sabato 24 marzo 2007

il Riformista sabato 24 marzo 2007
GENETICA. IL NON TRASCURABILE RUOLO DEL PENSIERO NELLE RELAZIONI INTERUMANE
Il rapporto sessuale umano non è quello tra leone e leonessa
DI ANDREA MASINI

Ho letto con interesse l'originale dibattito che si è sviluppato nei giorni scorsi sul Riformista sul tema genetica-sessualità. In particolare ho trovato fondamentale quanto proposto il 17 da Paolo Fiori Nastro circa l'assoluta differenza tra sessualità umana e animale, un argomento che raramente ho visto trattare sulle pagine degli altri media. La proposizione più comune, infatti, ribadita anche da qualche intervento nel presente dibattito, è quella di cercare di comprendere la realtà umana partendo dal pensiero che l'animale sarebbe uguale all'uomo.
Anche la chiesa cattolica, che da sempre condanna con violenza incomprensibile la sessualità umana, sostiene che essa sia indissolubilmente legata alla procreazione, accettando la prima solo quando ha il suo fine nella seconda; in tal modo il pensiero religioso ha sempre teorizzato una sostanziale animalità del comportamento umano, dalla quale l'uomo si solleverebbe con la rinuncia e l'astinenza. Malgrado questo “veto”, la scienza ha reso possibile la separazione tra procreazione e atto sessuale con quegli atti medici che sono conosciuti sotto il nome di procreazione assistita. E anche se in Italia il pensiero cattolico l'ha resa difficile con la nota legge 40, di fatto nella società odierna sessualità e procreazione non sono più indissolubilmente legati.
La sessualità umana, come ha sostenuto anche Livia Profeti nel suo intervento, è «una modalità di rapporto interumano che (…) implicando non solo il corpo ma anche il pensiero cosciente e non cosciente, non obbedisce alle leggi della biologia evoluzionista», cioè non si lega agli istinti animali di sopravvivenza e moltiplicazione bensì a quella realtà caratteristica della nostra specie che è il rapporto interumano. Ciò che ci distingue dagli animali non è il comportamento, che pure è tanto diverso, ma quel pensiero che c'è dietro il comportamento e che fa sì che l'uomo costruisca la cappella Sistina e gli animali abitino le tane.
Quello che vorrei aggiungere al dibattito in corso è ciò che per me è più evidente: che tra il leone e la leonessa non c'è quel rapporto fatto di pensieri, immagini, sogni, sensazioni e tanto altro, che sempre precede il rapporto sessuale umano, lo accompagna e poi eventualmente lo segue. Non si capisce perché nell'affrontare questi argomenti non si prenda mai in considerazione quella realtà mentale che negli esseri umani si realizza già negli anni che precedono la sessualità, la quale deve invece attendere che lo sviluppo biologico del corpo sia compiuto, alla pubertà. Stupisce che non si pensi mai che le realtà mentali dell'uomo e della donna iniziano molto tempo prima dello sviluppo della sessualità e nel precederla la determinano.
I rapporti interumani non possono essere compresi se non si prende in considerazione che il pensiero, in gran parte non cosciente, determina ogni comportamento umano e quello sessuale più di ogni altro. In questo senso, forse perché faccio lo psichiatra tutti i giorni, sono costretto a ricordare che questo pensiero non sempre è sano, e pensare-augurarmi che un ragazzo e una ragazza, prima di dormire insieme, si pongano quel problema che i gatti non hanno, ovvero se sia giunto realmente il momento di fare un figlio e di assumersi così l'onore e l'onere di ciò che questo comporta.
E con ciò pronuncio un altro grazie alla scienza, che con la contraccezione ha contribuito non poco alla nostra “liberazione” rendendo la sessualità una possibilità di rapporto interumano senza “incidenti” procreativi. Così i ragazzi di oggi possono cominciare la loro vita amorosa, e con questa sviluppare la loro identità umana rinviando ad altro momento quella realtà della procreazione che presuppone invece un'identità già realizzata.
Considerata sempre ricerca del piacere, se non confusa con un qualche bisogno fisiologico di “scarica”, la sessualità non è stata mai vista nella sua realtà di ricerca di una identità maschile e femminile che, realizzandosi nel rapporto con l'altro, potrebbe essere il massimo della realizzazione umana. Realizzazione che in questo caso non starebbe tanto in una brillante carriera professionale di medici, avvocati, operai o politici, ma in una identità umana che propone un'uguaglianza per la quale qualunque differenza sociale, di età o di nazionalità, rappresenta soltanto una variazione priva di significato.

l'Unità 24.3.07
CONTROSTORIE La trasmissione su Rai2 dedicata allo scenario ipotetico di una disfatta della Dc e di un’affermazione del Fronte popolare: simulazione plausibile e stimolante
Minoli e la storia con i se. Incredibile ma funziona
di Bruno Gravagnuolo


La storia con i «se». Detestata da Croce, tenuta in gran conto da Max Weber, idolatrata oggi negli Usa e in Gran Bretagna, sotto forma di fantastoria narrativa, approda infine anche in Italia. In format audiovisivo. È accaduto ieri l’altro dopo le 23 su Rai2 nella trasmissione di Minoli La storia siamo noi, fascia oraria tarda ma propizia alle riflessioni. Tema: cosa sarebbe accaduto se il Fronte popolare avesse vinto le elezioni il 18 aprile 1948?
Interrogativo dipanato così. Sullo sfondo i testimoni, al modo del coro greco, oltre al conduttore Minoli. E cioè da una parte Andreotti e Sandro Curzi, e dall’altra due storici di diversa formazione. Il defeliciano Emilio Gentile e la socialista Simona Colarizi. Ne è venuto fuori un racconto plausibile, da diverse angolature, con ciascuno degli attori disposto a simulare, come se gli avvenimenti si fossero svolti al modo comandato dall’ipotesi di fondo: la vittoria del Fronte con il 53% contro il 31% della Dc. Il contrario esatto di quel che effettivamente avvenne.
Altra risorsa scenica, le immagini di repertorio. Montate anch’esse «come se», come a descrivere filmicamente i fatti ipotetici assunti come veri. Conclusione: un esperimento riuscito. Calibrato e persino «rigoroso», per quanto una simulazione del genere possa esserlo. E malgrado gli opposti punti di vista di Gentile e Colarizi. L’uno convinto che il Pci avrebbe imboccato una via moderatissima a vittoria conseguita, nel tentativo di barcamenarsi tra l’ombra degli Usa e le spinte più radicali. L’altra persuasa al contrario che Togliatti e i suoi non potevano che imporre una dittattura del proletariato. E nondimeno la conclusione di tutti, e quella del racconto che ne è scaturito, è stata unanime. Vale a dire, quella vittoria del Fronte sarebbe durata lo spazio di un mattino. Perché sarebbero entrate in gioco forze potenti a stroncarla. Dagli Usa nel Mediterraneo, al Vaticano, ai ricostituiti apparati dello stato, polizia, prefettura carabinieri. In più la nascente repubblica «socialista» sarebbe stata strangolata dal blocco economico e dal mancato accesso al piano Marshall. Senza dire che l’Urss, non avrebbe potuto, né voluto fare più di tanto, alle prese com’era con la stabilizzazione del suo blocco all’est. L’epilogo del racconto di Minoli è stato allora l’esplodere della guerra civile, innescata da una provocazione armata in Piazza S. Pietro, a confermare i timori dei «cosacchi». E coronata dal ritorno dei Savoia nel 1956, dopo anni di semi-dittattura scelbiana, e di inutile resistenza rossa sulle montagne.
Che dire di tutta la simulazione? Innanzitutto che questo schema «controfattuale» funziona, è plausibile. E costituisce una risposta indiretta alle tante sciocchezze ascoltate proprio ieri l’altro a Roma al Convegno sul Pci aperto da Fabrizio Cicchitto. La cui tesi suonava fra l’altro: «Pci che avrebbe fatto come in Russia, stante la sua natura eversiva ed eterodiretta da Mosca». E funziona lo schema per una serie di ragioni forti. Vediamone alcune. Primo, Togliatti non voleva né poteva volere in quelle condizioni una «democrazia popolare». Sapeva benissimo che i giochi geopolitici erano fatti dopo la guerra, e che al massimo si sarebbe potuto inoltrare su una via neutralista moderata, e non antiamericana. Per questo aveva ipotizzato una strada molto lenta e lunga basata su un’economia guidata senza toccare ceto medio e piccola impresa, ma anche contrattando la ripresa economica con la grande impresa, arginandone il potere monopolistico. La cornice restava dunque la Costituzione repubblicana, l’intesa con i cattolici e la Chiesa. E un’attesa di scongelamento della guerra fredda incipiente. Il tutto da un lato contro Secchia, e la «via jugoslava» a supporto di una radicalizazzione a sinistra. E dall’altro contro l’Italia più reazionaria, da isolare e marginalizzare.Via strettissima perciò, a egemonia progressiva e «gramsciana», e ad economia mista e non di comando. Con l’assunzione piena del modello parlamentare, benché senza chiarezza sull’assunzione netta delle regole liberali dell’alternanza. Piccolo particolare non controfattuale. È provato che gli Usa avrebbero stroncato il tentativo. E lo dimostrano gli scenari dei servizi americani oggi declassificati. Sicché a conti fatti quanto disse una volta Riccardo Lombardi non è tanto paradossale: «La sconfitta del 18 aprile ci salvò da noi stessi».

Repubblica 24.3.07
LA FAMIGLIA DOPO UN LUTTO
Psicoanalisi/ Il trauma della morte di un congiunto
di Luciana Sica


È un momento drammatico, una svolta. Ma può anche diventare un'occasione di crescita
La raccolta di saggi, curata da Maurizio Andolfi, indaga sui traumi nelle persone e nelle relazioni
"Da una perdita si può passare a un modo nuovo di stare insieme accettando la fragilità"
"Prima del dolore si può essere egoisti o narcisisti Dopo tutto si ridimensiona"

ROMA. Maurizio Andolfi è un terapeuta della famiglia, noto anche all´estero, un uomo singolare per i suoi modi diretti, quasi bruschi, tipicamente "romaneschi", coniugati a una competenza rigorosa, a una grande esperienza teorica e clinica, a quel pragmatismo di scuola anglosassone così lontano dalle pose intellettuali di certi sapienti dell´anima.
Sessantaquattro anni, neuropsichiatra infantile, professore alla facoltà di Psicologia della "Sapienza", direttore dell´Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Andolfi è un uomo allegro, pieno di simpatia e di curiosità. Forse è anche per queste caratteristiche umane che può sorprendere il suo interesse per un tema come il lutto, per la condizione di vuoto e di dolore che segue la scomparsa di una persona amata - in modo particolare per quella catastrofe che è la morte improvvisa di un figlio: l´incubo sempre presente e sempre rimosso di ogni genitore.
Le perdite e le risorse della famiglia (Raffaello Cortina, pagg. 322, euro 24): basta la titolazione per intuire l´estraneità totale alla celebre "elaborazione del lutto" in chiave psicoanalitica, del libro collettaneo che Andolfi ha curato insieme a un collega più giovane ma già affermato - Antonello D´Elia, psichiatra e psicoterapeuta, "didatta" dell´Accademia romana, che firma i due saggi iniziali, tra i più brillanti del volume.
Se da Freud in poi, il lutto è sempre stato affrontato dalla psicoanalisi in termini individuali (intrapsichici), per la risonanza profonda che assume nella vita più intima del soggetto colpito dal dolore, questo libro - anche piuttosto "tecnico" ma di un suo innegabile interesse - può vantare un´originalità assoluta (almeno per quel che riguarda il nostro Paese): qui si indaga principalmente sugli effetti che il lutto produce nella dimensione più ampia della famiglia.
È ovvio: la perdita sempre dolorosa di una vita - tanto più se di una giovane vita - mette in moto una serie di dinamiche complesse all´interno della famiglia che ne è sconvolta, comporta - anzi impone - dei profondi mutamenti personali e relazionali. Gli esiti però sono imprevedibili. Ed è qui che le pagine di questo libro si fanno più interessanti, legate come sono alla lunga esperienza clinica degli autori. Se molto spesso un lutto cristallizza o disgrega i legami familiari, a volte - certo, un po´ paradossalmente - può invece significare una "opportunità" di crescita, costituire un punto drammatico di svolta per un cambiamento, grande e positivo, con se stessi e con gli altri. Col tempo non è escluso che una famiglia risulti più unita, "rafforzata", più capace di autentica affettività al suo interno e al di fuori.
«La prima fase di ogni lutto è la distanza, la chiusura, anche per la difficoltà che in genere si ha a esprimere i propri sentimenti più depressivi. Il dramma del lutto è che non si perde soltanto il familiare scomparso, ma anche altre figure significative, o che sembravano tali fino a quel momento». È Maurizio Andolfi a parlare, nel suo studio romano a due passi da Villa Torlonia. «La perdita di una persona amata procura sempre un terremoto all´interno di un gruppo familiare. Il lutto non unisce mai, anzi quasi per sua natura separa, legato com´è al particolare significato che quella perdita ha per ciascuno dei membri di una famiglia. Quando si è colpiti da un grande dolore, si vive come in un mondo a parte, in uno stato dissociato dalla realtà dove vengono svalutati un po´ tutti i rapporti, anche quelli più stretti».
All´inizio la vita non è più vita, solo un rosario di giorni spenti e ripetitivi: è sopravvivere. Ma poi può succedere "qualcosa", che non è solo - banalmente - tornare a vivere. Il punto infatti è come si riprende il rapporto con la realtà, con quali trasformazioni interne e con quale atteggiamento nei confronti degli altri, a cominciare dalle persone più vicine.
Andolfi: «Non è un´idea astratta, o romantica, noi l´abbiamo verificato tante volte nel lavoro con le famiglie. Da un lutto "incestato" si passa a volte, attraverso una circolazione della sofferenza, a un modo nuovo di stare insieme, dove al centro c´è l´accettazione del proprio essere fragili, così indifesi nei confronti della sventura, la capacità di stare a contatto con le proprie emozioni e di saperle comunicare, di non proporsi più come pure maschere, nei soliti ruoli aridi, abitudinari, ripetitivi».
È attraverso l´esperienza del dolore che fantocci senz´anima diventano finalmente esseri vivi, palpitanti, affettivi: è in questo caso che il lutto rappresenta una "risorsa" di aggregazione, imponendo un nuovo modo di essere, di stare al mondo in una gerarchia di valori diversa. Per dirla con Andolfi, «prima magari erano egoisti, grandiosi, onnipotenti, narcisisti, ma poi il lutto li ridimensiona, abbatte ogni falsa impalcatura, rende vulnerabili, costringe insomma a una revisione radicale dell´esistenza... Le morti che insegnano sono proprio quelle che distruggono certi obiettivi assoluti della vita».
Mettiamo i tanti drogati del lavoro, quegli uomini (e quelle donne) che hanno fatto della carriera un mito: le loro ossessioni professionali svaniscono, vanno in frantumi. «Mi è crollato tutto», confessano ai loro terapeuti, intuendo che quel tutto era solo una parte, e neppure la più importante. «La mia vita non ha più un senso», dicono, ma capita che poco alla volta scoprano che la vita possa avere anche un altro senso, e che sia possibile riprogettarla.
Nel lavoro faticoso del lutto, si produce un distacco netto tra presente e passato. L´esperienza vissuta con la persona scomparsa è alle spalle, irripetibile, ma quella ferita può aprire una tensione verso il futuro. Nella famiglia, la morte crea sempre un vuoto, ma spesso lo rivela: la perdita - con tutto il suo potenziale distruttivo, silenzi e sensi di colpa, rabbie e incongruenze - può essere il motore di profondi cambiamenti, e la sensibilità nei rapporti umani aumentare di molto.
Insomma il vero vuoto fa apparire la "felicità" precedente come, essa stessa, in fondo vuota. Lo raccontava perfettamente il film più straziante di Nanni Moretti, e lì a sconfiggere il mostro del lutto celato nella "stanza del figlio" era una ragazza di nome Arianna (un nome, certo, non scelto a caso - come anche il dedalo di corridoi nell´appartamento, notava Tullio Kezich). E forse sarà proprio Arianna a salvare la famiglia, a farla uscire da quel labirinto invisibile che è la loro vita incagliata nel dolore. Tra l´altro il protagonista della storia - il padre, interpretato dallo stesso Moretti - è uno psicoanalista e molti hanno voluto vedere il film come una metafora della morte dell´analisi.
«A me - dice Andolfi - La stanza del figlio ha fatto pensare piuttosto a un discorso sulla finalità dell´analisi che, come ogni terapia, in fondo non può essere che il confronto con il vero lutto, con la mancanza reale, con la morte. E anche che certi cambiamenti possono non essere lenti, graduali, ma improvvisi, folgoranti».
Viene in mente almeno un altro film, Tutto su mia madre di Pedro Almódovar. Lì non esiste traccia di una famiglia tradizionale: c´è una donna sola con un figlio adolescente, che muore in un incidente stradale. Una storia terribile, che fa pensare anche a come oggi le famiglie - così poco numerose, così diverse dal passato - abbiano certamente più difficoltà a contenere in un gruppo solidale un destino di dolore.
Ora Almodóvar è noto per essere un omosessuale che adora le donne (ne ha un´ammirazione che sconfina forse nell´invidia), quasi tutto il suo cinema ruota intorno a figure femminili memorabili. E così, anche quella donna privata del suo amore più incondizionato, non risulterà sconfitta, annichilita dalla perdita. Anzi sarà capace di rinascere, di recuperare la sua vita precedente forse più problematica ma intensa.
Nella vita reale, sarà però la stessa cosa? Una donna sola può davvero sopravvivere alla morte del proprio unico figlio? C´è da dubitarne, ma Maurizio Andolfi non lo esclude: «Le donne - per loro natura - partecipano ai processi profondi della vita. Quando sono colpite dal dolore, non lo sfuggono, ci stanno molto vicino per lungo tempo, non cercano scorciatoie. "Sentono" che quella è l´unica strada, perché in effetti è solo così - accettandolo, il dolore - che lo si può poco alla volta attraversare, è così che si fa il salto... Ho visto più volte madri reagire alla catastrofe, spesso facendo da ponte ad altre vite intorno a sé: donne inesauribili, che tendono a ricostruire una loro famiglia nel sociale. Le donne credono profondamente nella vita, non a caso ne sono le artefici: sanno che si nasce e si muore da soli, ma anche che si cresce e si cambia con gli altri».

