sabato 16 giugno 2012

l’Unità 16.6.12
Oggi in piazza l’Italia del lavoro
Bersani: «Il lavoro per noi è centrale. Il lavoro è la tua quota di trasformazione del mondo»
Il segretario: non ti fa solo mantenere la famiglia, è la tua dignità, è la tua quota di trasformazione del mondo e ne hai diritto
di Maria Zegarelli


Democrazia e lavoro. Saranno questi i pilastri del progetto politico attorno ai quali il Partito democratico vuole costruire l’alternativa di governo. «Perché il lavoro non è solo quello che ti fa mantenere la famiglia, è la tua dignità, è la tua quota di trasformazione del mondo e ne hai diritto». E forse è proprio questo uno dei passaggi più applauditi dell’intervento con cui Pier Luigi Bersani ha chiuso ieri a Napoli i lavori della seconda Conferenza nazionale sul lavoro del suo partito. Un intervento che non ha risparmiato critiche al governo, a Silvio Berlusconi (per il patto con l’Ue per il pareggio di bilancio), al ministro Fornero e alla (non) politica della zona Ue e alle non politiche, a iniziare da quella industriale, italiane. A proposito delle liberalizzazioni dell’era Monti il segretario Pd perde la pazienza e si lascia scappare una parolaccia. «Se un anziano ha gli occhi secchi e va a comprare un collirio costa 19 euro, c.... Non è possibile: è acqua».
IL PD E IL GOVERNO
Per sostenere il governo, ammette, «si fatica ogni settimana di più. Ma noi siamo leali, abbiamo preso un impegno e andremo fino in fondo» anche anpassaggi su spending review, pubblico impiego e dismissioni, tutte misure a cui stanno lavorando i ministri tecnici e i supertecnici. Al governo dice: «Ascoltateci un po’ perché a forza di fare ‘sto mestiere siamo un po’ tecnici anche noi», e allora va «benissimo la spending review, «ma cerchiamo di non creare aspettative che poi non si riescono a gestire. Attenzione a come maneggiamo questi temi. Dico al governo di farci capire, se ci avessero ascoltato sulle pensione avremmo evitato qualche guaio». E bene anche il decreto sviluppo, dalle indiscrezioni «che arrivano da Roma sembra ci siano buone misure, ma vediamo la sostanza. Per esempio va benissimo confermare la norma da noi pensata per le ristrutturazioni in edilizia, ma se il termine è a giugno dell’anno prossimo non si fa in tempo neanche a iniziare». Cose utili «e cose che si capiscono poco» come, appunto, i tempi troppi brevi previsti per gli incentivi, a partire dai risparmi energetici, perché alle «politiche bisogna dare un minimo di prospettiva». Altro capitolo: le dismissioni. «Benissimo se sono quelle degli enti locali. Per il resto non ho obiezioni a che Fintecna vada alla Cassa Depostiti e Prestiti. Vorrei capire però, dove finisce Fincantieri perché non è tempo di prendere i nostri soggetti industriali e metterli chissà dove». Da Napoli Bersani avverte i tecnici a non ripetere l’errore esodati, sul quale apprezza le «parole finalmente consapevoli da parte del governo». «Ho sentito dice che il ministro Fornero ha detto “chiamiamo gli esodati persone in via di salvaguardia”. È un passo avanti linguistico e concettuale», ma il Pd adesso chiede che alle norme sul mercato del lavoro si aggiungano quelle che riguardano chi è rimasto senza stipendio e senza lavoro grazie al ministro del Welfare. Poi, tocca alla Fiat. «Qualcuno, possibilmente il governo, dovrebbe chiamare la Fiat alle sue responsabilità, perché altrimenti dobbiamo rivolgerci a “Chi l’ha visto?”. Scusate la brutalità ma è scomparsa da troppi tavoli, tavoli che non ci sono».
La prima Conferenza sul lavoro il Pd la fece un anno fa a Genova, un tempo lontanissimo. C’era il governo Berlusconi, i sindacati erano spaccati, ieri i leader sindacati erano qui alla vigilia della manifestazione unitaria di oggi, al governo ci sono i tecnici e la crisi non solo è conclamata ma è nella sua fase più acuta. Sul palco salgono Cesare Damiano, il primo cittadino Luigi De Magistris , Tiziano Treu, il lavoratore esodato e la cassa-integrata. Fuori, poco prima che tutto iniziasse, ci sono stati momenti di tensione con gli operai di Iribus Iveco, poi la tensione si è sciolta e si è fissato un appuntamento con il segretario.
Stefano Fassina nella sua lunga e applaudita relazione dice «È il tempo della politica, la funzione della tecnica è trovare soluzioni efficienti per raggiungere obiettivi dati. Gli obiettivi oggi non sono dati, anche se come dati vengono presentati». In gioco, secondo il responsabile lavoro Pd, ci sono «la civiltà del lavoro, la democrazia fondata sul lavoro», per questo, dice, è necessario un «neo umanesimo laburista, sintesi originale della dottrina sociale della Chiesa e dell’attenzione all’asimmetria di potere nella dimensione della produzione propria del movimento socialista». Il populismo, ormai è fallito, dice, proprio mentre siamo nel mezzo «dell’illusoria scorciatoia tecnocratica dedicata alla ricerca delle riforme senza consenso». Per questo, chiude, è ora «di riprendere l’unica strada possibile: la via costituzionale della democrazia fondata su partiti rifondati per le riforme condivise».

l’Unità 16.6.12
«Diritti civili, il Pd ha trovato un terreno comune»
di Maria Zegarelli


«Lo definisce un «lavoro importante, un significativo passo in avanti». Michele Nicoletti, segretario Pd di Trento, ordinario di Filosofia politica nella stessa città è tra gli estensori del documento sui diritti civili varato dall’omonima Commissione presieduta da Rosy Bindi. Ma sul documento, arrivato sul tavolo del segretario Pier Luigi Bersani e destinato all’Assemblea nazionale di luglio per una discussione aperta, non c’è affatto «piena condivisione». Professore, un anno di lavoro non è bastato per trovare una posizione comune. «Cercherei di vedere in positivo il cammino che abbiamo fatto. Abbiamo scelto una strada diversa rispetto a quella di chi chiedeva un documento con una presa di posizione politica, un sì e un no, sui temi presi in esame. Abbiamo preferito la via dei principi fondamentali che devono essere terreno comune del Pd rispetto al tema dei diritti. A me sembra che, pur nella pluralità delle posizioni e delle culture, alla fine abbiamo quel terreno sia stato trovato. La discussione si è animata sulle concrete scelte legislative per tutelare alcuni di questi diritti, ma ciò che ci trova d’accordo è che il Pd è il partito dei diritti civili strettamente legati a quelli sociali».
Non le sembra un po’ poco per un partito che si definisce democratico?
«Questa è solo una tappa, non il punto di arrivo finale. Un contributo che offriamo al partito e ai circoli come piattaforma di discussione. Nessuno ha mai pensato che questo documento esaurisse il tema dei diritti. Siamo partiti da una situazione in cui nell’Assemblea nazionale si erano votati documenti che riguardavano la scuola, la sanità, il lavoro ma non questo su questi temi. Ora c’è una riflessione che si sforza di inserire i diversi problemi all’interno di un quadro complessivo e non credo che questo lavoro vada banalizzato. Abbiamo costruito un orizzonte condiviso sui principi di fondo, affrontando la violenza sul corpo, la libertà di coscienza, il riconoscimento dei diritti sulle coppie di fatto...».
Sulle unioni civili in Commissione c’è chi ha osservato che la lettera di Bersani al gay pride fosse più avanzata rispetto al contenuto del vostro documento. C’è ancora una grande timidezza per dire dei sì e dei no netti?
«Non mi sembra che ci siano timidezze. Sia la Corte costituzionale sia la Cassazione hanno escluso il riconoscimento del matrimonio, così come previsto dalla nostra Costituzione, alle coppie omosessuali. Hanno invece sancito il tema del riconoscimento delle unioni anche omosessuali e della loro tutela che spetta al legislatore. Questo il solco entro cui ci siamo mossi e a me sembra che il nostro documento sia in piena sintonia anche con quanto dichiarato dal segretario. Capisco che chi aveva posizioni diverse non si possa ritrovare nel nostro documento ma la strada che noi abbiamo scelto è stata quella di privilegiare il quadro dato dall’ordinamento costituzionale frutto dell’incontro tra culture diverse».
Quindi sono critiche ingenerose?
«Vorrei distinguere. Su questo tema è giusto che noi tutti ci incalziamo a vicenda a fare di più e meglio, ma dobbiamo darci reciprocamente atto della ricchezza dell’esperienza e la presidente Bindi ha fatto un ottimo lavoro di costruzione di un luogo di scambio e di intreccio. Non abbiamo proceduto a maggioranza ma secondo una logica di inclusione, per questo mi spiace che si dia importanza soltanto alle parti su cui possiamo avere dei punti di distanza. Ognuno di noi può avere visioni di verse ma credo sia importanti che si trovino degli orizzonti comuni».
Crede che durante la prossima legislatura riuscirete davvero a legiferare su questi temi o la crisi economica li metterà ancora una volta in secondo piano? «Penso che stavolta sia possibile farcela perché c’è una complessiva maturazione nel nostro Paese e c’è una larga condivisione del fatto che ci sia bisogno di una maggiore tutela dei diritti di ogni persona in ogni momento della sua vita. Dalla lotta alla violenza sessuale, all’omofobia, ad una piena libertà religiosa, al testamento biologico, c’è bisogno di intervenire e sarà possibile farlo anche grazie al Pd. Per questo non si deve avere solo la preoccupazione dei sì e dei no ma anche della necessità di spiegare le ragioni per costruire il consenso».
Non le sembra che il consenso fatichino a trovarlo le forze politiche al loro interno, rispetto alla maggioranza della società civile che su coppie di fatto e testamento biologico ha le idee chiare?
«È vero, ma su altri temi, dal diritto di cittadinanza, ai diritti nelle carceri, la libertà religiosa, non darei per scontato il fatto che siano dati per acquisiti tra l’opinione pubblica. Non è detto che la politica sia perennemente in ritardo, anche se abbiamo avuto una politica di destra che ha fortemente penalizzato il tema dei diritti».
Veramente neanche il centrosinistra quando è andato al governo ha legiferato su questo.
«Il Pd non è mai andato al governo, sono sicuro che quando vincerà le elezioni riuscirà laddove si è fallito nel passato».

Corriere 16.6.12
Il Pd, i diritti civili e la necessità di mediare
Discutere di temi «sensibili» può essere il primo passo per una campagna elettorale più serena
di Pierluigi Battista


Per alcuni anni i temi «eticamente sensibili» sono stati sepolti nello sgabuzzino delle cianfrusaglie irrilevanti. Bisognava neutralizzarli: erano troppo «sensibili», troppo «divisivi», troppo incandescenti. Oggi il Pd sta cominciando a liberarsi dall'autocensura.
I democratici non riusciranno a dare risposte appaganti per tutti. Ma almeno hanno il coraggio di affrontare argomenti importanti, anche se politicamente scabrosi. La politica vuole riprendersi i suoi spazi? Esca allo scoperto, dimostri che si è ancora capaci di discutere, proporre, e anche dividersi, se necessario.
Il documento del Pd sul riconoscimento delle coppie di fatto, partorito da una commissione diretta dalla cattolica Bindi, cerca di mediare tra anime culturali diverse in un partito in cui convivono cattolici e laici. Sulle coppie dello stesso sesso, il documento appare più prudente e frenato da cautele di quanto non siano state le dichiarazioni del segretario Bersani. Ma non è neanche prigioniero della «scomunica» preventiva di Beppe Fioroni, che sulla questione delle unioni tra gay ha disseppellito l'ascia di guerra (ideologica) contro il segretario del partito. Ha un senso riesumare il tema del riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso? Certo che lo ha. In tutto il mondo delle democrazie liberali questo tema è all'ordine del giorno, scavalcando schieramenti e collocazioni politiche. In Germania la «democristiana» Merkel non ha mai avuto in programma lo smantellamento delle leggi che riconoscono la convivenza tra le coppie gay. Malgrado le furiose battaglie del passato, persino nella Spagna dei Popolari non si intende provvedere alla demolizione dello zapaterismo, variante oltranzista ed estremista nella promozione dei diritti civili. In America i repubblicani non scatenano una guerra di religione contro Obama che si dice favorevole ai matrimoni gay. In Gran Bretagna è il conservatore Cameron a dirsi favorevole al riconoscimento dello Stato delle unioni omosessuali. In Italia, dopo l'incendio dei Dico, una coltre di silenzio imbarazzato è calata su questo tema, lasciandolo appannaggio di minoranze importanti ma senza la forza necessaria a imporlo nell'agenda pubblica. Oggi il Pd, e bisogna rendergliene merito, ha strappato questo velo omertoso e reticente.
Può darsi che il Pd appaia troppo timido, come pure dicono le componenti più marcatamente «laiciste» del partito. Ma un partito variegato e culturalmente ibrido, come del resto lo sono tutti i partiti di grandi dimensioni in Europa e negli Stati Uniti, non può che attestarsi su una ragionevole, dignitosa e responsabile mediazione. L'analogia può sembrare una forzatura, e in parte lo è: ma anche la legge che istituì il divorzio all'inizio degli anni Settanta fu timida e frutto di inevitabili «mediazioni», eppure per la prima volta l'Italia conobbe qualcosa di sconvolgente e rivoluzionario come il divorzio. Oggi il riconoscimento delle coppie gay può avere lo stesso valore dirompente. Il meglio è nemico del bene. Per avere la perfezione si rischia di non ottenere nulla. Una mediazione sorretta da una consapevole dignità culturale può strappare risultati decisivi anche se la lettera della proposta può lasciare perplessi e insoddisfatti.
E così anche per il tema del testamento biologico. La nettezza del «no all'eutanasia» che viene ribadita nel documento del Partito democratico può disinnescare paure e sospetti che non sono solo il frutto di pregiudizi, ma la conseguenza del potere immenso che la tecnoscienza ha conquistato sulle nostre vite e sulla stessa nostra morte. Ma una proposta ragionevole e coraggiosa che consenta ai cittadini di dire nel corso della loro vita cosciente cosa «non» vorrebbero che si facesse quando la loro vita sarà entrata nel buio dell'incoscienza senza speranza, questa proposta sarebbe una risposta giusta al totale e autoritario rifiuto della libera scelta contenuta nelle proposte avanzate in questa legislatura dalla maggioranza di centrodestra sul testamento biologico. No all'eutanasia, ma sì alla libera scelta di come vivere, di come essere curati e di come morire quando la prosecuzione delle cure sarebbe solo accanimento: anche questa mediazione permette di uscire dall'immobilismo, dalle guerre di religione, dagli oltranzismi contrapposti. Poi certo verrà il tempo della discussione, dei cambiamenti, delle rettifiche. Ma intanto il grande silenzio si è infranto. L'allargamento dei diritti civili si riprende il centro della scena. Ci sono poche speranze che la prossima campagna elettorale assuma toni civili. Ricominciare a discutere sui temi rimossi e «sensibili» può essere un primo passo.
Pierluigi Battista

Repubblica 16.6.12
Fassina, Marino, Cuperlo e Pollastrini contestano il documento del comitato guidato da Rosy Bindi. La parola all’assemblea
Coppie gay, il Pd si divide sui diritti I laici: “Servono scelte più nette”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Lo scontro è solo rimandato all’assemblea nazionale di inizio luglio. Ma nelle caselle mail, sugli smartphone, nei colloqui privati e nelle riflessioni sulle candidature alle primarie sta cominciando a farsi largo l’eterno duello tra laici e cattolici. Il documento della commissione Diritti del Pd è troppo arretrato sulle coppie gay, secondo i primi. «Se vinciamo le elezioni, sia chiaro: voglio una soluzione più avanzata dei Dico», dice Barbara Pollastrini che pure dei Dico fu autrice insieme con Rosy Bindi. «Non ci sono problemi? Allora la parte del testo che si riferisce al riconoscimento giuridico dei diritti delle coppie omosessuali va scritta meglio», incalza Gianni Cuperlo. Vuol dire: senza ipocrisie. E senza margini per chi, dentro il Partito democratico, chiede di limitare l’evoluzione dei diritti al singolo partner di una coppia di fatto. È la coppia che va tutelata La commissione presieduta da Rosy Bindi ha deciso l’altro ieri di licenziare il testo, dopo molti mesi di lavoro e di confronto. Nel frattempo però c’è stato l’apertura non formale del segretario del Pd al gay pride di Bologna. «Non è possibile che non sia ancora stata introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali», scrisse il segretario del Pd agli organizzatori, una settimana fa. E ancora: «Il Partito democratico non intende sottrarsi: è inaccettabile che in Italia non si conferisca agli omosessuali dignità sociale e presidio giuridico».
C’è scritto il contrario nel documento della commissione Diritti?
No. Ma certo il testo non è altrettanto netto. Si fa riferimento alla sentenza della Consulta che invita il legislatore a riconoscere i diritti e i doveri anche delle unione tra lo stesso sesso. Ma si fa cenno al rispetto dell’articolo 29 della Costituzione, quello sulla famiglia, e si chiede un intervento «per i legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali». Quest’ultima parte appare a un gruppo nutrito di dirigenti del Pd — da Cuperlo a Pollastrini, da Matteo Orfini a Stefano Fassina, da Aurelio Mancuso ad Andrea Benedino per finire con il più arrabbiato di tutti Ignazio Marino — arretrata. «I Dico sono una storia di 5 anni fa — dice Orfini —. Oggi Obama in America e Hollande in Francia propongono i matrimoni gay. Quel documento è rimasto un po’ indietro».
Il “manifesto”, un impegno faticoso che comprende temi come il fine vita, la 194, la violenza sessuale, è adesso sul tavolo di Bersani. Sarà a lui a decidere se e come integrarlo. Nel caso arrivi in
discussione all’assemblea nazionale, il gruppo dei dissidenti presenterà emendamenti. Scatenando così anche le anime del Partito democratico che lo considerano “spericolato” e in grado di rompere il filo con il mondo cattolico. L’uscita di Beppe Fioroni su una sua eventuale candidatura alle primarie nasce proprio da qui, dal solco che un dibattito sulle coppie gay o su altri “valori non negoziabili” aprirà nel Pd. Non si registrano attacchi personali, per il momento. Anzi, il metodo e la sintesi guidata da Rosy Bindi vengono apprezzati da Ivan Scalfarotto e Paola Concia, gay dichiarati. Ma Scalfarotto spiega così le difficoltà: «Su quel punto il compromesso, secondo me, è impossibile. Non si capisce perché due omosessuali possono sposarsi in Argentina e in Portogallo e in Italia no».

Corriere 16.6.12
«Il Fatto non sarà mai l'organo di Beppe Grillo»
Cinzia Monteverdi, amministratrice del quotidiano: a Monti o Berlusconi daremmo lo stesso spazio
di Paolo Conti


ROMA — L'intervista di Marco Travaglio a Beppe Grillo apparsa su Il Fatto ha scatenato un diluvio di polemiche. Filippo Facci su Libero ha scritto: «Travaglio, lo zerbino di Grillo». Cosa ne pensa Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del quotidiano diretto da Antonio Padellaro?
«No, davvero non l'ho trovata un'intervista-zerbino...»
Veramente anche la base si è ribellata. Qualche lettore ha cominciato a scrivere che Grillo è il vostro padrone...
«No. Non siamo e non saremo l'organo di Grillo. Se mai l'avessi scritta io, quell'intervista, forse avrei pubblicato qualcosa di diverso. Magari ho qualche punto interrogativo in più».
Lei dice: non siamo l'organo di Grillo. Ma due pagine di intervista su «Il Fatto».
«Primo: se Mario Monti o Silvio Berlusconi ci concedessero un'intervista, metteremmo a disposizione lo stesso spazio. Secondo. Non siamo noi ad essere l'organo di Grillo, ripeto, ma sono molti grillini che ci scelgono e ci comprano perché non abbiamo finanziamenti pubblici e siamo fuori dalla solita, tradizionale politica».
Allora sarà Marco Travaglio a subire il fascino di Grillo...
«Travaglio non subisce il fascino di nessuno se non del suo archivio e dei fatti che racconta. È colpito dal fenomeno di un movimento autonomo che sta crescendo a vista d'occhio. Non da Grillo in sé».
In quell'intervista mancherebbero domande vere e incalzanti...
«Penso che le domande incalzanti vadano dirette in primo luogo a chi ha gestito e gestisce ancora il potere. Grillo è un fenomeno da analizzare. Verrà il tempo dei quesiti perfidi, se e quando saranno al potere».
Le brucia molto la scissione provocata da Luca Telese?
«Quale scissione? È solo un giornalista, molto bravo, che se n'è andato. E mi dispiace che abbia abbandonato Il Fatto lasciando una scia di veleno. Non credo si costruisca così la strada di un possibile successo».
Luca Telese vi accusava da tempo, appunto, di filo-grillismo...
«Sul nostro giornale appaiono, e continueranno ad apparire, anche opinioni molto diverse tra loro. Ancora una volta: non siamo l'organo di nessuno. Nemmeno di Grillo!».
Sempre Telese accusa: a dettare la linea politica in realtà non è più il direttore, Antonio Padellaro, ma Travaglio.
«Altra cosa falsa. Padellaro dirige il giornale con grande equilibrio e sa gestire la particolare natura de Il Fatto. È lui il direttore, sue ovviamente le scelte finali».
Vi accusano di aver silurato l'ex amministratore delegato Giorgio Poidomani. Infatti lei è al suo posto, ormai.
«Poidomani è stato fondamentale nella nascita e nella crescita del progetto. Gli dobbiamo, e personalmente gli debbo, molto. Ma caratterialmente, lui stesso lo ammette, non era uomo da distribuire deleghe, aveva l'abitudine di controllare tutto. Quando gli abbiamo chiesto di decentrare, ha preferito non accettare di restare con noi proprio perché non ama condividere una parte del suo ruolo. Carattere, appunto».
Cosa pensa, per finire, del progetto di Telese?
«Telese mi sembra puntare sul fenomeno dell'anti-travaglismo. Guardandola con un'ottica positiva, vedo un esperimento che si richiama al nostro. Un modello di business editoriale che evidentemente funziona. Significa che abbiamo fatto centro. Che siamo stati bravi».

il Fatto 16.6.12
Grillo. I sondaggi lo danno al 21%: sopra il Pdl, vicinissimo al Pd


Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo si attesta al 21 per cento, registrando un aumento di quasi un punto percentuale (+0,8%) rispetto alla settimana scorsa. È quanto emerge da un sondaggio sulle intenzioni di voto condotto dall’Istituto Swg in esclusiva per Agorà, su Rai Tre, che conferma l’ascesa continua del consenso nei confronti del M5S: da settembre scorso ad oggi, dicono i sondaggi, è passato dal 3% al 21%. I favori dei cittadini per il movimento di Grillo sono aumentati soprattutto alla vigilia delle amministrative del maggio scorso, in cui Grillo ha conquistato i primi sindaci, tra cui quello di una grande città come Parma. Da aprile i favori per Grillo passano dall’8% (secondo Swg) al 15 per cento di maggio, per arrivare poi a giugno con più del 20% di preferenze degli elettori.
Nel frattempo Swg conferma il trend negativo del premier Mario Monti, in termini di fiducia, che scende al 33%. Per quanto riguarda i partiti “tradizionali”, il Pd sale dello 0,8%: oggi sarebbe votato dal 24 per cento degli italiani. Perde invece quasi mezzo punto percentuale rispetto alla settimana scorsa il Pdl, che si attesta al 15 per cento. Ritorna sotto la soglia del 6 per cento l’Udc (5,7%), che perde un punto percentuale rispetto a sette giorni fa. Sotto la soglia del 6 per cento anche l’Idv, al 5,5 percento (-0,6%). In totale le forze presenti in Parlamento hanno il voto di circa il 60% degli italiani che intendono recarsi alle urne, mentre ben il 40% non è attualmente rappresentato. Cresce, peraltro, il partito del “non voto” che passa questa settimana dal 42,2 al 45,8%.

