidenza, alla quale potrebbe approdare un fedelissimo come Tommaso Nannicini, se non lo stesso Lotti ampliandone le deleghe. L’alternativa è quella di dirottare Alfano allo Sviluppo, aprendo le porte dell’Interno a Finocchiaro. Al leader Ncd potrebbe fare comodo avere più tempo a disposizione, soprattutto in vista delle Politiche, liberarsi dell’impopolare dossier immigrazione e di un rapporto un po’ logoro con la struttura del Viminale. E alla seconda non resterebbe che incassare una nomina governativa che le è stata promessa mesi fa dallo stesso premier.
Tuttavia resta in campo anche la soluzione interna al Pd, promuovendo la viceministra Teresa Bellanova: è vicina a Maria Elena Boschi, ma ha un dna sindacale e solide radici nella sinistra dem. Più difficile, invece, l’ingresso al governo del direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci. Renzi la stima e l’avrebbe voluta al ministero già un anno e mezzo fa, ma pesa il suo profilo tecnico, soprattutto dopo la battuta d’arresto di un “prodotto” del vivaio imprenditoriale come Guidi. Stesse perplessità che appesantiscono la corsa di Antonella Mansi (toscana, con Squinzi in Confindustria) e Diana Bracco (già in Assolombarda). E complicato sembra anche spostare Mauro Moretti da Finmeccanica a una casella che scadrà al massimo nel 2018, o coinvolgere il pm e ex assessore alla legalità di Roma Alfonso Sabella.
Il nome del successore pesa, naturalmente. Ma conta di più la controffensiva pubblica per uscire dall’angolo. La priorità è archiviare al più presto la mozione di sfiducia delle opposizioni, sfruttando le divisioni interne. «Noi presenteremo un nostro testo e certo non ne voteremo in bianco uno dei grillini», assicura il capogruppo azzurro Paolo Romani. Senza contare lo scoglio del referendum sulle trivelle. Dopo lo scandalo lucano l’attenzione sulla consultazione ha subito un’impennata. E la minoranza dem è pronta a sfruttare la vetrina della direzione di lunedì per rilanciare. «Lì annuncerò il mio sì», confida Roberto Speranza. Nessuna crociata sul caso Guidi, ma neanche carezze: «Renzi - attacca Miguel Gotor - non eluda il tema delle vischiosità di relazioni così strette».
L’ostacolo che preoccupa di più Renzi resta comunque quello delle Comunali. A consolarlo è l’ultimo sondaggio Ipsos in mano a Palazzo Chigi: la fiducia nel premier è in crescita, su di 7 punti da settembre. E un trend simile per Maria Elena Boschi: +3% negli ultimi tre mesi, a quota 30%. Sperando che basti.
Corriere 2.4.16
Caso archiviato per Palazzo Chigi ma gli avversari incalzano
di Massimo Franco

È comprensibile liquidare come «telefonata inopportuna» quella che ha portato alle dimissioni l’ex ministro allo Sviluppo economico Federica Guidi. Eppure, rischia di fare apparire sproporzionata un’uscita dal governo così repentina. Matteo Renzi se ne attribuisce il merito parlando di «cambio dei tempi». Prima, è la tesi, non ci si dimetteva; adesso sì. Ma non si può non vedere anche la sua esigenza di chiudere il caso prima che assumesse contorni più imbarazzanti; e investisse il ministro Maria Elena Boschi, bersagliata dalle opposizioni.
C’è un evidente tasso di strumentalità, negli attacchi al ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento. Il fatto che la Boschi abbia approvato l’emendamento della Guidi, dice Renzi, era «un atto dovuto». Eppure, prevedere che il caso si sgonfi sarebbe imprudente. Si è chiuso formalmente, ma è destinato a sprigionare altri veleni; e non tanto sulla Guidi quanto su Palazzo Chigi. La richiesta di dimissioni che M5S, Lega e sinistra stanno preparando fa capire che il tiro si sta spostando sull’intero governo.
È questa dinamica a spiegare la fretta di Renzi; e l’intenzione dei suoi avversari di tenere il caso vivo. La volontà di far cadere il governo è pura propaganda: la mozione di sfiducia finirà per consolidare nel breve termine la maggioranza. L’obiettivo vero è di costringerla sulla difensiva, e logorarla. Il premier ironizza con qualche ragione su opposizioni che ormai cercano di sfiduciarlo a ritmo bisettimanale. C’è anche da chiedersi, però, se i pretesti offerti dall’esecutivo ai suoi nemici non stiano diventando un po’ troppo frequenti.
Il caso Guidi permette a chi ha indetto il referendum di metà aprile contro le trivellazioni di additare Renzi come capo di un «governo dei petrolieri»; e di spiegare in questa maniera semplicistica ma suggestiva l’invito all’astensione che il capo del governo ha fatto al Pd. Ancora, a due mesi dalle Amministrative i dem si ritrovano con una nuova tegola che stordisce gli elettori e può portare via voti. E le allusioni alla Boschi emerse dalle intercettazioni aggiungono piombo nelle ali della regista delle riforme istituzionali: riforme sulle quali in autunno ci sarà un referendum decisivo per Palazzo Chigi.
Il ministro rivendica quanto ha fatto. «Rifirmerei domattina» l’emendamento sul quale è scoppiato il caso, ribadisce la Boschi. «Il mio lavoro è di portare in aula tutti gli emendamenti del governo». Parole orgogliose, ma rischiose. La telefonata della Guidi al fidanzato inquisito è del 2014. E diventa inevitabile chiedersi se da allora ce ne possano essere state altre, da un qualunque ministero. Sono dubbi alimentati anche dal Pd. «Vedo molto familismo e segnali inquietanti», constata Gianni Cuperlo. Altri sono meno diplomatici dell’esponente della sinistra dem .
La Stampa 2.4.16
Le opposizioni mirano dritto alla Boschi
di Marcello Sorgi