Repubblica 24.3.07
Hegel. Il suo pensiero è una spietata macchina da guerra
"La fenomenologia dello spirito"
di Antonio Gnoli


Due secoli fa, nel marzo del 1807, usciva l'ardua opera del grande filosofo: sgomentò non pochi lettori
L'editore Goebhardt, spaventato dalla mole e dall'oscurità del testo, decise di stamparne solo 750 copie
La leggenda vuole che finisse di scrivere questo saggio il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena vincitore

Nel marzo del 1807, a trentasette anni, G. W. F. Hegel pubblicò La Fenomenologia dello Spirito. L´opera - ardua, oscura, indecifrabile - lasciò sgomenti i pochi lettori contemporanei messi di fronte a un linguaggio di astrusa profondità. Quasi un ventennio prima, anche Kant aveva seminato un eguale disorientamento. Tant´è che Fichte si spinse a dire che la fortuna del padre della "Critica" in larga parte si doveva alla sua oscurità. Ma non era un po´ tutta la filosofia tedesca minacciata dall´incomprensione? Da tempo il suo linguaggio si era spinto nelle dure terre dell´astrazione. Lo stesso Marx, che nasceva da una costola di Hegel, e che pure si era dato uno statuto di scienziato sociale, amava sorprendere con l´estro della enigmaticità. Anzi, dell´enigma egli fece una prerogativa della merce e della filosofia il suo specchio.
Il suo "maestro" dunque non era l´eccezione. Come non lo sarà un secolo e mezzo dopo Heidegger. La lingua hegeliana si pose al servizio di un compito immane: ricostruire il tempio della filosofia, utilizzando le stesse architetture che aveva in precedenza demolito. Non c´è grande filosofo che non abbia provato a radere al suolo le maestose città del pensiero da altri edificate. Al punto che si può immaginare la filosofia come una macchina da guerra che va alla conquista di territori, scacciandone gli abitanti o sottomettendoli.
Hegel ha solo reso esplicito il carattere bellico del più serafico tra i saperi. Ma per la prima volta il "parricidio" non era commesso contro un nome, un´identità, una figura, una persona, una scuola Bensì nei riguardi di tutto ciò che il pensiero aveva pensato fino a quel momento. Hegel non è solo un filosofo è anche un predatore dello spirito. C´è qualcosa di pantagruelico e spietato, di onnivoro e cinico nel suo atteggiamento. Deplora la stasi, diffida delle leggi (soprattutto quelle scientifiche), teme la forza dell´esperienza. Ma al tempo stesso sa che tutto ciò che lo deprime o l‘ostacola intellettualmente appartiene ancor prima che al cielo delle idee al teatro del mondo. Ciò che vi accade - con gli uomini che vi si agitano, le storie che vi si narrano, i pensieri che la ravvivano - è solo oggetto di spiegazioni parziali. Buone per giustificare un punto di vista, ma incapaci di restituire la verità nel suo splendore. Neanche Dio - per questo pastore luterano mancato - può aspirare a illuminarci. Le nostre vite, i nostri pensieri, le costruzioni a volte fantasiose, altre ancora mirabilmente serrate, sono agli occhi del filosofo destinate a perire. Come può immaginare una civiltà a prova di decadenza? Fino a dove può spingersi il pensiero senza cadere nel delirio dell´onnipotenza?
Dio deve calarsi nella storia e al tempo stesso la storia farsi in Dio. Sembra un gioco di prestigio, una sottigliezza. In realtà è l´ossessione che Hegel si porta dentro. Ha una conoscenza mostruosa della storia della filosofia. Il suo sguardo abbraccia l´Oriente e l´Occidente Da giovane si è invaghito di Eleusi, ha flirtato con i mistici (Eckart in particolare), ha scoperto la forza di Platone e Agostino. Conosce le virtù di Spinoza, ammira Rousseau, ma al tempo stesso ne diffida. Pensa allo spirito e alla politica. Non solo la potenza del pensiero speculativo, ma il disegno divino e i promettenti fasti della città celeste, pavimentano la sua ricerca. Dove e come realizzare un così poderoso programma? A quale verità intende aspirare? In quale abisso terrestre cerca l´eterno? L´ossessione si trasforma in una lenta e magistrale bulimia.
I pochi amici lo descrivono probo, ragionevole, dotato di quella sicurezza che le menti eccelse a volte sviluppano. Sotto quella calma in realtà batte il cuore di un Calibano. A volte - preso dal furore speculativo - mostrava la voracità del cannibale. In quelle circostanze era in grado di inghiottire ogni cosa. Non c´era boccone filosofico che egli non afferrasse per poi portarlo all´altezza del naso. Lo scrutava, lo annusava e in pochi istanti decideva se inghiottirlo o gettarlo come un rifiuto nella spazzatura. Si sentiva il sovrano di una tribù immaginaria, quella dello spirito, così come riconosceva a Napoleone la stessa potenza sul territorio della materia. La leggenda vuole che egli finisse di scrivere la Fenomenologia dello Spirito, il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena da vincitore. E annotò l´evento in una lettera: «Ho visto l´imperatore, quest´anima del mondo - cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina».
C´era qualcosa di cinematografico in quella descrizione. A volte Hegel indugiava sulle immagini. Improvvisamente la tetra foresta verbale della sua prosa si incendiava di colori bellissimi. E in fondo, si può anche pensare alla Fenomenologia dello Spirito come a un grande affresco hollywoodiano, una specie di movimentato dramma a lieto fine con protagonisti di alta classe e comprimari affidabili. Dopotutto, quello che i manuali avrebbero chiamato idealismo tedesco, si poteva anche interpretare come il sogno filosofico di una terra, la Germania, che aveva smesso di sognare. Ma in che modo la filosofia avrebbe potuto dire qualcosa di speciale e di definitivo rispetto alla scienza, all´arte, alla religione, alla politica? Quale "Assoluto" sarebbe stato all´altezza di questo compito? Quale "Totalità" capace di soddisfarne la smisurata ambizione?
Hegel non aveva il deserto alle spalle. Non c´erano dietro di lui nani della filosofia, ma titani che svegliavano il sonno del mondo costruendo grandi macchine del pensiero. Architetture rarefatte, ma pur sempre cattedrali della speculazione che non si potevano ignorare: Kant, Herder, Fichte, Jacobi, Schelling erano sorti come fiori astrusi da quel mondo asfittico e miserabile che era la Germania del Settecento. Un territorio che Marx condannerà all´inanità politica e che il giovane Hegel vedrà come una promettente occasione di rivalsa. Bastava sconfiggere quei giganti, divorarli con lenta determinazione e accrescere così la propria forza, per essere non più uno tra loro, ma l´unico. Il solo in grado di scrivere la parola fine. Perché era dalla fine che bisognava partire per tornare all´inizio e da qui ripercorrere tutto intero il cammino. Si trattava di uno sforzo intellettuale mostruoso la cui posta in palio era l´Assoluto. Non il vuoto astratto dei metafisici che lo avevano preceduto, ma quello denso di vita, palpitante di storie, ricco di eventi: un Dio appunto che si faceva storia e la storia che diventava Dio. Un Dio che era in grado di pensare se stesso fuori da sé e che alla fine, dopo la tormentata fuoriuscita tornasse in sé, arricchito dall´esperienza del mondo. Ecco l´esercizio acrobatico con il quale Hegel si apprestava ad addomesticare i giganti del passato, introducendoli alla sua corte.
Anni di studi e di soggiorni, a Tubinga, Berna, Francoforte, ne avevano affinato lo spirito dialettico. Poi c´erano stati gli anni decisivi di Iena: il rumore dei cannoni, i bivacchi delle truppe francesi che occupavano la città, i fuochi intravisti dalla finestra dello studio, ne eccitavano la fantasia. Un´alba nuova si annunciava. Un´alba che la Fenomenolo-gia, simile a un grande romanzo filosofico dall´andamento faustiano, avrebbe raccontato come la fine del vecchio mondo. Hegel voleva afferrare lo scorrere della vita, catturarne il movimento senza avvilirlo negli attriti dell´esistenza. Voleva che la vita si fregiasse di quel potere che essa stessa negava: il potere dell´esistenza umana sull´inquietudine, sull´angoscia, sulla finitezza, sulla morte.
Può suonare stravagante che un metafisico - quale in fondo egli è rimasto - volga lo sguardo al mondo delle cose e degli uomini e alla storia che tutto avvolge. Nulla è più infido e più instabile di quel suolo coperto di polvere e sangue, sovrastato dal rumore della battaglia, dagli echi dei passi dei soldati. Non è solo Iena. È il mondo che si riflette in quello spicchio di vita prussiana.
Differentemente da uno scrittore, un filosofo in genere non testimonia di sé e della propria vita, espone teorie. E ogni volta che lo fa spera di dimostrare se non in modo definitivo almeno profondo il suo grado di comprensione del mondo. Quella mitica entità che è l´Essere viene ostentata come lo scopo del suo lavoro, la ragione ultima del suo pensare. Non è necessario osservare che una tale metafisica risultava insoddisfacente per l´incapacità a sanare la distanza tra l´Uno e il Molteplice, tra l´Al di là e l´Al di qua, tra Dio e Mondo. La Fenomenologia avrebbe dovuto riempire quel vuoto, unire, in qualche modo, ciò che non era unificabile. Ma come tenere saldamente insieme la realtà sfuggente, ambigua, contraddittoria del mondo con la perfezione celeste? Come non sporcare l´Assoluto con le bassezze del mondo e al contempo in che modo innalzare quest´ultimo al cielo dell´idea? Lo strumento della dialettica - l´arma letale di cui Hegel si era fornito - avrebbe egregiamente svolto il compito.
Che ne è oggi delle Fenomenologia dello Spirito? Il lato aneddotico della domanda ci rimanda all´origine della vicenda. L´editore Goebhardt - spaventato dalla mole e dall´oscurità - ne stampò 750 copie. Poche settimane prima che l´opera fosse pubblicata Hegel divenne padre. Il 5 febbraio 1807 nasceva Louis, il figlio illegittimo avuto dalla sua portiera. Questo dramma, per lungo tempo tenuto nascosto ai biografi, tormenterà il filosofo (al punto che se ne troverebbero tracce nella stessa Fenomenologia). Louis porterà il cognome della madre. E sebbene si sentisse particolarmente legato al bambino, Hegel ne rifiuterà la paternità. Proverà a inserirlo nella famiglia che nel frattempo aveva creato con una moglie che gli darà due figli. Ma Louis Fischer - che commosse Goethe per la sensibilità e l´intelligenza - non riuscì mai a integrarsi. Ormai ventenne si arruolò nell´esercito olandese e morì di febbre a Giava il 28 agosto 1831. Due mesi dopo Hegel sarebbe morto per l´epidemia di colera che si era diffusa a Berlino. Prima di morire aveva rimesso le mani sul suo capolavoro. Ma fece in tempo a rivedere solo una trentina di pagine. Morì che era un filosofo celebre ed ostico. La Fenomenologia dello Spirito fu un testo poco amato nell´Ottocento. La sua fortuna fiorì improvvisa nel Novecento, tra le due guerre. In Francia Jean Wahl, Alexandre Koyré, Jean Hyppolite e soprattutto Alexandre Kojève contribuirono al suo sdoganamento. Gyorgy Lukàcs e Ernst Bloch ne rilevarono l´importanza. Anche Heidegger fornì la sua interpretazione. Come mai tanta attenzione?
Pensando il mondo, Hegel lo immagina come un teatro: un insieme di scene sfilano sotto il suo sguardo. Da questo punto di vista, lo svolgersi della Fenomenologia avviene attraverso un movimento che dalla coscienza immediata approda al Sapere Assoluto. Il cammino - che ha la forma di un vero e proprio viaggio - è cosparso delle esperienze che lo spirito dovrà fare. L´intelletto, la coscienza infelice, la lotta tra il servo e il signore e il desiderio del riconoscimento, il farsi della legge, il piacere e la necessità, il passaggio dal mondo feudale alla monarchia, le anime belle e l´eroismo, l´illuminismo e la superstizione, la libertà e il terrore, il misticismo e la religione rivelata, sono alcuni dei tableaux che troviamo nell´opera. Hegel li disegna riducendoli al suo linguaggio. L´oscurità che li avvolge è la garanzia che qualcosa di ignoto sta venendo alla luce.
Non si può evitare di concludere che ciò che viene incontro al lettore è un abilissimo gioco acrobatico dove arbitrio e necessità familiarizzano con le parole, creando un singolare equilibrio tra evento e discorso. Ciò che accade può essere raccontato. Ma solo perché lo si racconta accade realmente. È un movimento che due secoli dopo il sistema dei media (non quello dello spirito) avrebbe reso evidente in tutta la sua ovvietà. Del resto, dopo Iena, Hegel si recò a Bamberga dove svolse per un anno e mezzo il lavoro di giornalista. Conobbe l´ansia della notizia, la crudeltà della censura e la lingua che si corrompeva. Terminata quell´esperienza tornò ad essere "Hegel l´oscuro" che riteneva che la parola non fosse semplicemente chiusa nel linguaggio, ma parlasse tra le cose e infine tornasse a sé arricchita da quell´esperienza. La Fenomenologia si conclude con il trionfo del Sapere Assoluto. Si potrebbe ironizzare sulla consistenza di questa sovranità misteriosa che è la totalità hegeliana. O provare a leggerla nei tanti modi in cui è stata letta: fine della storia, nascita di un nuovo sapere, trionfo della civiltà cristiano-borghese, metafora del totalitarismo o affermazione del più puro ateismo. Ma dopotutto quell´opera ci dice anche qualcosa di essenziale sulla modernità. Ci dice che un filosofo deve bagnare il proprio pensiero nella tempesta. Ci dice che sono esistiti tantissimi pensatori con l´ombrello aperto, al riparo dalla pioggia, ad aspettare che il cielo rischiarasse.

Il Mattino 24.3.07
IL PROGETTO SULLA MOGLIE SEGRETA DEL DUCE
Bellocchio racconta Ida Dalser
di os. co.


Giornata partenopea, ieri, per Marco Bellocchio, protagonista del festival «L’arte della felicità», in mattinata al Modernissimo per la proiezione di «Sorelle», in serata per un incontro all’istituto francese Grenoble. «Sorelle» è un film a episodi, tre, che raccontano di una bambina, Elena, di sua madre Sara, e dei loro difficili rapporti. Elena vive con le zie a Bobbio, perché la madre, che fa l'attrice, è sempre in giro, ma non l’ha abbandonata: ritorna appena può, così come ritorna continuamente anche il fratello per ragioni diverse. Ma un giorno Sara decide che Elena viva con lei a Milano e perciò lasci il paese e si separi dalle zie. Forse definitivamente. «”Sorelle” è il frutto di un breve laboratorio cinematografico, tenuto per quindici giorni a Bobbio, in provincia di Piacenza», spiega il regista, «a me non sembra utile fare solo discorsi teorici, sono convinto che chi vuole fare cinema debba innanzitutto essere pragmatico, misurarsi con i limiti finanziari e di tempo che ogni situazione produttiva presenta. Così ho pensato ai tre episodi - ce n’è anche un quarto, ma deve essere ancora montato - che sono stati scritti e girati con gli studenti, chiudendo in due settimane l’intero ciclo produttivo di un film: dall’ideazione alla scrittura, dalla scelta logistica dei luoghi dove girare e del casting alle riprese, dal montaggio alla colonna sonora». Sembrerebbe un’impresa impossibile, ma Bellocchio sottolinea quanto sia stato «stimolante lavorare sfruttando i limiti che ci erano imposti. Ovviamente in un contesto del genere non ho potuto che coinvolgere la famiglia, le mie sorelle, gli amici come Donatella Finocchiaro». Un divertissement usato anche per tastare il polso alla generazione prossima ventura di cineasti: «Paragonati a quando mi sono iscritto al Centro sperimentale, questi ragazzi hanno una maggiore cultura cinematografica, hanno visto molti più film, hanno avuto accesso a molte più immagini di quanto non ne avessero gli autori della mia generazione. E possono usare una tecnologia leggera, che permette di girare in assoluta economia». Intanto, per l’uomo di «Buongiorno, notte», cinema e politica sono destinati nuovamente a intrecciarsi: il suo prossimo progetto si intitola «Vincere», copione storico incentrato su Ida Dalser, la moglie segreta di Mussolini: «È lei la protagonista, il dittatore fascista è in scena all’inizio giovane socialista, poi lo si rivede in un cinegiornale salire al Quirinale in camicia nera. Come nel film su Moro, voglio continuare a contaminare il mio girato con immagini d’archivio». Facendo di necessità virtù: anche nella realtà la Dalser non vide più il marito, se non nei cinegiornali Luce.