Repubblica 16.6.12
Incubo Pdl, nei sondaggi precipita al 15%
Berlusconi: partito solo nella testa dei dirigenti. E Alfano chiama Feltri per le primarie
di Carmelo Lopapa


ROMA — Il Pdl in piena sindrome da 15 per cento. L’incubo diventa realtà e l’ultima rilevazione Swg di ieri cristallizza con quelle due cifre un tracollo di consensi che da via dell’Umiltà a Palazzo Grazioli temevano e in qualche misura già conoscevano. In queste ore non sono più i soli barricaderi ex An a chiedersi se il partito reggerà fino alle primarie di ottobre.
Silvio Berlusconi quei dati se li rigira tra le mani, sempre più convinto che occorra «una scossa», che l’attuale baracca non basta: «Il Pdl non c’è più, esiste solo nelle teste dei nostri dirigenti» è la riflessione più amara del capo. Moltiplicare l’offerta con liste di giovani, di donne, di imprenditori e volti nuovi della società civile resta la soluzione preferita, un cantiere aperto al quale il Cavaliere in gran segreto sta già lavorando, in vista delle Politiche. Ma le elezioni sono lontane. Nel frattempo il Pdl è in piena emorragia. Ormai stabilmente sotto il 20, secondo tutti i sondaggisti, comunque terza forza alle spalle di Grillo. Viaggiava sopra il 25 in novembre scorso, all’insediamento del governo Monti. «La preoccupazione c’è, il vero problema è che manca la reazione», spiega un ex ministro sconfortato. L’ultima rilevazione registrata una settimana fa da Euromedia Research,
società di fiducia di Berlusconi, dava al Pdl una forbice tra 18 e 20 per cento. «Ma tutti i grandi partiti presenti in Parlamento pagano dazio, perdono consensi — spiega Alessandra Ghisleri, direttrice dell’istituto — E guadagna chi nelle Camere non c’è: Grillo e, in parte, Vendola». Consigli al Cavaliere sostiene di non averne forniti. «Ma un messaggio va colto: gli elettori dicono in coro che a loro non piace questo modo di fare politica, si attendono risposte immediate ai loro problemi reali».
Angelino Alfano confida nelle primarie per rilanciare il partito. Ha convocato per lunedì il tavolo «delle regole» che dovrebbe disciplinarle. E una direzione nazionale — sollecitata da tanti — per il 27 giugno. Ma del congresso nazionale non si ha notizia. Il calo di consensi lo riconduce al «sostegno al governo Monti: scontiamo l’opposizione dei nostri elettori». Ma confida sul fatto che gli elettori non siano «fuggiti altrove: li riconquisteremo ». Lo dice durante la conferenza stampa convocata per ufficializzare le dimissioni del presidente della Giovane Italia, Giorgia Meloni, sostituita da Marco Perissa (classe ’82, anche lui della scuderia Azione Giovani), che affiancherà la coordinatrice Annagrazia Calabria. L’ex ministro nella lettera di dimissioni rimarca la mancata convocazione di un congresso dei giovani per passare il testimone. Correrà anche lei per le primarie? La Meloni risponde solo che non lo ha preso in considerazione e che non lascia perché «è già pronta un’altra poltrona». Ma tutta l’area ex An si sta interrogando se sposare la causa Alfano o condurre una battaglia in sostegno proprio della Meloni per andare alla conta.
Il segretario, in maniche di camicia e in versione «smile» davanti ai giovani (dal 21 al 23 la loro assemblea a Fiuggi), si augura che le primarie siano le «più partecipate» possibile, che si trasformino in una «grande festa». Rivela di aver chiamato Vittorio Feltri e di averlo invitato a partecipare. Salvo essere gelato poche ore dopo dal direttore editoriale del Giornale: «Non ho ricevuto alcun invito, solo una telefonata di cortesia. Valuterò, i parlamentari sono degli straccioni, io guadagno 700 mila euro l’anno». Galan si è candidato. Daniela Santanché, forte dei sondaggi interni, è già in campagna elettorale (col placet del Cavaliere). «Certo che sono in corsa — spiega — Io non ho alcun tatticismo, nessuna strategia, solo un credo, un cuore, una passione».

Corriere 16.6.12
Militari o islamici, l'Egitto vota «Al bivio tra il colera e la peste»
Lo sconforto dei delusi della rivoluzione nel giorno del ballottaggio
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO — Le ambulanze arancioni con la mezzaluna rossa aspettano nelle vie intorno a Tahrir, come nei giorni della Rivoluzione. Assenti, questa volta, i carri armati, i cavalli di frisia, i militari. Soprattutto le centinaia di migliaia di persone che da tutto l'Egitto arrivavano nella grande piazza. Eppure, oggi e domani sono cruciali per il più importante Paese arabo: il processo iniziato 16 mesi fa con la caduta di Mubarak doveva concludersi questo weekend con il voto per il nuovo raìs, seguito dal ritiro dei generali a fine mese.
«Non sarà così, ce li terremo chissà per quanto. Gli unici che ormai potrebbero fare qualcosa sono i Fratelli Musulmani, ma dove sono? Non c'erano un anno fa, non ci sono ora», dice Ahmed, 30 anni, guida turistica disoccupato, deluso da quelle poche centinaia di persone sparse per Tahrir tra cui i soliti venditori ambulanti e, certo, molti agenti in borghese. «La gente non c'è perché è chiaro, contro la Giunta non c'è niente da fare. E meglio così: la Fratellanza sarebbe un disastro per tutti a partire da noi donne», commenta una ragazza uscita dal metrò, una delle poche senza velo, che poi corre via.
E' questo il dilemma che deve affrontare oggi l'Egitto: scegliere il suo presidente tra Mohammad Morsi, il ruvido candidato dei Fratelli vincitore nel primo turno un mese fa, e Ahmed Shafiq, l'ex generale e premier di Mubarak arrivato secondo per pochi voti. Eliminati dalla corsa i moderati, religiosi o meno, e i difensori, sinceri o meno, della Rivoluzione. Non solo: due giorni fa l'Alta Corte ha decretato illegale e sciolto il Parlamento eletto in inverno con un'assoluta maggioranza degli islamici.
Morsi e Shafiq si contendono così un Paese senza Costituzione, e quindi senza conoscere nemmeno i poteri del presidente, e senza Parlamento, e quindi con il potere legislativo assunto dalla Giunta fino a nuove elezioni politiche, da decidere quando. «Situazione da golpe bianco», «dittatura strisciante», «come in Algeria nel 1991», è il commento di molti. L'allarme si è esteso al resto del mondo: anche Washington ieri s'è detta «preoccupata» per l'annullamento del risultato delle politiche.
«E' un momento difficilissimo, il primo nella nostra Storia moderna dove lo Stato è davvero a rischio», commenta Gamal Ghitani, il più noto scrittore della vecchia generazione, comunista dai tempi di Nasser che lo mise in carcere. «Dobbiamo scegliere tra la peste e il colera, io sceglierò il colera, meno mortale, cioè Shafiq. Ma è una catastrofe, spero solo che la febbre politica che ha acceso il Paese non si plachi, che presto sorgano i partiti e i leader che ora mancano, che la violenza della Fratellanza, che sappiamo armata, non esploda».
Ieri, dopo la minaccia poche ore prima di una «nuova rivoluzione» se il voto sarà irregolare, Morsi ha assunto toni più pacati. Nessuna mobilitazione, per ora, solo l'appello perché si voti in massa per lui. Shafiq, con atteggiamenti che molti giurano uguali a quelli con cui Mubarak parlava al «suo» popolo, ha promesso di nuovo stabilità. E intanto la passione politica di cui parla Ghitani ha continuato a bruciare, ovunque, unita però a una crescente stanchezza. «La gente discute ancora ma ha capito che i militari vogliono Shafiq e non ha più forza per opporsi, specie se l'alternativa è un islamico che non dà garanzie di cambiamento in meglio. Moltissimi come me non voteranno», dice Hisham Zeini, attivista e artista.
E infatti a vincere queste elezioni sarà probabilmente l'astensione: già al primo turno aveva toccato per altro il 54%. Favorito, comunque, era e resta Shafiq: con prevedibili brogli ma forse anche senza. Un'affermazione di Morsi non cambierebbe però le cose: solo la strategia esplicita dei generali sarebbe diversa, perché isolerebbero ostacolandolo in ogni modo il nuovo Fratello-raìs, anziché ritirarsi, in apparenza, lasciando al loro candidato il potere evidente. Ma in entrambi i casi i generali non torneranno presto nelle caserme. Dopo 16 mesi da quando Tahrir scandì per la prima volta lo slogan delle Primavere arabe — al sha'b yurìd isqàt al nizàm, il popolo vuole la caduta del regime — il nizàm, il regime, non è ancora caduto.

Repubblica 16.6.12
La coscienza dell’Occidente e il mattatoio di Damasco
di Timothy Garton Ash


MI AUGURO che un giorno Bashar al-Assad, non più presidente, compaia davanti alla Corte penale internazionale per rispondere dell’accusa di crimini contro l’umanità. Le violenze a opera di altre forze nel conflitto che ormai in Siria ha assunto le caratteristiche di guerra civile non possono sminuire le sue responsabilità. Va ricordato che tutto è iniziato sotto forma di manifestazioni non violente, nel miglior stile della vera Primavera araba. Assad avrebbe potuto rispondervi attuando importanti riforme, di cui ha accarezzato l’idea: aprire negoziati, oppure consentire una transizione pacifica con una onorevole e soddisfacente uscita di scena per sé e per la sua famiglia. Ha scelto invece di mantenere il potere ricorrendo ad una brutale repressione, come già suo padre prima di lui, arrivando a bombardare indiscriminatamente la popolazione civile. Mentre la sua elegantissima moglie, Asma, educata in Gran Bretagna, falcava pavimenti di marmo sui tacchi delle sue Christian Louboutin i soldati e i feroci miliziani di Assad massacravano donne e bambini innocenti nella polvere.
L’opposizione popolare in Siria si è mantenuta rigorosamente non violenta di fronte alla spietata repressione, poi ha perduto la disciplina. Le defezioni dall’esercito e le armi provenienti dall’esterno l’hanno trasformata dapprima in insurrezione armata.
Poi l’hanno fatta diventare una guerra civile, con il regime assediato, l’opposizione spaccata, alawiti, sunniti e rispettivi sostenitori esterni tutti impegnati in un conflitto complesso, a tratti torbido. La rivoltante novità è che oltre a massacrare i civili, l’esercito e la milizia hanno usato i bambini come scudi umani. Anche alcuni ribelli avrebbero reclutato minorenni nelle loro fila. Ma come ha dichiarato lo stesso Assad in un’intervista televisiva prima che tutto avesse inizio, la responsabilità di ciò che accade in Siria è la sua.
Se non avesse scelto la via della repressione il suo Paese non sarebbe arrivato alla guerra civile. Forse Assad ha pianto, in privato, sulla spalla profumata di Asma, io lo vedo come un uomo debole che cerca di esser forte. Ma, come ha scritto W. H. Auden invertendo i verbi di una frase famosa,
“quando pianse, i bambini morivano per strada”.
Come è logico si levano sempre più alti gli appelli all’intervento per porre fine alla carneficina. In un discorso tenuto in aprile al Museo dell’Olocausto di Washington, Elie Wiesel si è chiesto se la storia ci abbia insegnato qualcosa, «se sì, come mai Assad è ancora al potere?», ha aggiunto.
Se l’unico requisito necessario a giustificare l’intervento umanitario fosse il numero di morti e feriti tra i civili innocenti, la Siria lo avrebbe soddisfatto. Ma la teoria della responsabilità di proteggere, approvata dall’Onu, ossia il sistema più rigoroso ed equo di cui disponiamo oggi per riflettere su questo genere di sfide, prevede che l’azione abbia prospettive ragionevoli di successo. L’intervento è attuabile se, sulla base di una valutazione informata, è verosimilmente in grado di migliorare la situazione nel Paese in oggetto.
Questo requisito ahimè non è soddisfatto dalla Siria. Bernard-Henri Levy potrà anche sentenziare disinvoltamente che l’intervento è «realizzabile e possibile», ma cosa ne sa?
Il problema non è limitato alle dimensioni, agli armamenti e al livello di addestramento delle forze di repressione di Assad, e alle fratture regionali e settarie interne al Paese. Esiste anche un coinvolgimento diretto di potenze regionali e globali che appoggiano apertamente o meno le varie parti in lotta nella guerra civile. È chiarissimo che l’Iran sciita e la Russia putinista sostengono direttamente il regime di Assad, simpatizzando con la sua base alawita, mentre le potenze sunnite, come l’Arabia Saudita e il Qatar, armerebbero i ribelli. Il russo rispondeva a Hillary Clinton che ha accusato il suo Paese di fornire elicotteri d’attacco al regime di Assad. Nel frattempo gli appelli all’intervento si fanno sempre più insistenti in seno al congresso e sui media americani, ma non al Pentagono, che procede a una lucida analisi delle possibili implicazioni. È facile che un intervento umanitario ai minimi termini possa trasformarsi in un’occupazione travagliata e prolungata, o addirittura in una sorta di guerra per procura.
Al contempo le opzioni puramente politiche finora ipotizzate appaiono deboli o irrealizzabili. Il piano di pace di Kofi Annan è andato in fumo. Un inasprimento delle sanzioni contro la famiglia Assad e i suoi accoliti potrebbe portare ad un crollo degli ordini via internet di scarpe Christian Louboutin, ma non fermerà un dittatore con le spalle al muro, che lotta per evitare di fare la fine di Gheddafi. C’è chi propone un fronte popolare interno per la pace in Siria, che veda la stretta collaborazione tra Usa e Arabia Saudita, Iran e Russia. È un’ipotesi probabile quanto un matrimonio tra il papa e Madonna (la popstar). L’idea di un’opposizione siriana più coesa, che si impegni per una transizione non violenta e negoziata, è valida per il passato e per il futuro, ma non è una soluzione per il presente nel bel mezzo di una guerra civile.
La posizione della Russia sulla Siria è scioccante, menzognera e indifendibile. I russi hanno più volte bloccato le iniziative tese ad ottenere dall’Onu misure più drastiche per la soluzione del conflitto, ricorrendo ad argomentazioni ipocrite che non celano l’interesse nazionale russo a mantenere un punto d’appoggio militare, economico e politico in Medio Oriente. Sono stati i russi ad addestrare l’esercito siriano che massacra i civili e oggi, se va dato credito alla Clinton, forniscono elicotteri d’attacco per aiutare gli uomini di Assad a uccidere ancora.
Non si vergognano? Domanda inutile nel caso della Russia di Putin. Non hanno altri interessi nazionali che in fin dei conti potrebbero contare di più? Questa invece è una domanda utile. Se davvero vogliamo fermare la carneficina in Siria noi in Occidente dobbiamo riflettere su come usare al meglio il bastone e la carota , anche a nostre spese, per far cambiare atteggiamento ai russi. La via di Damasco passa per Mosca e la conversione di Putin non sarà opera di nessun Dio.
Traduzione di Emilia Benghi www.timothygartonash.com

l’Unità 16.6.12
La svolta di Obama sull’immigrazione. Vincono i «sognatori»
Clandestini tra i 16 e i 30 anni, se senza reati, non rimpatriabili
Spiazzati Romney e i governatori razzisti
di Martino Mazzonis


Quando hanno attraversato la frontiera in auto, nascosti in un furgone o con un visto turistico erano bambini o adolescenti. Alcuni, magari, erano così piccoli da non ricordare nemmeno di aver vissuto in un altro Paese. Sono circa 800mila e da ieri non rischiano più l'espulsione, che in America si chiama deportazione, un termine più appropriato. Con un memorandum di tre pagine spedito ai direttori dei servizi della dogana, dell'immigrazione e di controllo delle frontiere, la Segretaria alla Sicurezza nazionale, Janet Napolitano, ha annunciato una svolta nelle politica dell'immigrazione dell'amministrazione Obama. Le persone arrivate illegalmente negli Stati Uniti prima di aver compiuto i 16 anni di età e che non ne hanno compiuti 30, hanno vissuto nel Paese per almeno cinque anni consecutivi, vanno a scuola, si sono diplomate o hanno servito nell' esercito e che infine hanno la fedina penale pulita, non dovranno essere espulse. Non è una legge, per quella ci vuole il Congresso, è una direttiva su come applicarla. Ma in sostanza si tratta del Dream Act, una proposta dell' amministrazione che i repubblicani si rifiutano di approvare.
IL SOGNO AMERICANO.2
Le centinaia di migliaia di persone che vivevano una condizione da incubo possono tirare un sospiro di sollievo. Cresciuti nei quartieri ispanici delle grandi metropoli o nelle aree a maggioranza latina di Stati come il Texas, l'Arizona, la California, nel corso degli ultimi due anni hanno sentito aumentare la pressione contro di loro. Non solo alcuni governatori repubblicani hanno fatto approvare leggi al limite della costituzionalità che aumentano le possibilità di essere fermati per un controllo e quindi espulsi ma anche l'amministrazione Obama aveva applicato la legge con rigore. Loro, i dreamers (sognatori) come si fanno chiamare quanti si sono mobilitati per il Dream Act vestono, pensano, studiano e trasudano cultura statunitense. Magari latina o asiatica, ma made in Usa. Per questi ragazzi l'espulsione non sarebbe stata solo il fallimento di un percorso migratorio, ma un'emigrazione forzata in Paesi Messico, Salvador, Honduras e magari qualche Paese asiatico che conoscono appena. E per questo nei mesi scorsi avevano manifestato nelle piazze, autodenunciandosi.
STORIA DI CESAR
«Sono qui, non ci sono nato, ma ho preso un Phd e ho fondato una organizzazione pubblica per uscire allo scoperto. Sono qui da sempre, credi che avessi idea di non essere in regola?». Così ci raccontava Cesar Vargas qualche settimana fa durante un seminario di discussione sulla riforma dell'immigrazione. Cesar assieme ad altri ha fondato un gruppo di pressione, il Drm capitol group, in favore di misure come queste e al telefono ci dice di essere felice: «Siamo scesi in strada, abbiamo organizzato raccolte di firme, siamo andati a Washington per questo. Ora terremo gli occhi aperti perché le nuove regole vengano applicate, ma oggi abbiamo un'occasione per festeggiare e il presidente ci ha dato una ragione per mobiliarci in suo favore». La mossa dell'amministrazione, che ha spiegato in prima persona la nuova politica ieri pomeriggio, è una scommessa politica. I latinos (ma anche gli asiatici) sono un gruppo cruciale per le elezioni di novembre e l'inazione sulla riforma dell'immigrazione, accompagnata dall'eccesso di zelo sulle espulsioni rendeva questa parte dell'elettorato quantomeno poco entusiasta. Con questa scelta Obama può finalmente sostenere di aver fatto qualcosa. Non si tratta di una riforma epocale e neppure di una strada verso la cittadinanza. Ma è un passo nella direzione giusta e non dovrebbe far male con gli indipendenti: in fondo si tratta di giovani, studenti, il possibile futuro d’America. Romney dal canto suo balbetta o sostiene la auto-deportazione: sa che per lui l’immigrazione è un terreno scivoloso sia spostandosi a destra che al centro. Tanto più che alcuni membri del partito repubblicano hanno già attaccato duramente la nuova politica con la scusa che aggira il Congresso. A confermarci che la scelta di Obama sia quella giusta è ancora Cesar Vargas: «Mi ha appena chiamato mio cognato, è un cittadino americano, tende a essere conservatore, non vota e se lo facesse voterebbe repubblicano. Stavolta vado a votare e voto per il presidente, mi ha detto».

Corriere 16.6.12
Costa-Gravas
«Atene è la cavia d'Europa, ma il clima sta cambiando»
Lo scrittore di «Z-L'orgia del potere»: «Con Hollande e Monti aria nuova»
di D. F.


