sabato 14 febbraio 2015

La Stampa 14.2.15
Il premier molto irritato
di Mattia Feltri

Molto irritato il premier Matteo Renzi per le contestazioni e l’ostruzionismo delle minoranze che rallentano i lavori parlamentari sulla riforma della Costituzione. Ma noi, ha ripetuto con grande sicurezza, stavolta l’Italia la cambiamo davvero, qualunque cosa questi signori pensino, dicano o facciano. Mi dispiace soltanto - ha detto - «per come viene calpestato il Parlamento». Un po’ troppo a caso, senza la dovuta professionalità.

La Stampa 14.2.15
Scandali
di Jena

Ma come si permette l’opposizione di fare opposizione!

Corriere 14.2.15
Mischie da rugby, corse sui banchi E ognuno urla all’altro: «Fascista»
Arriva il premier e gli danno del bullo. Ma tutti hanno paura del «voto anticipato»
di Aldo Cazzullo


Finalmente consapevoli della situazione del Paese e delle attese dei cittadini, i parlamentari lavorano alla riscrittura della Carta costituzionale in un clima di collaborazione e di rispetto reciproco.
«Idioti! Maledetti! Fascisti! Ti spacco la faccia!». Dietro le pudiche annotazioni del verbale — «confuse grida», «proteste», «vivaci proteste» — si nascondono i peggiori insulti della storia repubblicana, a volte molto elaborati — «dove sei seduto tu era seduto Togliatti, deficiente!» —, a volte diretti e irriferibili.
Alle 2 di notte arriva il presidente del Consiglio, accolto con simpatia. «Renzi cosa sei venuto a fare?» gli chiedono dai banchi di Forza Italia. «Siediti!» gli intima l’on. Latronico. Renzi indispettito si gira verso destra. «Cosa c. hai da guardare? Imbecille!» gli gridano. L’on. Bianconi, che ha preso sonno disteso — per lungo — sugli scranni, si alza disturbato e se ne va: «Mi pare di essere a una riunione di un condominio rissoso». Per fortuna provvede a ricucire il capogruppo Brunetta, che di Renzi è grande estimatore: «Anche stavolta si conferma il peggior presidente del Consiglio della storia unitaria. Non si era mai visto il capo del governo venire alla Camera nottetempo a fare il bullo…».
L’epiteto ricorrente è «fascista». Ormai sono saltati gli schemi: non è più sinistra contro destra, o maggioranza contro opposizione; tutti urlano fascista a tutti; La Russa si guarda intorno, non si capisce se lusingato o ingelosito, «non si erano mai visti tanti fascisti in quest’Aula». Inoltre i parlamentari usano come insulti mestieri che all’evidenza considerano riservati alla plebe, per cui Verdini diventa «macellaio» e la Boldrini «cameriera», che i 5 Stelle amici del popolo traducono simpaticamente in «serva».
Il mattino dopo, sui divani del Transatlantico si ricostruisce la rissa notturna. I peones hanno individuato due facili capri espiatori: «È stata tutta colpa di Daniele Farina di Sel, il picchiatore del Leoncavallo, e di Marco Miccoli del Pd, noto ultrà della Roma». L’on. Miccoli in effetti si è battuto come un leone contro l’arbitraggio di Roma-Juve, anche con un esposto alla Consob per turbativa di Borsa, ma si professa innocente: «Io stavo dall’altra parte dell’emiciclo. Presidio il confine con i 5 Stelle. La lite è scoppiata sul lato opposto, al confine con Sel; io sono andato a fare da paciere. Certo, se tieni sedute-fiume notturne, e per ore hai nelle orecchie i 5 Stelle che sbattono le tavolette sui banchi gridando onestà-onestà, a qualcuno possono saltare i nervi…».
Le immagini mostrano una mischia tra deputati tipo partita del torneo Sei Nazioni di rugby, con l’on. Airaudo di Sel che si getta nella rissa camminando sui banchi con agilità sorprendente, tipo Benigni sulle sedie nella notte degli Oscar. Matteo Richetti del Pd conferma di aver visto un duello impari: «Farina, che viene dai centri sociali, se l’è presa con il mite Taranto, che viene dalle camere di commercio, e gli ha tirato un parpagnone…». Prego? «Una castagna…». Scusi? «Un cazzotto. Non è stato bello». L’on. Farina nega e si appella alla moviola: «I questori della Camera hanno le loro immagini, più dettagliate di quelle dei siti. Mi scagioneranno. Stava parlando il nostro capogruppo, Scotto. Ha criticato i 5 Stelle per il frastuono, e il Pd per aver provocato tutta questa confusione. Quelli sono saltati su, a noi restavano solo 25 minuti per parlare, io ho gridato: “Che cosa volete?”. Ok, non ho detto “cosa”. C’è stato un confronto con Taranto e qualcun altro, mani contro mani, braccia contro braccia. Poi sono arrivati i commessi. Sono cose che capitano in un clima del genere, con Giachetti che presiede la seduta inoltrandosi in distinguo sul fascismo, Renzi che gira tra i banchi con fare provocatorio…Ma non c’è stato nessun cazzotto». Fatto sta che alla ripresa dei lavori l’on. Sibilia, grillino, evoca i padri costituenti: «Ve li immaginate Calamandrei, Terracini, Li Causi che nell’Assemblea che scrisse la Costituzione si prendevano tranquillamente a mazzate?».
In tre giorni si passa dal patto del Nazareno, alla rissa, all’Aventino. Sel, 5 Stelle, Lega, Fratelli d’Italia si accordano per uscire dall’Aula. Forza Italia prende tempo: bisogna riunirsi e sentire Berlusconi, che è a Cesano Boscone. «Non potete telefonargli?». «No, non può portare il cellulare». Alla fine escono anche gli azzurri, tranne l’on. Romano che preferisce restare. La Camera, che poco prima ribolliva di grida e lanci di faldoni, è ora semideserta, in un silenzio surreale; sui banchi vuoti, uno zainetto dimenticato, copie della Gazzetta dello Sport spiegazzate, altri giornali intonsi. Brunetta lancia un ultimo grido accorato: «Per l’amor di Dio, ripensateci. Per l’amor di Dio!». Anche Saltamartini, ex Ncd, si unisce all’Aventino. Seguono interventi addolorati di solidarietà: Fassina e Civati annunciano che non parteciperanno al voto, Cuperlo chiede una pausa tecnica. Si alza Tabacci: «Non potevate pensarci prima?». Il numero legale appare in bilico. La Bindi suggerisce che il gruppo del Pd si riunisca per decidere se è proprio il caso di andare avanti da soli. Anche un proto-renziano come Richetti ammette che qualcosa non va: «Non possiamo fare le riforme in questo modo…».
Conferenza stampa congiunta delle opposizioni, con appello al capo dello Stato. L’on. Scotto: «Siamo qui per difendere la Costituzione da coloro che la vogliono stuprare». Mancano però i 5 Stelle, che indicono una conferenza a parte, per non mischiarsi a Forza Italia «che ha scritto la riforma con Renzi». Civati è seduto tra i giornalisti ad ascoltare. Parte subito forte l’on. Fraccaro, quasi completamente afono: «Abbiamo perso la voce per difendere la democrazia!». Il quadro è come di consueto sereno e ottimista: «Avremo un Senato di mafiosi e di ladri, con l’unico obiettivo di salvare la casta e consentire a una nuova classe dirigente filorenziana di poter continuare a rubare ancora più agevolmente agli italiani». L’intervento dell’on. Fico pare un trailer di 50 sfumature di grigio : «Il Pd provocherà molto dolore a tutte le cittadine e a tutti i cittadini italiani…». L’on. Dadone racconta che il capogruppo democratico Speranza le ha suggerito «di fare un pochino di caos, così si poteva sospendere la seduta e discutere liberamente. Ma non si fa così». Fico insiste sulla linea sadomaso: «Il Paese soffre, i cittadini soffrono…Renzi è tutto chiacchiere e conferenze stampa. Il re della metafisica, il re del nulla. Quest’uomo è venuto di notte a fare smorfie, mandare messaggini e controllare che i suoi facessero il loro sporco lavoro…». L’on. Toninelli: «La riforma del Senato farà aumentare le tasse!».
In Aula le votazioni proseguono. Se esce la Boschi, entra Lotti, e viceversa. Mara Mucci, 5 Stelle dissidente, interviene quasi piangendo: da quando il blog di Grillo ha intercettato la sua trattativa con Mariano Rabino sul passaggio a Scelta civica, è subissata di insulti e minacce: «Continuate pure con la macchina del fango, ma sappiate che i grillini prendono dallo Stato 6 milioni di euro l’anno!». La Boldrini le toglie la parola. «Pensavamo che perdendo i due matti, Buonanno e Barbato, il leghista e il dipietrista, si sarebbe creato un clima diverso — si sfoga un veterano —. Ma ora i deputati che insultano sono centinaia. L’Aula è fuori controllo…». Il punto è che i parlamentari ormai si ignorano l’un l’altro. È Buttiglione a farlo notare: «Qui nessuno ascolta o parla più con nessuno; ognuno si rivolge all’opinione pubblica, non bada all’Aula ma alla tv, pensa solo all’impatto mediatico di quel che dirà. E questo rischia di non giovare». In effetti no, non giova. La Boldrini invita le opposizioni a ripensarci. Renzi riunisce i deputati Pd per dire che si va avanti. Alla buvette infuria la discussione: il voto anticipato è più vicino se la riforma salta, o se la riforma procede? La parola «voto anticipato» è pronunciata con un’ombra di terrore.

il Fatto 14.2.15
Botte di notte
Stadio Montecitorio, ultras contro
di Alessio Schiesari


Due contusi e altrettanti espulsi: è questo il risultato dei lavori alla Camera dedicati alle riforme costituzionali svoltisi nella notte tra mercoledì e giovedì. Una sessione che si è trasformata in un tafferuglio da stadio. Il calcio d’inizio, con buona pace della diretta tv, arriva molto tardi. È l’una e mezza, il cielo di Montecitorio è illuminato a giorno, la temperatura gradevole per una notte invernale, forse anche grazie ai sei milioni di euro spesi ogni anno per il riscaldamento dell’impianto. Gli occhi sono puntati sulla parte centrale del campo dove i deputati Cinque Stelle fanno un tifo indiavolato: “O-nes-tà, o-nes-tà” è il coro che intonano, accompagnato dal ritmico battere dei pugni sugli scranni. Vuoi per la stanchezza della sessione notturna, vuoi per l’importanza della posta in palio, l’aria è tesa. Gli steward, qui ribattezzati commessi della Camera, presidiano l’area a 5 Stelle. Quello che non immaginano è che i tafferugli partiranno dalla curva opposta, quella sinistra.
IL CAPITANO della brigata Sinistra e libertà, Arturo Scotto, prende la parola: se i 5 stelle fanno casino, la colpa è del governo che costringe i deputati a discutere le riforme fino a tarda notte. Dagli scranni più in alto, quelli occupati dai Boys del Partito democratico, parte la contestazione. “Basta” e “taci” sono le grida più ricorrenti, intervallati da un coro preso in prestito dalla curva 5 Stelle: “Vaffanculo”. Fino a un anno e mezzo fa, le tifoserie di Sel e Pd erano gemellate. Quell’epoca però è finita: già nelle ultime sessioni notturne la Brigata Sel ha provocato scompiglio lanciando cartacce contro la presidenza della Camera. La rissa esplode quando interviene Daniele Farina, un ultrà già noto alle forze dell’ordine. Quando ancora giocava nel vecchio stadio milanese, il Leoncavallo. Storie antiche: il suo Daspo è scaduto e ora frequenta l’arena di Montecitorio. La sua fila, la quinta, è quella a diretto contatto con i Boys del Pd. Gesticola, grida agli avversari di lasciar parlare il capitano. È qui che iniziano gli scontri: Emiliano Minnucci – deputato Pd con una simpatia per la squadra dilettantistica dei centri sociali romani, l’Ardita – parte con la carica e sferra un ceffone a Farina. La movenza del braccio è quella dell’uppercut, ma la mano è aperta. “Non lo chiamerei nemmeno ceffone”, lo giustificherà poi Farina, tenendo fede alla mentalità ultras. A questo punto parte la carica dem: spinta e “grida irripetibili”, spiega l’incolpevole Sel Giancarlo Giordano.
Insieme a Minnucci il più esagitato è il collega di partito Luigi Taranto. Gianni Cuperlo invece è tra quelli che tenta di riportare la calma. Gli scontri non risparmiano nemmeno le donne: la Sel Donatella Duranti rimedia una contusione al braccio. “Gli scranni sono angusti, se c’è casino diventano pericolosi”, spiegherà il suo collega Gianni Melilla. L’altro infortunato è proprio lui: “Sono segretario di presidenza, volevo intervenire per placare gli animi ma ho battuto la mano contro il tavolo”. Se la caverà con una borsa di ghiaccio. Dal fondo dell’Aula interviene anche l’ex Fiom Giorgio Airaudo: nonostante sia un classe ’60, sale in piedi sugli scranni e ne salta tre file. “Volevo fermare quelli del Pd: erano in 300 contro 25. Gli ho gridato ‘cazzo fate? ’”, ammetterà alla fine. A farlo scendere interviene Graziano Delrio. Dall’altra curva qualcuno grida “pezzi di merda”. Intanto il 5 Stelle Angelo Tofalo, forse sorpreso perché i suoi non sono coinvolti, ne approfitta per fare un video.
I tafferugli durano oltre un minuto perché gli steward devono correre da una parte all’altra dell’Aula per intervenire. In attesa dei Daspo, che verranno decisi dai commessi in base alla prova tv, tocca al presidente di turno, Roberto Giachetti, estrarre i cartellini: rosso diretto per Minnucci e Airaudo. Quest’ultimo la prende con fair play: “Me lo meritavo, ma rifarei tutto”.

il Fatto 14.2.15
Botte da riforme
Mena pure, tanto la colpa è di Grillo
di Andrea Scanzi


Neanche fa più notizia che, nella politica italiana da sempre capovolta, il Parlamento cacci chi grida “Onestà, onesta! ”. In fondo è la colpa più grave, quella più imperdonabile: un po’ come andare da Rocco Siffredi e pretendere castità. Regola aurea, per larga parte dei media, è che la colpa ricada a prescindere sul Movimento 5 Stelle: il capro espiatorio perfetto, che sia effettivamente criticabile (e spesso lo è) o che abbia come macchia quella di mostrarsi alterato di fronte ai soprusi (alla Costituzione, mica a loro). Il Parlamento è uno strano microcosmo: dentro si può fare di tutto, l’importante è che lo si faccia col sorriso. Sfasciare ogni cosa va bene, però con educazione. Al contrario, se qualcuno scopre che gli hanno appena rubato la macchina e per questo si arrabbia un po’, giocoforza il colpevole diventa lui: troppo maleducato. Funziona così, e funziona forse al contrario.
LA FREDDA cronaca degli ultimi giorni (e notti) alla Camera mostra un quadro d’insieme scarsamente avvincente. Regole minime sventrate. Presidenti e vicepresidenti oltremodo parziali. L’evanescente Boschi che assurge a madrina costituente (esce Calamandrei, entra Maria Elena: come sostituire Pelé con Muntari). Una gestione delle minoranze e delle opposizioni appena illiberale. Canguri, sedute fiume, insulti. “Dissidenti” che abbaiano ma non mordono. La Boldrini che ormai imbarazza pure Sel. Una perdurante involuzione democratica, di fronte alla quale però buona parte dell’informazione italiana – non per nulla al 73esimo posto per libertà di stampa, giusto tra Moldavia e Nicaragua – soprassiede. Molto meglio raccontare con dovizia la reunion tra Al Bano e Romina: è più facile, è più redditizio. Un tempo, quando c’era da demolire la Costituzione, si sceglieva agosto perché la gente era al mare. Oggi si sceglie Sanremo, perché la gente al mare non è ma ha comunque il cervello in vacanza. Così anche l’importanza da dare agli avvenimenti si capovolge: il problema non è che una ghenga arrivista – composta da nominati, eletta con legge incostituzionale – proceda come un bulldozer per trasformare il Senato in un dopolavoro inutile su cui spiaggiare consiglieri regionali spesso indagati e di colpo protetti da immunità, ma che l’opposizione alzi i toni.
ANOMALIA anche questa, del resto, se fino a ieri l’opposizione erano i Violante (di cui la veemenza è nota) e D’Alema (di cui il berlusconismo è noto). Accusare l’opposizione di opporsi troppo è come rinfacciare a Tyson di aver picchiato troppo Donnie Long: magari era vero, ma Tyson faceva il pugile. Mica l’impiegato al catasto. È tornata la Dc, una Dc 2.0 allegramente impreparata e spensieratamente autoritaria, garbata nei modi e carnivora nei contenuti. Renzi sta a De Mita come Carlo Conti a Bongiorno, e guai a chi non si adegua alla melassa normalizzatrice e restauratrice. Chi non ci sta – politici e intellettuali, giornalisti e cittadini – è un gufo. Un disfattista. Un eversivo da punire con l’espulsione dall’Aula, ma più che altro dall’informazione. Tipo i 5Stelle, “fascisti” per antonomasia. Anche se hanno appena proposto una sorta di alleanza part-time a Syriza (noti fascisti) e Podemos (noti nazisti), esigendo che le Alba Dorata (noti democratici) girino al largo. Anche se avrebbero interrotto l’ostruzionismo alla Camera se solo fosse stato accettato il referendum senza quorum, un’idea che un tempo pareva piacere anche al Pd. Anche se a scazzottarsi sono stati quelli di Pd e Sel, e prima quelli di Ncd e Lega, e già che c’erano pare anche quelli di Forza Italia (si picchiavano tra loro: così, per ricordarsi di essere vivi). La narrazione capovolta impone che sia “colpa dei grillini”. Sempre. Il Pd ha picchiato Sel? “Colpa dei grillini”. L’Italia è uscita dai Mondiali? “Colpa dei grillini”. La carbonara è scotta? “Colpa dei grillini”. Com’è bella questa informazione, e questa politica, tutta al contrario. Così bella che, se ti adegui a guardarla a rovescio, perfino l’anomalia odierna sembra quasi una nuova forma di democrazia.

Repubblica 14.2.15
Happy Days
di Alessandra Longo


SENTIRSI “tiranneggiati”, trattati «come comparse alla corte del Re», usati come «oggetti da comodino», travolti da «sarcasmo, cinismo, velocità, sprezzo, bullismo». In queste ore tormentatissime in Parlamento viene fuori il non detto psicologico dei rapporti tra Pd renziano e Sel. Alti e bassi, ora solo bassi. E ci vorrà tempo e volontà politica per ricucire visti i messaggi online che circolano, la gran parte ritwittati da Nichi Vendola. Il capo del governo è il bersaglio, non certo i colleghi della scazzottata notturna. Un Renzi definito «uomo di scontro, rottamatore della Costituzione, capotifoseria». Airaudo, sceso dal banco, pensando a lui, conia l’espressione «bulli da Happy Days». Renzi-Fonzie, che «regala la cravatta a Tsipras ma non riflette sugli effetti dell’austerity e del pareggio di bilancio». Renzi- Fonzie il tattico che sembra seguire i consigli del padre (nella fiction): «Quando piove non uscire mai con i calzini».

