sabato 22 dicembre 2012

l’Unità 22.12.12
Bersani al rush finale «Lavoriamo uniti»
Il segretario attende le mosse di Monti, ma il percorso è tracciato: per la prima volta il Pd sarà al governo del Paese
Appello al partito: «Non adagiamoci sul vantaggio acquisito»
A pranzo con il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius: socialisti e Pd assieme in Europa
di M. Ze.

ROMA «Ora abbiamo il rush finale: portare il Pd per la prima volta al governo del Paese». Mentre Pier Luigi Bersani fa il brindisi natalizio con i dipendenti del Nazareno, i rumors di Palazzo iniziano a far filtrare una notizia che manda nel panico i centristi in cerca d’autore: non è affatto certo che Mario Monti si candidi per la premiership o sia disposto a fare l’endorsement alle liste che attendono soltanto la sua benedizione. Anzi, sarebbe sempre più convinto di dover mantenere la sua posizione super partes.
Sarà che la voce è arrivata anche al candidato del centrosinistra, ma chi ci ha parlato racconta che Bersani «è assolutamente sereno e aspetta di ascoltare dallo stesso premier cosa intende fare» nella conferenza stampa di domani mattina. Non ci sta a farsi tirare dentro questo dibattito fondato sul «si dice», tanto più che quello che pensa lo ha detto chiaramente: Monti è una risorsa per il Paese, per lui ci sarebbe sicuramente un ruolo. Ma, ha anche aggiunto, i partiti che nascono attorno al nome di un leader non gli piacciono.
Eppure è chiaro che se Monti non scende nell’agone politico la strada per il segretario democratico si fa meno impervia verso Palazzo Chigi. Per questo esorta i suoi all’ultimo sforzo, il più importante: «Abbiamo lavorato per quello, per essere utili. Dobbiamo fare l’ultimo sforzo, non dobbiamo sbagliare niente. Le condizioni ci sono, dobbiamo tenere una barra politica intelligente, ma soprattutto dobbiamo tenere viva l’onda positiva, lavorando uniti, con intelligenza e anche con un po’ di umorismo e allegria perché la situazione lo
richiede». Basta andare a guardarsi il video di auguri a tutti che campeggia sul sito www.partitodemocratico.it per capire a cosa si riferisce quando parla di umorismo: rimbalza da Youtube a Facebook nel giro di pochi minuti con collaboratori e dirigenti in versione renna natalizia.
ADDIO AL BUROCRATESE
Comunicazione «vivace», esorta il candidato premier, per lasciarsi alle spalle l’immagine di un partito «un po’ greve e burocratico», effetto galvanizzante delle primarie, dirà qualcuno, sta di fatto che Bersani, mostra sangue freddo. Finora ha avuto ragione lui, sulla legittimazione che doveva arrivare da un nuovo passaggio per i gazebo, con tanto di ballottaggio, sulle primarie per i parlamentari a dispetto dei tempi ristretti e sulla strategia politica.
«Gli avversari ci saranno dice ai suoi possiamo aspettarci qualche scherzo qui e là, le difficoltà non mancheranno ma credo che stando sereni e calmi e con determinazione ne veniamo fuori bene con un risultato che la nostra gente si aspetta. Noi siamo nati per questo: governare con una politica riformista». Calmi e sereni mentre al centro della politica c’è il panico. L’unico candidato certo per ora è proprio lui, il segretario Pd. Poi ci sarà Silvio Berlusconi, ma anche no e potrebbe esserci allora Angelino Alfano. Se non ci sarà Mario Monti i moderati dovranno organizzarsi e puntare su un altro cavallo, sapendo che già solo questo li riporta nel recinto dei consensi ad una cifra, sotto il 10%. Per questo Bersani non molla la presa ed è convinto che proprio adesso non si possono sbagliare le mosse, non ci si può «adagiare» sul vantaggio acquisito con le primarie ma si deve continuare il gioco d’attacco perché «quando si accumula un capitale lo si deve reinvestire». Dunque, vale la pena correre il rischio di queste primarieparlamentarie, «perché sono convinto che bisogna sempre correre per andare avanti». Per questo dice provare «apprezzamento e ammirazione» per Anna Finocchiaro e Rosy Bindi che, nonostante i ruoli politici importanti che rivestono nel partito, rispettivamente capogruppo e presidente Pd, abbiano deciso di mettersi in gioco e presentarsi ai gazebo.
Più tardi Bersani si sposta all’ambasciata di Francia per una colazione con il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, a Roma per impegni internazionali e quando incontra i giornalisti non manca di fare una battuta su questo 21 dicembre che doveva essere l’ultimo giorno del mondo secondo i Maya e invece è stato l’ultimo giorno di scuola per tanti parlamentari e l’ultimo di Monti premier. E se il Professore poco prima dice che se il suo governo è finito «non è colpa dei Maya», Bersani ci scherza su: «Peut etre». È possibile.
Torna serio, invece, quando pensa ai primi atti da premier se riuscirà a vincere le elezioni. Soprattutto su un tema che ancora una volta risulta di stretta attualità: il conflitto di interessi. Davanti a Berlusconi che imperversa sui media, i suoi e quelli pubblici, il segretario Pd, parlando con Articolo 21, assicura che conflitto di interessi, norme antitrust e autonomia del servizio pubblico saranno tra i primi nodi da sciogliere durante la prossima legislatura. Prima di lasciare Roma per rientrare a Piacenza il segretario Pd ha incontrato anche il presidente della Repubblica.

La Stampa 22.12.12
L’asse tra Bersani e Fabius “Dialogo con la Germania”
Vertice tra il segretario Pd e il ministro francese: “Rimediamo agli errori del duo Merkel-Sarkozy. Ora bisogna puntare su crescita, lavoro e diritti”
di Francesca Sforza


I rapporti internazionali sono importanti. Pierluigi Bersani ne è convinto a tal punto che da mesi affianca al lavoro sul territorio nazionale quello nelle cancellerie europee. È di neanche una settimana fa la «Progressive Alliance Conference» con i rappresentanti dei partiti progressisti di mezzo mondo, dal tedesco Sigmar Gabriel all’indiana Rita Bahuguna Joshi. Ed è di ieri l’incontro con il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, a Roma per una visita ufficiale alla Conferenza degli ambasciatori alla Farnesina. «La nuova Italia dopo Berlusconi cambia passo – dice Bersani dal salone delle visite dell’Ambasciata di Francia a Roma, seduto accanto al ministro Fabius al termine di un incontro privato -. È un’Italia che stringe seriamente relazioni internazionali sul piano politico, non sul piano personale. È chiaro che non è la prima volta che ci incontriamo – aggiunge appoggiando la sua mano su quella di Fabius, come si fa tra vecchi sodali -, ma questo rapporto tra progressisti d’Europa è un rapporto che riscalda, dà fiducia, perché oggi nessuno si salva da solo».
Segretario Bersani, ministro Fabius, durante l’ultimo incontro a Roma tra i leader progressisti si è parlato di un eccesso di neoliberismo in Europa. Come sarebbe un’Europa più socialdemocratica, più progressista?
Bersani: «L’Europa ha dato segni seppur graduali di voler difendere l’euro e la stabilità. Questo si è capito molto chiaramente. Non si è ancora capito che tipo di segnali voglia invece dare sul fronte della crescita. Per quanto riguarda i dettagli come progressisti europei li abbiamo indicati, ma il tema di fondo rimane quello della crescita, perché dopo la cura Berlusconi abbiamo dovuto stringere al massimo la finanza mettendoci in una situazione di recessione molto seria».
Fabius: «Bisogna difendere il rigore dei bilanci in Europa, ma è tempo di cominciare a inserire degli elementi di crescita, su questo siamo completamente d’accordo. E cominciare a parlare di più di lavoro e di diritti».
L’impressione è che l’asse franco-tedesco, che con Merkel e Sarkozy era molto forte, sia adesso più fragile. Da cosa dipende? E poi: è un bene o un male?
Fabius: «Noi siamo molto attaccati al partenariato Francia-Germania. Ci sono effettivamente però due cambiamenti intercorsi in questo periodo: il primo cambiamento è che il nostro partenariato è diventato meno esclusivo, più aperto ad altri Paesi europei. Non è più Francia e Germania da una parte e gli altri Paesi dall’altra. Oggi l’Italia, tra gli altri Paesi, è un interlocutore importante. Il secondo cambiamento è che si è passati da un’alleanza troppo sbilanciata a una politica delle alleanze paritarie. Perché l’impressione, con Sarkozy, era che la Germania confezionasse una linea e la Francia la facesse sua in seconda battuta. Adesso si perseguono invece alleanze e partenariati che siano tra uguali e che siano aperti. Invito quindi a non pensare all’amicizia franco-italiana come alternativa a quella franco-tedesca, ma ad aprirci tutti verso intese paritarie e aperte».
Bersani: «Non abbiamo nessuna obiezione verso un rapporto stretto tra Francia e Germania, perché è un rapporto che ha sempre fatto bene all’Europa. Avrei invece un’unica e semplice obiezione sul rapporto MerkelSarkozy, ed è che i risultati per l’Europa non sono stati positivi. A differenza di Berlusconi non vogliamo litigare con la Germania, dobbiamo discutere piuttosto, ad esempio riconoscendo che l’Italia come altri Paesi non ha approfittato del calo dei tassi per aggiustare i propri conti. Così come la Germania dovrebbe però riconoscere che dall’euro ha guadagnato molto, pur avendo fatto i compiti a casa. Questo deve produrre una discussione seria perché gli squilibri eccessivi in casa europea si avvertono. Credo che una forte posizione francese possa essere preziosa per l’Europa. Noi ci muoveremo così, con un sentimento di amicizia, un sentimento europeista e auspichiamo che Francia e Germania possano dare una spinta ulteriore al progetto europeo perché l’alternativa è il disastro».
François Hollande ha mostrato di apprezzare Mario Monti, e anche lei, ministro, ha più volte ripetuto parole di apprezzamento nei confronti dell’operato del governo italiano. Crede che il bene dell’Europa passi per una prosecuzione della sua linea politica, anche una volta terminato il mandato?
Fabius, con un gesto molto francese, preferisce lasciare la parola a Bersani. Bersani: «Se Hollande apprezza il governo Monti figuriamoci io che l’ho sostenuto! Ha dato al nostro paese motivi di serietà e di rigore dopo Berlusconi, su questo non ci sono ombre. Adesso dobbiamo andare avanti, deve tornare la politica, la politica si deve prendere le sue responsabilità. Io ho detto più volte che noi ribadiremo e politicamente cercheremo di rafforzare una linea di rigore, di credibilità e di fedeltà alla prospettiva europea. Dopodiché cercheremo di aggiungerci un di più dal lato della crescita, del lavoro, dei diritti. Monti è stato anche bloccato da una maggioranza singolare, la politica darà invece una maggioranza univoca. E quindi andremo oltre Monti senza, spero, perdere il suo contributo».
Fabius: «Vorrei essere chiaro: non è che siccome parlo bene di Bersani allora devo parlare male di Monti. Credo che Monti abbia fatto benissimo all’Italia in questa fase e mi sembra che alcuni principi del suo operato siano condivisi da tutti».

La Stampa 22.12.12
La scelta del Pd tra Vendola e il Prof
di Federico Geremicca


Nel giorno in cui tutto doveva finire e per fortuna nulla finì, qui - nel cuore della cittadella politica, cioè a Montecitorio qualcosa invece si conclude per davvero. Si chiude la XVI legislatura, e va bene. Ma finisce anche la «carriera parlamentare» di due leader che hanno profondamente segnato la vita politica (e non solo politica) del Paese. Per «Walter» e «Massimo», infatti, questo venerdì della presunta Apocalisse è il giorno del passo d’addio al Parlamento: e Veltroni e D’Alema - diversissimi da sempre - affrontano in maniera differente anche quest’ultimo e non semplice passaggio.
Veltroni parla in aula (piena solo per le tante presenze nei banchi del Pd) e D’Alema invece no. Il primo interviene per motivare il sì dei Democratici alla legge di stabilità, e lo fa con un discorso in puro stile veltroniano: parla del «limbo limaccioso» in cui è finita l’Italia, descrive il populismo come una sorta di «voto di scambio tra disperazione e demagogia», cita Olof Palme e invita a guardare avanti, ai giovani, al futuro; il secondo - D’Alema - ascolta, non regala battute, ma pare comunque di ottimo umore mentre chiacchiera con Fini, poi con Marianna Madia e infine si congratula con l’amico di tanti dissidi e tante battaglie.
Mentre il sipario (parlamentare) cala su due personalità che certo non usciranno dalla scena politica, Pier Luigi Bersani è a pranzo con Laurent Fabius, ministro degli esteri francese ed ex leader del Psf. Per il segretario si tratta di un passaggio non irrilevante in quella sorta di «giro delle sette chiese» che ha dovuto intraprendere presso le diplomazie europee per rassicurarle diciamo così - circa l’affidabilità del Pd e dei suoi alleati come forza di governo. In vista del voto di febbraio, infatti, due cose hanno molto preoccupato (e naturalmente preoccupano ancora) Bersani: l’incessante pressing europeo per una discesa in campo di Mario Monti e l’attacco concentrico che viene mosso al Pd in ragione della sua alleanza con Vendola.
Per settimane il leader Pd ha dovuto difendersi dalla contestazione di esser «troppo poco montiano», e lo ha fatto a volte con toni anche duri, dicendosi stufo dei «prelievi che mi vengon fatti ogni mattina per stabilire il mio tasso di montismo». Sembrava quello il massimo della contestazione possibile. E invece, a Monti dimissionario, ecco il nuovo affondo: questo Pd sarà anche una cosa diversa dal vecchio Pci e dai suoi eredi, ma è ancora troppo poco riformista e l’alleanza col «radicale» Vendola lascia presagire una linea quanto mai massimalista.
Che sia una preoccupazione sincera oppure no, in verità importa poco. Quel che conta - e Bersani lo sa - è che l’obiezione è in campo ed è insidiosa quanto mai. Infatti, mentre per quel che riguarda il «tasso di montismo» possono parlare i fatti di questi 13 mesi (e la lealtà al governo sempre ribadita dal leader del Pd), l’accusa di radicalismo investe il futuro - cioè le prossime elezioni - e non è analogamente risolvibile richiamando dei «fatti».
Anzi. Ad avere memoria, gli unici «fatti» in campo - in verità - riguardano la deludente esperienza di governo di centro e sinistra (governo Prodi 2006-08) e non sono granché rassicuranti. E’ vero che a quell’epoca il Pd non esisteva ancora, ma si tratta di una rassicurazione che appare insufficiente. Soprattutto se si annota che Vendola attacca quotidianamente Monti, il suo governo e la sua agenda; e che anche nel Pd si alzano sempre più di frequente voci critiche circa la linea tenuta in questi 13 mesi dal Professore.
Nessuno può aver dubbi intorno al fatto che la prossima campagna elettorale sarà tutta giocata sul terreno dell’economia e delle politiche da perseguire per arginare la crisi in atto: in questo senso, allora, esser rappresentati come una forza «inaffidabile» sul piano delle ricette (riformiste) da mettere in campo, contiene in sè un pericolo mortale. E’ per questo che dal Pd e dalla coalizione in costruzione è lecito attendersi - se possibile - posizioni e proposte che fughino le perplessità in campo (genuine o strumentali che esse siano). Si lancino dei segnali, e si tratteggino prime linee di intervento che rassicurino le cancellerie, i mercati e gli elettori. E anche Vendola farebbe bene a considerare meglio tanto i rischi quanto la posta in palio. Perché il tempo stringe ed una scelta netta e chiara non pare più rinviabile.

Corriere 22.12.12
Bersani: «Pronto alla sfida». E sente Casini
di Maria Teresa Meli


Il segretario: il premier non romperà con noi Nel partito monta il malumore dei renziani
ROMA — Pier Luigi Bersani è tranquillo. O, almeno, così appare. Ieri ha parlato con Giorgio Napolitano e si è convinto che il pericolo Monti sia assai meno esplosivo di quello che appare.
Ha compulsato i sondaggi che danno a un'eventuale formazione intitolata al premier una percentuale assai ballerina che va dall'11 al 21 per cento. Il che significa, in parole povere, che una forza siffatta potrebbe addirittura non arrivare a due cifre, visto che le insindacabili e implacabili forchette dei sondaggi rivelano che c'è sempre un più 3 o un meno 3 di fronte alle percentuali guadagnate dalle rilevazioni.
Bersani ha conversato anche con il presidente del Consiglio, che gli ha ribadito la sua cautela e la voglia di «non rompere con il Pd». Poi il leader ha lanciato i suoi messaggi: «Sono pronto al confronto televisivo con Monti». E ora aspetta quello che verrà. Conscio del fatto che quella che sembrava una marcia trionfale si sta profilando più complicata di quanto sembrasse.
«Io sono pronto a sfidare Monti», avverte il segretario del Partito democratico. Che aggiunge: «Sono anche disponibile a dire che cosa della sua agenda può andare bene e che cosa no». Ma c'è un'altra novità che rende il percorso di Bersani meno disagevole. Pier Ferdinando Casini lo ha chiamato e gli ha detto: «Non so quello che accadrà e non ne sono convinto, un'unica cosa è certa: se cercano di fare dell'Udc la bad company, il listone dove finiscono tutti quelli che hanno dei problemi, si sbagliano di grosso. Io voglio pari dignità».
Sono voci, consigli, timori, tremori e suggerimenti che lasciano al segretario del Partito democratico la convinzione che tutto sia più complicato di quello che viene raccontato, che l'esito non sia scontato, come non lo è il tentativo di Monti di scendere in campo.
«Non ci servono spot elettorali, élite pronte a prendere le redini, storie che non stanno in piedi: dobbiamo tutti scontrarci con la dura realtà. E per quel che riguarda noi del Pd dobbiamo dimostrare che siamo in grado di governare, che lo faremo bene, senza bisogno di badanti», è la parola di Bersani. In questa guerra di nervi tra il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, nonostante le apparenze, il secondo parte avvantaggiato. Non ha promesso futuri possibili e migliori. Non è andato appresso al ministro Riccardi che segnava la differenza tra il rito montiano e quello bersaniano. Anzi. E' rimasto lì ad attendere quello che sarebbe successo. Sicuro del fatto che il presidente del Consiglio non sarebbe andato oltre la linea tracciata: «I voti li abbiamo noi».
Non a caso il premier, prima di sciogliere la Camera, è tornato a chiedere al Pd una spalla e un appoggio. Che non gli mancheranno. A patto che la partita sia giocata a carte scoperte. Perché Bersani non vuole «mangiarsi la coda», a furia di «dipingere sempre lo stesso quadro, come se nulla fosse cambiato o nulla cambiasse». Alla fine dell'ennesima giornata di telefonate, appuntamenti dati e mancati, Bersani si rende conto che il nemico non sta lì a Palazzo Chigi, ma è in casa. Il segretario del Partito democratico per togliere lo scettro e la ragione sociale al governo dei tecnici, si è mostrato pronto sin dall'inizio a escogitare il modo per dare vita a una nuova classe dirigente. E quel modo chiamasi voto delle primarie. Ma anche su questo terreno il Pd, per continuare a conquistare i voti di cui ha bisogno la coalizione del centrosinistra che verrà, è pronto al dialogo. O quanto meno a dare l'impressione di volerlo. E così Bersani comincia a stilare le sue liste elettorali, ben sapendo che anche una vittoria di misura o, addirittura, un pareggio non lo bloccheranno per sempre, ma, comunque, gli faranno perdere voti, consensi e, soprattutto endorsement indispensabili. Anche perché la china lungo la quale potrebbe incamminarsi il Partito democratico è ancora più insidiosa di quello che sembra.
Tra breve verranno a mancare dal pacchetto di mischia del Pd sia D'Alema che Veltroni. E poi ci sarà solo Renzi, che ragiona così: «Mi hanno chiesto di siglare un compromesso, bene, gli ho risposto io, datemi il 40 per cento delle candidature, "no", hanno replicato loro. E alla fine l'offerta che mi hanno fatto è questa: tieniti i tuoi parlamentari uscenti. Io mi sono incavolato, e l'ho spiegato in tutte le salse: non voglio nel listino i parlamentari, come non voglio chiunque abbia consuetudine con la politica: tutti questi corrano alle primarie, i giovani sotto i 40 abbiano invece delle chance». E' un monito che mette in mora tutto il gruppo dirigente del Pd, da Rosy Bindi che tenta la fortuna delle primarie nella sicura Campania ad Anna Finocchiaro che fa altrettanto in Emilia. E' un monito, sì, ma anche un'opportunità per dire che non c'è bisogno di andare tanto lontano dai partiti per trovare quella che Veltroni ancora ieri ha chiamato la «bella politica».