La Boschi come bersaglio: ciò che giovedì era intuibile, ieri è diventato realtà. Anche dopo le dimissioni della Guidi per il caso Tempa Rossa, la ministra delle riforme e dei rapporti con il Parlamento è stata al centro di un fuoco incrociato di Lega e M5S, che forse approderanno a una mozione di sfiducia comune contro il governo. Dagli Usa, Renzi ha difeso, sia il contestato provvedimento petrolifero della Basilicata, sia la ministra Maria Elena, riservando invece alla dimissionaria Guidi parole di comprensione accompagnate da un severo: «Chi sbaglia paga». Il presidente del consiglio non è apparso preoccupato dal dibattito sulla sfiducia che si annuncia in Parlamento, dato che la mozione non ha alcuna probabilità di passare. Un’avance di M5S alla minoranza Pd «per buttare giù insieme Renzi» è subito caduta nel vuoto, respinta da Speranza. E in conclusione il risultato del dibattito sarà solo un giro di propaganda a favore del referendum «No triv», per cui si vota il 17 aprile, e su cui il premier, puntando all’annullamento per astensione, avrebbe preferito mettere la sordina.
Ma la strategia delle opposizioni, oltre ad essere proiettata sulle prossime scadenze elettorali e a insistere sul logoramento del governo, in mancanza di strumenti in grado di farlo cadere, punta anche al medio termine dell’autunno, quando Renzi, uscito bene o male dalle amministrative di giugno, metterà tutta la posta in gioco sul referendum istituzionale («se perdo vado a casa», ha già annunciato da tempo). E va letta in questa chiave la scelta, da parte delle opposizioni, della Boschi come bersaglio da sottoporre a una serie incessante di attacchi, prima per il dossier Banca Etruria e per il preteso conflitto di interessi con il padre vicepresidente dell’istituto di credito, poi per l’emendamento a favore del compagno della Guidi, e prevedibilmente, in autunno, come donna simbolo della Grande Riforma e del governo. Anche in questo caso, ben sapendo che non sarà facile convincere gli elettori a mantenere in vita il Senato così com’è, invece di ridimensionarlo, gli avversari di Renzi mirano sulla Boschi. Pensando che se cade lei, alla fine, cadranno anche le riforme.
definitivi declini
Il Fatto 2.4.16
Campidoglio,
i Radicali in campo con Giachetti
qBLU COME IL COLORE dei liberali, giallo come la tonalità usata dai Radicali negli ul- timi vent’anni, verde che richiama l’ecologismo. Più il rosso, che contribuisce a creare un arcoba- leno stilizzato, simbolo associato al pacifismo e ai diritti. Il Partito Radicale ha presentato ieri il sim- bolo che utilizzerà per correre alle elezioni ammi- nistrative del 5 giugno a Roma e a Milano. Quanto alla Capitale, il segretario nazionale Riccardo Magi
ha comunicato l’appoggio a Roberto Gia-
chetti (iscritto anche al Partito Radicale,
che permette il doppio tesseramento);
tuttavia è stato chiarito che non si tratta
di un sostegno al Pd. “A Giachetti - ha
spiegato Magi - offriamo i dodici punti del
nostro programma elettorale”. Assieme al segretario, anche la storica militante Emma Boni- no ha rafforzato l’investitura in favore del candidato Pd. Tornando sul simbolo, Magi ha
sottolineato “il riferimento al federali- smo europeo, perché crediamo che va- dano trovate delle soluzioni per rilancia-
re il progetto di Europa unita: gli Stati U- niti d’Europa, altrimenti gli Stati singoli continueranno nell'illusione di poter risolve- re i propri problemi da soli, rincorrendo le emer- genze, come sta accadendo in queste settimane”.
Corriere 2.4.16
Dall’attico alla cascina con parco Ecco le mega case di altri cardinali
Tra privilegi e dicerie. «Solo polemiche, molte abitazioni vecchie e da ristrutturare»
di Fabrizio Caccia