Corriere 14.2.15
Le schegge avvelenate
Il braccio di ferro tra i leader. Quel segnale sulle televisioni
Il premier e il piano che renderebbe più aggressiva la Rai
di Francesco Verderami


Guerra o pace. Il romanzo che Renzi e Berlusconi stanno scrivendo insieme ormai da un anno è una storia di cui non si conosce ancora il finale.
Lo scontro sulle riforme non è detto infatti che sia l’ultimo capitolo, somiglia piuttosto a un braccio di ferro — dopo il Quirinale — tra chi dice di esser stato tradito (Berlusconi) e chi temeva di venir tradito (Renzi). La trattativa sul successore di Napolitano è stata la tomba del loro vecchio Patto, seppellito da reciproche incomprensioni ed errori diplomatici, con il capo di Forza Italia che si è sentito «umiliato» per l’imposizione di Mattarella, e il leader del Pd che a sua volta si era sentito «accerchiato» quando l’interlocutore — pensando di tranquillizzarlo — gli aveva rivelato di aver già stretto un’intesa su Amato «anche con D’Alema».
Così si è arrivati alla rottura che sembra un punto di non ritorno. Il capogruppo azzurro Brunetta, aventinista, chiama al telefono il suo comandante da Montecitorio: «Presidente, tutto bene. Puoi esserne or-go-glio-so». Il premier compatta le truppe democratiche in Aula e chiede l’ultimo sforzo: «Si vota fino all’alba». Ma davvero Renzi immagina di proseguire nella legislatura con un Parlamento trasformato in palude? E davvero Berlusconi pensa così di arrivare alle elezioni con il Consultellum? In bilico tra guerra e pace, non si vedono al momento avvisaglie di tregua. Anzi, negli ultimi giorni proprio sui quotidiani si è avuta la prova che l’escalation non ha raggiunto l’acme.
Dopo che il Giornale aveva preso a sparare su Palazzo Chigi per il caso delle banche popolari, sul Messaggero è apparsa la notizia che il premier si è rivolto a una trentina di personalità — tra politici, manager e tecnici di settore — per avere idee e suggerimenti da utilizzare nello schema di riforma della Rai. Da tempo Renzi coltiva il progetto, ma sa che la sua ambizione si scontra con la difficoltà di trovare il tempo per realizzarla. Se ha rispolverato il piano, è perché il leader del Pd voleva trasmettere un segnale a Berlusconi, evidenziando che il nodo del sistema televisivo non è un tema settoriale ma politico, che intende gestire di persona.
Rompendosi il Patto, è come se si fosse rotto quel vaso di Pandora, caro al fondatore del Biscione. E gli indizi sono così tanti da assurgere ormai a prova. L’emendamento sulle frequenze tv è stato il primo atto dell’escalation, e non è stata una coincidenza, dato che è toccato al sottosegretario Giacomelli agire personalmente in Parlamento: siccome i tempi per presentare il testo erano scaduti, il titolare della delega sull’Emittenza ha aggirato l’ostacolo facendo proprio un emendamento già depositato, e annunciando che il governo lo avrebbe accolto «previa debita riformulazione».
Da quel momento nell’esecutivo è iniziato il gioco dei cassetti. Al ministero dello Sviluppo economico si racconta sia stato accantonato un dossier finora posto «in evidenza»: è il documento presentato (anche) da Mediaset contro il dumping Rai sullo sforamento degli spot pubblicitari, che ha un forte impatto per le aziende concorrenti della tv di Stato. Chiuso quel cassetto, su mandato del premier se n’è riaperto un altro, a Palazzo Chigi, dove dall’autunno scorso giace l’idea di Renzi di dimezzare il canone Rai: è chiaro che una simile operazione farebbe presa sull’opinione pubblica, ma presupporrebbe una Rai più competitiva sul mercato perché «affamata» di inserzioni pubblicitarie...
In attesa di capire se la rottura con il leader di Forza Italia sia irreversibile o ricomponibile, gli uomini del presidente del Consiglio sono impegnati nella trincea televisiva, e gli «specialisti» dell’emittenza hanno spiegato a Renzi cosa si può celare dietro la vendita di una quota azionaria di Mediaset appena decisa da Berlusconi: è una sorta di «messa in sicurezza» — questa l’interpretazione — in vista di un possibile accordo strutturale del Biscione con altri players del settore. Gli esperti ritengono che i prossimi mesi saranno «chiave», ed è chiaro che una simile operazione — semmai si verificasse — non potrebbe non passare per un rapporto «non ostile» con il governo.
Guerra o pace. Il romanzo di Renzi e Berlusconi che sembra giunto alla pagina finale, potrebbe invece proseguire con un altro, sorprendente capitolo. Spesso in uno scontro l’escalation è il miglior deterrente per evitarlo.

il Fatto 14.2.15
Renzi sull’orlo della crisi
Il Nazareno non tiene più. Il premier minaccia le elezioni e le opposizioni lasciano l’aula
di Wanda Marra


Dopo varie risse in aula, il premier irrompe alla Camera alle 2 di notte: “O le riforme o si vota”. Le opposizioni (M5S, FI, Sel e Lega) sull’Aventino: “Le tue leggi te le approvi da solo”. E martedì salgono al Quirinale per chiedere l’intervento di Mattarella

“Forza, forza”. Sono da poco passate le 18, quando Ettore Rosato, vice capogruppo Dem, esce dall’Aula di Montecitorio per intercettare i deputati Pd che si attardano in Transatlantico. Poi va alla buvette, rastrella chi c’è. Il Pd ha bisogno di tutti per garantire il numero legale: sta votando le riforme costituzionali a maggioranza, con le opposizioni che sono uscite dall’Aula. Una dopo l’altra, compresa Forza Italia. Immagine surreale, l’emiciclo semi-vuoto. Era una settimana che il patto del Nazareno veniva dato in bilico, moribondo, morto. Ieri diventa evidente a tutti che l’asse tra Silvio e Matteo non è più così forte, per usare un eufemismo. Le riforme costituzionali sono appese a un filo. E con loro, la legislatura.
CHE IL GIOCO si fa duro si capisce durante la notte tra giovedì e venerdì. Verso le due, dopo la rissa tra Cinque Stelle, Sel e Pd, Renzi, di ritorno da Bruxelles, si materializza in Aula. Chi c’era lo racconta come galvanizzato, sovra-eccitato, sopra le righe. Non si siede tra i banchi del governo, ma vaga tra quelli dei parlamentari. Ruba i cellulari dei deputati amici, scherza. Poi va dalla Bergamini (Fi) e la avverte: “Se non ci votate le riforme, si va a elezioni”.
Qualche ora dopo, la mattina, si capisce che per una volta le elezioni sembrano un’arma scarica. Renzi le vuole davvero? Se può evitarle, no. Anche perché l’Italicum è ancora un miraggio. E il Consultellum conviene di più a tutti gli altri. La situazione con Berlusconi gli è scappata di mano, ha tirato troppo la corda, e la corda si è rotta: né lui, né i suoi pensavano che l’ex Cavaliere si sarebbe sottratto dal Nazareno. Vero perno su cui si tiene la legislatura. E vera opportunità per il premier di bypassare all’occorrenza la minoranza Pd. Adesso, è tutto un altro film. Alle 13 e 45 di ieri, Matteo torna alla Camera (rigorosamente in jeans) per dettare la linea al gruppo Pd: “Le opposizioni puntano solo a bloccare il governo”. Ancora: “Non mi faccio ricattare. Se passa la logica per cui l’ostruzionismo blocca il diritto e dovere della maggioranza di fare le riforme è la fine”. Secondo la riedizione del copione più classico, il segretario-Presidente ribadisce il “solito” concetto (o riforme o voto) e chiede al gruppo di andare avanti come un treno. In dissenso, intervengono Cuperlo (“Non possiamo votare le riforme con l’Aula mezza vuota”), Fassina, la Bindi. Bersani minaccia un intervento in Aula contro la linea del segretario, Speranza lo blocca. Tra i renziani c’è chi crede che il vero obiettivo della sinistra sia portare allo show down la legislatura per andare a votare con il Consultellum.
SI RIPRENDE. Il Pd vota a maggioranza. Ai piani alti di Palazzo Chigi confessano: “Ricucire con Berlusconi? Molto difficile”. Non esiste un vero piano B. C’è l’operazione responsabili, c’è la possibilità che qualcuno di Forza Italia voti con Renzi. Ci sono i fuoriusciti dei Cinque Stelle (ma ieri escono anche loro). “Non c’è una strategia politica - si preoccupano tra i democratici di maggioranza - come si fa a fare le riforme in questo modo? ”. Intanto, la minoranza porta avanti il suo gioco. Sono ancora Fassina e Cuperlo a intervenire in Aula, per chiedere una pausa tecnica e la ripresa dell’Assemblea Pd. La chiave nelle parole di Pier Luigi Bersani: “Se il Nazareno è finito, perché rispettarlo? ”. Roberto Speranza in Aula accorato ammette: “Abbiamo i numeri per votare da soli, ma sarebbe un errore”. Ha il mandato di condurre la trattativa a oltranza con i Cinque Stelle. Bersani passa la giornata a chiedere a Sel di “dargli una mano”. Se si compatta, la minoranza ha qualche possibilità di pesare. Ma comunque, i dem sono tutti dentro, tranne Civati e Fassina. Ancora una volta rappresentano un Pd spaccato, ma non rompono. Nel frattempo, Renzi fa partire l’offensiva Twitter e il messaggio al paese: “Da anni la politica non fa le riforme. Noi Ascoltiamo tutti, ma non ci facciamo ricattare da nessuno. Avanti”. Rincara: “La riforma sarà sottoposta a referendum. Vedremo se la gente starà con noi o con il comitato del no guidato da Brunetta, Salvini e Grillo”. Dovevano essere riforme fatte con tutti, arriva il referendum tipo panacea di tutti i mali.
L’OBIETTIVO a breve termine di Renzi è chiaro: votare come può la seconda lettura alla Camera. E poi, cercare una soluzione, da qui al passaggio in Senato. Le opposizioni da martedì incontreranno il presidente della Repubblica, Mattarella. Avrà qualcosa da dire sulla Carta cambiata a colpi di maggioranza?
Alle 19 e 30 Renzi riunisce il gruppo di nuovo. La strategia la illustra Matteo Richetti: “Oggi uscire dal problema di votare le riforme a maggioranza non si traduce nel fermarsi. Dobbiamo chiudere questa lettura, ma tenere aperti molti punti. E andare al Senato condividendo i cambiamenti con le opposizioni”. Per ora, però, si chiude così. Bersani voleva che la trattative con le opposizioni iniziasse da subito. Niente. Il premier non si fida della minoranza: “Si attaccano a tutto per frenarmi: gli stessi che mi contestavano che facevo le riforme con Berlusconi, ora mi criticano perchè vado avanti senza l’opposizione. Non ho mai visto tanti nostalgici del Nazareno come stasera”, si sfoga. E dunque: “Non vedo nessun motivo di interrompere la seduta fiume”. Montecitorio vota per tutta la notte. Obiettivo, finire prima dell’alba. Voto finale a marzo, secondo programma. Poi, chi vivrà, vedrà.

La Stampa 14.2.15
Braccio di ferro per provare chi è il più forte
di Marcello Sorgi


L’Aventino delle opposizioni rappresenta il punto estremo del braccio di ferro che si trascina da giorni sulla riforma del Senato, dopo la rottura del patto del Nazareno. L’arrivo di Forza Italia sul fronte degli oppositori, dove da tempo si praticava un ostruzionismo che solo il soccorso azzurro di Berlusconi aveva consentito di aggirare, ha reso l’aula sostanzialmente ingovernabile. Ne hanno fatto le spese la presidente Boldrini e il vicepresidente Giachetti, chiamati a compiti di ordine pubblico fino alle 4,40 del mattino.
Sul tavolo del presidente Mattarella, alle prese con la prima seria rogna del suo mandato, arriveranno martedì due versioni dell’accaduto: secondo Forza Italia, che ha chiesto udienza al Quirinale, a peggiorare la situazione e a convincere le minoranze a uscire dall’aula, è stato l’arrivo di Renzi, di ritorno da Bruxelles. Brunetta sostiene che il premier avrebbe fatto «il bullo», minacciando elezioni anticipate di fronte al blocco delle riforme. Ai deputati del Pd incontrati nella notte Renzi ha dato una spiegazione diversa, secondo la quale non si tratterebbe di cedere su una o l’altra delle richieste delle opposizioni, ma di capire che è in corso un tentativo di dimostrare che il governo non è in grado di realizzare i suoi obiettivi. Di qui la richiesta del premier di procedere a oltranza, rivolta soprattutto alla minoranza interna. Approvare la riforma della Costituzione in un’aula vuota a metà non sarebbe certamente un gran risultato per il governo.
Ma Renzi sa che l’Aventino nato confusamente all’alba non da tutti è condiviso: soprattutto in Forza Italia, dove Fitto e i suoi (una trentina) hanno annunciato che entreranno in aula e voteranno no. Presto potrebbero non essere i soli.

Corriere 14.2.15
Prepotenti e rissosi
Il sonno della ragione
di Antonio Polito

qui

Corriere 14.2.15
Uno scontro che rischia di esporre il Quirinale
Lo spettro delle urne dietro il muro contro muro. Renzi pronto a minacciare il voto
per piegare il Parlamento. Mattarella si prepara a incontrare i leader dei partiti
di Massimo Franco

qui

il Fatto 14.2.15
Renzi dice: “Nessun dorma”
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO,nel suo discorso in mezzo alle impalcature dell’Expo mezza inquisita e mezza non finita, Renzi ha parlato di “un anno felice per l’Italia” (mentre due guerre, in Ucraina e in Siria e l’attivismo di Boko Haram tengono il mondo col fiato sospeso), ammonisce “nessun dorma”. E intima che non tollererà il boicottaggio. Sarebbe interessante avere più notizie dal capo: chi dorme, chi boicotta, chi sarà felice, mentre i dati sono quelli che sono e il mondo è quello che è?
Vera
COMINCEREI dal terzo annuncio di Renzi, che ha anche alzato la voce ed è sembrato un arcangelo vendicatore. A quanto si è capito, non tollererà che, sotto le mentite spoglie di uno sciopero per difendere il Primo Maggio (festa del lavoro in Europa, e ininterrotta tradizione democratica italiana di far festa quel giorno) si tenti un boicottaggio dell’apertura della Esposizione universale di Milano (che tanto ha interessato i giudici), fissata, appunto, per il Primo Maggio. Occorre dire subito che se l'angelo vendicatore otterrà la presenza piena dei lavoratori nel giorno detto “Festa del Lavoro”, vuol dire che la sua minaccia è da temere davvero. Un bel successo per il segretario Pd l’abolizione del Primo Maggio. Oppure dimostra che i nostri concittadini (come direbbe il nuovo capo dello Stato) sono buoni e si rendono conto che, con gli scatti di carattere, ci vuole un po’ di pazienza. Faccio un esempio. La festa del lavoro, negli Stati Uniti, si chiama “Labor Day” e cade in settembre. Nessuno, per nessuna ragione, potrebbe, con qualsiasi pretesto, convocare una massa di persone al lavoro. Lo stesso accade (parlo ancora degli Usa) per alcune feste religiose cristiane ed ebraiche (ma i datori di lavoro sono in genere rispettosi anche del Ramadan) in cui l’assenza dal lavoro è assoluta, e solo uno stato di emergenza potrebbe rompere l’impegno, che si considera preso da sempre e per sempre. È giusto che non ci siano rinvii all’inaugurazione italiana. Ma chi ha stabilito, quando, perché e con quale disattenzione per la vita sociale del nostro Paese, quella data, che è, appunto, “la festa del Lavoro”? Però proviamo per un istante a credere che la data sia fissata (non è vero ma facciamo un’ipotesi) da un’inviolabile regola internazionale. In quel caso non è meglio trattare con i lavoratori, che minacciare, incontrare invece che creare uno scontro pubblico, dal quale diventa difficile ritirarsi per tutte le parti? Se vai subito al fondo del percorso e definisci boicottaggio la decisione dei lavoratori di restare fedeli alla loro festa, lasci un'unica opzione: la resa o la resistenza. Se sarà resa, il Primo Maggio sarà un giorno triste, nonostante tutti gli squilli di tromba. Se sarà resistenza sarà un giorno caotico. In tutti e due i casi l’infelice decisione è di Renzi. Ma non ha un consigliere adulto questo ragazzo? Poi, ci ricorda il lettore, Renzi ha ammonito i concittadini a darsi da fare, con uno stentoreo richiamo lirico, il “nessun dorma” dalla Turandot di Puccini. Ma chi dorme, in un Paese in cui chiunque è pronto a tutto pur di avere un lavoro? È vero che Renzi ha la mania della corsa, che c’entra davvero poco con le cose ben fatte che sta promettendo. Ma nella costruzione dei vari padiglioni dell’Expo, chi andava di corsa erano solo mandanti e mandatari degli affari sporchi, provocando un gran da fare della magistratura e, adesso, del responsabile della lotta alla corruzione Cantone. Nessuno – fra i cittadini onesti – è stato con le mani in mano, ma ci è voluto del tempo per scremare (e trasferire in prigione) il peggio dalla capitale della regione che (ci aveva giurato Maroni in apposita e imposta trasmissione televisiva) è del tutto libera da ‘ndrangheta, camorra e mafia. Al tempo di questa affermazione Maroni era ministro dell’Interno (un posto nel quale sai tutto). Poi, per questo merito speciale, è diventato presidente della Lombardia e garante dell’Expo. Dunque tranquilli. Infine, tornando a Renzi: conviene annunciare con tutta quell’enfasi e così in anticipo “l’anno felice per l’Italia” (quale altro Paese del mondo si azzarderebbe a farlo?) invece di offrire, centimetro per centimetro, un po’ di felicità, a mano a mano che arriva, se arriva?