Repubblica Napoli 24.3.07
Il regista ha presentato al Grenoble il suo ultimo film "Sorelle"
Bellocchio sfida i cinefili e tifa per Mario Merola
"In Lacrime napulitane mi commuove"
di Antonio Tricomi


"Per il partito religioso è come se non fosse mai esistito Voltaire È ancora Medio Evo"
"È caduta l'idea di trasformare il mondo il pensiero socialista è in netta minoranza"

È stato presentato ieri sera al Grenoble in presenza dell´autore, per la rassegna "L´arte della felicità", il film di Marco Bellocchio "Sorelle". Settanta minuti, girato in digitale, il lavoro è ambientato a Bobbio, provincia di Piacenza, nella casa in cui il regista è cresciuto insieme alle sorelle Letizia e Mariuccia.
Maestro, prevede che "Sorelle" verrà regolarmente distribuito?
«A volte le pellicole che si vedono in sala godono di una distribuzione soltanto simbolica: vengono fatti uscire alla spicciolata giusto per dire che sono usciti. Preferisco accompagnare "Sorelle" in situazioni un po´ particolari come quella di ieri a Napoli e magari parlarne con il pubblico. Per il resto, è già passato su Sky e quasi certamente verrà pubblicato su dvd. È sempre cinema, anche se le modalità di fruizione non sono quelle tradizionali».
Cinque anni fa, all'uscita del suo film "L'ora di religione", si aprì un dibattito in Italia sul rapporto tra laicità e religione. Quasi ad anticipare lo scontro di oggi sui Dico e sulle ingerenze del Vaticano nella vita pubblica.
«L´opposizione ai Dico è incomprensibile. Il partito religioso è di un´intolleranza medievale: come se Voltaire non fosse mai esistito. Mi stupisce che i nostri rappresentati politici, che sono dei privilegiati, non sentano come un caso di coscienza i diritti dei conviventi e i temi della laicità in generale».
Come se lo spiega?
«Credo che dipenda dal vuoto lasciato dalla politica. L´idea di trasformare il mondo è caduta, il pensiero socialista e riformista è in netta minoranza».
Per questi motivi si è impegnato nel progetto di fusione tra radicali e socialisti, sostenendo la Rosa nel pugno?
«La mia è un´adesione simbolica, ma i motivi sono esattamente questi».
E del nascente Partito democratico cosa pensa?
«Nulla perché non lo capisco. Credo che in Italia dovrebbe piuttosto nascere un grande partito socialdemocratico con un´identità laica molto precisa. Leggo nel Partito democratico un istinto suicida della sinistra. I post-comunisti voglio riformare la Democrazia cristiana e farsene assorbire: perché parliamoci chiaro, si tratta di questo. Mi sembra grottesco. Forse perché appartengo a un´altra generazione, magari questa è una cosa che i giovani capiscono meglio».
Sta pensando a entrare in politica, maestro?
«Non m´interessa, ho una certa età. E poi di mestiere faccio il regista».
Torniamo a parlare di cinema, allora. I suoi progetti?
«Nel prossimo film vorrei raccontare la storia di un figlio illegittimo di Mussolini che fu lasciato morire in manicomio. Quello della malattia mentale è una tema che da sempre mi sta cuore».
Quando più di trent´anni fa lei realizzava il documentario "Matti da slegare", avrebbe immaginato che un giorno una canzone sui malati di mente avrebbe vinto Sanremo?
«La canzone di Cristicchi è commovente. Ed è interessante perché sottolinea un caso disperato. Ma certo il discorso sulla malattia mentale è più complesso. Bisogna dire che esiste, non bisogna far passare l´idea facile che in fondo siamo un po´ tutti matti. Non basta avere un sentimento di pietà o condividere la disperazione: occorre affrontare e combattere la malattia».
Lei è percepito come un regista "nordico". Si è mai sentito attratto dalla possibilità di girare a Napoli?
«Credo che per fare buoni film bisogna conoscere a fondo la realtà che si intende raccontare: preferisco essere un ammiratore dell´arte napoletana nel suo complesso».
Può fare qualche esempio?
«Potrei farne tanti. Di recente mi è capitato di vedere "Lacrime napulitane", un film forse poco apprezzato dai cinefili. Bene, quando cantava Merola mi sono commosso».

Repubblica Roma 24.3.07
Atenei, 100 eventi nella notte bianca
(...) La filosofia. A Roma Tre Arrigo Levi e Giacomo Marramao parlano di Unione
(...)

di Geraldine Schwarz


Si spengono le luci, si accendono i Saperi. È dedicata all´Europa la seconda notte bianca delle università romane perché domani, 25 marzo, si celebra il cinquantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma che sancirono la nascita dell´Unione europea. E allora via, per una lunga notte. Le porte delle università romane, pubbliche e private, si aprono al pubblico di studenti e non, dalle 20 di stasera per una maratona culturale lunga più di sei ore, con quasi cento lezioni, più di cento iniziative tra laboratori, mostre, performance teatrali, letture, film, documentari, ma anche eventi sportivi e sfilate di moda. Tra i tanti ospiti ci saranno Michele Placido e Dario Vergassola con le sue interviste impossibili ma anche Vincenzo Cerami, e Luca Carboni, Simona Ventura, Paolo Bonolis e Achille Bonito Oliva. E anche il famoso economista Jeremy Rifkin che farà una lezione alla Sapienza (alle 21,30).
Ma andiamo per ordine, di tempo. Si comincia con lo sport. Lo IUSM (Istituto di Scienze Motorie di Roma) propone tra le altre attività di boxe, spinning e danze europee, alle 18 allo stadio dei Marmi, un triangolare di calcio tra la rappresentativa della nazionale attori (con la presenza tra gli altri di Riccardo Scamarcio, Raul Bova, Luca Zingaretti, Giulio Scarpati), quella dei Giornalisti e una squadra dello IUSM.
La Sapienza invece apre le porte dell´Ateneo alle 20 con una lectio magistralis sull´Europa, e alle 21,30 nell´aula magna del rettorato l´incontro con Jeremy Rifkin. Alla stessa ora, nell´aula I della facoltà di Giurisprudenza, Vincenzo Cerami leggerà brani dall´Ecclesiaste dell´Antico Testamento; a seguire, alle 22,30, Michele La Ginestra in un monologo. Dopo, ancora a Giurisprudenza, le lezioni d´arte di Achille Bonito Oliva e Paolo Portoghesi, a mezzanotte e mezza nell´aula magna del rettorato ci sarà il concerto di Le Mani e Pier Cortese e a seguire Luca Carboni in un viaggio di parole e musica.
A Tor Vergata l´apertura, presso la facoltà di Lettere e Filosofia, è affidata a Sergio Zavoli (ore 20,45) con una lezione sull´Europa che apre a cinque percorsi di video e lezioni sulla cultura europea. Alle 22, in Auditorium, Michele Placido con "Le tre sorelle" di Cechov e a seguire Dario Vergassola (23,30), Johnny Palomba, ma anche musica alle 22,30 in biblioteca con Roma Sinfonietta. Arrigo Levi e Giacomo Marramao aprono invece la notte di Roma Tre parlando ancora di Europa. Qui, si esibiranno l´orchestra di Roma Tre su musiche di Mozart. (ore 20 Aula magna) i Ladri di Carrozzelle (alle 21,30) e la danza, con Kledi kadiu e la Free dance Company.(22,30). Dopo mezzanotte un monologo di Salvatore Marino (all´1) e l´incontro con gli scrittori Beppe Sebaste e Giancarlo de Cataldo. Chiude il film "Europa" di Lars Von Trier. Alla Luiss apre alle 20 Andrea Purgatori con "I sentimenti della notte" e poi, dopo il convegno l´Europa e la moda, la sfilata degli studenti vestiti e acconciati (aula magna dalle 23). Tra gli incontri, Simona Ventura (aula magna ore 21) e a seguire Pier Luigi Celli che intervista Paolo Bonolis. E ad Economia ecco il villaggio Amnesty International. Il programma della notte sul sito www. universitadellanotte. it

venerdì 23 marzo 2007

Repubblica 20.2.07
Il presidente della Camera: "Sono preoccupato, è indispensabile non abbassare la guardia"
"Nella lotta al terrorismo la strada è la non violenza"
Bertinotti: la sinistra non ha fatto abbastanza
intervista di Luigi Contu


Violenza. Il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si sceglie la violenza politica si mette fuorigioco, quale che sia la sua causa
Vicenza. Ero sicuro che la manifestazione sarebbe andata bene. I giovani e le famiglie che erano lì sabato dovrebbero essere più ascoltati
Brigate rosse. Negli anni Settanta abbiamo fatto tanto, ma non siamo andati fino in fondo per estirpare il virus dal nostro corpo
Album di famiglia. Ricordo l'articolo della Rossanda sull'album di famiglia della sinistra. Rimasi perplesso, poi capii che aveva ragione. Sono parole ancora valide
Valore della vita. Nella nostra società c'è una svalutazione desolante del valore della vita: penso ai morti sul lavoro, all'ispettore Raciti, a chi perde la vita in autostrada
Marxismo e Islam. Ci vuole un'ideologia forte per prendere le armi. L'ultima è stata il marxismo. Anche la religione ispira attentati. Ma guai a dire: Islam uguale terrorismo

Presidente Bertinotti, lei che negli anni 70 è stato tra coloro i quali hanno combattuto il terrorismo e poi è diventato leader di un partito neo comunista, che cosa ha provato quando ha appreso che in Italia ci sono ancora terroristi pronti a fare la rivoluzione?
«Ho avuto un brivido. Ho pensato che negli anni ´70 abbiamo fatto tanto, tantissimo per sconfiggere le Brigate Rosse storiche. Ma non abbastanza. Purtroppo, non siamo andati fino in fondo, non siamo riusciti ad estirpare del tutto il virus del terrorismo dal nostro corpo».
È concepibile che in un paese civile e progredito sia considerato lecito uccidere per un obiettivo politico?
«Purtroppo nella società c´è una svalutazione desolante e terrificante del valore della vita. Penso ai quattro morti al giorno nei luoghi di lavoro, a chi perde la vita in autostrada, ai caduti delle forze dell´ordine come l´ispettore Raciti, alla strage di Erba. Forme diverse che hanno in comune uno smarrimento generale derivato da una profonda crisi del mondo in cui viviamo».
Dare la colpa ai mali della società è stato in passato un alibi per chi definiva i brigatisti "compagni che sbagliano". Secondo lei i nuovi terroristi sono soltanto un fenomeno residuale, marginale?
«Credo che oggi le condizioni politiche e sociali del nostro paese siano profondamente diverse. Penso che quella stagione di lotta armata sia irripetibile. Ma ciò non significa affatto che la scoperta di questo nuovo nucleo di brigatisti possa essere sottovalutato. Sono molto preoccupato. È indispensabile non abbassare la guardia».
Rossana Rossanda fu la prima intellettuale di sinistra ad affermare che i terroristi avevano le loro radici politiche e culturali nel vostro campo. La lezione di quegli anni è ancora valida?
«Ricordo quei giorni, e quell´articolo. Appena lo lessi rimasi perplesso. Poi compresi che Rossana aveva ragione. Quelle sue parole restano valide oggi. Dobbiamo ricordare che ogni idea forte è esposta al rischio del fondamentalismo. Questo è un terreno su cui può innestarsi una nuova stagione della lotta armata. È innegabile che in Italia il tema del terrorismo resta nella metà del nostro campo. Perciò giudico sbagliato il tentativo di tirare in ballo la destra ed i suoi estremismi. Il nazifascismo, come ha detto il grande Papa Giovanni Paolo II, è stato il male assoluto. E noi dobbiamo fare i conti fino in fondo con la nostra storia».
Non ritiene che per farli bisognerebbe rinunciare al termine "comunismo"?
«Al contrario, penso che la vera sfida sia non abbandonare gli ideali del comunismo, ma ripensarli partendo dalla non violenza, dalla critica radicale degli orrori e degli errori del ‘900. Bisogna avere, inoltre, una diversa concezione del potere, che neghi qualsiasi forma di prevaricazione e di assolutismo. Per chi crede come credo io che non debba cadere nel dimenticatoio, il termine comunismo rappresenta la rivendicazione di una identità radicale».
In nome del quale, però, ci si arma e si progettano omicidi.
«L´uso delle armi e il ricorso alla violenza hanno bisogno di agganciarsi a una idea forte. L´ultima ideologia del ‘900, quella che lo ha attraversato e superato, è l´ideologia marxista. Anche in nome della religione si compiono attentati, ma non per questo è giustificato stabilire una equazione tra Islam e terrorismo. Il problema è che coloro ai quali i brigatisti arbitrariamente fanno riferimento hanno un compito in più, e ne devono essere consapevoli. Ci vuole onestà intellettuale per comprendere che il ritorno delle Br è tanto più probabile quanto più riesce a trovare un retroterra fondamentalista: la possibilità di uccidere viene dall´idea che l´altro è il male, lo stesso concetto con il quale si giustifica la guerra preventiva ».
La sinistra italiana è pronta a questa nuova guerra al terrorismo? Ciò che è stato fatto dal Pci e dal sindacato negli anni di piombo non è più attuale?
«Lo sforzo compiuto in quegli anni ha un grande valore: con l´unità delle forze democratiche e l´impegno delle forze dell´ordine abbiamo sradicato ogni tentazione violenta dal mondo del lavoro. Il terrorismo è stato combattuto politicamente e questo è un terreno che non si deve abbandonare. Ma ora siamo in una nuova fase storica, aperta dal rapimento di Aldo Moro, proseguita con la caduta del muro di Berlino e oggi attraversata dalla complessità della globalizzazione. Dobbiamo fare un passo in più rispetto alla frontiera sulla quale ci eravamo attestati alla fine degli anni di piombo. Ci attende un enorme sforzo culturale: un percorso che a sinistra non tutti hanno cominciato a percorrere».
Qual è la nuova frontiera della lotta al terrorismo?
«È la frontiera delle idee, che impone, una rivoluzione culturale: l´affermazione del principio gandhiano della non violenza. Negli anni di piombo si è tolta l´acqua da cui si alimentavano i terroristi facendo intorno a loro un deserto politico, dimostrando così in modo inequivocabile che il movimento operaio era contro i brigatisti. Oggi quella battaglia si combatte dicendo alle nuove leve della lotta armata che il movimento e il popolo sono non violenti. Sono convinto che la sinistra italiana debba assumere la bandiera della non violenza senza più rinvii ed incertezze . Il terrorismo e la guerra si nutrono di ogni forma che conceda anche il minimo terreno alla prevaricazione. Per questo il nostro messaggio deve essere chiaro: chi si pone sul terreno della violenza politica, quale che sia la nobiltà della causa per cui si batte, si mette fuorigioco. Non esiste, non può più esistere, la violenza giusta. È uno sforzo che devono fare tutti i partiti, tutte le organizzazioni sociali, intervenendo sui comportamenti delle persone, a partire dal linguaggio».
Immagino che da questo punto di vista la manifestazione di Vicenza l´abbia rassicurata. Grande partecipazione, comportamento non violento. Eppure c´era molta preoccupazione, anche tra voi...
«Io non ero preoccupato. Anzi, ero convinto che la manifestazione sarebbe andata bene».
Però ha sentito il bisogno di rivolgere un appello alla non violenza.
«Avendo detto che ci sarei andato se non fossi stato presidente della Camera, mi è sembrato doveroso chiarire come ci sarei stato in quel corteo. Le mie preoccupazioni erano e restano altre».
Quali?
«Mi sembra che ancora una volta un appuntamento così importante sia stato affrontato dalla politica politicante in maniera inadeguata. In alcuni casi ho ascoltato discorsi fermi alle analisi degli anni ´70, in altri parole mirate a trarre vantaggi di parte. Così come per il nuovo terrorismo la classe dirigente del nostro paese mi appare incapace di comprendere la novità di questa fase politica. Queste famiglie, questi giovani che hanno invaso Vicenza dovrebbero essere ascoltati e compresi di più da chi ha il compito di governare e vuole farlo per rendere più giusta la società. Ciascuno di loro, parlo della moltitudine dei partecipanti e non delle culture che sono rannicchiate nelle loro organizzazioni, ha dimostrato di avere in mente, direi nella pelle, l´idea che a un corteo si va semplicemente per affermare le proprie idee, per stare insieme agli altri. È da apprezzare anche il saggio comportamento delle forze dell´ordine. Siamo davanti a un fatto nuovo: si comincia a mettere in discussione la logica dell´amico-nemico. Se si fosse trovata al G8 di Genaova la mia generazione avrebbe potuto avere reazioni capaci di portare ad una strage: invece quel giorno tragico abbiamo visto i giovani, la loro grande maggioranza, tornare alle proprie case senza aggressività. Lì si è visto il primo germe della non violenza, che a Vicenza ha dimostrato la propria vitalità nel binomio pace e partecipazione».
Ma lì è apparso anche il volto antiamericano di alcuni settori della sinistra radicale.
«Non condivido questa analisi. La globalizzazione ha avuto tra i suoi effetti quello di favorire la contaminazione tra le culture: come si fa a pensare che quei giovani siano antiamericani quando consumano tutti i giorni cultura d´oltreoceano ascoltando musica, andando al cinema, leggendo libri. C´è certamente avversione nei confronti del governo Bush, un disaccordo politico totale verso la sua politica, non verso la civiltà statunitense. Il discorso dell´antiamericanismo è datato. Mi ricorda quando ai tempi in cui ero un ragazzo si contrapponeva il chinotto alla Coca Cola. Dietro quella guerra di bevande c´era una avversione ideologica, alimentata dalla divisione del mondo in due blocchi. Oggi chi non beve Coca Cola esprime una protesta contro chi produce sfruttamento e disagio».
Non negherà che in alcuni esponenti della sinistra radicale ci sia una avversione pregiudiziale nei confronti degli Stati Uniti.
«In alcune forze sì, c´è ancora. Ma si tratta di posizioni di nicchia. Il punto è che sebbene non abbia mai allignato nella cultura alta della sinistra italiana, basta ricordare che la celebre collana editoriale Americana è stata portata nel nostro paese da Vittorini, l´antiamericanismo non è stato contrastato quando si produceva negli strati più popolari. Esattamente come è accaduto con lo stalinismo: il Pci ruppe coraggiosamente con il dittatore sovietico, ma poi per alcuni anni tollerò che nella propria base rimanesse un mito. Io stesso, quando diventai segretario di Rifondazione Comunista, dovetti più volte pretendere la rimozione del ritratto di Stalin dalle sezioni dove andavo a parlare. Quelle foto, ora, non ci sono più».