ATENE — È stato il più giovane tra i capi di partito, «con quella faccia da Adriano Celentano», a spingerlo verso la decisione di candidarsi. Per la prima volta, a 77 anni. Vassilis Vassilikos non ama Alexis Tsipras, perché da quella faccia «traspare troppa arroganza, sembra convinto che la sinistra non sia mai esistita senza di lui. E Marx? E Lenin? Mi considero un intellettuale gramsciano e per me è un atteggiamento inaccettabile».
Per il debutto lo scrittore ha scelto come partito Sinistra Democratica, i «cugini» ribelli che hanno lasciato Syriza, la coalizione di gruppi radicali. «Rappresentano la sintesi tra Nuova Democrazia/Pasok (la tesi) e Syriza, l'antitesi. Non sarò eletto, ma volevo comunque fare un gesto simbolico». Non gli piace Tsipras e non gli piace chi lo paragona ad Andreas Papandreou, lo storico leader socialista. «Papandreou era un genio dell'economia e anche i tempi erano diversi: negli anni Ottanta il denaro affluiva verso la Grecia dalla Comunità Europea, adesso se ne scappa fuori. Tsipras non ha mai conosciuto la povertà, non sa di che cosa parla. L'unico punto in comune tra i due: la demagogia e il populismo».
«L'orgia del potere», che ha raccontato nel romanzo Z diventato il film diretto da Costa-Gavras, non è più quella dominata dai Colonnelli. «I dittatori del Ventunesimo secolo — commenta — sono gli speculatori, gli investitori internazionali che hanno abolito la democrazia per imporre il dispotismo dell'economia». Vede la Grecia ancora una volta sfruttata come cavia da laboratorio. «Negli anni Sessanta la strategia dei colpi di Stato venne provata qui e ne siamo usciti dopo sette anni. Allora io vivevo a Roma e so quanto gli italiani fossero preoccupati che succedesse anche a loro, che Atene fosse solo la prima tappa. Oggi l'esperimento sono queste misure di austerità. È stato scelto l'anello più debole della catena per somministrare la medicina dei tagli e vedere se funziona. Non ha curato il malato, anzi. Siamo senza via d'uscita».
Il virus ha almeno indotto i greci a ritornare alla solidarietà. «È l'unico risultato positivo della crisi, sembra di essere di nuovo negli anni Cinquanta, quando eravamo più poveri ma meno individualisti. La famiglia, con la sua rete protettiva, è al centro della società, inevitabile quando ci sono così tanti giovani disoccupati».
Il clima in Europa — spera Vassilikos — sta cambiando. «Dobbiamo ringraziare François Hollande, il presidente francese, e Mario Monti, il premier italiano. Fino ad ora siamo stati guidati da Angela Merkel, che manca di una visione come invece hanno avuto i suoi predecessori alla Cancelleria tedesca fin da Konrad Adenauer».
Il bar dell'elegante quartiere di Kolonaki è quello dove viene da sempre. Beve vino bianco accompagnato da formaggio grana italiano. Siede qui e parla di politica, «di che cosa succederà domani», come i personaggi del racconto Café Émigrec (raccolto in 8 e 1/2 assieme ad altri romanzi brevi): in esilio discutono e giocano a flipper, provano a vaticinare il futuro, la vita dopo i Colonnelli. «Anche adesso rischiamo l'embargo, tagliati fuori dall'Europa. Sarebbe assurdo perché il 90 per cento dei greci vuole restare nell'Unione, si sente europeo più che orientale. Con la Russia esiste solo il legame della religione ortodossa».
La paura è tornare a essere provincia e provinciale come la sua Salonicco dopo la deportazione del 97 per cento della comunità ebraica verso i campi nazisti. «Quando successe ero bambino, avevo otto anni. Era una città cosmopolita, che faceva parte culturalmente dell'Europa centrale. Lo sterminio degli ebrei ha ridotto Salonicco a essere un pezzo dei Balcani».

l’Unità 16.6.12
Passeggiando nel tempo. Un flaneur nell’antica Roma
L’«Atlante» di Carandini dà anima all’archeologia
Tanti giovani ricercatori hanno collaborato al progetto del grande studioso. Un’opera di valore che è anche una sfida a quell’Italia che vuole la morte della cultura
di Giuseppe Montesano


VADO IN GIRO INDOLENTE PER I VICOLI DEL CAMPO MARZIO, SPERANDO IN UNO DEGLI INCONTRI CHE ORAZIO RACCONTA, QUANDO CI SI CONTENDE UN OGGETTINO PER TOCCARSI LE DITA, E BACIARSI RITROSI E ECCITATI NEL SEMI-BUIO DELLA SERA, E INTORNO SI SENTONO LE RISATINE TRATTENUTE, DI GOLA, DELLE RAGAZZE CHE CHIAMANO INNOCENTI E SENSUALI... Ma che succede? Non ci sono automobili, non riconosco niente, e intorno a me arrivano voci che sciolgono dittonghi, frusciano parole che tintinnano come monete d’argento: «puella... dac mihi basia... cras donaberis... quam minima credula postero... semper amor»...
Che strano! Non pensavo che l’odioso latino dei professori potesse essere questa musica risonante, un po’ sfatta e roca, e dolce... Deve essere un film, ma la ricostruzione è proprio esatta, anche se gli spazi svaniscono come nei sogni e a tratti si velano le facce, però mi pare impossibile che qui ci sia il Campo Marzio così preciso, questa non sembra la cartapesta di Cinecittà, vedo le scrostature delle case romane, e le bottegucce con la bilancia, e le tuniche che lasciano intravedere calzari e piedini con le unghie laccate... Sto sognando! Ecco, non può essere diversamente, è per questo che mentre vago per il Foro di Cesare mi basta chiudere un attimo gli occhi per veder comparire rovine di Piranesi con i muschi che ricadono come pellicce e merletti, e acquerelli dell’Ottocento dove la città brilla quieta come un giocattolo antico. Sì, sto camminando in uno strano sogno, dove i secoli mi appaiono mescolati, con le statue decapitate che odorano di Tempo perduto e i bassorilievi con le divinità orientali che sembrano scolpiti l’altro ieri, e la Domus Aurea e le Ville patrizie già rinascimentali, e le vestali con il capo coperto come piccole suore cristiane, e i turisti in cilindro e bombetta sotto archi romani che si fanno immortalare in un lampo al magnesio che li fissa come se potessi toccarli...
Che strano! Forse se mi muovo su me stesso come un caleidoscopio tutto tornerà normale, i pezzi si metteranno a posto, e non comincerò a sospettare di essere entrato in una macchina del tempo... O forse ho capito, non dovevo assopirmi nella fantasticheria sfogliando avidamente questo libro che ora ho davanti, come si chiama, ah, sì, ora lo vedo: si intitola L’atlante di Roma antica, un volume dell’Electa curato da Andrea Carandini, un libro in cui mi sono perso come in uno stradario metafisico o in una bibbia delle antichità romane, non so bene, quello che ora so di certo, dal rumore delle automobili, dal traffico spaventoso e dagli stereo che sparano Madonna a tutto volume, che sono tornato nel 2012, nel presente. E il presente mi dice che l’archeologo Andrea Carandini ha fatto, e l’Electa ha pubblicato, un libro bellissimo e nuovo.
Cosa «fa» questo Atlante di Roma? Ci porta nei quartieri della città mostrandoci le loro molteplici facce, ci mostra le piante topografiche, quelle storiche tramandate nei secoli e quelle ricostruite oggi; abbiamo i frantumi di statue e mosaici, la Colonna Traiana in un primissimo piano da cinema e il cavallo di bronzo, abbiamo le fotografie del Tevere con le colonne romane nell’Ottocento e le incisioni di Piranesi con il tempio di Venere e gli acquedotti; abbiamo gli scritti degli specialisti che hanno lavorato all’Atlante, e abbiamo le loro ricostruzioni. Con pochi colori neutri, Carandini e i suoi collaboratori hanno creato proiezioni tridimensionali della Villa di Augusto e della Domus Aurea, del Campo Marzio e dei Templi, mostrandoci con molta discrezione grafica ciò che spesso il 3D spettacolare tradisce enormemente, facendo diventare l’antica Roma un cartone animato.
SENZA TRADIMENTI DA 3D
Qui, invece, nella chiarezza e semplicità delle linee, riusciamo a leggere fino a un punto molto profondo le strutture abitative di cui parlavano poeti e storici, e scopriamo che molto al di sotto di ciò che le rovine e i resti ci mostrano, la struttura urbanistica e abitativa di Roma aveva molto in comune con la sua lingua e con una parte consistente della sua civiltà: essenzialità e economia sembrano esserne le linee guida, in una nitidezza di stile che ricorda il Rinascimento, e testimonia che gli Alberti e gli altri erano molto più acuti filologicamente di quanto si pensi in genere. Dall’altro lato, nella stratigrafia di affreschi, decorazioni e mosaici, appare già nella Roma antica la facies barocca, che consiste nel pensare in forma teatralizzata e metamorfica gli spazi.
L’Atlante di Roma Antica è un progetto scientifico di grande lungimiranza e altissima levatura, e a vedere la foto dei giovani che hanno collaborato con Carandini, e a leggerne gli scritti, si direbbe davvero che ci sono due Italie: quella vecchia intellettualmente e eticamente, che ci ha s-governato e ci s-governa e che vuole la morte della cultura, e quella di questi studiosi e di molti altri, che è il Paese vero, moderno, appassionato e intelligente, pronto a scavare nel sottosuolo di se stesso per trarre alla luce il futuro. Ma se vinceranno i vecchi, avremo solo macerie.

La Stampa 16.6.12
In Spagna gli affreschi più vecchi del mondo
Graffiti di Altamira retrodatati: opera dei Neanderthal?
di Giordano Stabile


Quando nel maggio del 1879 l’archeologo dilettante Marcelino San de Sautuola scoprì i bisonti rossi di Altamira e li attribuì agli uomini primitivi che erano vissuti nella montagne dell’Asturia migliaia di anni prima di Cristo gli diedero del «matto, incompetente, falsario» Accuse feroci piovute dalle più alte cattedre di paleontologia e dal Congresso di Lisbona del 1880, dove si concluse che l’ipotesi più plausibile era che se li fosse dipinti lui. Non tutti i cattedratici erano d’accordo, perché la pulizia dei tratti, lo splendore dei colori erano tali da presupporre un grande artista. Naturalmente contemporaneo.
Le scuse a Sautuola, già morto, arrivarono nel 1902. Poi, scavo dopo scavo, la datazione è andata sempre più ritroso, sedicimila, ventimila, trentasettemila anni fa. Altre caverne, El Castillo, Tito Bustillo, sono state scoperte con reperti, utensili, ossa e disegni lasciati da migliaia di generazioni che si sono succedute nei siti. Ora Altamira ha conquistato la palma della più antica testimonianza dell’Homo sapiens in Europa, molto più antica degli altri celebri affreschi preistorici, quelli di Lascaux.
Persino troppo antica. Perché l’ultima retrodatazione, a 41mila anni fa, opera del paleontologo britannico Alistair Pike, rischia di nuovo di scardinare parecchie certezze. Questo volta l’équipe dell’Università di Bristol che ha condotto la ricerca non potrà essere accusata di «dilettantismo». Ma il problema c’è. Quella data, 40.800 anni fa, non collima con studi solidissimi che ci dicono l’Homo sapiens, allora, aveva appena messo piede sul Continente. L’Europa era dominata dai cugini di Neanderthal, tarchiati, robusti, resistenti al freddo ma non certo con il phisique-du-rôle dell’artista.
La datazione però è incontestabile. L’équipe di Bristol ha analizzato la patina di carbonato di calcio che si è formata sopra alcuni affreschi, in particolare in piccoli dischi rossi. Il carbonato si forma esattamente come stalattiti e stalagmiti e assorbe un piccolo numero di atomi di uranio, presenti in natura. L’uranio decade, con tempi di dimezzamento precisissimi, in atomi di torio. Calcolando il rapporto fra uranio e torio nel carbonato, Pike è riuscito a datare gli affreschi «con un margine di errore di pochi decenni».
Possibile che l’Homo Sapiens, appena due secoli dopo lo sbarco nelle Penisola iberica, fosse già arrivato all’estremo Nord, si fosse impossessato dei migliori rifugi fino allora proprietà dei neandertaliani? Difficile. Allora, delle due, una. O siamo arrivati prima o anche i nostri cugini dalla fronte basa erano grandi artisti. Ne è già convinto, per esempio, Joao Zilhao, dell’Università di Barcellona: «È una sensazione di pancia, la conferma definitiva può venire solo dalla scoperta di un affresco più vecchio di qualche secolo. Ma ci sono buone probabilità che i piccoli dischi rossi siano opera dei Neanderthal».
La ricerca sarà ampliata «in altre caverne, in Spagna, Portogallo e tutta l’Europa occidentale». Se sarà confermata la tesi, non potremo più guardare dall’alto in basso neppure i Neanderthal. Secondo Picasso, «dopo Altamira, nell’arte c’è stato soltanto il declino». Forse perché i cugini dalla fronte bassa erano più bravi di noi.

La Stampa TuttoLibri 16.6.12
Rosario Villari Ritorno di un classico: «Un sogno di libertà. Napoli e un declino di un impero, 1585-1648»
Quelle teste mozzate invocano Masaniello
di Giovanni De Luna


Un oceano quasi immobile di subalternità, increspato ogni tanto da un improvviso ed effimero moto di ribellione. Tra i tanti luoghi comuni affiorati nel dibattito che ha accompagnato, nel 2011, la riflessione sulla nostra storia unitaria, questo, che si riferisce alla storia del Mezzogiorno, è uno dei più consolidati, fronteggiato da quelli che favoleggiano sulle ricchezze saccheggiate dal Nord o sulla virtuosità del sistema di governo dei Borboni.
Sono immagini speculari, molto diffuse nel senso comune, ma che c'entrano poco o niente con la ricerca storica.
Sembra così opportuna la scelta di Rosario Villari di ripubblicare una sua opera classica, del 1967, ampliandola con parti completamente nuove, dedicata a Napoli tra il 1585 e il 1648 ( Un sogno di libertà. Napoli e un declino di un impero, 1585-1648, Mondadori). Due date, per due rivolte contro il dominio spagnolo. Entrambe concentrate in pochi giorni di violenza, ma con uno spessore che non si lascia imprigionare nello schema dell'accensione improvvisa e della follia sanguinaria del popolo.
La prima si concluse con l'esposizione delle teste dei rivoltosi in un macabro monumento. Avrebbe dovuto essere un monito severo contro chi si ribellava all'autorità spagnola; in realtà fu rimosso perché perpetuava la collera degli sconfitti, pronta a riesplodere, come avvenne nel 1647, con lo stesso tragico epilogo, con l'eccidio di Masaniello e dei suoi compagni.
Le pagine di Villari ci accompagnano nei meandri delle rivolte, permettendoci di entrare in contatto con un composito universo di figure individuali e di attori sociali, in una serie di cerchi concentrici che partono dal più largo (Madrid e il potere lontano della Corona) e riattraversano in successione la corte napoletana del Vicerè, i baroni insaziabilmente a caccia di privilegi, il banditismo delle campagne, esponenti dei ceti provinciali e periferici («leggitori di libri» li definì un cronista dell'epoca) che alimentarono i primi progetti di indipendenza e di rifiuto del dominio baronale, le «profezie» visionarie di Tommaso Campanella e, infine, il popolo, con i suoi istinti plebei ma anche con la generosità di alcune figure di uomini consapevoli, come Giulio Genoino e lo stesso Masaniello. Un groviglio di interessi contrapposti, un affresco complesso che interagisce con le rivolte in Portogallo, in Catalogna, nelle Fiandre, teatri di guerra lontani, ma che scardinano il nostro Mezzogiorno da ogni ruolo periferico e marginale, lo inseriscono nel cuore della crisi dei domini spagnoli, della rete delle relazioni diplomatiche con la Francia, in una dimensione che si nutre dei fermenti sociali e culturali dell'Europa di allora.
Certo tutto finisce male. Ma in quelle rivolte ci sono speranze di futuro, aneliti di libertà che appartengono al Mezzogiorno italiano così come il conformismo, l'ossequio ai potenti, l'immobilismo. C'è di tutto: proteste per la fame, ansie religiose, banditismo, attese messianiche, fremiti libertini, «una volontà di rifiuto radicale, di eversione». E su tutto incombe il prezzo enorme pagato dal Mezzogiorno a quelle sconfitte.
Scrivendone secoli dopo, Vincenzo Cuoco osservava come «una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo, di cui l'umanità non si libera se non quando le sue idee saranno di nuovo al livello coi governi suoi… Ma talora passano dei secoli e si soffre la barbarie prima che questi tempi ritornino». Nel 1799, lui stesso era stato protagonista dell'effimera ma straordinaria avventura della Repubblica partenopea, soffocata nel sangue dai cattolicissimi sanfedisti del cardinale Ruffo.
Per chiunque voglia voltarsi indietro per rilanciare oggi la questione meridionale, questo libro offre una traccia importante, proponendo di leggere in quei sussulti e in quelle sconfitte uno dei cardini su cui fondare la ricerca delle energie che si sono proposte di riscattare il Sud dalla miseria e la sua storia dalla suggestione dei luoghi comuni.

Repubblica 16.6.12
L’urgenza della memoria
di Alessandra Longo


Documenti, immagini, videotestimonianze, eventi, biografie. Un «viaggio virtuale attraverso i luoghi e la storia», dal fascismo alla seconda guerra mondiale, dalla Resistenza alla Liberazione. Sarà presentato oggi, nella sede del Museo Cervi a Gattatico (Reggio Emilia) il nuovo portale memorieincammino. it. Iniziativa aperta e interattiva che coinvolge già oltre un centinaio di soci dell’Istituto Cervi (in gran parte Comuni) e risponde a quella che i promotori definiscono «l’urgenza della memoria». Bisogna fare presto a raccontare le radici prima che si «spengano le ultime voci di quella stagione complessa ». Testimonial Moni Ovadia che parla dalla homepage: «La memoria è un flusso di emozioni, di scelte, a volte di omissioni. La memoria è un progetto e si rivolge al futuro». La memoria cammina e siamo tutti noi.

Repubblica 16.6.12
Aurelio Mancuso e Umberto Veronesi
Il futuro dell’uomo tra religione e scienza
risponde Corrado Augias


Gentile Corrado Augias, Vito Mancuso ha scritto che “il futuro dell’uomo non è solo nella scienza” in opposizione a Veronesi il quale però non credo che pensi questo, si è solo espresso con entusiasmo sui risultati della tecnologia. La scienza si propone di capire i meccanismi dei fenomeni naturali e cerca di organizzarli secondo razionalità, con teorie che sottopone a verifiche e aggiornamenti. Questo metodo è negato alla teologia, che invece ha da tempo acquisito una verità definitiva. Alla scienza si può fare un diverso appunto: non considerare sempre le priorità nell’investire le risorse, in particolare quelle destinate alla conoscenza pura. Ad esempio, conoscere meglio la stella Fomalhaut, a 25 anni luce dalla Terra che richiede la costruzione di un osservatorio a 5000m di altitudine in Cile. Francamente sembra meno urgente dei provvedimenti per impedire che un miliardo di esseri umani rimanga senza cibo. Sembra altrettanto urgente che chi si occupa di religione denunci, prima delle carenze future della scienza, la superstizione mercantile che ancora affligge Lourdes, Fatima, Medjugorje.
Franco Ajmar

La discussione innescata dal doppio intervento di Umberto Veronesi e di Vito Mancuso sulla scienza è del più grande interesse. Dei rapporti tra religione e società si discute da prima ancora del cristianesimo. Il sofista Crizia, in un suo dramma, accenna la teoria che gli dèi furono inventati per impedire agli uomini di delinquere. Machiavelli giudica la paura delle pene eterne più efficace delle leggi per mantenere i buoni costumi. La religione però è anche la principale fonte di speranze e di consolazione al contrario della razionalità che, diceva Chateaubriand, “non ha mai asciugato una sola lacrima”. Mancuso ha ragione a dire che non si vive di sola scienza e credo che anche Veronesi sarebbe d’accordo. Mancuso semmai esagera quando tira dalla sua Einstein ricordando la frase “la scienza senza religione è zoppa, la religione senza
scienza è cieca”. Parole che non mi pare rispecchino ciò che Einstein ha detto altrove. Per esempio parlando della religione ebraica come di un insieme di leggende infantili. Non mi pare che oggi ci sia nessuno che vuol rimuovere il sacro dal mondo, né sarebbe possibile. Si dovrebbe invece cercare di tenere separato il sacro dalla vita civile. Il Discorso della Montagna, sublime per ispirazione, sarebbe un disastro se trasformato in articoli del codice. La scienza non può assoggettarsi al dogma o perde il suo carattere di scienza; la religione invece si fonda sul dogma o non è più religione. La spiritualità vera rifugge dall’imposizione forzata, domanda silenzio e concentrazione, sicuramente non ama la politica e i soldi. Con Mancuso di questo abbiamo discusso a lungo; sono cose che sa e che condivide.

Repubblica 16.6.12
Il pensiero debole è ancora “forte”
Un intervento sul dibattito filosofico intorno al Nuovo realismo
Nell’agosto scorso Ferraris ha lanciato su queste pagine il manifesto del New Realism
che ha aperto il dibattito sul superamento del Pensiero debole
di Pier Aldo Rovatti


Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo( Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni. Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni. Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifestouna lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia? » e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ». Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così. A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin. Tutto questo percorso – che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) – conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti. Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività. Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi. Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità». Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette). Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi. Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi – forse – ancora più di ieri.