ROMA «Ci sarà una trentina di cardinali che vive in appartamenti anche più grandi del mio...», ha detto, sfogandosi ieri col Corriere della Sera , l’ex segretario di Stato Tarcisio Bertone. Sarà vero?
All’immenso patrimonio immobiliare della Santa Sede, il giornalista Gianluigi Nuzzi, sotto processo per Vatileaks, ha dedicato un capitolo del libro «Via Crucis», con un elenco di inquilini eccellenti, perlopiù cardinali, che a canone zero godrebbero di appartamenti-monstre.
Uno di questi è il cardinale Ennio Antonelli, 79 anni: secondo «Via Crucis» vivrebbe in una casa — nel Palazzo di San Callisto a Trastevere — la cui superficie lorda è pari a 440, 70 metri quadri.
Ci risponde al telefono il suo segretario, gentilissimo, che vive anche lui nella casa e definisce «una polemica penosa» questa sulle presunte regge dei cardinali: «Perché le vite che conducono sono normalissime e per niente sfarzose — dice l’uomo —. Tanti di loro sono anziani e allettati. Eppoi la casa dove viviamo noi non è così grande! Non solo: quando il cardinale Antonelli venne ad abitarci, portò con sé i due genitori anziani e la badante. E oggi oltre a me, ci sono anche due suore, un assistente e due giovani seminaristi che studiano qui a Roma. La verità è che sono case antiche, all’inizio del secolo le facevano così e sono difficili da ristrutturare. Nella nostra, ad esempio, c’è solo un attacco del gas. E metà della superficie è occupata da un solo, grande corridoio centrale».
Si favoleggia, però, che nello stesso palazzo di San Callisto un altro cardinale, il francese Paul Poupard (superficie lorda, 442,90 metri quadri), abbia tra le sue pertinenze una cantina delle meraviglie, con vini pregiatissimi: «Non ci sono cantine in questo palazzo — replica il segretario del cardinale Antonelli —. Nei sotterranei ci sono solo i magazzini della Libreria Editrice Vaticana. I cardinali hanno a disposizione delle soffitte. E non credo convenga tenerci dei vini».
Sempre a San Callisto, poi, abitano i cardinali Lozano Barragan (465,61 mq), Stafford (453,63), Vegliò (407,25), Turkson (338,40), ma l’appartamento più grande, pari a 472,05 mq, è abitato dal vicedecano del collegio cardinalizio, Roger Etchegaray, 93 anni: «Il cardinale Etchegaray sta sulla sedia a rotelle», risponde piccato il nostro interlocutore.
Insomma, niente lussi né eccessi, anzi nella maggior parte dei casi una vita parca e spesa in compagnia delle devote suorine che li assistono, come l’indiano Lourdusamy, morto un anno fa, che nella casa di Borgo Pio (320,15 mq) ospitava ben sette religiose del suo Paese. E lo stesso fa oggi il cardinale africano Arinze (353,50 mq), sempre a Borgo Pio. Condivide la sua bella casa con le suore.
Eppure, nell’altro bestseller all’origine di Vatileaks, il libro «Avarizia» di Emiliano Fittipaldi, non mancano esempi di privilegi assurdi come il «buen retiro» che si autoassegnò il potente cardinale Domenico Calcagno, presidente dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), con «appartamento e cascina immersi in una ventina di ettari all’interno della tenuta San Giuseppe sulla Laurentina».
Una nostra fonte di Curia descrive come «principesca» anche la casa dell’arciprete Angelo Comastri («800 mq a Palazzo dei Canonici, con i quadri di Raffaello alle pareti...») per non parlare de «l’attico e superattico da far invidia a Bertone» del cardinale slovacco Jozef Tomko a Palazzo dei Convertendi di via della Conciliazione. E poi sempre nella stessa via: «I 700 metri quadri del cardinale Sandri» così come le dimore senza prezzo dei cardinali Martino, Saraiva Martins e Joao Braz de Aviz: «Case realizzate negli Anni 30 e 40 con sale del trono e cappelle private come si costruivano per la nobiltà romana — conclude la fonte —. Perché questo erano, per il Concordato, i cardinali: principi del sangue».
La Stampa 2.4.16
“Feci versare io quei 400 mila euro. E il cardinale sapeva del mio progetto”
L’ex presidente del Bambin Gesù: per l’ospedale era un investimento
intervista di An. Tor.

Professor Giuseppe Profiti, ex presidente del Bambin Gesù, è stato lei a pagare la ristrutturazione dell’appartamento del cardinale Bertone con soldi della Fondazione del Bambin Gesù?
«Sì, ed era un intervento che rientrava in un preciso progetto di sviluppo. Una decisione strategica la definirei».
Perché «strategica»? Non le sembra strano ristrutturare la casa del cardinale con i soldi destinati ad altro?
«Mi permetta di spiegare. L’ho definita “strategica” perché in quel luogo avremmo realizzato, negli anni a venire, alcune importanti iniziative per la Fondazione. L’appartamento del Segretario di Stato emerito serviva per gli incontri finalizzati a raccogliere fondi».
Dunque secondo lei era un’operazione lecita?
«Non solo lecita, ma le dico che se mi trovassi oggi nelle stesse condizioni, prenderei di nuovo quella decisione».
Davvero? Non crede che sia stato un esempio di come invece non si dovrebbero usare i soldi che vengono versati per altre finalità benefiche?
«Le cito un dato per spiegarmi. Nell’anno 2013 gli eventi organizzati a sostegno della Fondazione con la presenza dell’allora Segretario di Stato hanno portato, nei mesi successivi, un incremento della raccolta di oltre il 70%. Da poco più di 3 milioni l’anno siamo arrivati a più di 5 milioni all’anno. Ecco perché parlo di scelta “strategica”».
Un appartamento per pubbliche relazioni? Non è che lei voleva invece fare un favore all’amico cardinale che l’aveva fatta diventare il manager della sanità vaticana?
«Non capisco che tipo di favore, considerato che in qualità di Segretario di Stato il cardinale Bertone aveva diritto all’appartamento e non mi pare che vi sia una regola che preveda che i cardinali paghino di tasca propria i lavori degli appartamenti di servizio loro assegnati. Ribadisco invece che era una scelta presa in qualità di Presidente della Fondazione e in linea con i programmi strategici finalizzati a incrementare la raccolta fondi per il Bambin Gesù».
Il cardinale Bertone afferma di non aver dato indicazioni alla Fondazione per intervenire...
«Dalle lettere che sono state divulgate si evince che l’investimento era inserito nel nostro piano di marketing, al fine di raccogliere fondi da grandi aziende nazionali e soprattutto da grandi multinazionali estere. Alla mia comunicazione scritta il cardinale ha risposto affermando che avrebbe fatto in modo di reperire donazioni ulteriori, tali da coprire ogni costo, così che nulla rimanesse a carico della Fondazione. In effetti, l’impresa incaricata della ristrutturazione, poi fallita, si era impegnata a devolvere in due tranche al Bambin Gesù un importo pari al costo dei lavori eseguiti per l’acquisto di attrezzature mediche».
Dunque il cardinale sapeva dell’intervento della Fondazione?
«Le lettere tra il sottoscritto e il cardinale ormai sono di pubblico dominio e per quel che mi riguarda, manifestano condivisione della proposta e impegno a fare in modo che nulla rimanesse a carico della Fondazione Bambin Gesù».
Quei soldi per le attrezzature dell’ospedale però non sono mai arrivati.
«Come dicevo, l’impresa ha avuto difficoltà, come molte altre in questo periodo, e poi mi risulta essere fallita».
Ma la Fondazione ha pagato o no?
«Sì».
E allora perché Bertone ha tirato fuori di tasca propria 300 mila euro per pagare gli interventi al Governatorato per la ristrutturazione?
«Forse è una domanda che andrebbe rivolta al Governatorato. Io mi sono limitato a pagare quanto oggetto del contratto da me sottoscritto. Ricordiamo peraltro che non stiamo parlando di un appartamento privato di Bertone, ma di un immobile che era, è e rimarrà di proprietà della Santa Sede».
I costi della ristrutturazione sono lievitati, ci sono fatture verso società estere, l’impresa è fallita. La magistratura vaticana l’ha indagata. Si parla di gravi ipotesi di reato, come peculato e uso illecito di denaro.
«Mi pare di avere già spiegato tutto. Per il resto sono fiducioso come sempre nelle istituzioni e sono convinto che i magistrati faranno chiarezza e si vedrà che queste ipotesi erano senza fondamento».
Al di là dell’inchiesta, non crede che sia quantomeno scorretto usare per la ristrutturazione di un appartamento i soldi raccolti per i bambini ammalati?
«No, soprattutto se parliamo di fondi che sono anche frutto di rendite della Fondazione e quando il loro impiego è finalizzato comunque a incrementare la raccolta di risorse da destinare proprio ai bambini malati».
Quanto ha pagato la Fondazione all’impresa? E quando ha pagato?
«Non ricordo la cifra esatta, ma intorno ai 400 mila euro su sette fatture, con allegato stato di avanzamento lavori. Pagate tra novembre 2013 e giugno 2014, nel rispetto delle procedure».
La Stampa 2.4.16
Bertone, i lavori per l’attico sono stati pagati due volte
L’ipotesi del Vaticano. L’azienda romana fallita durante la ristrutturazione
di Andrea Tornielli