Repubblica 9.3.07
Le idee. Il nazismo di Heidegger e i conti col passato
E Celan incontrò Heidegger
La poesia fa i conti col nazismo
di Adriano Sofri


C´è ancora chi pensa si possa confutare il filonazismo del filosofo di "Essere e tempo" Ma la sola idea, stando alle sue dichiarazioni, è inaccettabile
Nel 1949 T.W. Adorno scrisse una frase poi citata all´infinito sul fatto che scrivere poesie dopo Auschwitz era una barbarie
L´heideggerismo è una filosofia della guerra e la guerra travolge e trascina gli individui, li mette in uniforme e li avvia ad un solo destino
Paul, ebreo, era nato in Bucovina nel 1920 e aveva perso il padre e la madre in un campo di concentramento: è il poeta della Shoah

È DIFFICILE fare i conti col passato. Soprattutto col proprio: con il passato altrui ci si sbriga. Prendo le mosse da una succinta notizia nella pagina culturale del Corriere (Pierluigi Panza, «Heidegger difeso dall´accusa di hitlerismo») sul libro curato da François Fédier che confuta il «presunto filonazismo» di Heidegger. Ho fatto un salto sulla sedia: Heidegger non fu filonazista solo perché fu nazista, con fervida compromissione nel 1932-35, e un´adesione rinnovata fino alla fine. Negli stessi giorni Pierluigi Battista ha ripreso il tema del «silenzio» degli intellettuali italiani dopo il fascismo, sulla scia della rivelazione di Günter Grass, fin troppo clamorosa.
Non saprei conciliare una severità verso gli intellettuali convertiti anesteticamente all´antifascismo, e verso Grass, con l´indulgenza per Heidegger. Il silenzio (o peggio) dell´Heidegger del dopoguerra a proposito del suo passato e dello sterminio è stato più penoso della stessa adesione al nazismo. Esce anche da Sellerio una raccolta di saggi (impervii) di Jean Bollack, La Grecia di nessuno, titolo che calca Paul Celan, Niemandsrose, la rosa di nessuno. L´ultimo saggio è dedicato all´episodio più frequentato fra i mille della controversia su Heidegger e il passato: l´incontro fra il filosofo e Celan. (Grass rifece l´episodio ne Il mio secolo). Mi terrò ai bordi, per inadeguatezza e per un pregiudizio contro Heidegger. Una volta un suo visitatore citò con reverenza il commiato del maestro: «E poi, sa, non è ancora detta l´ultima parola». Si trattava nientemeno che del giudizio storico sul Reich. Frase oracolare, che qualunque barbiere potrebbe ridire: «E poi, sa, l´ultima parola non è mai detta». Enigmistica buona per congedare un devoto, col viatico della sapienza oscura.
Al momento di sciogliere l´enigma, nell´intervista del 1966 allo Spiegel, da pubblicare postuma, Heidegger avrebbe detto: «Per me oggi una domanda decisiva è: come può adattarsi un sistema politico - e quale - all´età della tecnica? A questa domanda non so dare risposta. Non sono convinto che sia la democrazia».
Se il profetismo di Heidegger era arduo, la poesia di Celan non lo era meno, di una difficoltà pronta a spezzarsi nella lingua come si era spezzata nella vita, mentre la difficoltà del filosofo restava per così dire tutta d´un pezzo. Celan, ebreo, nato in Bucovina nel 1920, aveva perduto padre e madre in un campo nazista, ed era scampato trovandosi un rifugio di fortuna, poi sopravvivendo ai lavori forzati. È stato il poeta della shoah, e in quella lingua tedesca - lingua madre, lingua della madre assassinata - proprio quando veniva coniata la pretesa che non si potesse far più poesia dopo Auschwitz: e gli fu rinfacciata la stessa "bellezza" della sua poesia più famosa, Todesfuge, fuga di morte («...la morte è un mastro di Germania». Le poesie sono curate in un prezioso Meridiano da Giuseppe Bevilacqua).
Il 24 luglio del 1967 Celan, reduce da un ricovero in casa di cura, tiene una conferenza a Freiburg. Heidegger è fra gli ascoltatori, e Celan, che pure rifiuta di essere fotografato con lui, accetta l´invito a visitarlo all´indomani. L´incontro avviene alla Hütte - la baita - che Heidegger ha trasformato nel monumento al proprio prestigio di pensatore e di tedesco della Foresta Nera, di «uomo che ha una patria ed è radicato in una tradizione». Celan firma il libro dei ricordi: «Nel libro della hütte, lo sguardo sulla stella del pozzo, con, nel cuore, la speranza di una parola a venire. Il 25 luglio 1967, Paul Celan». Sei giorni dopo, nella sua stanza d´albergo, scriverà una poesia: «Arnica, eufrasia, il / sorso dalla fonte con sopra / il dado stellato, // nella / baita, // la riga nel libro / - quali nomi accolse / prima del mio? -, / la riga in quel libro / inscritta, / d´una speranza, oggi, / dentro il cuore, / per la parola / ventura / di un uomo di pensiero, // umidi prati silvestri, non spianati, / orchis e orchis, separati, // più tardi, in viaggio, parole crude / senza veli // chi guida, l´uomo, / che anche lui ascolta, / percorsi a / mezzo, i viottoli / di randelli sulla torbiera gonfia, // umidore, / molto».
L´arnica, l´eufrasia risanatrici c´erano davvero, e c´era la fontana con la stella intagliata in un cubo. C´era il libro delle firme, la speranza della parola a venire. E poi il cammino nel prato, e le orchidee solitarie, il testimone che ascolta, e infine la palude di tronchi-randelli. Ciascuno di questi ingredienti, a cominciare dal nome del luogo e della poesia, Todtnauberg, il monte della morte, evoca altre immagini senza fine.
Celan manderà a Heidegger la prima copia di un´edizione privata della poesia. Heidegger risponderà con una formula elusiva, ma mostrerà con orgoglio la poesia agli amici. Forse senza averla intesa, o l´oscurità dei versi sarà bastata a tranquillizzarlo. La poesia uscirà poi in volume nel 1970. In quell´anno Celan tiene un´ultima lettura pubblica a Friburgo, e rinfaccia ad Heidegger di non ascoltarlo abbastanza attentamente. Un testimone ricorda: «Heidegger si fermò pensieroso presso la porta della sua casa per dirmi, scosso dall´emozione: "Celan è malato- e non esiste cura"». Heidegger non è stato tradito dall´aria della sua montagna: è morto nel 1976, ottantasettenne. Quanto all´incurabile Celan, il suo cadavere è stato ripescato nella Senna di Parigi il 1º maggio del 1970. Così l´incontro alla Hütte - confronto di radicamento e sradicamento, del filosofo affiliato al nazismo e del poeta scampato, nella lingua comune e irriducibilmente opposta - riceve il suggello del contrasto fra il professore di buona salute e il poeta malato di suicidio. Ci sono longevità vantate come un merito e un segno di aristocrazia: grattate quella longevità, e troverete l´impostura. Ci sono molti modi di "essere per la morte". Il confronto con la morte, che Heidegger incarica di riscattare la distrazione della vita ordinaria, può essere, sulla scorta di Ernst Jünger, la sfida cercata col pericolo estremo, con l´azzardo del soldato nella guerra di trincea. Ecco che la longevità appare, piuttosto che l´indizio di un´esistenza condotta al riparo, come la vincita strappata alla morte in battaglia. L´"essere per la morte" dell´ammalato ha un´autenticità tardiva e di rango inferiore, né scelta né cercata, ma miseramente subita.
Immaginarsi dunque l´"essere per la morte" delle vittime designate di un annientamento, per il loro solo essere quello che sono - ebrei, zingari, gente di scarto. Il suicidio del poeta è agli antipodi della morte sfidata dal soldato: cui, una volta superstite, arridono i centotré anni di Jünger. Chi sopravviva a un "essere per la morte" non voluto, inferiore, nemmeno deciso dal destino o dall´arruolamento obbligato, ma deliberato da nemici superiori, da soldati delle tempeste d´acciaio, gettato nel mondo e rigettato dal mondo - quel superstite infatti muore già in vita, muore così spesso suicida, la vita è la sua malattia.
L´accettazione del destino - rassegnata o entusiasta, nel qual caso la si chiama missione - culmina nella circostanza della guerra: cui ci si piega per solidarietà nazionale, o generazionale o cui si aderisce per passione, soldati di una Missione collettiva, patriottica, religiosa, classista. Il nazismo è una filosofia della guerra - l´heideggerismo anche. La guerra travolge e trascina gli individui, la chiamata alle armi taglia loro i capelli allo stesso modo, dà loro un´uniforme, li sottomette al destino collettivo, l´"oceano" rispetto al quale, come in Jung, la psicologia personale è un´increspatura insignificante. Quello che chiamiamo coscienza è la risalita dalla profondità, dalla barbarie e dal trascinamento collettivo, alla civilizzazione e alla libertà individuale. La civiltà è la camera iperbarica di questa risalita.
Essa non può che essere lenta e intermittente, mentre la discesa è precipitosa. Questo doppio movimento, ineguale e iniquo - perché la civiltà è fragile, una pellicola recente, una lastra di ghiaccio sottile sulla quale danza una pattinatrice adolescente, e invece la barbarie è forte e antica - si riproduce nel doppio movimento della comunità verso la distruzione, velocissimo, e chiamavamo fino a poco fa questa velocità progresso, o verso la pausa di riflessione, la moratoria, il fermo biologico, la ritirata, che è lenta. La riparazione culturale ed ecologica è la tartaruga che insegue l´Achille della consumazione e della manipolazione. È una doppia partita, ma truccata. Non si può che perdere, ma dilazionare la fine. Forse, mentre prendiamo tempo, sarà inventato un farmaco nuovo, si troverà una nuova strada.
La volta in cui accennò allo sterminio, nel 1949, Heidegger lo fece di passaggio, per accostare grottescamente la trasformazione dell´agricoltura in industria alimentare meccanizzata alla lavorazione dei cadaveri nelle camere a gas e nei campi.
Insofferente verso la trasfusione di esperienze vissute, di emozioni, di relazioni linguistiche e culturali, dentro i versi di Celan, che li fa sembrare illeggibili fuori da quella trama di informazioni, Hans Georg Gadamer preferisce che la poesia miri a «un mondo nel quale il poeta è di casa proprio come i suoi lettori». Ma per l´appunto Celan non è di casa a questo mondo, e ha tolto il disturbo. Si è arrivati a sostenere che il suicidio di Celan sia stato causato dal tentativo fallito di far riconoscere ad Heidegger la colpa dello sterminio: tesi impudente, che finisce per alzare di qualche centimetro il monumento al filosofo. Il grande e disgraziato poeta, che non la fa finita per la shoah, la morte e la vita, ma perché non è riuscito a strappare ad Heidegger la parola giusta!
Heidegger avrebbe poi accostato Celan a Hölderlin. Ma Celan abita poeticamente la terra, Heidegger no. La svolta di Heidegger verso la poesia, e Hölderlin in particolare, è un falso movimento: un modo per serbare intatta l´oscurità, per rifiutare "poeticamente" la chiarezza. Si è perfino fatto passare il silenzio di Heidegger sulla shoah come una dichiarazione della sua indicibilità! Anche Derrida cede alla sovrainterpretazione dei silenzi, pur dichiarandoli forse imperdonabili: «Io intendo questo terribile, forse imperdonabile silenzio di Heidegger come un´eredità. (...) Ci lascia l´obbligo di pensare ciò che egli stesso non ha pensato». Ma il silenzio di Heidegger va tutto intero sul suo conto.
Nel 1949 T. W. Adorno scrisse quel pensiero citato all´infinito: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». È difficile oggi spiegarsi come potesse essere accolto letteralmente, al punto che qualcuno, abbiamo visto, accusò la Todesfuge di Celan di un sacrilegio contro Auschwitz. Confesso una diffidenza per la frase di Adorno, nella quale sento una retorica quasi fatua. Non era un bando alla parola e alla sua inadeguatezza: è in parole che Adorno dichiara prescritta la poesia. Se no, era uno dei molti modi in cui si cercò di significare il troppo di orrore e di iniquità dello sterminio, l´unicità. Ma l´unicità, che ha argomenti forti dalla sua parte, si impoverisce, o addirittura si avvilisce, quando la si voglia stringere in un´argomentazione. Sicché si potrebbe dire che dopo Auschwitz la prosa è diventata, se non inetta - che vorrebbe dire cedere all´"indicibile" e screditare i testimoni - molto più difficile e debole. E, viceversa, che la poesia è stata forte. Celan fu terribilmente ferito dall´accusa grottesca. Nel 1965 scrisse i versi conosciuti solo dopo la sua morte, che evocavano Theodor Wiesengrund Adorno (la traduzione è di Michele Ranchetti e Jutta Lesckien): «Madre, madre / Strappata dall´aria / Strappata dalla terra. / Giù / Su / trascinata. / Ai coltelli ti consegnano scrivendo, / con abile mano sciolta, da nibelunghi della sinistra, con / il pennarello, sui tavoli di teck, anti- / restaurativi, protocollari, precisi, in nome della inumanità da distribuire / di nuovo e giustamente, / da maestro tedesco, / un garbuglio, non / a-bisso/ab-gründig/ ma / a-dorno /ab-wiesen/ / scrivendo, / i reci-divi, / consegnano / te / ai / coltelli».
Adorno stesso avrebbe riconosciuto più tardi che «forse è falso che dopo Auschwitz non si possa più scrivere una poesia». E «dire che dopo Auschwitz non si possano più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un´arte serena». Che vuol parere un´attenuazione, ed è un vero capovolgimento. Adorno si sarebbe chiesto allora se fosse possibile, dopo Auschwitz, vivere: che era un gioco al rincaro.
"Wahr spricht, wer Schatten spricht" - dice il vero, chi parla oscuro: è un verso di Celan. La differenza fra l´oscurità di Heidegger e quella di Celan ha per posta la verità. Si ha l´impressione che la poesia di Celan, piuttosto che dirla, sia la verità.
Una volta Primo Levi rispose a un intervistatore a proposito del decreto di Adorno: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro... Avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Tuttavia Levi, che pure diceva di esser stato salvato dalla poesia, metteva in guardia dallo "scrivere oscuro": «Nel mio scrivere... ho sempre teso a un trapasso dall´oscuro al chiaro».
Levi ha di mira Celan nell´articolo del 1976: «Non si dovrebbe scrivere in modo oscuro... L´effabile è preferibile all´ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all´oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Per Celan soprattutto... Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente... un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli». Noi vivi: ancora dieci anni, e Levi sarà così solo da decidere il suo punto di morte. Prima, il suo corpo a corpo con Celan gli avrà fatto scrivere quella poesia, Il superstite, che grida (invano, come decreteranno fra poco I sommersi e i salvati) la propria incolpevolezza, evoca ancora una volta il suo Ulisse e ripete il nome fatidico del Salmo di Celan, la Rosa di nessuno: «Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno».
Il Sole 24Ore Domenica 18.3.07
Metti sul lettino il libro nero
di Luciano Mecacci
Professore Ordinario di Psicologia Generale all'Università di Firenze. Autore, fra l’altro, di Storia della Psicologia del Novecento (Laterza, 1995) e di Il caso Marylin M. e altri disastri della psicanalisi (Laterza, 2002)


«Ironizzare su Freud non è gradito agli adepti. Né fare insinuazioni sul fatto che il suo pensiero sia lontano dal metodo scientifico»
Le risentite reazioni degli psicoanalisti al Libro Nero della psicoanalisi, uscito in Francia nel settembre 2005, erano prevedibili. Tanto più dopo il tempestivo contrattacco su «L’Express» dell’autorevole psicoanalista Élizabeth Roudinesco, che ne aveva riassunto così il contenuto: «Freud vi è trattato come un bugiardo, falsario, plagiario, dissimulatore, propagandista, padre incestuoso. Viene presentato come una sorta di dittatore che ha ingannato il mondo intero con una dottrina falsa. La maggior parte delle grandi figure della psicoanalisi, Melanie Klein, Anna Freud, Jaques Lacan, Bruno Bettelheim, Françoise Dolto, è sbeffeggiata in un linguaggio povero e volgare e a colpi di affermazioni false e senza fondamento. Tutti i movimenti psicoanalitici sono denunciati come luoghi di corruzione e gli analisti sono accusati di essere dei criminali». Poiché nel giro di ore e di pochissimi giorni su Internet e sui giornali francesi si scatenò un frenetico botta e risposta - «Pour ou contre le Livre noir?» - c’è da chiedersi come questi interlocutori avessero trovato il tempo per leggersi le centinaia di pagine e discuterne a ragion veduta. Si ha l’impressione che lo psicoanalista, di fronte alle critiche di questo tipo, si fermi alla superficie dell’esposizione, prenda a pretesto le battute e le parodie e sposti la discussione a quel livello, rifiutando di affrontare la sostanza dell’argomentazione. Prendiamo Lacan, di cui si dice nel libro che «ha fatto proseliti a migliaia, ricevendo, in un’epoca di sedute sempre più brevi e sempre più care, i giornalisti e gli artisti più noti. Guru, mito, impostore, genio …». Probabilmente una frase del genere fa irritare sia i tanti uditori estasiati dei suoi “seminari”, sia chi ha sborsato migliaia di franchi per un’analisi con lui. Però Mikkel Borch-Jacobsen, nel suo capitolo, mostra come le tesi lacaniane siano imbevute del pensiero di noti filosofi del Novecento. Quindi si potrebbe discutere di questa demitizzazione di Lacan: se, al di là della forte influenza di tali filosofie, rimanga un nucleo legato alla pratica psicoterapeutica lacaniana. Certo, la frase finale di Borch-Jacobsen non incoraggia una discussione pacata: «Ecco che cosa lascia perplessi: non che Lacan sia stato un filosofo, ma che l’abbia negato, ammantando con l’autorevolezza di una “pratica analitica” completamente mitica gli ultimi concetti in voga. Gli intellettuali francesi avrebbero pagato così tanto per cercare la verità del loro desiderio sul suo divano se avessero saputo che potevano trovare la stessa saggezza nelle edizioni tascabili di Kojève, di Heidegger o di Blanchot?».
Proprio questo tipo di affermazioni ironiche non è gradito, come non sono bene accolte quelle lapidarie alla Frank J. Sulloway, che qui parla di «Freud, tra criptobiologia e pseudoscienza» e conclude scrivendo: «Il vero fallimento della psicoanalisi deriva dal palese rifiuto del metodo scientifico. Una disciplina incapace di autocritica è destinata a passare continuamente da un sistema di credenze pseudoscientifiche ad un altro. Questa è, a mio avviso, la più tragica eredità che Freud ci ha lasciato». Vediamo quale sarà la sorte del Libro nero in casa nostra. Sarà controsbeffeggiato oppure se ne discuteranno almeno due o tre punti cruciali (storici, come la manipolazione di famosi casi clinici; teorico-metodologici, come il rapporto con le altre forme di psicoterapia)? Forse sarà messa in atto la congiura del silenzio, la stessa che toccò a Sebastiano Timpanaro quando osò, lui, un filologo, scrivere sul Lapsus freudiano, nel 1974 (e del quale vedi ora la bella raccolta curata da Alessandro Pagnini: La “fobìa romana” e altri scritti su Freud e Meringer , ETS, Pisa, pp. 262, euro 20)

l’Unità 23.3.07
Laicità. Pericolosi Non Possumus
di Gustavo Zagrebelsky


Questo testo è tratto dall’intervento del Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, all’incontro organizzato da Libertà e Giustizia all’Unione Culturale di Torino mercoledi scorso