Repubblica 16.6.12
La vergogna perduta
Come siamo diventati un popolo di esibizionisti
di Roberto Esposito
 

Un saggio esamina la mutazione del sentimento che per secoli ha funzionato come un meccanismo di coesione sociale
Oggi i modelli cui è obbligatorio adeguarsi non sono più etici ma estetici, imposti dalle aspettative di una platea virtuale

Cosa è successo alla vergogna? Dove è finita, o come è cambiata, quell’emozione fondamentale collocata al centro dei rapporti umani e che anzi, in un certo senso, li precede, tracciando una linea che non può essere varcata senza segnare una sorta di regressione antropologica? Se essa non è sparita – visto che le sensazioni costitutive della nostra esperienza non si cancellano di colpo – certamente è mutata di segno. Dal pudore, quella che un tempo chiamavamo discrezione, essa si è rovesciata in un bisogno di esibizione, cui si può dare anche la patente di autenticità, ma che in realtà è parte integrante di una società in cui, per esistere, pare necessario essere visti, individuati, notati, non solo nei successi, ma anche nelle fragilità e nelle pieghe più intime. Altrimenti non si capirebbe perché mai, quotidianamente, in uno scompartimento di treno, siamo costretti ad ascoltare le vicende private di chi urla al cellulare accanto a noi, come se fosse solo. O, peggio, perché coppie, celebri o anonime, di ogni età e condizione, immettano in internet le immagini dei loro rapporti
sessuali. E non è diventato un irresistibile richiamo mediatico il pianto in diretta di persone messe di fronte ai propri errori, rimorsi, rimpianti reali o immaginarie, di cui, poco alla volta, cominciano a vantarsi come di testimonianze di verità e di coraggio?
Un libro di Gabriella Turnaturi, intitolato appunto Vergogna. Metamorfosi di un’emozione (Feltrinelli), prova, con gli strumenti raffinati della psicologia sociale, a fornire una risposta a tale domanda, riconducendo questa antinomia ad un orizzonte più ampio e profondo. Il suo presupposto di partenza è che, se tutte le emozioni sono costruzioni sociali, ciò vale tanto più per la vergogna. Senza lo specchio dello sguardo altrui, non si aprirebbe quello scarto rispetto a noi stessi da cui si genera la vergogna. Certo, il disagio per un nostro modo di essere, o di fare, non ha bisogno del giudizio esterno – può emergere autonomamente dentro di noi. Ma esso è sempre socialmente mediato, si struttura nel confronto con modelli e norme elaborate nella comunità cui apparteniamo. Non per nulla, secondo il mito platonico del Protagora, a consentire la nascita della politica, non sono le tecniche assegnate inizialmente agli uomini, ma è la combinazione di dike e di aidos, di giustizia e vergogna, senza le quali non sarebbe possibile una vita in comune. È proprio l’allentamento della coesione sociale, infatti, a produrre il depotenziamento della vergogna. Già il passaggio da comunità ad alto tasso di integrazione agli attuali regimi individualistici ne ha determinato un primo decremento. Ma, come già osservava Marco Belpoliti nel bel libro edito da Guanda Senza vergogna, è il narcisismo autoreferenziale della società dello spettacolo ad aver prosciugato i pozzi della vergogna. Non soltanto nelle nostre società non esistono più interdetti generali, ma gli atti di cui un tempo ci si vergognava, piuttosto che celati, sono addirittura esibiti. Come si spiegherebbe, altrimenti, che personaggi più o meno noti, ripresi in case o isole, si mostrino in atteggiamenti volutamente indecorosi, mentre altri si denudano, in senso metaforico e reale, sotto lo sguardo degli spettatori – come la pornostar che, durante la sua performance, fissa attraverso la telecamera gli occhi dell’osser- vatore? Quasi a dirgli che c’è sempre qualcun altro capace di sfregiare ancora di più il volto della vergogna, al punto di fare della sua scomparsa l’oggetto stesso del godimento. Ciò non vuol dire che ogni tipo di vergogna sia esaurito. Ma essa sposta il suo oggetto dal piano morale a quello fisico, dalle azioni ai corpi – non appena questi si allontanino dai canoni prefissati della bellezza mediatica o si appannino le prestazioni cui sono di continuo sollecitati. A generare vergogna, insomma, non è più un dato modo di comportarsi, ma il mancato adeguamento alle aspettative di una virtuale platea televisiva. Nel web – osserva l’autrice – c’è perfino un sito, beautifulpeople. com, cui ci si può iscrivere, tramite foto, soltanto se si è giudicati sufficientemente attraenti. In questo modo il cerchio si chiude – è la norma fissata dai circuiti mediatici a definire la soglia della vergogna, sotto la quale ogni comportamento è potenzialmente concesso, purché procuri godimento. Naturalmente, come sempre accade nelle dinamiche sociali, e nelle derive del senso, rimane un resto insaturo, qualcosa sporge e fa attrito. Quando una nota signora barese arriva a dichiarare in televisione che se si vuole guadagnare ventimila euro al mese, ci si deve vendere la madre, dando voce a un punto di vista non isolato, allora qualcosa non torna e qualcun altro finisce per pagare, calamitando su di sé la vergogna esorcizzata dagli altri. Nel romanzo La vergogna, Salman Rushdie racconta di Sufiya, una donna brutta e handicappata, che nell’India della modernizzazione selvaggia assume sulle proprie spalle tutta la vergogna fuggita dal mondo – com e un contenitore di carne in cui questa si riversa prima di traboccare rovinosamente nella società. Del resto la proiezione della vergogna su individui o gruppi sociali inermi ed innocenti ha costituito da sempre un dispositivo centrale del potere. Quante volte esso si è costruito imprimendo lettere scarlatte o stelle gialle sulle vesti di chi destinava all’espulsione e poi alla sop- pressione? Suscitando in loro, prima che il terrore, quello strano rossore che annuncia la morte, come accadde ad uno studente italiano – ricordato da Robert Antelme in La specie umana – scelto a caso dalle SS per la decimazione. Cosa provochi quel rossore non è facile a dire – forse la vergogna per coloro che ne hanno smarrito anche le tracce. Forse qualcosa di più misterioso, che chiama in causa il rapporto del soggetto con l’immagine insostenibile della propria desoggettivazione – come un fotogramma in cui ci si vede guardati nella nudità impudica di un corpo senza vita. Ma quel rossore può richiamare anche un altro lato, o un altro effetto, del dispositivo della vergogna. Oltre che a dike, alla giustizia, aidos, il pudore, può essere associato anche a nemesis, che Bernard Williams in Vergogna e necessità (il Mulino, 2007) traduce con “indignazione”. È un’altra contraddizione cui assistiamo in questi anni di continuo sommovimento, e ribaltamento, del rapporto tra società e individui – quando all’apparente scomparsa della vergogna fa riscontro, quasi compensandola, un sentimento di crescente indignazione. È come se, oltre un certo limite, ci si cominciasse a vergognare della mancanza di vergogna – indignandosi contro coloro che l’hanno sequestrata, o rivolta contro esseri umani obbligati a vergognarsi della propria pelle, della propria fame, della propria indigenza. Nelle situazioni in cui la crisi sociale oltrepassa un certo limite, come quella che attualmente viviamo, gli orientamenti fanno presto a mutare e a capovolgersi nel loro opposto. La vergogna non è un dato psicologico, una impressione di superficie, che possa mai esaurirsi. Essa rappresenta un elemento costitutivo del nostro essere uomini – ciò che, forse più di ogni altro carattere, ci differenzia dagli animali. In questo senso Marx ha potuto affermare che la vergogna non si limita a precedere la rivoluzione – è già in sé una rivoluzione. Se, come un lampo, tale vergogna-indignazione è avvampata lungo tutta l’Africa Mediterranea fino al Medio Oriente, sfidando la repressione di massa, tornerà, sta già tornando, a farsi sentire anche da noi.

Repubblica  16.6.12
Morto a 98 anni il filosofo francese Roger Garaudy
Quell’ex comunista negava l’Olocausto
di Fabio Gambaro

PARIGI Dal comunismo al negazionismo, passando per il cristianesimo e l’islam, è questo il tortuoso percorso del filosofo francese Roger Garaudy, morto mercoledì all’età di novantotto anni (ne avrebbe compiuti 99 il mese prossimo), nella sua casa di Chennevières, alle porte di Parigi. Da tempo era stato messo al bando dal mondo intellettuale francese, di cui pure era stato una personalità di spicco fino agli anni Settanta, prima di quella conversione all’islam, da cui poi approdò all’antisemitismo e al negazionismo. «Sono giunto all’Islam con la Bibbia sotto un braccio e Il Capitale di Marx sotto l’altro», aveva dichiarato nel 1989 a Re- pubblica. Solo che poi quei testi furono del tutto dimenticati quando nel 1996 scrisse Les Mythes fondateurs de la politique israélienne, un libro in cui rimise in discussione la realtà della Shoah e delle camere a gas. Quell’opera, scrivono Michaël Prazan e Adrien Minard nel loro volume Roger Garaudy Itinérarie d’une négation (Calmann-Levy, 2007), fu «l’atto iniziale della penetrazione delle idee negazioniste tra i nemici più determinati dello stato d’Israele». Nato a Marsiglia nel luglio 1913 da una famiglia atea, Garaudy si era convertito al protestantesimo all’età di quattordici anni, aderendo in seguito al Partito Comunista Francese, motivo per cui negli anni della guerra fu arrestato e imprigionato per diversi mesi. Nel dopoguerra entrò a far parte del Comitato centrale del partito, nelle cui file venne eletto diverse volte deputato e senatore, fino al 1962 quando lascerà ogni mandato per dedicarsi esclusivamente alla filosofia. In quegli anni, in cui era considerato il filosofo ufficiale dei comunisti francesi, Garaudy difenderà il dialogo tra cristiani e marxisti, denunciando ogni forma di rigido ateismo, come mostrano i volumi De l’anathème au dialoguee Marxistes et chrétiens face à face. Contemporaneamente, il filosofo iniziò ad emanciparsi dallo stalinismo, dimostrandosi sempre più critico nei confronti dell’ortodossia comunista. I saggi Peuton être comuniste aujourd’hui e Pour un modèle français du socialisme suscitarono molte discussioni, segnando la progressiva rottura con il partito, da cui infatti verrà espulso nel 1970. Da quel momento inizia l’avvicinamento di Garaudy all’islam, a cui si convertirà qualche anno dopo, pubblicando diversi saggi sull’argomento e creando una fondazione a Cordoba per celebrare l’età dell’oro dell’islam. Sempre più critico nei confronti d’Israele, il suo discorso si radicalizzerà definitivamente durante gli anni Novanta con la pubblicazione di Les Mythes fondateurs de la politique israelienne, libro che susciterà enorme scandalo e molte polemiche, durante le quali il filosofo venne difeso dall’Abbé Pierre, di cui era amico fin dai tempi della guerra. Il libro venne vietato e l’autore fu condannato a nove mesi di carcere con la condizionale e a 150.000 franchi di multa per «contestazione dei crimini contro l’umanità». Come tutti i negazionisti, Garaudy ha sempre negato di essere un negazionista e si è sempre considerato vittima di un linciaggio politico-culturale. Ripudiato dal mondo politico e intellettuale francese, il filosofo negli ultimi anni della sua vita ha molto viaggiato nei paesi musulmani dove è stato sempre accolto come una personalità di rilievo e dove ha potuto diffondere liberamente le sue tesi contro «l’occidente criminale» e «la superiorità dell’islam », tesi sviluppate ancora una volta nel suo ultimo libro, Le terrorisme occidental, pubblicato nel 2004. Non c’è nessuno oggi in Francia che rivendichi la sua controversa eredità.

venerdì 15 giugno 2012

l’Unità 15.6.12
Etica e politica
Vita, persona e unioni civili: il Pd discute sul documento
Riconoscimento delle coppie gay, no all’eutanasia politiche per la famiglia
Sul testo dissensi nel comitato
Pluralismo, libertà di cura, unioni civili
Ecco i passaggi fondamentali del testo licenziato ieri dalla Commissione Diritti del Partito democratico, guidata da Rosy Bindi
«L’integrità della persona deve essere rispettata anche quando essa non possa esprimersi»
«L’ultima parola sui trattamenti sanitari e sulla loro prosecuzione è di chi li sopporta»
Più forte sostegno alla famiglia e nuove garanzie per i diritti delle coppie omosessuali


Oggi è impossibile riflettere sul tema dei diritti personali senza tener conto del dato più dirompente che segna il nostro tempo: il vertiginoso aumento di potenza nelle mani dell’essere umano grazie alla rivoluzione tecnologica esplosa negli ultimi decenni. Oggi la nuova potenza della tecnica sta mettendo sempre più in crisi la distinzione tra «naturale» e «artificiale», consentendo alla tecnica di intervenire sugli stessi fondamenti biologici della nostra esistenza, dal momento del sorgere della vita fino ai confini con la morte. Per questo è essenziale incoraggiare, sostenere e rispettare il libero esplicarsi della scienza e dell’arte, ma al tempo stesso è del tutto evidente che tale immenso potenziale non possa essere lasciato alla nuda regolazione del mercato: se da un lato gli investimenti economici sono essenziali ai fini dello sviluppo della scienza e della tecnologia, d’altro lato la finalità della ricerca e l’utilizzo dei suoi risultati non possono essere definiti solo dall’aumento di ricchezza che essi possono produrre. (...)
L’integrità della persona deve essere rispettata sia là dove essa sia in grado di esprimere autonomamente la propria volontà, sia là dove ciò non possa accadere. Occorre darsi gli strumenti, anche legislativi, affinché la persona possa esprimere, anticipatamente e con forme e modalità adeguate e consapevoli, i propri convincimenti e la propria volontà per le situazioni nelle quali potrebbe non essere più in grado di esprimerli. Ed occorre adoperarsi per estendere la tutela delle libertà personali a chi, versando in stati magari anche solo transitori di incapacità ad esprimersi, è, come soggetto debole, maggiormente esposto al rischio di manipolazione e bisognoso di protezione e di rispetto. (...)
Per questo il Pd si è impegnato a combattere queste forme di violazioni della libertà personale, anche attraverso specifiche proposte, quali ad esempio quelle contro la violenza sulle donne, contro l’omofobia e la transfobia, contro la manipolazione genetica, contro le terapie e le cure non rispettose delle volontà di colui che le subisce, contro la tortura e a favore di un trattamento umano dei detenuti nelle carceri. (...)
DIRITTO ALLA CURA
Il Pd opera affinché il diritto alla cura debba essere garantito come esigibile da ogni persona, in ogni caso, specie da chi si trova in condizioni di povertà, materiale e relazionale, e di potenziale abbandono. Per questo afferma con convinzione la necessità che siano sempre assicurate prestazioni di cura adeguate a ciascun cittadino, in particolare agli indigenti. Ciò tra l’altro è suggerito dalla nostra Costituzione, che saggiamente all’art. 2, c. 1, considera la salute come «interesse della collettività», oltre che come «fondamentale diritto dell’individuo». Il diritto alla cura è declinabile anche come diritto ad essere sollevato dalla sofferenza con trattamenti palliativi, là dove non possa darsi altro rimedio, per ciò che la scienza e la tecnica allo stato consentono e nell’osservanza delle scelte della persona. È inoltre elemento coessenziale di questo diritto alla cura, e non è altro da esso in quanto connesso al diritto all’integrità personale, il diritto al rispetto delle scelte della persona, fin dove non si impongano esigenze collettive di tutela della salute. Nelle proposte del Pd, la necessità di preservare il rapporto di fiducia e l’alleanza terapeutica tra il medico ed il paziente, nel quadro delle relazioni familiari ed affettive che lo circondano, rispetta il principio per cui il convincimento libero e la volontà individuale di chi è curato non debbono subire prevaricazioni o pregiudizi; mentre va assicurato il diritto ed il dovere del medico di non impartire al paziente stesso, il quale pure solleciti o acconsenta, trattamenti finalizzati a sopprimere la vita, tenendo sempre fermo il principio che l’ultima parola sull’intrapresa dei trattamenti e sulla loro prosecuzione è di chi li sopporta.
Vi sono poi violazioni dei diritti fondamentali anche nell’ambito della sfera spirituale. Anche su questo piano si registrano mancati riconoscimenti della libertà di pensiero e di religione. Ciò riguarda la sfera della libertà religiosa, della libertà scientifica e artistica, della libertà della ricerca scientifica, ma riguarda anche la sfera della formazione della pubblica opinione che si sviluppa attraverso l’accesso ad una informazione libera e plurale e di una educazione aperta e pluralistica. In questo ambito il principio fondamentale non può che essere quello del rispetto e della promozione della libertà di coscienza del singolo, che è un valore frutto anch’esso della convergenza, sia pure dialettica, delle tradizioni religiose e secolari. Il riconoscimento della libertà della coscienza pone un limite fondamentale al potere politico e ai suoi strumenti coercitivi che devono arrestarsi di fronte alla sfera interiore dell’individuo, e per ciò stesso anche di fronte alla sfera dell’arte, della cultura, della scienza. La difesa di tale diritto all’inviolabilità della coscienza, il cui esercizio non può evidentemente essere riservato al solo spazio interiore di ogni individuo, deve conciliarsi con il principio di responsabilità sociale per i comportamenti influenti su altre persone e sulla società. Per questo i riconoscimenti delle differenze di comportamento imputabili a identità o scelte anche religiose, etiche o filosofiche, anche nelle forme di obiezione di coscienza giuridicamente garantita, devono inserirsi in un regime di compatibilità con l’adempimento da parte di tutti i cittadini degli obblighi di solidarietà sociale ed il rispetto dei diritti altrui. È compito delle istituzioni pubbliche, da un lato, riconoscere la libertà di coscienza anche dei propri operatori, dall’altro, garantire a tutti i cittadini la protezione e l’assistenza di cui hanno diritto. In questa direzione il Pd ha avanzato proposte a sostegno della libertà religiosa, a difesa di una informazione libera e plurale, a sostegno della libertà di ricerca.
LA FAMIGLIA
Vi sono infine mancati riconoscimenti e violazioni di diritti nell’ambito delle relazioni e delle organizzazioni sociali. La vita umana esiste solo (ed è pensabile solo) entro le forme della socialità. Queste forme – tra cui la famiglia è forma primaria – si costituiscono non solo sulla base delle scelte degli individui, ma anche sulla base della loro posizione e del loro rilievo sociale. La storia della famiglia testimonia questa evoluzione continua, legata al mutare delle condizioni economiche, ambientali, culturali, religiose, al cui interno un ruolo fondamentale è stato svolto dai grandi processi di emancipazione femminile. In questa evoluzione la cultura e gli ordinamenti giuridici hanno riconosciuto un’importanza crescente alla libera espressione dell’affettività personale, all’uguaglianza delle persone all’interno della famiglia e agli obblighi di solidarietà tra coniugi e tra genitori e figli. Si tratta di valori essenziali non solo alla vita personale, ma all’intera vita sociale. Per questo la Costituzione italiana ha inteso riconoscere e stabilire i diritti e i doveri della famiglia (artt. 29 e 30), nonché il dovere della Repubblica di agevolarla e sostenerla nell’adempimento dei suoi compiti (art. 31). Rispetto a questo dovere l’azione del governo italiano, anche e soprattutto negli ultimi anni, è stata largamente inadempiente e il Pd considera un obiettivo primario il dare piena attuazione a questo impegno costituzionale.
D’altra parte non si può ignorare che nella società contemporanea le dinamiche sociali ed economiche, da un lato, e, dall’altro, le libere scelte affettive e le assunzioni di solidarietà hanno dato vita a una pluralità di forme di convivenza, che svolgono una funzione importante nella realizzazione delle persone e nella creazione di un più forte tessuto di rapporti sociali. Per questo esse appaiono meritevoli di riconoscimento e tutela sulla base di alcuni principi fondamentali. Da un lato, nel principio della centralità del soggetto rispetto alle sue relazioni, così da riconoscere sia i diritti di ogni persona a dare vita liberamente a formazioni sociali, sia i diritti di ciascuno entro le diverse formazioni sociali. Dall’altro, nel principio del legittimo pluralismo, che implica il riconoscimento dei diritti e dei doveri che nascono nelle diverse formazioni sociali in cui può articolarsi la vita personale affettiva e di coppia.
Tale riconoscimento dovrà avvenire secondo tecniche e modalità rispettose, da un lato, della posizione costituzionalmente rilevante della famiglia fondata sul matrimonio ai sensi dell’art. 29 Cost. e della giurisprudenza costituzionale che anche recentemente ne ha dato applicazione, dall’altro, dei diritti di ogni persona a realizzarsi all’interno delle formazioni sociali, che si declinano oggi in un orizzonte pluralistico secondo quanto espresso dalla Corte Costituzionale: «per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» (138/2010). Il Pd, auspicando un più approfondito bilanciamento tra i principi degli articoli 2, 3, e 29 della Costituzione, quanto in specie alle libere scelte compiute da ciascuna persona in relazione alla vita di coppia ed alla partecipazione alla stessa, opera dunque per l’adeguamento della disciplina giuridica all’effettiva sostanza dell’evoluzione sociale, anche introducendo, entro i vincoli della Costituzione e per il libero sviluppo della personalità di cui all’art. 2, speciali forme di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali.

l’Unità 15.6.12
Sinistra e società civile
La nociva teoria della separazione tra società civile e partiti
di Michele Prospero