Repubblica 14.2.15
Due pessimi precedenti
Cambiare la Costituzione senza almeno una parte della minoranza espone il sistema a un rischio: poter modificare in solitudine le regole
di Claudio Tito


LE AGGHIACCIANTI immagini che ieri l’aula di Montecitorio ha offerto di se stessa vanno esaminate su due piani diversi. Quello della corretta funzionalità democratica e quello della tattica politica. È evidente che un Parlamento sostanzialmente dimezzato, privo della presenza indispensabile dell’opposizione non può che suscitare una sensazione di disagio. Di allarme. Soprattutto se le questioni di cui si discute sono vitali in un qualsiasi sistema istituzionale.
CAMBIARE la Costituzione senza il minimo coinvolgimento almeno di una parte della minoranza, espone il sistema nel suo complesso ad un pessimo precedente: quello di poter cambiare in solitudine le regole fondamentali della convivenza civile. Un’arma formidabile e terribile se messa nelle mani di una eventuale futura maggioranza con profili non rassicuranti, come è già accaduto nel nostro Paese.
Chi esercita la leadership politica, come Matteo Renzi, ha allora l’obbligo di farsi carico anche di queste preoccupazioni. Deve compiere uno sforzo in più. Avere la consapevolezza che il suo ruolo comporta un impegno ulteriore: quello di evitare strappi nel tessuto democratico di questo Paese, di rendere compatibili le riforme con il percorso parlamentare. Guidare il governo e una maggioranza non esime dal compito di provare a tutelare la fisiologia della democrazia. Anzi, chi ha ricevuto oltre il 40% di voti alle ultime elezioni dovrebbe sentirsi naturalmente incaricato di svolgere una funzione di armonizzazione e composizione delle esigenze istituzionali.
Anche perché, prima di questo strano Aventino, quella stessa aula che ieri sera si era presentata semideserta, poco prima era stata brutalizzata con una sequenza indegna di risse e violenze che espongono il Parlamento nel suo complesso ad una figuraccia. Scene che fanno tornare in mente episodi già visti in Paesi non proprio affidabili dal punto di vista della tenuta democratica. Chi siede su quegli scranni ha il dovere di non esporre al ridicolo l’Italia dinanzi all’opinione pubblica interna e internazionale.
Poi, però, c’è il secondo aspetto. Che concerne le scelte dei partiti. È chiaro che quanto sta avvenendo è l’effetto dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Ma la decisione di Forza Italia di non votare e anzi bollare come antidemocratiche le stesse riforme che solo pochi mesi fa aveva accettato al Senato, è quantomeno incoerente. Evidentemente il merito di questi provvedimenti non ha più alcuna importanza. L’obiettivo è cambiato: è far cadere il governo. Le modalità con cui si è data vita alla contestazione ne sono la conferma. A parte la lampante contraddittorietà di Berlusconi, la decisione di tutte le forze politiche dell’opposizione — da Forza Italia, appunto, al Movimento 5Stelle — di mettersi insieme contro il Pd assomiglia ad una specie di Milazzismo di ritorno. A un singolare ircocervo che prende vita in modo estemporaneo nell’individuazione di un obiettivo di breve durata. L’ex Cavaliere, Beppe Grillo e Nichi Vendola non possono avere in comune nulla se non la prospettiva di provocare la crisi dell’esecutivo Renzi. Quei tre partiti non condividono niente altro. Costituiscono l’insieme dei contrari. Non è un caso che questa volta il Pd si sia mostrato sostanzialmente unito in questo passaggio.
Per gli stessi motivi è ridicolo rievocare l’Aventino antifascista del 1924. Anche perché il metodo adottato in questi giorni da alcune delle forze politiche d’opposizione, come i grillini, puntava in primo luogo a impedire la discussione più che a correggere le riforme. Le quali, peraltro, rappresentano ormai una necessità conclamata. Richiamata più e più volte, ad esempio, dall’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Anche e soprattutto per quanto riguarda l’addio al bicameralismo perfetto. Che costituisce ormai un unicum nel panorama delle democrazie mature. Tutti, maggioranza e opposizione, dovrebbero allora tornare a discutere nel merito. Se ne hanno la forza.

Repubblica 14.2.15
Tutti i rischi della strategia del plebiscito
Il referendum confermativo è diventato per Renzi un’arma politica: ma a doppio taglio
di Stefano Folli


RIFORMARE la Costituzione come se si trattasse di convertire un decreto legge entro 60 giorni. Si può fare, non è illegittimo: ma le conseguenze politiche rischiano di essere pesanti. Si può anche sostenere che alla seduta fiume non c’era alternativa e che l’ostruzionismo non mira a correggere in qualche punto la riforma, ma solo a insabbiarla. C’è del vero anche in questo argomento, ma non si sfugge alla sensazione che a Montecitorio sia mancata una regìa lungimirante. Forse la regìa è mancata del tutto. Qualcuno ha sottovalutato il carico di tensioni che la vicenda del Quirinale aveva accumulato nelle aule parlamentari. Misconoscere il peso della psicologia nei comportamenti politici non è mai una scelta felice. Il partito berlusconiano, come è noto, si è sentito raggirato e ha imboccato la strada della vendetta, contraddicendo se stesso e tutte le sue opzioni precedenti. Forse occorreva da parte del governo renziano una maggiore capacità di smussare gli angoli, prendendo atto della realtà. In fondo il patto del Nazareno, al di là della fantapolitica, ha rappresentato una tregua politica durata circa un anno; una tregua da cui il presidente del Consiglio ha tratto significativi benefici.
Certo, nel momento in cui il castello di carte crolla, il danno peggiore è per Berlusconi, trascinato dalla corrente su posizioni poco condivise in passato, mentre il palcoscenico è occupato dalla strana alleanza fra l’intransigente Brunetta, il leghista Salvini e persino il Sel vendoliano. Tuttavia sulla carta c’è un danno anche per Renzi. L’aver ridotto la riforma della Costituzione a una questione meramente numerica, gli darà la vittoria alla Camera e forse anche al Senato, nonostante i seggi più esigui. Eppure un Parlamento lacerato e in qualche misura mortificato rappresenta un segnale non positivo per un governo che si propone, almeno a parole, un orizzonte di legislatura. La minoranza del Pd, salvo le solite eccezioni, si adegua per mancanza di alternative, ma è destinata a diventare sempre più un corpo estraneo carico di risentimento.
Di questo il premier Renzi è consapevole e tuttavia non sembra curarsene. La sua filosofia è tutta in quella frase: «non mi sono fatto ricattare da Berlusconi sul Quirinale e non mi faccio ricattare da altri sulla riforma». Gli altri sono soprattutto i Cinque Stelle, è ovvio, ma il sottinteso riguarda senza dubbio la minoranza del suo stesso partito. Alla quale non ha motivo di fare concessioni, se proprio non vi è costretto. In fondo il renzismo è come un’auto che possiede soltanto la quarta marcia con freni poco efficienti: può solo correre. E un Parlamento frantumato fa meno paura, se si ritiene di avere dietro un ampio segmento di opinione pubblica.
C’è un’altra frase chiave del premier che spiega bene le sue intenzioni: «alla fine la riforma sarà sottoposta a referendum e lì si vedrà». Ecco il punto: nella strategia renziana il referendum confermativo previsto dalla Costituzione si trasforma in un’arma da usare sul piano politico. Le risse in Parlamento verranno cancellate dal ricorso al popolo. E sarà lui, il presidente del Consiglio in questo caso discepolo di De Gaulle, che ne ricaverà il dividendo. Nessuno crede infatti che la riforma del Senato o del Titolo V possano essere bocciate. Saranno approvate con una soglia per forza di cose superiore al 50 per cento dei votanti.
Dal 40,8 delle regionali al 55-60 prevedibile del referendum... È un’operazione plebiscitaria che può essere interrotta dalle elezioni anticipate. Difficile che Renzi gradisca sul serio — al di là delle minacce — un’ipotesi che al momento obbligherebbe a votare con la legge proporzionale scritta dalla Consulta. Ma all’occorrenza saprebbe gestire la campagna con la stessa foga di chi cerca comunque un referendum su se stesso. In altri tempi queste spinte al plebiscito fuori del Parlamento avrebbero incontrato la feroce opposizione della sinistra cattolica e degli ex comunisti all’interno del Pd. Ma i tempi sono cambiati e molti pensano a recuperare un posto in lista per tornare in Parlamento.

Il Sole 14.2.15
La parodia dell’Aventino e la sindrome di Napoleone
di Paolo Pombeni


Si può capire che parlare di “interesse nazionale” suoni di questi tempi come fuori moda, ma ciò non toglie che l’interesse nazionale esista e che quel che sta accadendo nel parlamento italiano non ne tenga minimamente conto. Difficile configurare in maniera diversa eventi che non solo appartengono al peggior repertorio degli scontri parlamentari (e sin qui passi), ma che avvengono in un momento molto delicato. Diciamolo con chiarezza. Berlusconi che fa scatenare i suoi a boicottare riforme che sino a ieri aveva tranquillamente sostenuto è abbastanza patetico. Però anche Renzi che si fa prendere dalla sindrome di Napoleone, cioè di quello che a dispetto di tutto deve passare di vittoria in vittoria (e si dovrebbe sapere come allora andò a finire) non è che ci faccia una figura da statista.
I parlamentari che si azzuffano, che mettono in scena una parodia dell'Aventino, che si sprecano a denunciare derive dittatoriali che vedono solo loro, fanno il paio con un premier che si è intestardito a voler dimostrare che l’unico modo di vincere è quello del leader supremo che annienta gli avversari.
Il contorno è quello di troppi politici che cercano la sceneggiata, le frasi sopra le righe, illusi che la gente apprezzi molto queste esibizioni muscolari. Invece la gente guarda le notizie e si preoccupa. Il giorno in cui sembra che l’Isis si stia conquistando stabilmente un altro pezzo strategico della Libia, in cui l’annuncio della tregua imminente in Ucraina serve solo alle parti in lotta per strapparsi qualche pezzo di territorio in più alla faccia delle vittime civili nelle ultime ore disponibili per le azioni militari, immaginarsi che il nostro paese possa dare impunemente al mondo questa immagine di scontri tutti intestini alle varie fazioni politiche è davvero incredibile.
Coloro che guardano con un minimo di distacco alla situazione internazionale ed a quella europea sanno bene che in una fase di emergenza come questa ad inquietare moltissimo è l’instabilità politica e la scarsa ragionevolezza con cui si riescono a fronteggiare le continue avanzate delle forze populiste. Si sa con quanta preoccupazione si guardi alle future prove elettorali in Spagna con l’avanzata di “Podemos” che incombe; si sa quanto le prossime prove delle urne in Gran Bretagna suscitino interrogativi per i venti che gonfiano le vele del partito di Farange; si sa quante riserve ci siano per i successi del Front National in Francia. Aggiungiamoci che persino la Merkel ha dovuto rivedere i suoi convincimenti rigoristi nei confronti della Grecia nel timore che una uscita traumatica di questa dall'euro giocasse a rovescio a favore degli anti-euro di “Alternative für Deutschland”.
In un quadro del genere l'Italia si era guadagnata un credito con la gestione oculata del passaggio di testimone al Quirinale. Una operazione certo non senza scontro politico, ma tutto sommato rimasta nei binari di un confronto parlamentare ordinato, con l’esito dell’elezione di un personaggio di alta levatura, garante degli equilibri costituzionali.
Questo credito viene vanificato da uno scontro che francamente non ha né capo né coda. Da un lato si mettono in discussione accordi che si erano raggiunti, neppure troppo faticosamente, su un ordito che complessivamente veniva giudicato largamente accettabile dall’opinione pubblica degli addetti ai lavori (e anche da un pubblico più largo). Dal lato opposto sembra invece che più che la sostanza del nuovo impianto interessi il “modo” in cui lo si può far passare, come se l’unica questione importante fosse raggiungere la meta nel minor tempo possibile. E qui non si capisce che qualche giorno in più rispetto alle scadenze fissate nella speranza di mostrarsi “supereroi” non sarebbe stato di scandalo per nessuno.
Era troppo facile in questo contesto che le forze della provocazione trovassero spazio per far passare il respingimento delle pretese di ciascuno (che spesso suonano davvero come dei “capricci identitari” più che come delle proposte alternative) come un attentato alla democrazia.
La situazione è troppo delicata tanto sul piano internazionale quanto avendo a mente il fragile avvio di una ripresa economica perché si possa considerare quanto sta succedendo come un fisiologico ribollire di dialettiche esasperate.
È un modo irresponsabile di indebolire le possibilità dell’Italia di giocarsi in maniera efficace la propria partita su entrambi questi fronti.
L’opposizione e la maggioranza devono sapere di essere corresponsabili del destino del paese in un momento tanto delicato. Non è buonismo, né utopia: sono le regole della politica con la P maiuscola.

La Stampa 14.2.15
La “terza maggioranza” non esiste più, il Pd si spacca
Parlamento balcanizzato. Già finita la pax quirinalizia
di Federico Geremicca


E meno male che l’arbitro aveva chiesto una mano ai giocatori... Invece, nemmeno il tempo di insediarsi, ed ecco Sergio Mattarella alle prese con una delle più dure battaglie campali che il Parlamento ricordi, in epoca recente. Una battaglia che sta mandando definitivamente al macero non solo le speranze di una possibile pax interna al Pd, ma la stessa cosiddetta «terza maggioranza» appena formatasi proprio intorno al nome (e all’elezione) del nuovo Presidente della Repubblica.
Lo scontro è totale, e facilmente leggibile nella sua semplicità: come da dodici mesi a questa parte, è di nuovo Renzi contro tutti. Anche lo schema che il premier prova ad imporre è quello di sempre: il fare contro il frenare. Solo che stavolta c’è di mezzo la riscrittura della Costituzione e quella filosofia - le riforme vanno fatte con tutti - che proprio Renzi aveva eletto a base teorica del cosiddetto Patto del Nazareno. Una contraddizione non da poco. Che sommata ai dietro-front di Forza Italia (dal co-protagonismo sulle Grandi Riforme agli allarmi sulle svolte autoritarie) trasforma il tutto in un pasticcio incomprensibile.
Incomprensibile ma pericoloso. E’ l’avvertimento che a sera - ma chissà con quanta speranza - lancia Pier Luigi Bersani di fronte a Renzi e all’assemblea dei deputati Pd: «Se il governo pretende di avere il dominio, poi finisce in rissa...». Né meno preoccupata è Rosy Bindi che pure - dopo l’elezione di Mattarella - ha ripreso qualche forma di contatto col premier-segretario. «Gli scrivo quello che penso, avanzo qualche suggerimento... Abbiamo già disintegrato - dice - la maggioranza con la quale abbiamo eletto il Capo dello Stato. Almeno Sel andrebbe recuperata... E Renzi non può rispondermi ogni volta che o si approva nei tempi fissati la riforma del Senato o si dimette e ci porta alle elezioni...».
Tutti insieme
Fa impressione, quando è ormai quasi ora di pranzo, vedere i capigruppo dell’opposizione (M5S escluso) annuciare, gomito a gomito, l’Aventino, cioè l’abbandono dei lavori e dell’aula. Brunetta, fino a ieri strenuo difensore dell’intesa col Pd sulle riforme, annuncia che «a Renzi e al Pd gli faremo vedere i sorci verdi». Scotto capogruppo di Sel annuisce, la Lega gongola, il partito di Meloni e la Russa pure...
Qualcosa non torna, in tutta evidenza. Renzi avvisa: «Non mi sono fatto ricattare da Berlusconi sul Quirinale, non mi farò ricattare da Grillo sulle riforme».
Ma la minoranza Pd è di nuovo sul piede di guerra, Fassina e Civati annunciano il loro non voto alla riforma, e la resa dei conti che sembrava esser stata allontanata dall’elezione di Mattarella torna ad apparire inevitabile. A sera i deputati del Pd tornano faccia a faccia col premier-segretario alla ricerca di una via d’uscita. Si tenta di individuare un percorso che permetta almeno il ritorno in aula degli uomini di Vendola: ma è un sentiero stretto, troppo stretto...
Avanti
Renzi, del resto, ripropone il suo schema. «L’obiettivo vero è dare un colpo al governo - ripete per tutto il giorno - sono mesi che discutiamo e ora è il tempo di votare. Non ci faremo bloccare nella palude, poi saranno gli italiani a decidere col referendum se stare con noi o col Comitato del no, cioè con Brunetta, Salvini e Grillo». Due diritti contro, insomma: quello a decidere ed a legiferare, invocata da Renzi e dalla sua maggioranza nel Pd; e quello a discutere ancora ed a varare la riforma del bicameralismo perfetto in un clima che ricordi, anche solo da lontano, un confronto politico civile, così per dire.
Il macigno
Come da mesi a questa parte, però, il vero macigno che separa Renzi dal resto del mondo è l’assoluta e reciproca mancanza di fiducia (fenomeno che ha raggiunto l’apice proprio con l’elezione di Mattarella e la rottura del Patto del Nazareno): il premier è convinto che Forza Italia e Cinque Stelle forzino i toni solo per frenarlo e per occultare la loro crisi; gli altri, al contrario, sono convinti che a Renzi della riforma importi poco o nulla e che il punto sia solo trasmettere agli italiani l’immagine di un premier che non si ferma e che decide.
I numeri
E la giornata si chiude così: si va avanti, accada quel che accada. Gli uomini della minoranza pd hanno la faccia scura, Renzi sembra soddisfatto e certo della via intrapresa. Si rigira tra le mani gli ultimi sondaggi, che lo danno in forte risalita nella fiducia degli italiani. Numeri branditi come una clava. Il tempo del ramoscello d’ulivo verrà, se mai verrà...