Se guardiamo a quello che sta accadendo oggi intorno a noi ci accorgiamo che le cose stanno andando in una direzione completamente diversa da quella auspicata. Se si continua così con il «non possumus» cattolico, tra poco ci sarà un «non possumus» laico per difendere determinate posizioni.
E quando si contrappongono due «non possumus», si contrappongono per l’appunto le posizioni di coloro che ritengono di possedere la verità e a quel punto si viene alle mani. Non è possibile trovare un terreno di incontro. Diverso è se si dice «ne ho un po’ io e ne hai un pochino anche tu di verità», vediamo come stanno le cose, se si riesce a trovare un punto di incontro.
Altro che la libertà della coscienza nella ricerca del buono: voglio dire che stiamo andando in una direzione che non so dove ci porterà, perché i «non possumus» portano con sé indubbiamente degli steccati, con ciò che poi gli steccati implicano sul piano di vincolo al comportamento della persona.
C'è stato recentemente un appello, che viene da una congregazione vaticana, che incita alla disobbedienza civile di cristiani non qualificati, uomini politici, amministratori, farmacisti (sono importanti i farmacisti perché esercitano una pubblica funzione) e perfino dei giudici. Un appello a ribellarsi alla legge che rientra nel circuito protetto dal «non possumus». Badate, si tratta di disobbedienza alla legge, non l'obiezione di coscienza che è una possibilità che in determinati casi la legge stessa riconosce come diritto, per esempio la legislazione sull'aborto o il servizio militare, per i quali, in taluni casi, per ragioni di coscienza, ci si poteva sottrarre a obblighi che valgono per tutti. In questo caso ci troviamo di fronte ad un incitamento a ribellarsi alla legge comune. Incitamento grave se è rivolto ai farmacisti, ma gravissimo se rivolto ai magistrati i quali sono lì, invece, per la loro funzione, che è quella di far applicare la legge comune.
È un grido di sovversione, insomma. L'appello al diritto naturale in un contesto pluralistico è un grido di guerra civile. Io non so, non voglio farla troppo grossa, non credo che l'Italia si avvicini alla guerra civile, ma certo è vicina, diciamo, alla perdita del senso dell'appartenenza comune, a una storia comune, in cui ciascuno deve avere un suo spazio, far vedere e far valere le proprie ragioni per creare sempre qualcosa di meglio, di più comprensivo, ma sempre nel senso della ricerca di quel verum bonum. Quando però si arriva ad incitare ad assumersi le proprie responsabilità nel non applicare la legge quando la si ritiene contraria ai dettami della natura - e lo dico da costituzionalista, ma prima ancora da cittadino, con moltissima preoccupazione - bisogna constatare che non c'è più il dialogo necessario alla convivenza costruttiva.
Per questo, io direi che dovremmo tutti quanti fare uno sforzo per dire non «non possumus» ma per dire «possumus», considerando che questa parola, «possumus», la diciamo in democrazia. Cioè, in qual regime, in quell'unico regime, che dà spazio e riconosce a tutti la possibilità di potere. Quello che a me preoccupa notevolmente nelle cose che stanno succedendo in questi tempi è che la Chiesa (purtroppo si parla della Chiesa con una semplificazione perché, la chiesa, come sappiamo, per fortuna è fatta di tante cose), le posizioni più radicali della Chiesa mettono in discussione proprio alcuni punti fondamentali della democrazia, che non chiede a nessuno di rinunciare alle proprie convinzioni. Ma partendo da queste, richiede che nel dibattito pubblico i dogmi non vengano fatti valere come tali perché altrimenti le regole della democrazia si inceppano.
Io, un po’ a provocazione, direi che noi, in quanto credenti nella democrazia, dobbiamo rivendicare il relativismo come il grande pregio della democrazia stessa. Mi spiego subito. Relativismo applicato alle istituzioni nel loro complesso che devono essere relativiste perché, solo a questa condizione, è possibile che tutti, come individui, come forze sociali, come movimenti, facciano valere la loro verità perché se le istituzioni non sono relativistiche vuol dire che assumono una posizione e assumendola escludono tutte le altre. Dire a una persona «tu sei un relativista», significa qualcosa di molto simile al dirgli «tu sei un nichilista, tu non credi in nulla». Ma dire che le istituzioni democratiche devono essere relativiste significa che devono sostanzialmente rispettare una posizione di neutralità tra le posizioni sostanziali che vivono nella società in modo che tutte possano vivere e possano espandersi.
Ecco, è una distinzione che va fatta. Il relativismo per le istituzioni è una virtù. Io vedo dei rischi per la democrazia che è il regime più debole che esista ma anche il più prezioso. Tra questi recentemente ci sono soprattutto quelli che vengono dall'assunzione, da parte della Chiesa, di una posizione così radicale espressa come quella espressa nel «non possumus», che vuol dire che alcuni temi sono sottratti al libero dibattito pubblico perché una parte del popolo italiano, rappresentato appunto dalla Chiesa, si arrocca e unilateralmente dà un giudizio non discutibile. Come, «non possumus»? Non puoi tu, ma ciò non deve impedire che nell'arena democratica venga aperto un dibattito. Quando si imbocca la strada del «non possumus», ciascuno, dalla sua parte, assume una posizione esclusivista e sovrana, toglie o mette nel dibattito pubblico senza lasciare spazio agli altri. Qui si scontra il clima delle cittadelle assediate. La chiesa si sente assediata, e non è vero che i cattolici non hanno voce, però, se noi guardiamo attentamente la situazione, ci accorgiamo che anche dal mondo dei non credenti c'è la stessa sindrome dell'accerchiamento e questa è la sensazione più pericolosa. Noi, senza considerare le posizioni estremistiche laicistiche e cattoliche, dobbiamo cercare di mettere da parte queste posizioni. Ed io mi permetterei di chiedere al mondo cattolico che in queste posizioni non si riconosce, di non tacere e di venire fuori con una voce più chiara, ma allo stesso tempo sarebbe bene che anche dall'altra parte, diciamo dalla parte dei non credenti in una fede religiosa, si manifestasse l'intento a riconoscere, dal punto di vista del non credente, l'importanza straordinaria del mantenimento della cultura cristiana come fattore costitutivo della nostra società. Io sono su queste posizioni.
Allora, riuniamo gli sforzi ma dicendo chiaramente quello che non va bene, non accettando passivamente perché non si devono accettare diktat soprattutto quando c'è una asimmetria. Un diktat che viene dal mondo cattolico, arriva da una struttura organizzata, una gerarchia di potere nell'ambito della Chiesa. Il mondo laico invece non ha, e non come suo difetto ma come suo elemento caratterizzante, alcuna autorità. Questa asimmetria va assolutamente riequilibrata. Io credo, da laico, che si possa formulare l'auspicio che nel mondo della Chiesa venga realizzata la necessaria apertura che gioverà certo anche a se stessa.

l’Unità Roma 23.3.07
Auditorium, la carica dei filosofi


A maggio la seconda edizione del festival quest’anno gemellato con la Fiera del Libro di Torino
Dopo scienziati e matematici si preparano ad invadere “le conchiglie” di Renzo Piano i filosofi. Sembra proprio che l’Auditorium Parco della musica non trovi pace, più aumentano presenze e prestigio, più si moltiplicano le iniziative. E la seconda edizione del Festival Filosofia, in programma dal 9 al 13 maggio, mira in alto sperando di superare le 35mila presenze dello scorso anno. La novità di quest’anno è il gemellaggio con la Fiera Internazionale del libro di Torino (10-14 maggio) su un tema comune a Roma: i confini. Confini che Giacomo Marramao declina con identità, e con linee che demarcano la soglia tra vita e morte, interno ed esterno, pubblico e privato, religione e politica. Confini come luogo di emancipazione, dunque. «Idealmente questa unione tra Roma e Torino conclude l’anno del gemellaggio tra le due città sotto l’egida dell’Unesco» ha spiegato Gianni Borgna, presidente di Musica per Roma. E «mette fine alle polemiche sull’eterno complesso che certe città avrebbero nei confronti di Roma, che “acchiappa tutto”» ha aggiunto il direttore editoriale della Fiera del libro di Torino, Ernesto Ferrero.
Attorno al tema del «confine» quest’anno ruoteranno parecchi sconfinamenti, dalla letteratura alla musica, dalla storia allo joga. Il programma dettagliato non è ancora pronto ma è certo che il calendario prevederà dieci lezioni magistrali, 17 tavole rotonde, sei lezioni su pensatori di confine, quattro incontri sul tema «Voci di confine», caffè filosofici, rassegne cinematografiche, spettacoli e concerti, per un totale di circa 60 appuntamenti distribuiti in quattro giorni. «Sto pensando anche di invitare dei cantautori» anticipa Borgna, che coordinerà anche un incontro con Nicola Piovani e Gianni Battistelli. Tanti gli ospiti che hanno già confermato la loro presenza: Peter Eisenman, Barbara Duden, Edouard Glissant, Marc Augè, Hanif Kureishi, Tarik Ramadan, Andrea Camilleri, Eugenio Scalfari, Fernando Savater, Peter Sloterdjik, Jean Luc Nancy, Edoardo Boncinelli, Gianni Vattimo, Giulio Giorello, Franco Cordero, Luciano Canfora, Andrea Giardina, Piergiorgio Odifreddi, Stefano Rodotà, Ernesto Galli Della Loggia.
«Quest’anno dobbiamo fare ancora di più - ha detto Marramao in conferenza - innanzitutto il festival deve diventare un punto d’incontro tra alta riflessione filosofica e esperienza del vivere comune, e anche creare una relazione costante con il pubblico, tant’è che una serie di tavole rotonde con illustri pensatori saranno aperte all’intervento del pubblico». L’appuntamento, dunque, è dal 9 al 13 maggio.

Repubblica 23.3.07
Ue, i vescovi tornano alla carica
"Le radici cristiane nella nuova bozza di Costituzione"
Riaperto il dibattito sulle radici religiose alla vigilia del cinquantenario
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Il mondo cattolico torna alla carica per far inserire nella Costituzione europea il riferimento alle radici giudaico-cristiane del Vecchio Continente. Il progetto - bocciato lo scorso anno a livello di commissione Ue in seguito ai referendum negativi di Francia e Olanda - era stato rilanciato all´inizio del 2007 dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, di stretta fede protestante, all´indomani dell´assunzione della presidenza del Parlamento europeo per il semestre spettante alla Germania. La stessa Merkel lo aveva annunciato anche a papa Benedetto XVI, suo connazionale, in una udienza in Vaticano. Dalla bozza messa a punto dalla Merkel sono esclusi i riferimenti di tipo religioso alle radici cristiane dell´Europa.
Ieri il tema è stato rilanciato in un documento ad hoc dal titolo «Un´Europa dei valori» redatto da un comitato di esperti - per l´Italia l´ex commissario Ue Mario Monti - istituito dalle Conferenze Episcopali dei paesi della Ue, che oggi celebrerà all´hotel Ergife di Roma i 50 anni del Trattato di Roma alla presenza dei delegati dei vescovi europei. I vescovi saranno ricevuti dal cardinale vicario Camillo Ruini, ideatore dell´iniziativa, che per l´occasione terrà una attesa prolusione.
Il testo sarà poi consegnato al premier italiano Romano Prodi che proprio ieri, in una intervista alla Rai, ha elogiato il ruolo storico dell´Europa, i cui paesi membri, ha detto, «hanno assicurato mezzo secolo di pace e di prosperità», spezzando una lancia anche a favore del riferimento alle radici cristiane europee. «In 50 anni all´interno dei confini europei non c´è stato un solo conflitto», ha specificato Prodi che ha anche ricordato la portata storica dell´avvento dell´euro. I Trattati di Roma oggi saranno celebrati anche al Senato e al Quirinale con la partecipazione delle più alte cariche dello Stato.
Quanto al Rapporto dei vescovi europei, vi si sottolinea, tra l´altro, che la «Ue non è nata per un caso del destino. Essa è frutto di una precisa volontà ed è fragile come tutte le imprese umane. Oggi cerca la sua strada per il futuro. Deve diventare più consapevole della forza che sta al cuore dei valori che rappresenta». Tematiche come «la dignità della persona e i diritti umani, la pace, la libertà, la democrazia, la tolleranza, il rispetto della diversità e della sussidiarietà, la ricerca del bene comune», sono per i vescovi europei «i valori fondanti» del continente, «non questioni improvvisate», che affondano le radici «in duemila anni di tradizione cristiana, oltre che nelle tradizioni di altre fedi e filosofie». Tra i punti concreti indicati dal Rapporto, «clima, energia e ambiente», ma anche «la sicurezza», che «implica la promozione dello sviluppo e la lotta alla povertà, come pure la lotta al crimine e al terrorismo internazionale, la risposta alla questione delle migrazioni di massa e, come ha fatto l´Unione, la promozione del diritto internazionale e le operazioni di pace in zone a rischio». Sfide che, sottolineano i saggi, «non possono essere affrontate da un unico Paese», ma richiedono «soluzioni globali» a «livello europeo». Infine, il Rapporto nota come l´impegno per le pari opportunità non va abbandonato di fronte alla «pressione della globalizzazione», ma «sviluppato per garantire pari accesso per tutti ai servizi di interesse generale». Ed indica, in termini di priorità, l´«uguaglianza tra uomo e donna, la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, i congedi di maternità».
«Come vescovi abbiamo costituito un ponte tra Unione europea, governi nazionali ed episcopati locali, per favorire un approfondimento nelle riflessioni di fronte alle sfide poste dalla costruzione dell´Europa Unita», ha spiegato il vescovo olandese Adrianus van Luyn, presidente della Conferenza episcopale Ue.
«Abbiamo sempre cercato - ha specificato il presule - di accompagnare anche criticamente, ma sempre in modo costruttivo, il cammino delle istituzioni europee». Cammino che non può non tener conto del riferimento alle radici cristiane del continente.

Repubblica 23.3.07
Arte e Malinconia
Da domani a palazzo della Ragione a Verona
Un percorso che parte dal cuore della rinascenza per arrivare sino ad anni a noi più prossimi


VERONA. Sguardi ripiegati e chiusi in sé; luci annottate e percorse da un brivido d´ignoto; lenti giri lunari su paesaggi sconvolti; ma anche sguardi saldi su un futuro di cui non si ha spavento (come si legge ad esempio negli occhi della Malinconia di Böcklin, che è l´immagine di copertina del catalogo Marsilio), e luci terse distese su paesi nitidamente digradanti (la Giuditta di Botticelli): la mostra Il settimo splendore: la modernità della malinconia che s´inaugura domani e che andrà avanti fino al 27 luglio nel Palazzo della Ragione di Verona, restaurato oggi da Tobia Scarpa con il sostegno della Fondazione Cariverona, non s´accontenta d´essere un repertorio dei simboli stretti, da sempre, attorno alla nozione comune dello stato d´animo malinconico. Piuttosto, essa vuol essere, come Giorgio Manganelli ha scritto di Ebdòmero, il capolavoro letterario di De Chirico, "un itinerario, un deposito di immagini, un catalogo di simboli, un collage di sogni, paesaggi, interni di abitazione (…), accesi, tutti, da una fosforescenza che sa di memoria, di visione". Un itinerario senza confini accertati, senza facili sponde iconografiche atte a stabilirne in anticipo il percorso: "una figura con il capo reclinato sul palmo della mano non rappresenta di per se stessa la malinconia, più di quanto non rappresenti, ad esempio, stanchezza, riflessione, noia", dice oggi Giorgio Cortenova, che la mostra ha immaginato e curato, assieme ai suoi collaboratori della Galleria civica di Palazzo Forti. Malgrado allora, "qualcuno le tiri le vesti verso l´antica accidia e qualcun altro la trascini verso le teorie psicoanalitiche più arrischiate, e qualcun altro ancora la voglia sposare all´ansia depressiva", lei, la musa malinconica, resta tetragona, per tanti secoli, al cuore del processo creativo: al punto che si possono infine "ipotizzare come inscindibili i due termini": malinconia da un canto, creatività dall´altro.
"Essere tristi senza saperne decifrare il perché": essere, o percepirsi, soli (l´attitudine riflessiva, la propensione alla meditazione che è parte così profondamente condivisa dal languore melanconico ha spesso per protagonista una invincibile solitudine) in una dimensione smisurata, alla quale si sia chiamati a partecipare ma dalla quale sia necessario, anche, sottrarsi: questo, in un territorio che resta vincolato alla creatività artistica ma che implica indagini parallele sul pensiero e sulla storia, ha costituito il tragitto lungo di studio e di ricerche che Cortenova ha intrapreso per individuare, e riunire in questa mostra, i tanti rivoli diversi che hanno nel corso dei secoli portato acqua al fiume della Malinconia. Che non ha un´unica foce; e nel cui letto alla fine troveremo, annidato fra altri splendori, ancora un mistero.
È questo un primo avviso che viene dalla mostra veronese che - consapevole della vastità, non solo temporale ma anche e soprattutto concettuale, dell´assunto che tratta - non intende tanto definire, battezzare e circoscrivere (come anche di recente hanno fatto altre rassegne, analogamente a questa di vasto respiro europeo, destinate allo stesso tema), quanto indicare, aggregandoli per grandi temi, i sensi possibili della vena malinconica così com´essa si è manifestata attraverso i secoli dell´era moderna: donde le varie sezioni, che come fili disgiunti e non necessariamente riconducibili ad unità, si allungano ciascuno entro i secoli della modernità che Cortenova indaga: "I conflitti della forma", "Gli enigmi dell´anima", "Visioni e visionarietà", "Il teatro della storia e della vita", "Lo spazio tra contemplazione e spaesamento", "Il brivido dell´ideale". Sentieri, tutti, che hanno un remoto avvio (rispettivamente individuato in Botticelli, Giorgione, El Greco, Caravaggio, Annibale Carracci, Canova), e un approdo a noi prossimo: costruiti con la consapevolezza che la malinconia abbia da essere "concepita come stato d´animo, come una metafora e un respiro che attraversano il mondo e le sue cose, gli esseri umani e il loro più profondo pensiero". E che, in quanto tale, essa sarà come un soffio d´acqua che s´inframette nel mondo trovando ovunque spiragli, pertugi, e polle dove allargarsi.
Uno stato d´animo che - è forse sorprendente notarlo: ma utile infine a porre distanza, ancora una volta, fra malinconia e attitudini depressive - sembra riguardare più la giovinezza che l´età matura e tarda: molti, almeno, degli esempi che oggi la mostra veronese presenta si riferiscono infatti all´albore dell´operosità dei singoli artefici: da Botticelli a Michelangelo, da Rosso a Guercino a Poussin, da Böcklin a de Chirico, da Mafai a Raphaël. Dal cuore della rinascenza italiana, dunque (quel luogo e quel tempo che Cortenova individua come originari del moderno sentimento della malinconia: il cenacolo mediceo di tardo Quattrocento), e sino ad anni a noi più prossimi.
La mostra allinea un numero altissimo di capolavori, provenienti da molti principali musei e collezioni europee: dipinti, sculture, disegni e incisioni - scelti con sguardo sempre attento a coglierne la spesso straordinaria qualità - da Dürer e da Pontormo fino all´età contemporanea, in un elenco amplissimo che è impossibile qui stendere senza lacune. Ricordiamo appena, del tempo più recente, disseminate lungo le sei sezioni della mostra, la forte presenza della scultura, con opere, fra gli altri, di Paolini, Parmiggiani, Icaro, Mattiacci, Calzolari, Trotta, De Dominicis, Uncini. Poi, andando all´indietro nel XX secolo, il nucleo importante dei De Chirico (alle cui spalle stanno, provenienti da Basilea, Zurigo, Darmstadt e Francoforte, alcuni celeberrimi Böcklin), e dei Savinio; Funi e Oppi; i "teatrini" di Melotti e un indimenticabile de Pisis estremo, fatto solo di ombre e di assenza (la Natura morta con calamaio); Mafai e Pirandello. Un passo importante la mostra lo compie attraverso l´arte visionaria (Füssli, Blake: con le radici individuate nel Greco e in Parmigianino, e gli esiti ultimi in Doré, Moreau, su fino alle Amalassunte di Licini); e nel sogno neoclassico di un´impossibile, e dunque fatalmente malinconica, restaurazione di bellezza troppo lontana (Canova, poi Ingres, e Hayez, Abbati, su fino a Maillol). Notevole, infine, la sosta sulla nozione secentesca della malinconia come Vanitas, ospitata soprattutto nella sezione "Il teatro della storia e della vita", che muove da Caravaggio e Annibale Carracci per giungere, attraverso la Malinconia di Fetti e il misterioso Et in Arcadia Ego di Guercino, a Poussin e a un´ampia selezione di spagnoli, da Ribera a Murillo.