Repubblica 22.12.12
Il pressing di Bersani: Mario non si candidi
Il Pd pensa al Professore per il Quirinale. Il segretario vede Napolitano
di Giovanna Casadio


ROMA — «Monti eviti di scendere in campo e comunque non metta il suo nome sulle liste». L’ultimo pressing del Pd e di Bersani gioca su quel margine di incertezza che il Professore ancora sembra avere. Sono le ore caotiche di fine legislatura. Non si sa quale sarà la scelta del premier. Tutto adesso sembra più confuso e il Pd prova a giocare le sue carte moltiplicando i tentativi di convincere Monti a ripensarci.
Anche per questo il segretario democratico va al Quirinale per un colloquio con Napolitano. Sono le 15,45. Youdem, la tv del partito, trasmette gli auguri di Natale e il discorso di Bersani al Nazareno, ma è una differita. A quel-l’ora, il candidato premier del centrosinistra è al Colle, convocato dal capo dello Stato, per concordare il percorso e gli adempimenti, a tempo di legislatura scaduto. Inevitabile che dica la sua su Monti, in un momento così delicato, poche ore prima delle dimissioni formali del premier e in attesa che sciolga la riserva sul suo futuro impegno politico. Ripete, Bersani: «Noi non siamo preoccupati, tanto arriviamo primi e governeremo». Tuttavia, i danni che una competizione diretta potrebbe provocare all’Italia — soprattutto agli occhi della comunità internazionale e in Europa — non sono da sottovalutare. Enrico Letta, il vice segretario, qualche giorno fa aveva invocato un «endorsement light» di Monti ai centristi: questo è accettabile, ma è la linea Maginot se non si vuole inasprire il confronto, vedersi sfuggire di mano la situazione e piombare nelle «dinamiche inevitabili della campagna elettorale». A quel punto chi potrà scongiurare una conflittualità tra Bersani e Monti lunga un mese, fino al voto il 24 febbraio? I Democratici tornano poi a suggerire che un Monti fuori dalla mischia avrebbe le porte del
Quirinale aperte. Un discorso che il leader di Largo del Nazzareno ripete a ogni piè sospinto.
Per il Pd è una giornata campale. A Montecitorio si vota la legge di stabilità e in Transatlantico i parlamentari democratici chiamano freneticamente con i telefonini la commissione elettorale riunita al partito. Si sta decidendo quali sono gli amministratori locali che potranno correre alle primarie (53 su 120 richieste); dove gareggeranno i big “derogati” (Bindi a Reggio Calabria; Finocchiaro a Taranto; Fioroni forse a Messina). Ma nell’ufficio di Bersani, la musica è un’altra: si gioca la partita politica. I Democratici attivano insomma tutti canali per fare intendere a Monti che una sua candidatura diretta sarebbe un errore. Elencano gli aspetti che sconsigliano la candidatura del Professore, li fanno emergere rispetto a quelli che potrebbero suggerirla. Al Senato ad esempio, dove si parla di risultato incerto del centrosinistra, per via del meccanismo elettorale su
base regionale, la presenza di una lista Monti farebbe la differenza per arginare il Pdl (o quel che ne resta)? Il Pd, calcoli alla mano, sostiene di no.
Se alla Camera i Democratici ritengono pressoché certo un buon risultato, pure a Palazzo Madama non disperano. Bersani non sottovaluta certo le difficoltà. Il partito entra nella fase di rincorsa finale. «Avremo degli avversari, possiamo aspettarci qualche scherzo qui e là, le difficoltà non mancheranno, ma il Pd è nato per governare e ci arriveremo»: dice nel discorso di auguri per un 2013 con il vento in poppa. Rincuora i bersaniani la dichiarazione di Andrea Olivero, l’ex presidente delle Acli, tra i promotori con il ministro Andrea Riccardi della federazione di Centro a favore di Monti: «La candidatura diretta del Professore non è però strettamente indispensabile, visto che è senatore a vita. Presentarsi alla Camera creerebbe qualche attrito con il Quirinale». C’è speranza che qualcosa stia cambiando nelle scelte di Monti. «Dopo il voto, il Pd e Monti dovranno collaborare — ragiona Letta —. A chi converrebbe creare divaricazioni difficili da ricucire?».

il Fatto 22.12.12
Camusso a Monti: Candidarsi è fuori dal gioco democratico
Il segretario della Cgil attacca il premier e annuncia “un piano del lavoro” per la ricostruzione del Paese
di Salvatore Cannavò


È una conferenza stampa istituzionale, da fine anno. Il segretario della Cgil fa gli auguri ai giornalisti e poco prima li ha fatti, nel brindisi di fine anno, a tutto l’apparato riunito al primo piano di Corso Italia, nella grande sede della Cgil su cui campeggia uno striscione enorme con su scritto “La violenza contro le donne è contro tutti”. Camus-so ne approfitta per inviare un messaggio contro Monti, il suo governo e le ipotesi della sua candidatura. “Noto che è la prima volta nella storia della Repubblica – spiega il segretario della Cgil – che un governo privo del mandato popolare utilizzi gli effetti di quel governo nella contesa elettorale. Mi sembra non rispondente alle regole democratiche”. Toni diplomatici per dire sostanzialmente a Monti che farebbe bene a non schierarsi alle prossime elezioni.
CHE SIA Monti il bersaglio lo si desume anche dalle parole dedicate alla Fiat. Camusso non sembra credere davvero ai piani di rilancio presentati a Melfi da Sergio Marchionne ma, più che polemizzare con l’ad della Fiat, preferisce sottolineare il fatto che Mario Monti, presenziando alla cerimonia di Melfi, ha fatto finta di non conoscere le discriminazione che, contro la Cgil, alla Fiat vengono consumate. Il riferimento è in particolare a quanto accaduto a Pomigliano d’Arco. Monti, però, viene bocciato soprattutto per le politiche economiche al punto che la Cgil annuncia la convocazione di una Conferenza programmatica i prossimi 30 e 31 gennaio per lanciare un nuovo “Piano del lavoro”. È la stessa Camusso a sottolineare l’analogia con il “Piano del lavoro” lanciato da Giuseppe Di Vittorio, subito dopo la guerra, nel 1949, emblema di un progetto di ricostruzione del paese. Allora la Cgil fece quella mossa per uscire dal dopoguerra, ma anche per uscire dall’isolamento in cui la gettavano le due scissioni (1948-50) che diedero vita alle future Cisl e Uil. Erano altri tempi, si proponeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e un programma di lavori pubblici che sarebbero venuti poi con i governi di centrosinistra.
ANCHE Susanna Camusso utilizza il termine “ricostituzione del Paese” anche se avverte dalle facile analogie. Ma il paragone è fatto e contribuisce a demolire l’azione di un governo che, pure, è andato avanti grazie ai voti del Pd, partito di riferimento del sindacato di Corso Italia. La Cgil punta molto su una possibile vittoria di Pier Luigi Bersani alle prossime elezioni per poter affermare una politica che si fondi soprattutto sul lavoro. “Un lavoro qualificato e fondato sui diritti”. Camusso vuole però ricordare che lo scorso anno la Cgil aveva proposto di andare rapidamente alle elezioni dopo la caduta di Berlusconi e di non aver mai creduto all’ipotesi del governo in carica. Le cose sono andate diversamente, il Pd ora non potrà discostarsi dall’agenda Monti, ma in ogni caso sa che troverà al suo fianco la Cgil.

l’Unità 22.12.12
Ingroia in campo scarica Di Pietro e i partitini:
«Fate un passo indietro»
Il magistrato rientra dal Guatemala per annunciare che guiderà la lista arancione: «Santoro, vieni con noi»
di Claudia Fusani


ROMA «Io ci sto, se voi ci state. Se c’è un passo indietro dei segretari di partito che devono comunque stare accanto a noi. E se l’avanguardia di questo nuovo soggetto è la società civile». Antonio Ingroia arriva alle due del pomeriggio dal Guatemala. Il tempo di sistemarsi doccia e trucco ristoratore e alle 17 e 40 sale sul palco del teatro Capranica gremito mentre fuori decine di persone rumoreggiano con il servizio d’ordine. Sono tutti qui e lo ascoltano per un’ora e mezza nell’attesa della discesa in campo definitiva del pm palermitano. Un discorso accalorato anche se alla fine non strappa particolari standing ovation con il libro della Costituzione in mano («Sono qui in nome e per conto di questa») e mentre i principi della Carta scorrono sullo schermo alla sue spalle. Ma non scioglie del tutto la riserva. «Ingroia si candida o non si candida? Per avere questa risposta dovrete ancora aspettare» dice il pm che ha già ottenuto dal Csm l’aspettativa per motivi elettorali.
L’ambiguità non è tanto nelle parole di Ingroia. Ma nel progetto stesso di questo nuovo soggetto politico, «un nuovo polo che però non è quarto, né primo né secondo» che cerca faticosamente di nascere a sinistra del Pd ma che «con il Pd cerca un confronto» e «anche con Grillo, perché no». Un progetto che ha, al momento, solo poche certezze: no al berlusconismo perché «il ventennio berlusconiano ha sfigurato lo stato di diritto e lavato il cervello a molti italiani e non solo a quelli meno colti». No alle politiche neoliberiste che hanno caratterizzato il governo Monti le cui scelte hanno «demolito i poveri e arricchito i potenti». Fissati i confini insuperabili, resta una terra di mezzo amplissima dove ci può stare tutto. Ci può stare il nuovo polo «alternativo a Monti e a Berlusconi» dove la società civile deve essere la protagonista se saprà rispondere il prima possibile a quel «se voi ci state» che viene ripetuto come un mantra nei 75 minuti di intervento.
E qui viene la parte più difficile del progetto di un nuovo soggetto politico. Perché sono molte le somiglianze con il sogno infranto in malo modo di quella che fu la sinistra arcobaleno. E perché la Sicilia di recente ha dimostrato che è molto esiguo lo spazio politico tra la sinistra di governo e il populismo di Grillo.
L’uomo che ha portato a processo, per la prima volta, i boss di Cosa Nostra ed ex ministri della Repubblica, comincia da sé, dalla sua storia. Se lo aspettavano molti, qua, di ritorno dal Guatemala dove da appena un mese era impegnato in una missione Onu. E l’ha fatto. «Se qualcuno dice che il mio intervento qui oggi è la riprova che ero un pm politicizzato, lo deve dimostrare. Io nella mia vita ho fatto il pm e non ho mai indossato nessuna maglia politica». Poi invoca una «rivoluzione civile» per «cambiare la classe dirigente di questo Paese compromessa con la corruzione, che non ha mai combattuto veramente la mafia ma l’ha solo contenuta secondo il principio evitare i morti per strada ma fare affari dietro le quinte».
Il punto è con chi fare questa rivoluzione. Al suo fianco Ingroia vede già gli arancioni di Luigi De Magistris, gli intellettuali e i comitati di «Cambiare si può» ma sembra allergico a certe etichette. Poi chiama all’appello molti. Chiede di fare un passo avanti a Maurizio Landini, segretario della Fiom Cgil, «perché abbiamo bisogno di te». A don Luigi Ciotti e agli uomini dell’associazione Libera. Chiede un passo avanti al giornalista Michele Santoro perché «c’è bisogno di una nuova informazione». Oliviero Beha, che siede nelle prime file, non viene citato. E non ci resta benissimo. Saluta l’adesione di Guido Ruotolo e di Gino Strada. Chiama le donne di «Se non ora quando». In cima alla lista, un suo grande amico, Salvatore Borsellino.
Poi è la volta dei passi indietro. O meglio, «un passo indietro per allinearsi a noi, alla società civile». E l’appello questa volta è diretto ai segretari dei partiti seduti in prima fila, Antonio Di Pietro (Idv), Paolo Ferrero (Rifondazione), Oliviero Diliberto (Comunisti italiani), il verde Angelo Ferrero. «Non voglio rottamare nessuno, meno che mai Di Pietro», dice Ingroia. «Perché noi non siamo né l’antipolitica né contro i partiti. Ma la politica oggi deve fare un passo indietro per consentire un passo avanti alla società civile».
Quasi incurante delle rotture che si sono consumate con il centrosinistra in questo ultimo anno, Ingroia chiama anche Bersani, oltre che Grillo. Il primo «è una persona per bene» a cui chiede «un confronto perché molti fronti di lotta ci vedono uniti». Al leader dei 5 Stelle rimprovera di usare «toni a volte troppo arrabbiati». Ma poi chiede: «Dobbiamo continuare a rottamare e solo distruggere, o dobbiamo anche cominciare a ricostruire?». Parole che ora servono a lanciare il nuovo movimento ma che sono chiaramente destinate a incontrare dei rifiuti. Ora, al di là delle ambizioni, dei sogni e delle narrazioni, c’è soprattutto la realtà. Una legge elettorale che impone la soglia del 4 per cento per entrare in Parlamento. Alleanze già fissate, tra Pd e Sel, ad esempio anche se al Capranica ci sono molto delusi dalle scelte di Vendola. C’è il tempo che stringe e entro metà mese devono essere presentate liste e simboli. E invece Ingroia prende ancora tempo. «Entro una settimana – dice sibillino -saprete se mi candido oppure no. Al momento sono un funzionario dell'Onu in missione in Guatemala».

La Stampa 22.12.12
Ingroia chiama Landini e Santoro E incassa l’appoggio di Bertinotti
di Paolo Festuccia


Parla di nuova «primavera», di «rivoluzione pacifica per cambiare classe dirigente», e soprattutto di nuovo impegno della società civile. Ma per ora da Antonio Ingroia un sì definitivo ad una sua candidatura alle prossime politiche ancora non arriva. Certo, ieri, al teatro Caprarica di Roma presentando il «nuovo polo» («Io ci sto») ha utilizzato frasi e temi da politico consumato. Ha messo i panni del rottamatore e chiesto alla politica un passo indietro. A cominciare da Di Pietro, per passare a Ferrero e Diliberto. Con l’unica assoluzione per Vendola, anche se poi a fine manifestazione Ingroia smentisce che «non c’è nessuna rottamazione per Di Pietro».
«Abbiamo bisogno di associazioni, sindacati, di partigiani della Costituzione - spiega l’ex procuratore aggiunto di Palermo -. È il modo migliore per far fare un passo avanti alla società civile». Ingroia sottolinea che «ciò non significa sparire, perché vi vogliamo con noi nella battaglia». Turn over, dunque, necessario per costituire l’unico vero polo «alternativo a Monti e Berlusconi». Un Polo che nelle intenzioni di Ingroia deve confrontarsi senza pregiudizi con Grillo e Bersani, ma che «non può essere un collage, un’accozzaglia di colori, un arcobaleno, ma una nuova identità». Dunque, l’invito a osare, «ad aprire il libro dei sogni: non vogliamo un polo giustizialista e manettaro»; e l’appello rivolto per la discesa in campo a Michele Santoro, Maurizio Landini, Don Ciotti, Sandro Ruotolo. «Non è un invito a candidarsi, ma l’invito ad accompagnarci al nostro fianco... se poi volete candidarvi, ancora meglio».
La sfida, insomma, appare lanciata. Una sfida che incrocia anche l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti per il quale «c’è bisogno di una lista di alternativa a quest’Europa reale. Sarebbe un bel segno e meriterebbe un incoraggiamento». Un vero e proprio endorsement che non arriva di certo, però, da Fabrizio Cicchitto. Anzi. «Nessuna paura nei confronti di un tipo come Ingroia che non risponde - commenta Cicchitto - perché non sa che rispondere e nasconde solo la sua mancanza di professionalità dietro un settarismo che rischia di screditare la categoria dei magistrati. Ma sappiamo bene - conclude - che fortunatamente di pseudo magistrati come Ingroia ce ne stanno pochissimi». Di opinione diversa il sindaco di Palermo Leoluca Orlando secondo il quale con «Ingroia sta nascendo la primavera d’Italia».

il Fatto 22.12.12
Radicali: un moribondo al 41 bis. Le vittime: non darla vinta alla mafia
di Valerio Cattano


Il boss sta morendo, eppure resta detenuto sotto il regime del 41 bis. Si tratta di accanimento giudiziario o di corso della giustizia? Posizioni diverse quelle dei Radicali, e l’associazione che comprende i familiari delle vittime dei Georgofili, strage firmata dalla mafia a Firenze, nella notte del 26 maggio 1993.
Alessandro Gerardi, membro dell’associazione Luca Coscioni, e Irene Testa, presidente dell’associazione Detenuto Ignoto, hanno firmato una dichiarazione congiunta nella quale affermano: “Il detenuto è addirittura in coma, sottoposto a tracheotomia, impossibilitato a respirare e giace immobile in un letto d’ospedale, eppure continua ad essere sottoposto al 41 bis ossia a un regime carcerario la cui concreta attuazione è una offesa alla Costituzione e ai principi più elementari di umanità e dignità che dovrebbero regolare ogni tipo di detenzione carceraria in uno stato democratico. Quali collegamenti con l’esterno si vogliono impedire ad un detenuto in coma? Il ministro Severino e il DAP ci dicano che senso ha continuare ad isolare una persona che non risponde più agli stimoli esterni”.
Insorge Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione Georgofili: “Tutta l’indignazione possibile davanti a simili esternazioni dei seguaci di Marco Pannella, che mentre protestano giustamente contro l’affollamento delle carceri, approfittano dei microfoni aperti e chiedono l’annullamento del 41 bis per la mafia “cosa nostra”; rispondiamo alla vergognosa provocazione nei nostri confronti, che ormai va avanti da troppo tempo. Provenzano sta morendo, così pare dai martellamenti mediatici, quindi a questo punto, visto che si trova nel letto di un ospedale con i parenti che lo vanno a trovare, la domanda da porsi è un’altra: secondo quale principio dovrebbe essere annullato il 41 bis a Provenzano? Se non quello di spuntarla per darla vinta alla mafia? ”.

l’Unità 22.12.12
Il Papa contro i matrimoni gay di Hollande
Nel discorso cita il gran rabbino di Francia e aggiunge: «Cambiare sesso è contro natura»
L’invito alla Chiesa a difendere la famiglia
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO Difendere la famiglia tradizionale minacciata è «difendere l’uomo stesso», il rapporto con la sua «vera libertà e la sua vera autorealizzazione», che si realizza in un rapporto di relazione impegnativo e duraturo, fatto anche di sopportazione della sofferenza. Perché l’uomo che rimane chiuso in sé stesso, senza aprirsi agli altri, al proprio coniuge e ai figli non è più libero, ma più povero e più infelice. «L'uomo rimane chiuso in se stesso e, in ultima analisi, conserva il proprio “io” per se stesso, non lo supera veramente». E così, poi, che finiscono per scomparire «figure fondamentali dell’esperienza umana: il padre, la madre, il figlio».
Lo afferma Papa Benedetto XVI in occasione dello scambio di auguri con la Curia romana. Non sono solo auguri quelli che vengono scambiati nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico. Non è neanche un semplice bilancio del difficile anno appena trascorso. Solo un cenno da parte di Papa Ratzinger alle «molteplici situazioni travagliate» vissute dalla Chiesa e dalla Santa Sede, come lo scandalo «Vatileanks». Ricorda i viaggi di quest’anno, l’impegno per la pace in particolare in Medio Oriente, la celebrazione del 50° anniversario del Concilio Vaticano II e la proclamazione dell’Anno per la Fede, ma la sua attenzione è tutta per la difesa della famiglia tradizionale e contro il riconoscimento dei matrimoni gay già definiti nel suo discorso per Giornata mondiale della pace, «una ferita alla pace e un attentato contro l’umanità». Ieri il pontefice è tornato a lanciare il suo allarme e a spiegarne le ragioni.
LA POLEMICA A PARIGI
Lo ha fatto ricorrendo agli argomenti usati recentemente dal Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim che a nome delle diverse comunità religiose francesi ha argomentato al presidente Hollande l’opposizione al riconoscimento pubblico delle unioni gay. Un modo per sottolineare che non è solo della Chiesa cattolica questa preoccupazione. Per il Papa è in gioco «l’essenza stessa della libertà umana», è in gioco «la visione dell’essere stesso, di ciò che in realtà significa l’essere uomini». L’affondo comprende la cultura «gender». Non è accettabile che l’affermazione di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, lo si diventa» possa sostituire quel «Maschio e femmina Egli le creò» scritto nella Genesi.
È chiarissimo Papa Ratzinger. È inaccettabile considerare il sesso non come una dato originario della natura, ma come un «ruolo sociale del quale si può decidere autonomamente». È inaccettabile questa rivoluzione antropolgica. Seguendo la cultura «gender» spiega, l’uomo finisce per «negare la propria natura», «decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela». Così insiste si arriverebbe a negare quella dualità di genere, di ma-
schio e di femmina che si integrano a vicenda sottolinea che invece «appartiene all’essenza della creatura umana». Così l’uomo finisce per contestare la propria natura. «La manipolazione della natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso».
L’effetto per il Papa è la negazione della famiglia e togliere dignità giuridica ai figli, e al fondo «negare Dio» e «l’uomo quale creatura di Dio». «Nella lotta per la famiglia conclude è in gioco l’uomo stesso. E si rende evidente che là dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignità dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo». Su questo Papa Benedetto XVI chiede l’impegno di tutta la Chiesa e iniziative di dialogo con gli Stati, con la società, con le religioni. Perché è «lotta per l’uomo e per cosa significhi essere persona umana». Ricorda come la Chiesa sia portatrice della memoria dell’umanità e con grande determinazione afferma che pur non avendo «soluzioni pronte per le singole questioni», la Chiesa «nel dialogo con lo Stato e con la società», insieme con le altre forze sociali, «essa lotterà per le risposte che maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano». «Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica». La linea è data.