Il Sole 14.2.15
Riforme istituzionali
Renzi striglia il Pd: avanti fino alla fine
Partito diviso ma solo Civati e Fassina non votano - Bersani: se il governo vuole il dominio finisce in rissa
di Emilia Patta


ROMA «Abbiamo cercato una mediazione in tutte le sedi. Ora siamo a un bivio. Noi andiamo avanti, abbiamo una responsabilità enorme. C’è un derby tra chi vuole cambiare l’Italia e chi vuole rallentare il cambiamento». E ancora: «Io non mi faccio ricattare né prendere in giro da nessuno, non mi sono lasciato condizionare da Berlusconi e non mi lascerò certo condizionare da Grillo. Stanno giocando la partita politica della legislatura piuttosto che occuparsi del merito, altro che riforme, c’è un tentativo di bloccare il governo».
Matteo Renzi arriva alla Camera di ritorno da Bruxelles in piena seduta-fiume notturna per sostenere i suoi mentre le opposizioni mettono in scena ogni forma di ostruzionismo. Poi riunisce due volte il gruppo del Pd, all’ora di pranzo e all’ora di cena, per dettare la linea («non ci fermeranno») e per chiedere l’unità interna. Indietro non si torna, per il premier. L’alternativa alle riforme è di fatto il voto anticipato, come sembra abbia detto lui stesso nella notte avvicinandosi ai banchi dei deputati di Fi. La stessa Fi che al Senato ha votato convintamente lo stesso Ddl Boschi che ora respinge. «Sono mesi che le riforme sono bloccate alla Camera, e se questa Camera non riesce a votare le riforme prendo atto che la legislatura è finita e si va a votare, a me va benissimo», avrebbe detto Renzi ai suoi interlocutori azzurri.
Ma certo la rissa notturna di ieri, con tanto di botte e feriti, e lo spettacolo serale di una riforma costituzionale approvata con metà emiciclo vuoto non sono belle immagini. L’Aventino delle opposizioni sulle riforme crea certo qualche imbarazzo al premier, che ha sempre detto di voler fare le riforme con il consenso più ampio possibile e che per questo aveva stretto il patto del Nazareno con il leader di Fi. Ma la litigiosità che emerge da Montecitorio, con il conseguente rischio pantano, spingono ancora di più Renzi a pigiare sull’acceleratore e a non concedere niente. Neanche quell’accantonamento dell’articolo 15 chiesto da Sel e M5S sul quale pure c’era stata apertura da parte della ministra per le Riforme Maria Elena Boschi. Avanti fino alla fine degli emendamenti, con il via libera nella nottata di oggi. Solo il voto finale resterà per la prima decade di marzo.
«Non vedo nessun motivo politico per interrompere la seduta fiume - dice ai suoi deputati nuovamente riuniti in serata - cerchiamo di ascoltare e ricoinvolgere le opposizioni, ma intanto andiamo avanti». Con la mediazione del capogruppo Roberto Speranza si evita il voto all’interno del gruppo: «La minoranza - fa sapere Speranza, che è anche il punto di riferimento di Area riformista - ha sottolineato in assemblea il proprio punto di vista non coincidente con quello di Renzi sul modo di procedere nell’approvare il testo, ma in Aula si comporterà e voterà rispettando la decisione assunta dal gruppo». Alla fine voteranno tutti o quasi, a parte Stefano Fassina e Pippo Civati che non parteciperanno al voto pur restando in Aula. Financo il bersaniano “radicale” Alfredo D’Attorre si acconciava a fine serata, con un pizzico di autoironia, «a pigiare bottoni».
Certo, il disagio e l’amarezza per il metodo sprint del premier-segretario resta dentro il Pd. In molti durante la giornata, a partire da Gianni Cuperlo, avevano chiesto una pausa di riflessione per tentare di ricucire con l’opposizione ed evitare lo spettacolo dei banchi vuoti. Ed è lo stesso Pier Luigi Bersani, in assemblea, ad esplicitare il punto di vista “non coincidente”: «Se il governo pretende di avere il dominio, poi finisce in rissa...». Ma Renzi va dritto, anche contro una parte del suo partito: «C’è chi vuole l’eterno ritorno della palude - si sfoga con i suoi -si attaccano a tutto per frenarmi: gli stessi che mi contestavano che facevo le riforme con Berlusconi, ora mi criticano perché vado avanti senza l’opposizione. Non ho mai visto tanti nostalgici del Nazareno come stasera». Sulle riforme, ribadisce il premier, decideranno gli italiani con il referendum: «Vedremo se la gente starà con noi o con il comitato del no guidato da Brunetta, Salvini e Grillo».

il manifesto 14.2.13
Costituzione, la metà basta
Camera. Opposizioni fuori dall’aula, Pd e alleati votano da soli la riforma
Per Renzi «non è un problema». Per il suo partito solo un po’
L’«Aventino» al posto dell’ostruzionismo è la scelta della disperazione
Tra i dissidenti nessuno trova il coraggio di far mancare il numero legale
di Andrea Fabozzi

qui

Corriere 14.2.15
«La Carta non si cambia da soli. Bisogna ricucire con FI e gli altri»
Cuperlo: il segretario ha sempre detto che si scrivono insieme
intervista di Alessandro Trocino


ROMA Stefano Fassina e Pippo Civati sono usciti dall’Aula. Il deputato della minoranza pd Gianni Cuperlo è rimasto, ma specificando che «sarebbe una sconfitta grave fare le riforme con l’emiciclo semivuoto».
Renzi dice: non mi faccio ricattare. E va avanti a testa bassa. Ha ragione?
«Lui per primo ha sempre detto che le riforme si scrivono assieme e non per una questione di bon ton ma perché regole condivise rendono la democrazia più solida. La penso così anch’io».
L’uscita delle opposizioni determina una situazione nuova? La riforma passerà senza l’opposizione?
«Mi auguro e lavorerò fino all’ultimo perché non accada. Cambiare 40 articoli della Costituzione con metà dell’emiciclo disertata sarebbe una sconfitta per tutti. Bisogna fare ogni sforzo per evitarlo».
Come giudica la scelta di Fassino e Civati di andarsene?
«Rispetto le scelte di ciascuno. Io assieme ad altri sono rimasto in Aula e da lì ho rivolto un appello alla presidente Boldrini per una pausa che consentisse di fermare un treno finito su un binario sbagliato».
Dopo la rottura del patto del Nazareno, bisognava cambiare alleanze?
«Bisogna prendere atto che il quadro è mutato. Per mesi si è detto che quell’accordo impediva ogni cambiamento che non fosse concordato con Forza Italia. Saltato quell’accordo ci sono gli spazi per migliorare quel che è giusto migliorare coinvolgendo nel percorso costituente anche altre forze».
Bisognava provare a recuperare i 5 Stelle?
«L’ostruzionismo è una tattica parlamentare, però quando impedisci la libertà di parola o di voto, lo strappo non è con il regolamento della Camera ma con un’etica della democrazia. Detto ciò, sono una forza che è giusto coinvolgere e portare al confronto di merito».
Per questo lei ha chiesto di accogliere la richiesta dei 5 Stelle di votare a marzo l’articolo 15, sul referendum propositivo?
«Sì. Hanno avanzato una richiesta e accogliendola li avremmo coinvolti nel percorso. Io non condivido la loro soluzione su referendum e quorum ma quella era la via per verificare nel confronto lo spirito di un movimento che esprime oltre cento deputati. Ed era anche la via per disinnescare la minaccia di un Aventino».
Dopo la rottura, lei si aspettava da Renzi un’apertura alle proposte della minoranza del partito?
«Ma a me non importa nulla di maggioranza e minoranza dentro il Pd. Io penso che le riforme vadano fatte e che sia decisivo farle coinvolgendo un campo più ampio del nostro. Se punti a questo, devi ricucire il filo con Forza Italia e insieme parlare con Sel, Lega e le forze minori di entrambi gli schieramenti».
La pausa tecnica dei lavori, da lei richiesta, è stata respinta dalla Boldrini. La domanda non la doveva fare al leader del suo partito, visto che era una questione interna al Pd?
«E infatti l’ho chiesto, informando il presidente del mio gruppo, che quell’esigenza ha mostrato di condividere. Ma era la presidente della Camera la sola abilitata a decidere. Vede, tra i miei mille difetti c’è anche quello di essere troppo uomo di partito, non l’opposto. Ma qui è in gioco un precedente destinato a esserci rinfacciato per un tempo lungo e che potrebbe, prima o poi, diventare lo scudo per eventuali manomissioni della Carta».
Condivide l’appello delle opposizioni al presidente della Repubblica?
«Ognuno assume le iniziative che ritiene. Quello che so è che il capo dello Stato ha tutta la saggezza per giudicare».
Se non si ottenesse un rinvio, voterà la riforma?
«Il voto finale è previsto a marzo e prima di allora io lavoro perché sia una riforma seria e condivisa. Riuscirci è anche nell’interesse del premier e lui ha verificato solo una settimana fa la nostra lealtà nei passaggi decisivi per il Paese».

Repubblica 14.2.15
Fassina, minoranza Pd
“Dovevamo fermarci e trovare un accordo con gli altri partiti”
intervista di Alberto Custodero


ROMA Stefano Fassina, sale sull’Aventino?
«Non è un Aventino, ma il tentativo di affrontare il grave problema politico dell’uscita di tutte le opposizioni».
Si considera all’opposizione anche lei?
«Voglio rimanere coerente ai principi costituzionali».
Che c’entrano i principi costituzionali?
«Abbiamo iniziato l’iter delle riforme riconoscendo l’errore del centrosinistra nel 2001, e poi del centro destra nel 2006, nella scrittura unilaterale della costituzione. Di fronte al rischio di ripetere oggi questo errore, avremmo dovuto sospendere i lavori, cercare un dialogo con le opposizioni. E poi ripartire».
Renzi ha detto che questo era solo un pretesto per attaccare il governo, per creare una palude.
«Ma io ho chiesto di sospendere qualche ora, qualche giorno, non di rinunciare all’obiettivo. L’azione di governo, di fronte agli atteggiamenti ostruzionistici, a tratti squadristi del M5S, può andare avanti con le forzature dei regolamenti d’aula e i colpi di fiducia. Ma la riscrittura delle regole del gioco non può essere fatta come se fosse un decreto fiscale o sul lavoro».
Renzi ha detto che se non si votano le riforme, si va al voto.
«Non raccolgo le minacce. Le riforme costituzionali non si possono fare sotto il condizionamento di uno show down della legislatura. Ci sono principi di fondo che anche il premier deve rispettare».
Insomma, lei era un sostenitore del Patto del Nazareno.
«Quell’accordo era una gabbia che ha pesantemente ristretto la dialettica parlamentare, oltre che la sintesi nel Pd. È stata positiva la rottura. Tuttavia, dopo aver imposto come condizione necessaria la convergenza larga sulle riforme, non si può andare avanti come nulla fosse di fronte all’abbandono dell’aula da parte di tutte le opposizioni».
Il presidente della Repubblica aveva auspicato «un aiuto dei giocatori con la loro correttezza». Di fronte a questa bagarre, cosa penserà Mattarella?
«Colgo una contraddizione tra gli applausi pd a Mattarella che auspicava convergenza sulle riforme costituzionali, e un comportamento parlamentare nostro incapace di riconoscere la drammaticità di quanto accaduto».
Come uscirà da questa impasse?
«Spero che, durante un chiarimento al gruppo, la posizione di alcuni di noi non venga considerata un capriccio. Ma accolta come il contributo a rivedere la scelta di andare avanti da soli».

il Fatto 14.2.15
L’offerta agli ex M5S: “Venite in Scelta civica e avrete più soldi”
di Carlo Tecce


IL BLOG DI GRILLO PUBBLICA UN DIALOGO RUBATO TRA RABINO (SC) E LA TRANSFUGA MARA MUCCI: “50 MILA EURO AL MESE”

Mariano Rabino, bancario di professione e deputato di Scelta Civica, ingolla un caffè: “Voglio ammazzare il Papa. Senti com’è facile? ”. Che vuol dire, Rabino? “Scherzo. Mi registri mentre pronuncio le tre parole in tre momenti diversi, poi le metti insieme e ne viene fuori una frase da matto. Questi sono i metodi di Beppe Grillo e dei suoi sodali in Parlamento”.
È accaduto che il sito di Grillo ha pubblicato un dialogo, rubato sui banchi della Camera, fra Rabino e Mara Mucci, ex Cinque Stelle, ora nel gruppo misto sotto l’insegna “Alternativa Libera”. Rabino proponeva a Mucci di traghettare la truppa di ex M5S dentro Scelta Civica e poi ottenere, come prevede il regolamento, circa 50.000 euro al mese per le spese organizzative di Al. Per illustrare i benefici di un eventuale matrimonio politico, Rabino faceva riferimento all’ingaggio di 6-7 collaboratori.
CHIUSA L’ISTRUTTORIA in Rete, il Movimento ha sentenziato che il denaro induce a sostenere la maggioranza di Matteo Renzi poiché quel che rimane di Scelta Civica non abbandona il governo e cerca di ammaliare i transfughi. Mucci ha negato, rettificato e, in un paio di occasioni, esposto la controffensiva in aula. Poi il presidente Laura Boldrini l’ha interrotta perché fuori tema. Mucci ha precisato: “Come avevamo denunciato dopo la nostra uscita dal M5S siamo dinanzi a metodi di stampo fascista. Non c’è stata nessuna compravendita tra le parti, non ho mai accettato nessuna offerta, che tra parentesi non è stata mai fatta. Farò valere le mie ragioni in tutte le sedi opportune, comprese le vie legali”. Durante una frenetica giornata fra Camera e telefonate, Rabino ha citato la polizia nazista Gestapo, invocato un’indagine interna e accusato i colleghi Cinque Stelle. La questione, oltre ai traslochi politici, riguarda il denaro: i fondi che i gruppi ricevono da palazzo di Montecitorio. I numeri 2013: 11,4 milioni di euro per il Partito democratico; 3,7 per il Movimento (2 spesi). Rabino fa una previsione a spanne mentre quantifica in 50.000 euro al mese (5.000 a deputato) il passaggio di Alternativa Libera in Scelta Civica. Va rammentato che per formare un gruppo sono necessari venti aderenti, e gli ex M5S sono a metà di una soglia non facile da raggiungere. Montecitorio è luogo di migrazioni, allora ogni sei mesi viene rivisto il finanziamento ai gruppi. Quando si verifica un andirivieni di oltre il 10% degli iscritti al gruppo, il finanziamento viene subito ricalibrato. I dieci di Alternativa Libera, per fare un esempio, valgono 400.000 in meno per le casse del M5S a Montecitorio. Così appare più semplice comprendere il ragionamento di Rabino, e soprattutto l’obiettivo di Scelta Civica. Rabino assicura che la corte agli ex M5S non sarà interrotta: “E perché mai? Io non mi devo vergognare, proprio io che ho proposto l’eliminazione dei vitalizi e vi ho rinunciato da consigliere regionale”. Il deputato di Scelta Civica si dice abituato agli audio pirata: “Mi hanno pizzicato in televisione mentre affermavo che sono venuto a fare politica a Roma perché ci sono un sacco di belle gnocche”. Pentito? “No, le belle gnocche ci sono davvero. Ma devo difendere il mio onore, vado a parlare in aula”. La Camera ha superato l’apoteosi del trasformismo? “Allude a quelli di Scelta Civica che sono passati nel Pd: non voglio esagerare, però mi domando perché non hanno lasciato le poltrone nel governo? Ci tengono ai posti di ministro e sottosegretari”.
MUCCI S’È BECCATA indicibili insulti in Rete (“vada al rogo”), e non fa domande sottili: “Adesso attivano la macchina del fango. Cari deputati dipendenti della ‘Casaleggio associati’ state esagerando, ma non ci fate paura. Non abbiamo nulla da nascondere. Anzi, gli unici che fanno politica per i soldi sono Grillo, che ha la residenza in Svizzera e Casaleggio, che sfrutta la pubblicità sul sito”. In Parlamento la resa dei (rendi) conti andrà messa all’ordine del giorno.

il Fatto 14.2.15
Imbarazzi di Stato
La ministra, il Congo e suor Patacca
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Quando scese dalla scaletta dell’aereo di Stato che tornava da Kinshasa con i capelli intrecciati da una bimba adottata, che aveva ricondotto in Italia insieme ad altri 30 bambini, Maria Elena Boschi l’aveva voluta accanto a lei, ripresa da tutte le tv: ma adesso si scopre che “suor Benedicta” – la religiosa congolese su cui il ministro conta molto per risolvere il braccio di ferro con il Congo che tiene con il fiato sospeso un centinaio di famiglie adottive italiane in attesa di accogliere i bimbi bloccati a Kinshasa – è una suora “irregolare” che ha commesso “gravi trasgressioni” per cui il suo Ordine francese ha preso le distanze da lei sin dal 1998, così come la Diocesi di Massa Marittima dove la religiosa s’è rifugiata. E, cosa anche più imbarazzante per il ministro, suor Benedicta viene accusata di avere gestito in modo disinvolto le adozioni in Congo mettendo a rischio le relazioni diplomatiche tra i due paesi: in un’occasione avrebbe tentato di spostare bambini da un orfanotrofio all’altro senza autorizzazione e il curatore giudiziario della sua associazione, Amamatu, ha dichiarato “di aver proseguito le adozioni a Kinshasa’’ e non più a Goma, sede di un Tribunale assai severo, “perché i 22 minori si configurano come pupilli dello Stato”.
L’ultimo mistero attorno al ministro Boschi sollevato da un’interpellanza dell’ on. Aldo Di Biagio (Area Popolare) investe la gestione delle adozioni internazionali affidata alla Cai, la commissione che dipende dalla Presidenza del Consiglio guidata dal’ex pm Silvia Della Monica, impegnata a sbloccare i trasferimenti dei bimbi dal Congo: “Sono rimasta in contatto con suor Benedicta, che gestisce uno degli orfanotrofi in Congo e altre realtà in Italia – aveva detto la Boschi in un’intervista a Famiglia Cristiana – anche perché stiamo seguendo i casi di altri bambini e di altre famiglie in attesa”. Ma chi è la suora? Nell’interpellanza presentata da Di Biagio si legge che suor Benedicta Sekamonyo Muiawimana “che oggi si presenta come appartenente alla Fraternità monastica delle suore di San Cerbone di Kinshasa, fece la professione religiosa nell’ordine delle cistercensi bernardine di Esquermes nel 1982, come si evince in una nota della Priora generale della Casa generale dell’Ordine con sede in Francia, indirizzata alla Diocesi di Massa Marittima di Grosseto”. “Nella stessa nota – aggiunge Di Biagio – la Priora generale fa riferimento a ‘gravi trasgressioni’ in capo alla suora congolese, a seguito delle quali le venne richiesto di lasciare l’ordine nel 1997. Dal 1998 la suora non avrebbe più contatti con la Casa generale pertanto la religiosa vivrebbe una situazione di irregolarità”.
SUL VOLO di Stato della Boschi, il 28 maggio scorso, suor Benedicta “era presente – come si legge sul sito della Cai – come referente dell’associazione “Cinque Pani”. Tra le più attive a gestire gli orfanotrofi in Congo, come la fondazione Raphael, protagonista di un episodio non chiarito: il trasferimento notturno il 29 dicembre scorso di 22 bambini, molti in pigiama, da un istituto all’altro, non autorizzato dalle autorità congolesi. Un episodio che non sarebbe isolato: “Risulta – scrive Di Biagio – che negli stessi giorni vi è stata una seconda richiesta di trasferimento: la coordinatrice dell’Associazione Femme et le Developpement (Fed) di Goma si è rifiutata di cedere alle “assillanti” richieste dell’associazione Amamatu asbl di Suor Benedicta, verosimilmente incaricata dalla Cai italiana, che pur non avendo alcun impegno o accordo con la Fed avrebbero richiesto di prelevare i minori”.