Nelle accese polemiche scoppiate dopo le (talune) infelici nomine alle Authority, è tornata a risuonare con ritrovato vigore una antica litania contro la partitocrazia. C’è sicuramente qualcosa di stucchevole in un folto professionismo dell’antipartitocrazia che galoppa intrepido in una età di partiti assenti o precipitati in gravi dilemmi esistenziali. E tuttavia, dopo aver eliminato la fastidiosa coltre ideologica, ravvisabile nel lamento di chi maltratta i partiti come escrescenze e si promuove come il solo interprete autorizzato della società civile, resta comunque irrisolto il nodo del raccordo tra la funzione delle rappresentanze e le sfere dell’agire sociale.
È almeno da vent’anni che opera una secca contrapposizione tra la società civile e quella politica. La seconda Repubblica in origine è nata proprio in nome della società civile liberata che rifiutava la politica percepita come contaminata dal malaffare e conquistava le postazioni del potere senza più l’esigenza di ricorrere ai soggetti della mediazione. La rude società delle partite Iva, della microimpresa disseminata nei territori si incamminò con successo lungo la strada della autorappresentazione. E, per tutto l’arco del ventennio, ha retto la solida alleanza tra azienda e territorio padano visti come i soggetti di una autorappresentazione ostile al ceto politico.
Questa porzione potente di società spezzava la logica della mediazione politica e conquistava tutto per sé lo spazio pubblico di decisione, imponeva una sfacciata contaminazione di affari e potere. Contro una infinita serie di conflitti di interesse, sorgevano nel Paese delle sensibilità civiche attorno ai temi della legalità, della indipendenza della magistratura sfidata da leggi ad personam, della pulizia etica da imporre nell’amministrazione colonizzata ad ogni livello da cricche opache. Accanto ad una società civile arroccata al comando, sorgeva così una società civile di opposizione che assumeva nella sua agenda le richieste tipiche della cultura liberaldemocratica: separazione dei poteri, certezza del diritto, autonomia dell’amministrazione, riconoscimento del merito, nuovi diritti civili.
Fino a quando questa influente porzione (liberale) di società civile ha mantenuto ben salda la sua funzione di pungolo critico, da esercitare contro i ritardi della politica, e ha fatto ricorso a mobilitazioni intense senza però lasciarsi tentare dalle scorciatoie dell’autorappresentazione, ha intrattenuto con la sinistra un proficuo dialogo. Da ultimo, le vittorie alle amministrative in città simbolo come Milano, il trionfo nei referendum sull’acqua e sul nucleare, racchiudono proprio il concorso di autonome sensibilità civiche e la regia accorta e discreta dei partiti. Questo sentiero di cooperazione produttiva si è però interrotto, con una grave ricaduta sulle prospettive del rinnovamento della politica. All’origine della frattura c’è il difficile tragitto avviato con il governo di tregua che avrebbe dovuto favorire la ripresa della politica e invece ha accentuato nelle élite economiche e mediatiche i disegni di scomposizione del sistema. La momentanea sospensione della aperta polarità destra-sinistra in nome dell’emergenza, ha moltiplicato le spinte all’autorappresentazione che rendono assai precaria la tenuta dei partiti e la sorte del parlamentarismo. Un populismo dei ceti medi riflessivi alimenta la proliferazione di liste e partiti personali, e minaccia la prospettiva di una riorganizzazione efficace della rappresentanza politica.
La sinistra, con le opportune aperture alle istanze liberali (diritti, partecipazione civica), tenta ora di recuperare un cantiere abbandonato in maniera traumatica. Soprattutto in tempi di crisi sociale, la sinistra dovrebbe però conservare la consapevolezza che la società civile (della rete, dell’attivismo civico informato, delle professioni) è solo una parte (preziosa, certo) di una più ampia società che avverte un profondo disagio e potrebbe presto convertire la sua perdita di status in sostegno a forme inquietanti di alienazione politica. Mentre lancia dei segnali di recuperata attenzione alla società civile riflessiva, la sinistra non dovrebbe trascurare di essere un partito-società che, se non dà un senso alle incertezze che si abbattono sulle sue fasce di popolo, favorisce proprio tra i ceti marginali le uscite di tipo regressivo alla crisi di legittimazione ormai in corso.

l’Unità 15.6.12
«2013, niente condannati in lista»
L’odg Pd crea tensione a destra
Dell’Utri, Ciarrapico, De Angelis: i primi casi di «incandidabili» se il governo eserciterà la delega
di Susanna Turco


ROMA La legge anticorruzione passa, il nodo incandidabili resta. Ieri, il ministro della Giustizia Paola Severino ha salutato con favore l’approvazione dell’ordine del giorno del Pd che impegna il governo a provvedere, «entro quattro mesi» dall’approvazione della legge, ad adottare la delega che articola e rende applicabili le norme sull’incandidabilità contenute nel ddl anticorruzione. «I timori sull’impossibilità di procedere in tempi utili rispetto alle elezioni del 2013 mi sembra che siano stati così superati», ha detto la Guardasigilli.
Sulla possibilità di tenere fuori dal Parlamento già alle prossime elezioni chi è stato condannato in via definitiva, tuttavia, non tutti sono così ottimisti, soprattutto dopo le parole del capogruppo Pdl Cicchitto in Aula e i malumori del partito di via dell’Umiltà. La volontà di introdurre al Senato nuove modifiche è infatti chiara, così come lo è il conseguente allungamento dei tempi prima dell’approvazione della legge. Una dilazione che per il Pdl è tanto più desiderabile in quanto coinvolge appunto l’incandidabilità: la delega al governo su questa materia, infatti, era stata concepita e introdotta proprio dal Pdl al Senato quando il
centrodestra era ancora al governo, e poteva procrastinare all’infinito la sua traduzione pratica. Cosa che invece il governo attuale non pare avere nessuna intenzione di fare, dando al partito di via dell’Umiltà un altro grattacapo.
NEL CENTRODESTRA
Il disagio del centrodestra del resto si capisce anche, incrociando le norme appena approvate (e che però il governo dovrà ulteriormente definire) con i nomi dei parlamentari. Vien fuori che gli incandidabili (chi ha condanne definitive ad almeno due anni, per reati contro la Pubblica amministrazione, mafia, terrorismo e reati che nel massimo della pena superino i tre anni) proverrebbero in larghissima parte dalle file del centrodestra. C’è per esempio Marcello Dell’Utri, condannato a due anni e tre mesi per fatture false e frode fiscale nella gestione di Publitalia. C’è Aldo Brancher – che ieri si è astenuto al voto finale sul ddl – condannato a due anni per ricettazione e appropriazione indebita nell’ambito del processo sulla scalata Antonveneta (ha beneficiato dell’indulto, ma secondo i tecnici questo non sarebbe rilevante ai fini dell’applicazione della norma). C’è Marcello De Angelis, condannato a cinque anni per banda armata e associazione sovversiva come dirigente di Terza posizione. C’è Giuseppe Ciarrapico, che fra l’altro ebbe una condanna a quattro anni e sei mesi per il crack del Banco Ambrosiano. Antonio Tommassini, condannato a tre anni per falso nell’esercizio della sua professione di medico. Salvatore Sciascia, due anni e sei mesi per corruzione come manager Fininvest (nell’inchiesta aperta dal Pool mani Pulite nel 1994).
Ancor più chiara la difficoltà se si ripensa alle parole di Cicchitto di ieri a proposito della «maggior discrezionalità» che si dà ai magistrati. Senza dubbio, infatti, l’aver messo un paletto di legge – per la prima volta – sui criteri di candidabilità, è qualcosa destinato a condizionare la composizione delle liste elettorali e a produrre i suoi effetti non solo eventualmente nel presente (2013), ma soprattutto negli anni a venire.
Tra i parlamentari attualmente in carica, infatti, oggi sono condannati o indagati 53 deputati (fra cui 30 Pdl, 4 Lega, 6 Pd, 3 Udc) e 30 senatori (fra cui 20 Pdl, 2 Pd, 2 Udc, Lega). Chi oggi è sotto processo, o solo giudicato in primo grado, domani potrebbe divenire incandidabile: e lo diverrebbe per via di ciò che avviene nelle aule di giustizia. Figurarsi quanto può piacere questo a uno come Berlusconi.

l’Unità 15.6.12
Bersani a Monti: «Riprendiamoci la sovranità»
Il leader Pd: «Anche nell’emergenza bisogna alzare la testa»
Manifesto dei sindaci a favore del percorso indicato dal segretario e che porterà alle primarie
di Maria Zegarelli


ROMA «Bisogna riorganizzare i fondamentali, riprendere sovranità» e affiancare al rigore sui conti anche le misure per la crescita. Lo ha detto l’altro giorno alla Camera e lo ripete anche adesso, in occasione dell’Assemblea nazionale Pd sull’Agricoltura, il ministro per le politiche Agrarie Mario Catania è seduto in prima fila, ha da poco concluso il suo intervento. Pier Luigi Bersani richiama la politica ad esercitare il proprio ruolo e, rivolgendosi al ministro, esorta: «Anche nell’emergenza abbiamo bisogno che il sistema Paese cominci ad alzare la testa». Sottolinea: «Con Monti ci intendiamo larghissimamente, ma non si può dire che una volta è la crescita che manca, una volta è la riforma del lavoro, un’altra il debito perché i mercati leggono la realtà ma anche la creano e se hanno deciso di andare a prendere il predatore dalla savana decidono indipendentemente dal fisico dell’animale». E l’animale-Italia è sotto botta, morso dalla recessione. Per questo il segretario Pd invoca un «gesto politico» senza del quale «l’Europa non può uscire dal problema». Il Pd, come il Pdl, sa bene che dopo Monti l’emergenza sarà ancora lì e i problemi se li ritroverà sul tavolo chi andrà al governo, per questo il segretario dice che anche in questa «emergenza e in questa transizione» è necessario iniziare «a seminare idee su cui lavorare in continuità ragionando attorno a un orizzonte produttivo e a una missione Italia sui temi dell’ambiente della qualità e dell’innovazione». Saranno cruciali le prossime settimane e se qui in Italia «si tratta di trovare un po’ di risorse per la crescita, che è una parola grossa» ma almeno serve a contrastare la recessione, in Europa «ognuno si deve prendere le sue responsabilità». Bene che il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Shauble preveda «una ripresa per il nostro Paese a partire dal 2013, ringraziamo, siamo grati, però sappiamo di avere dei problemi». E tra questi c’è quell’enorme carico sulle spalle degli italiani dovuto alle manovre e al «salvaitalia», ragion per cui da qui in avanti «non possiamo massacrare chi è già in grosse difficoltà». Ovvio il riferimento alla spending review, «c’è modo e modo di fermare la recessione» e meglio sarebbe intervenire in modo oculato. «Abbiamo un problema di mercato delicatissimo dice cerchiamo di affrontare questo tema con equilibrio stando ben attenti a dove andiamo a mettere le mani. Non possiamo colpire i ceti che hanno bisogno di consumare». E bene anche l’annuncio della vendita dei beni pubblici, ma anche qui il partito democratico vuole vedere come sarà strutturata. «Se è quello che penso che sia, è una proposta venuta fuori dagli enti locali ed è una cosa positiva, ma va ben organizzata».
IL MANIFESTO DEI SINDACI
Ma dopo la direzione di venerdì, nel corso della quale Bersani ha annunciato la sua candidatura alle primarie, la macchina elettorale è partita. Mentre il sindaco di Firenze, Matteo Renzi sonda su quanti ma soprattutto chi lo appoggerà se dovesse decidere di sfidare il segretario, centinaia di suoi colleghi, sindaci, presidenti di Provincia e Regione, una scelta sembra l’abbiano già fatta. In un Manifesto, sottoscritto tra gli altri da Piero Fassino (Torino), Roberto Cosolino (Trieste), Virginio Merola (Bologna), Massimo Cialente (L’Aquila), Vasco Errani (Emilia Romagna), Gianfranco Ganau (Sassari), dedicano un intero passaggio alla Carta di intenti che Bersani ha lanciato durante la direzione. «Ci sentiamo coinvolti in questo percorso e vogliamo contribuire ad arricchirlo», dicono.
Quello degli amministratori è un Manifesto con il quale si dicono in campo per la sfida delle elezioni politiche per la vittoria del Pd. «La difficoltà crescente di trovare soluzioni concrete scrivono nel manifesto coinvolge direttamente noi sindaci che viviamo con angoscia questa fase perché abbiamo la percezione che la soluzione, se la si vuole trovare, sta nel ricreare una sana gerarchia dei valori delle cose e che la montante ondata populista può solo aggravare la disillusione dei cittadini in quanto non può dare soluzioni». E in un momento in cui la crisi morde soprattutto i Comuni con un taglio dei trasferimenti e il patto di stabilità che strangolano i margini di interventi, gli amministratori, puntano su «una sintesi alta tra la dimensione territoriale e la sfera globale». «Ce la possiamo fare sostengono nel documento se la politica nazionale assume il valore locale come fondante della sua riscossa e se con umiltà si accetta che spesso quello che accade a livello locale è importante perché assume carattere di valenza complessiva». Sindaci e presidenti di Provincia e Regione del Pd sanno che lo spettro da combattere alle prossime elezioni è l’astensionismo, l’antipolitica, il grillismo e la disillusione, tutto ciò che ha portato alla «profonda frattura che si è aperta tra la politica e i cittadini». Il percorso indicato da Bersani li convince e il Manifesto ha tutta l’aria di essere un appoggio alle primarie.
Il segretario dal canto suo sta pensando ad un incontro a luglio con tutti gli amministratori Pd.

Corriere 15.6.12
Il segretario «corteggia» gli amministratori locali
Renzi: ha un po' di paura
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nel Pd è già guerra per le primarie. Senza esclusione di colpi… anche bassi. Bersani, preoccupato per la grande kermesse che Renzi terrà il 23 giugno a Firenze, con gli amministratori locali a lui vicini, sta lavorando nel territorio per strappare consensi all'avversario. Ieri il segretario ha avuto un colloquio con Graziano Delrio: voleva il plauso del presidente dell'Anci alla sua candidatura. Ma Delrio ha nicchiato e non se n'è fatto niente.
Sindaci, presidenti di regione e di provincia sono comunque stati allertati dal responsabile Organizzazione Davide Zoggia. Hanno aderito all'appello di Bersani in diversi: tra i più noti Fassino, Zanonato, primo cittadino di Padova, e i sindaci di Bologna e l'Aquila Merola e Cialente. Si sono mobilitati anche i governatori di Emilia, Toscana e Basilicata, Errani, Rossi e De Filippo. Non hanno ancora sciolto le riserve e dichiarato pubblicamente da che parte stanno sindaci di peso come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano.
Comunque, per scrollare via l'etichetta di candidato dell'apparato del partito, che gli è stata cucita addosso, il segretario ha intenzione di valorizzare le esperienze dei dirigenti locali del Pd e di scipparne il più possibile a Renzi, ben sapendo che il sindaco di Firenze si muove soprattutto sul territorio, snobbando i palazzi della politica. Perciò Bersani ha in mente di tenere a luglio una grande assemblea degli amministratori locali. Ai quali, intanto, lancia questo messaggio: «I nostri uomini nelle realtà locali sono l'architrave della riscossa del Pd. Noi ce la possiamo fare se la politica nazionale, con umiltà, accetta che spesso quello che accade a livello locale è importante perché assume carattere di valenza complessiva. Sappiamo bene che nessuno può salvarsi da solo e che è tempo che nasca la stagione del merito e dell'onestà». E a questo proposito dallo staff del segretario fanno filtrare la voce secondo cui sarà cura del leader del Pd inserire nel governo prossimo futuro quegli amministratori locali che hanno governato bene nelle loro realtà.
Tutto questo attivismo del segretario, però, non sembra turbare più di tanto Renzi: «Mi sembra che al quartier generale ci sia un po' di paura», ironizza con i fedelissimi. E aspetta di vedere «nero su bianco» quali saranno le regole delle primarie: «Cercheranno di fregarmi, di inventarsi l'albo degli elettori e altri marchingegni per evitare che si voti liberamente. Ma sia chiaro: se si tratta di primarie finte, io non partecipo». Eppure anche Renzi sa che difficilmente il Pd potrà indire primarie che non siano più che aperte. E infatti ha già deciso quando annuncerà la sua candidatura: a metà luglio. Nel frattempo, aspetta la prossima mossa di Bersani. È convinto di sapere quale sarà: l'annuncio che i parlamentari con tre mandati alle spalle non verranno ricandidati, senza deroghe di nessun tipo. Significa fare fuori D'Alema, Veltroni, Bindi, Fioroni, Marini e tanti altri.

l’Unità 15.6.12
Intervista a Stefano Fassina
«Lavoro e diritti, basta parlare come broker di Wall Street»
«Occorre allentare subito la morsa dell’austerità. Rischia di portarci all’autodistruzione»
di Massimo Franchi


«Il lavoro come priorità strategica, lanciando un piano straordinario per giovani e donne». La seconda assemblea nazionale del lavoro del Pd si terrà oggi a Napoli. Stefano Fassina, responsabile economico, terrà la relazione.
Fassina, il calendario pone la vostra assise in un periodo assai delicato per il lavoro, tra la riforma al voto in Parlamento e la questione esodati...
«Cade in un periodo delicato in cui è sempre più evidente il nesso tra involuzione delle condizioni di lavoro e involuzione della democrazia. Per spezzare questo circolo vizioso il nostro impegno è racchiuso nel titolo scelto quest’anno: “Sviluppo sostenibile per la piena e buona occupazione”. Dobbiamo rimettere ordine tra variabili strumentali e obiettivi. Le variabili strumentali sono gli spread, i saldi di finanza pubblica; l’obiettivo è valorizzare la persona che lavora. Se continuiamo a parlare come broker di WallStreet saremo incomprensibili, in particolare per le generazioni più giovani».
Tra gli ostacoli più forti c’è l’austerità imposta a livello europeo. Come superarla?
«È necessario allentare la morsa dell’austerità che rischia di portarci all’autodistruzione. Dobbiamo dire la verità, l’inseguimento degli obiettivi di finanza pubblica fissati dal governo Berlusconi è incompatibile con lo sviluppo. Il rigore inseguito dall’Italia e lo sviluppo sono incompatibili. Quindi è necessario allentare la morsa dell’austerità in raccordo con la Commissione europea per far rialzare la domanda interna innanzitutto attivando gli investimenti in piccole opere pubbliche da parte dei Comuni. Sul tema degli esodati invece noi abbiamo già presentato in Parlamento proposte concrete per risolvere il problema e tutelare ogni persona e i diritti acquisiti».
L’altra emergenza che ogni mese viene messa in evidenza dai dati macroeconomici è la disoccupazione giovanile. Per voi è una priorità affrontarla, ma fattivamente quali proposte avanzate?
«Proporremo un piano per l’occupazione giovanile e femminile basato sull’allentamento del patto di stabilità interno fra Stato ed enti locali per impiegare i giovani e le giovani in particolare in progetti di lavoro per la cura del territorio e dell’ambiente. I giovani disoccupati saranno impiegati per periodi limitati con un trattamento analogo all’indennità di disoccupazione. Le risorse necessarie verranno solamente dall’allentamento del patto di stabilità e utilizzando Fondi europei».
Lei prima ricordava il legame tra lavoro e democrazia. Su questo aspetto come pensate di agire?
«Il tema della democrazia nei luoghi di lavoro è una nostra priorità. È necessario sanare il vulnus alla democrazia aperto dalla vicenda Fiat. Per questo noi ci impegniamo a riscrivere l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori per ridare la possibilità per i sindacati rilevanti di poter esercitare liberamente il loro ruolo in ogni azienda. In più cancelleremo l’articolo 8 dell’ultima manovra Berlusconi-Tremonti».
Il vostro programma punta molto sulla coesione e il dialogo sociale. Siete sicuri di riuscire a tenere insieme sindacati e imprese?
«Sì, perché saranno tutti protagonisti e attori centrali. Nel programma di “Ricostruzione dell’Italia” presentato da Pier Luigi Bersani le forze economiche e sociali del lavoro sono protagoniste. Noi consideriamo il rapporto con un arco ampio di forze strategico e decisivo».