il Fatto 22.12.12
Memoria labile
Amnesie vaticane per brutti alleati
di Marco Politi


Ora che Berlusconi è diventato ufficialmente cattivo, perché i vertici ecclesiastici hanno trovato il Monty-Party da caldeggiare, una singolare amnesia coglie i vessilliferi del cattolicesimo istituzionale. Con la minacciosa impudenza di sempre Berlusconi ricordava l’altro giorno le sue benemerenze nei confronti di Chiesa e Vaticano. Non aveva bisogno di elencarle.
Sono tante, sono agli atti: le norme imbroglione per non fare pagare l’Ici agli enti ecclesiastici con attività commerciale, i finanziamenti alle scuole, i finanziamenti a pioggia a opere confessionali varie anche prelevando le somme che i cittadini con l’8 per mille avevano destinato espressamente a “iniziative umanitarie statali”, l’appoggio alla campagna astensionistica del cardinal Ruini per sabotare il referendum sulla procreazione artificiale, il blocco ad una legge sull’omofobia, l’adesione al Family Day per impedire una legge sulle coppie di fatto, il catenaccio contro una legge sul testamento biologico che garantisca l’autodeterminazione del paziente, il tentativo di sovvertire con un decreto legge la sentenza del tribunale che autorizzava il padre di Eluana a lasciarla spegnersi in pace, la pressione in Europa per rovesciare la sentenza della corte di Strasburgo che sanciva la non sostenibilità di una presenza monopolistica di un simbolo religioso (vedi crocifisso) nelle aule scolastiche.
“AUSPICO – ha detto il Caimano – che i si ricordi tutto quello che abbiamo fatto per la Chiesa”. I cittadini ricordano… Ma l’Avvenire, stizzito, ha reagito con un corsivetto del direttore, in cui si accusa B. di muoversi “con poco garbo e nessuna eleganza” e di ignorare che i cattolici sono “gente che è piuttosto difficile incantare con stentoree o suadenti propagande”.
Dice il giornale dei vescovi che l’elettorato sa valutare con “saldi criteri civili e morali…. (sia i programmi che) i profili politici e personali” di chi vuole governare l’Italia. Un tono davvero sferzante, sintomo del nuovo corso chiesastico. Giorni fa l’Avvenire rimarcava anche il “fallimento” del governo Berlusconi e la Tv dei vescovi gli accreditava un comportamento politico “miope e meschino”. Peccato soltanto che una grande amnesia avvolga il fervido appoggio a Berlusconi di Chiesa e Vaticano per un intero ventennio. Sì, si possono ripescare dagli archivi singoli interventi critici, che di quando in quando hanno rotto i grandi silenzi di complicità con il governo del Caimano. Si possono anche citare gli ultimi duri interventi (cinque) dell’era Boffo, poi lasciato massacrare dal Giornale di Feltri. “Lasciato” massacrare, perché poche settimane dopo all’aeroporto di Ciampino (26 settembre 2009) il Papa salutava cordialmente il patrono della decapitazione dell’allora direttore di Avvenire, esclamando: “Che piacere rivederla”. C’è stata anche qualche bacchettata della Cei nel corso post-ruiniano.
Piccoli lampi nella grande nube di silente sostegno alle follie rovinose del governo berlusconiano. Non si è sentita la voce della Chiesa tra gli oppositori, quando il Caimano anno dopo anno ha scardinato il sistema giuridico. Non si è sentita quando ha falsato la legge sul bilancio e si è aggiustato i processi a colpi di deformazioni di legge. Non si è sentita quando la magistratura è stata sistematicamente delegittimata. Anzi, il ruinismo allora ha rispolverato una comoda versione degli opposti estremismi, evocando un’inesistente guerra tra giudici e politica che in nessun Paese occidentale è mai stata citata (tra gli ultimi casi, l’esemplare atteggiamento di Israele dove è possibile processare senza turbative e senza “legittimi impedimenti” un capo di stato o un ministro degli esteri). Non si è sentita, peraltro, nemmeno la voce laica di molti odierni rinnovatori.
GLI ITALIANI ricordano invece le esortazioni di mons. Fisichella a “contestualizzare” le bestemmie. Gli italiani ricordano la volonterosa partecipazione del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone ad una cena organizzata in casa di Vespa per sponsorizzare il riavvicinamento tra Casini e Berlusconi. Ricordano le pressioni del cardinal Ruini perché continuasse l’alleanza tra l’Udc e il Pdl dell’allora premier, oggi diventato improvvisamente impresentabile. Gli italiani ricordano anche il grande assist della Chiesa a B. alla vigilia del voto di sfiducia del 14 dicembre 2010 (quando Fini e il neonato Fli, si ribellarono). La scena si svolse ad un ricevimento nel-l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. “Da parte mia non verrà mai nulla contro il Vaticano”, scandì Berlusconi. Il suo governo, replicò Bertone perché il messaggio fosse sentito ben bene su tutti i media, “va ringraziato per aver svolto un’azione che ha tenuto in gran conto le istanze della Chiesa, in un contesto di relazioni pacificate”. “Memoria ottima”, titolava l’Avvenire ieri. Si vede che i saldi criteri di giudizio funzionano a intermittenza. Facile oggi dire che Monti ha salvato l’Italia dal “baratro”. Tra gli oppositori di chi trascinava l’Italia verso la rovina, in quegli anni i grandi prelati non c’erano. Signori, capaci di indignarsi al momento giusto, si nasce (direbbe Totò). Certe pensose figure, adesso veloci a ripudiare il Caimano, non lo nacquero.

Corriere 22.12.12
«Dio diventi neutro: basta con il maschile»
Berlino, lite sul sesso di Dio La ministra: «Sia neutro»
di Paolo Lepri


«Dio deve diventare neutro: basta indicarlo con il maschile». Il ministro per la Famiglia tedesco, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le battaglie contro il femminismo, in un'intervista ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua piccola Lotte, un anno e mezzo, parlando di Dio.

BERLINO — Qual è il «sesso di Dio» spiegato ai bambini? Non si tratta di un dibattito teologico-grammaticale che potrebbe escludere quel 16 per cento della popolazione mondiale che secondo un recente studio del «Pew Forum on Religion and Public Life» si professa non credente. È qualcosa di più, e riguarda tutti coloro che hanno figli piccoli, perché il problema del «genere» nell'educazione infantile è ormai all'ordine del giorno in molti Paesi europei. Lo dimostra la proposta del governo francese di inserire nel libretto di famiglia la dizione «genitore 1» e «genitore 2» al posto del padre e della madre, e il riaffacciarsi in Svezia del pronome neutro per sostituire il «lui» e il «lei» nell'asilo. In Germania, è stato il ministro per la Famiglia, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le sue battaglie contro il «femminismo storico», a fare discutere tutti. In questo caso, si è iniziato a parlare di religione, ma il vero scontro è sulla figura dell'uomo e della donna nell'immaginario dei bambini.
In un'intervista al settimanale Die Zeit, Kristina Schröder ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua Lotte (un anno e mezzo) parlando di Dio al maschile, come avviene nella lingua tedesca, e ha aggiunto che sarebbe meglio usare l'articolo «das», con cui si precedono i nomi di genere neutro. «Ciascuno — ha detto — dovrebbe decidere per conto proprio». Una riflessione, questa, che è stata accompagnata da critiche al «sessismo» delle fiabe e della letteratura per bambini in cui «raramente si trovano figure positive di donne».
Le parole della Schröder sono state accolte con una raffica di proteste. Christine Haderthauer, ministro per gli Affari sociali della Baviera, le ha definite una «sciocchezza intellettualistica». Un altro esponente cristiano-sociale, il parlamentare Stefan Müller, ha osservato che «Dio appare a noi come il Padre di Cristo e così dovrebbe rimanere». Secondo un eminente teologo cattolico, padre Wilhelm Imkamp, l'idea di rendere neutro il Padreterno è «stupida, insolente e testimonianza di opportunismo». L'unico a gettare acqua sul fuoco è stato Klaus-Peter Willsch, parlamentare della Cdu nell'Assia (il Land dove Kristina Schröder sarà capolista nelle elezioni del prossimo autunno), suggerendo che «per chi cerca una figura di genere neutro, c'è Gesù Bambino». Alla parola Christkind, infatti, si accompagna «das». «Per chi crede in Dio l'articolo è indifferente», ha risposto il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, durante il consueto briefing del governo. Secondo un collaboratore di Kristina Schröder, Benedetto XVI «ha scritto che Dio non è né uomo né donna» e quindi «i critici del ministro non dovrebbero essere più "papali" del Papa». E lei, la diretta interessata? Ha ricordato alla Bild che si stava riferendo ad una bambina e non ai tanti adulti «inciampati» sulle sue parole. Ma non è detto che tutto finisca qui.

Corriere 22.12.12
Lo scienziato nominato da Hollande «Inutile la legge sull'eutanasia»
Il rapporto controcorrente presentato da Sicard all'Eliseo
di Stefano Montefiori


PARIGI — Nella sua bella casa vicino al parco, qualche giorno dopo essere stato ricevuto all'Eliseo, il professor Didier Sicard racconta con un sorriso: «Oh sì, François Hollande mi ha ascoltato, per un'ora intera, con estrema attenzione. Ma qualsiasi cosa gli avessi detto non aveva grande importanza, perché tanto aveva già deciso». Deciso di presentare una nuova legge sulla fine vita e sull'eutanasia, nonostante il professore raccomandasse il contrario.
Nel luglio scorso il presidente della Repubblica francese ha affidato al 75enne Sicard, grande medico e docente, già presidente del Comitato consultivo nazionale di etica, il compito di redigere un rapporto sul fine vita, in modo da mantenere la numero 21 delle sue 60 promesse pre-elettorali.
«Da allora io e i miei collaboratori abbiamo viaggiato in tutta la Francia, negli ospedali, dalle città di provincia del Sud alle banlieue parigine, dalla Svizzera al Benelux, per provare a capire la realtà senza curarci delle ideologie». E la realtà ha suggerito al professor Sicard che già oggi i medici francesi hanno i mezzi legali sufficienti per accorciare le sofferenze dei malati terminali ed evitare l'accanimento terapeutico. È questo il senso del rapporto che martedì mattina Sicard ha consegnato a Hollande.
«La legge Leonetti è completamente ignorata ma garantirebbe già quel che giustamente chiedono i pazienti terminali e i loro familiari: la possibilità di cure palliative che allevino il dolore, e anche il diritto di morire con dignità, senza prolungare inutilmente l'agonia anzi abbreviandola. Il mio rapporto sottolinea che la via migliore per trattare la questione è la sedazione profonda e finale, che è cosa diversa dal suicidio assistito e dall'eutanasia. A mio avviso è la risposta migliore al paziente terminale che dice "voglio morire, ma non voglio essere ucciso"». Il professor Sicard era stato scelto da Hollande perché ha un percorso singolare: protestante, credente, nel 2000, quando era presidente del Comitato consultivo nazionale di etica, si era smarcato dal consenso anti-eutanasia evocando alcune possibili eccezioni.
«Ho il profilo di una persona distante sia da quanti ripetono in modo meccanico "difesa della vita", sia dalle associazioni che militano per il "diritto di morire". E il mio rapporto lo dimostra. L'ideologia, piuttosto, sta al governo». Perché una legge sull'eutanasia è pericolosa? «Perché risponde all'illusione di dare una risposta unica a casi diversissimi. La vicenda di un essere umano in condizioni di grave sofferenza rischia di venire burocratizzata, ridotta a un insieme di protocolli, alla fine dei quali il paziente sa che morirà, per esempio, il 28 gennaio alle 15, grazie all'iniezione brutale di un medico. Lo trovo inaccettabile e non per motivi religiosi. La sedazione profonda è un'altra cosa: significa accompagnare la persona dolcemente fino alla morte, che sopraggiunge di solito al massimo nel giro di 24 ore, senza sofferenza, quando il paziente stesso, i medici e i familiari capiscono che è arrivato il momento».
Sicard è critico nei confronti di Hollande e del suo governo. «Accanto al presidente ci sono cinque ministri, e cioè il premier Ayrault, Valls (Interno), Taubira (Giustizia), Fabius (Esteri) e Touraine (Sanità) che vogliono, a ogni costo, una legge. Un po' per motivi politici, per esempio credo che la ministra della Sanità abbia l'ambizione di lasciare ai francesi una "legge Touraine", con il suo nome. E un po' per motivi culturali legati sia alla storia della Francia sia a questi tempi». Cioè? «La Francia è uno strano Paese, in perenne rivoluzione, che pone la questione in termini di libertà — e solitudine — degli individui, mentre dovremmo pensare la questione in termini solidali». Questo sul fondo. E che cosa rimprovera al clima attuale? «La pretesa di dimostrare che c'è il progresso realizzato, che arriveremo ad approdi inevitabili — per esempio l'eutanasia o l'utero in affitto — grazie al governo ispirato ai Lumi. Io ripeterò che non sono d'accordo. Per ragioni pragmatiche, e non certo perché mi senta reazionario o imbrigliato dalla religione o dal Vaticano».

La Stampa TuttoLibri 22.12.12
Per capire il futuro
Il buio oltre la crisi Cina prima della classe Stati Uniti a tutto gas
di Gianni Riotta


Come cambierà il mondo di qui al 2030: irrompe una nuova «normalità», l’Occidente in salvo solo se riuscirà a conservare i suoi valori
Niall Ferguson «Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà» Mondadori pp. 425 € 22

Del nostro futuro siamo certi di sapere tanto, Cina dominante, Brasile in corsa, declino dell’Occidente, tecnologie rampanti, terrorismo islamico, business petrolio, ma quando studiamo davvero cosa ci aspetta ecco che la chiarezza svanisce e si fa nebbia. Il rapporto sui Global Trends 2030 del National Intelligence Council Usa, http://goo.gl/LmFwF conferma che quando i nati del 2013 saranno maggiorenni la Cina sarà sì maggior potenza economica, l’Asia dominante, ma il terrore fondamentalista sarà battuto e, grazie allo shale gas e a un’industria più ecologica, gli Usa saranno indipendenti dalle importazioni di greggio e liberi di far politica in Medio Oriente. La Cina invecchierà, per la dissennata politica di un solo figlio per famiglia, troppi maschi, poche femmine, la popolazione in età da lavoro non basterà: il dilemma del nuovo leader Xi Jinping è: come diventar ricchi prima di diventar vecchi? Gli Stati Uniti resteranno «primi fra pari», se in grado di governarsi senza paralisi politica fra Casa Bianca e Congresso, l’Europa declinerà in senso assoluto, ma se unita, in politica, diplomazia e difesa, potrebbe mediare tra America, Asia e l’Africa, continente in rapida crescita con le risorse naturali e le tecnologie digitali.
Per capire il futuro oltre il 2013 leggete Occidente, Ascesa e crisi di una civiltà dello storico Niall Ferguson (Mondadori, € 22). Ferguson ricorda che nel XV secolo Asia e Cina erano prosperose, mentre l’Inghilterra era dilaniata da guerra, povertà, epidemie. L’Occidente sorpassa il resto del mondo in pochi secoli, per la rivoluzione industriale, la democrazia, la legge, la libertà di critica, il lavoro diffuso. Ferguson critica gli eccessi della colonizzazione, che definisce «peggiore ferocia europea», ma nota i primi progressi, per esempio l’allungamento della vita in Africa. Se guardate il presente da questa ottica riderete quando i com-
mentatori parlano di Cina «paese emergente»: prima della rivoluzione industriale, Pechino ha sempre battuto l’Europa in prodotto interno lordo, gli «emersi» siamo noi. Per Ferguson la vera radice dell’Occidente sono i valori, se li perderemo il declino è certo.
Il buio oltre la crisi è rischiarato da Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart (Il Saggiatore, €18,70). La crisi 2008, la peggiore dal 1929, come tutte le grandi crisi, che gli autori ricostruiscono fin dalla Cina XII secolo, muterà la politica e la società. Gli effetti di una violenta recessione sono patologici su produzione e lavoro, gli Stati soffrono a lungo perché
declinano le entrate fiscali: è la «nuova normalità» definita dal grande economista indiano Raghuram Rajan nel saggio Terremoti finanziari. Come le fratture nascoste minacciano l’economia globale (Einaudi, € 17,85). Rajan sa che la crisi non «finirà» per incanto, riportandoci al rassicurante tran tran di lavoro fisso, pensione, settimane bianche, mutua e scuola gratis. Dovremo reinventare i mestieri, dall’ufficio alla fabbrica, perché la tecnologia cambia ogni professione e questo processo sarà stressante per nazioni e cittadini.
Della nostra «nuova normalità» si occupano anche Luigi Zingales, collega di Rajan a Chicago, nel suo Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta (Rizzoli, € 15,30), l’editorialista di Repubblica Federico Rampini con Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale ”Falso! ” (Laterza € 9) e il banchiere Cesare Geronzi e il columnist del Corriere della Sera Massimo Mucchetti in Confiteor. Potere, banche e affari. La storia mai raccontata (Feltrinelli € 18). Gli autori mantengono le promesse dei titoli per una volta. Zingales spiega che il capitalismo liberista stile americano resta il miglior motore di benessere e società aperte, mentre corruzioni e dispotismi uccidono lo sviluppo. Rampini difende lo stato sociale classico europeo contro la crescente disuguaglianza. Geronzi si affida con lucidità a un giornalista critico e analizza 30 anni di capitalismo italiano, Mucchetti, un assertore del capitalismo «sociale» di conio tedesco inviso a Zingales, non risparmia i colpi.
Ma la turbolenza della «nuova normalità» irrompe e, a ciascun libro, ci piacerebbe vedere accluso un capitolo, nelle prossime edizioni. A Zingales il compito di affrontare stavolta il nodo del gap economico americano, la sottoclasse sociale, «underclass», che non ha saperi digitali e non si assimila più al ceto medio. A Rampini la redazione di un capitolo sulla demografia, pochi giovani europei (e italiani) stentano a sostenere troppi anziani in pensione, facendo scricchiolare lo stato sociale: più immigrati risolverebbero l’impasse, ma nessun governo Ue può aprire i confini senza aizzare la canea populista. Geronzi e Mucchetti devono, infine, proporre a Feltrinelli un nuovo volume, non un solo capitolo: dedicato alla crisi del debito europeo, alla crisi finanziaria, alla «nuova normalità globale» cui Confiteor devolve solo poche pagine. Per esorcizzare l’illusione che esista «un capitalismo italiano», capace di vivere e crescere fuori dal mondo globale: miraggio che tanto ci è costato e che dobbiamo fugare in fretta. "L’Europa declinerà, ma se unita potrebbe mediare tra America, Asia e Africa Dovremo reinventare i mestieri, un processo che si rivelerà stressante per nazioni e cittadini"

l’Unità 22.12.12
Il biennio 1943-45? Non fu «guerra civile» Fu una guerra ai civili
Documenti Il rapporto italo-tedesco su stragi naziste e complicità fasciste e la totale subalternità della Rsi
di Bruno Gravagnuolo


TRE GUERRE. MA NON QUELLE DESCRITTE DALLA STORIOGRAFIA REVISIONISTA. Di sinistra, o moderata e di destra. Di che si tratta? Del biennio 1943-45. E del rapporto di 172 pagine, elaborato da una commissione italo-tedesca composta da dieci storici, presiduta da Mariano Gabriele e Wolfang Schieder. Nel rapporto, presentato ieri l’altro alla Farnesina dai Ministri Terzi e Westerwelle, si parla appunto di «guerra dei tedeschi contro gli alleati»; guerra «contro i partigiani condotta da Wehrmacht, Waffen Ss e polizia d’ordinanza (non di rado affiancate dalle milizie fasciste) con particolare durezza e scarso rispetto del diritto internazionale»; e di «conflitto tra truppe tedesche e la popolazione civile, che in momenti e regioni determinate degenerò in una vera e propria guerra contro la popolazione civile, condotta con mezzi criminali».
Dunque da un punto di vista italo-tedesco e super partes non vi furono una «guerra di liberazione» affiancata da una «guerra civile» e da una «guerra sociale e di classe» nel 1943-45, come ha sostenuto, in un libro chiave Claudio Pavone (Una guerra civile, Einaudi 1991), azionista di sinistra ed eminente storico. Tesi quest’ultima con particolare riferimento alla guerra civile ripresa da sinistra a destra. Da De Felice, a Della Loggia, a Scoppola, a Bocca, a Foa, a Pisanò , a Pansa, e divenuta «vulgata». In altri termini, vi furono sì tre guerre in quel periodo, ma con l’assoluta preminenza della guerra tra Alleati e occupanti tedeschi, seguita dalla guerra germanica contro i partigiani, e da quella contro la popolazione civile. Già, ma la guerra civile? Inesistente nel rapporto italo-tedesco. Se non nei termini del collaborazionismo fascista con i nazisti, in funzione ausiliaria e anti-partigiana. Oppure in quelli di una guerra contro i civili, condotta sia dai tedeschi che dai fascisti («milizie fasciste»).
Almeno in parte così, viene sfatato un luogo comune molto tenace, specialmente in questi ultimi due decenni. E che ha puntellato, magari involontariamente, erronee concezioni: radicali di sinistra, conservatrici e strumentali di ogni tipo. Che luogo comune? L’idea della spaccatura tra due Italie, due idee della Patria, due emisferi di pari legittimità, anche sociologicamente. Tra l’Italia fascista repubblicana, che consentiva con il Duce redivivo a Salò. E l’Italia antifascista, moderata o rossa. Ovvio che in base a ciò la Patria costituzionale fosse «morta», fin dalle origini, e mai risanata dopo l’8 settembre 1943. E che dunque occorresse superare il timbro antifascista, come troppo legato alla frattura della guerra civile (dove gli uni e gli altri avevano le loro ragioni).
Al più si poteva riconoscere (da destra) che l’antifascismo fosse nel giusto storicamente. Ma altresì si doveva pur ammettere che proprio la «realtà» della guerra civile creava un buco e una ferita e infine una «non superata» guerra civile. Contro i tanti che non avevano riconosciuto l’antifascismo e che anzi si erano schierati in prima linea contro di esso. In nome della Patria fascista, nutrita per venti anni di consenso . Oggi invece, proprio l’occhio di una commissione di storici nata nel 2008 per chiarire colpe tedesche e anche italiane nelle stragi germaniche chiarisce che di «civile» vi fu solo «una guerra ai civili», condotta dai nazi-fascisti. E che certo generò anche vendette e ritorsioni civili, e perciò momenti di micro-guerra civile. Ma non vi fu affatto una divisione tra blocchi di italiani. Perché, come è noto, da una parte c’era la Rsi, priva di autonoma forza e falcidiata da diserzioni e renitenza alla leva (oltre il 50%). Dall’altra una forte minoranza attiva di resistenti armati. Che però incontrava in retrovia il consenso ultra maggioritario degli italiani non combattenti. Almeno su un punto di fondo: fine della guerra e dell’occupazione tedesca, e liberazione.
E anche su questo, sulla «passività» dei non resistenti, è stata fatta grande confusione. Allorché si è usato un concetto tratto da Primo Levi: la «zona grigia». Per Levi essa designava lo spazio ambiguo tra carnefici e vittime nei lager. Occupato da quella parte delle vittime che prestava mansioni ausiliarie. Nella discussione storiografica invece, il concetto di «zona grigia» nel 1943-45 è stato adoperato alla rinfusa, mettendo insieme chi collaborava coi carnefici, chi ubbidiva gioco forza e chi faceva il doppio gioco. Chi aspettava la libertà e chi vi collaborava in silenzio. Ma la gran parte degli italiani voleva la liberazione mentre i fascisti puntarono su una guerra civile, che non vi fu, o fallì. Il risultato fu una guerra ai civili nazi-fascista. Come mostra il rapporto italo-tedesco.