Un tema enigmatico illustrato attraverso opere prestate da raccolte pubbliche e private. Fra gli altri, Botticelli, Tintoretto, Tiziano, Giorgione, Modigliani

VERONA. Il "Settimo splendore" è un´immagine del Paradiso dantesco: un´immagine colta, rubata al vertice della nostra poesia per farne il titolo di una Mostra che più colta non si potrebbe. E non perché - si rassicurino i nemici delle difficoltà - sia di spinosa lettura o pedantesco ordito: al contrario, è una mostra molto aperta e tutta da godere, per la qualità delle più di duecento opere che le sono date in prestito da prestigiosi musei e raccolte private, e per gli stimolanti pensieri suggeriti da accostamenti e testi.
Resta il fatto che, per essere colta, è colta, anzi coltissima; e in prima istanza per il tema enigmatico e sfuggente che vi è affrontato in immagini e parole.
La Malinconia! E´ un archetipo questo, e per più ragioni, della cultura occidentale, che per primo Aristotele si provò a definire. Ma di che cosa si tratti poi, al nocciolo, vall´a vedere! Dire uno stato d´animo è tutto, ma anche niente, se non soccorrono di volta in volta altri termini di qualità e motivazione. Sicché della sostanza, meglio d´ogni discorso può parlare un´immagine: quella figura alata, sprofondata in meditazione e attorniata da simboli, che il Dürer ci consegna in una celebre incisione al bulino, e che ci accoglie col Mostro Marino e il Cavaliere, la Morte e il Diavolo all´avvio della Mostra. Una triade che della Malinconia rinascimentale più ancora che un emblema esprime la quintessenza.
Affiorano dall´enigma alcune cose certe: e la prima è che la Malinconia, per esser tale, non è rimpianto né speranza, ma desiderio di un indefinibile «qualcos´altro»; il che ne fa uno stato d´insoddisfazione sempre temuto dal potere (che ha il malinconico in gran sospetto e li vorrebbe fuori dai piedi, se non in carcere o in clinica psichiatrica) ma anche per sua natura inguaribilmente creativo. Come vuol dirci la Mostra curata a Verona da Giorgio Cortenova, che ha per sottotitolo La modernità della Malinconia e resta aperta al Palazzo della Ragione fino al 29 luglio.
Ecco allora, scandita in sei episodi, una storia della Malinconia creativa come si configura dal Rinascimento all´oggidì. Dal Rinascimento non certo come principio della «cosa», che è vecchia quanto l´uomo, ma come punto di svolta nel rapporto fra l´Antico e il Moderno, che è anche una verifica di passate esperienze. «Fu il finito a sospingere verso l´infinito, e fu la forma perfetta a suggerire alla arte la malinconia per la forma irraggiungibile, raggiungibile solo in ciò che non si dà come forma». Così Giorgio Cortenova nel suo contributo al catalogo. Forma perfetta quella della Giuditta del Botticelli, dal cui bel volto irradia la malinconia per il compiuto doppio sacrificio, del Nemico (ma pur sempre un uomo!) e della propria castità vedovile. E malinconica brama della forma irraggiungibile del sonetto autografo e nella sanguigna di Michelangelo, che cerca la forma nel togliere l´involucro dall´idea nascosta nel marmo. Con altri esempi s´insegue l´evolversi del sentimento dell´artista rinascimentale in sintonia col sentimento del tempo, che in pochi decenni porta dall´assertiva fioritura della Bellezza nell´Amore al naufragio di troppe certezze perché la forma, sola, resti intatta. Così la forma s´incupisce, si disgrega, e già in più modi si sentimentalizza, in un percorso che attraverso la Madonna del Rosso Fiorentino con il Bambino e i due San Giovanni (è la famosa Pala di Villamagna) arriva alla Maddalena del Brescianino ed all´Allegoria della nascita dell´Amore del Tintoretto.
Il sentimento del tempo muta col tempo: si perde, e si ritrova per affinità di contesti magari dopo secoli. Così nell´ambito del primo episodio, intitolato "I conflitti della forma" si è sovrapposto a "La crisi dell´Umanesimo" e "Il ritorno alla origine degli artisti", nel succedersi di crisi belliche e ideologiche che pervade l´intero Ventesimo secolo. E all´origine, verso perdute forme di lontane civiltà, ritorna Modigliani nella sua Cariatide e nel Ritratto di Moise Kisling; e come lui anche Arturo Martini, Carlo Carrà (con Le figlie di Lot del ‘40 e la Donna con cane del ‘38) ed Antonietta Raphael cercano in tempi remoti suggerimenti per il loro fare contemporaneo. Per non dire di Fausto Melotti (Gli Dei se ne vanno) e Roberto Barni, il cui Atto Muto ci porta spedito nell´oggigiorno.
Il clima già diverso del secondo episodio parte veneto. Consumati i conflitti della forma, la malinconia si effonde ne "Gli enigmi dell´anima": uno spazio dell´espressione artistica che vede contrapposto L´incantesimo dello sguardo di Giorgione e i veneti in genere, da Tiziano al Lotto al Savoldo... al Tempo sospeso di malinconie moderne e contemporanee. Qui primeggia Arnold Böcklin con ben quattro prestiti di quel suo santuario che è il Museo di Basilea, ed altri due di Darmstadt e Zurigo.
Di lui si ha così sott´occhio sia La Malinconia (fatta persona in un volto muliebre che ci guarda anche dai manifesti della Mostra) che il risvolto omerico e mitologico dell´Odisseo sulla spiaggia e del Centauro in acqua. Ma «sospeso» è anche il tempo de La gardeuse de chèvres di Puvis de Chavannes e dell´Oreste e le Erinni di Franz von Stuck. Come pure (e più che mai) delle Piazze d´Italia di De Chirico e d´altri suoi dipinti degli anni fra il ‘14 e il ‘25 del secolo scorso. Lo stesso sentimento è rintracciato in opere di Casorati, Oppi e Funi, degli anni Trenta, fino a La prigioniera di Virgilio Guidi, che è del 1965. Quanto a menzione di contemporanei vivi e verdi, si cita Parmeggiani, De Dominici, e altro ancora.
La malinconia nell´arte è inquieta come il mercurio, che non lo puoi afferrare e corre dove lo chiamano pendenze impercettibili. Ma ha percorsi dove la vena affiora con speciale evidenza: ed uno è quello delle "Visioni e visionarietà". E´ quando l´incertezza sulla consistenza del reale si fa più drammatica, che le pulsioni della psiche prendono il sopravvento sull´ordine delle forme e i riscontri della Natura. E questo accade nel trapasso dal tardo e compiaciuto manierismo alla appassionata teatralità del mondo barocco. Ed anche in questo episodio sono messe a confronto due rotte d´espressione di un comune sentire, distinguendo tra "I fantasmi della forma" ravvisabili nell´arte del senese Beccafumi e in dipinti del Greco concessi da tre musei spagnoli, e "I fantasmi della psiche" che incalzano Füssli e Blake, e più tardi una Via Lattea di artisti che da Doré e simbolisti come Gustave Moreau e il nostro Previati si propaga, sfiorando anche Bonnard e Sickert, fino a Balla, a Delvaux e al Licini delle Amalassunte. Con una pletora di riscontri anche nell´oggi: da Guarienti a Vacchi a Petlin e Galliani.
"La vita è sogno" è un messaggio del grande teatro del Seicento: e se è tale, sta all´arte di tradurla in spettacolo. Il coinvolgimento che l´artista persegue porta all´enfasi, alla teatralità del barocco, dove s´intrecciano i fili di diverse e sottili malinconie: dal tema ricorrente della "Vanitas" come specchio della vacuità d´ogni gioia terrena, all´emozione cercata senza le mediazioni dell´allegoria nella pura forza dell´argomento e la veemenza della rappresentazione diretta e naturalistica.
Qui la Mostra si espande più che in ogni altro episodio con un florilegio di magnifici dipinti portati a rispecchiare due versanti del "Teatro della Storia e della vita". Per "Stupore e commozione" si va da La Maddalena addolorata del Caravaggio a quelle penitenti di Luca Cambiaso e del Guercino, all´Et in Arcadia ego dello stesso Barbieri - in prestito da Palazzo Barberini - ad opere del Fetti, del Mola, del Murillo, del Ribera, del Maestro della candela, e d´altri eminenti artisti dell´età barocca. Per "Le rovine : tensioni e frammenti", un tema suscitatore di incantesimi e rimpianti di un tempo lontano e irricuperabile, la rosa degli esempi parte dal Pannini, dal Piranesi e da Hubert Robert per giungere a Savinio, Mafai, De Pisis e Pirandello, fino a disperdersi in uno sciame, anche provocatorio, di contemporanei come Salvo, Paladino, Pistoletto, Bill Viola e Luca Pignatelli. Altro sarebbe da dire dei residui due episodi: "Lo spazio fra contemplazione e spaesamento", che considera Annibale Carracci, Poussin e Friedrich, e il "Brivido dell´ideale", dove dilaga il Canova, con Ingres e Maillol. Ma sarebbe uno sgarbo non lasciare uno spazio aperto agli amanti dell´imprevisto.

Repubblica 23.3.07
Gli antenati dei pacs
Classici/ Torna in libreria lo "scandaloso" saggio di Bertrand Russell sul matrimonio
di Piergiorgio Odifreddi


L´opera risale al 1929 e costò al filosofo numerosi attacchi da parte dei benpensanti e della Chiesa
Mentre il capitolo sull´educazione dei bambini causò un putiferio non ci furono reazioni sull´eugenetica
Basandosi sulle proprie esperienze teorizzò la coppia aperta e la massima libertà sessuale
Non mancano le proposte un po´ naziste tipo quella di favorire la diminuzione degli idioti e degli scemi


Il 24 febbraio 1940 il City College di New York affidò a Bertrand Russell l´incarico di tenere l´anno seguente tre corsi di filosofia: il primo sui concetti moderni della logica, il secondo sulle basi della matematica e il terzo sulle relazioni tra scienza pura e applicata. Il vescovo William Manning inviò immediatamente una lettera ai giornali cittadini, avvisando la popolazione che l´incaricato era «un uomo noto come propagandista antireligioso e antimorale, che difende in particolar modo l´adulterio». Il settimanale gesuita America precisò che egli era «un arido e decadente difensore della promiscuità sessuale», e il senatore John Dunigan dichiarò in aula che la filosofia di Russell «sovverte religione, stato e famiglia».
Passando dalle proteste alle denunce, una scandalizzata signora di nome Jean Kay chiese alla Corte Suprema di New York di revocare l´incarico al filosofo. L´avvocato dell´accusa definì le sue opere «lascive, libidinose, sensuali, erotiche, afrodisiache, irriverenti, grette, false e prive di contenuto morale». E il giudice John McGeehan sentenziò il 30 marzo, chiudendo ufficialmente la vicenda: «Si accusa Russell di aver divulgato dottrine immorali e libertine per mezzo di libri, riconosciuti come scritti da lui e qui presentati come prova. Non è necessario scendere in particolari sulle sudicerie contenute in queste opere: basterà citarne alcuni brani».
Uno dei (quattro) libri in questione, che nella sua Autobiografia Russell identifica come la fonte principale dei materiali per gli attacchi contro di lui, era appunto Matrimonio e morale: un´opera del 1929, che teorizzava modelli di comportamento che l´autore stava ormai praticando da qualche anno. Dopo il fallimento del suo primo e giovanile matrimonio con la puritana Alys Smith, egli aveva infatti sposato nel 1921 in seconde nozze la femminista Dora Black, di ventidue anni più giovane di lui, dalla quale l´ormai cinquantenne filosofo ebbe i suoi primi due figli (John e Kate): anzi, sembra che l´avesse sposata proprio perché era l´unica, tra le sue numerose amanti, disponibile a dargli un erede (per il titolo nobiliare che lui stesso avrebbe ereditato nel 1931).
La presenza dei bambini modificò la percezione della vita sentimentale di Russell, che prese a distinguere nettamente fra l´amore coniugale rivolto al mantenimento della famiglia e all´educazione dei figli, e l´amore passionale dedicato al soddisfacimento dell´attrazione romantica e della pulsione erotica. Dopo essere stato in precedenza, con altre donne, un amante geloso fino all´ossessione, egli accettò dunque di vivere con la promiscua moglie un rapporto di coppia aperta, spiegando nel Capitolo 10 di questo libro che «un matrimonio nato da un amore appassionato, e da cui sono nati figli desiderati e amati, dovrebbe far nascere tra un uomo e una donna un vincolo così profondo da rendere preziosa per entrambi la reciproca compagnia, anche quando la passione sessuale sia spenta, anche se uno dei due ami un´altra persona».
Quanto al divorzio, la posizione completamente espressa nel Capitolo 16 è che «il matrimonio dovrebbe essere inteso da tutt´e due le parti come un´unione amichevole, valida sino a che i figli diventino grandi». Ma poiché «tra i popoli civili liberi da inibizioni, uomini e donne sono generalmente poligami per istinto», ci si può aspettare che l´adulterio più che possibile, sia semplicemente inevitabile da entrambe le parti: esso però «non dovrebbe essere per se stesso una ragione di divorzio, a meno che non implichi una deliberata e assoluta preferenza per un´altra persona».
Detto altrimenti, meglio tradire il coniuge per amore dei figli, che divorziare da esso per amore di un amante.
Il problema non si pone, ovviamente, quando i figli non ci sono: in tal caso, cosa succede tra un uomo e una donna è solo affar loro, e ogni persona per bene dovrebbe riconoscere loro il diritto di prendersi e lasciarsi a piacere. Se invece i figli non solo ci sono nel matrimonio, ma ad essi se ne aggiungono altri che arrivano dal di fuori, allora i problemi si pongono eccome: Russell l´aveva previsto in teoria nel libro, e se ne accorse in pratica nella vita, quando la moglie ne ebbe due da un bisessuale (Barry Griffin) con il quale essa condivideva anche un altro amante (Paul Gillard). A questo punto il filosofo divorziò e si risposò nel 1936 con la ventiduenne Patricia Spence, di quarantadue anni più giovane di lui, che gli diede un terzo figlio (Conrad).
Non fu però l´esperienza con quest´ultimo, venuto al mondo quando ormai il libro era già scritto, a dettare a Russell le numerose pagine di Matrimonio e morale dedicate all´educazione sessuale, bensì quella con i primi due figli. E, soprattutto, con la scuola che egli aveva fondato con la moglie Dora nel 1927, per evitare che i bimbi propri e altrui fossero condannati alla diseducazione religiosa imperante, allora come ora, nelle scuole istituzionali pubbliche e private.
A proposito della sedicente etica cristiana, Russell l´accusa nel Capitolo 5 di essere «contraria ai fatti biologici» e «una morbosa aberrazione». Con buone ragioni, visto che nella Prima Lettera ai Corinzi si legge che «è bene per l´uomo non toccar donna», anche se «è meglio sposarsi che ardere»: ovvero, il Cristianesimo propone la castità come modello, e accetta il matrimonio unicamente come un rimedio contro la fornicazione. Per il Cattolicesimo, poi, persino i rapporti sessuali coniugali non finalizzati alla procreazione sono illegittimi: da cui l´ottusa proibizione degli anticoncezionali, anche se il bravo logico non può fare a meno di notare che «la dottrina cattolica non si è mai spinta sino a permettere lo scioglimento di un matrimonio a causa della sterilità». E meno che mai, come argomenta nel Capitolo 11, ad ammettere che la prostituzione è una conseguenza necessaria del fatto che «molti uomini, celibi o comunque lontani dalle moglie, non sanno rimanere continenti, e in una comunità convenzionalmente virtuosa non trovano nel loro stesso ambiente donne disponibili». A scanso di equivoci, Russell non era favorevole alla prostituzione, che anzi riteneva foriera di gravi pericoli sanitari e psicologici: in particolare, di abituare l´uomo a disprezzare la donna e a pensare di poter soddisfare il suo istinto sessuale a comando, con le possibili opposte conseguenze di arrivare a trattare la moglie da prostituta, o di idealizzarla e smettere di avere rapporti con lei.
Per questo Russell si rallegrava della nuova libertà sessuale che andava diffondendosi tra i giovani, e nel Capitolo 12 propaganda il «matrimonio di amicizia» proposto dal giudice Ben Lindsey, pioniere dell´abolizione del lavoro minorile e dell´introduzione del tribunale dei minori: semplicemente, si tratta di un tentativo di contrastare la promiscuità e di favorire una certa stabilità nelle relazioni sessuali dei giovani, permettendo loro di legalizzare il proprio legame con una specie di PACS (Patto Civile di Solidarietà) che può essere sciolto consensualmente e senza strascichi economici, finché non ci sono figli.
La futuribilità di queste proposte è evidente dal fatto che solo nel 1999, settant´anni dopo la pubblicazione di Matrimonio e morale, una nazione europea (la Francia) ha approvato i primi PACS per coppie adulte. Quanto al Vaticano, dopo aver per decenni chiuso gli occhi di fronte alle perversioni sessuali del proprio clero, che gli sono già costate un miliardo di euro in risarcimenti alle sole vittime minorili, li tiene oggi ben aperti per cercare di evitare a ogni costo che nelle nazioni cattoliche si diffondano la sanità sessuale e la felicità sentimentale.
Si può dunque ben capire come mai, ottant´anni fa, questo libro causò un putiferio con le sue idee sull´educazione dei bambini, i rapporti degli adolescenti e le relazioni degli adulti. Stranamente, non ci furono allora reazioni particolari a proposito del Capitolo 18 sull´eugenetica, che oggi suona un po´ nazista con le sue candide affermazioni che «gli esseri umani differiscono gli uni dagli altri per una capacità mentale congenita» e che «le persone intelligenti sono da preferire agli idioti», con le conseguenti proposte di misure sterilizzatrici per «diminuire il numero degli idioti, degli scemi e dei deboli di mente» pur «severamente limitate alle persone difettose da un punto di vista mentale».
Il fatto è che nel 1929 le leggi eugenetiche in Germania erano di là da venire. Erano invece già venute quelle degli Stati Uniti, talmente radicali che lo stesso Russell fu costretto a dichiarare: «Non posso accettare leggi simili a quelle dell´Idaho, che autorizzano la sterilizzazione dei malati mentali, epilettici, criminali abituali, degenerati morali e pervertiti sessuali». Queste leggi, adottate a partire dal 1907 da una trentina di Stati americani, dichiarate costituzionali nel 1927 dalla Corte Suprema, e solo nel 1933 copiate da Hitler, erano state ispirate da Harry Laughlin, che nel 1936 ricevette per questo una laurea ad honorem a Heidelberg.
Certe idee non erano dunque specialità tedesca, e risultavano appetibili anche agli inglesi: non solo ai filonazisti come il re Edoardo VIII, ma anche ai liberali come Russell, che dichiara candidamente in questo libro che «non possono sussistere dubbi sulla superiorità di una razza rispetto all´altra», e che «è giusto considerare i negri a un livello medio inferiore a quello dei bianchi».
In seguito Russell cambiò fortunatamente idea, ma le reazionarie idee sull´eugenetica non diminuiscono la portata rivoluzionaria di quelle sul sesso e l´amore espresse in Matrimonio e morale: un libro che non fu citato nella menzione del premio Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1950, come invece egli afferma nel terzo volume della sua Autobiografia, ma che certamente ha contribuito a meritargli la qualifica di «campione della libertà di pensiero e di parola» assegnatagli dal comitato di Stoccolma.