il Fatto 15.6.12
La Fiom e il Terzo Stato
di Paolo Flores d’Arcais


Quello organizzato dalla Fiom sabato 9 giugno è stato un vero e proprio vertice pubblico di tutte le forze della sinistra. A discussione avvenuta, è doveroso trarne “bilanci e prospettive”. Primo. Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ha presentato un vero e proprio programma di governo. È partito dalle condizioni dei lavoratori in fabbrica (il che significa anche in mobilità, cassa integrazione, precarietà, disoccupazione), dimostrando come non si cambino (in meglio) queste condizioni senza affrontare i temi della legalità, della rappresentanza, dell’informazione, della scuola, della ricerca, dell’ecologia, della “governance” europea... E su ciascuno di questi temi ha dato indicazioni assai chiare sull’orientamento che deve avere un programma di governo nel quale la parola “equità” non sia una beffa. Infine, e come logica conseguenza, Landini ha spiegato che per la Fiom è all’ordine del giorno la necessità che con questo programma si realizzi la rappresentanza elettorale-parlamentare di lavoratori, precari, disoccupati, pensionati… insomma del Terzo Stato. Che oggi non c’è. SECONDO. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha risposto no a tutti i punti programmatici qualificanti. Un no talvolta mascherato (“sull’articolo 18 abbiamo ottenuto una difesa sostanziale…”, e giustamente arrivano i fischi) ma nella sostanza inequivocabile. I due programmi, della Fiom e del Pd, sono diversi e perfino alternativi. Di Pietro ha già rivendicato i comportamenti del suo partito in linea con la linea Fiom (Ferrero e Diliberto, per quel che conta, l’hanno sottoscritta perinde ac cadaver), Vendola ha invece fatto lo slalom, con quel linguaggio fumoso che scambia per poesia. Ma alla fine dovrà decidere. Terzo. È possibile una convivenza tra le forze che queste due organizzazioni, Fiom e Pd, rappresentano? Oppure, anche in presenza della legge elettorale maggioritaria “Porcata”, è inevitabile che vadano alle urne divise, propiziando una vittoria delle destre? Naturalmente si può obiettare che un sindacato non può occuparsi di elezioni parlamentari, ma è evidente che quando, partendo dalle condizioni di fabbrica, si arriva – giustamente – a ritenere ineludibili determinati temi programmatici politico-generali, quel sindacato è obbligato a dare indicazioni elettorali. Tanto più che è diventato, per le sue lotte e la sua coerenza, un punto di riferimento per una opinione pubblica assai vasta (e per molte lotte della società civile). Quarto. Con l’attuale “Porcata” una divisione sarebbe ovviamente una iattura. Ma l’unico modo perché non si consumi è che l’alleanza elettorale che dovrebbe tenere unite Pd Fiom e altre forze sia affidata, per la scelta del programma e dei candidati, ai cittadini stessi. Primarie, insomma. Primarie vere. Bersani ha promesso le primarie, ma nel solito involucro di nebbia, cioè di ambiguità quanto alla sostanza. Perché ha parlato di primarie “aperte”, il che in buon italiano significa che può partecipare chiunque rientri nell’ampio e variegatissimo spettro del centrosinistra, ma uno dei suoi più “fedeli”, Stefano Fassina (da ultimo onnipresente nelle tv), ha spiegato che prima si decide il programma e poi solo chi lo sottoscrive può partecipare alle primarie. Non ha spiegato, però, CHI lo decide il programma, se le primarie devono essere “aperte”. Perché se il programma lo decide il Pd, o un vertice tra Pd e Vendola, anziché gli elettori stessi del centrosinistra, le primarie non sarebbero affatto “aperte” ma sarebbero “chiuse”, e anzi assai più “chiuse” della famose “case” prima che arrivasse la legge Merlin. Quinto. I vari “attori” della discussione a sinistra, o almeno qualcuno di essi, sono pronti a decidere su questo punto cruciale senza ulteriori ambiguità? Sono pronti a parlare secondo Matteo 5,37, “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno”? Di Pietro, Vendola, e soprattutto la Fiom, sono decisi a porre la questione delle primarie-per-il-programma (oltre che per i nomi, evidentemente: ma legati ai programmi) in modo ultimativo? Se non lo fanno consegnano ai vertici del Pd (per altro rissosi e divisi) il patrimonio di credibilità fin qui accumulato, e dunque lo disperdono, poiché il risultato sarà milioni di cittadini di sinistra che si rifugiano nell’astensione o votano faute de mieux il movimento di Beppe Grillo. Come si potrebbe dar loro torto? Sesto. Forse già troppo tardi. Tuttavia il sondaggio realizzato da Pagnoncelli per Ballarò indica quali margini ancora sussistano: nelle primarie a sinistra il primo posto viene conquistato dal “candidato della società civile ancora sconosciuto”. In altri termini: se ci saranno primarie vere, e in esse ci sarà un candidato credibile della società civile (proposto o comunque “catalizzato” dalla Fiom, unico soggetto organizzato che abbia oggi l’autorità morale necessaria) potrebbe fermarsi il mare di consensi in emigrazione verso Grillo e non-voto, e potrebbe essere sventato il rischio della vittoria delle destre “decenti”, la cui nuova configurazione si va delineando (il partito cattolico di Passera-Bonanni benedetto da Bagnasco, la lista dei tecnici di Monti in tutte le varianti immaginabili, ecc.). INSOMMA: perché al governo vada l’alternativa della “democrazia presa sul serio” e del Terzo Stato “giustizia e libertà” è necessario che si pronuncino subito in modo “chiaro e distinto” Landini/Airaudo, Di Pietro, Vendola, ma anche gli intellettuali – presenti o meno al convegno – che rappresentano aree di opinione vaste e identificabili (“Libertà e Giustizia”, “Alba”, “Libera”, ecc.). E i sindaci, De Magistris in primis. Altrimenti per la sinistra ci sono solo le calende greche, come dire il giorno del mai.

l’Unità 15.6.12
Roma, dal 19 i big alla Festa
Videointerviste e dirette con l’Unità


Stavolta, dopo le polemiche dello scorso anno, sono andati “sul sicuro”. Niente gonne al vento. Per pubblicizzare la prossima festa cittadina dell’Unità dal 19 giugno al 22 luglio a Caracalla il Pd capitolino ha scelto una foto della cupola di San Pietro. Manifesto ideato da Livio Patriarca, 20 anni. Vincitore del “concorso di idee” bandito dalla Federazione cittadina. «Roma ce la farà», recita lo slogan stampato su un cielo color arancio, che prefigura il tramonto di Alemanno. È per quello che si lavora, all’ombra del Cupolone. Ma non solo.
«Mobilitarci, come ogni anno, con i volontari (dai 200 ai 400 ogni sera), gli stand, i militanti, è la nostra risposta a chi pensa che il Pd, come tutti i partiti, rappresenti solo la casta: noi siamo l’altra faccia della politica», scandisce Micaela Campana, responsabile dell’organizzazione. «Lavoriamo fianco a fianco con le associazioni, con i comitati di quartiere, con i movimenti», rivendicano il segretario romano Marco Miccoli e il presidente Patané. «C’è spazio per tutti nella nostra festa: popolare e di massa, come il Pd». Il cinema gratis, i menù con prezzi fissi a due anni, lo stand «Rainbow», con le famiglie «arcobaleno». E tanto spazio all’antimafia e alla solidarietà con le popolazioni terremotate dell’Emilia (parmigiano e prodotti delle zone terremotate tra gli stand), «senza dimenticare l’Aquila». I due palchi saranno intitolati a Falcone e Borsellino. Tra gli ospiti, Pietro Grasso con Zingaretti, Antonio Ingroia con Veltroni. Si comincia il 19 giugno con una serata dedicata a Mesagne (con il direttore dell’Unità). Ospiti il 14 luglio anche i ministri Cancellieri e Riccardi con Livia Turco (14 luglio). E poi Camusso, il segretario del Pd Bersani (l’11 luglio), D’Alema, Bindi, Finocchiaro.
Ci sarà anche l’Unità, ovviamente, con un suo stand, videointerviste, dirette in streaming. MA.GE.

il Fatto 15.6.12
Prendersi un pezzo della Rai: l’ultima tentazione dell’Ingegnere
De Benedetti confida nella privatizzazione dei tecnici
di Malcom Pagani e Carlo Tecce


Nei corridoi di Repubblica la chiamano “interpretazione verticale della filiera contenutistica”. Un rebus di facile risoluzione. Dopo la web tv e il digitale terrestre, la televisione generalista. Quella vera. Carlo De Benedetti crede alla trinità e sa far di conto. Osservando con relativa serenità l’approssimarsi dell’ultima puntata del Lodo Mondadori, progetta il futuro. La sentenza della Cassazione con relativa messa a bilancio dei 564 milioni di euro che al momento Berlusconi dovrebbe riconoscergli è alle porte e tramontata la passione per La7, De Benedetti starebbe pensando alla Rai. Un campo su cui, sconsigliato dalle partite sindacali e dalle fibrillazioni interne, avrebbe voluto giocare anche il gruppo Rcs. La tv di Stato in odor di privatizzazione e assediata dai paradossi è pronta a dimagrire. Dodicimila dipendenti, la raccolta pubblicitaria in depressione, un debito consolidato che a fine anno può sfiorare i 400 milioni (5 anni fa, era zero), ascolti mosci e offerta eccessiva. Quattordici canali tematici. Troppi. Soltanto la tedesca Zdf può permetterseli, contando, però, su 8,6 miliardi di canone, mentre viale Mazzini è incagliata a 1,7 miliardi. L'unica soluzione, e Mario Monti non è d'accordo, sarebbe quella di aumentare la tassa più odiata dagli italiani. POI C'È la stravaganza di aver investito 500 milioni di euro per il lancio delle nuove tecnologie e la rimanente elemosina per riempire di senso canali costretti al sistematico saccheggio delle teche. Un quadro desolante, al cui interno, si dipinge l’acquerello a tinte fosche della composizione del Cda. Per un candidato competente e caro all’ingegnere che si autoesclude, l’editorialista Giovanni Valentini, un treno con 7 carrozze da riempire. Sotto le pensiline, affollamento. Valentini declina l’invito “ringraziando tutti”. Poi spiega: “Scrivere a Zavoli mi pareva presuntuoso, ma entrare in Cda non mi sembra opportuno. Non ci sono condizioni operative per rilanciare una Rai dove il cancro si cura con l’Aspirina. La Gasparri è ancora legge e Bersani, che qualche giorno fa era d’accordo, ha cambiato idea. Predicando bene e razzolando male. La sua proposta di apertura alla società civile, spiace dirlo, suona come unasortadilottizzazione. Sarebbe stato più credibile se avesse adottato lo stesso criterio per le Authority, ma in quel caso preferì accordarsi con Casini”. Così ballano altri nomi. Quelli in quota Pdl. Antonio Pilati (ex Antitrust), Rubens Esposito (ex ufficio legale di Viale Mazzini), Giancarlo Galan (autocandidato, non manca mai), Giampaolo Rossi, il presidente di Rai Cinema, Franco Scaglia. LA LEGA desiste, l'Udc vuole un posto. Il Pd ha incaricato quattro associazioni della società civile di esprimere due nomi per vo-tarli in Cda. Dopo il sincero no di Valentini, i sindacati (Usigrai-Fnsi) sarebbero intenzionati a suggerire la scrittrice Lorella Zanardo. “Libertà e giustizia”, invece, potrebbe presentare una donna. Corrono Sandra Bonsanti e la sua fraterna amica Concita De Gregorio. In una parola, Repubblica. Che ora, non solo metaforicamente, potrebbe entrare in Rai. In Viale Mazzini meditano comunque rivoluzioni per rimodulare quella che chiamano “offerta per i telespettatori”, secondo un antico schema, in oasi recintate: un canale di intrattenimento (Rai1), uno col pubblico più fedele (Rai3), uno per le notizie (Rainews) e un paio per le serie televisive e i bambini (Rai4 e Rai Ragazzi). Il ramo secco è Rai2, quello più costoso e in concorrenza interna (con Rai4). De Benedetti riflette proprio sull'ipotesi più ardita, Rai2, ma è interessato anche ai canali tematici. Ufficialmente, interpellato dal Fatto, attraverso i suoi collaboratori nega con decisione: “Non esiste nessuna ipotesi di investimento televisivo da parte del Gruppo Espresso che continua la sua attività con le reti del gruppo”. In realtà De Benedetti sarebbe ingolosito dalla sinergia fra giornali, rete (presto il lancio di Huffington Italia) che, qualunque (previsto) riassesto della Legge Gasparri, trascinerà con sé nella prossima legislatura. De Benedetti è già proprietario di Rete A. Non potrebbe aggiungere frequenze. Ma ora che Monti ha spedito i tecnici in Rai per annaffiare le zone aride, tutto potrebbe cambiare. La cessione ripristinerebbe i parametri del servizio pubblico riallineandolo a quello europeo (30-35% di share) e liberando contestualmente nell’etere sette-otto punti. Ascolti. Soldi. Pubblicità. Ancore di salvezza. Persino per il Cavaliere e La7. I rapporti dell’area Repubblica con il governo Monti sono comunque in via di evangelizzazione. Il premier sarà l’ospite d’onore della tre giorni di Bologna e scambia lettere garbate con il fondatore, Eugenio Scalfari. COSÌ MENTRE sulla storia del quotidiano stasera in Emilia si proietterà un film Rai di Minoli (altra coincidenza), dove si decide davvero, Monti ha già fatto le sue mosse. Imponendo Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi come tutori di una Rai che va trasformata: promettono ordine, distanza dai partiti, lotta agli evasori del canone. Il ritornello che da anni fuoriesce da Palazzo Chigi. Al settimo piano di Viale Mazzini si aspettano rientri per 500 milioni di euro, e la vendita parziale di Raiway, la società del gruppo che detiene torri e tralicci, non può bastare. In attesa del miracolo, serve pragmatismo. Quello che fin dai tempi della Sme a Carlo De Benedetti non è mai mancato. Così l’opzione Rai prende forma. Non c’è stata privatizzazione italiana che non sia stata completata a prezzi da saldo. E lo sconto da praticare alla Cir, in questo caso, renderebbe del tutto velleitaria la tentazione di ieri. Entrare a La7 acquistandone il 40% per circa 300 milioni, spendere per l’emittente che a diventare Terzo Polo, proprio non riesce. La7 gode di ottima stampa e ha buoni (a tratti eccellenti) risultati del Tg di Mentana. Ma rimane ferma a un 3% di media che è poco per contare e quasi niente per competere. All’investimento iniziale, per gareggiare, esistere, dare ragione all’impresa e vincere le resistenze del figlio Rodolfo, l’ingegnere avrebbe dovuto aggiungere quasi il doppio. La piattaforma Rai metterebbe in circolo motivazioni differenti. Il partito di Rep. La sua (anelata) dimensione pedagogica. Ieri i sondaggisti lo stimavano a un incredibile 7%. Allargare il consenso è la frontiera moderna. Tentare dal piccolo schermo, l'antica regola di un avversario che l'ingegnere conosce bene.

Corriere 15.6.12
Rai, ecco gli «alieni» di Bersani. Trenta sigle per fare due nomi
Il tratto comune: la richiesta del ritorno di Santoro
di Paolo Conti


ROMA — «Lo dico con la massima franchezza. Le persone costrette a uscire dalla Rai per ragioni politiche, tra queste per esempio Michele Santoro, dovrebbero rientrare. Le discriminazioni in un regime di libertà sono odiose e inaccettabili». Così dice il professor Gennaro Sasso, filosofo, membro del Consiglio di presidenza di «Libertà e giustizia», una delle quattro associazioni che hanno ricevuto l'invito a presentare due candidature della società civile per il nuovo Consiglio di amministrazione di viale Mazzini da parte del segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Ancora Sasso: «Fatta qualche eccezione, l'attuale informazione Rai non è lo strumento di controllo e sorveglianza del potere politico che un servizio pubblico dovrebbe garantire... L'ascolto dei tg Rai è spesso demoralizzante».
Lunedì le quattro associazioni coinvolte (appunto «Libertà e giustizia» presieduta da Sandra Bonsanti, «Libera» di don Mario Ciotti, Il «Comitato per la libertà e il diritto all'informazione» e «Se non ora quando?») si incontreranno per cercare una sintesi in vista della Commissione di vigilanza convocata per giovedì 21 giugno. Operazione non facile, sulla carta. Per esempio «Se non ora quando?» non ha una singola coordinatrice. E il «Comitato per la libertà e il diritto all'informazione», che si riunirà sabato, nato il 3 ottobre 2009 in occasione della manifestazione per la libertà di stampa in piazza del Popolo, raduna a sua volta una galassia di ventisette sigle (tra cui, solo per citarne alcune, la Federazione nazionale della stampa, Mediacoop, Articolo21, Federazione dei settimanali cattolici-Fisc, Confcooperative-cultura, Slc-Cgil, Ugl, Arci, Acli, Tavola della pace, Popolo viola...). In tutto trenta referenti (ventisette per il Comitato più gli altri tre). Trovare un accordo su due nomi non si annuncia operazione semplicissima. Ma già ieri Sandra Bonsanti, per esempio, era al lavoro per organizzare una riunione di «Libertà e giustizia» e per contattare gli altri.
Dice l'attrice Lunetta Savinio, di «Se non ora quando?»: «Cosa vorrei da una nuova Rai? Tante cose. Il ritorno di Santoro? Certo, anche. Mi piacerebbe un'azienda più creativa, vitale, capace di scommettere e di osare, di rinfrescare i palinsesti con passione e inventiva. Spero che, formulando le candidature, si tenga conto della necessità di indicare persone competenti e di assoluta indipendenza». Aggiunge Roberta Agostini, anche lei di «Se non ora quando?», consigliere provinciale pd a Roma: «Santoro? Una Rai che epuri è inaccettabile. Urge poi che il servizio pubblico abbandoni una rappresentazione schematica e spesso volgare della donna». L'associazione «Libera» immagina «un servizio pubblico che sappia interessarsi alle storie, alle fatiche, alle speranze delle persone, delle fasce deboli, del volontariato».
Anche la politica tradizionale continua a occuparsi di Rai. Angelino Alfano, segretario pdl, difende il direttore generale uscente Lorenza Lei: «Noi chiediamo solo: perché è stata sostituita? La Rai è un'azienda, e un'azienda si valuta dai risultati aziendali: come direttore generale Lorenza Lei ha portato risultati soddisfacenti sia dal punto di vista dei conti sia del regolare funzionamento dell'azienda».
Il leader dell'Italia dei valori Antonio Di Pietro ricorda che sono possibili anche le autocandidature. Infatti c'è il curriculum spedito alla Commissione di vigilanza da Aldo Forbice, 40 anni di lavoro alla Rai: «Ora che si è deciso di contenere l'eccessiva ingerenza dei partiti nel servizio pubblico e di valorizzare le professionalità, io rientro in questo modello». Autocandidatura alla vigilanza anche da Alessandro Campi, politologo dell'università di Perugia.

Corriere 15.6.12
I cattolici, il partito e il ruolo del premier
di Roberto Mazzotta


Caro direttore,
nell'articolo molto condivisibile pubblicato dal Corriere della Sera, il professor Antiseri augura la fine della diaspora politica dei cattolici e la formazione di un partito sturziano di cristiani «liberali e solidali». Gli fa seguito, sempre sul Corriere, il ministro Riccardi con alcune osservazioni realistiche e necessariamente non conclusive. Vediamo se riesco a fare qualche piccolo passo avanti. Partiamo dal contesto. Io non partecipo alle rappresentazioni del carro di Tespi del catastrofismo. Penso però che conviveremo a lungo con un pesante rallentamento delle attività e abbiamo purtroppo ritrovato la povertà che eravamo riusciti a battere come malattia sociale. Una consumata abilità ha consentito di mettere in campo un Governo di persone per bene che alterna piccoli miracoli a modesti errori, ma il termine della legislatura è terribilmente vicino e il quadro dell'offerta politica è molto debole. È opportuno però non trascurare le positività su cui si potrebbe contare, come la nostra capacità di lavoro, di risparmio, di umanità. Vi è quindi una domanda immensa di buona politica. In queste condizioni se il cosiddetto «mondo cattolico» continuasse a rimanere disperso e quindi sostanzialmente assente, si macchierebbe di una colpa grave. È certo che la società italiana è ben diversa rispetto ai tempi di Sturzo o di De Gasperi. La realtà non è più la stessa e quella che Antiseri chiama con il suo umorismo semplificatorio «la truppa» oggi è tutta un'altra cosa. Però, attenzione c'è un però, l'esigenza di oggi non è quella di realizzare potenti schieramenti da contrapporre a «nemici» storici o politici, ma è quella di concorrere a colmare un vuoto che è diventato pericoloso e che porterà alla crisi civile, se non si troveranno rimedi. Occorre avviare un nuovo ciclo politico, mettendo come fattore comune l'impegno per tutelare le libertà personali e collettive, far vivere una società solidale, ricostruire le condizioni dello sviluppo e del lavoro. È un progetto possibile che ha come metodo l'apertura, come connotazione la laicità, come sostanza la ricchezza dei valori etici e civili ben presenti ed esemplari nelle storie politiche dei cristiani, dei liberali e dei socialisti che realizzarono la liberazione e la ricostruzione. Il forum delle Associazioni riunì l'anno scorso a Todi uno schieramento largo e omogeneo, le Acli e la Cisl, le cooperative e gli artigiani, i coltivatori diretti e le piccole imprese e con loro l'associazionismo cristiano che opera nel mondo della cultura, della comunicazione, della pratica religiosa per un primo confronto di propositi. Il mese scorso ha pubblicato un documento unitario, «Per la buona politica», e intende proseguire la sua strada di riflessione e di proposta. Si tratta di un lavoro prezioso che, se concorreranno le condizioni e le volontà necessarie, è in grado di assumere la consistenza di un progetto politico dotato di idee forti, aggiornate e aperte e sostenuto da strutture articolate e rappresentative. Ma quale progetto? La discussione è aperta e la strettezza dei tempi la costringerà a essere concludente. La mia convinzione è che si debba percorrere una strada in qualche modo già segnata. Il panorama delle forze politiche che hanno fin qui occupato la scena ha le caratteristiche che tutti vedono. D'altra parte gli interessi italiani sono nella bufera, al centro di una crisi europea che non consente vuoti di potere o manifestazioni di confusione politica. Né possiamo permetterci dal risultato elettorale della primavera prossima esiti simili a quello greco. Se fossimo previdenti, avremmo il dovere di assegnare alle forze riunificate e riattivate dall'associazionismo cristiano il compito di funzionare come elemento aggregante delle energie vive del Paese, favorendo un vasto rassemblement capace di chiedere agli elettori di dare una base forte e stabile di legittimità democratica alla continuità di un'azione di governo che possa essere efficace e credibile là dove è necessario e decisivo esserlo, a Bruxelles, a Berlino, a Washington. Possiamo convenire, essendoci guardati intorno, che il ruolo indispensabile di «federatore» di quel rassemblement spetti al capo del governo che porta il Paese alle elezioni e chiede ai cittadini di poter continuare un lavoro altrimenti lasciato a metà con l'autorevolezza che deriva solamente dalla volontà popolare. A un simile proposito, laico e riformatore, l'associazionismo cristiano saprebbe anche offrire una parte di nuova classe dirigente, preparata e pulita, già sperimentata nel lavoro sociale e civile in tutte le realtà del Paese. Un amico mi ha suggerito un bel verso di Hölderlin: «Là dove è il pericolo cresce anche ciò che salva». Dobbiamo crederci.

Corriere 15.6.12
L'apertura dello Ior ai giornalisti


Ior: cade un altro velo. Tra un paio di settimane un gruppo di quaranta-cinquanta giornalisti potranno partecipare ad un briefing che si terrà all'interno della cosiddetta banca del Papa. Si tratta di un'inedita apertura verso il mondo dei media. Come è avvenuto qualche tempo fa, con gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, il direttore generale della banca, Paolo Cipriani, offrirà un dettagliato quadro generale della struttura e delle operazioni della banca. Non sarà una vera e propria conferenza stampa, ma ci sarà un po' di tempo per domande e risposte. Sarà in ogni caso la prima volta che lo Ior sarà aperto ad un gruppo di giornalisti, dopo che Cipriani ha recentemente concesso un'intervista al Corriere della Sera, rispondendo ad alcuni dei più comuni interrogativi relativi allo Ior, come quello relativo a conti segreti cifrati e a conti intestati a politici italiani e stranieri. (Cipriani ha negato entrambi). Questo nuovo passo nell'impegno alla trasparenza, in corso in Vaticano in relazione alle finanze, è stato annunciato ieri da padre Federico Lombardi, il portavoce della Sala Stampa Vaticana. Sembra che non saranno però possibili riprese o dirette televisive o in streaming perché l'incontro sarà classificato come «di background».
M.A.C.