La Stampa 22.12.12
“Il mondo non è finito, ecco perché”
La Nasa diffonde un video ufficiale per spiegare la profezia Maya: “Il 21 finiva il loro calendario”
di Stefano Rizzato


«Se state guardando questo video, significa che il mondo non è finito ieri». La Nasa non ha rinunciato a fare un po’ d’ironia. Colpa delle troppe email e telefonate, partite dai cittadini più creduloni e apprensivi, ricevute nei giorni scorsi dall’agenzia spaziale americana. Che ha scelto un filmato, pubblicato con un po’ d’anticipo sul fatidico 21-12-12, per spiegare che non c’è mai stata alcuna profezia Maya.
«Il lungo computo Maya è il sistema più sofisticato mai esistito per calcolare il tempo spiega nel video John Carlson, direttore del centro per l’archeoastronomia -. Funziona come un contachilometri, che continua a scorrere e, prima o poi, è destinato a tornare al punto di partenza. Così ieri il calendario Maya si trovava nella stessa esatta posizione del 31 agosto 3114 avanti Cristo: la data che questo popolo aveva indicato come l’inizio di tutto». Insomma, la chiusura di un lunghissimo ciclo. «Una data che i Maya consideravano di grande importanza nella loro teologia - continua Carlson - e che mai, in nessun frammento arrivato a noi, avevano indicato come portatrice di catastrofi, né tanto meno della fine del mondo». Dunque nessun minaccioso allineamento di pianeti, nessuna inversione dei poli terrestri, nessuna tempesta solare e nessun corpo celeste chiamato Niribu pronto a distruggerci. Bizzarre teorie moderne alle quali la Nasa ha opposto l’evidenza della scienza. «Un pianeta in rotta di collisione con il nostro o qualcosa di simile – chiarisce l’astrofisico David Morrison – sarebbe stato a lungo la stella più grande e luminosa in cielo e chiunque l’avrebbe notato. Non serve chiedere alla Nasa. Basta uscire di casa e guardare in su».
E ora, passato il giorno tanto atteso e a quanto pare da qualcuno anche temuto, esaurite tutte le battute sui Maya, cosa resta del 21 dicembre 2012? Il video della Nasa risponde anche a questo: «Può essere l’occasione – dice Carlson – per riflettere sulla grandezza di un’antica civiltà, capace di immaginare una scansione temporale e ordini di grandezze oltre ogni orizzonte moderno».

La Stampa 22.12.12
La bufala della fine del mondo. Da un Armageddon all’altro
Mille riti per un solo credo sotto il segno dell’irrazionale
Si moltiplica la passione per profezie e millenarismi
E il 2012 si accende di un’antica e pagana vitalità
di Silvia Ronchey


«Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo», scriveva Marco Aurelio, con gli antichi filosofi stoici. I quali — al pari di Putin, ma con maggiore cognizione di causa — professavano la dottrina fisica della deflagrazione ciclica dell’universo, ma ammonivano anche a non credere alle superstizioni e alle profezie degli astrologi. Avevano peraltro a che fare solo con le credenze dei nostri maggiori greci e latini, talvolta con quelle importate dall’oriente egizio o caldèo. Mentre oggi, nel mondo globalizzato, all’indomani della catastrofe — questa sì apocalittica — delle fedi secolari e dell’esplosione — questa sì reale — della caotica neoreligiosità o neocredulità New Age, la disponibilità di miti e riti, superstizioni e profezie si è esponenzialmente moltiplicata.
Nel serbatoio dell’irrazionale globale fluttuano insieme gli oracoli sibillini e gli X-Files, gli ET e i Templari, l’Ombra del Ragnarok e il Terzo Segreto di Fatima. Le mura della Gerusalemme Celeste sognata da Giovanni a Patmos trascolorano nei cerchi dei mandala tibetani, il fuoco sacro zoroastriano si riaccende nei villaggi turistici del Messico. Nostradamus — già ampiamente saccheggiato sul crinale del Millennio — convive con le remote e ai più imperscrutabili dottrine astrologico-calendaristiche dei Maya.
Dalle Alpi alle Piramidi, dalle Centurie ai b’ak’tun, passando per la Fenditura del Cigno e il Centro Galattico, l’illusione del compiersi di un Magnus annus e di un rinnovamento del cosmo, di un Novus annus dies magnus, scorta l’umanità da sempre, dalla Quarta Ecloga di Virgilio agli inni dei pellegrini a Santiago di Compostela (Campus Stellae), alla Kosmische Musik elettronica dei Popol Vuh. Ma oggi la probabilità statistica di pescare una profezia apocalittica nella rete mondiale, di intercettare un mayday cosmico nel database della vulgata digitale soverchia le performance del mondo antico e i millenarismi del medioevo latino, bizantino e islamico che, dopo l’anno Mille, si erano addensati intorno alla caduta di Costantinopoli, in quel 1453 di poco precedente — e non a caso — la scoperta dell’America e con ciò l’inizio del massacro delle civiltà precolombiane.
Il senso di colpa per le carneficine dei Conquistadores prima e dei pionieri poi ancora pesa, evidentemente e giustamente, sulla psiche collettiva non solo del vecchio mondo ma di tutti i suoi volontari o involontari sudditi, dal Medio Oriente alla Russia alla Cina, sempre più soggiogati dal modo di vita occidentale e dai suoi pervasivi vizi. L’aspirazione a una catarsi è giustificabile, dopo la distruzione non solo di antiche civiltà e popoli ma della natura stessa, e l’idea di una vendetta degli uni, ma soprattutto dell’altra, di una reazione di rigetto del pianeta agli abusi del progresso rimanda indietro come un boomerang gli ideali progressisti che avevano animato le non meno irrazionali fedi del secolo breve.
Nella storia dei millenarismi e delle apocalissi apocrife sarà ricordato come memorabile questo golem della comunicazione di massa nato dalle nozze tra la tecnologia dei nuovi media e la pandemia neoirrazionalista della secca postnovecentesca di credenze e di fedi; questo fenomeno mediatico cresciuto a spirale su se stesso, autoreferenzialmente, nel circuito del web, di laptop in laptop, di wifi in wifi, tra disinformazione spontanea di social network e testate opportunisticamente disposte, in tempi di crisi della carta stampata e beninteso nella libertà di espressione delle democrazie, a perpetrare in scala planetaria il reato (punito non a caso solo in paesi autoritari come la Cina) di procurato allarme.
E tuttavia «vivi ogni giorno come fosse l’ultimo» ne resta la chiave. Più ancora della paura, più ancora della fuga, a prevalere, in questo 21 dicembre di vigilia della fine, è stata una sana, apotropaica, pagana vitalità. Per un giorno la crisi economica, il declino dell’euro, lo spread, la tredicesima mancata, perfino lo stipendio perdutoe i mali infiniti di cui la tv a ogni secondo ci informa e gli innumerevoli soprusi che quotidianamente patiamo si sono dileguati dinanzi all’antico precetto stoico.
Dai rituali orgiastici della modella finita in copertina al New York Post e dei suoi molti emuli alla grande bouffe di Gerard Depardieu su Pirenei, dai convegni post-hippy nelle isbe russe o tra le foreste dello Yucatan, nel giorno del solstizio, nella profonda notte dell’anno, gli abitanti del mondo hanno deciso di assaporare la vita in quello speciale modo che solo la vicinanza della morte permette.
In questo, attraverso la falsità di un’ennesima credenza vana, si sono avvicinati all’unica, innegabile verità della condizione umana.

La Stampa TuttoLibri 22.12.12
Gli antichi riti alla base della festa
Fantocci, falò e streghe: l’altra faccia del Natale
di Marco Aime


E. Baldini G. Bellosi «Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa» Laterza, pp. 270, € 16

Ambiguità. È questa la parola che sembra attraversare il viaggio di Baldini e Bellosi nel folclore italiano legato alle feste. Sì, perché di un viaggio si tratta, di una sorta di carrellata che, partendo dal Natale, ripercorre, non senza alcuni parallelismi un po’ azzardati, usanze e tradizioni rituali, che segnano il nostro paese, nei momenti delle grandi feste, come l’Epifania, il Capodanno e altre ricorrenze. Con una sorta di andamento pendolare, molte di queste festività affondano le loro radici più antiche in tradizioni pagane, successivamente riprese, rimodellate e rivitalizzate dalla religione cristiana, per poi cadere in nuove forme di paganesimo del consumo, come sempre più spesso accade oggi.
Lo scopo che gli autori si pongono è di rivelare come dietro alle luci colorate, agli addobbi festosi, ai canti e ai tanti richiami alle buone azioni che accompagnano il Natale, ci sia un lato che loro definiscono oscuro, un legame sotteso con usanze e retaggi delle forme religiose più arcaiche, che hanno poi dato vita a sincretismi e stratificazioni, dai quali nascerebbero le attuali forme della festa.
Si parte con una lettura storica del calendario e delle diverse concezioni del tempo, per poi passare alla descrizione delle molteplici coreografie in cui si declinano le feste popolari legate a eventi particolari. Qui inizia un ricchissimo e dettagliato percorso tra riti del fuoco, metafore della vita e della rinascita legate alla terra, culto dei morti nelle figure in cui si manifestano nelle diverse regioni d’Italia. Immagini di fantocci bruciati, per cacciare l’inverno, di falò per illuminare le tenebre, di processioni di defunti che ritornano tra i vivi. Si tratta di descrizioni etnograficamente molto dettagliate, anche se l’approccio antropologico è un po’ troppo “folcloristico” e talvolta datato. È innegabile che molte ritualità affondino le loro radici in un passato lontano e che in molti casi ci siano state delle continuità, ma è altrettanto vero che ogni comunità culturale esprime innovazioni, manifesta una creatività che si può tradurre anche in innovazione e in rottura.
La nota interessante è il tentativo di riconfigurare le festività tra il 24 dicembre e il 6 gennaio, in una dimensione più vera e popolare, che va al di là della dimensione religiosa istituzionalizzata della festa, che sembra esprimere solo note positive, e che si manifesta, invece, anche in modo più inquietante, grazie alla presenza di figure ambigue, misteriose, anche temibili, come le streghe. Figure con cui, nella vecchia tradizione popolare, si conviveva, come si convive con il male, anche se si cerca di perseguire il bene. Una festa, quindi, meno «finta», meno edulcorata e più radicata nella realtà, che, come si sa, è sempre ambigua.

Repubblica 22.12.12
La signora delle scienze
Fabiola Gianotti, donna di Time: “L’Italia spreca i suoi talenti”
Guida il gruppo che al Cern ha trovato la “particella di Dio” e la rivista Usa l’ha scelta tra le persone più importanti del 2012. Qui racconta la sua storia
di Luca Fraioli


Per Time la sua reputazione è già leggendaria. Fabiola Gianotti a 50 anni ha guidato una squadra di migliaia di scienziati in uno degli esperimenti più complessi mai concepiti dalla mente umana. Li ha guidati fino al traguardo: scoprire il bosone di Higgs, la particella fantasma inseguita dai fisici per quasi mezzo secolo. Un’impresa che secondo la rivista americana colloca la ricercatrice italiana tra le cinque persone più importanti dell’anno, subito dopo il presidente Usa Barack Obama, Malala Yousafzai, la ragazza pachistana simbolo della lotta delle donne contro i talebani, Tim Cook, l’erede di Jobs al timone della Apple, e il presidente egiziano Mohamed Morsi.
Una donna di successo in una posizione di grande responsabilità... Dottoressa Gianotti, lei sembra rappresentare tutto quello che in Italia è considerato impossibile. Come ci è riuscita?
«Studiando e credendo negli obiettivi che mi ero data. Se si ha il coraggio e la forza di insistere nessun traguardo è irraggiungibile, ma ci vuole anche molta modestia: dobbiamo essere consci di quanto poco sappiamo e di quanto c’è ancora da scoprire. E poi devo tanto alla scuola italiana, dove per scuola intendo tutto il percorso formativo: dalle elementari all’università».
Persino Time, nella sua “motivazione”, sottolinea però il suo essere donna in un mondo come quello della fisica dominato dagli uomini. Lei ha fatto più fatica dei colleghi maschi?
«No, non ho mai subito alcun tipo di discriminazione. L’ambiente del Cern è talmente ricco: migliaia di scienziati che arrivano da tutto il mondo, uomini e donne, neolaureati che lavorano gomito a gomito con premi Nobel. Gli esperimenti che si fanno qui, oltre a essere una grande avventura scientifica e tecnologica, sono un’avventura umana molto speciale e, soprattutto per i giovani, un’importante scuola di vita».
La sua carriera sarebbe stata la stessa se invece che volare a Ginevra fosse rimasta in Italia?
«La mia non è la storia di un cervello in fuga... Dopo il dottorato vinsi un posto da ricercatore a Milano. E un paio di anni più tardi una borsa di studio e poi un contratto permanente al Cern. Ho avuto quindi la possibilità di lavorare nel laboratorio di punta a livello mondiale nel nostro campo. Ma certo, per molti giovani scienziati è quasi impossibile restare in Italia. In questi tempi di crisi si tende a sacrificare la ricerca di base, perché non ha un impatto immediato sulla società. In realtà è linfa vitale che alimenta la ricerca applicata e quindi lo sviluppo di un paese».
Visto dal Cern e dalla copertina di Time, come le appare il nostro Paese?
«Come un Paese che spreca i suoi talenti. I giovani ricercatori italiani in fisica delle particelle sono bravissimi e vanno a ruba all’estero. Merito delle nostre università e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, che hanno una grande tradizione. Anche la scoperta del bosone di Higgs è frutto di questa tradizione. Ma a furia di perdere i talenti migliori le nostre istituzioni di punta rischiano di perdere la loro leadership».
Cosa direbbe a un giovane studente o ricercatore scoraggiato per come vanno le cose in Italia?
«Quello che ho detto a uno di loro, uno studente lavoratore, che mi ha scritto: insisti e trova dentro di te la forza per raggiungere i tuoi obiettivi, come ho fatto io».
E lui?
«Ha continuato a studiare ed ora è un brillante ricercatore, non certo per merito mio, ma mi piace pensare di aver dato un piccolo contributo».
Lei chi deve ringraziare per aver studiato tanto?
«I miei genitori (un geologo e una letterata, ndr) che mi hanno trasmesso il rigore intellettuale e la serietà».
Da studentessa di liceo classico a matricola del corso di fisica delle particelle. Come mai?
«Colpa di Einstein e di Marie Curie. A diciassette anni lessi una biografia della scienziata polacca. Ed ero ancora al liceo quando rimasi folgorata dalla spiegazione che Einstein aveva dato dell’effetto fotoelettrico. La trovai bellissima. E poi quelli erano gli anni in cui Carlo Rubbia vinceva il Nobel per aver scoperto i bosoni W e Z».
Poi Rubbia lo ha ritrovato come “collega”.
«Come dicevo, è quello che accade al Cern. Ricordo ancora quanto ero intimidita il giorno che lo incontrai la prima volta. Poi ho scoperto il suo grande senso dell’umorismo, che nel nostro lavoro non guasta».
Un altro mito per i fisici è Peter Higgs, lo scienziato britannico che nel 1964 previde l’esistenza di quella “particella di Dio” che da allora porta il suo nome. Quando il 4 luglio scorso lei ha dato l’annuncio che finalmente il Large hadron collider del Cern l’aveva “vista” Higgs era in platea e si è messo letteralmente a piangere. Cosa ha provato quel giorno?
«Ero molto emozionata anch’io. E non solo per la presenza di Higgs che vedeva coronata la sua carriera di scienziato. Ma perché in quell’aula c’erano tanti fisici che hanno fatto la storia del Cern. Costruire Lhc è stata un’impresa senza precedenti, e ha richiesto vent'anni di sforzi di migliaia di scienziati di tutto il mondo».
Ci vuole il pugno di ferro per coordinare migliaia di ricercatori?
«Al contrario, le decisioni si prendono per consenso. Un minimo di organizzazione e gerarchia servono per essere efficienti, ma devono essere esercitate in modo soft per non soffocare le idee e la creatività dell’individuo. Nella ricerca quello che conta sono le idee. Se il più giovane degli studenti ha un’intuizione brillante, l’esperimento la persegue ».
Torniamo a Time, che effetto le ha fatto finire nella cinquina delle persone dell’anno?
«Lo considero un grande onore. Un riconoscimento che però condivido con le migliaia di scienziati che lavorano su Lhc».
Se avessero chiesto a lei, a chi avrebbe dato la copertina di Time?
«La scelta di Obama mi trova d’accordo, per tutto quello che il presidente americano rappresenta. Ma c’è moltissima gente sconosciuta che ogni giorno fa grandi cose. Sono loro i veri eroi dell’umanità. E ci vorrebbero milioni di copertine».