La ristrutturazione dell’appartamento al terzo piano del Palazzo San Carlo in Vaticano dove abita il cardinale Tarcisio Bertone potrebbe essere stata pagata due volte. Una prima volta dalla Fondazione dell’ospedale Bambin Gesù, all’epoca guidato dal manager Giuseppe Profiti, uomo di fiducia dell’ex Segretario di Stato, attraverso sette fatture per circa 400 mila euro pagati all’impresa Castelli Re di Gianantonio Bandera. E una seconda volta dal cardinale stesso, che ha versato di tasca sua 300 mila euro al Governatorato vaticano. È questa l’ipotesi investigativa che sta seguendo il Promotore di giustizia Gian Piero Milano. L’inchiesta, che vede indagati Profiti e l’ex tesoriere del Bambin Gesù, Massimo Spina, prevede l’ipotesi di reato di peculato in quanto i due manager vengono considerati dei pubblici ufficiali.
Una prima domanda riguarda innanzitutto il pagamento in sé. Perché un cardinale avrebbe dovuto sostenere le spese per la ristrutturazione di un appartamento che non è di sua proprietà e rimarrà alla Santa Sede? Quando Bertone lascia l’incarico di Segretario di Stato, non potendo più utilizzare l’appartamento annesso alla sua funzione, deve trovare casa. Vengono individuati due appartamenti liberi, da ristrutturare e unire, per un totale di 296 metri quadri. Ma il Governatorato fa sapere di non avere fondi a bilancio per i lavori e se il cardinale vuole procedere, deve provvedere da sé.
Dai documenti pubblicati nel novembre scorso sul «Tempo» e questa settimana dall’ «Espresso» si evince che l’impresa Castelli Re presenta alla Fondazione Bambin Gesù un progetto pari a oltre 600 mila euro, con uno sconto del 50% (dunque si scende a 300 mila) e s’impegna pure a restituire quanto incassato per i lavori attraverso una donazione all’ospedale pediatrico, cosicché la Fondazione non ci rimetta alcunché.
La Fondazione paga, ma al contempo anche il Governatorato presenta al cardinale Bertone le fatture per i lavori eseguiti dalla stessa impresa. La Castelli Re di Bandera aveva due cantieri aperti sullo stesso palazzo: il primo riguardava le opere per le zone comuni, come il rifacimento delle cantine e soprattutto del tetto. Il secondo cantiere era quello riguardante la ristrutturazione della futura abitazione del cardinale. Ora, è difficile ipotizzare che il Governatorato chieda al cardinale di accollarsi le spese per le zone comuni. I 300 mila euro che Bertone paga riguardano dunque il suo appartamento, dove va abitare con tre suore e dove viene trasferito il suo archivio. Perché dunque vengono pagati anche altri 400 mila euro alla stessa impresa, che fallendo finisce sotto la lente del tribunale fallimentare facendo così emergere la vicenda? Una domanda a cui devono rispondere i magistrati d’Oltretevere.
il manifesto 2.4.16
Scandalo pedofilia nella diocesi di Lione
Francia. Denunce contro l'arcivescovo Barbarin, per omissione di denuncia. Domande di dimissioni. Ma il Primat des Gaules non cede e si rivolge a un'agenzia di comunicazione per la gestione delle crisi di immagine
di Anna Maria Merlo