Repubblica 23.3.07
America, l'impero lungo un secolo
di Bernardo Valli


Negli ultimi tempi l´uso della forza pura ha portato a enormi errori politici
L´immagine del Paese di oggi è Sidney Bristow l´eroina di una vecchia serie televisiva
Prima del 1898 l´americano somiglia molto ai personaggi dei romanzi di James
Il primo intervento militare in Europa avvenne durante la Grande Guerra


Che età ha l´impero americano? Una ricorrenza importante è sfuggita nove anni fa all´utile, educativa attenzione riservata agli anniversari, grandi e piccoli, che consentono di risfogliare la storia, sia pure in modo sbrigativo. Mi riferisco al centenario dell´irruzione degli Stati Uniti sulla scena mondiale, come potenza imperiale, avvenuta nel 1898, in occasione della guerra contro la Spagna. Guerra che ha portato i soldati americani fuori dai confini, dai Caraibi (Cuba) al Pacifico (Filippine). La rievocazione serve a misurare i tempi e sollecita interrogativi sulla natura del nostro secolo, appena cominciato. Nella nostra comoda, confortevole, frustrante decadenza, noi europei siamo curiosi. Tentare una lettura dell´avvenire attraverso la lente della storia è un esercizio periglioso. Azzardato. Lo so.
Se si considera il 1898 come la sua data di nascita, l´impero americano figura già per la durata nei primi ranghi. L´anno prossimo compirà il centodecimo compleanno, anche se si è manifestato in tutta la sua potenza molto dopo. Sul piano militare, durante la Grande Guerra (‘14-‘18) è intervenuto per la prima volta in Europa determinando o affrettando la sconfitta della Germania guglielmina, ma sul piano economico superava la Gran Bretagna dalla fine dell´Ottocento. Certo, se guardiamo i grandi imperi del passato, partendo dalla sconfitta definitiva di Cartagine all´inizio delle invasioni barbariche, quello romano è durato cinque secoli. L´impero spagnolo secondo gli storici almeno un secolo e mezzo, tra il ‘500 e il ‘600. Quello britannico più o meno altrettanto, dalla seconda metà del ‘700 alla Prima guerra mondiale, quando è cominciato il suo declino. La dissoluzione è stata più tardiva, tra il 1947 e il 1960. Le date della storia non rientrano nella matematica.
Durata a parte, a un europeo non può sfuggire la singolarità della potenza americana. In Occidente soltanto l´impero romano (secondo François Heisbourg, che, dall´International Institute for Strategic Studies di Londra, misura «lo spessore del mondo», come dice il titolo di un suo saggio) ha esercitato una potenza e un´influenza tanto forti, sia pure in un´area geografica più limitata. La singolarità degli Stati Uniti risiede nel fatto che, a differenza dei grandi predecessori, compreso quello romano, essi non hanno rivali in grado di affrontarli e strappare loro il primato. Possono essere contestati. Lo sono stati e lo sono. Possono anche essere sconfitti. Ma in casi specifici e in aree e tempi limitati. Nonostante questa supremazia, ci si può chiedere se anche il nuovo secolo, in cui siamo appena entrati, sia destinato ad essere americano. Non parlo di declino della potenza americana. L´interrogativo riguarda unicamente la capacità dell´egemonia americana di strutturare il sistema internazionale, come è accaduto negli ultimi decenni. Il presente ci induce a dubitare.
***
Prima del 1898 l´americano era agli occhi europei molto simile ai personaggi dei romanzi di Henry James. Approdati sul Vecchio Continente in pieno Ottocento, quei personaggi sono i figli di vasti spazi vergini capitati su una terra satura di storia. La loro grande letteratura si muove in spazi immensi e vuoti (Moby Dick di Melville), non nei labirinti urbani popolari e borghesi (di Balzac e di Dickens). Attraversato l´Atlantico e inoltratisi in questi labirinti, gli americani di James, perlomeno quelli dei primi romanzi, sono degli ingenui sbarcati in una società sofisticata. Sono i prodotti della coscienza protestante smarriti in un cattolicesimo enigmatico e inquietante. Al contrario degli europei eredi dei patrimoni familiari, sono gli eredi di quel che hanno realizzato come individui. Si sono fatti da soli e ne sono fieri. Si aggirano nei musei cercando con candore di farsi raccontare dai dipinti appesi alle pareti l´Europa che vogliono scoprire a loro volta, come Colombo ha fatto con l´America.
Christopher Newman, l´impacciato eroe di L´Americano, è la trasparente allegoria di quel candore. Il paragone di James tra le due sponde dell´Atlantico (dice con ragione Mona Ozouf in un saggio sui «poteri del romanzo») riguarda più le coscienze morali che le società. Per lui, in un americano l´arditezza dei toni e la negligenza formale si accompagnano al rigore etico. Invece nell´europeo, agli occhi di un americano dell´epoca, la forma prevale su tutto il resto e nasconde il vizio, il gusto del piacere. L´uso del denaro, per l´europeo cattolico fonte di peccato, è per l´americano protestante un importante, decisivo capitolo della severa morale predicata dai padri fondatori del mercato sovrano.
Nel frattempo si sono consumati due secoli: si è consumato l´Ottocento europeo, già sulla soglia del declino quando Henry James, americano ritornato alle origini europee, scriveva i suoi primi romanzi; e si è consumato il Novecento americano, durante il quale gli spontanei personaggi di Henry James sono diventati i protagonisti di una storia imperiale. Di tragedia in tragedia, tra conflitti e ricostruzioni, tra rivoluzioni e restaurazioni, gli europei hanno perduto potere e influenza sul resto del mondo, e hanno acquisito benessere e libertà individuali senza precedenti, grazie all´America che li ha affrancati dalle ideologie liberticide e che al tempo stesso li ha detronizzati, meglio confinati in una dignitosa, benestante periferia. Noi europei occidentali viviamo una pace di cui non troviamo esempi, per quanto riguarda la durata, nel nostro passato moderno. Una pace accompagnata da una sussiegosa saggezza. Una saggezza esemplare anche perché alleggerita dalle responsabilità imperiali. L´Asia sta per superarci. Lo storico sorpasso, almeno per alcuni aspetti, è già avvenuto. Persino l´impero americano, impegnato altrove, segue con uno sguardo spesso distratto le vicende della terra da cui sono arrivati i suoi antenati e in cui venivano in pellegrinaggio i personaggi di Henry James. Quest´ultimo stenterebbe a riconoscere i pronipoti di Christopher Newman, milionario (in dollari del suo tempo) grazie a una fabbrica di wc.
***
Se è vero che la televisione non si accontenta di riflettere la realtà, ma la crea, Sidney Bristow, l´eroina di Alias, famosa e ormai vecchia serie televisiva di ABC, è l´immagine romanzata dell´America d´oggi (dicono Merryl Wyn Davies e Ziauddin Sardar in Why Do People Hate America?). Sidney, come l´America, ha una doppia personalità. E´ l´innocenza e la virtù incarnate. E´ una ragazza ansiosa e non troppo sicura di sé, che lavora con accanimento per superare gli esami universitari, consola l´amica innamorata e infelice, piange il fidanzato scomparso, rimprovera il padre negligente, si interroga sulla madre nevrotica, compie continue introspezioni nel tentativo di capirsi. Ma quando è in missione (come agente doppio della Cia e di un´organizzazione nemica dell´America che cerca di sconfiggere) Sidney si trasforma in una macchina di guerra. Aiutata da una tecnologia avanzatissima, si batte con la tenacia di Terminator, distribuisce calci che raggiungono le ganascie degli avversari, salta da un grattacielo all´altro e non si arrende neppure quando dei torturatori viziosi le strappano un molare con una pinza.
Supera tutti gli ostacoli, rischia la vita, con un´assoluta fiducia in se stessa e una professionalità ineccepibile.
Per Alias l´America è il mondo. In un episodio l´azione si sposta in un batter di ciglio da Los Angeles al Cairo o a Mosca o a Roma o a Oxford o in Toscana o a Sao Paolo o a Ginevra o a Madrid. Passa da un ospedale psichiatrico rumeno a un deserto argentino. E ritorna puntuale a Los Angeles. Il resto del mondo è la veranda dell´America. Quel che Alias mostra con tanta sicurezza (dicono sempre Ziauddin Sardar e Merryl Wyn Davis) non è tanto che l´America vuole governare il mondo, ma che lo governa già. Stati-nazione, frontiere geografiche, strutture politiche sono ostacoli che l´acrobatica, sentimentale, audace, spietata e innocente Sidney, pronipote dell´impacciato Americano di James, scavalca con disinvoltura. Come se si muovesse nel cortile sotto casa.
***
Un europeo dice: l´impero americano. Uso anch´io con generosità l´espressione. Ma per l´eroina di Alias l´idea di impero implica, non del tutto a torto, l´esistenza di territori (colonie) in cui le popolazioni sono costrette a sottomettersi. Un impero si appropria con la forza dei mercati di paesi lontani, dove impone al tempo stesso una legge diversa, più ingiusta di quella in vigore nella metropoli. Oggi il pianeta assomiglia invece, per Sidney, a un prolungamento della società americana in cui individui e comunità accettano sempre di più i suoi valori (che sono universali), la sua cultura, i suoi costumi. Dal sistema democratico, sia esso formale o reale, alla lingua, dai blue jeans agli hamburger, dalla musica all´architettura, dalla tecnologia a tutti i campi della scienza. Per Sidney l´America è il mondo e quindi gli interessi dell´America sono quelli del mondo. Coloro che si oppongono a questi interessi sono dei fuori legge. Sono i barbari della nostra epoca.
***
Sidney è allineata sui neoconservatori? La storia dell´idealismo americano supera di gran lunga quella degli intellettuali e dei politici che hanno influenzato l´amministrazione di Bush junior.
Conversando con il romanziere europeo Marc Weitzmann, il professor Stephen Kotkin, insegnante a Princeton, spiega cosi quell´idealismo: «E´ un´impulsione missionaria, un desiderio di convertire il mondo a quello che, noi americani, siamo».
Aggiunge: «E´ un sentimento molto profondo. E´ la base della nostra identità. Non ci sentiamo a nostro agio quando la gente non vive come noi. E´ una febbre. Il realismo è la medicina per combattere questa febbre, ma in America la febbre è uno stato normale». Agli orecchi europei queste parole possono ricordare quelle dei missionari che accompagnavano le conquiste coloniali. Ma siamo lontani da quei tempi, e, almeno per alcuni non trascurabili aspetti, da quello spirito.
L´impero americano si basa sulla potenza ma anche sull´influenza. E quest´ultima occupa molto spazio quando si misura l´egemonia americana. Il soft power (come Joseph S. Nye j. chiama l´influenza, distinguendola dalla «potenza dura») ha le sue radici nel progetto ideologico, politico e religioso, da cui sono nati gli Stati Uniti. Un progetto originale in cui noi europei ritroviamo il nostro umanesimo, ma corroborato da un pionierismo al tempo stesso religioso e mercantile; i lampi dell´illuminismo e un impegno militante protestante; il rifiuto del colonialismo, derivato anche dalla condizione coloniale da cui gli Stati Uniti si sono emancipati; e al tempo stesso la necessità di colonizzare uno spazio occupato da altri, per realizzarvi la società ideale.
Non pretendo che questo cocktail, tanto promettente quanto ricco di contraddizioni come tutto quello che nasce dalle menti più fervide, riassuma quello che c´è o c´è stato alla base della nazione americana. Ma noi europei ne scorgiamo le tracce nei personaggi di James e di Alias. Tracce appena velate o deformate dal tempo trascorso tra gli uni e gli altri. E naturalmente le ritroviamo nei libri di storia, in cui è chiaro come il messianismo, frutto di quel cocktail, si sia manifestato sulla scena mondiale a partire dall´ultimo Ottocento. Sempre la storia e la cronaca che non è ancora storia ci dicono che gli slanci messianici non hanno sempre rispettato i valori cui si ispiravano. E´ il meno che si possa dire. Quegli slanci hanno ricalcato a volte l´imperialismo europeo; nelle fasi isolazionistiche si sono rivolti e spenti all´interno della società americana; hanno contribuito in modo determinante al funzionamento del sistema-mondo. Ci sono stati momenti (riassumibili in tre esempi, di diversa importanza ma con valore morale molto simile: Hiroshima, My Lai e Abu Ghraib) in cui il raggiungimento degli obiettivi ha fatto smarrire il senso della misura e dell´onore. Ma tutti quegli smarrimenti hanno provocato dibattiti, ripensamenti, condanne, mea culpa, che sarebbe disonesto non ricondurre all´idealismo americano originale. Assai più candido, spesso più autentico di quello europeo, reso più perverso nelle epoche imperiali dalla lunga storia.
***
Di tutto questo noi europei teniamo conto quando ci interroghiamo sulla nostra posizione rispetto all´impero americano. Ne facciamo parte, come un frammento magari periferico dell´Occidente, come un alleato naturale, come una mano o un piede, o le estremità dell´uno o dell´altro, appartengono a un corpo umano? Sidney, l´eroina di Alias, risponderebbe con un « sì» netto. Ma la sua affermazione risulterebbe troppo categorica. Troppo imperiosa.
Decreterebbe di fatto una dipendenza. Christopher Newman, l´ottocentesco americano di Henry James, sarebbe meno categorico e più rispettoso, più comprensivo. Certo, lui appartiene all´epoca preimperiale. Il suo idealismo non è ancora contaminato. E´ meno pervertito. Ma la Costituzione americana del suo tempo è anche quella di oggi. E´ la stessa che elenca i valori cui si ispira ufficialmente l´America di George W. Bush.
E l´America dei nostri giorni si è caratterizzata più con l´uso della forza pura che con l´influenza nel rapporto di forza con il resto del mondo. La prima (hard power) ha appannato, se non proprio cancellato, la seconda (soft power). Agli occhi di molti europei, con Bush j. gli Stati Uniti si sono allontanati dal principio secondo il quale il loro progetto imperiale, basato su valori universali, non può affidarsi alla sola potenza. Questa egemonia unipolare ha dato risultati catastrofici ed ora è sempre più contestata dagli stessi americani. Allo stadio attuale gli Stati Uniti conservano il primato, ma la loro capacità di contenere il disordine mondiale non è più la stessa. La loro influenza ha perduto peso.
Minimizzando, si può dire che l´Iraq sia, sul piano militare, soltanto un incidente. E´ stata un´imprudenza impegnarsi in una guerra asimettrica, in cui la superiorità di un esercito classico, con tecnologie avanzate, viene quasi annullata. Ma, sempre sul piano militare, è un caso specifico in un´area limitata. E´ chiaro quel che l´ottantenne Andrew Marshall risponde al visitatore europeo (lo scrittore Marc Weitzmann) che gli chiede: «Cosa pensa di Bagdad?» Marshall, fu uno degli autori del programma della «guerra stellare», ai tempi di Reagan, e lavora con qualche interruzione, al Pentagono, dal 1949. E´ amico intimo, e condivide le idee, di Herman Kahn, che servì da modello a Stanley Kubrick per Il dottor Stranamore. Ebbene Marshall risponde che non guarda troppo da vicino quel che accade in Iraq. Lui è impegnato in cose più serie. Sta pianificando «la prossima guerra con la Cina, tra una ventina d´anni, sotto l´acqua o nello spazio». L´Iraq è dunque un incidente con non gravi conseguenze militari. Ma è stato un enorme, forse irreparabile errore politico. Ha dimostrato che neppure una superpotenza, al momento senza seri concorrenti, può gestire il mondo da sola. Non ne sembra più capace. E il secolo è appena cominciato.