Repubblica 22.12.12
E i ricercatori stranieri non ci trovano attraenti
Un rapporto dimostra come solo pochi, tra gli scienziati, vengono nel nostro paese
di Raffaele Simone


“State of the World’s Science” è il rapporto promosso dalle riviste “Nature” e “Scientific American”

Il prossimo ministro che si occuperà dell’università e della ricerca farebbe bene a passare qualche ora a leggere il rapporto State of the World’s Science, promosso da Nature e Scientific American. Per un italiano è – bisogna premetterlo – una delle tante letture comparative deprimenti; e nondimeno è indispensabile. Partendo dal principio che la scienza è ormai indifferente ai confini e che lo scambio internazionale costituisce uno dei suoi motivi vitali, il rapporto indica in modo spiccio e eloquente i paesi del mondo che producono più brevetti, quelli che hanno più fitte collaborazioni con l’estero e quelli in cui i ricercatori stranieri si installano più volentieri in modo stabile o semistabile. Il rapporto statunitense si riferisce (con un’ovvia e discutibile deformazione) solo alla sfera delle scienze dure e delle tecnologie, ma le sue analisi non cambierebbero di molto se si estendessero alla sfera economico- sociale, umanistica, giuridica, ecc.
Ebbene, in nessuna di queste scale il nostro paese è in posizione elevata. Della scarsità di brevetti si sa da tempo, anche se non pare che sia stata elaborata alcuna misura per ravvivare l’inventiva dei nostri ricercatori. Anche l’insufficiente collaborazione internazionale è conosciuta, sebbene il ministero abbia lanciato un programma di “internazionalizzazione”, dotato di fondi neppure spregevoli, ma che ha finito per sostenere relazioni in cui l’Italia è parte prendente oppure accordi con paesi secondari nelle attività di ricerca.
Ma quel che affligge di più riguarda il numero di ricercatori stranieri che si stabiliscono in Italia. Questo dato misura il grado di “desiderabilità” di un paese dal punto di vista di un ricercatore, la sua attrattiva internazionale, la voglia di scambiare idee e esperienze coi colleghi del posto. Il rapporto difende addirittura l’idea che la presenza di stranieri incrementi la “creatività” di un paese. È facile intuire che la presenza di stranieri di qualità contribuisce non solo all’intensificazione delle attività di ricerca, ma anche a ridurre il tasso di provincialismo del sistema locale. Ebbene, l’Italia espone appena un 3% di stranieri negli effettivi della ricerca, quota insignificante se si pensa che nella ricerca svizzera gli stranieri sono il 57% (tra cui molti italiani) e altri paesi (neanche secondari, come Canada e Australia) ne hanno circa il 50%. D’altro canto, a scegliere l’Italia come sede di ricerca sono anche quegli stranieri attratti dal modesto livello di richiesta che il sistema impone e al lassismo generale della gestione.
Il rapporto non parla di un altro dato interessante, che noi italiani conosciamo purtroppo bene: il basso numero di stranieri tra i giovani dei nostri dottorati. Non so se esistano statistiche comparative in quest’ambito, ma basta frequentare le università di paesi prossimi al nostro come Francia e Spagna per vedere che lì i dottorandi stranieri sono molto più numerosi. Diverse trovate sono state escogitate per attrarne di più, una delle quali piuttosto avvilente: alludo a una norma di qualche anno fa che ammette i dottorandi stranieri senza sottoporli al concorso che invece i loro colleghi italiani devono fare. Malgrado la sua sconsiderata generosità neanche questa misura sembra aver funzionato.
Come mai l’Italia è così poco interessante, se non per brevi periodi, per i ricercatori stranieri? La prima risposta (alla quale il rapporto fornisce diversi argomenti) sta nel fatto che da noi gli stipendi sono bassi e appiattiti, del tutto indifferenti alla qualità specifica della persona di cui si tratta. A persistere su questa linea, che sopprime la competizione dei migliori, l’Italia è isolata: generosa fino alla dissipazione nel finanziare personale politico di basso livello, è tirchissima nell’offrire stipendi rispettabili ai ricercatori. Come è noto, nelle università del Nord America e della sfera anglosassone gli stipendi possono variare anche di molto; in Francia hanno inventato da tempo la figura del professore “de valeur exceptionnelle” (in Italia la dicitura stessa farebbe gridare allo scandalo) e in Spagna è recente una formula per incrementare lo stipendio alle persone più attive. Completa il quadro la scarsità e la lentezza dei fondi destinati alla ricerca, insieme alla totale mancanza di borse di studio di alto profilo.
Inoltre, l’università italiana soffre di malattie croniche che tengono alla larga gli stranieri di qualità: il merito è debolmente riconosciuto, la vita di ricerca associata è scarsa, le continue ristrutturazioni (ultima la dissennata riforma Gelmini) stressano l’ambiente impedendogli di assestarsi in una forma stabile; lo spropositato numero di elezioni (si vota per qualunque stupidaggine) alimenta un clima di continua campagna elettorale, che non attrae chi con questo sistema non ha familiarità.

Corriere 22.12.12
Senza Oscar L'Italia dei Taviani fuori dalle nomination
Bellocchio: l'originalità non seduce gli Usa
di Chiara Maffioletti


Niente da fare. Anche questa volta l'Italia vedrà gli Oscar solo da lontano. Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani è stato escluso dalla competizione. Orso d'oro a Berlino (l'Italia non vinceva dal 1991), otto candidature ai David di Donatello, comprese miglior film e miglior regista e di cui cinque vinte, il film è stato un trionfo di consensi e premi. Ai quali però non si aggiungerà l'Oscar.
Sono altri i nove titoli che vanno avanti nella corsa per il miglior film straniero. Quello dei fratelli Taviani da ieri è ufficialmente fuori dalla shortlist delle nomination.
Si arriverà alla cinquina finale il 10 gennaio, con l'annuncio dell'Academy al Samuel Goldwyn Theater di Los Angeles. Ma già ora, dei 71 film che hanno gareggiato per la categoria, ne sono rimasti in lizza solo nove: il superfavorito è Amour di Michael Haneke (Austria), poi ci sono War Witch di Kim Nguyen (Canada), No di Pablo Larraìn (Cile), A Royal Affair di Nikolaj Arcel (Danimarca), il film campione d'incassi Quasi amici di Olivier Nakache ed Eric Toledano (Francia), The Deep di Baltasar Kormákur (Islanda), Kon-Tiki di Joachim Rønning e Espen Sandberg (Norvegia), Beyond the Hills di Cristian Mungiu (Romania) e Sister di Ursula Meier (Svizzera).
L'Italia non riesce a stabilirsi nella cinquina dal 2006. Allora l'impresa era riuscita a Cristina Comencini con La bestia nel cuore. Per tornare invece all'ultimo Oscar conquistato da un film italiano bisogna andare indietro nel tempo fino a quel 1999 in cui Roberto Benigni saltava sulle poltroncine rosse del teatro dell'Academy, pazzo di gioia per aver vinto il riconoscimento come miglior film straniero con La vita è bella. Non si può dire dunque che questa esclusione sia una novità per l'Italia, anche se in molti avevano sperato che il film dei Taviani, così inedito nella forma e nei contenuti — mostra infatti la rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia, in uno stile a cavallo tra il film e il documentario — potesse impressionare i giurati più di quanto avevano fatto altri titoli in passato.
«Quello dei Taviani è un film bellissimo e originalissimo», conferma Marco Bellocchio. «Sì sa, io sono particolarmente sfortunato con i premi ma proprio per questo ho una saggezza per cui mi sento di dire che non credo proprio che i Taviani cadranno in depressione dopo la notizia che sono stati, io credo immeritatamente, esclusi dalla corsa». E più per uno spirito di curiosità che di polemica, al regista ora piacerebbe «sapere con quali criteri vengono scelti i titoli che vanno avanti nella competizione. Anche perché in questo caso si tratta di un film particolarmente originale. Probabilmente gli americani preferiscono rappresentazioni più classiche». I due titoli che tutti si aspettavano di vedere nella cinquina in effetti si sono entrambi salvati: Amour di Haneke, Palma d'oro a Cannes e Quasi amici. «Anche il film di Haneke è bellissimo ma, se vogliamo, classico appunto. Senza dubbio più comprensibile. Quello dei Taviani non rientra nel loro modo di intendere il bello. Ma in fondo non credo sia giusto intendere l'Oscar come un sigillo eterno. Io non l'ho mai ricevuto e, a questo punto, credo mai lo riceverò ma non mi sento sminuito per questo. Anche perché c'è pure chi l'ha vinto ma ingiustamente».
Quindi, ai Taviani da parte di Bellocchio «nessuna solidarietà perché non ne hanno bisogno: quando si raggiunge l'età della saggezza si sa bene che le grandi delusioni non sono queste. Però, certo, mi spiace».

venerdì 21 dicembre 2012

l’Unità 21.12.12
Marchionne e Monti insieme al voto
Susanna Camusso: «La scelta del premier tecnico di usare le sue funzioni di governo per le elezioni è grave. E la Fiat si è apertamente schierata con lui»
«Un gigantesco spot elettorale Ma al Paese serve una svolta»
di Rinaldo Gianola


Susanna Camusso non era a Melfi ieri «Nessuno mi ha invitata» ma rivendica di aver definito correttamente e in anticipo l’evento della Fiat: «È stato un gigantesco spot elettorale». La leader della Cgil parla di «un evidente caso politico per il modo con cui Marchionne e Monti si sono presentati a Melfi, per la volontà discriminatoria verso la Cgil e i nostri metalmeccanici, per la scelta di impedirci di parlare dove parlano gli altri, di essere presenti dove ci sono il governo, l’azienda, le altre confederazioni».
Segretario Camusso, ma la Fiat annuncia un miliardo di investimenti, nuovi modelli, produzioni per i prossimi anni. Cosa dice?
«Mi fa molto piacere. Spero che i lavoratori di Melfi e degli altri impianti abbiano un futuro sereno. Apprezzo che la Fiat abbia modificato la sua convinzione che in periodi di crisi non si investe e abbia deciso di avviare un nuovo piano. La Cgil ha chiesto da molto tempo un progetto industriale per rilanciare il gruppo in Italia, per saturare le produzioni della fabbriche, per garantire sviluppo e occupazione. Eravamo rimasti al misterioso incontro tra Fiat e il governo e all’annuncio del comitato per valutare strategie e investimenti. Poi è sceso il silenzio, fino a ieri».
Cosa non le è piaciuto del Fiat-day?
«C’è una coincidenza sospetta tra l’annuncio di Marchionne e la scelta politica del presidente del Consiglio, e il sospetto è confermato dal messaggio uscito ieri da Melfi, dalla sovrapposizione tra Fiat e governo. La scelta del tecnico Monti di utilizzare le sue funzioni di governo per la competizione elettorale è un fatto grave. Monti, prima, ha forzato la mano per portare a una conclusione separata il patto sulla produttività, poi non ha accolto la nostra richiesta di intervenire sul tema della rappresentanza, quindi si presenta con Marchionne a Melfi in questo modo, mentre la Cgil viene esclusa. C’è un vulnus democratico. Ho la sensazione che su queste basi Monti voglia avviare la sua campagna elettorale».
Perché Monti o il ministro Fornero non hanno mai speso una parola per quei lavoratori discriminati dalla Fiat a Melfi e Pomigliano, come è stato riconosciuto anche dalla magistratura?
«Non sono interessati ai diritti dei lavoratori, anche se a volte parlano di partecipazione o di coesione sociale. È una questione culturale, di formazione. Il valore della rappresentanza, la difesa del più debole di fronte all’arroganza dell’impresa, la tutela del diritto sui luoghi di lavoro non sono argomenti appassionanti per un governo tecnico, per un presidente del Consiglio che si ispira a un liberismo dannoso e inadeguato al momento. È una vergogna che il governo non sia intervenuto a Pomigliano quando la Fiat ha minacciato il licenziamento di 19 operai come ritorsione per la sentenza della Corte d’Appello che le imponeva l’assunzione di 19 lavoratori ingiustamente discriminati perchè iscritti alla Fiom. Vedendo Marchionne e Monti ieri a Melfi tutto è più chiaro».
La Cgil si sente isolata?
«Assolutamente no. Vedo che ormai non è neanche più di moda parlarne. Siamo consapevoli della nostra misura, della nostra azione, della nostra funzione. La legittimazione della Cgil deriva dagli iscritti, dai lavoratori, dai pensionati, dai disoccupati che rappresentiamo. Noi firmiamo accordi e contratti solo se rispettano la volontà della nostra gente, non abbiamo altri obiettivi. Per questo abbiamo criticato duramente i piani di Marchionne che si sono rivelati inesistenti e ora siamo nelle condizioni di poter valutare le nuove strategie in autonomia e serenità».
I suoi colleghi Bonanni e Angeletti ieri erano felicissimi...
«Capisco, devono aver nascosto abilmente un qualche imbarazzo di fronte al nuovo piano di Marchionne che supera quello precedente, che non è mai realmente partito ma che avevano accettato e benedetto come un miracolo. Avevano scommesso sulla Panda per risollevare le sorti dell’industria dell’auto, avevano accettato tutte le condizioni di Marchionne e oggi c’è cassa integrazione ovunque, metà dei dipendenti di Pomigliano sono ancora fuori dalla newco Fiat».
E come valuta la svolta di Melfi?
«È positivo il nuovo orientamento, la disponibilità a investire. Ma suscita qualche preoccupazione, qualche dubbio l’affermazione di voler trasformare la Fiat in produttore di marchi di alta gamma. Questo vuol dire perdere le produzioni storiche, di successo,la Punto magari? Per cambiare strategia sono necessari enormi investimenti e nuovi marchi di successo da affiancare all’Alfa Romeo che va comunque rilanciata. Questo è un problema, così come bisognerà capire se i modelli di massa per il mercato europeo saranno in futuro prevalentemente di origine Chrysler»
Camusso, tra due mesi si vota. Cosa si aspetta dalla campagna elettorale? «Spero che si parli dei problemi del paese e di come risolverli. Mi auguro che sia chiusa la stagione dei partiti personali, dei contenitori che prevalgono sul contenuto. Dobbiamo ripartire dal lavoro, creare occupazione altrimenti non usciamo dalla crisi. Il ritorno al passato, i sogni e le illusioni di Berlusconi non aiutano»
E Monti in politica?
«Non mi piace che usi palazzo Chigi per farsi la sua lista, nè che vada a Melfi in questo modo. La sua politica di rigore e tagli non va più, non vede e non interviene contro le diseguaglianze in un paese sempre più diseguale e povero. Ci deve essere una politica alternativa al possibile Monti-bis, una politica di lavoro e sviluppo».

il Fatto 21.12.12
Buoni e cattivi. I segretari di Cisl e Uil sono stati invitati, la Fiom/Cgil no
Intervista a Maurizio Landini (Fiom)
“Noi tenuti fuori e il Prof. zitto”
di G. Me.


Il leader della Fiom, Maurizio Landini è rimasto fuori dei cancelli di Melfi, assieme al responsabile del settore auto Giorgio Airaudo. Non erano invitati, non sono potuti entrare insieme agli altri leader sindacali. Loro fuori dai cancelli, la maggioranza degli operai di Melfi dentro, a spellarsi le mani per i loro capi. Abituato a fare a testate con Sergio Marchionne, stavolta Landini ce l’ha soprattutto con il premier Mario Monti: “Il suo comportamento è gravissimo”.
Che cosa ha fatto?
Non ha fatto niente. È stato zitto. Ha benedetto con la sua partecipazione il comportamento discriminatorio della Fiat, che sceglie i sindacalisti con cui parlare, o da invitare, non sulla base della loro rappresentanza ma sulla base dei loro sì.
Che cosa avrebbe dovuto fare il premier?
Per prima cosa avrebbe dovuto ricordarsi che ha giurato sulla Costituzione. La Fiat è stata condannata da dodici giudici diversi per comportamenti antisindacali e per discriminazioni tra i lavoratori. Monti è venuto a Melfi dove ci sono tre operai licenziati ingiustamente, reintegrati dal giudice, ma che non possono lavorare perché la Fiat li paga ma impedisce loro di riprendere il posto di lavoro.
In effetti Monti nel suo discorso ha espresso un esplicito consenso al modello Marchionne.
Ma io non so esattamente che cosa abbia detto, visto che sono rimasto fuori dai cancelli. So solo che non dice una parola di fronte a un sistema di relazioni industriali gravemente distorto: qui c’è il capo che annuncia direttamente agli operai le novità della produzione, senza nessun confronto con i sindacati.
Marchionne ha annunciato un miliardo di euro di investimenti per Melfi.
Finalmente, glielo chiedevamo da tempo. Però avremmo qualche domanda da fargli se potessimo discutere con lui. Per esempio: ha saputo che la Volkswagen ha appena annunciato investimenti non per uno ma per cinquanta miliardi di euro?
Altre domande?
Quante ne vuole. In che modo verrà garantita l’occupazione in tutti gli stabilimenti? Dove sarà prodotta la nuova Punto? Come pensa di togliere quote di mercato ai concorrenti per vendere i 400 mila mini Suv all’anno necessari per saturare lo stabilimento di Melfi e far tornare al lavoro i 5.500 dipendenti che oggi stanno più in cassa integrazione che al lavoro?

Repubblica 21.12.12
L’attacco di Landini: “Il loro modello è la negazione della democrazia e della contrattazione”
“Lui e Marchionne hanno le stesse idee questa visita è un’operazione politica”
di Luisa Grion


ROMA — Candidandosi, Mario Monti dimostra di «non essere mai stato un tecnico, un neutro, un salvatore della Patria». «Quello che finora ha fatto è stato il frutto di una precisa scelta politica, come è stata politica la decisione di andare a Melfi poche ore prima dell’annuncio ufficiale». Per Maurizio Landini, leader della Fiom, la visita fatta ieri dal premier all’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ha un significato preciso: i due sono uguali, «hanno in mente lo stesso modello di Stato e di società».
E cosa prevede questo modello?
«La negazione della democrazia e della contrattazione. La volontà di non metter mano alle vere cause che hanno originato la crisi».
Dove vede l’uguaglianza di comportamento fra i due?
«Cosa ha fatto Marchionne alla Fiat? Ha negato il contratto nazionale e la discussione con le controparti, ha lasciato fuori dagli stabilimenti chi non la pensava come lui, ha deciso di portare la testa dell’azienda fuori dall’Italia. E cosa ha fatto Monti? Ha ripetuto quel modello riformando lavoro, pensioni e articolo 18 senza ascoltare le parti sociali, ha fatto in modo che la Bce diventasse la testa della politica italiana. In comune hanno l’eliminazione della mediazione sociale e la cancellazione stessa dello Stato sociale. Due punti di contatto forti che li contraddistinguono».
Se vince Monti, secondo lei, cosa succede?
«Il modello Melfi diventa modello Paese. Per uscire dalla crisi non s’investe, come dovrebbe essere, su lavoro e democrazia. L’Italia va a destra, arretra, aumentano le diseguaglianze e parte l’attacco alla Costituzione ».
Attacco alla Costituzione?
«Marchionne è stato condannato da dodici tribunali per comportamento antisindacale e il premier va a trovarlo a Melfi, proprio là, dove la Fiat, non rispettando la decisione della magistratura, paga tre operai, ma non li fa lavorare. È rispetto per la legge questo? Io invito il premier ad andare anche a Termini Imerese o all’Irisbus per vedere cosa succede, prima di lodare le scelte della Fiat».
D’Alema ha definito la candidatura di Monti «immorale». E’ d’accordo?
«No, sinceramente non ho capito a cosa si riferisca. Forse si sente tradito per impegni presi - che non conosco - e che non sono stati rispettati».
Ma se Monti è così dichiaratamente di destra, perché la sinistra dovrebbe temere la sua candidatura?
«Perché la sua candidatura ufficiale fa venire a galla quella che è sempre stata una antica contraddizione mai risolta. L’Italia doveva andare al voto un anno fa, era la cosa migliore da fare allora ed era esattamente quello che il Paese voleva. La grande partecipazione ai referendum, la storia dell’elezione del sindaco di Milano lo avevano chiaramente dimostrato».
Cosa si aspetta dalle prossime elezioni?
«Mi auguro un’alternativa, l’uscita dalle logiche del potere e della finanza e la rimessa al centro del lavoro, della democrazia, della redistribuzione della ricchezza. Le uniche scelte che possono davvero far uscire questo Paese dalla crisi».

l’Unità 21.12.12
Bersani sfida Monti: basta partiti personali
Il segretario Pd dice sì alla sfida in televisione lanciata da Berlusconi
Messaggio ai centristi dopo l’attacco di Riccardi: «Con chi state?»
di Simone Collini


Gliel’ha detto a quattr’occhi, incontrandolo a Palazzo Chigi, che sarebbe stato più utile al Paese se fosse rimasto «fuori dalla contesa». Poi Pier Luigi Bersani ha atteso ancora qualche giorno, per vedere cosa avrebbero prodotto le riflessioni di Mario Monti. Ma ora che si parla esplicitamente di una lista con il nome del premier nel simbolo, il leader del Pd batte un colpo: «Non fa bene all’Italia costruire le formazioni politiche intorno alle persone».
Bersani vuole sentire una parola definitiva dal capo del governo («sono curioso anch’io di sapere quale sarà la conclusione delle riflessioni del presidente Monti»), ma se dovessero rivelarsi fondate le indiscrezioni che ormai da quarantott’ore stanno filtrando da Palazzo Chigi, il giudizio del leader Pd non sarebbe affatto positivo. «Noi siamo stati lealissimi verso il governo Monti», dice a SkyTg24, «francamente, non avevo immaginato che potesse essere nella contesa e non so se sarà questa la sua scelta». Fosse questa la decisione del presidente del Consiglio, il Pd non avrebbe «nessuna difficoltà, nessun problema particolare» a giocare la partita avendo di fronte un nuovo competitor. Dice però Bersani facendo entrare in una nuova fase il confronto con il premier: «L’unica cosa di principio che ho sempre posto al presidente Monti è che non credo faccia bene all’Italia costruire formazioni politiche intorno alle persone. Io ho detto che il mio nome sul simbolo non lo metterò mai. In nessun Paese democratico al mondo si procede così. Le formazioni politiche devono essere guidate da persone ma devono essere costruite intorno ai programmi, non alle persone».
CON CHI STANNO I CENTRISTI?
Ormai è chiaro che a meno di un ripensamento da parte del premier, a giocare un ruolo da protagonisti in questa campagna elettorale saranno in tre: Bersani, Monti e Berlusconi, che il leader Pd è pronto a incontrare in un confronto televisivo («dove c’è Berlusconi come si fa a mancare? risponde con un sorriso a SkyTg24 Io sono disponibilissimo, mi pare una cosa utilissima, seria»).
La novità è che il leader del Pd, al quale non è piaciuta la visita di Monti con Marchionne allo stabilimento Fiat di Melfi, ha deciso di giocare ora la partita insistendo sulla differenza del suo partito rispetto alle altre formazioni. Per questo insiste sulla decisione di organizzare le primarie per i candidati parlamentari, che il segretario democratico mette in contrapposizione con le due operazioni che vanno sotto il segno del personalismo. «Ho una fiducia enorme nella partecipazione e una sfiducia enorme nell’uomo solo al comando». Una frase che in passato ha più volte pronunciato con riferimento polemico a Berlusconi, e che però in queste ore si carica di un nuovo significato.
In questo caotico finale di legislatura c’è bisogno di fare chiarezza, secondo Bersani, di definire i campi di gioco e gli schieramenti. Per questo il leader Pd non esita a sfidare apertamente Monti e per questo prova a stanare i centristi che da troppo tempo ormai si muovono sul filo dell’ambiguità. Così, il giorno dopo che il ministro Andrea Riccardi ha detto che «il centro di Monti sarebbe alternativo alla sinistra», Bersani rilancia la proposta di un patto di legislatura tra progressisti e moderati, e però al contrario del passato ci aggiunge una richiesta di chiarezza: «Io voglio costruire un centrosinistra che abbia disponibilità ad incontrare un centro moderato, europeista, saldamente costituzionale. Che io abbia o non abbia la maggioranza. Sarebbe interessante chiedere a queste formazioni centrali cosa pensano loro del Pd, perché noi siamo il partito più grande. Sento cose a volte contraddittorie: qualcuno dice “siamo alternativi”, altri dicono “siamo colloquiali”. Io non mi sento alternativo al centro moderato, mi sento alternativo a Berlusconi e alla Lega».
LA PARTITA DELLE LISTE
Mentre Bersani centra la sua strategia contro le liste personali, nel partito si discute delle deroghe da concedere a parlamentari europei, sindaci di Comuni oltre i 5000 abitanti e consiglieri e assessori regionali che vogliono candidarsi alle primarie, e anche dei nomi da inserire nel 10% esonerato dalla sfida ai gazebo. Al comitato elettorale, riunito ieri fino a tarda sera, sono arrivate oltre cento richieste di deroga. Il criterio seguito è stato però quello di limitare al massimo il via libera, anche per evitare un effetto domino con lo scioglimento anticipato di molti consigli comunali. Di segno opposto è l’iniziativa della Direzione del Pd di Modena, che ha approvato un ordine del giorno in cui si chiede che un sindaco dell’area colpita dal terremoto «o comunque una personalità della società civile rappresentativa dell’impegno nel fronteggiare il post-sisma venga inserito nel listino delle candidature appanaggio del segretario».
Questo 10% di nomi è però ancora al centro di trattative tra le diverse anime del partito. Al momento sembra ci debbano essere tutti i segretari regionali del Pd e chi ha corso alle precedenti primarie del partito (Matteo Renzi non ci sarà, ma verranno inseriti i membri del suo comitato). Una curiosità che sta emergendo a scorrere l’elenco di chi correrà alle primarie: nel prossimo Parlamento Sandra Zampa potrebbe essere l’unica prodiana, visto che Parisi, Magistrelli, Santagata, Barbi e gli altri parlamentari vicini al Professore stanno pensando di non ripresentarsi.