PARIGI  Le denunce si moltiplicano contro il cardinale di Lione, Philippe Barbarin, l’arcivescovado è stato perquisito il 30 marzo. Questa settimana ne è arrivata una quinta e tutte accusano l’alto prelato della stessa cosa, in casi diversi: aver taciuto su episodi di pedofilia di preti nella diocesi del Primat des Gaules. Era stato informato ma che si era ben guardato dal rivolgersi alla giustizia. Anzi, Barbarin è anche accusato di aver lasciato i preti sospettati al loro posto per anni, sempre a contatto con minorenni. Barbarin è il vescovo che più era stato in primo piano durante la battaglia dei reazionari contro il matrimonio per tutti, presentato e fatto approvare dall’ex ministra della Giustizia, Christiane Taubira, nel 2013. Barbarin è noto anche per essersi schierato con veemenza a fianco dei genitori cattolici integralisti di Vincent Lambert, un uomo in stato vegetativo da anni in seguito a un incidente di moto, che pretendono che la medicina lo mantenga in vita ad ogni costo (di recente, la moglie, che chiede la sospensione dell’accanimento, ha ottenuto dal tribunale la tutela del marito, ma i genitori continuano la loro battaglia).
La crisi alla diocesi di Lione sta esplodendo, dopo aver covato durante qualche mese. Al punto che l’arcivescovo, con le spalle al muro, ha deciso di rivolgersi a un principe del foro di Lione, l’avvocato André Soulier, passando sopra il fatto che è un framassone, associazione che la chiesa cattolica avversa a causa delle idee laiche che difende. Barbarin si è anche rivolto a un’agenzia di consulenza specializzata nella gestione di crisi, la Vae Solis. Il suo titolare è Guillaume Didier, un ex magistrato che ha fatto parte di vari gabinetti ministeriali con i governi di destra, ultima Rachida Dati, sotto la presidenza Sarkozy (tra i clienti della Vae Solis, anche Thomas Fabius, figlio dell’ex ministro degli esteri e ora presidente del Consiglio costituzionale, sospettato di una colossale truffa, e il fotografo François-Marie Banier, condannato nel 2015 a 3 anni di carcere e 350mila euro di multa, per circospezione di incapace ai danni della miliardaria, Liliane Bettencourt, padrona de L’Oréal).
Barbarin deve rifarsi un’immagine. L’agenzia di consulenza gli ha suggerito di chiedere scusa alle vittime. L’arcivescovo si è piegato, senza uscire dalla consueta freddezza, la domenica di Pasqua, a Argenteuil, dove ha pronunciato non senza fatica le tanto attese parole: “chiedo personalmente scusa” alle vittime. Niente di più. In precedenza, in una conferenza stampa, Barbarin, esasperato, si era lasciato scappare: “la maggior parte dei fatti, grazie a Dio, è prescritta”. Alla reazione stupita di un giornalista presente, che aveva alzato le spalle, indifferente verso le vittime. Ma Barbarin sembrava non essere al corrente del fatto che fino ai 38 anni le vittime possono denunciare fatti avvenuti anni prima. E’ stata fondata l’associazione La parole libérée. Tra gli ultimi a parlare, un alto funzionario del ministero degli Interni, che ha trascorso l’infanzia a Lione e ha raccontato ai giudici la sua sofferenza. A fine gennaio, il prete Bernard Peyrat, è stato incriminato per aggressioni sessuali contro minorenni, degli scout con i quali organizzava gite a Sainte-Foy-lès-Lyon, nella periferia chic di Lione, tra la fine degli anni ’70 e inizio ’90. Barbarin era stato avvertito, aveva ricevuto Peyrat nel 2007-2008, ma poi aveva mantenuto il prete nella carica fino al 2015 (cioè quando le voci erano ormai troppo insistenti e la giustizia si stava interessando troppo da vicino all’operato del prete). Altri due preti sono stati denunciati nella diocesi di Lione. Uno è Guy Gérentet, 81 anni, allontanato dalla carica alla parrocchia Trinité nel 2001 per maltrattamenti, condannato nel febbraio scorso a 2 anni con la condizionale per aggressione sessuale su 8 ragazzine tra l’89 e il 2000. Dall’inchiesta è vento fuori che Barbarin era a conoscenza dei fatti dal 2003 e che aveva anche incontrato delle vittime, suggerendo di “perdonare”.
Il 63% dei francesi, secondo un sondaggio, chiede le dimissioni di Barbarin. Per l’88% i fatti di pedofilia sono passati troppo sotto silenzio nella chiesa cattolica, per l’86% insufficientemente puniti, per il 56% danno una “cattiva immagine” della chiesa. Ma per il cardinale di Parigi, Monsignor Vingt-Trois, Barbarin “non ha motivo di dimettersi”. “Perché dovrebbe farlo? – ha affermato – anche Gesu’ non aveva una buona immagine” (nella settimana di passione). “Noi non lavoriamo per fabbricare una buona immagine” (anche se poi si rivolgono alla Vae Solis per migliorarla).

venerdì 1 aprile 2016

Corriere 24.3.16
Perché è giusto avere paura e reagire
Dopo le stragi si rinnova un senso di smarrimento: dobbiamo riconoscerlo, accettarlo, evitare che si trasformi in angoscia e tornare alla «vita normale»
di Michela Marzano


Prima o poi doveva accadere. Ho paura. Quella paura che avevo soffocato il 7 gennaio del 2015, subito dopo gli attentati a Charlie Hebdo, decidendo di andare comunque in aeroporto e partire, anche se tra le vittime c’erano alcuni conoscenti e un caro amico. Quella paura che mi aveva invaso la notte del 13 novembre quando ero a Venezia e, per alcune ore, non ero riuscita ad avere notizie di mio marito e dei miei cari a Parigi. Prima di chiuderla a chiave nel profondo e precipitarmi, il giorno successivo, a prendere di nuovo un aereo e tornare a casa. E poi passare molte ore in Università con gli studenti perché, come ripetevano tutti in quei giorni, la vita doveva continuare e non si poteva certo darla vinta ai terroristi. La vita doveva continuare, e nessuno poteva arrogarsi il diritto di privarci della nostra libertà o di impedire i nostri movimenti.