Repubblica 15.6.12
“Domenica cambieremo la Grecia” scontro finale prima delle urne
Un sondaggio dà il centro destra vincente e la Borsa vola
di Ettore Livini


ATENE E, SULL’ESITO delle elezioni, lui non ha dubbi: «Qui tutti vogliono cambiare. E per cambiare c’è un solo modo: votare Syriza», dice sventolando alla luce del tramonto la bandiera bianca della sinistra radicale ellenica sotto il palco di Omonoia dove Alexis Tsipras, il 38enne leader del partito anti-austerity che tiene con il fiato sospeso tutta l’Europa, sta per chiudere la sua campagna elettorale.
Atene, dopo tre anni da brividi in cui il Pil è crollato del 20% e la disoccupazione è volata al 22%, è arrivata al bivio finale: da una parte l’euro e lo zuccherino di 240 miliardi di aiuti targati Ue-Bce e Fmi. Assieme – conditio sine qua non – al calice amaro di un’austerity da brividi. Dall’altra la catarsi: il “no” ai paletti della Trojka con il rischio del ritorno alla dracma. Sommati, come temono da Bruxelles, a un effetto domino che rischia di travolgere tutto il Vecchio continente, trascinando nel baratro i paesi più deboli, Spagna e Italia in testa.
«Questo è un referendum», urla Dimitris in mezzo a tanti giovanissimi mentre “O bella ciao” in versione Modena City Ramblers rimbomba dagli altoparlanti in tutta la piazza. E’ vero. Il nuovo voto ad Atene è una sfida a due. «Da una parte il sì al memorandum che ci ha messo in ginocchio, dall’altra il nostro piano di rinascita nazionale», tuona dal palco, camicia bianca e niente cravatta (come tradizione) Tsipras. Da una parte lui, il volto nuovo della politica nazionale, «un abile demagogo come il vecchio Andreas Papandreou», ammette lo scrittore Nikos Dimou. Dall’altra, nelle improbabili vesti di principe azzurro della Ue, il “vecchio” (in senso politico) Antonis Samaras, leader del centrodestra di Nea Demokratia che contenderà a Syriza la vittoria alle elezioni. Primo punto del suo programma: la permanenza del paese nell’euro. E ieri un sondaggio segreto lo dava addirittura
in vantaggio (29% contro il 26% di Syriza), tanto che la Borsa di Atene ha brindato con un balzo del 12% La posta in gioco al voto di domenica, come ci ricordano i
mercati ogni giorno, è altissima. E la vera partita comincerà lunedì, quando una Grecia abituata per 37 anni all’alternanza tra i socialisti del Pasok e Nd dovrà provare a formare un governo di coalizione. Un pezzo del copione è già scritto: se vince il centrodestra, Bruxelles tirerà un sospiro di sollievo. Ma sarà costretta in ogni caso a fare qualche concessione ad Atene visto che anche i partiti pro-euro chiedono in un modo o nell’altro un ammorbidimento delle condizioni del salvataggio imposto dalla Trojka. «Dobbiamo rivedere tempi e modi», ha promesso ai suoi elettori Samaras. «Servono uno o due anni in più per fra quadrare i conti», sostiene il leader del Pasok Evangelis Venizelos che potrebbe essere l’ago della bilancia post-elettorale garantendo sostegno a un governo di salvezza nazionale.
Se a vincere sarà Tsipras e riuscirà pure a mettere assieme una maggioranza di sinistra «sarà tutta un’altra musica», garantisce Yorgos Mitsosakis sotto il palco del leader di Syriza. «Ricostruire la Grecia, cambiare l’Europa », recita lo slogan sullo sfondo
del palco, in un campo azzuro che fa tanto Forza Italia. Come? A spiegarlo è senza troppi giri di parole il programma del partito: «Il memorandum è carta straccia», ripete come un mantra il giovane leader dal palco. Atene smetterà di pagare gli interessi sul debito fino a un’intesa con i governi della Ue. Le banche verranno nazionalizzate, il salario minimo sarà rialzato del 22%, i contratti nazionali di lavoro – cancellati dalla Trojka – verranno ripristinati d’ufficio e i 150mila tagli nel settore pubblico imposti da Ue, Bce e Fmi saranno sostituiti da nuove assunzioni per rafforzare la macchina dello Stato. Sperando che la Ue, pur di non far crollare tutta l’architettura dell’euro, accetti di venire a patti con il nuovo governo senza chiudere il rubinetto degli aiuti.
«Non è un programma credibile – grida urbi et orbi da giorni Samaras -. E’ un libro dei sogni che costa 45 miliardi a un paese che di soldi non ne ha». Peccato per lui che un bel pezzo di Grecia, stanco dei vecchi partiti che l’hanno ridotta in queste condizioni (Nd compresa) abbia voglia di sognare senza pensare troppo ai costi. Dimenticando che senza il salvagente della Trojka, la Grecia dal 20 luglio non avrà più soldi per pagare pensioni e stipendi statali.
La realtà a dire il vero ha già iniziato a presentare il suo conto. Depa, la multitutility nazionale del gas e Den, quella elettrica, non hanno più quattrini in cassa. Le famiglie in crisi (i redditi dei dipendenti pubblici sono calati del 25%) non pagano le bollette e le forniture di idrocarburi – la maggior parte arrivano dalla Russia via Gazprom – vanno pagate. Morale: l’autorithy dell’energia è stata costretta a convocare una riunione d’emergenza per evitare che la crisi di liquidità delle sue grandi aziende finisca per lasciare la Grecia al buio.
Il Titanic ellenico naviga insomma in acque agitate verso un voto dall’esito incertissimo. E con i sondaggi off limits da una settimana, ognuno fa campagna elettorale a modo suo. I nazional- socialisti di Chrysy Avgi, ad esempio, stanno provando a combattere il previsto calo di consensi (dovrebbero scendere dal 6,95% al 4% circa) riaprendo nel loro stile la questione immigrazione. «Nessuno di noi si fida più a viaggiare da solo in metro nelle fermate tra Omonia e Kato Patissia», dice Ahmed, 22enne ex muratore rrivato due anni fa dal Pakistan. Tre fermate dove in poche settimane diversi clandestini sono stati attaccati e malmenati da misteriose – ma non troppo – squadracce di presunti giustizieri metropolitani di ultra destra.
Sia Samaras che Tsipras, per fortuna, hanno escluso alleanze con i neonazisti di Alba d’Oro. «Riusciremo a fare un governo da soli», assicura sorridendo Dimitris, ripiegando la sua bandiera mentre le canzoni di Patty Smith e del Boss Springsteen assieme all’intramontabile “El Pueblo Unido” - chiudono il comizio finale di Syriza. Domani toccherà a Samaras, che come inno per galvanizzare gli elettori ha scelto la colonna sonora de “I pirati dei caraibi”. L’Europa spera che la sfida finale della tragedia greca non finisca con il suo funerale. Magari sulle austere note mitteleuropee del Requiem di Mozart.

l’Unità 15.6.12
Rapporto di Amnesty: «In Siria crimini contro l’umanità»
di Virginia Lori


«Lo scioccante crescendo di uccisioni illegali, torture, detenzioni arbitrarie e distruzioni indiscriminate di abitazioni dimostra quanto sia urgente la necessità di una decisiva azione internazionale per fermare l'ondata degli attacchi, sempre più massicci e impuniti, delle forze armate e delle milizie governative shabiha in Siria». È l'appello lanciato da Amnesty International, che ha presentato il nuovo rapporto dal titolo Rappresaglie mortali con nuove prove delle ampie e sistematiche violazioni dei diritti umani e accusa il governo siriano. Per Amnesty si tratta di «crimini contro l'umanità e crimini di guerra, perpetrate nell' ambito di una politica di Stato destinata a compiere rappresaglie contro le comunità sospettate di sostenere l'opposizione e a intimidire e assoggettare la popolazione». Violazioni che l'organizzazione per i diritti umani ha potuto verificare sul posto, pur non ricevendo un'autorizzazione ufficiale da parte delle autorità locali a entrare nel Paese. Notizie allarmanti arrivano anche dall'Osservatorio siriano dei diritti umani secondo il quale i morti sono almeno 14.400 dal marzo del 2011, cioè dall'inizio della rivolta contro il governo Assad. Le vittime sono prevalentemente civili: secondo il presidente dell'Osservatorio, Rami Abdel Rahman, si tratta di «10.117 civili, 3.552 soldati e 807 disertori». Solo nell'ultimo mese, da quando è iniziato il cessate il fuoco con l'arrivo degli osservatori Onu in Siria, le persone rimaste uccise sono oltre 2mila.
Ieri gli osservatori delle Nazioni Unite in Siria hanno finalmente raggiunto le aree che sono state epicentro degli ultimi massacri. «Un forte odore di cadaveri» in una «città deserta» con gran parte degli edifici governativi incendiati. Questo è lo spettacolo che, secondo le loro prime testimonianze, si offerto ai loro occhi a Haffe, assediata e bombardata per otto giorni dalle forze governative. Ma i bombardamenti sono proseguiti su altri centri, in particolare a Homs e Daraa, con gli attivisti dell'opposizione che parlano di almeno 40 morti nelle ultime ore.
Una nota di ieri dalla casa Bianca riferisce di un presidente americano, Barack Obama, che«non vede l'ora di incontrare il presidente russo, Vladimir Putin, al G20 di Los Cabos» e precisa che nel corso dell’incontro bilaterale tra i due «si discuterà anche di Siria», nel tentativo di superare il veto russo ad una risoluzione Onu contro Assad.

Corriere 15.6.12
Saad Eddin Ibrahim

«La transizione ora si complica ma Piazza Tahrir non può morire»
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO — «Ma quale colpo di Stato, le due sentenze dell'Alta Corte sono finalmente un segno che la legge e la magistratura sono rispettate anche in Egitto, sono un passo che nel lungo termine si rivelerà positivo per il nostro Paese e che tutti dovrebbero accettare proprio in nome della democrazia e della Rivoluzione». A schierarsi contro le proteste di gran parte dell'opposizione all'ancien regime e alla Giunta è, a sorpresa, il dissidente più noto dell'era Mubarak. Sociologo, accademico, nemico giurato dell'ex raìs che lo volle in carcere per anni proprio per le sue pubbliche accuse e lo costrinse poi all'esilio in Usa, Saad Eddin Ibrahim, 73 anni, era tornato in Egitto il giorno della caduta del regime, l'11 febbraio 2011. L'avevamo accolto all'aeroporto con i suoi sostenitori e aveva parlato di «grande vittoria del popolo», dell'«inizio di una nuova era».
Lo pensa ancora oggi, la Rivoluzione non è morta?
«No, il Paese non tornerà più indietro a quegli anni bui. Nemmeno se Mubarak tornasse raìs potrebbe dominarci come in passato. Ma i giovani di Tahrir, troppo idealisti, hanno fatto errori enormi. Non si sono organizzati e hanno demonizzato i leader, i partiti, la politica. Questo è il prezzo che ora pagano, una transizione più lunga di quanto tutti avremmo sperato. Ma il Paese si è svegliato, per la prima volta tutti s'interessano alla politica e la paura è stata abbattuta».
Non crede che Shafiq, a cui l'Alta Corte ha spianato la strada, sia un ritorno al vecchio regime?
«No, anche su questo dissento. E anzi lo voterò. Al primo turno avevo scelto il candidato socialista arrivato terzo, ora voterò lui perché temo molto di più una vittoria dei Fratelli Musulmani. Tra un laico e un religioso io non ho dubbi, anche se molti tra i miei amici e i miei compagni di lotta e perfino in famiglia non sono d'accordo. E conosco Shafiq: pochi giorni fa ho passato tre ore con lui e gli ho chiesto di impegnarsi su sette punti per me cruciali, dai diritti umani e alle libertà, all'impegno di lasciare dopo un mandato. Ha accettato, ufficialmente. E credo che sarà di parola».
Eppure la Giunta ha appena reintrodotto la legge che permette l'arresto di civili solo perché sospetti. Non è un pessimo segno?
«È negativo, certo. Ma in politica si chiede e si concede. Se vogliamo che i militari lascino il campo ai civili dobbiamo dare loro qualcosa, anche l'elezione di Shafiq è in parte una concessione perché i militari con lui non si sentiranno minacciati e si ritireranno progressivamente. E intanto è importante che il loro potere non sia assoluto. Accanto ai tre poteri tradizionali, il legislativo, il giudiziario, l'esecutivo che comprende anche la Giunta, ormai ne esiste un quarto, ovvero Tahrir. Quattro entità che si bilanciano, a volte una prevale sull'altra come è stato ora con il giudiziario, o si attenua, come è sempre ora per il Parlamento. Ma mai in modo duraturo. Anche le difficoltà di Tahrir non sono assolute. La Rivoluzione ha solo inciampato negli ultimi mesi, non è affatto finita».

Repubblica 15.6.12
La rivoluzione sequestrata dagli estremisti
di Tahar Ben Jelloun

LA SENTENZA della Corte Costituzionale egiziana di ieri ha annullato la vittoria degli islamisti in Parlamento. Ma, al di là di questo recente sviluppo, la domanda da porsi è perché le rivolte arabe abbiano comunque finora finito per favorire gli islamisti a discapito delle forze democratiche, nonostante i militanti religiosi non abbiano né promosso le rivolte né partecipato.
La prima ragione che salta agli occhi è l’assenza di democrazia in questi Paesi: organizzare delle elezioni è una tecnica, non una cultura ben assimilata. Nessun Paese arabo è ancora mai riuscito a diventare uno Stato di diritto. La seconda ragione sta nelle inquietudini suscitate dalla crisi economica e finanziaria che scuote il pianeta. La religione diventa un rifugio metafisico. Contro l’assurdità del denaro virtuale, contro la speculazione che manda in rovina milioni di famiglie, il musulmano esibisce la sua religione, si ripara dietro di essa come una protezione magica, e soprattutto tranquillizzante. L’islam è per natura conciliante, raccomanda la pazienza e il ricorso a Dio.
I tunisini e gli egiziani, per esempio, hanno scelto in maggioranza l’islam come cultura e identità: l’esercizio quotidiano di questa religione li fa star bene. Tutto nasce dal fatto che i dittatori che li hanno dominati per decenni erano percepiti come emanazioni della politica occidentale. L’Occidente nel suo complesso — Europa e Nordamerica — è considerato complice dei dittatori, ma anche origine di una cultura laica in conflitto con le tradizioni ancestrali di una società dove l’islam è sempre stato vissuto come una morale e come la fonte di un grande civiltà. La laicità è concepita dagli islamisti non come una separazione fra religione e Stato, ma come una negazione della religione, un ateismo mascherato che non ha il coraggio di dichiararsi apertamente. Il dibattito viene respinto in blocco. Esiste una società civile che fa della laicità il suo cavallo di battaglia, ma è minoritaria e viene combattuta con argomentazioni infondate e demagogiche, e in certi casi con violenza criminale.
Spazio all’islam allora, in quanto ideologia, morale, cultura e identità! Questo islam trionfante rassicura senza grande sforzo. Sul volto dei militanti e dei dirigenti islamisti si legge una soddisfazione beata. Sono felici. Hanno la sensazione che ormai più niente possa intralciare i loro progetti.
In Marocco esiste una società civile dinamica che considera l’islamismo solo una tappa nel processo di democratizzazione del Paese. Ben diversa è la situazione in Egitto, dove la rivoluzione non ha ancora partorito tutte le speranze della gente e dove la resistenza dei dimostranti, che vedono la rivoluzione sequestrata dai fanatici, è viva e per nulla rassegnata. Le elezioni presidenziali hanno dimostrato almeno una cosa: ogni voto conta e malgrado qualche broglio c’è stata incertezza fino all’ultimo. Truccare e orientare il voto a piacimento, come faceva prima Mubarak, ormai è impossibile. Gli islamisti hanno ottenuto solo un ottavo dei voti complessivi, ma subiscono la concorrenza dei salafiti, che vogliono l’applicazione immediata della sharia e l’intervento dello Stato nell’economia e sono nemici dichiarati dei cristiani copti. I loro militanti vengono dai quartieri poveri. Rispetto a loro i Fratelli musulmani appaiono come il male minore: vengono votati dai ceti medi e in campo economico sono liberisti. Mohamed Morsi, il candidato del partito, ha buone speranze di vincere il ballottaggio e in questo caso dovrà scendere a compromessi con i militari, che faranno di tutto per mantenere i privilegi economici concessi da Mubarak.
Nonostante una legge vieti agli esponenti del vecchio regime di presentarsi alle elezioni, il generale Ahmad Shafiq, ultimo primo ministro di Mubarak, è riuscito ad aggirarla e ora è al ballottaggio. Può contare sul sostegno plebiscitario dei copti e dei nostalgici del mubarakismo. I militari lo appoggiano: dallo scoppio della rivoluzione più di 12.000 giovani sono stati arrestati e condannati da tribunali militari speciali, e altri cittadini sono stati uccisi nel corso di proteste di piazza.
A prescindere da quelli che saranno i risultati finali, il popolo egiziano è consapevole che la tappa islamista sia ineluttabile. Quando si dovranno misurare con i problemi reali, perderanno credibilità, la delusione è scontata. Lo Stato di diritto non si introduce per decreto, si costituisce giorno dopo giorno, attraverso le difficoltà e le esigenze di una reale cultura democratica.
C’è un ultimo aspetto che favorisce la vittoria degli islamisti un po’ ovunque nel mondo arabo: la paura dell’islam in Europa è sempre più alimentata da politici e intellettuali che parlano di «fascismo verde» e di minacce per l’identità europea. Queste opinioni hanno confortato l’islamofobia latente, favorendo gli inquietanti successi dei partiti di estrema destra in Norvegia, Finlandia, Olanda e Serbia, senza parlare del successo del Fronte nazionale in Francia o di quello dell’Unione democratica di centro in Svizzera (26,6 per cento). La paura dell’islam è un buon alleato dell’estremismo e del razzismo. Alcuni islamisti usano gli stessi stratagemmi per rigettare tutto quel che viene dall’Occidente e mettono in scena le provocazioni che inquietano le popolazioni europee.
(Traduzione Fabio Galimberti)

La Stampa 15.6.12
Mosca, Putin non perdona la starlette che lo ha tradito
La polizia nella casa della Sobchak, la regina del jet set diventata dissidente
di Mark Franchetti


Come personaggio mondano più noto della Russia, Ksenia Sobchak non è nuova allo scandalo. Ha oltraggiato i conservatori con un reality show in cui i concorrenti facevano quasi sesso in diretta e una volta sulla tv nazionale ha esaltato i pregi della masturbazione nella vasca da bagno. Ma per anni i russi l’hanno ritenuta intoccabile dato che suo padre era il mentore politico di Vladimir Putin. E lei non ha mai smentito la voce ricorrente che il presidente russo fosse il suo padrino. Le cose appaiono molto diverse oggi, sei mesi dopo che Sobchak ha sorpreso fan e critici unendosi alle proteste anti-governative di piazza e re-inventandosi come un’aspra critica del Cremlino.
Dando il segno più evidente che Putin ha infine perso la pazienza con la figlia di colui che gli diede il suo primo incarico politico, pochi giorni fa una ventina di poliziotti armati hanno fatto irruzione nell’appartamento di Sobchak. Nel contesto di un giro di vite contro l’opposizione seguito all’inizio, il mese scorso, del terzo mandato presidenziale di Putin, la polizia ha anche perquisito le abitazioni di altri tre principali critici del Cremlino e li ha convocati per un interrogatorio.
Il raid di prima mattina a casa Sobchak è stato particolarmente sgradevole. Corpulenti poliziotti hanno impedito all’appariscente celebrità di vestirsi in modo appropriato e al suo avvocato di entrare nel palazzo prima che finisse la perquisizione dei suoi effetti personali.
Gli investigatori hanno letto beffardamente ad alta voce alcune delle sue lettere d’amore ai sogghignanti poliziotti mascherati a guardia dei locali che, almeno ufficialmente, sono stati perquisiti in relazione a una grande inchiesta su episodi di violenza a una manifestazione contro Putin il mese scorso.
Anche se Sobchak, 30 anni, non aveva nemmeno partecipato alla manifestazione, il suo passaporto è stato confiscato dagli investigatori che hanno anche sequestrato circa 2 milioni di dollari in contanti dalla sua cassaforte. La magistratura ha annunciato un’inchiesta per appurare se ha pagato le tasse su questa somma.
La più famosa donna contemporanea della Russia, Sobchak, che guadagna oltre 2 milioni di dollari l’anno principalmente come conduttrice televisiva, ha spiegato che teneva i soldi a casa perché non si fida delle banche. E che non doveva niente al fisco. Uno dei poliziotti le ha detto che il raid era stato fatto «per punirla per essersi messa con le persone sbagliate. »
«Questa è una vendetta politica - ha detto Sobchak -. È chiaro ed evidente che hanno rubato i soldi che ho guadagnato con il mio lavoro. E per fortuna non hanno messo droga nel mio appartamento». E poi: “Si sono comportati in modo del tutto illegale, da criminali. La cosa più sconvolgente è stata la sensazione di impotenza. Le mie mani tremavano. Ero alla loro mercé e mi hanno fatto sentire che potevano far di me quel che volevano. Stiamo assistendo alla trasformazione di un sistema autoritario in dittatura”.
Suo padre, Anatoly Sobchak, sindaco liberale di St Petersburg nei primi Anni 90, fu il capo e il mentore politico di Putin. Dodici anni dopo la sua morte, Putin parla ancora con affetto di lui. In un’imprevedibile metamorfosi Sobchak è passata da ragazza glamour nota per una serie di fidanzati ricchi, servizi fotografici espliciti e l’amore per il lusso a tagliente commentatrice sociale e politica. I suoi tweet e il suo blog hanno più di 300.000 seguaci.
«Il mio malcontento covava da tempo, ma ero combattuta tra la mia eterna gratitudine verso Putin come essere umano per come ha aiutato la mia famiglia e il mio crescente giudizio negativo per quello che sta succedendo nel Paese». Da allora è diventata ospite fissa ai raduni anti-Putin e durante le elezioni presidenziali ha lavorato come osservatore indipendente. Presenta anche due talk show politici televisivi ed è diventata una critica irriverente delle autorità.
«La società sta cambiando e voglio dare il mio contributo. Persone come me, cui è andata bene sotto Putin, ora si guardano intorno e si rendono conto che l’aria è soffocante, vogliamo una società più giusta». «Putin è fedelissimo a quelli che considera vicino a lui - ha detto un ex consigliere del Cremlino -, ma è anche spietato con quelli che pensa lo tradiscano. Agli occhi della macchina repressiva russa Sobchak è un bersaglio lecito ora che si è messa pubblicamente contro il Cremlino». «Le cose si sono fatte già molto serie - ha detto Sobchak -. Certo che fa paura, ma non vedo perché dovrei cambiare la mia posizione. La mia sola colpa è di aver espresso liberamente la mia opinione».
* Corrispondente da Mosca per il «Sunday Times» di Londra Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 15.6.12
Europa, và a scuola da Keynes
di Amartya Sen