La Stampa 21.12.12
Il messaggio del professore al leader Pd
di Marcello Sorgi


La visita di Monti a Melfi non è stata certo una mossa elettorale, anche se più di uno ieri a Montecitorio si ostinava a considerarla così. Ma resta un gesto carico di significato, specie alla vigilia delle dimissioni che il premier dovrebbe rassegnare tra oggi e domani. Monti ha scelto di incontrare i vertici della Fiat e gli operai che lo hanno accolto tra gli applausi, in uno degli stabilimenti a più alta innovazione tecnologica, ben consapevole di attraversare una terra di frontiera, la zona di confine di un esperimento di modernizzazione che molto ha diviso, e continua a dividere, il mondo politico, imprenditoriale, sindacale e del lavoro. E se lo ha fatto, alla vigilia della conclusione dell’esperienza del governo tecnico, è stato proprio per sottolineare l’importanza del percorso riformatore, che in Italia è appena iniziato, e, pur andando incontro a fortissime resistenze, non può essere interrotto. A meno di non voler precipitare il Paese in una condizione marginale, che il premier, con una delle sue espressioni colorite, ha definito uno «stato nirvanico», cioè di assenza e lontananza dalla realtà.
Monti insomma è andato a Melfi, non spinto da interessi elettorali, ma per svolgere un intervento programmatico, che non a caso ha trovato pieno consenso da parte di John Elkann e Sergio Marchionne. A suo giudizio, per l’Italia, come per la Fiat, la scelta del rigore e delle riforme strutturali è infatti obbligata. Abbandonarla adesso, o alimentare illusioni sulla possibilità di un ripensamento, per compiacere un’opinione pubblica stressata dalle conseguenze della crisi, sarebbe «irresponsabile», e porterebbe a «dissipare» i tanti sacrifici compiuti. Serve invece il coraggio, ha ribadito Monti, di insistere con questa medicina: amara, sì, da digerire, ma efficace e presto in grado di dare i suoi effetti e rendere l’Italia «più sana e più forte».
Parola più, parola meno, è quel che Marchionne negli ultimi anni ha cercato di spiegare ai sindacati, trovando l’ascolto di Cisl e Uil, e la dura opposizione di Cgil e Fiom, che ieri manifestavano davanti ai cancelli di Melfi. Così che la necessità di un cambiamento, oltre che tecnologico, anche nell’organizzazione del lavoro, e di una maggiore aderenza alle mutevoli e critiche condizioni dei mercati, sono diventate l’oggetto, non solo di un confronto aziendale e sindacale, ma anche di un serrato dibattito interno e di divisioni nella sinistra italiana, tra la parte riformista più attenta alle esigenze del cambiamento, e quella più radicale, decisa a rappresentare il fronte del No.
E’ proprio per questo che Monti, al suo penultimo giorno di governo, ha scelto di andare a Melfi, per segnare un «punto e a capo» nei rapporti tra l’Italia e la sua maggiore azienda, per incoraggiare i lavoratori che hanno accettato la svolta, e rassicurarli sul fatto che «dopo la semina verrà il raccolto». Il suo discorso, formalmente rivolto agli operai della Fiat, era in realtà indirizzato anche a Bersani, alla vigilia di una campagna elettorale che rischia di incrinare il rapporto tra il presidente del Consiglio che ha guidato il Paese fuori dal pantano in cui s’era cacciato e il suo alleato fino a ieri più fedele. Al segretario del Pd, al momento il suo più probabile successore a Palazzo Chigi, Monti ha inteso dire che non è lui ad aver cambiato idea e ad essersi allontanato dal progetto riformatore che i tecnici, in un anno appena, hanno potuto realizzare solo in parte. È piuttosto il Pd che, coalizzandosi con Vendola, ha scelto come alleato uno dei più decisi avversari del governo e della politica che finora aveva appoggiato.
Bersani dunque deve chiarire come pensa di coniugare la sua vocazione riformatrice con lo «stato nirvanico» e con le iniziative antagoniste della sinistra radicale. Non è un compito facile per il segretario democratico eletto candidato premier alle primarie. Monti è il primo a saperlo. Ma proprio per questo, è il messaggio sottinteso, non c’è ragione di farsi la guerra. Se Bersani, nell’interesse dell’Italia, confermerà la volontà di riprendere la strada delle riforme, si potrà certamente tornare a collaborare dopo il voto.

Corriere 21.12.12
«Il Pd sposi l'agenda del premier o non corro»
Ichino: «Spero che Bersani corregga nettamente Fassina. Altrimenti, non ha senso candidarmi»
intervista di Alessandro Trocino

qui

l’Unità 21.12.12
Verità o relativismo? Un falso problema
di Stefano Semplici


LA «QUESTIONE ANTROPOLOGICA» SOLLEVATA ANCHE DAL MANIFESTO DI PIETRO BARCELLONA, PAOLO SORBI, MARIO TRONTI E BEPPE VACCA non contrappone i seguaci di un relativismo senza ormeggi e senza limiti agli apostoli di una verità sempre uguale a se stessa. Anche perché queste tipizzazioni corrispondono in realtà ad altrettante astrazioni. Chi vuole ampliare gli spazi dell’autonomia individuale, in particolare, non lo fa per ripetere con Ivan Karamazov che «se Dio non esiste, tutto è permesso». Quasi tutti riconoscono che, arrivati a un certo punto, si incontra il limite del «non negoziabile»: i principi di una Costituzione come la nostra, ma anche l’universale morale presupposto dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e al quale ci appoggiamo ogni volta che, per esempio, affermiamo che esistono crimini contro l’umanità o rifiutiamo senza incertezze antiche tradizioni culturali come le mutilazioni genitali femminili. Si tratta semmai di definire la portata di questi principi, il loro grado di «invasività» rispetto ai percorsi di vita degli individui e dei popoli, nonché di risolvere i loro eventuali conflitti. Nel campo della ragione pratica, come insegnava Tommaso d’Aquino, i principi vanno certamente rispettati come fondamentali criteri di orientamento, ma non è detto che siano sempre sufficienti a determinare automaticamente quel che, qui e ora, è giusto fare.
Le divaricazioni, all’interno delle moderne società liberali, nascono non tanto intorno a certezze apodittiche e ossessioni nichilistiche, quanto piuttosto sulla definizione di alcune «soglie», dalle quali dipende l’uso degli strumenti di garanzia e di coercizione tipici del diritto. La soglia dei divieti inderogabili, a partire da quello di uccidere un altro uomo, che implica a sua volta un’opzione di riconoscimento sul momento a partire dal quale scatta tale divieto. La soglia delle libertà irrinunciabili, come quella di disporre del proprio corpo. La soglia, infine, delle discriminazioni intollerabili, come quella che si realizza per alcuni nel momento in cui un istituto come il matrimonio, intessuto di un valore di legame ma anche di una simbologia pubblica particolarmente forti, non è accessibile a tutti a prescindere dall’orientamento sessuale. Voler abbattere o spostare una soglia non implica affatto la disponibilità ad accettare qualsiasi cosa e la tesi del cosiddetto «pendio scivoloso» continua a ricevere qualche conferma e molte smentite: l’uccisione dei neonati disabili resta una tesi difficile da presentare in pubblico; il commercio degli organi è considerato dai più un abuso della libertà che le leggi non possono consentire; il matrimonio non è più né indissolubile né eterosessuale, ma la polemica contro la famiglia tradizionale ne lascia intatto il «pregiudizio» monogamico.
Ragionare in termini di soglia, anziché di radicali alternative antropologiche, rende più facile rispettare opzioni anche molto diverse e tuttavia sensibili ad uno sfondo di principi condivisi: il valore intrinseco della vita umana; la difesa della dignità della persona nella concretezza della sua libertà incarnata che impedisce di ridurre il corpo a semplice mezzo e mezzo di profitto; la promozione di impegni affettivi di intimità e reciprocità che costruiscono una responsabilità progettata e voluta per durare nel tempo. Certo, non si può negare l’evidenza che l’offerta dei modelli di senso e delle conseguenti opzioni di soglia tende a dilatarsi sempre più. Si può però scegliere di regolare la ricchezza di questo pluralismo applicando non il metodo «maggioritario» secondo il quale si vota e «il vincitore prende tutto», ma quello di uno sforzo inclusivo che sceglie di utilizzare altri strumenti: il bilanciamento dei principi che punta al minor sacrificio possibile di un valore; l’apertura alla revisione di decisioni e norme in uno spazio di confronto sempre praticabile a parità di condizioni per le «minoranze etiche»; la tutela della libertà di coscienza fino all’obiezione, che non toglie nulla ai diritti degli altri e salva la possibilità per la persona di vivere secondo la sua autenticità.
Che cosa diventa, in questa prospettiva, la questione antropologica? Essa richiede prima di tutto l’onestà e la serenità della chiarezza, nei propri dubbi come nelle proprie verità. E non la si può tenere fuori dalla politica, perché investe inevitabilmente le leggi. Anche nella prossima campagna elettorale è auspicabile che non ci siano atteggiamenti strumentali su questi temi. E che non si dimentichi la vera alternativa. Da una parte c’è oggi l’idea di privatizzare i fondamentali della vita e della libertà, trasformandoci negli «stranieri morali» teorizzati dal bioeticista Engelhardt. Dall’altra c’è la consapevolezza che l’esasperazione di questa dinamica erode quel «centro comune» al quale Adam Smith affidava la speranza di una società che non si riducesse alla logica strumentale dello «scambio mercenario». Chi ci ha insegnato a studiare le cause della ricchezza delle nazioni ci invita a riconoscere che è la solidità di questo centro a rendere una società «fiorente e felice». A renderla più attrezzata anche per affrontare le crisi con quello spirito di coesione e solidarietà senza il quale l’equità diventa più difficile.

Repubblica 21.12.12
L’irritazione di Vaticano e Cei “Parole volgari, è allo sbando”
Le gerarchie tifano per il Professore: ha servito l’Italia
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO – «Certo che ci ricordiamo bene quello che ha fatto Berlusconi per la Chiesa. A partire dal caso Boffo». Il giudizio plana in modo sarcastico, ma ugualmente impietoso. Ai piani alti dell’istituzione ecclesiastica, sull’asse che da Piazza San Pietro, dal Vaticano, sale e arriva sulla Circonvallazione Aurelia, sede della Conferenza episcopale italiana, è tutto un confabulare, un «hai sentito?», «sì, ho visto». Alcuni accettano di parlare, anche se rigorosamente “off the record”.
Il tratto comune è il tono indignato. La sensazione, più che vero imbarazzo, è addirittura il fastidio. Termine che non viene pronunciato. Ma le alzate di spalle, gli occhi che roteano al solo sentire il nome del protagonista in questione, gli sbuffi che escono dalle bocche dei prelati, paiono risposte inequivocabili.
Nella Santa Sede, all’interno delle Mura Leonine, le parole che si raccolgono sono di una durezza implacabile. Provengono da ambienti vicini alla Segreteria di Stato vaticana del cardinale Tarcisio Bertone: «È un uomo allo sbando – è il commento che si registra - ha pure massacrato il suo delfino Alfano». «E poi – ecco il colpo di mannaia su un tasto qui delicatissimo - queste sue nuove avventure sentimentali... Ecco,
fra questi due estremi c’è di tutto. Quella di oggi è stata un’uscita volgarissima. Parole che cadono nel gelo più totale. È un uomo privo di appoggi, laddove pure li sta cercando. Davvero non si capisce dove voglia andare a parare. Ha perso il freno del tutto. Le sue battute lasciano ormai sgomenti».
Salendo verso la sede della Cei, al piano più alto ci si limita a un gelido «non credo che sia necessario commentare». Questa volta il fronte dei vescovi coincide in modo perfetto con quello dei Palazzi vaticani. E del Papa: pieno sostegno per un possibile bis del Professore che nel 2012 ha governato a Palazzo Chigi. «Monti ha reso un servizio all’Italia – si ricorda - non può essere l’ultimo». I giudizi che si ascoltano qui rammentano con vivacità di espressioni il caso del direttore di Avvenire, Dino Boffo, nel 2009 costretto a dimettersi dopo una campagna violentissima, ma con accuse infine ritenute del tutto false, da parte del quotidiano della famiglia Berlusconi. «Leggiamo in questi giorni le pagine del Foglio – spiega una voce molto autorevole in ambiente Cei – a proposito di come i giornali in passato parlavano del Cavaliere. Ma quando sul quotidiano dei vescovi gli editoriali del 2001 bacchettavano Berlusconi, non se ne accorgeva nessuno. Eppure veniva fatto. Nell’ultima uscita del Cavaliere c’è un po’ di presunzione. Va detto: per la Chiesa il dettame concordatario è una cosa seria. E se sul serio si vuole ricordare quel che è stato fatto, per noi conta il bene del Paese, chiunque l’abbia compiuto».
Nei giorni scorsi il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, aveva detto al
Corriere della Sera: «Non si possono mandare in malora tutti i sacrifici fatti dai cittadini». Un giudizio che si raccorda con quello fatto lo scorso anno: «Bisogna purificare l’aria ». Tre parole decisive nella spallata della gerarchia ecclesiastica al governo di centro destra. Ora Avvenire, guidato da Marco Tarquinio, ricorda in più editoriali il «fallimento» dell’esecutivo Berlusconi.
Vaticano e Cei sembrano abbandonare il Cavaliere al suo destino, tifando Monti. L’intesa anzi creata fra il Papa tedesco e il Professore, fatta di visite e telefonate costanti - e saldata dai loro più vicini collaboratori - è piuttosto l’asse su cui gravita il consenso della Chiesa per l’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Il dirimpettaio di Tarquinio in Vaticano, il professor Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, di recente ha detto che «l’Italia rischia di pagare i danni della demagogia». Proseguendo il suo ragionamento con una frase significativa: «Le parole d’ordine facili possono magari riscuotere consenso. Ma poi non farebbero che danneggiare, se seguite, le fasce più deboli del Paese: proprio quelle che la Chiesa in Italia aiuta». È proprio vero: la Chiesa si ricorda di tutto ciò che è stato fatto.

Repubblica 21.12.12
Il papa contro il matrimonio gay
Un diritto non è mai un pericolo
di Chiara Saraceno


È per lo meno singolare che tra gli attentati alla pace, alla giustizia e alla dignità umana il Papa abbia messo ai primi posti l’estensione alle persone omosessuali del diritto a sposarsi. Era già una forzatura, cui per altro Giovanni Paolo II ci aveva abituato, equiparare il diritto all’aborto e a chiedere di essere aiutati a morire alle uccisioni che si effettuano in guerra e ai genocidi che spesso accompagnano le guerre civili. Perché si confondono feti con esseri umani già compiuti, vittime con carnefici, la libertà di disporre di sé con la violenza su altri. Anche chi non approva l’aborto e l’eutanasia dovrebbe preoccuparsi di questa operazione in cui tutto viene mescolato senza distinzione, con il rischio non già che si salvi qualche feto perché diventi un bambino non voluto, o che qualche malato terminale venga tenuto in vita ad oltranza, ma che guerre e genocidi perdano il loro carattere di violenza arbitraria e cieca, ove le vittime sono pure casualità, specie se appartengono ai gruppi più deboli. Sta già succedendo, in quest’epoca in cui le guerre — dichiarate o meno — sono dappertutto e ciascun belligerante vede, nel migliore dei casi, solo i propri morti, mentre quelli altrui sono tutti solo “nemici” — dai lattanti in su. Non c’è proprio bisogno che ci si metta anche il Papa, con tutte le migliori intenzioni, a dare manforte a questo clima di assuefazione ottusa.
Se poi si aggiunge alla lista degli attentati alla pace e alla vita e dignità umana la questione dei matrimoni omosessuali davvero la confusione, l’incapacità, o il non desiderio, di operare distinzioni risultano in una denuncia generica e inefficace del problema che a parole si dice di voler affrontare. È difficile anche a chi è contrario ai matrimoni tra omosessuali cogliere un qualche nesso tra una legge che li consenta e l’operare per la pace. A meno che il pontefice non voglia suggerire che l’approvazione di una legge simile produrrebbe guerra civile, ciò che è smentito da quanto (non) è avvenuto nei Paesi che hanno una legge del genere. Mentre, viceversa, molti Paesi che vietano l’aborto (e anche la contraccezione), puniscono le donne che vi ricorrono e mettono al bando gli omosessuali sono governati da dittature violente e talvolta anche guerrafondaie. A differenza del pontefice, non intendo postulare che esista un nesso tra riconoscimento del diritto ad abortire, ad usare la contraccezione, a sposarsi tra omosessuali e il mantenimento della pace. I rapporti causa ed effetto sono molto più complessi di queste rozze semplificazioni.
Continuare a evocare i temi dell’aborto, dell’eutanasia, della omosessualità come temi validi per la denuncia di qualsiasi cosa vada male nel mondo rischia di marginalizzare proprio l’attenzione per ciò che va male, in questo caso per un mondo attraversato da guerre ricorrenti e continue, abitato da signori della guerra che non riposano mai. Certo, dà l’impressione che al pontefice e alla gerarchia cattolica interessi di più porre il proprio veto sulle legislazioni degli Stati democratici, in tema di diritti di libertà nell’ambito della sessualità e della riproduzione, che non condannare le guerre (o le incursioni) preventive e le violenze sulle popolazioni inermi. Più che un monito contro i signori della guerra, sembra un monito contro la laicità dello Stato, del tutto in consonanza con quello lanciato dal cardinale Scola alcuni giorni fa.


il Fatto 21.12.12
Sofferenza a sinistra
“Il manifesto” in liquidazione ”L’Unità”, scontro con l’azienda


IL MANIFESTO, a 43 anni dalla fondazione, cerca di cambiare pelle. Il quotidiano diretto da Norma Rangeri sta per chiudere la storica cooperativa e potrebbe tornare con una nuova società. Nella lista delle testate in sofferenza c'è anche l'Unità, che il 14 dicembre ha indetto uno sciopero in segno di protesta contro l'assenza di garanzie ricevute rispetto al futuro della redazione. Le difficoltà del giornale fondato da Antonio Gramsci derivano anche dalla pesante riduzione del finanziamento pubblico all'Editoria come per il manifesto. In crisi anche il quotidiano Pubblico a soli tre mesi dalla sua uscita. Il giornale di Luca Telese cerca nuovi finanziamenti e potrebbe liquidare l’attuale società per rinascere con un organico ridotto. Dopo aver abbassato il prezzo da 1,20 a 1 euro, per attirare più lettori, ritorna in edicola al costo di prima.