E allora perché oggi, dopo gli attentati di Bruxelles, questa paura non se ne vuole andare? Cos’è questo sentimento improvviso di impotenza e di smarrimento? Cos’è quest’ansia che mi blocca, questo pensiero che, prima o poi, potrebbe accadere anche a me di trovarmi al momento sbagliato al posto sbagliato, in quell’aeroporto o in quella metropolitana, in quello stadio o in quella stazione? Ammetto di aver provato molto fastidio l’altro ieri quando, incollata davanti al televisore, ascoltavo le dichiarazioni pseudo-rassicuranti di chi incitava la popolazione a «non farsi prendere dalla paura», a «mostrare coraggio e determinazione», a «riprendere immediatamente la vita normale». «Vous n’aurez pas ma peur», come recitava uno slogan subito dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. Confesso volentieri di aver provato quasi tenerezza quando l’Alto rappresentante per la Politica Estera dell’Ue Federica Mogherini, commentando la strage, non è riuscita a trattenere le lacrime e si è lasciata travolgere dall’emozione.

Riconosco senza problemi di aver pensato che chiunque passi molto tempo in aeroporto o in stazione non può non lasciarsi abbattere e non aver paura. Talvolta è solo una questione di fortuna. Una frazione di secondo. Una decisone presa all’ultimo minuto. E allora capita di scrutare il volto di alcuni passeggeri, di guardare quella valigia abbandonata magari solo per pochi minuti, di farsi un segno della croce prima che il volo decolli. Ma questo lo può capire solo chi non si ferma. E chi, dopo lo smarrimento iniziale, decide che tanto, se qualcosa deve succedere, succederà. E allora ritrova il coraggio. Ma il coraggio, lo spiegava già Aristotele, non significa, appunto, non aver paura. Significa prendere delle decisioni e agire anche quando si ha paura. Significa sapere bene quali sono i rischi che si corrono e, nonostante tutto, mettersi in gioco. Ma sempre e solo dopo aver dato un nome all’angoscia. Averla riconosciuta. Averla accolta. Senza fare finta che non esista o non ci riguardi. O magari delegare ad altri il compito di cancellarla, privandoci magari di alcune libertà fondamentali come ci ha tristemente insegnato la storia.

Ho paura. Ma forse non è un problema. Visto che, come diceva Montaigne in uno dei suoi saggi più belli, la paura è una delle tracce più forti della nostra umanità. E che se talvolta ci permette di «volare», aiutandoci a raccogliere tutte le energie di cui siamo capaci e a utilizzare le nostre risorse interne, talvolta «ci inchioda i piedi al suolo e ci impedisce di muoverci». Soprattutto se dalla paura si scivola nell’angoscia. E allora ci si paralizza. Ci si chiude a riccio. Si aspetta solo che passi. Anche se poi, da sola, la paura non passa mai. E il rischio più grande che si possa oggi correre è la tentazione di non muoversi più. Dando così ragione a chi utilizza il terrore come un’arma e spera, bloccando i nostri movimenti, di soffocare la vita. La vita e il desiderio di andare avanti. La vita e il movimento, appunto. Anche perché è solo quando ci si rimette in moto, che si ha poi accesso a quegli strumenti necessari per realizzare i nostri progetti e costruire il nostro avvenire.

La gente ha paura e chiede più sicurezza. Alcuni sondaggi realizzati in Francia e in Belgio sull’onda dello shock mostrano che sono sempre più numerosi coloro che chiedono una presenza più massiccia delle forze armate, talvolta anche la chiusura delle frontiere. Dopo mesi durante i quali la minaccia terrorista è stata forse sottovalutata, e alcuni Stati Europei hanno abbandonato a loro stesse molte periferie dove la crisi economica e la crisi di senso hanno permesso all’odio dell’estremismo islamico di attecchire, oggi assistiamo al rischio di una crisi della democrazia. Che deve certo proteggere i propri cittadini con misure di sicurezza adeguate, ma che deve anche affrontare in maniera adeguata e culturale il tema della violenza e dell’intolleranza. Si ha paura di ciò che non si conosce e di ciò che non si controlla. Si ha paura dell’incertezza e si ha paura della morte. Si ha paura delle novità e si ha paura del movimento. «Noi, con le nostre terribili esperienze e continue ansie», scriveva Kafka ne Il castello, «ci spaventiamo senza difenderci a ogni scricchiolio, e se uno ha paura subito ce l’ha anche l’altro pur senza sapere esattamente perché. In questo modo non si riesce più a dare una giusta valutazione delle cose». Difendiamoci allora.