Corriere 14.2.15
Papà Boschi il banchiere, ponte con gli agricoltori
Chi è l’ex vicepresidente dell’Etruria, cattolico impegnato e riservato come la figlia ministro
di Marzio Fatucchi


Arezzo «E chi mi garantisce che siate più bravi di Rolando?». Nel 1992, nel Valdarno aretino, si vota a Montevarchi, Comune rosso che potrebbe essere conquistato da una lista indipendente (di centrodestra). Pier Luigi Boschi, all’epoca dirigente e punto di forza della Coldiretti, viene chiamato dai contendenti dello strapotere della sinistra di quel Comune per schierarsi contro il candidato Pds. Che si chiama Rolando Nannicini, appunto. Ma l’ex democristiano Pier Luigi Boschi non si fa tirare dentro: «Noi siamo apolitici». E soprattutto, «chi mi garantisce che siate più bravi di Rolando?». Chi era presente a quella riunione non fa fatica a vedere nelle parole dell’ex vicepresidente di Banca Etruria, commissariata due giorni fa da Bankitalia, quella nota di pragmatismo da Dc di provincia che si impara quando si cresce in un territorio praticamente tutto ostile, quella cultura del «vedere, capire, decidere» tipica della sua Laterina, per lungo tempo isola bianca nel mare della Toscana di sinistra. A 20 chilometri c’è Cavriglia, che nel dopoguerra si contendeva con Castelfiorentino e Lamporecchio le percentuali più alte d’Italia a favore del Pci. Laterina invece fu conquistata da un’alleanza Pci-Psi negli anni Settanta. È il Comune dove Boschi esercita la sua attività (è titolare di una importante azienda agricola, «Il Palagio») e dove comincia a fare politica. Un Comune che adesso è diventato famoso. Non grazie a lui, ma a sua figlia Maria Elena, front woman prima nel «gruppo di fuoco» tutto rosa (con Simona Bonafè e Sara Biagiotti) che sosteneva Matteo Renzi nelle primarie del 2012 contro Bersani, poi spalla del Rottamatore nella conduzione delle convention all’ex stazione fiorentina della Leopolda, infine ministro per le Riforme istituzionali.
Boschi padre adesso è stato commissariato, come tutto il consiglio. Fino a tre giorni fa lui era il vicepresidente. Un ruolo importante. Lui è il tramite con il mondo degli imprenditori agricoli, in una piccola-grande banca. Il suo arrivo nel cda è del 2009: un «golpe bianco» lo definirono in città. Da Elio Faralli, esponente di una ricca famiglia fiorentina il timone passò a Giuseppe Fornasari, storico deputato Dc più volte sottosegretario. Da banca «laica», molto vicina agli orafi - e secondo alcuni anche al mondo massonico: questa è comunque la patria di Licio Gelli - l’Etruria cominciò così a rivolgersi di più al mondo cattolico, alle imprese agricole, a quelle immobiliari. Tanto che a Fornasari successe Lorenzo Rosi, presidente della coop (rossa) edile Castelnuovese.
Boschi è protagonista di quel mondo «bianco». Ma pragmatico: tanto che Faralli resterà anche nel cda del dopo golpe. E forse, a creare l’equilibrio che sana la cesura - tanto che nel 2014 ci sarà una sola lista per il cda, nessuna di minoranza - ci si è messo anche Boschi. Un uomo in vista, considerato potente anche nella banca, anche se non ne era il vicario, ma silenzioso. Uno che non si tira indietro e che, racconta chi lo conosce bene, «sale sugli alberi per potarli». Tanto che cinque anni fa si fece due mesi d’ospedale perché cadde da una scala.
Nell’epoca delle guerre ideologiche sta come oppositore dentro l’associazione intercomunale del Valdarno, però non fa crociate; cerca soluzioni. Da dirigente della Coldiretti segue tutti i problemi degli associati, compresi gli espropri dei terreni dei contadini. E alla fine riesce a trovare spesso accordi con i Comuni, quasi sempre gestiti da avversari politici. Segue i produttori di giaggiolo di Pian di Scò e del Pratomagno, altro scrigno da tutelare. Ovviamente si occupa di olio, è presidente della locale Cantina sociale del Valdarno. Qui va di moda il rosso, ma lui resta bianco. Tanto bianco che, quando nasce la Margherita, all’inizio non aderisce e resta nel Ccd, per poi approdare tra i Democratici solo con Quarta fase. Tanto bianco che, nonostante la figlia renziana (non sempre: lei nel 2009 sostenne l’ex comunista Michele Ventura nelle primarie per il sindaco di Firenze vinte da Matteo), i renziani del Valdarno non è che lo vedano proprio bene. Qui i più pensano che se il commissariamento della banca è diventato un caso nazionale non è certo perché di mezzo c’era un ex presidente della Confcooperative aretina. A Laterina poi l’Etruria neppure c’è: l’unica filiale è del Montepaschi.

Repubblica 14.2.15
Prestiti facili, lotte massoniche e la crisi del distretto dell’oro così l’Etruria si è suicidata
La Boschi non era presente al Consiglio dei ministri che ha varato la riforma delle Popolari: ecco il verbale
Il padre vicepresidente fino al commissariamento
di Maurizio Bologni


FIRENZE Nero su bianco, Maria Elena Boschi assente. Il ministro delle riforme non ha partecipato al consiglio dei ministri del 20 gennaio, quello del via libera alla trasformazione in spa delle principali banche popolari. Lo certifica il verbale della seduta del Cdm visionato da Repubblica . Il documento pone fine ad almeno uno degli interrogativi circolati nelle ultime ore, col ministro sospettata di conflitto di interessi perché il padre, Pier Luigi Boschi, è stato vicepresidente di Banca Etruria fino al commissariamento di mercoledì scorso. L’istituto bancario di Arezzo — la cui trasformazione in spa era già stata decisa nell’agosto scorso ma che dopo il decreto del governo ha galoppato in Borsa molto più di tutte le altre popolari — mercoledì è stato sottoposto ad amministrazione straordinaria per decisione del Tesoro su raccomandazione di Bankitalia. A muovere ministero e vigilanza è stato il deficit patrimoniale della Banca, che ha superato il minimo prudenziale del 6% e che è conseguenza di un deterioramento del credito arrivato da lontano.
Il fatto è che alla piccola Banca di Arezzo piaceva giocare le partite importanti, stare dentro ai pool finanziari accanto ai colossi del credito. E poi sostenere gli amici vicini, ma anche quelli lontani, con moderata attenzione al merito creditizio e ai confini del territorio di riferimento. Così Elio Faralli, per trent’anni presidente, dominus ed espressione dell’anima laico- massonica dell’istituto, fratello di Grand’Oriente d’Italia, aveva costruito la forza di Banca Etruria ai tempi della crescita economica. Dopo il 2009, quando convinsero Faralli a dimettersi, “l’anima cattolica” salita alla guida della banca, di cui faceva parte il vice presidente Pier Luigi Boschi, è stata travolta dai conti dell’istituto.
I prodromi della crisi e del commissariamento della Banca dell’oro sono qui.
Nella lotta di potere intestina, locale, tra i laici-massoni e i cattolici che incominciarono a prendere quota già all’inizio degli anni Novanta, dopo che l’Etruria si fuse con la Banca popolare dell’Alto Lazio, a forte presenza di andreottiani. E poi nel prestito facile, che a Banca Etruria sta costando 2,8 miliardi di credito deteriorato, più del 30% totale degli affidamenti, 500 milioni di perdite nel 2014, il commissariamento deciso questa settimana da Tesoro e Bankitalia.
Su come funzionassero certe cose a Banca Etruria lo spiega una norma del regolamento del consiglio di amministrazione in vigore fino al 2012. Uno qualsiasi dei 15 membri del board poteva ottenere, con una semplice firma, fino a 20 milioni di affidamenti per sé, per sue società, amici. «Almeno una decina di consiglieri ne hanno approfittato a piene mani e molti di quei soldi la Banca non li rivedrà più» sostiene Paolo Casalini, che anima il sito Informarezzo. it. I cittadini di Arezzo, oggi, mettono all’indice “inspiegabili” operazioni creditizie fuori territorio di riferimento, da Bergamo a Benevento e Avellino, e altre temerarie compiute negli anni passati. «Un pomeriggio, nel 2010 — racconta Casalini — Banca Eutruria concesse un finanziamento di 10 milioni di euro al Gruppo immobiliare Isoldi di Forlì, che la mattina dopo finì in amministrazione controllata».
Ma a minare la qualità del credito di Banca Etruria è stata, ovviamente e soprattutto, la crisi e economica. Il crollo della produzione dell’oro, che è scesa progressivamente per 15 anni consecutivi da oltre 500 a poco più di 80 tonnellate l’anno, ha messo in ginocchio il distretto industriale aretino, che conta su più di mille aziende e ottomila occupati diretti. Un colpo durissimo per l’Etruria che primeggia in Italia per quantità del prestito d’uso della materia prima all’industria orafa. E poi tanto, centinaia di milioni, Banca Etruria ha lasciato sul terreno delle grandi crisi di industrie, fallite, finite in concordato, smembrate. La lista è lunga e in molti casi chiama in causa imprese di soci e affidatari della Banca: dal gruppo di telecomunicazioni Eutelia della famiglia Landi al fornitore Telecom Ciet dell’ex presidente dell’Arezzo calcio Piero Mancini, dall’industria dell’oro Unoaerre che sta uscendo da concordato al brand delle cucine Del Tongo, dai prefabbricati Mabo della famiglia Falsini a catene di supermercati e costruttori edili.
La guida dei cattolici, subentrati a Faralli, non ha invertito il declino della Banca. Affidata prima alla presidenza all’ex Dc Giuseppe Fornasari, sottosegretario in un paio di governi Andreotti. E poi a quella di Lorenzo Rosi, presidente di una cooperativa di costruttori, affiancato da due vice presidente tra cui Boschi, il babbo del ministro, già funzionario di Coldiretti e amministratore di aziende agricole. Hanno detto no al matrimonio con la Popolare di Vicenza, deciso ad agosto la trasformazione in spa, firmato una settimana fa l’accordo coi sindacati su un’ipotesi di 410 esuberi su 1800 dipendenti. Ma, adesso, i conti in rosso della Banca li hanno fermati.

Corriere 14.2.15
In vendita la «Del Vecchio» banca boutique di Firenze
Carrai: io non c’entro
di Marco Gasperetti


FIRENZE Della vendita si è iniziato a parlare lo scorso anno, più o meno quando i primi guai di Banca Etruria sono iniziati ad affiorare dal quartiere generale di Arezzo. E per la piccola «Federico Del Vecchio», l’unica private banking di Firenze e cassaforte delle più importanti famiglie della città, sono arrivate almeno una quindicina di manifestazioni d’interesse. Alcuni gruppi nazionali e internazionali di media entità hanno bussato in via dei Banchi 5 per iniziare un’eventuale trattativa. Tra questi anche una cordata milanese «di derivazione bancaria» che ha chiesto a Giovanni Gentile, ex presidente della Del Vecchio, già alla guida degli industriali fiorentini e nipote del filosofo, di farsi portavoce. Richiesta accettata con tanto di riunione preliminare la scorsa settimana. Poi il commissariamento di Banca Etruria ha congelato ogni iniziativa, anche se il «gioiello fiorentino» gode ottima salute e non è stato coinvolto direttamente dal provvedimento di Palazzo Koch.
Indiscrezioni di fonte bancaria parlano anche di un incontro che i vertici della Del Vecchio avrebbero avuto pochi giorni fa con Marco Carrai, imprenditore, presidente dell’aeroporto di Firenze e molto vicino al premier Matteo Renzi. Carrai però smentisce: «Mi infilano sempre da ogni parte, ma io non ho fatto alcuna manifestazione d’interesse e non ho chiamato alcun advisor», ha detto ieri al Corriere.
La vendita sarebbe stata decisa da Etruria per cercare un po’ di liquidità. Varrebbe almeno 70 milioni. La Del Vecchio fa gola non solo per l’affidabilità, 125 anni di storia, finanziatore della Bellezza fiorentina (sostiene i musei Stibbert, del Bargello e dell’Accademia della Crusca), ma soprattutto per quella solida struttura del polo di wealth management, costruita in decenni di lavoro, che offre un servizio di consulenza patrimoniale e finanziaria di alto profilo.
Valori aggiunti della banca sono il trend in continua crescita della raccolta (+10%) e una liquidità garantita da un tier 1 attorno al 20%. Si dice, come aneddoto, che un buon cliente può chiedere un paio di milioni e riceverli in due giorni senza problemi. I cento dipendenti sono guidati da Claudio Salini, un presidente-manager già nella segreteria tecnica negli anni Ottanta del ministro del Tesoro Beniamino Andreatta ed ex responsabile della divisione mercati della Consob. Certo, il bilancio 2013 ha chiuso in rosso per 1,3 milioni e per il 2014 si parla di un piccolo deficit, ma nel 2015 potrebbe tornare in attivo.

il Sole 14.2.15
Le domande a Davide Serra
di Fabio Pavesi


Non ha comprato, anzi ha venduto. Titoli del Banco Popolare per una perdita secca di 21 milioni di euro. Quella vendita controversa fatta da Davide Serra nel pieno delle voci sul decreto Popolari pone molte domande.Servizio?pagina?8

Ha voluto mettere a tacere le illazioni, i coinvolgimenti, le speculazioni sul suo ruolo nella corsa a razzo delle Popolari. Lui, Davide Serra, il finanziere rampante, blasonato, noto per la sua vicinanza al premier Matteo Renzi, l’altro ieri ha preso carta e penna. E testualmente ha dichiarato di non aver comprato con i suoi fondi Algebris alcun titolo di banche popolari italiane tra il 1° e il 19 gennaio del 2015. Periodo in cui si sospettano da parte di Consob e Procura di Roma abusi di mercato e insider trading sui titoli delle Popolari. Ma una cosa l’ha fatta, Davide Serra: ha venduto 5,25 milioni di azioni del Banco popolare a un prezzo medio di 9,72 euro. Male per lui, dato che quei titoli erano stati comprati a marzo del 2014 sotto aumento di capitale del Banco popolare a un prezzo medio, dichiara Serra, di 13,76 euro. Basta una calcolatrice e il conto è fatto. L’operazione ha prodotto per Serra, ma soprattutto per gli investitori dei suoi fondi una perdita di 21,3 milioni di euro. In un giorno. Una perdita non da poco pari al 30% del capitale investito. Un’avventura costata cara a Serra.
Ma quell’operazione fa sorgere più di una domanda che senz’altro si saranno posti sia le Autorità di mercato che i suoi clienti: perché vendere? Perché vendere sapendo di incassare una perdita irrimediabile? E perché tanta fretta? Le circostanze infatti sia della perdita (non inevitabile se si tenevano i titoli in portafoglio) che dei tempi lanciano più di un interrogativo. Il primo. Serra con la sua Algebris non dice i giorni precisi in cui ha venduto, parla solo del periodo dal 1° al 19 gennaio. Ai prezzi medi di vendita si libera con ogni probabilità dei titoli a ridosso o meglio appena dopo che era uscita il 3 gennaio la primissima indiscrezione da parte dell’Ansa (quindi nota a tutti) dell’arrivo di una possibile riforma delle Popolari. Poi sono altri organi di stampa il 6 gennaio a rilanciare il progetto di un dossier di riforma delle Popolari. Insomma, le voci cominciano a farsi insistenti. Tutti sanno, anche l’investitore meno avveduto, che una notizia price sensitive di tale portata non può che avere l’effetto di far salire i titoli delle Popolari in Borsa. Ebbene, cosa fa il navigato finanziere Serra? Anziché aspettare gli sviluppi della notizia, fa il contrario di quello che farebbe qualunque normale investitore. Vende oltre 5 milioni di pezzi del Banco popolare. E li vende con i corsi dei titoli in discesa. Perdita assicurata, ma evitabile. Bastava attendere gli sviluppi degli eventi. Se la riforma si fosse rivelata un bluff c’era sempre tempo in seguito di liquidare la posizione. Con gli stessi effetti. Perdere per perdere, perché farlo a ridosso di una notizia che poteva, se si fosse materializzata, avere l’unico effetto di spingere all’insù le azioni? Cosa che puntualmente è avvenuta. Grazie all’approvazione del decreto il Banco popolare, insieme a tutto il comparto, ha messo le ali. Le stesse azioni vendute da Serra frettolosamente più o meno un mese fa, oggi sarebbero state liquidate con una perdita di soli 5 milioni, anziché 21 milioni.
Anche i grandi possono sbagliare, si dirà. Ma non si capisce l’urgenza dell’operazione. Quei 5 milioni di pezzi del Banco popolare sono un’infinitesima frazione del patrimonio gestito da Algebris con i suoi fondi che vale oltre 2 miliardi di euro. In genere un fondo vende quando ruota il portafoglio e c’è una plusvalenza da fare. Finché i titoli sono in minusvalenza qualsiasi gestore di fondi comuni tende a mantenere il titolo in portafoglio nella speranza che prima o poi recuperi valore. Davide Serra ha fatto il contrario di tutto ciò. Soprattutto vai in vendita se hai problemi di liquidità urgenti da risolvere. E allora puoi vendere anche in perdita se necessita capitale liquido. Per Serra a guardare le performance, i rendimenti cumulati e l’assetto patrimoniale dei suoi 5 fondi in distribuzione non si palesa nessun problema di riequilibrio di cassa. Tutti i fondi hanno rendimenti positivi dall’avvio della loro operatività. Ci sono state flessioni anche importanti, poi recuperate nel tempo. Nel caso del Banco popolare quel recupero non sarà mai possibile. Avranno chiamato i clienti dei fondi di Serra per chiedere qualche spiegazione su quei 21 milioni sacrificati senza ragione apparente?

Corriere 14.2.15
La difesa dei vip della lista Falciani Serra: «Avere un conto non è reato»

ROMA Reagiscono i chiamati in causa della cosiddetta «lista Falciani», sospettati di aver evaso il Fisco italiano. Sono molti i nomi famosi, pubblicati dal settimanale L’Espresso ma ciascuno ha una sua difesa. Qualcuno la prende con savoir faire. Davide Serra (Algebris) dice: «Avere un conto denunciato regolarmente presso una delle più grandi banche del mondo non è un reato». Eleonora Gardini: «La mia posizione presso Hsbc è stata sottoposta a verifica della Guardia di finanza già tra settembre e dicembre 2010. Il conto è stato chiuso nel corso dello stesso 2010». Furibondo invece Flavio Briatore: «È una cosa pazzesca, mi hanno affiancato a della gente che ha avuto problemi col Fisco italiano. Questo non lo accetto. Querelo tutti, anche gli imitatori», ha detto l’imprenditore che da vent’anni, dice, «lavoro e produco reddito all’estero, in Italia sono azionista di qualche società che paga regolarmente le tasse».

Repubblica 14.2.15
Primarie Pd nel caos ora spunta Cantone candidato presidente
L’ex magistrato è la carta per uscire dall’impasse De Luca: se è lui allora sono pronto a ritirarmi
di Conchita Sannino


NAPOLI È diventato simbolo dell’ultima soluzione, via d’uscita contro un’altra prevedibile implosione da primarie. Matteo Renzi ha avuto il primo riservatissimo colloquio con Raffaele Cantone sul tema elezioni regionali in Campania. Obiettivo: sondare, ed eventualmente pressare in via definitiva, la disponibilità dell’attuale capo dell’Anticorruzione ed ex pm napoletano ad assumere il ruolo di candidato “unitario” alla Regione. Un dialogo franco e cordiale, ma senza fumata bianca. Cantone, semplicemente, non ha intenzione di lasciare il lavoro all’Anticorruzione. «Non sarebbe serio - aveva detto in passato, e sembra lo abbia ripetuto - mollare tutto adesso, e cominciare un lavoro da governatore».
Intorno al carico di responsabilità e istanze che ormai investono l’Anac, l’ex pm ha organizzato un lavoro-monstre che riguarda i più importanti cantieri e progetti in corso nel paese. Nonostante questo, Renzi insiste: «Il tuo è l’unico nome che spingerebbe tutti i concorrenti a fare un passo indietro». Ergo: a far saltare le primarie dei veleni, consultazioni che il Pd campano ormai si appresterebbe a rinviare per la quarta volta pur di frenare la corsa di Vincenzo De Luca, ex sindaco ormai decaduto di Salerno che non vuol rinunciare alla competizione, in cui si misurano anche l’europarlamentare Pd ed ex assessore regionale bassoliniano, Andrea Cozzolino, e il deputato renziano Gennaro Migliore (ex Sel) - inizialmente proposto come soluzione terza -, oltre ai più recenti Marco Di Lello del Psi e Nello Di Nardo dell’Idv. Sfida che si ridurrebbe a un’altra muscolare resa dei conti, nonostante pesi su De Luca quella condanna in primo grado, di un mese fa, per abuso d’ufficio: che comporterebbe, pur nel caso di elezione alla poltrona di governatore, una sicura sospensione per effetto della legge Severino.
È la prospettiva di un drammatico deja-vu, il bis degli scontri sulle primarie delle amministrative napoletane del 2011, le stesse che spalancarono la strada a de Magistris, a spingere Renzi in persona a incalzare Cantone. Al quale, forse, non sfugge che il presidente del Consiglio con quel “sì” risolverebbe il rompicapo campano: a guidare l’Anac potrebbe arrivare infatti il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, pm antimafia che il premier avrebbe voluto come Ministro della Giustizia.
Il contatto diretto tra il premier e il magistrato risale a qualche giorno fa. Il nome dell’attuale presidente dell’Anac resta infatti l’unico di fronte al quale perfino lo scatenato De Luca è pronto a rinunciare. Forse, ragionano i diffidenti, perché sa che Cantone non accetterà mai? Il magistrato avrebbe comunque opposto anche al premier il suo tondo: «No, grazie». Secondo alcuni, non avrebbe mai smesso di chiedersi, in queste ore, da perfetto ex ragazzo di provincia preoccupato dalla coerenza delle scelte: ma che figura faremmo? E quale immagine daremmo delle priorità? Una regione, per quanto importante, è più rilevante del lavoro in Anticorruzione? Intanto lunedì, in direzione nazionale, potrebbe tornare il tema Campania. A nulla sono valsi gli inviti recapitati direttamente dal vicepresidente Guerini e dal sottosegretario Lotti a De Luca affinché si ritirasse. Per tutta risposta, oggi, in un cinema napoletano, l’aspirante governatore illustra al popolo Pd «le dieci idee da realizzare nei primi cento giorni di governo regionale».