Corriere della Sera 23.3.07
Mussi: scissione?
Decideremo il 29 tutti insieme


ROMA — «La somma tra i voti raccolti dalla mozione Fassino e da quella Angius è del tutto arbitraria. I dati dicono che la mozione di Fassino è al 76,1%, la mozione Mussi al 15,2% e la terza, quella di Angius, all'8,3%». Così Fabio Mussi (nella foto), a margine della presentazione della sua mozione alla sezione Ds della Garbatella, a Roma, ha risposto al segretario della Quercia, Piero Fassino, che mercoledì aveva detto che la sua mozione era a quota 85%, sommando anche i voti di quella presentata da Gavino Angius.
Il leader della sinistra Ds ha preferito fare «una somma diversa», sottolineando che «un quarto degli iscritti è contrario o ha fortissime obiezioni rispetto alla creazione del Partito democratico».
Mussi ha poi spiegato che i dati relativi alla sua mozione cambiano notevolmente nelle grandi città: «Ad esempio a Roma siamo al 40%». Per quanto riguarda la possibile scissione dai Ds, Mussi ha confermato la posizioni della sua corrente: «Se si sceglie di fare un partito si è liberi di non aderire. È improprio parlare di scissione ma io non me la sento di aderire a quel partito».
Il ministro ha quindi spiegato di non aver ancora deciso sul che fare dopo: «Prenderemo una decisione tutti insieme il 29. Presenterò un documento e discuteremo».

Repubblica 22.3.07
Il nuovo romanzo dei Wu Ming
Come finì il regno di Manitù
di Siegmund Ginsberg


Protagonisti di 'Manituana' sono gli irochesi, tribù indiana sterminata da George Washington Una delle grandi civiltà del continente americano - Leggevano Voltaire e suonavano il violino Avevano doti diplomatiche - Univano briciole di spiritualità al gusto per la magia e per l'occulto - Il titolo evoca il Grande Spirito, la cui storia è in forma di leggenda

Gli ordini venivano direttamente da Washington. Non si sarebbe dovuto mostrare la minima esitazione nell' operazione contro «le tribù ostili delle sei nazioni», e i loro «sodali e clienti». Niente compromessi, nessun «tentativo di pacificazione», quando è in gioco la sicurezza dell' America. «La nostra sicurezza futura risiede nel renderli incapaci di danneggiarci, e nel terrore che la severità della punizione saprà instillare nelle loro menti», suonavano gli ordini firmati da George Washington il 31 maggio 1779, indirizzati al maggior-generale John Sullivan. «L' obiettivo immediato è la distruzione totale dei loro insediamenti, e la cattura del maggior numero di prigionieri di entrambi i sessi e di tutte le età... sarà essenziale devastare i campi impedendo il raccolto in corso e quelli futuri... consiglio e raccomando di insediarsi al centro del territorio indiano con una scorta sufficiente di vettovaglie munizioni e da lì far partire le spedizioni contro i villaggi all' intorno, dando istruzioni di farlo nel migliore e più efficace dei modi, così che il paese non venga semplicemente saccheggiato, ma distrutto...». Ci sono rimaste le lettere dei protagonisti di quella spedizione agli ordini di Sullivan, esterrefatti di come «abbiamo trasformato quella bellissima regione da giardino a scenario di desolazione e nauseante devastazione». Altri testimoni raccontano di come si erano divertiti a scorticare i corpi di alcuni degli indiani uccisi «dalle anche in giù, per farne coperture per gli stivali o i gambali». Gli indiani sopravvissuti soprannominarono Washington «distruttore di città», e pour cause: in meno di cinque anni ventotto delle trenta cittadine abitate dal popolo Seneca nel territorio compreso tra i lago Erie e il fiume Mohawk furono cancellate dalla faccia della terra, e una percentuale analoga degli altri villaggi delle tribù delle «sei nazioni» irochesi. Uno degli Ojibwa sopravvissuti glie l' avrebbe detto in faccia, nel 1792, a Washington diventato ormai padre della Patria: «Ancor oggi, quando si sente il vostro nome, le nostre donne si guardano alle spalle e impallidiscono, e i nostri figli si aggrappano al collo delle madri». Fu la fine di una delle civiltà più straordinarie ed avvincenti che siano fiorite nel continente americano, la più tollerante, la più «meticcia», la più avanzata, per molti versi la più «moderna», quella degli Irochesi. Avrebbero continuato a incuriosire a lungo il vecchio continente. Le loro usanze affascinarono per tutto l' Ottocento alcune tra le migliori menti dell' Europa, da Alexis de Tocqueville a Karl Marx, che leggendo Henry Morgan, e forse anche Fenimore Cooper, negli ultimi quaderni di appunti, quelli solo da poco raccolti col titolo Manoscritti etnologici li scoprì come anticipatori di un suggestivo «comunismo reale» pre-Usa, molto libertario, molto femminista (il potere nel clan era in mano alle donne), molto «spirituale». Ancora oggi se ne favoleggia, in studi specialistici, come degli «inventori» della democrazia americana, c' è chi li vede come precursori dello spirito di libertà, della Costituzione Usa e persino della libertà religiosa e del melting pot. Sarà esagerato, erano guerrieri, razziavano, scorticavano, facevano collezione di scalpi anche loro. Ma degli scomparsi è più difficile trovar da dir male. Abitavano una vasta estensione di terra, al confine attuale tra gli Stati uniti e il Canada, che a lungo fu il Medio oriente di allora: il punto costante di attrito tra le potenze continentali in guerra tra loro, Francia e Inghilterra, teatro di faide sanguinosissime tra le tribù indiane nell' orbita degli uni o degli altri, e di frequenti voltafaccia. Uno straordinario avventuriero irlandese, William Johnson, era stato adottato dagli irochesi e ne era diventato sachem. Gli inglesi, che lo fecero Sir, per i servigi alla Corona, lo chiamavano «il selvaggio bianco». Gli indiani lo chiamavano, Warraghiyaghey, cioè «uomo che compie grandi imprese». Aveva sposato una irochese, la principessa Degonwadonti, nota però soprattutto col suo nome irlandese, Molly Brant. Come suo fratello, il grande guerriero Thayendanegea, sarebbe diventato è più noto come Joseph Brant. Molti dei più grandi capi irochesi si facevano chiamare con nomi europei: Teeyeneenhagarow, detto anche Tiyanoga, capo supremo delle nazioni irochesi, è più noto col nome che gli era stato dato dagli olandesi: Hendrick Peters. Non erano affatto «selvaggi». Se non nel senso che all' occorrenza non rifuggivano da metodi tipo quelli che il generale Washington avrebbe poi ordinato nei loro confronti: dare una lezione ai francesi, «by taking Scalping & burning them & their settlements», scotennando e bruciando, è il modo in cui Sir Johnson definisce le sue spedizioni in Canada all' epoca delle guerra coi francesi. Solo che lui ci sapeva fare anche con l' immagine: riuscì a commissionare a Benjamin West un quadro in cui lo si ritrae mentre salva la vita ad un ufficiale francese prigioniero fermando l' indiano che lo vorrebbe scotennare. Questa era gente raffinata che, oltre a saper fare la guerra e cacciare, leggeva Voltaire e suonava il violino. Univano gusti raffinati e passione per la musica a doti di retorica e diplomazia. Continuarono ad essere tra i più leali e fedeli combattenti a sostegno della Corona britannica, anche contro i «ribelli» dalla cui sanguinosa insurgency sarebbero nati gli Stati uniti d' America. Sono i protagonisti dell' ultimo romanzo dei Wu Ming, fresco di stampa presso Einaudi. Si intitola Manituana, 613 pagine che scorrono come le cascate del Niagara. Prosegue quello che è ormai un genere letterario, un «classico» anche da esportazione, come lo erano diventati gli spaghetti western di Sergio Leone. Bisogna arrivare a pagina 135 per capire il titolo, che evoca Manitù, il Grande Spirito, Dio, l' Allah degli Indiani d' America. Ci viene spiegato in forma di leggenda: «Due tribù si contendevano la terra. Una abitava a nord del San Lorenzo, l' altra a sud. Il Padrone della Vita, amareggiato per quella guerra, decise di scendere dal cielo con un misterioso bagaglio... srotolò la coperta e dentro c' era una terra di delizie, creata perché tutti vivessero nell' abbondanza e non ci fosse più motivo per combattere... Per lunghi anni il popolo del Sud e il popolo del Nord vissero in pace su Manituana. Per parlarsi mescolarono le loro lingue, così che nessuna incomprensione potesse sorgere. Nacquero i primi figli e molti di essi avevano il padre di un popolo e la madre dell' altro. Ciascuna famiglia voleva che i discendenti imparassero innanzitutto la lingua e le abitazioni degli avi. Così mentre i figli crescevano e parlavano la lingua bastarda che non era madre per nessuno, la gente del Nord e la gente del Sud ripresero ad odiare... Le grida e i canti di guerra salirono in alto e spinsero il Padrone della Vita a scendere una seconda volta. Arrivato sulla terra capì che gli uomini combattevano di nuovo per colpa del suo regalo. Allora raccolse la coperta e la portò via. Ma mentre scostava la tenda del cielo, la coperta si aprì e la terra precipitò nel fiume. Si levarono onde altissime e i guerrieri schierati sulle sponde morirono tutti. Manituana si frantumò in pezzi, briciole, scogli. Le mille isole del San Lorenzo.... ». Oltre a briciole di spiritualità e un po' di magia ed occulto (sogni, preveggenze) l' appassionato vi troverà il consueto impareggiabile mestiere collettivo, molti effetti speciali, molta azione. Tra le trovate per argomentare che non sempre quelli che chiamiamo selvaggi sono selvaggi e non sempre quelli che chiamiamo civili sono civili, l' idea di spostare l' azione a Londra per poter introdurre i Mohocks, bande di giovani inglesi di buona famiglia che seminavano terrore tra la gente per bene travestiti da indiani. È però dubbio che siano mai esistiti. Impareggiabili gli inventari e note delle spesa estremamente dettagliati, di impressionante accuratezza. «I colori per il volto e il corpo. Specchi di ogni foggia e misura, intarsiati o con priore incastonate di varie tinte. Un barile di melassa e uno di carne secca... giacche di lana, calde, resistenti e di buon taglio... tabacco da masticare di ottima qualità. Collane di wampum. Un grande corno di bue pieno di polvere da sparo... Echi di martello, rintocchi di chiodi che bucano legno. Stridore di seghe, sbattere di travi. Sgorbie che intagliano e pialle che lisciano. Canti di lavoro, grida e imprecazioni. botti e otri, barche e uomini, moschetti e remi, sacchi di pietre focaie, corni da polvere, casse di chiodi, ferramenta... Muscoli dolenti, carne squarciata, buchi di pallottole. Sangue rappreso tra palpebre e occhi». «Il capitano Jacobs si voltò, le mani sullo stomaco. Mentre vacillava ebbe il tempo di vedere l' indiano spaccare il cranio al secondo ufficiale con un solo colpo di tomahawk e piantare il coltello nelle costole del sergente maggiore. Erano movimenti fluidi, una danza. Dio mio. Sentì le ginocchia cedere, si accasciò, sputò il sangue che saliva in gola e cercò l' aria a bocca spalancata... Il signore è il mio pastore. Il tenente Bones si ritrovò la canna del fucile sotto il mento mentre cercava di imbracciare la propria arma. Il colpo gli staccò la testa di netto e la fece volare lontano. Su pascoli erbosi mi fa riposare e ad acque tranquille mi conduce. Donkers alzò il fucile, ma il panico gli impedì di sparare dritto e si ritrovò le budella tra i piedi, le mani che annaspavano nel tentativo di trattenerle. Mi rinfranca e mi guida per il giusto cammino. Abrahamson si avventò alla baionetta digrignando i denti. Quando il tomahawk gli spezzò il braccio con un rumore secco rimase immobile a contemplare l' arto che gli pendeva dalla spalla...». Alla quarta o quinta volta che ritornano le prodezze del Grand Diable Lacroix si ha forse l' impressione del dejà lu. Ma non è che uno smette di andare a vedere i film di James Bond solo perché si sa cosa si vedrà. L' unica cosa faticosa è tener dietro alla girandola dei personaggi, indiani con nomi europei ed europei che si travestono da indiani: va bene, d' accordo, i Senza Nome non saranno Tolstoj, ma verrebbe comodo un elenco da tenersi come segnalibro, come per quelli di Guerra e pace.

La Stampa 23.3.07
L’uomo che ruba la vita degli altri
Come Zelig, si immedesima in chi gli sta davanti
di Fulvio Milone


NAPOLI. Leonard Zelig esiste davvero. Il camaleontico protagonista del film cult di Woody Allen, nella realtà, ha le sembianze di A.D., napoletano, 65 anni, con una carriera da professionista bruscamente (e drammaticamente) interrotta da un disturbo comportamentale che non ha precedenti nel suo genere: si trasforma nel suo interlocutore, è medico quando ha a che fare con un medico, diventa un esperto di cocktail se si trova di fronte a un barman, è un cuoco provetto se entra in una cucina. La sua storia è raccontata dalla rivista medica inglese «Neurocase», che ha pubblicato uno studio di tre psicologi della casa di cura «Villa Camaldoli» di Napoli: Giovannina Conchiglia, Gennaro Della Rocca e Dario Grossi. Sono loro che studiano il caso di A.D., vittima due anni fa di un arresto cardiaco che ha provocato un’ipossia cerebrale con danni al lobo fronto-temporale. Una patologia grave, che può provocare disturbi della memoria e del comportamento. Ma che A.D. fosse colpito dalla «sindrome di Zelig», questo i medici proprio non se l’aspettavano.

«Abbiamo trattato molti casi di pazienti che imitano i gesti dei loro interlocutori, o che tendono a usare tutti gli oggetti che hanno davanti: si chiama sindrome da dipendenza a m b i e n t a l e » , spiega la dottoressa Conchiglia. Ma l’immersione di A.D. nel contesto in cui di volta in volta si trova è pressoché totale. Gli psicologi hanno eseguito una serie di test dai risultati sorprendenti. Lo hanno portato in un bar, e lui si è trasformato in barman. A chi gli chiedeva come si preparasse un determinato cocktail, ha risposto di essere ancora in prova: «Sono qui da due settimane, spero di avere il posto fisso». In cucina era un cuoco provetto: «Sono uno chef specializzato in menu per diabetici», ha spiegato senza un’ombra di esitazione, assolutamente immedesimato nella sua nuova identità. L’unico ruolo in cui non si è calato è stato, chissà perché, quello di addetto alla lavanderia della casa di cura. Ma per il resto, A.D. ha «rubato» il mestiere a tutte le persone che aveva davanti.

Psicologo fra gli psicologi, cardiologo fra i cardiologi, ha cercato anche di usare un linguaggio appropriato all’occasione. «Gli abbiamo fatto delle domande-trabocchetto a cui ha risposto con frasi passe-partout - racconta la dottoressa Conchiglia -. Al cardiologo che gli ha chiesto a quale patologia corrispondesse una determinata anomalia del battito cardiaco, ha replicato in modo generico ma più appropriato possibile. Ha detto: la domanda è troppo complessa, dipende da paziente a paziente ». Da perfetto «Zelig», A.D. usa inconsciamente una formidabile arma di difesa contro il suo involontario trasformismo: cancella totalmente dalla memoria la «parte» che ha appena sostenuto quando si tratta di sceglierne un’altra. Quando è un medico non è mai stato un barman o un libero professionista, nè sa dire nulla di quando sosteneva di saper cucinare alla perfezione. Ma sarebbe sbagliato dire che, durante i suoi numerosi e repentini trasferimenti di identità, l’uomo-camaleonte annulli completamente se stesso. «Qualsiasi ruolo assuma, non perde mai il suo carattere e la sua personalità.

Quel che maggiormente colpisce, piuttosto, è la capacità di adattarsi ai contesti sociali più diversi in cui viene a trovarsi », spiega ancora Giovannina Conchiglia. A.D. è in cura da due anni. Probabilmente non guarirà mai, anche se le terapie in day hospital a cui è sottoposto hanno consentito un lieve miglioramento delle sue condizioni. Anche se le crisi sono meno frequenti, l’uomo- camaleonte non è certo in grado condurre un’esistenza normale. Naturalmente la sua autonomia è limitata: la moglie e i figli, che riconosce e di cui ricorda quasi sempre i nomi, non lo perdono di vista per un istante anche a causa delle crisi di amnesia che lo colpiscono all’improvviso. Non esce quasi mai, e quando lo fa non lo lasciano solo.

Il suo mondo è circoscritto dalle mura di casa e da quelle della clinica in cui si reca per tenere sotto controllo la malattia. Il caso di A.D. è talmente particolare da avere indotto una rivista prestigiosa come «Neurocase» a pubblicare la relazione dei tre psicologi che hanno in cura il paziente. «La sindrome da dipendenza ambientale è piuttosto frequente - conferma la dottoressa Conchiglia -. Ma che io sappia non è mai capitato che un disturbo comportamentale abbia queste caratteristiche ». Tranne che nella finzione cinematografica e nella fantasia di un genio come Woody Allen, naturalmente. Da oggi, insomma, sappiamo che Leonard Zelig c’è davvero, e vive fra noi.