Ma cerchiamo anche di essere onesti con noi stessi dando «una giusta valutazione delle cose», nominando la paura e insegnando il coraggio. Quello che mi porterà, tra qualche giorno, a prendere di nuovo l’aereo e a ricominciare a muovermi nonostante i rischi oggettivi. Quello che mi permetterà di non fermarmi, nonostante la tentazione di farlo. Quello che mi darà voglia di tornare alla «vita normale», nonostante l’anormalità della situazione. È solo nel momento in cui la paura viene riconosciuta, d’altronde, che può poi diventare feconda. Spingendoci a impegnarci in prima persona — invece di delegare sempre a qualcun altro — per proteggere le nostre libertà e i nostri valori.
Repubblica 1.4.16
Torna in libreria con una nuova introduzione il romanzo filosofico di Eugenio Scalfari
L’uomo perso nel suo eterno labirinto
di Paolo Mauri

Un verso, un verso dantesco, mi è tornato alle labbra mentre leggevo “Il Labirinto”di Eugenio Scalfari: un romanzo uscito quasi vent’anni fa e ora riproposto con una nuova introduzione. Il verso sta nel Paradiso e dice: «prende l’image e fassene suggello». L’immagine è quella del labirinto e diviene dunque il suggello o sigillo di una narrazione che vuole essere specchio del vivere, ovvero indagine sul significato della vita e della morte, integrandosi perfettamente nella riflessione che l’autore va facendo da molti anni e pubblicamente fin dal ’94, anno di uscita di “Incontro con io”. Ma perché scegliere la via del
romanzo dopo aver sperimentato la via del saggio? In realtà Scalfari, in qualunque veste scriva, è sempre un eccellente narratore e persino quando discute un concetto sfumato come la fine della modernità non esita, per esempio, a mettere in scena un suo dialogo con Diderot. Comunque la narrazione permette, se mi si passa l’immagine, di vestire di carne i pensieri e di porli nella mente di un preciso personaggio, lasciandogli poi un po’ di briglia sciolta, perché i personaggi son fatti così e spesso sono sorprendenti anche per chi li crea.
Dunque il labirinto. Ce lo portiamo dietro da millenni, ma, avverte Scalfari nel prologo, non è necessario pensare a Minosse, Teseo e Arianna. Il labirinto è sopravvissuto a loro, è diventato un emblema a sé stante e lo possiamo persino trovare, l’esempio lo fa Scalfari stesso, in un baraccone di un luna park dove il visitatore si perde tra gli specchi deformanti.
Scalfari tenta dunque una lettura dell’enigma uomo e apparecchia una immensa casa abitata da una famiglia molto ampia, di oltre settanta persone, i Gualdo, con un patriarca che si chiama Cortese, un figlio di lui, Stefano, e un nipote, Andrea. Ci sono molti altri Gualdo nella casa che affaccia da un lato verso la marina e dall’altro sulla campagna e alcuni il lettore li incontrerà nelle pagine del romanzo. Che è, possiamo dirlo subito, un romanzo fortemente simbolico nel senso che i protagonisti non hanno bisogno di vivere una storia: essi sono per quello che sono, si autorappresentano. Certamente, nel progettare la casa-labirinto dei Gualdo, Scalfari ha avuto in mente la casa della sua famiglia in Calabria, tra l’altro, come narra nel
Racconto autobiografico scritto per il Meridiano che raccoglie parte delle sue opere, un suo quadrisavolo si chiamava proprio Cortese. E non trascurerei neppure l’influsso letterario di un’altra illustre dimora: quella del Gattopardo.
Cortese Gualdo è, a suo modo, un Gattopardo, capo di una famiglia benestante e autosufficiente, perché il labirinto nel quale questa famiglia vive è un regno tranquillo, immobile nel tempo, legato com’è ad una solida economia rurale. Siamo ai primi del Novecento, ma il tempo storico conta poco: il mondo è fuori e quasi non se ne hanno notizie. Il vero labirinto, lo si intuisce subito, non è solo quello costituito dalla casa e con le sue mille articolazioni, scale, anfratti, il vero labirinto è dentro i personaggi: sta, ancora una volta, nella decifrazione o scomposizione dell’Io. Del resto, scrive Scalfari nell’introduzione a questa nuova edizione del suo romanzo, «Il labirinto non è altro che il groviglio di contraddizioni che vivono dentro di noi, alimentano la nostra vita, la rendono felice e infelice». E molti dei Gualdo erano portati all’introspezione, altri ad osservare la vita fuori di sé. Dunque Il Labirinto è un romanzo filosofico e i personaggi sono funzionali alle domande di fondo alle quali l’autore cerca una risposta. L’ottantenne Cortese Gualdo è un uomo appagato che vuol delibare fino in fondo i piaceri della vita. Per questo si veste, per cenare con il figlio Stefano, come un Grande di Spagna; per questo accetta volentieri che una compagnia di guitti si fermi sulle sue terre e si esibisca nella casa. Nella cena consumata con il figlio Stefano, che è invece introverso e solitario, per quanto il padre ama la compagnia e il gioco, il tema è di nuovo filosofico: la felicità. Se il romanzo contemporaneo nel suo lungo percorso forse declinante predilige ormai i piccoli sistemi, il quasi nulla della quotidianità, possiamo dire che Scalfari va volutamente controcorrente e punta invece ai massimi sistemi, mettendo in scena la Ragione che discetta e fa ricorso volentieri a pagine antiche: Alceo, Platone e poi ancora Agostino, Nietzsche, Shakespeare e Villon. La compagnia di attori detta dei lunatici che chiede asilo ricorda l’Amleto e credo sia una citazione voluta. Mascherare, smascherare, essere, non essere… Che cosa accadrà in una mente colpita dalla follia? È una delle indagini che il romanzo si propone: Daniele, figlio di Stefano, è il matto e vive in solitudine, in una stanza che fa sempre parte del Labirinto. Dunque i vari personaggi si