Corriere 14.2.15
Madre si getta in mare con i figli
Morta bambina di 3 anni
La donna avrebbe tentato il suicidio entrando in acqua sulla spiaggia di Orrì,
in Ogliastra.
La figlia non è sopravvissuta al freddo, salvo il fratellino di 4 anni

qui

Repubblica 14.2.15
Milano. Le carte su Alexander e Martina
Sesso e potere, la verità sugli amanti dell’acido
di Carlo Verdelli


MILANO LA BUSSOLA di Giovanni Falcone era “ Follow the money”.
Per venire a capo della sciagurata banda dell’acido, si passa a “ Follow the sex”.

IL SESSO , il possesso, più le conseguenze estreme e insane di un amore. La scena dei delitti è la Milano che gira intorno alle scuole più titolate, dal liceo classico Parini all’università Bocconi, e alle discoteche di tendenza, tipo Il Divina, The Beach o the Club, dove si ritrovano gli aspiranti capoclasse dell’Italia futura, impegnati a scattarsi selfie, messaggiare compulsivi, scambiarsi senza troppi distinguo brividi erotici nei privé.
L’anno scorso, in questa replica digitale della Milano da bere, succedono quattro episodi, tra metà giugno e fine dicembre, che sulle prime sembrano scollegati e adesso molto meno. Se dimostrata, una serialità criminale senza precedenti. E con una donna, non un maschio, nella parte di chi sfregia: Martina Levato, 23 anni, studentessa modello, figlia unica di due insegnanti dell’hinterland. È in car- cere, insieme agli altri due attori variamente protagonisti: l’idolatrato fidanzato Alexander Boettcher, 30 anni, tedesco-italiano, ricco di famiglia e di selvaggio carisma, più un amico di lui, Andrea Magnani, complice e servitore nelle varie azioni. Ma chi tirava i fili tra Martina e Alexander? Chi il burattinaio e chi il burattino? E fino a che punto Magnani è solo un comprimario inconsapevole? Fermata la follia con l’arresto dei folli, restano sul campo due ventenni con il volto lacerato e la certezza che non torneranno più come prima, e altri due che se la sono cavata per miracolo. Tra gli innocenti col futuro segnato, andrebbe aggiunto anche il bambino, figlio di Alex, che Martina porta dentro da tre mesi. Quindi, quando il 28 dicembre lei getta due litri di acido muriatico in faccia all’ex compagno di liceo Pietro Barbini, è già incinta di un mese. E lo sa. La sera stessa la portano in questura, prelevata dalla casa di Bollate dove vive coi genitori. Confessa subito e senza un turbamento (sì, sono stata io, certo che mi rendevo conto di quel che facevo: lui mi tampinava di messaggini, ero esasperata). L’unico gesto di fragilità che esibisce è tenersi una pancia che ancora non c’è, ripetendo come un mantra: «Qui c’è il frutto del mio amore».
Ci sarebbero altri due frutti, almeno sul corpo: un “Alexander” tatuato sotto il seno sinistro, che si è fatto incidere lei a Praga, e una piccola “A” sulla guancia destra, che gli avrebbe firmato lui con un bisturi, trovato a casa di Bottcher insieme a cloroformio, pugnali, manette, frustini, un martello, bottiglie di acido (ma quello da supermercato, al 5%, dice il suo avvocato; non quello al 37%, che brucia tutto tranne l’oro, usato negli agguati). L’acido al 37% di purezza, che è il massimo reperibile in commercio, lavora nella carne per settimane, scendendo tra i tessuti e divorandoli. Pietro, colpito un mese e mezzo fa, ha già subito sei operazioni, la ricostruzione di una palpebra e una narice e sa che lo aspettano molti altri interventi e innesti di pelle. Stefano Savi, 25 anni, studente alla Bocconi e “modellaro” (security nei club, autista di starlette da passerella), scempiato la notte del 2 novembre sotto casa sua, in via Quarto Cagnino, di operazioni ne ha già passate 15, e per tentare di salvargli un occhio pensano a un trapianto con le staminali. Il più di assurdo è che l’unica “colpa” di Stefano sarebbe quella di somigliare come un gemello a un altro maschio da sistemare, l’assistente fotografo Giuliano Carapelli, colpito ma non affondato il 15 novembre in via Bixio. Quel giorno piove forte, Martina gli lancia addosso il liquido vendicatore ma lui si ripara con l’ombrello, la insegue fino alla macchina dove lei è fuggita, fotografa la targa col cellulare (l’auto, come in altri episodi, è la Punto nera di Magnani), le chiede «ma cosa ti ho fatto di male?», lei gli spruzza negli occhi dello spray al peperoncino, lui a quel punto corre via, sente qualcuno alle spalle, lo smartphone gli scivola dalla tasca, l’inseguitore, sarebbe Alexander, lo raccoglie e scompare. Cosa aveva fatto di male Carparelli? Un bacio spinto con Martina, una sera al Divina, forse qualcosa di più, se poi era lei, chissà.
Molto più grave, se la logica è la quantità del contatto, il peccato di Antonio Margarito, anche lui studente di economia ma alla Cattolica. L’estate prima, aveva avuto con Martina una breve storia con sesso a Gallipoli. La notte tra il 19 e il 20 maggio, alle colonne di San Lorenzo, i due si incontrano, sembrerebbe per caso ma quel che sembra, in questa storia, può essere un abbaglio o una menzogna. Fatto sta che Martina invita Antonio a fare un giro sulla macchina di lei, una 600. Chiacchierano, ridono, poi lei si ferma nel parcheggio di un hotel decentrato, invita lui a chiudere gli occhi e abbassarsi i pantaloni. Ha in mano un coltello da cucina, Antonio se ne accorge quando avverte qualcosa di freddo sulla coscia. Sventa il colpo, nove punti di sutura alla mano. Martina si precipita in ospedale dove dice di essere stata violentata da Margarito già in estate e che la cosa stava per ripetersi. Lui nega e la denuncia per “tentata asportazione del pene”.
L’impressione è che quando giudici e tribunali avranno ricomposto il puzzle di questa gioventù bruciata dentro, il quadro finale resterà indecifrabile. Marcello Musso, l’ossuto magistrato che ha preso in mano la matassa dall’ultimo filo (l’agguato a Barbini) e sta provando a riavvolgere il gomitolo, sintetizza infastidito: «Oggi c’è un processo a cento mafiosi. Cento, capisce? E voi state a farmi domande sulla Levato e compagnia. Scopate incrociate tra gente per bene: ecco tutto». Tutto no, dottor Musso. «Beh, certo. C’è la premeditazione, una notevole capacità nell’esecuzione del crimine». Targhe rubate, cambi d’auto, pedinamenti dei bersagli, telefonate da utenze non rintracciabili, travestimenti. «E poi i futili motivi, l’estrema crudeltà, le lesioni gravissime alle vittime. La Levato che scaglia l’acido e Boettcher che subito dopo insegue Barbini con un martello e che viene bloccato lì, sul posto. Il processo va in discesa». Martina però dice che Alex non c’entra, che era lì per difenderla, che non deve stare in carcere. «Processo in discesa». È l’unico istruito per adesso: direttissima, rito abbreviato.
Il dopo, sul versante giudiziario, verrà. Il prima è una foto di classe del 2009. Seconda C del Parini, sezione Brocca, quella a massimo impegno. Martina Levato è al centro della fila alta, una camicina verde attillata, capelli tirati indietro e occhialoni scuri. Pietro Barbini, fila sotto, è l’unico dei maschi senza panama in testa, un po’ staccato dagli altri, bello come un putto e l’aria di chi non vede l’ora che finisca. L’anno dopo, alla maturità, uscirà con un ottimo 80/100, poi volerà alla Northwestern University di Boston. Martina fa anche meglio: 92/100, cui seguirà una laurea triennale alla Cattolica in economia aziendale e un master in marketing alla Bocconi. Avrebbe completato anche questo con risultati eccellenti, come sempre dalle elementari in su, se non fosse finita a San Vittore per aver sfigurato Pietro. Increduli, oggi, quegli ex compagni, accorsi in massa al reparto Grandi Ustionati di Niguarda per confortare Barbini. Increduli i professori: «Non è l’alunna che abbiamo avuto qui: dottor Jekyll e mister Hyde». Persino Pietro, più che arrabbiato, sembra sconcertato. Parla della Levato come di una tipa simpatica, «una brava a scuola ma che non te lo faceva pesare, anzi se poteva ti aiutava». E sempre, ogni giorno d’ospedale, la domanda delle domande: «Perché è stata così crudele con me?».
I due avevano avuto una relazione ai tempi del Parini, e un fugace ritorno di fiamma. Era successo quando Martina aveva già conosciuto Alexander, in una sala da ballo latino — americana nella primavera del 2013, restandone fulminata. Lui, una specie di adone biondo scuro e palestrato, era già sposato da anni con una ex modella croata, con cui viveva nello stabile di proprietà della madre, con la suocera a fare da portinaia. Non dice a Martina di avere moglie, le concede il dono di concedersi. E lei, allora con qualche chilo di troppo rispetto al canone di magrezza obbligatorio per “quel” mondo, ci sta. Fanatico com’è della forma fisica, lui le plasmerà il corpo, l’aiuterà a perdere peso, la porterà oltre in molti sensi (o è lei che porta oltre lui? Chi manipola chi?). L’avventura di una sera si trasforma in qualcosa di stravolgente. Alex le scrive: “Sei così racchietta, eppure mi hai fatto innamorare testa e pisello”. Ma è incapace di fedeltà o gli piace trasgredire. Bacia un’amica davanti a lei, anche più di un bacio. Martina risponde con piccole ritorsioni, per esempio con un ragazzo inglese a Ibiza, o confidandosi con un amorino di ritorno come Barbini. Messaggi su WhatsApp , un crescendo di intimità e allusioni, scambi di foto, magari un incontro. Poi entra nel gioco Alexander e lo spezza con violenza: «Sono io il fidanzato di Martina. So che tra voi c’è qualcosa. Se vuoi ce la scopiamo insieme. Tanto lei ubbidisce al mio volere. Ogni volere». E a rafforzare il concetto allega video umilianti. Pietro si spaventa, gira tutto a Martina: guarda con chi ti sei messa. Ma la risposta di lei è di chi ha già oltrepassato il confine: «Meglio con lui che con te, ucciditi, muori». La brava ragazza Levato, orgoglio dei genitori e del Parini, esce dal radar delle amiche e comincia una personale via Crucis. Prima stazione: confessione al Alexander di ogni suo tradimento, fin nei dettagli più scabrosi. Seconda: mea culpa ed espiazione. Terza: decontaminazione totale. Al primo interrogatorio, lui dirà: «L’uomo può tradire. La donna no, deve restare pura».
Da quando è in carcere, quinto raggio di San Vittore, Alexander Boettcher non dà segni di cedimento o di angoscia, come del resto Martina, fredda e infrangibile con l’umanità intera tranne che con lui, a cui ribadisce per ogni via concessa a un detenuto che è l’uomo della sua vita. Intanto Alex, che nella foto segnaletica aveva capelli arruffati e barba incolta, ha già ripreso i tratti levigati da lupetto di Wall Street. Nel suo curriculum, c’è anche un saltino in politica, Regionali lombarde 2013, Lista Tremonti: 0,50% dei voti, nessun seggio. Dicono sia un broker, in realtà amministra il patrimonio immobiliare di mamma Patrizia, che ha avuto questo figlio amatissimo (nato a Munster il 4 dicembre 1984) da un medico tedesco, ma si sono lasciati presto, lei è tornata in Italia col bambino e il padre passa a trovarlo un volta l’anno se va bene. Unico disappunto di Alex dalla cella: un biglietto alla mamma in cui le annuncia, per l’appunto, una visita di papà. “Arriva adesso che sono dentro”. A parte le nozze con la splendente Gorana, quando aveva 22 anni, con cui condivide casa e una passione per il kajak, c’è solo un’ombra oscura nel passato di Alexander: un tentativo di suicidio quando aveva 14 anni, mamma lo sgrida perché non si impegna a scuola, lui minaccia di buttarsi da una finestra. Lo ferma la polizia, che per questo episodio, tempo dopo, gli negherà il porto d’armi. Ha detto di lui la signora Patrizia: «Mi ha regalato una vita piena di magia. Ma nell’ultimo periodo era cambiato. Irascibile, forti sbalzi d’umore, ossessionato dal fisico. Sarà un caso ma coincide con l’arrivo di Martina. Era lei quella forte e dominante». Ha detto il padre di Martina: «La nostra gioia, da sempre. Poi si è innamorata di Alex, si è chiusa, ha smesso di pensare con la sua testa, si consumava di gelosia, si imbottiva di anabolizzanti per dimagrire». Il padre di Andrea Magnani, il terzo uomo, il complice più o meno succube, si chiama Giorgio, ha 69 anni, la quinta elementare, una vita onorata all’Atm, l’azienda tramviaria, da bigliettaio a impiegato di prima categoria. È un uomo mite, scosso, spezzato come gli altri genitori dalla sventura imprevedibile di ritrovarsi davanti un figlio che non immaginavi. Anche in questo caso, l’unico figlio. Andrea è un marziano rispetto al giro della Milano rampante. Laureato pure lui (Lingue straniere) ma alla Statale, impiegato alla filiale di Basiglio della Mediolanum, così solerte da meritarsi un premio per il monte di straordinari effettuati, sposato da due anni con una bielorussa, Yuliya (dottore in economia europea, 4 lingue parlate e scritte), un mutuo da 60mila euro per comprarsi casa, è stato l’ultimo ad essere arrestato e il primo a fornire a chi indaga, sia pure con una montagna di contraddizioni, una versione che lega tutta la saga dell’acido e la ascrive a vario titolo alla responsabilità del terzetto. La Punto nera del 2007 che compare sui luoghi di molti delitti è quella del padre, che gliel’ha passata in dono perché Andrea aveva la patente ma non la macchina. «Mio figlio è buono come il pane», dice il signor Giorgio, con gli occhi bassi. «Non fuma, non beve, mai andato in discoteca. Le sue uniche sue passioni sono la musica e la Juve, mai stato un ultrà, figurarsi». A Opera, dove l’hanno rinchiuso, non mangia, passa i giorni in branda sotto le coperte perché ha freddo, sembra smarrito a se stesso.
E se Stefano Savi, la seconda vittima, confermerà quello che sembra stia mettendo a fuoco, e cioè che la secchiata d’acido gliel’avrebbe tirata uno che, come corporatura, somiglia più ad Andrea che ad Alex o Martina, la situazione per Magnani figlio diventerà pesantissima. Il signor Giorgio fa un respiro lunghissimo, a buttar fuori l’ansia. «Da ragazzo Andrea era obeso, 120 chili, e per lui dimagrire è un’ossessione. Si allenava come un matto ma non scendeva, non abbastanza. Un anno e mezzo fa ha incontrato al parco Ravizza, dove ci sono gli attrezzi ginnici, questo Alexander, una specie di dottore a livello corporeo, che l’ha messo sotto di brutto: esercizi, diete, corse anche di notte, sotto l’acqua. Mio figlio vedeva i miglioramenti, e così si è legato a quel tipo lì, ma credo che fosse un’amicizia a senso unico. Andrea lo seguiva, l’altro guidava. Ti manca l’autostima, glielo dico sempre». Da solo, il signor Giorgio capisce che non è questo, adesso, il problema. «Ma i giudici, secondo lei, terranno conto del fatto che Andrea è sempre rigato dritto, la psicologia insomma?». Poi tira fuori da una cartellina tre fogli un po’ sbiaditi da troppe fotocopie. «È il curriculum della moglie di mio figlio. Una in gamba. Adesso, con la crisi e il marito in galera, bisogna per forza…». E piegando la testa sul petto, non finisce la frase.