Provocando anzi condizioni di miseria, confusione e caos. E ciò per due ragioni. Innanzitutto, a volte anche le intenzioni più rispettabili mancano di lucidità: di fatto, i fondamenti dell’attuale politica di austerità, in un contesto di rigidezza come quello dell’Unione monetaria europea (in assenza di un’unione fiscale) non costituiscono certo un modello di coerenza e sagacia. In secondo luogo, un’intenzione fine a se stessa può confliggere con una priorità più urgente, che in questo caso è quella di salvaguardare un’Europa democratica e impegnata per il benessere sociale. Sono questi i valori per i quali l’Europa si è battuta per molti decenni.
È indubbiamente vero che alcuni Paesi europei avrebbero dovuto adottare da tempo comportamenti economici e gestionali più responsabili. In questo campo si pone però il problema cruciale dei tempi di attuazione: occorre distinguere tra le riforme varate in base a un calendario accuratamente calibrato, e quelle decise in condizioni di estrema urgenza. Nel caso della Grecia, va detto che al di là dei suoi problemi di accountability,
questo Paese non versava in una situazione di crisi economica prima della recessione globale del 2008. (Di fatto, il suo tasso di crescita è stato del 4,6% nel 2006 e del 3% nel 2007, per poi calare in maniera costante negli anni seguenti).
La causa delle riforme, per quanto urgenti, non si serve al meglio imponendo unilateralmente tagli repentini e brutali dei pubblici servizi. Questi interventi indiscriminati abbattono la domanda, e rappresentano quindi una strategia controproducente, anche a fronte degli elevati tassi di disoccupazione e della bassa produttività di un sistema imprenditoriale già decimato dal calo della domanda dei mercati. In Grecia, uno dei Paesi lasciati ai margini degli incrementi di produttività conseguiti altrove, gli interventi di stimolo economico attraverso strumenti di politica monetaria (o in altri termini, la svalutazione della moneta) sono oggi preclusi dall’esistenza dell’Unione monetaria europea; e al tempo stesso, il fiscal package
richiesto dai leader dell’Ue frena severamente la crescita. In tutta l’Eurozona, i livelli di produzione sono calati in maniera costante nell’ultimo trimestre dello scorso anno. Le prospettive erano buie, a tal punto che molti hanno accolto come una buona notizia il dato di crescita zero riferito da uno studio recente sull’andamento del primo trimestre di quest’anno.
Di fatto, numerosi esempi storici dimostrano che la politica di risanamento più efficiente consiste nell’affiancare alle misure di riduzione del deficit gli stimoli per una rapida crescita economica, per generare un incremento dei redditi. Dopo la Seconda guerra mondiale fu proprio la crescita economica a consentire il rapido riassorbimento dei gigante-
schi livelli di deficit; e qualcosa di analogo accadde durante la presidenza di Bill Clinton. Anche
la riduzione del deficit di bilancio svedese tra il 1994 e il 1998, spesso decantata, ha potuto essere ottenuta in parallelo con un ritmo di crescita abbastanza rapido. Oggi avviene il contrario: ai Paesi europei si chiede di tagliare i propri deficit in un periodo di crescita stagnante, se non addirittura negativa.
Avremmo sicuramente molto da imparare da John Maynard Keynes, che aveva ben compreso il rapporto di interdipendenza tra Stato e mercato, anche se non prestava un’attenzione particolare ai temi della giustizia sociale o alpasso l’impegno politico che permise all’Europa di risollevarsi dopo la Seconda guerra mondiale. Fu quell’impegno a dar vita al moderno welfare e ai servizi sanitari nazionali, creati non a sostegno dell’economia di mercato, bensì per tutelare il benessere dei cittadini.
Ma al di là di Keynes, che non aveva approfondito il suo impegno sulle questioni sociali, esiste una tesi economica tradizionale secondo la quale l’efficienza dei mercati deve andare di pari
con l’offerta di servizi pubblici che il mercato stesso potrebbe non essere in grado di assicurare. In “The Wealth of Nations” (“La ricchezza delle nazioni”) Adam Smith (presentato a volte in maniera un po’ troppo semplicistica come il primo guru dell’economia di mercato) sostiene che un’economia «ha due obiettivi distinti ». In primo luogo, «assicurare alla popolazione abbondanti redditi o sussistenza – o più specificamente, porre i cittadini in condizioni di procurarsi tali redditi o mezzi di sussistenza; e in secondo luogo, fornire allo Stato o alla comunità entrate sufficienti per i pubblici servizi».
L’aspetto forse più inquietante dell’attuale malessere europeo è il fatto che l’impegno democratico è soppiantato dai diktat finanziari, imposti non solo dai leader dell’Ue e dalla Banca centrale Europea, ma indirettamente anche dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono stati notoriamente fallaci.
Un dibattito pubblico partecipato – un «government by discussion », secondo l’espressione di teorici della democrazia quali John Stuart Mill e Walter Bagehot – avrebbe potuto identificare riforme appropriate, realizzabili in un lasso di tempo ragionevole, senza mettere a repentaglio le fondamenta del sistema di giustizia sociale europeo. Per converso, i repentini e drastici tagli ai pubblici servizi, nella quasi totale assenza di un dibattito per verificarne la necessità, l’equità e l’efficacia, hanno suscitato un senso di rivolta in ampi settori della popolazione europea, facendo il gioco delle ali estreme dello spettro politico.
La ripresa europea sarà possibile solo a condizione di affrontare due questioni di legittimità politica. In primo luogo, l’Europa non può consegnarsi alle tesi unilaterali degli esperti – o alle loro buone intenzioni – in assenza di un pubblico dibattito ragionato, e senza il consenso informato dei suoi cittadini. Dato lo scontento evidente dell’opinione pubblica, non c’è da sorprendersi se di volta in volta varie consultazioni elettorali hanno dimostrato l’insoddisfazione dei votanti, che hanno negato la loro fiducia agli attuali responsabili.
In secondo luogo, la democrazia e la stessa possibilità di una buona politica sono a rischio quando i leader impongono scelte inefficaci e vistosamente ingiuste. L’evidente insuccesso delle misure di austerità finora imposte si riflette negativamente non solo sulla partecipazione pubblica – che rappresenta un valore in sé – ma anche sulla prospettiva di giungere, in tempi ragionevoli, a una soluzione sensata.
Siamo davvero molto lontani dall’idea di un’«Europa democratica e unita» cara ai pionieri
dell’Unione europea.
L’autore è premio Nobel per l’economia (Copyright New York Times 2012 Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Stampa 15.6.12
Quei rimedi per la peste logici, coerenti, sbagliati
Un libro sulla battaglia contro il morbo nell’Italia del ’600: errori di metodo che insegnano qualcosa ancora oggi
di Carlo M. Cipolla


Storico dell’economia Il brano che qui anticipiamo è tratto da Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste nell’Italia del Seicento , il libro di Carlo Maria Cipolla (foto) pubblicato negli Stati Uniti nel 1981 e finora inedito in Italia, in uscita il 21 giugno per il Mulino. Storico dell’economia che abbinava l’erudizione all’arguzia, autore nel 1988 del bestseller Allegro ma non troppo, Cipolla (1922-2000) ha insegnato nella University of California a Berkeley e alla Scuola Normale di Pisa. Tutti i suoi libri sono pubblicati dal Mulino.

Quando nel 1557-1558 una grave epidemia di influenza colpì la Sicilia, il dottor Giovanni Filippo Ingrassia, nel rivolgersi all’amministrazione di Palermo, ammoniva le autorità a non chiedere ai medici informazioni specifiche sulle terapie, «perché quelli havemo da provedere noi, et si potrà disputare altra volta; ma quanto a quello, che le Signorie V. ricercano da noi, cioè che possano essi provvedere all’universale».
In termini più chiari, la terapia doveva essere affare soltanto del medico, che era direttamente responsabile verso il paziente. Gli uffici della Sanità dovevano «provvedere all’universale», vale a dire alla collettività, in termini di prevenzione.
Le sfere di competenza, tuttavia, non erano e non potevano essere separate in modo così netto. I dottori si occupavano non soltanto della terapia ma anche della prevenzione, ed erano tenuti a fornire consulenza tecnica agli uffici della Sanità su tutti e due gli aspetti. Inoltre, poiché molto spesso le terapie correnti dimostravano di non aver alcuna efficacia contro la peste, gli stessi dottori erano propensi a dare maggiore importanza alla prevenzione che alla terapia. Durante l’epidemia del 1576 il medico genovese Giovan Agostino Contardo scrisse un breve trattato su Il modo di preservarsi e curarsi dalla peste, nel quale rimarcava che in medicina «la parte preservativa è più nobile assai, e più necessaria che la curativa».
Sono concetti, questi, che danno una bella impressione di modernità. Purtroppo la loro applicazione risultava mal indirizzata e approssimativa, perché sull’eziologia del morbo infettivo prevalevano idee inadeguate. La convinzione predominante riguardo alla peste era che essa fosse originata da atomi velenosi. Che fossero generati da materia in putrefazione o emanati da individui infetti (persone, animali, oggetti), gli atomi velenosi infettavano l’aria salubre e la rendevano «miasmatica», vale a dire velenosa. Era proprio l’aria «corrotta» a costituire, secondo i dottori del Rinascimento, la condizione di base indispensabile perché scoppi un’epidemia di peste.
Oltre che mortalmente velenosi, gli atomi cattivi erano anche estremamente «viscosi»: si attaccavano agli oggetti, agli animali e agli esseri umani allo stesso modo che i profumi e i cattivi odori impregnano i tessuti e gli altri materiali. Se inalati o assorbiti da una persona o da un animale attraverso i pori della pelle, gli atomi pestiferi avvelenavano il corpo, causavano infermità e, in virtù della loro estrema malignità, nella massima parte dei casi portavano alla morte. Per contatto diretto o per inalazione, gli atomi potevano persino passare da oggetto a oggetto, da persona a persona, da un oggetto o un animale a una persona e viceversa. Ne conseguiva logicamente che il solo modo per evitare la diffusione della malattia era interrompere ogni contatto con persone, animali e oggetti provenienti da aree colpite dalla peste.
Nonostante la vaghezza del linguaggio, la teoria di base era semplice, logica e dotata di coerenza interna. Ma semplicità, logicità e coerenza non erano allora né sono mai garanzia di validità. In realtà il sistema teorico in questione non era molto più che ignoranza dogmatica. Dovremmo però badare a non ridere dei dottori del Rinascimento: ancora oggi, trecento anni dopo la rivoluzione scientifica, un’allarmante quantità di sedicenti scienziati sociali sembra credere che, se i propri modelli sono logici e coerenti, devono essere anche esatti. Com’è ovvio, le cose non stanno così. Il vero test di esattezza è l’osservazione, e questo è un fatto incontestabile, con alcune importanti condizioni.
L’uomo non è in grado di comprendere i fatti nuovi senza fare riferimento a un certo numero di concetti esistenti, e tali concetti inevitabilmente modificano il tipo di fatti che egli vede e il suo modo di vederli. Quando un ricercatore osserva la realtà, non opera nel vuoto, perché appartiene al proprio tempo e alla propria società. Persino le parole e i concetti che adopera hanno connotazioni specifiche che sono determinate dai suoi pensieri e dalla sua argomentazione, e non è mai immune da un sistema concettuale di riferimento presupposto in modo più o meno consapevole. Nemmeno il ricercatore più incline all’induzione parte mai da una tabula rasa .
In realtà, se il paradigma dominante è del tutto estraneo alla realtà sotto esame, è possibile che il ricercatore non si accorga nemmeno di quel che gli passa sotto gli occhi (come attesta la storia del microscopio nei primi secoli della sua esistenza) ; se poi nota il fenomeno, può essere indotto a scartarlo considerandolo irrilevante. Il fatto è che ciò che uno osserva è soltanto una particella infinitesimale della realtà, e quella particella acquista un significato soltanto se si adatta bene al mosaico cui appartiene. Se il mosaico giusto non c’è, se non c’è nulla a cui quella tessera minuta possa collegarsi, essa sembra insignificante e non veicola alcun messaggio. Solo il genio d’eccezione può concepire l’intero universo da uno sguardo a una minuscola particella. Se tutto ciò suona ridicolmente astratto, mi sia consentito di citare un episodio significativo che riguarda l’oggetto del libro.
All’inizio del secolo decimosettimo in Francia i medici che visitavano i malati di peste cominciarono a indossare una palandrana di toile-cirée, vale a dire di una sottile tela di lino rivestita di una pasta fatta di cera mescolata a sostanze aromatiche. Questo sinistro vestito divenne molto popolare, soprattutto in Italia, e durante l’epidemia del 1630-1631 venne spesso impiegato non solo in città come Bologna, Lucca e Firenze, ma anche in piccoli paesi della Toscana come Montecarlo, Pescia e Poppi. Allorché una nuova epidemia di peste devastò parte dell’Italia nel 1656-1657, il costume tornò a essere di uso comune a Roma e a Genova. L’idea che stava dietro alla confezione e all’utilizzo dell’abito cerato era che gli atomi velenosi dei miasmi non si «attaccavano» alla sua superficie liscia e scivolosa. E dal momento che il suo impiego sembrava funzionare e rispondere allo scopo, i medici del tempo trovarono in ciò una conferma alle loro teorie sul contagio e sul ruolo dei miasmi.
Padre Antero Maria di San Bonaventura (al secolo Filippo Micone) era un frate sveglio ed energico, che durante l’epidemia del 1657 venne incaricato della gestione del principale lazzaretto di Genova. L’esperienza gli insegnava che coloro che andavano a prestare servizio nei lazzaretti senza essersi mai infettati di peste in precedenza raramente mancavano di contrarre il morbo. Non aveva alcuna fiducia nelle precauzioni correnti, e circa l’abito di tela cerata, ecco cosa aveva da dire: «la tonica incerata in un Lazaretto, non hà altro buon effetto, solo che le pulici non si facilmente vi s’annidano».
L’osservazione del frate sull’abito cerato era corretta e coglieva il punto: quel costume non proteggeva la gente dai miasmi, la proteggeva dalle pulci. Con il suo commento il frate era giunto incredibilmente vicino a una scoperta straordinaria. Ma non la fece. Nel sistema di pensiero dominante le pulci erano animali fastidiosi ma innocui. Ne seguiva che, se l’abito serviva soltanto a proteggere dalle pulci, contro la peste era inutile. Come avrebbe potuto mai pensare, il frate, di sfidare l’intero sistema sulla base di una casuale osservazione riguardo alle pulci? Il sistema di conoscenze era universale e autorevole. L’osservazione sulle pulci era, al contrario, occasionale, quasi una battuta, e sembrò irrilevante anche a lui che l’aveva fatta. Accadde così che il sistema prevalse e l’osservazione andò perduta.

La Stampa 15.6.12
Sul tema del vuoto e dell’invisibile: «Invisible: Art about the Unseen 1957-2012»
Se non vedi l’arte puoi sempre immaginarla
Una singolare mostra a Londra gioca l’azzardo di 50 opere “invisibili”
di Massimo Melotti


Ci sono artisti che hanno sondato nelle loro opere l’invisibile sia come concetto che come linguaggio espressivo, quindi senza che l’«opera» sia necessariamente visibile. A loro è dedicata la mostra «Invisible: Art about the Unseen 1957-2012», aperta da martedì scorso al 5 agosto alla Hayward Gallery, a cura del direttore Ralph Rugoff. Presentare una rassegna di cinquanta lavori all’insegna dell’invisibilità può sembrare un azzardo. Percorrere un labirinto inesistente, seguendo le istruzioni in cuffia come propone Jeppe Hein o entrare in uno spazio stregato dall’incantesimo di una maga o ancora estasiarsi di fronte a un foglio di carta bianca che l’artista, Tom Friedman, ha fissato per mille ore nell’arco di cinque anni, creerà nel pubblico, quanto meno, qualche perplessità.
Una provocazione? Forse. In realtà l’arte cosiddetta invisibile fa parte di un lungo percorso. Walter Benjamin con il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, aveva colto l’unicità dell’opera d’arte, della sua «aura» e di come questa venisse messa in discussione dal nascere della società dei mass media. Un tema questo fondamentale che torna di attualità proprio nel momento in cui ci si appresta ad un’altra grande mutazione: quella del virtuale. La visione preconitrice di Benjamin viene riproposta in Aura e choc. Il volume, edito recentemente da Einaudi, curato da Andrea Pinotti e Antonio Somaini, raccoglie i principali studi del filosofo su arte e media. Se l’aura dell’opera d’arte si è sublimata nella sua serialità, a noi è rimasto lo choc a cui ci costringe la modernità.
Le arti visive di fronte alla fotografia, al cinema e poi ai nuovi mass media hanno privilegiato il «concetto» rispetto alla rappresentazione della realtà. Da qui nasce quel filone della ricerca artistica, che si colloca in parte nell’ambito della grande tendenza concettuale, e in cui la componente visibile dell’opera non è determinante o è stata abbandonata. Sulla forma prevale il concetto o il processo creativo, sino alle estreme conseguenze dell’invisibile.
Sono presenti in mostra artisti di varie tendenze, che dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, hanno operato in questo ambito: da Art & Language a Robert Barry, da Chris Burden, al nostro Maurizio Cattelan, da Tom Friedman a Carsten Höller, da Yves Klein a Yoko Ono (senza dimenticare Andy Warhol) solo per fare qualche nome. Ralph Rugoff vuole dimostrare che l’arte non tratta di oggetti materiali ma interviene sulla nostra immaginazione. Pertanto si richiede al visitatore una partecipazione particolare non più limitata allo sguardo, ma aperta al coinvolgimento e alla suggestione. Un antesignano dell’invisibile è ad esempio Yves Klein di cui in mostra sono presentati disegni di architettura, lavori e documentazione di Le Vide. Per il suo intervento a Parigi, Klein aveva allestito una sala della galleria completamente vuotacon le pareti verniciate di bianco e una bacheca vuota. Il vuoto accoglie l’energia creativa e ne esalta il gesto artistico. Al vernissage partecipano tremila persone tra cui Albert Camus che scrive sul libro delle presenze «Con il Vuoto. Pieni poteri». Un’altra antesignana storica è Yoko Ono, artista Fluxus, ma conosciuta anche per essere stata la moglie di John Lennon. Viene esposta l’opera Instruction Paintings dei primi Anni 60. Su alcuni foglietti dattiloscritti appesi al muro l’artista incoraggia il pubblico a creare un’opera d’arte con la propria immaginazione.
Di una generazione più recente (1954) è Bruno Jakob. L’artista svizzero da tempo ha volto la sua ricerca sui diversi metodi di realizzazione di opere invisibili. Alla Biennale di Venezia dello scorso anno, nella mostra Illuminations, curata da Bice Curiger, aveva esposto i suoi Invisible paintings, fogli bianchi con nuances lasciate da interventi effettuati con acqua e sapone, di incredibile delicatezza. Propone anche qui una ricerca con la quale il visitatore è invitato ad interagire più che un’opera conclusa.
Sul tema del vuoto e dell’invisibile come assenza e morte si cimentano in particolare James Lee Byars e Teresa Margolles. Cultore delle filosofie e delle religioni orientali, James Lee Byars appartiene alla storia della sperimentazione artistica. Le sue opere sono caratterizzate da una componente simbolica o esoterica. Ossessionato dalla morte, ha realizzato una serie di performance e installazioni che hanno come tema la sua dipartita come The Ghost of James Lee Byars. Il titolo del lavoro si rifà ad una mostra tenuta a Los Angeles nel 1969 e consiste in un tunnel buio attraverso il quale il visitatore deve camminare, passaggio simbolico verso una vita spirituale nell’aldilà. Più inquietante il lavoro di Teresa Margolles, messicana del 1963. Da tempo l’artista è impegnata con le sue opere nella denuncia della situazione sociale del suo Paese. Il pubblico deve attraversare una stanza avvolta da una sottile nebbia, creata da un umidificatore e ricavata dall’acqua usata per lavare le vittime di omicidi, prima dell’autopsia, in un obitorio a Mexico City,
Due sono gli italiani presenti in mostra: Gianni Motti che presenta Magic Ink del 1989, una serie di disegni realizzati con inchiostro simpatico che compaiono solo per qualche istante e Maurizio Cattelan che espone Untitled (Denuncia) del 1991. L’opera consiste, come dice il titolo, nel foglio rilasciato dalla Questura di Milano nel quale si attesta che l’artista è stato vittima di un furto di una scultura invisibile avvenuto nella sua abitazione. Qui in effetti gli artisti sono due Maurizio Cattelan e il funzionario che ha accettato la denuncia.