incontrano, chiacchierano, fanno musica insieme. La Ragione indaga e il Corpo pretende. Non si sa bene chi comandi su chi e d’altra parte è antica questione. Una parte notevole è governata da Eros, ed è un tema ricorrente, per non dire centrale, nei libri di Scalfari. E la riflessione si fa dunque felicemente, intensamente narrazione. Ora si può essere attratti da questo mondo arcaico o esserne sazi e cercare una via di fuga. Dopo aver esplorato il Labirinto, Scalfari assegna al personaggio di Andrea, giovane nipote di Cortese, il compito di andarsene lontano, dall’altra parte del mondo. Andrea ci va nel momento in cui è preso dall’amore per Cristina con cui ha avuto un incontro memorabile. Bene: per viaggiare Andrea si serve del pensiero. Non c’è mezzo più veloce che in pochi secondi lo possa trasportare in un nuovo mondo, tecnologicamente evoluto e assoggettato a criteri di vita straordinariamente nuovi, ma anche sterili. Sarebbe piaciuto a Swift questo paese dove la gente ha sempre fretta e si fa governare da una Rete presieduta da cinque magistrati che risolvono ogni problema. In pratica l’umanità ha reso se stessa schiava, negandosi il piacere di vivere. Ma il romanzo di Scalfari, pur prevedendo il dolore e la Morte, è anche un inno al piacere di vivere e alla libertà di inventarsi la propria vita. Un piacere che non potrebbe esistere senza il pensiero che lo amministra e lo filtra, lo centellina e lo proietta nel gran mare del Tempo.
IL LIBRO Il Labirinto di Eugenio Scalfari ( Einaudi pagg. 200, euro 19)
Repubblica 1.4.16
Scommessa, inventiva e creatività perché la traduzione è lo sport estremo più pericoloso
di Valerio Magrelli
Il saggio di Franco Nasi ripercorre le avventure più curiose di un mestiere nato con il crollo della Torre di Babele Dall’antichità fino agli esperimenti linguistici di Georges Perec
L’attività della traduzione ha a che fare per definizione con la figura del prigioniero (dal latino
captivus), trasportato da un luogo all’altro nella stessa maniera in cui il testo è destinato a migrare di lingua in lingua. A sottolinearlo è Franco Nasi nel saggio Traduzioni estreme (Quodlibet). Parlando dell’ufficio traduzioni del tribunale, il luogo in cui ci si occupa di controllare e spostare i carcerati, la sua premessa cita un anagramma proposto da Stefano Bartezzaghi partendo dal termine “cattiveria” (anch’esso derivato da captivus). Ebbene, basta cambiare posto a poche lettere, per ottenere “creatività”. Siamo al cuore di questo libro, che ha come tema la creatività nelle traduzioni, e in particolare in quelle estreme.
Nata con l’uomo, o se si preferisce col crollo della Torre di Babele, considerata da un celebre critico «il più complesso genere di evento mai prodotto nell’evoluzione del cosmo», la traduzione è oggi diventata una disciplina di vastissima portata, da cui discendono ricerche specifiche quali la “traduttologia” e la “translatica”, più note con l’espressione Translation Studies. In un panorama tanto ampio il lavoro di Nasi si raccomanda per diverse ragioni, prima fra tutte la sua leggibilità. Lo si vede sin dalla curiosa titolazione dei capitoli, aperti da alcune pagine su Traduzioni estreme e sci fuori pista (sottotitolo: La gravità e la neve), per poi passare alle sezioni Lipogrammi, pangrammi e anagrammi o Acrostici alfabetici e inversi. Difficile immaginare un divario più ampio. Eppure il ricorso a codici tanto lontani fra loro quali appunto quelli di slalom e enigmistica (quest’ultima da intendersi come parente stretta della poesia) funziona a perfezione, consentendo a chiunque di comprendere il difficile meccanismo di alcuni strepitosi virtuosismi verbali.
Eccoci all’assunto del libro: l’incarico del traduttore, di per sé arduo, si fa addirittura inaudito di fronte a composizioni volutamente difficoltose, estreme. Questo aggettivo si riferisce a opere particolari, cioè formalmente vincolate (quelle che nello sci chiameremmo “piste nere”), scritte assumendo intenzionalmente restrizioni insolite. Prendiamo il lipogramma. Si tratta di una creazione letteraria realizzata secondo un particolare artificio: l’omissione di tutte le parole in cui compare una determinata lettera o un determinato gruppo di lettere. L’esempio più famoso è costituito dal romanzo di Georges Perec,
La disparition ( La scomparsa).
Uscito nel 1969 (in era pre-computer), il volume consta di oltre 300 pagine, oltre 70 mila parole e quasi 300 mila caratteri, nelle quali non viene mai impiegata la “e”. Scelta significativa, in quanto, essendo tale vocale la più utilizzata nel francese, sta a dimostrare come lo scrittore abbia voluto raccogliere la massima sfida – per continuare la metafora sciistica, basterebbe pensare allo slalom speciale. Ora, se scrivere un testo del genere ha dell’eccezionale, immaginate cosa significherà tradurlo… Una simile impresa (rendere in un’altra lingua il vincolo lipogrammatico) parrebbe impossibile, invece è riuscita a un gran numero di casi, tanto che La scomparsa è apparsa in turco, svedese, russo, olandese, rumeno o spagnolo (in quest’ultimo idioma con un lipogramma in “a” anziché in “e”).
Dunque anche una traduzione così estrema si rivela fattibile, sfruttando con creatività le possibilità ludiche e combinatorie degli alfabeti. Cosa succederebbe, tuttavia, se volessimo riprodurre il testo in una lingua che non ha un alfabeto fonetico, bensì idiogrammatico come il cinese? La risposta di Nasi dischiude nuovi orizzonti: «Qui la discesa, più che sulla neve fresca, sarebbe una discesa sull’acqua. Ma, come si sa, anche su quella, volendo, si riesce a sciare».
IL LIBRO Traduzioni estreme di Franco Nasi ( Quodlibet pagg. 176, euro 18)