Repubblica 14.2.15
Un terapeuta per gli stress finanziari
di Rita Balestriero


PRENDETE uno psicologo, fategli fare un master in economia ed ecco una nuova figura, quella del terapeuta finanziario. Semplificazioni a parte, si tratta di un approccio alla cura dei malati ancora parecchio giovane, eppure già molto diffuso negli Stati Uniti tanto che nel 2010 è stata fondata la Financial Therapy Association . Certo si sa che gli americani, per cultura, hanno un rapporto con il risparmio diverso dal nostro, ma siamo sicuri di non averne bisogno anche nella vecchia Europa? Alla base della teoria di questi specialisti, infatti, c’è la profonda convinzione che nessuno di noi è perfettamente equilibrato quando si tratta di scelte che hanno a che fare con il denaro, specie se le decisioni vanno prese in coppia.
E poi ci sono le persone particolarmente a rischio, vedi gli ansiosi per natura e tutte quelle che faticano nella gestione dei propri limiti, sia che si tratti di droghe, sesso, o cibo. Il vero problema, però, è che nel caso dei soldi non è possibile aspirare a una fase di completa astinenza come spesso accade per le altre dipendenze. Il meglio che si può raggiungere è il “benessere finanziario”, che non significa ricchezza, ma la comprensione e l’accettazione del ruolo che il denaro gioca inevitabilmente nella vita di ogni giorno.

il manifesto 14.2.15
La «grande onda» mediterranea che restituisce il senso alla politica
Syriza, Podemos e noi. Sta nascendo una nuova «coalizione» popolare e trans-nazionale, la sinistra italiana deve ricostruire questo grande spazio sociale e politico
di Marco Revelli

qui

La Stampa 14.2.15
I nostri regali al Califfo
di Domenico Quirico


La cartina nera del Califfato, pezzo dopo pezzo, si colma, gli spazi vuoti tra un emirato e un altro, tra un brigante sahariano infeudato al califfo di Mosul e gli altri zeloti dello stato islamico totale si restringono.
I miopi profeti del «disordine controllato», i medagliati della guerra per «portare la democrazia in Libia», guardano ora, stupefatti, le bandiere nere a Sirte, a Derna, sulla costa del mare, ascoltano intontiti i proclami arroganti dei nuovi padroni della Libia purificata da una ideologia settaria e barbara. Dove sono finiti i mestatori a cui hanno prestato, frettolosamente, la patente di «democratici», di uomini del futuro? Che fine hanno fatto quelle elezioni, quei parlamenti, quelle costituzioni che abbiamo annusato come segno dei tempi ormai irrevocabilmente nuovi? Si urla ora all’allarme, si invocano alleati e ascari per fermare quelli che il presidente americano chiamava pochi mesi fa avversari di serie b, fantocci di un medioevo ridicolo e strampalato contrapposto alle meraviglie dl migliore dei mondi possibili, cioè il nostro.
La Libia si infeuda, a brancate, a città, al califfato: ora migliaia di uomini la cui anima è una pagina bianca, migranti, fuggiaschi, disperati, superstiti di innumerevoli naufragi, rottami di tutte le tragedie di un continente, sono prigionieri del gulag islamista, sotto il controllo del sistema totalitario: migliaia di pagine bianche, uomini senza sogni senza speranze senza passato e senza futuro su cui scrivere un nuovo codice genetico: la guerra santa, la sharia, l’odio per l’impuro. Abbiamo regalato al califfo lunghe file di possibili reclute. A noi tutto questo servirà al massimo per la polemica di strapaese su quanto costava l’operazione Mare Nostrum.
Invece la strategia globale del califfato galoppa: tiene ben saldi Mosul, la Siria, l’Iraq nonostante le scenografie degli sterilissimi bombardamenti, e le medaglie distribuite ai curdi. Ogni giorno che passa è per Abu Bakr una vittoria: migliaia di giovani interiorizzano la legge del sistema islamista, una legge non scritta che porta a identificarsi alla volontà di colui che ne è l’incarnazione. Il califfato è un mito: ma cosa se non i miti spinge gli uomini a combattere, morire, uccidere? Lungo le coste del Mediterraneo in Africa, nello Yemen infinite avanzate, colpi di spillo e raid devastatori, singoli delitti e stragi assire portano avanti le pedine con bandiere nere. Una città cade in Nigeria, una base militare è annientata nel Sahel, un convoglio di armi attraversa il Sahara, una imboscata uccide soldati keniani, una altra ambasciata occidentale chiude: notizie che ci scorrono tra le dite che non ricordiamo, che non scomodano i politici ma sono tutte vittorie del califfato. Il nostro spazio si restringe, i luoghi che possiamo attraversare, raccontare, vivere si riducono, davanti a noi, attorno a noi: è questa la guerra totalitaria.
La verità è una cosa fragile: se intonata ad ogni angolo da mille giovani gole di acciaio, unte di moschee fanatiche immediatamente anche la verità più indiscutibile si trasforma in bugia, in violenza, in terrore, e prima o poi in pretesto per uccidere.

Repubblica 14.2.15
Perché l’Is vuole la Libia
di Renzo Guolo


LA LIBIA è sempre più terra di conquista dell’Is. Le milizie che hanno giurato fedeltà a al Baghdadi conquistano anche Sirte. Dopo Derna, dove dallo scorso autunno le milizie del Consiglio della Shura hanno proclamato la loro adesione al Califfato, Sirte è la seconda città libica a finire sotto i vessilli nerocerchiati. Ma l’influenza dell’Is si estende ormai a Bengasi, sino a poco tempo fa incontrastato regno della qaedista Ansar al-Sharia. Ora, sotto la possente spinta simbolica del Califfato, molti dei seguaci di Ansar cominciano a affluire tra i ranghi dell’Is.
UNPROCESSOa nalogo a quanto accaduto in Siria, con il progressivo svuotamento di Al Nusra a favore dell’Is. A Sirte la radio trasmette già discorsi del Califfo Nero, sintomo del nuovo e cruento ordine che si annuncia. E, come ha mostrato anche l’attacco all’hotel Corinthia, gli jihadisti agiscono anche a Tripoli.
Che la situazione sia precipitata lo dimostra non solo l’invito dell’ambasciata italiana ai nostri connazionali ad abbandonare il paese; ma anche la decisione dell’Egitto di far evacuare i propri cittadini. Le immagini da cronaca di una morte annunciata pubblicate sulla rivista Dabiq , con gli incapucciati in nero che fanno sfilare sulla spiaggia di Sirte i ventuno cristiani copti rapiti nei mesi scorsi, definiti come da copione “crociati”, fanno capire che ormai anche l’Egitto è un bersaglio dell’Is. Anzi, un doppio nemico, politico e religioso. Perché il Cairo appoggia e fornisce supporto logistico e aereo alla milizie di Al Hattar, il generale che vuole fare piazza pulita di ogni gruppo islamista in Libia; perché Al Sissi, nemico giurato degli jihadisti in riva al Nilo, vede nei copti un pilastro della sua diga antislamista. La cattura dei copti il Libia viene presentata dai nerocerchiati con la necessità di vendicare le donne musulmane, a loro avviso, vittime del «complotto della chiesa egiziana». Una vicenda annosa, quella delle donne cristiane convertite all’islam, che, secondo la propaganda islamista, sarebbero poi state costrette dalla Chiesa copto-ortodossa a rinnegare la loro conversione. Ma pur sempre una questione sensibile in Egitto, che viene non a caso agitata per rafforzare influenza e reclutamento dell’Is.
In quel grande buco nero che è la Libia, Stato fallito ormai preda delle sue migliaia di milizie armate l’una contro l’altra, il Califfato guadagna terreno. A poche centinaia di miglia dall’Italia e dai confini dell’Europa. Un pericolo enorme per l’Occidente. Non solo da quella sponda i traffici di migranti possono es- sere gestiti, sotto il controllo jihadista, come attiva forma di destabilizzazione dei paesi europei, Italia in testa. Con le tante katibe che controllano le coste della Tripolitania al servizio, in una logica di convenienza e sopravvivenza, degli obiettivi strategici del Califfo Nero. Ma il Califfato in riva al Mediterraneo può anche diventare il magnete per gli jihadisti del Magheb, dell’Africa subsahiarana, dell’area egiziana e sudanese. Oltre che un mito politico per la gioventù musulmana radicalizzata in Europa. Una sorta di Somalia davanti alla Sicilia. Gli uomini in nero sullo sfondo azzurro del mare non sarebbero, allora, solo un mero effetto cromatico ma una seria minaccia.
Che fare, dunque? Intervenire? E come? Una missione di peace-keeping sotto mandato Onu, come ipotizza il governo italiano, appare problematico in un contesto in cui gli schieramenti, le alleanze, gli interessi di fazioni e milizie locali sono assai mutevoli. Le forze inviate dal Palazzo di Vetro potrebbero diventare un bersaglio senza produrre effettivi risultati politici. Qui più che mantenere la pace, bisognerebbe imporla. Ma un’operazione di peace-enforcement, un intervento militare sotto forma dell’ennesima “coalizione dei volenterosi” di turno, sarebbe ancora più problematica senza avere un realistico progetto strategico per il dopo. Difficilmente Stati Uniti e Europa potrebbero assumersi un simile rischio. Il Califfato, però, e’ ormai alle porte e urge una risposta a questo dilemma tragico. La vicenda riguarda innanzitutto l’Italia, se non altro per i risvolti storici e geopolitici che la legano all’antica Quarta sponda, ma non solo. Più che mai qui i confini sono i confini di tutti. In gioco c’è la sicurezza delle società europee e gli equilibri nel Mediterraneo. Tergiversare sarebbe catastrofico. La questione libica richiede un intervento, e una precisa strategia, da parte della comunità internazionale. Dopo, potrebbe essere tardi.

il Fatto 14.2.15
Fuga finale dalla Libia, l’Isis avanza verso Tripoli
L’ambasciata italiana lancia l’evacuazione dei connazionali
Il Paese spaccato in due
di Nancy Porsia


Tripoli A Tripoli si respira un’aria pesante. I check point sono rispuntati nuovamente nelle maggiori rotatorie della città. Il traffico congestionato tipico della capitale va scemando giorno dopo giorno. La gente è tornata a sussurrare quando si parla di politica nei caffè. L’ambasciata italiana, una delle poche rappresentanze ancora aperte, ha diramato il consiglio di evacuazione: nella sede devastata 4 anni fa e riattivata poco tempo fa, restano l’ambasciatore Giuseppe Buccino, la sua vice e altre due persone, gli altri 20 funzionari sono già tornati a casa.
“La sera meglio stare a casa, non si sa mai quello che potrebbe succedere”, dice un ragazzo. “Ad alcuni amici hanno addirittura controllato il telefonino per vedere se c'erano foto di Gheddafi o Haftar”. Altri ripetono come un mantra “i terroristi di Isis sono in città”. E in effetti ieri la sigla jihadista nata in Siria sostiene di aver conquistato Sirte, a est di Tripoli, città d’origine di Gheddafi e luogo dove è stato ucciso il 20 ottobre 2011.
A quasi quattro anni dall’inizio della rivoluzione che ha defenestrato il regime di Gheddafi, il bilancio della Libia è a dir poco disastroso. Lacerato in lungo e largo da molteplici fronti di combattimento, il paese è arenato in una guerra civile conclamata. Il paese è spaccato in due, o meglio le istituzioni nazionali sono divise tra le autorità di base a Tripoli e quelle rifugiate a Tobruq, mentre il paese è oramai un colabrodo in cui anche le alleanze degli ultimi mesi stanno cedendo. Ieri il ministro degli Esteri Gentiloni ha spiegato che, nel quadro dell’emergenza immigrazione e delle infiltrazioni jihadiste, “l’Italia è pronta a combattere” nell’ex colonia, “naturalmente nel quadro della comunità internazionale”.
La Libia è un Paese allo stremo. Code chilometriche davanti alle poche stazioni di benzina aperte, black out che si succedono anche due volte in un giorno e vanno avanti per 8 ore di seguito e prezzo del pane in aumento. In alcune città le scuole restano chiuse in segno di rispetto verso i ragazzi che combattono al fronte. E negli ospedali le medicine scarseggiano. Il paese non ha più contanti e spesso anche le banche restano chiuse.
“I FONDAMENTALISTI sono già qui nell’Ovest. Stanno aspettando che ci ammazziamo tra di noi, Zintan contro Misurata, moderati contro islamici”, ha detto al Fatto un comandante dei ribelli della città di Jado. Inarcando le sopracciglia ha poi concluso “Quando noi avremo finito tutte le munizioni, loro verranno allo scoperto per conquistare il Paese”. Su alcuni fronti nell’Ovest del paese si intravedono già alcuni bandiere nere dei gruppi salafiti. “Alcuni rivoluzionari fino a oggi estranei ad alcuna ideologia, iniziano un po’ per scherzo un po’ per moda, a canticchiare versi di inni salafiti”, racconta un combattente impegnato da due mesi sul fronte dell’aeroporto militare di Watiyah, 70 chilometri a ovest di Tripoli.
I mandanti dell’attacco all’albergo Corinthia, sferrato a gennaio e rivendicato dall’Isis, restano sconosciuti. “Nessuno è in grado di condurre le indagini sull’attentato. Anche solo provarci significa firmare la propria condanna a morte”, dice un ex membro del Consiglio Nazionale di Transizione, che per motivi di sicurezza mantiene l’anonimato.
La guerra lanciata dalle forze dell’ex generale (ed ex pupillo di Gheddafi, poi cacciato e tornato in Libia dopo uno stage alla Cia, ndr) Haftar lo scorso maggio contro i gruppi fondamentalisti nella regione Est del paese, ha di fatto prodotto una polarizzazione ideologica nuova nell’ex colonia italiana. Proprio in quest’ottica tocca tenere le antenne puntate su quanto succede nell’Ovest, lontano da Bengasi e dai terminal petroliferi, per evitare che la guerra ideologica sconfini anche nella Tripolitania. Il giorno in cui questo scenario sarà reale, allora si sarà avverata la profezia dell’ex dittatore Gheddafi circa la somalizzazione del conflitto nel paese.
Proprio ieri il braccio libico dello Stato Islamico ha diffuso sul web la foto di uomini in tuta arancione, riversi sulle ginocchia e alle loro spalle uomini incappucciati vestiti di nero che brandiscono coltelli. Secondo il sito di intelligence Site, si tratterebbe dei 21 egiziani di religione copta sequestrati a inizio gennaio nella città di Sirte, dove oggi ai fondamentalisti salafiti sembra si siano aggiunti gruppi dello Stato Islamico costituitosi in Iraq e Siria. E sul fronte della guerra mediatica gli uomini di Haftar fanno sapere che in un campo d’addestramento dei jihadisti nei pressi di Bengasi sarebbero state trovate 40 teste mozzate.

Corriere 14.2.15
Spose a nove anni e studentesse di teologia, chi sono le donne di Isis
Un documento della brigata femminile dello Stato Islamico spiega il ruolo femminile nel Califfato
di Marta Serafini

qui

Repubblica 14.2.15
La lezione delle Crociate per capire gli orrori dell’Is
Obama ha ricordato le violenze perpetrate in nome del cristianesimo
Non esiste alcuna dottrina pura, slegata dalle pratiche dei suoi sostenitori
di Adam Gopnik


«LA STORIA semplifica tutto», scrisse 30 anni fa il grande esperto di baseball Bill James. «Ma non sai mai in che modo». All’epoca, stava scrivendo la biografia di Dave Parker, il grande “esterno” dei Pittsburgh Pirates che sembrava destinato alla Hall of Fame, fin quando degli scandali per problemi di cocaina lo hanno preso per la gola, anzi, per il naso, agli inizi degli anni ‘80. La storia lo obnubilerà ricordando i suoi trascorsi di droga, o dimenticherà gli scandali in nome dei suoi autentici record? La Hall of Fame non gli ha ancora aperto le porte. Ma l’aforisma di James vale anche per storie più importanti: è vero che la storia semplifica tutto e la trappola, insidiosa, è che ripristinare la complessità non sempre rende le cose più chiare.
Faccio questa riflessione dopo una recente dichiarazione del Presidente Obama, in occasione della National Prayer Breakfast, in merito alle orrende uccisioni di prigionieri inermi da parte dell’Is. Il suo commento era apparentemente ovvio e inconfutabile: che nella loro storia, quasi tutte le religioni (a parte forse alcune forme di Buddismo, Giainismo e simili), compresa la sua religione cristiana, siano state la concausa di orrendità. «Ai tempi delle Crociate e dell’Inquisizione, si commettevano atti terribili in nome di Cristo», ha osservato, dicendo una verità che solo un seminfermo di mente metterebbe in discussione.
Ebbene, i seminfermi non sono rari in America, e l’affermazione di Obama ha scatenato l’ovvio risentimento di certi partiti, con ricerche frenetiche su Google di prove che i nostri trascorsi, sebbene possano sembrare oscuri, non lo sono mai stati quanto i loro. Le Crociate non erano così semplici. Erano rappresaglie contro le invasioni musulmane (è la scuola di ricerca morale “Ma ha iniziato lui”.) Non le chiamavano neanche Crociate! (ma neanche l’Olocausto veniva definito così quando succedeva). L’Inquisizione? In realtà, non bruciava le persone vive; diceva alle autorità statali che gli eretici erano irrecuperabili e ed erano queste ultime a metterli al rogo.
A sua volta, ciò conduce a una serie fissa di giustificazioni: che gli ideologizzati, chissà perché, ritengono particolarmente profonde: a uccidere, non era la fede in sé, ma solo dei fanatici religiosi; che il grido dei terroristi di Parigi “Il Profeta è vendicato!” non riguarda la loro religione più di quanto la partecipazione della Chiesa cattolica in quegli auto-da-fè non riguardi la Chiesa.
La storia semplifica certamente, e persino gli orrori hanno una propria micro-storia. Questo spiega, forse, la confusione primitiva ma comune tra le forze che producono la storia e i fatti che la storia fa accadere. Le forze della storia sono sempre molteplici e complesse e contingenti, più di quanto le bugie non le facciano sembrare. Le forze che producono qualunque particolare evento storico sono sempre infinitamente divisibili in parti più piccole e contraddittorie con molte ambiguità e molti spazi di mobilità. Le Crociate erano molto più complicate che un attacco a saraceni innocenti da parte di cristiani sanguinari. Ma i fatti di base rimangono gli stessi: un grande numero di persone inermi, dagli ebrei dell’Europa centrale ai greci-bizantini di Costantinopoli, furono torturati e uccisi in nome della religione. Non occorre essere ebrei per apprezzare il pane di segale di Levy, diceva la vecchia pubblicità, e non c’è bisogno di essere ebrei per deplorare il massacro di Worms. Accogliamo la complessità perché fa risaltare le questioni morali più chiaramente sullo sfondo, così come apprezziamo la prospettiva lineare dei dipinti perché articola meglio le azioni dei personaggi in primo piano. Comprendiamo le lunghe epoche passate che fanno accadere i misfatti, ma incolpiamo i loro cattivi fautori. Le ideologie sono astratte, ma gli atti che producono sono reali. Potete neutralizzare qualunque ideologia, quantunque vile, insistendo a dire che nessuno è responsabile di quello che realmente fa. Potete riabilitare qualunque dottrina nella storia, continuando a dire che è responsabile solo delle sue conseguenze positive e attribuendo il resto a equivoci ed errori. Alcuni diranno che furono gli stalinisti o i Khmer rossi, e non i marxisti, a gestire i Gulag o i campi di steminio; che furono solo dei delinquenti dell’esercito americano, e non gli americani, a massacrare i vietnamiti a My Lai; e così via. Ma non esiste alcuna dottrina o ideale pura, slegata dalle pratiche dei suoi sostenitori.
Il lavoro dei buoni storici è di bilanciare la comprensione e l’accusa; è il polemista che cerca di usare la storia solo per giurare la sua innocenza. I misfatti delle Crociate, come quelli della schiavitù, sono successi. I fanatici che agiscono in nome della religione hanno assassinato migliaia di persone inermi. Il punto non è che nessun altro sia stato migliore; è proprio il problema. È il motivo per cui ora sentiamo che tutti i fanatismi e le ideologie predominanti in quel periodo erano altrettanto orribili, e per cui ringraziamo le nostre stelle, oltre ai nostri antenati illuminati, per averli (in gran parte) eliminati.
Il male può nascere dal bene: la religione non può mai essere il nemico; il fanatismo lo è sempre. Ma la religione è sempre stata il terreno fertile del fanatismo. Per questo, quando gli uomini commettono atti di orribile crudeltà, diciamo che hanno fatto una religione della loro politica, o che sono prigionieri di un folle dogma ideologico. Il fanatismo è la convinzione che un’unica religione o ideologia contenga tutta la verità del mondo, e che le altre religioni debbano essere, al massimo, tollerate. Il liberalismo è la credenza che la tolleranza non sia sufficiente, che un pluralismo attivo e assertivo sia fondamentale per una società sana. Il pluralismo è l’essenza del liberalismo — compresa la possibilità di rimproverarsi per gli errori del liberalismo. L’America non è responsabile per i fatti di My Lai solo relativamente alla sua rinuncia all”eccezionalismo” presuntuoso che ha causato quegli omicidi e impedito che fossero incolpati i responsabili. Gli scrupoli eccessivi — la colpa liberale — sono sicuramente un indizio di ragionevolezza quanto l’eccessiva santimonia un segno del contrario.
La settimana dopo, è stato subito chiaro che non occorre andare così indietro nel tempo per vedere uomini travestiti da cristiani commettere atti in stile Is. (Ta-Nehisi Coates e Jamelle Bouie hanno evidenziato come, nella storia recente sudamericana, orrori esattamente sovrapponibili a quelli dell’Is siano stati commessi da linciatori con l’implicita approvazione, e talvolta l’appoggio attivo, della chiesa locale). L’argomentazione del presidente Obama si è rivelata profondamente, corretta: nessun gruppo può, né mai potrà, assurgere a storico paladino morale. Ma non perché non esista una vetta morale, ma perché ci stiamo ancora arrampicando.
( © Adam Gopnik. Questo articolo è uscito sul “ New Yorker” L’autore in Italia pubblica per Guanda Traduzione Ettore Claudio Iannelli)
Adam Gopnik, 58 anni, giornalista americano, è una elle firme più autorevoli del New Yorker