Repubblica 21.12.12
In aumento l’uso del web come mezzo d’informazione
Dai blog ai social network la carica dei “cittadini 2.0”
di Luigi Ceccarini


Li possiamo definire cives.net.
È una “community” di cittadini che usa la rete anche per seguire la politica. I nuovi media, ormai non più così “nuovi”, fanno parte della vita degli italiani. Ma anche del loro modo di informarsi, discutere, partecipare: di essere cittadini.
L’Osservatorio Demos-Coop, che ogni anno si concentra sul rapporto tra media e politica, conferma questa tendenza, già registrata nelle scorse edizioni. Il 58 per cento della popolazione ha accesso ad Internet e il 44 per cento lo usa tutti i giorni. Per il 40 per cento è una fonte quotidiana di informazione. Rispetto a un anno fa, il solo canale che fa registrare una piccola, ma significativa, crescita nell’utilizzo è proprio la rete: + 3 punti percentuali.
Cala, invece, la fruizione degli strumenti tradizionali: la tv, la radio, i giornali. Internet continua ad essere considerato il luogo dove l’informazione è più libera e indipendente: 41 per cento. Un aspetto non da poco per la democrazia. Per la Tv il dato è il 24 per cento. Ciò significa che la si guarda senza fidarsi troppo. Per i giornali si scende al 17 per cento. Se poi consideriamo i soli cittadini in rete, il 63 per cento di questi legge i quotidiani on-line. Il 57 per cento partecipa a un social network. Il 50 per cento discute o si informa di politica nel Web(2.0). Una quota ridotta, ma significativa, mette in pratica anche azioni più “impegnate”: l’11 per cento ha postato commenti o partecipato a qualche discussione di politica nei blog o nei social network. Il 9 per cento segue un partito, un leader o un gruppo politico attraverso Facebook, il 4 per cento su Twitter.
Coloro che utilizzano la rete anche per discutere e informarsi di politica (quota pari alla metà degli internauti, cioè il 29 per cento della popolazione) fanno un uso più intenso di questo strumento. Ad esempio frequentano di più i social network (63 per cento). Rimangono connessi per più tempo, anche in mobilità con gli smartphone e i tablet. Del resto sono più giovani e scolarizzati, studenti, ceti medi impiegatizi e professionisti. Di genere maschile. Si riconoscono maggiormente nell’area di sinistra o di centrosinistra, ma anche nel MoVimento di Grillo. Si dicono particolarmente interessati alla politica. Si mobilitano più spesso, sottoscrivendo, ad esempio, campagne di opinione, petizioni, e non solo online. Oltre ad Internet, per informarsi, usano di più la tv satellitare e meno quella generalista. Ma è interessante sottolineare che il loro coinvolgimento non resta confinato nella dimensione online. Il 64 per cento, il doppio di quanti navigano senza però informarsi di politica, discute di questioni pubbliche anche nel circuito delle proprie reti sociali: gli amici, la famiglia, i colleghi. Internet diventa così uno stimolo al confronto, un luogo concreto della cittadinanza.
Il Web (2.0) si pone come estensione della sfera pubblica. E non si configura come spazio a sé stante. È sicuramente vero che mobilita, anzitutto, quei soggetti già attivi e con forti attitudini all’impegno. Ma l’intreccio tra rete e partecipazione è ormai evidente. E i cives.net ne sono l’espressione.

Repubblica 21.12.12
Se le carceri sovraffollate tradiscono la Costituzione
di Giancarlo De Cataldo


Il digiuno di Marco Pannella ha il merito di tenere desta l’attenzione sull’intollerabile situazione delle carceri italiane. Molte voci autorevoli si sono levate, in questi ultimi giorni, dando vita a una sorta di dialogo a distanza con le istanze poste dal leader radicale. Nelle opinioni prevalenti sembra dominare una sorta di rassegnato realismo: sappiamo che le carceri italiane non sono gli alberghi a cinque stelle di cui in anni passati parlò, sciaguratamente, un ministro della Repubblica, e abbiamo fatto molto, in termini di depenalizzazione, misure alternative, ecc. Ma l’amnistia, per esempio, che pure servirebbe quanto meno a tamponare l’emergenza, è impraticabile per difetto delle condizioni politiche, la legislatura sta finendo e qualche disegno di legge qualificante appare destinato a naufragare. Pannella parla, con l’abituale enfasi, di «flagranza criminale » dello Stato; gli si risponde «prendiamo atto, siamo consapevoli, facciamo il possibile». Che, peraltro, e anche di questo vi è consapevolezza, non è abbastanza. Non è solo dialettica fra passionalità e realismo, fra emotività e freddezza. Il dialogo a distanza investe un punto nodale, e irrisolto, che non appartiene né alla tecnica legislativa né all’organizzazione delle risorse, ma alla struttura stessa del sistema penale italiano, e, soprattutto, al grado di accettazione e condivisione degli italiani. Basta scorrere i commenti che si rincorrono sul web per farsi un’idea degli umori dominanti: non è tanto il fatto che si ironizzi sul digiuno a colpire, quanto la netta percezione che trent’anni e passa di politica più o meno riformatrice in materia carceraria non abbiano prodotto nessun serio mutamento culturale. Una buona parte dei nostri cittadini, forse la maggioranza, resta convinta che l’unica ricetta per chi delinque sia una cella ben solida, poi prendere la chiave e gettarla via. E amen. Il destino dei carcerati lascia indifferenti, non accende passioni. Al massimo, c’è chi chiede di costruire nuove carceri e chi, per contro, ne diffida, già rassegnato all’inevitabile sequenza di corruzioni all’italiana. Un coro unanime e impressionante che accomuna sedicenti progressisti e conservatori e sommerge di lazzi e becere facezie le poche voci problematiche. Il popolo, almeno quello del web, invoca repressione e galera. La politica rischierebbe persino di farci una bella figura, se non avesse la sua buona parte di responsabilità: dopo vent’anni di urla scomposte, di allarme sicurezza, di leggi esasperatamente punitive, l’effetto era prevedibile. Una cultura della vendetta, livorosa e ghignante, sembra imporsi. Non ne siamo esenti — parlo per esperienza diretta — neanche noi magistrati. Ma se le cose stanno così, è una sconfitta non solo per Pannella e per coloro — e non mancano — che continuano a credere nell’utopia di un carcere diverso. È una sconfitta per la stessa Costituzione. Oggi la nostra Carta fondamentale è tornata di moda. Il rischio è che diventi un oggetto di culto da venerare, ma tenendosi a debita distanza. Che se ne citino, con enfasi, i passi che più ci convengono, stendendo un velo d’oblio su tutti gli altri. Chissà quanti fra coloro che fanno del sarcasmo su Pannella e sui “poveri delinquenti” l’altra sera provavano fremiti di orgogliosa commozione davanti allo show costituzionale di Benigni. Bisognerebbe, con la santa pazienza, ricordar loro che è proprio la Costituzione a fissare i parametri della “giusta” pena, imponendo allo Stato di attivarsi per promuovere la rieducazione dei condannati. E, piaccia o non, un carcere sovraffollato, un carcere che non offre lavoro, cultura, istruzione, e, dunque, speranza, un carcere che alimenta suicidi è un carcere fuori dalla Costituzione.

Repubblica 21.12.12
La Fondazione Basso rischia di chiudere


ROMA — La Fondazione Basso rischia di chiudere entro pochi mesi. Un appello è stato lanciato da Stefano Rodotà per salvare l’istituzione nata a Roma nel 1973 dalla fusione della biblioteca di Lelio Basso con l’Istituto per lo studio della società contemporanea (Issoco), creato nella seconda metà degli anni Sessanta. La Fondazione «è una presenza viva nella discussione culturale», si legge nell’appello. Ha un Osservatorio sui diritti dell’Europa, è custode delle memorie del Tribunale Russell sull’America Latina e ne continua l’attività con il Tribunale permanente dei popoli; ospita le scuole di giornalismo e della buona politica, pubblica la rivista Parole chiave.
Tutte attività per cui mancano i finanziamenti: non sarà possibile acquistare libri e riviste per il 2013. Per informazioni www.fondazionebasso.it.

Repubblica 21.12.12
Un referendum per dire sì all’opzione Europa
di Timothy Garton Ash

All’approssimarsi del quarantesimo anniversario dell’ingresso della Gran Bretagna in quella che nel lontano 1973 era ancora semplicemente la Comunità Economica Europea, esiste una sola strategia di politica interna valida per portare avanti la complicata politica europea del Regno Unito. I leader dei tre maggiori partiti del parlamento di Westminster, conservatori, laburisti e liberaldemocratici, devono cioè impegnarsi a indire un referendum, una volta che la nuova Unione Europea sarà emersa dalla crisi dell’Eurozona e saranno chiare le condizioni dell’adesione britannica, per stabilire se restar dentro o uscirne. Dato che con tutta probabilità l’Eurozona si salverà, ma solo con grande lentezza, a tappe, nello stile della Merkel, e dato che la posizione della Gran Bretagna si potrà chiarire solo una volta emerse le conseguenze politiche del salvataggio, il referendum si farà, stando alle proiezioni attuali, tra il 2015 e il 2020, durante il mandato del prossimo parlamento britannico.
Il premier David Cameron dovrebbe promettere il referendum nel tanto atteso discorso sull’Europa, ora fissato per metà gennaio. Se il leader dei laburisti, Ed Miliband, e il liberaldemocratico Nick Clegg avranno fegato lo bruceranno sul tempo, cavalcando la tigre delle istanze indipendentiste dell’Ukip. Tutti quanti i partiti potranno comunque fare riferimento alle approfondite analisi sulla “ripartizione delle competenze” tra Unione Europea e Regno Unito, condotte nell’ambito di vari dipartimenti governativi britannici, che saranno completate solo nel 2014 e fungeranno da base per il dialogo tra le due sponde della Manica. Esisterà allora una posizione nazionale ben definita. Noi cittadini britannici avremo la possibilità di prendere una decisione sulla permanenza nell’Unione solo quando sarà chiaro da cosa usciremo e in cosa resteremo. La questione è assolutamente prioritaria.
L’opinione pubblica britannica è favorevole al referendum. In un sondaggio YouGov di qualche tempo fa il 67% degli intervistati si è detto favorevole ad un “referendum sul rapporto tra Gran Bretagna ed Europa da tenersi a distanza di qualche anno”. Benché nella democrazia rappresentativa l’uso del referendum debba essere limitato, questo tipo di consultazione è diventato parte integrante dell’evolversi della costituzione britannica. A quarant’anni di distanza dall’ultima consultazione diretta sul tema europeo, il referendum del 1975, è giusto dare ai britannici una nuova occasione perché l’Unione Europea di oggi ha una portata ben diversa rispetto al cosiddetto “mercato comune” di allora.
Indire un referendum prima del 2015, come insistono certi conservatori euroscettici, equivarrebbe ad una totale perdita di tempo e ad un ingente dispendio di denaro dei contribuenti. Non sapremo ancora quale sarà l’Unione Europea del dopo crisi e non si può “rinegoziare” la convivenza della Gran Bretagna in una casa sconosciuta, unifamiliare o bifamiliare che sia. “Rinegoziare” e “rimpatrio dei poteri” sono termini in voga tra gli euroscettici che il Labour e i liberaldemocratici probabilmente non vorranno usare. La verità però è che la Ue è permanentemente in negoziato, oggi più che mai. Inoltre “rinegoziare” può significare in pratica qualunque cosa, da un minimo aggiustamento marginale (come dimostrò il premier laburista Harold Wilson prima del referendum del 1975 “rinegoziando” ai minimi termini) fino a un piano di completo distacco istituzionale, che ponga la Gran Bretagna sullo stesso fiordo della Norvegia (che non è Paese membro dell’Ue ma deve ottemperare a gran parte dei regolamenti dell’Unione per poter accedere al mercato europeo).
Quindi i leader dei tre maggiori partiti britannici dovrebbero impegnarsi ad indire il referendum “dentro o fuori”, ma tutti e tre finora hanno cercato di svincolarsi. Perché? Cameron paventa ripercussioni negative sul suo mandato di premier e un effetto dirompente all’interno del suo partito. Miliband teme che il referendum proietti un’ombra sinistra sul suo governo se il Labour vincerà le elezioni del 2015. Clegg ha timore che faccia perdere al partito Liberaldemocratico anche i pochi voti che gli ultimi sondaggi gli attribuiscono. In breve, per usare un termine reso popolare da Margaret Thatcher, tutti sono “frit” (espressione dialettale per frightened, spaventati). Sembra una parodia in stile Monty Python della sparatoria finale de “Il buono, il brutto e il cattivo”. Tre ottimi tiratori che si fissano negli occhi sotto il sole cocente — solo che nella versione britannica piove, le pistole sono ad acqua e i tre segretamente non vedono l’ora di andarsene a bere una buona tazza di tè. Ma non possono, e non devono. È vero, l’Europa non rientra tra le massime priorità degli elettori britannici. La gente ha in mente i posti di lavoro, il costo del carburante, la scuola, gli ospedali, la criminalità, l’immigrazione.
Ma pensa anche all’Europa. Quando, se sarà, le cose andranno meglio in patria e i contorni dell’Ue post-crisi saranno più definiti, i cittadini vorranno essere consultati. Se tutti e tre i leader di partito, il Buono, il Brutto e il Cattivo — lascio a voi decidere come distribuire i ruoli — dovessero accordarsi in questo senso, può darsi che nei prossimi anni la questione europea perda addirittura importanza in Gran Bretagna.
Non sarebbe però un rimandare alle calende greche. In questo caso il domani è vicino, arriverà tra il 2015 e il 2020. Dopo più di quarant’anni avremo nuovamente la possibilità di condurre un dibattito serio sulla posizione della Gran Bretagna in Europa e nel mondo — ben diverso dalla guerra montata dai tabloid che abbiamo vissuto nei vent’anni successivi al trattato di Maastricht, difficile parto dell’allora primo ministro conservatore John Major. Sarà compito dell’attuale governo conservatore-liberaldemocratico e del governo successivo, qualunque sia il suo colore politico, porre le basi, collaborando per quanto possibile con i partner europei, al fine di ottenere l’accordo più vantaggioso per la Gran Bretagna. Tutto questo è fattibile, lo dimostra l’ottima decisione recentemente assunta sull’unione bancaria dell’eurozona. Nell’Ue c’è chi ci vedrebbe volentieri girare sui tacchi (come si dice in francese?) ma anche chi, e sono molti, non da ultimi i tedeschi e i polacchi, davvero auspica che restiamo.
La mia attività di saggista ed editorialista è da sempre legata alle tematiche europee e personalmente guardo con entusiasmo alla prospettiva di un grande dibattito referendario. Credo che saremo noi filoeuropei a vincere, anche se molti dei miei amici temono il contrario. Non penso che i britannici si siano fatti frastornare dai miti euroscettici spacciati dal Sun e dal Daily Mail al punto da decidere che uscire dall’Ue e ritrovarsi come la Norvegia, ma senza petrolio, o la Svizzera, sia l’opzione migliore per questo Paese. E se invece vinceranno gli euroscettici? Beh, sarà un errore storico, ma lo avrà voluto il popolo. Sono un sostenitore del progetto europeo, ma ancor più credo nella democrazia. Forza allora, votiamo, e vinca la logica migliore.
Traduzione di Emilia Benghi

l’Unità 21.12.12
Mutilazioni genitali, l’Onu dice sì al bando universale
di Roberto Arduini


Infibulazione, escissione. In due parole la storia tragica di moltissime bambine e donne che subiscono l’atrocità delle mutilazioni genitali (Mgf). L’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato la Risoluzione di messa al bando universale di queste pratiche, depositata dal Gruppo dei Paesi dell’Africa, il continente più interessato a questa usanza, e in seguito sostenuta dai due terzi degli Stati membri delle Nazioni Unite. Il consenso al provvedimento è stato ampio e per la prima volta le Nazioni Unite si pronunciano su un fenomeno che è ritenuto lesivo della dignità e della salute di milioni donne in tutto il pianeta. Con la delibera l’Onu esorta gli Stati a sanzionare penalmente le mutilazioni genitali femminili, siano esse praticate all’interno di strutture sanitarie o altrove.
In Italia il voto è stato accolto in maniera favorevole soprattutto dai Radicali, impegnati in prima linea nella battaglia, e riuniti nella sede romana del partito per assistere alla votazione al Palazzo di Vetro di New York. «Questa Risoluzione rappresenta una conquista di civiltà per tutti, donne e uomini, e un risultato di cui essere fieri», ha detto Emma Bonino presente a Roma, insieme allo stesso Marco Pannella, impegnato nello sciopero della fame e della sete per la sua battaglia di legalità. Tra i presenti, Khady Koita, presidente dell’associazione La Palabre, senegalese, Elisabetta Zamparutti, deputata radicale, di Nessuno Tocchi Caino, Elisabetta Belloni, Direttore Generale della Cooperazione allo Sviluppo, Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, gli ambasciatori di Svezia e Nigeria, il presidente del senato Schifani, Anna Fendi e molto altri dei principali attivisti che hanno partecipato alla campagna durata dieci anni.
Da New York i commenti sono stati altrettanto entusiasti. «È un messaggio di speranza per milioni di bambine e ragazze», ha detto Der Kogda, il rappresentante del Burkina Faso.
Nello specifico, le mutilazioni genitali femminili sono pratiche tradizionali attive in 28 paesi dell’Africa sub-sahariana e consistono nella rimozione di alcune parti degli organi riproduttivi delle bambine per scopi non di tipo terapeutico. Secondo le ultime statistiche riguarderebbero circa 140 milioni di donne. Le due più diffuse sono appunto l’infibulazione e l’escissione. La prima consiste nella rimozione della clitoride, delle piccole labbra, di una parte delle grandi labbra e nella successiva chiusura del foro vaginale. L’escissione è una pratica più blanda che prevede la mutilazione della clitoride e delle piccole labbra. Oltre al trauma psicologico, le bambine sulle quali vengono praticate queste operazioni, sono spesso vittime di infezioni gravi che possono condurle anche alla morte.

La Stampa 21.12.12
Per La Cina è stato l’anno dei sogni
di Ilaria Maria Sala


Qual è la parola e il carattere dell’anno? Secondo la Cina, non vi sono dubbi. Si tratta di, pronunciato “meng”, ovvero “sogno”. Dal 2006, infatti, ogni dicembre viene scelto il carattere che meglio rappresenta l’anno appena trascorso, selezionandolo fra le parole che sono apparse più frequentemente sui media nazionali – a cui si aggiunge una parola composita, e un carattere e parola composita per descrivere il mondo nello stesso periodo. Una commissione formata dal Centro nazionale per il monitoraggio e la ricerca sulla lingua nazionale, il gruppo Commercial Press e la China Network Television, stabiliscono quale carattere fra i primi classificati meglio si addica a descrivere gli ultimi dodici mesi e più in generale il sentimento nazionale attuale. Ed è stato dunque selezionato il poetico “sogno”: un termine che magari a noi, in un’Europa scossa dalla lunga crisi economica e dai timori sull’euro, può sembrare un po’ lontano, e che invece in Cina viene indicato come il più rappresentativo.
La Commissione ha inoltre specificato che il “sogno” in questione sarebbe già stato realizzato, indicandone come prova l’assegnazione del Nobel della Letteratura a Mo Yan, la prima portaerei Made in China, ma anche i successi degli scorsi anni come il fatto di aver ospitato le Olimpiadi e l’essersi classificati fra i primi nel medagliere, o l’aver dato il via alle esplorazioni spaziali.
Visto che il “sogno” non si presenta solo, la parola composita dell’anno, come poteva essere prevedibile, è “Isole Diaoyu” – il nome cinese delle isole che Pechino e Tokyo si litigano, Senkaku in giapponese – mentre la parola internazionale dell’anno è “heng”, traducibile con “misure e controlli”, un po’ più astratta. Secondo la Commissione rappresenterebbe la “preoccupazione mondiale per l’equilibrio dei poteri”. Infine, quella composita internazionale è “xuanju”, “elezioni”, il riflesso dell’ondata di scrutini che ha attraversato il globo nel 2012 (ovviamente non in Cina).
Torniamo però a “sogno”, il carattere nazionale: il prossimo Presidente cinese, Xi Jinping, ha da poco pronunciato un discorso in cui ha parlato proprio del “sogno cinese”, definito come il “compiersi della grande rinascita della nazione cinese”. È il primo spiraglio che si apre sui pensieri del nuovo leader, ed è stato interpretato con una certa inquietudine dalla maggior parte degli osservatori, che temono negli anni a venire un accrescersi ulteriore del nazionalismo cinese.
Fatto sta che moltissimi utilizzatori dei siti di microblogging chiamati weibo hanno cominciato a discutere del loro “sogno cinese”. I più ri-twittati sognano la fine del nepotismo e della corruzione – ma molti si accontenterebbero di “latte in polvere per bambini sicuro” e meno inquinamento. Altri, scavalcando il muro di censura ed esprimendosi sui social media internazionali come Twitter, hanno riproposto un famosissimo motivo di Hong Kong, che viene cantato ogni anno alla veglia per l’anniversario di Tian’anmen, chiamato proprio “Il sogno cinese” e che ne è divenuto un po’ l’inno. Dice che il sogno di tutti i cinesi sarebbe la democrazia. Ma di sicuro la Commissione linguistica non pensava alla canzone – e il sogno di cui ci parla è piuttosto quello di affermazione nazionale espresso anche da Xi Jinping.
Quello che è veramente curioso, però, è che il sogno in questione, nella definizione data dalla Commissione che seleziona il carattere dell’anno, sarebbe già stato coronato: resta da vedere che cosa viene dopo, per i cinesi, ma anche per noi – che abbiamo sogni ancora tutti da realizzare e da sognare.

l’Unità 21.12.12
Israele, al via mega progetto sulle colonie
L’Ue: «Scelta gravissima»
di U.D.G.


Dopo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, anche l’Unione Europea ha preso posizione contro la prevista realizzazione da parte di Israele di nuovi insediamenti per i coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania: in un comunicato Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dei Ventisette, sottolinea di «opporsi con forza a una tale espansione senza precedenti degli insediamenti» intorno alla Città Santa, che definisce «estremamente allarmante» perché rischia di vanificare definitivamente il processo di pace con l’Autorità Nazionale Palestinese. «L’Unione», scrive infatti il capo della diplomazia comunitaria, «si oppone in particolare all’attuazione di piani che espongono a gravi rischi le prospettive di una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese, mettendo a repentaglio la possibilità stessa di uno Stato palestinese coeso e fattibile, e di Gerusalemme come la capitale futura di due Stati. Alla luce del proprio essenziale obiettivo di realizzare la soluzione dei due Stati», prosegue lady Ashton, «l’Unione seguirà con la massima attenzione l’evolversi della situazione e le sue più ampie implicazioni, agendo di conseguenza».
Nella nota, «Mrs Pesc» sottolinea tra l’altro che i nuovi insediamenti di fatto taglierebbero completamente i collegamenti tra Betlemme e Gerusalemme. Durissima anche la reazione di Parigi: «Il rilancio senza precedenti dei progetti di colonizzazione è una provocazione che danneggia in primis la fiducia necessaria alla ripresa dei negoziati e ci porta a interrogarci sull’impegno di Israele a favore della soluzione dei due Stati», dichiara il portavoce del Quai d’Orsay, Philippe Lalliot.
Israele sarà «responsabile» della costruzione dei nuovi insediamenti programmati a Gerusalemme Est e in Cisgiordania: questa la prima reazione dell’Anp all’approvazione da parte del governo israeliano di un progetto per la costruzione di altre 523 abitazioni che andranno a costituire «una nuova città a Gush Etzion». «I coloni e il governo israeliani dovrebbero ben sapere che saranno chiamati a risponderne», dice Nabil Abu Rudeina, portavoce e consigliere del presidente dell’Anp, Abu Mazen, ricordando come lo status palestinese di Paese osservatore non membro dell’Onu permette di ricorrere davanti alle istanze giuridiche internazionali.

Corriere 21.12.12
L'«enigma» Nancy Lanza
Vittima o vero carnefice?
La madre del killer e la sua mania delle armi
di Maria Laura Rodotà

qui

Corriere 21.12.12
«I nostri massacri in Algeria» Arriva il mea culpa di Hollande
Storico discorso alle Camere riunite dell'ex colonia
di Stefano Montefiori


PARIGI — Nel più puro stile Hollande, le cui parole d'ordine sono da sempre «trovare la sintesi» e «rassembler» (unire) con il perenne rischio di accontentare tutti e nessuno, il presidente francese nel solenne discorso al Parlamento di Algeri ha riconosciuto ieri «le sofferenze che la colonizzazione ha inflitto all'Algeria», ma senza arrivare a pronunciare le scuse della Francia che molti ex combattenti, oggi deputati algerini, seduti davanti a lui, si attendevano.
Hollande preparava questa visita da molto tempo, i suoi ministri più importanti — da quello dell'Interno Manuel Valls al responsabile del Quai d'Orsay Laurent Fabius — lo hanno preceduto nei mesi scorsi per preparare il terreno, e anche le dimensioni della delegazione — oltre ottanta persone — stavano ieri a testimoniare quanto il presidente tenesse a questo appuntamento. Al seguito di Hollande c'erano tra gli altri l'attore di origine algerina Kad Merad, protagonista di «Giù al Nord», e lo storico francese nato a Constantine Benjamin Stora, che ha dedicato una vita di studi all'Algeria e al doloroso processo di decolonizzazione. Un modo per mostrare, simbolicamente, la vicinanza tra i due Paesi e il desiderio di non nascondere la verità.
Ma il presidente aveva avvisato, «mi occuperò soprattutto del futuro delle relazioni tra Francia e Algeria più che del passato», e per questo se il suo viaggio sia stato un successo lo capiremo solo tra qualche tempo. Quanto all'aspetto memoriale, in molti lo aspettavano al varco, soprattutto dopo il discorso del Vel d'Hiv del luglio scorso, quando si era cosparso il capo di cenere a nome di tutto il Paese per la retata degli ebrei del 1942 rivendicando, suo malgrado, «un crimine commesso in Francia dalla Francia».
Avrebbe ripetuto lo stesso «mea culpa nazionale» pure ad Algeri? Lo temevano in molti, per esempio il filosofo Pascal Bruckner autore già trent'anni fa del Singhiozzo dell'uomo bianco nel quale denunciava l'ossessione occidentale del pentimento nei confronti del Terzo Mondo. Pochi giorni fa Bruckner sottolineava che «siamo solo discendenti di persone che hanno commesso crimini, non possiamo pentirci perché non abbiamo fatto nulla»; e pure lo scrittore algerino ma filo-occidentale Boualem Sansal notava che «il pentimento e la richiesta di perdono sono nozioni cattoliche che possono andare bene per le persone, non per gli Stati, e poi non bisogna fare altre concessioni a un regime antidemocratico come quello algerino».
Hollande è sembrato avere ascoltato le loro obiezioni, mentre parlava dalla tribuna del Parlamento algerino. «Voglio riconoscere qui le sofferenze che la colonizzazione ha inflitto al popolo algerino. Nel corso di 132 anni, l'Algeria è stata sottoposta a un sistema profondamento ingiusto e brutale». Ma le parole «scuse» o «pentimento» non sono state pronunciate. Hollande ha evocato il massacro di Sétif dell'8 maggio 1945 — «il giorno stesso in cui nel mondo trionfavano la libertà e la giustizia, la Francia veniva meno ai suoi valori universali» — e pure quelli di Guelma e di Kherrata, «radicati nella memoria e nella coscienza degli algerini».
Ma già Chirac nel 2005 aveva espresso rammarico per Sétif, e Nicolas Sarkozy due anni dopo definì il sistema coloniale «profondamente ingiusto, contrario ai valori della Repubblica». Niente di particolarmente nuovo, quindi, nelle parole di Hollande, quanto a quel che è stato.
Quanto al futuro, invece, François Hollande e il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika hanno assistito assieme alla firma dell'accordo che prevede la costruzione, alla periferia di Orano, di una fabbrica Renault che dovrebbe produrre a partire dal 2014 almeno 25 mila auto all'anno. Hollande poi ha rilanciato l'«Unione del mediterraneo» ideata e naufragata sotto la presidenza Sarkozy, ha proposto un programma di studi per i ragazzi del Mediterraneo sul modello dell'Erasmus nell'Unione europea, e promesso di facilitare la concessione di visti di ingresso per i giovani algerini in Francia.
Riconosciute le sofferenze, Hollande ha cercato di andare oltre. Per esempio visitando la «Brasserie des Facultés», il bar degli studenti della Facoltà di Algeri dove studiò nel 1978, o ricordando che la Francia è il primo investitore straniero in Algeria, e che le imprese francesi danno lavoro a 100 mila lavoratori algerini. In gioco ci sono gli scambi commerciali tra i due Paesi, la nuova proiezione della Francia nel Nordafrica post-primavere arabe (che non hanno toccato l'Algeria) e la cooperazione politica e militare in vista di un intervento contro gli islamisti del Mali.

l’Unità 21.12.12
Bosone superstar
La scoperta più importante dell’anno secondo la top ten di «Science»
Tra le dieci indicate dalla rivista americana ci sono la ricostruzione, da un frammento, del genoma dell’uomo di Denisova e il sistema di briglie inventato dagli ingegneri della Nasa per far atterrare su Marte il rover «Curiosity»
di Cristiana Pulcinelli


IL BOSONE DI HIGGS, cos’altro? Cos’altro poteva aggiudicarsi il titolo di scoperta fondamentale del 2012? È questa elusiva particella, ipotizzata dai fisici quarant’anni fa e da allora cercata in tutti i modi, ad aggiudicarsi il primo posto nella classifica delle scoperte scientifiche più importanti che la rivista americana Science compila ogni anno a dicembre. L’esistenza del Bosone è stata accertata infatti nell’anno che sta per finire, precisamente il 4 luglio scorso, quando un gruppo di ricercatori che lavorano con Lhc, il più grande acceleratore di particelle del mondo, ha dato l’annuncio: l’abbiamo visto (o meglio, abbiamo visto le tracce di una nuova particella compatibile con il bosone di Higgs che stavamo cercando. Tanto per essere cauti).
La scoperta ha messo al suo posto l’ultimo pezzo del puzzle che i fisici chiamano «Modello standard delle particelle». È la teoria che spiega come le particelle interagiscono fra loro attraverso la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole e quella nucleare forte per creare la materia dell’universo. La teoria funzionava perfettamente, a parte un piccolo problema: la massa. «Assegnare semplicemente una massa alle particelle faceva andare la teoria in tilt dal punto di vista matematico spiega Adrian Cho su Science così, si pensò che la massa dovesse emergere in qualche modo dalle interazioni tra le particelle stesse». In aiuto arrivò l’ipotesi del bosone di Higgs. I fisici hanno immaginato che tutto lo spazio-tempo sia permeato da un campo, il campo di Higgs, simile a un campo elettromagnetico. Le particelle che si muovono nello spazio-tempo interagiscono con il campo di Higgs per ottenere energia e, quindi, massa (secondo la famosa formula di Einstein per cui massa ed energia sono equivalenti). «Come un campo elettrico consiste di particelle chiamate fotoni, così il campo di Higgs consiste di particelle chiamate bosoni di Higgs che si muovono nel vuoto», continua Cho. Alla fine i fisici sono riusciti a portare alla luce la particella finora solo immaginata.
Naturalmente la scoperta non è stata semplice né economica. Migliaia di ricercatori hanno lavorato per mesi attorno a Lhc, una macchina costata 5,5 miliardi di dollari che si trova presso il Cern di Ginevra. Ma i risultati sono stati sorprendenti: hanno catturato l’attenzione di tutti i mass media del mondo e portato la fisica delle particelle nelle case. Quello che ancora non è chiaro, scrive Science, è dove la scoperta del bosone porterà la fisica delle particelle in futuro.
Accanto alla scoperta della particella «speciale», ce ne sono altre a segnare l’anno che si sta per concludere. Science ne individua nove.
Il genoma dei Denisoviani. Una nuova tecnica ha permesso di sequenziare il genoma completo dell’uomo di Denisova, un ominide vissuto contemporaneamente a Neanderthal e Homo sapiens, utilizzando soltanto 10 milligrammi di materiale: il frammento di un osso del mignolo. L’analisi del Dna ha rivelato che il frammento apparteneva a una ragazza che aveva capelli scuri, occhi scuri e pelle scure e che è morta in Siberia tra 74.000 e 82.000 anni fa.
Uova da cellule staminali. Ricercatori giapponesi hanno mostrato che cellule staminali embrionali di topo possono essere indotte a trasformarsi in cellule uovo vitali. Le cellule ottenute, fertilizzate in laboratorio, hanno infatti dato vita a topolini. Il metodo richiede ancora madri surrogate (le uova si devono sviluppare nell’utero delle femmine che le ospitano), ma è uno strumento utile per studiare i fattori che influenzano la fertilità e lo sviluppo delle cellule uovo.

Curiosity. Benché Curiosity fosse troppo pesante per atterrare, gli ingegneri della Nasa hanno trovato un modo creativo di portare il rover sulla superficie di Marte. Hanno infatti creato un sistema di atterraggio chiamato Sky Crane che, grazie a tre briglie, ha poggiato delicatamente la macchina al suolo. In una prossima missione si pensa di recuperare i campioni che sta raccogliendo.
Il laser a raggi X e le proteine. Un laser a raggi X è stato utilizzato per determinare la struttura di un enzima richiesto da Trypanosoma brucei, il parassita che causa la malattia del sonno. La ricerca mostra le potenzialità del laser a raggi X nel decifrare le proteine.
Ingegneria genetica di precisione. Un nuovo strumento chiamato Talens (transcription activator-like effector nucleases) ha permesso ai ricercatori di alterare o inattivare specifici geni in alcuni animali e anche in cellule di pazienti con determinate malattie. Si tratta di una proteina che taglia il Dna in punti specifici. Una tecnica che sembra efficiente come altre tecniche di ingegneria genetica e meno costosa.

I fermioni di Majorana. Sono particelle strane che agiscono anche come le proprie antiparticelle. Della loro esistenza si è discusso per settant’anni, quest’anno un team di fisici e chimici olandesi ha fornito la prima prova della loro esistenza nella forma di quasi-particelle: gruppi di elettroni che interagiscono tra loro e che si comportano come una singola particella. Gli scienziati ritengono che qubits fatti di queste particelle sarebbero più efficiente nell’immagazzinare e processare i dati rispetto ai bit usati normalmente nei computer digitali.
Il progetto Encode. Uno studio lungo oltre dieci anni e i cui risultati sono stati pubblicati nel 2012 ha dimostrato che il genoma umano è più «funzionale» di quanto si pensasse. Solo il 2% del genoma codifica per proteine, mentre circa l’80% è attivo e utile, ad esempio, per accendere e spegnere i geni.

Interfaccia cervello-macchina. Un gruppo di ricercatori della Pennsylvania ha mostrato che una paziente paralizzata di 52 anni è stata in grado di muovere un arto meccanico con la mente e eseguire complessi movimenti in tre dimensioni. Per ora la tecnologia è sperimentale e molto costosa, ma si spera di poterla utilizzare per aiutare pazienti paralizzati. Neutrino. Centinaia di ricercatori che lavorano al Daya Bay Reactor Neutrino Experiment in Cina hanno scoperto l’ultimo parametro di un modello che descrive come i neutrini si trasformano da un tipo (o «sapore» come dicono i fisici) a un altro quando viaggiano quasi alla velocità della luce. Il risultato suggerisce che negli anni a venire la fisica del neutrino sarà molto ricca e neutrino e forse un giorno potrà spiegare perché l’universo contenga così tanta materia e così poca antimateria.

Corriere 21.12.12
Quel Bosone che ha Cambiato la Scienza
di Anna Meldolesi


Stavolta la rivista Science non ha avuto dubbi e nemmeno noi: la scoperta del 2012 è il bosone di Higgs. Il riconoscimento, anzi, gli va stretto. La particella uscita dal cilindro del Cern di Ginevra lo scorso luglio, dopo una latitanza durata decenni, può tranquillamente ambire al titolo di scoperta del decennio, al Nobel e ad altro ancora. Perché ci cambierà la vita? No, perché ha cambiato la scienza. Oggi abbiamo bisogno dell'acceleratore Lhc (Large Hadron Collider), che è costato miliardi ed è lungo chilometri. Ma seppure un giorno inventassimo un fantascientifico generatore di Higgs tascabile, dei nostri bosoni non sapremmo che farcene. Decadrebbero in meno di uno zeptosecondo. La ricerca scientifica è sempre un ottimo investimento, ma sono lontani i tempi dell'elettricità di Franklin o delle onde radio di Hertz, quando a una grande scoperta corrispondevano quasi automaticamente grandi applicazioni. Adesso creiamo particelle che nel nostro ambiente ordinario semplicemente non esistono e probabilmente non vi troveranno mai posto. Eppure il bosone di Higgs merita tutta l'attenzione del mondo. Non sarà la particella di Dio, come ci siamo abituati a chiamarlo con una suggestiva metafora che ha infastidito credenti e non credenti. Ma si può ben dire che è «la particella ai confini dell'universo», come recita il titolo del bel libro appena pubblicato in America da Sean Carroll. Il bosone di Higgs, infatti, ci conduce proprio là dove corre la frontiera più remota della conoscenza. È l'ultimo mattone necessario per completare la struttura portante del vecchio e glorioso edificio teorico della fisica delle particelle (Modello Standard). E (forse) il primo mattone della nuova fisica prossima ventura. In quel «forse» è racchiusa una pesante responsabilità per Higgs, il cui campo conferisce la massa ad elettroni e quark, rendendo possibile la formazione di atomi e molecole. In definitiva consentendo la vita. Averlo trovato è una vittoria dell'intelletto umano, anche se qualcuno in cuor suo spera che il bosone si comporti in modo anomalo e rilanci la sfida: «Mi avete acciuffato, ma non mi avete ancora compreso!». C'è chi immagina due bosoni di Higgs diversi, anziché uno. Così favoleggiano in questi giorni alcuni blog scientifici, sulla base dei diversi valori di energia registrati nei due esperimenti fratelli del Cern (Cms e Atlas, quest'ultimo coordinato dalla nostra Fabiola Gianotti, fresca contendente per il titolo di persona dell'anno secondo Time). La supersimmetria ne prevede addirittura cinque, di bosoni di Higgs. Di sicuro la natura non è ancora nuda davanti ai nostri occhi. La gravità non ha smesso di essere un osso duro per i fisici teorici e la materia ordinaria costituisce solo una frazione dell'universo. Il bosone di Higgs rappresenta il portale tra il mondo che conosciamo e altri mondi nascosti, con materia oscura, supersimmetrie, dimensioni extra e via fantasticando. Per esplorarli e mapparli abbiamo bisogno di dati, e per procurarceli dovremo costruire acceleratori via via più potenti. I costi sono alti, le ricadute immediate scarseggiano, la minaccia della guerra fredda che in passato ha spinto la corsa della fisica è ormai un ricordo sbiadito. I bambini fanno domande su domande per il solo gusto di capire come funzionano le cose. Se noi adulti smettiamo di farcele, o pretendiamo contropartite sicure, allora il Modello Standard potrebbe essere tutto ciò che la natura è disposta a rivelare di sé. «La scoperta del bosone di Higgs è una pietra miliare», scrive Adrian Cho su Science. «Ne seguiranno altre, anch'esse epocali?».

l’Unità 21.12.12
Quattro madri chiuse in manicomio
«Maternity blues» L’esordio alla regia di Elena Arvigo una piacevole sorpresa nonostane il tema: l’infanticidio
di Francesca De Sanctis


NON C’È ASSOLUZIONE. E NEPPURE CONDANNA PER LE QUATTRO MADRI ASSASSINE CHE ELENA ARVIGO attrice al suo esordio alla regia mette in scena nel suo emozionante spettacolo: Maternity blues, ancora in scena fino a oggi presso il teatro Argot di Roma. Non può esserci assoluzione, come non può esserci condanna, perché chi può dare una risposta a certe domande? Ma qualcosa dentro smuove questo spettacolo così ben interpretato dalle quattro attrici: la stessa Elena Arvigo con Sara Zoia, Elodie Treccani, Gilda Lapardaja. Dal libro di Grazia Verasani, a cui si è ispirato anche il film di Fabrizio Cattani, vanno in scena quattro moderne Medee. Stavolta siamo in un ospedale psichiatrico giudiziario. In una stessa cella convivono quattro madri che hanno ucciso i loro figli: la dolce Marga, ultima arrivata; l’aggressiva Eloisa, irruente e “anarchica”; la giovanissima Rina, che porta nel cuore le sue montagne, e Vincenza, la più riflessiva e responsabile, che in realtà scopriremo essere la più debole...
Le loro storie vengono a galla un po’ alla volta, a piccoli pezzi, così come sono ormai ridotte le loro vite. Confessioni, confidenze, momenti di sconforto e di piccole gioie, tutto viene condiviso in questa cella dove nascono amicizie, anche fra donne che sembrano essere così distanti fra loro. Il dolore unisce, ma non sempre cura. Quel sentimento di amicizia sembra essere l’unica molla capace di rendere accettabile la vita di queste donne, cariche comunque di sensi di colpa.
«Dal suicidio come atto di volontà e scelta scendiamo ad affrontare un tema altrettanto scabroso e intollerabile: l’infanticidio spiega nelle sue note di regia Elena Arvigo La riflessione è sull’istinto materno e sul bisogno rassicurante, per chi osserva, di creare mostri per non fermarsi a guardare».
UN TEATRO PERICOLOSO
Scava, infatti, in queste zone buie. In fondo anche il teatro può aiutare a comprendere. «Cerchiamo di fare un teatro che ponga delle domande non che dia delle risposte prosegue . Un teatro pericoloso, pericoloso nel senso etimologico della parola: dal latino periculum, ossia esperimento, rischio. Un teatro che rischi di trovare un po’ di luce e speranza lì dove sembra non esserci che tenebra». Rischiare, sì. Sempre rischiare in teatro. Solo chi ha il coraggio di farlo, forse, riesce a lasciare il segno.
(per maggior informazioni www.argotstudio. it, oggi l’ultima replica)