La Stampa 14.2.15
La tigre cinese non piace più agli stranieri
La crescita economica che rallenta, i costi che salgono e l’inquinamento delle città pesano sui trasferimenti per lavoro. E anche i cinesi più ricchi hanno ormai la valigia in mano
di Ilaria Maria Sala

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Corriere 14.2.15
Premio Israele: Netanyahu arretra
di Davide Frattini


GERUSALEMME Due giurati sono stati licenziati dal premier, gli altri se ne sono andati per solidarietà. Il candidato più celebre, David Grossman, ha rinunciato a concorrere per protesta, gli altri scrittori lo hanno seguito. Il Premio Israele per la letteratura è rimasto senza critici e senza romanzieri dopo quella che viene chiamata la «purga» di Benjamin Netanyahu: ha sfruttato il ruolo di ministro dell’Educazione ad interim per rimuovere due professori universitari, Avner Holtzman e Ariel Hirschfeld, dalla commissione.
Decisione che il primo ministro ha dovuto ritrattare dopo il parere legale del procuratore generale dello Stato, Yehuda Weinstein: gli israeliani vanno a votare tra un mese, il Paese è in campagna elettorale, Netanyahu deve amministrare questo periodo senza usare le cariche per interventi troppo politici. Perché politiche sono state le motivazioni fornite dal primo ministro sulla sua pagina Facebook: «Troppo spesso sembra che membri estremisti concedano la vittoria ai loro amici. La composizione della giuria deve essere bilanciata, riflettere le varie correnti della società israeliana».
In sostanza Netanyahu se la prende con gli intellettuali di sinistra che secondo lui mettono in pericolo la coesione nazionalista del Paese: Hirschfeld sarebbe stato cacciato per aver scritto un editoriale in favore dell’obiezione di coscienza, in un Paese dove la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze presta il servizio militare obbligatorio. Il Premio Israele viene assegnato in un giorno simbolico, quello della festa d’Indipendenza, e il capo dello Stato, Reuven Rivlin, sta cercando di salvarlo: «È importante per tutti, di destra o di sinistra».
La decisione derivata dalla direttiva di Weinstein ha valore retroattivo e dunque annulla la rimozione dei due docenti. Tuttavia la marcia indietro del primo ministro potrebbe non bastare a richiamare gli scrittori: la rinuncia di Grossman («la mossa di Netanyahu è un sotterfugio cinico che viola la libertà di spirito, il pensiero e la creatività») è stata sostenuta da romanzieri come Avraham B. Yehoshua e Amos Oz.

La Stampa 14.2.15
Arriva l'Expo ma eccellenze e musei chiudono
Dal Museo della Civiltà Romana al Museo di Fotografia Alinari, decine di luoghi di cultura sono chiusi per lavori di ristrutturazione e per mancanza di fondi

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La Stampa 14.2.15
Wim Wenders
Scatti americani tra sogno e incubo
A Villa Panza di Varese le grandi fotografie del regista tedesco dialogano con le opere minimaliste della collezione permanente
di Manuela Gandini


«All’improvviso vidi una luce diversa splendere attraverso la polvere e il fumo. Sollevai lo sguardo e mi resi conto che il riflesso del sole aveva immerso per qualche istante Ground Zero in una luce accecante. Era ancora mattina, e fino a quel momento i grattaceli intorno avevano impedito ai raggi del sole di illuminare direttamente lo spazio rado di Ground Zero. Ma adesso gli edifici circostanti contribuivano a deviare la luce». A voce bassa, con una dedizione totale alla percezione dello spirito dei luoghi, Wim Wenders racconta la propria concezione del mondo, della bellezza e dei conflitti contemporanei all’apertura della sua personale, intitolata «America», in corso a Villa Panza a Varese.
Curata dalla direttrice, Anna Bernardini, la mostra – che consta di 34 fotografie di vario formato – rimanda alla passione del conte Panza di Biumo per il paesaggio, l’arte e la cultura statunitensi. Panza e Wenders: due diverse visioni europee che hanno vissuto con stupore e amore gli immensi spazi degli Stati Uniti, i deserti e i cieli, le case e la promessa del sogno americano.
Quel sogno, misto a nostalgia, prorompe dai paesaggi orizzontali e solitari, dislocati sulle pareti della villa, tra arredi ottocenteschi e grandi lampadari. La mimesi - tra i muri scrostati di un vecchio edificio di Paris (in Texas); un cimitero indiano in Montana; una strada deserta puntellata dai pali dell’elettricità, e le stanze di Dan Flavin e di Turrell - è un’esperienza (riuscita) di trasposizione temporale e fisica. Nel caso dei minimalisti americani, collezionati da Panza, lo spettatore è immerso nella luce di spazi impalpabili e fa un’esperienza sensoriale completa; mentre le foto di Wenders lo risucchiano in uno spazio aperto, esistente, visivamente connotato. «Faccio grandi foto – ha detto Wenders - perché voglio portarvi altrove; i paesaggi danno forme alle nostre vite, formano il nostro carattere, definiscono la nostra condizione umana e, se sei attento a loro, acuisci la tua sensibilità nei loro confronti, scopri che hanno storie da raccontare che sono molto di più che semplici luoghi». Il regista, come sdoppiato nella propria intenzionalità, non fotografa mai quando gira un film e non gira quando fotografa. Cosa cerca nei luoghi? «La verità» e per trovarla si sbarazza dei preconcetti – «come fotografo sono vuoto» - non usa il digitale per non falsare il messaggio e adopera la pellicola con la Leica o la Makina-Plaubel.
Le foto, colorate o in bianco e nero, grandissime o piccole, sembrano film fatti di un solo fotogramma nel quale – come in un racconto di Raymond Carver o in un quadro di Edward Hopper – il quotidiano è fulminante: è uno scatto, è una fascinazione o una perdita secca. Il quotidiano è il muro di un vecchio bar nel Texas dall’insegna stinta e dai locali vuoti, oppure è una donna seduta a una finestra a Los Angeles, in mezzo alla solitudine delle case hopperiane. Ma cosa troviamo in quello stereotipo americano quasi interamente spogliato di ogni presenza umana? Rispolveriamo in technicolor la nostra memoria fatta di immagini mediatiche, culturali e di esperienze fisiche, perché, nelle foto di un giardino kitsch o della sala d’aspetto di un vecchio Motel, sfila il ricordo di Paris Texas o Alice nelle città; e nelle macerie fumanti di Ground Zero riappaiono i telegiornali e l’umanità braccata di Salgado, il fotografo raccontato nell’ ultimo film di Wenders Il sale della Terra. Ed è con questa lente, quella dei propri ricordi e delle proprie epifanie mista alle narrazioni wendersiane, che si produce una percezione manierista, che ci riporta sul luogo del delitto. «America» è una mostra speciale, fatta di relazioni e sovrapposizioni multiple tra persone, storie, periodi e luoghi. È un viaggio in quella bella America di fine ’900, fatta di innumerevoli «Yes, I can»; ma è anche l’America della fine. L’America della violenza più atroce e distruttiva che si potesse immaginare, quella dell’11 settembre. «I giorni dopo la tragedia avevo gli incubi, mi sentivo malato. Dovevo placare questa inquietudine. Così andai a New York convinto che avrei potuto curare questa malattia solo vedendo le cose con i miei occhi», ha raccontato il regista. Era l’8 novembre, due mesi dopo l’attentato, l’amico Joel Meyerowitz, unico fotografo accreditato a documentare lo sgombro di corpi e macerie ancora fumanti, lo fece entrare. Le immagini che, ancora increduli, vediamo a fine mostra sono enormi e la devastazione fuori scala. Si chiude così «America», con uno squarcio irricomponibile, un raggio di sole e una domanda: il terrore permanente è davvero la nuova condizione di vita dell’umanità?

Corriere 14.2.15
Partiva da Fossoli la via dell’inferno


A distanza di oltre settant’anni dagli avvenimenti, per la prima volta una ricerca ricostruisce i percorsi della deportazione politica a Fossoli e, dal Dulag (Durchgangslager , «Campo di transito») carpigiano, ai lager nazisti. Questo scavo nella documentazione, per lo più inedita, nella ricostruzione delle procedure di deportazione e nelle vite di 1.484 deportati (le cui biografie sono ripercorse con la massima precisione possibile) si deve alla ricercatrice Giovanna D’Amico, che ha portato a termine con il libro Sulla strada per il Reich (Mursia, pagine 688, e 24) un lavoro cominciato nel 2008.
Partendo dalla ricostruzione dei convogli dei deportati e dal confronto con gli archivi tedeschi, è stato possibile individuare nome e cognome di una buona parte di coloro che, accusati di scelte antifasciste e antinaziste, furono catturati in terra italiana. Di loro si indicano la data e le circostanze dell’arresto, il luogo di provenienza e la destinazione, oltre che un corpus di dati biografici utili al riconoscimento di una storia individuale.
Storia generale del campo di Fossoli e storie individuali si incrociano così a restituire alla memoria uno spaccato drammatico, spesso lasciato nell’ombra. Tra gli sventurati, lavoratori arrestati negli scioperi della primavera del 1944, ma anche lavoratori coatti, partigiani, contadini: il loro numero complessivo (2.710 internati) va ad aggiungersi ai prigionieri ebrei e ai misti, rinchiusi in un altro settore del campo (in tutto, secondo Liliana Picciotto, 2.844 arrestati nell’Italia centro-settentrionale).
Il libro di Giovanna D’Amico, sostenuto da una scrittura essenziale, ma appassionata, ci consente anche di rileggere i flussi della deportazione, che videro gli arrestati nel Nord Ovest inviati prevalentemente a Mauthausen e i detenuti del Nord Est finire con maggiore frequenza a Dachau.
In questo saggio, attraverso lo studio delle biografie individuali, la figura del deportato, non per ragioni di «razza» o di asocialità, ma piuttosto come nemico consapevole ed eroico del Reich, presente nei racconti della lunga tradizione storiografica, si stempera. E prendono corpo storie individuali di opposizione, morale o patriottica, che restituiscono a questo tipo di resistenza non organizzata, un sapore di lotta per la vita e per l’onore.

La Stampa TuttoLibri 14.2.15
György Konrád
“Sono salito sul treno che non andava ad Auschwitz”
“Non dimentico il sorriso di quel soldato sovietico”
“Io sono riuscito a salvarmi dalle camere a gas, ma la Shoah ha cancellato in Ungheria (per decenni) la borghesia colta e liberale”
di Francesca Sforza


György Konrád (nato nel ’33), scrittore, giudice e sociologo, è stato uno dei punti di riferimento del dissenso ungherese ai tempi del socialismo; fu tra i fondatori el Movimento dei liberi democratici, secondo partito alle prime elezioni libere del ’90.

Gli ebrei erano portati per l’ingenuità, coltivavano di continuo fantasie di sopravvivenza… I nostri vicini potevano essere deportati, ma nel nostro paesino no, non poteva succedere, e poi i tedeschi erano troppo civilizzati per farci questo». Ragiona così, parlando in un tedesco roco e placato György Konrád, ebreo ungherese nato nel 1933 a Berettyóújfalu, circa trecento chilometri a sud est di Budapest, quasi al confine con la Romania. Il suo libro Partenza e ritorno sta per uscire in questi giorni in Italia per Keller editore. Il sottotitolo recita «romanzo autobiografico». «Ma non c’è nulla che non sia davvero accaduto così come l’ho descritto», ci precisa dal suo studio di Budapest, dove adesso vive con la moglie Judith.
György aveva undici anni quando lasciò il soggiorno blu della sua casa. I suoi genitori erano stati deportati, lui e sua sorella erano rimasti soli. Potevano aspettare che qualcuno decidesse per loro, ma invece no, e con incoscienza tutta infantile attraversarono il paese con la stella gialla cucita sui cappotti verso la stazione. Sarebbero andati da alcuni parenti in campagna, e poi forse i loro genitori sarebbero tornati. «Se avessimo tardato un solo giorno, saremmo finiti ad Auschwitz: mia sorella aveva quattordici anni e forse sarebbe sopravvissuta, ma io ne avevo undici e il dottor Mengele aveva inviato tutti i miei compagni di classe nella camera a gas», scrive.
Nella decisione di lasciare tutto e partire c’è non solo il segreto della salvezza personale di György, ma anche – in un’estensione più ampia – la mossa che sancisce per sempre la fine della borghesia ebraica del XIX secolo. «Gli ebrei di allora non erano contadini né proprietari di terre ma erano bravi nel commercio, nell’industria, e i più istruiti avevano successo negli studi. La convivenza con i gentili era umana, e se non potevamo dirci assimilati, integrati sì, lo eravamo. Ricordo ad esempio – ci racconta Konrád – che il magazzino di mio padre era sempre pieno di gente, ma non tutti erano clienti venuti per comprare. Molti si scaldavano le mani al fuoco quando faceva freddo, altri commentavano le notizie sul giornale, ci si scambiava sempre piccoli favori e tante cortesie: le comunicazioni non erano mai affrettate, nessuno si aspettava tempi rapidi di reazione». Perché da un giorno all’altro, si sarebbe dovuto abbandonare tutto e fuggire?
L’abitudine a una vita tranquilla, la pigrizia dolceamara della vita di provincia, tendine ricamate appese alle finestre della cucina e ghette lucide prima di uscire: come era possibile che tutto questo venisse sostituito in così breve tempo da fosse comuni, filo spinato e Zyklon B? «Una volta, nei primi anni Quaranta – dice ancora Konrád - arrivò negli uffici della comunità ebraica di Budapest un gruppetto di uomini che dicevano di essere fuggiti da Auschwitz. Non erano ungheresi, ma cecoslovacchi, parlavano di docce che non erano docce ma camere a gas, di forni crematori, di schiere di parrucchieri incaricati di tagliare tutti i capelli alle donne prima che fossero uccise… Il rabbino li stette ad ascoltare in silenzio, e alla fine li ringraziò per avergli raccontato tutte quelle cose. Ma appena furono andati via si voltò verso la sua segretaria e le disse: “Se dovessero tornare non li faccia più entrare, sono completamente pazzi”». Un episodio che sembrerebbe confermare la leggerezza di alcuni ebrei di potere: non capirono, scelsero di negoziare, trattarono con un nemico di cui non avevano capito la ferocia. «Certo, Hannah Arendt poteva permettersi di essere intelligente e arguta a New York dopo la guerra – osserva Konrád pensando alle tesi sostenute nella Banalità del male - ma a Budapest durante l’occupazione tedesca nel 1944 era difficile essere così sottili. Molti hanno tentato di fare qualcosa, e se è vero che in tanti hanno sbagliato, l’arroganza con cui la Arendt ha trattato la cosa non mi è mai piaciuta».
Forse non serviva arrivare al 1941 per capire che qualcosa si era spezzato nel contratto non scritto tra ebrei e gentili nell’Ungheria di quel tempo. «I primi germi della dissoluzione si rintracciano con la prima guerra mondiale», ricorda Konrád. «Prima di allora nel Paese convivevano diversi stati nazionali: la maggioranza era ungherese ma c’erano anche serbi, croati, romeni. La nascita del nazionalismo ungherese, la progressiva magiarizzazione della società, fu l’inizio della fine. Anche per noi ebrei la vita cominciò a farsi più difficile: dovevamo studiare obbligatoriamente l’ungherese, dovevamo partecipare alle parate, dovevamo mostrare entusiasmo. Il nazionalismo ti offre sempre solo due possibilità: “sei come me e allora vieni con me”, oppure “non sei come me, vattene via”. Gli ebrei si configurarono subito come i non-ungheresi, e per loro la vita cominciò a essere difficile da allora».
È stato un miracolo che György si sia salvato – «Non so se sia stato un caso, il destino, o forse una statistica: qualcuno sarebbe pur dovuto sopravvivere…» – e anche che i genitori alla fine non siano finiti ad Auschwitz, ma abbiano potuto fare ritorno nel soggiorno blu.
Ad aspettarli, però, c’erano i sovietici. Un’altra violenza, ma di natura diversa: «I sovietici conservavano ancora un tratto del bolscevismo, e i bolscevichi al fondo coltivavano un’idea internazionalista – dice Konrád – che del resto aveva contribuito ad abbattere lo zarismo, con tutte le sue storture».
Negli anni a venire Konrád ne parlò anche con Tatiana Tolstoj – cosa differenziava la follia comunista da quella nazionalsocialista? «Lei mi disse che nella radice russa c’era l’imperialismo, una sorta di ossessione che li spingeva a radunare popoli ed etnie diverse sotto il loro dominio, anche con la violenza e il sopruso». I tedeschi no, non pensavano a un’inclusione del diverso, ma al suo annientamento. «Il nazismo era il livello più alto del nazionalismo discriminatorio, e l’Olocausto il livello più alto del nazionalsocialismo. I russi – dice ancora Konrád - hanno fatto cose orrende, Stalin aveva persino un piano di distruzione degli ebrei, condivideva con Hitler dei tratti paranoici – tipico dei tiranni o di chi assurge a ruoli di grandissimo potere – quindi i russi ne hanno uccisi tantissimi di ebrei, forse pochi di meno dei nazisti…». Ma? «Ma non posso dimenticare il mio ritorno a Berettyóújfalu nel febbraio del 1945, quando incrociai gli occhi di un soldato sovietico sulla strada di casa: mi sorrise, e mi accarezzò la testa con dolcezza. No, non ce l’avevano con gli ebrei».
L’antisemitismo oggi? «Sono sincero, non mi fa paura. Non perché sottovaluti quanto sta accadendo in Medio Oriente e nella stessa Europa, ma perché non ci sono mai stati lunghi periodi nella storia in cui gli ebrei non siano stati in pericolo di vita».

Corriere 14.2.15
Fine di una guerra civile Togliatti e l’amnistia del ‘46
risponde Sergio Romano


In una risposta lei fa intendere che la concessione dell’amnistia del 22 giugno 1946 da parte di Palmiro Togliatti, contestata dal suo stesso partito, fosse strumentale. L’amnistia generale fu solo italiana?
Mattia Testa

Caro Testa,
Non credo che fra il reclutamento comunista degli intellettuali italiani e l’amnistia del 1946, quando Togliatti era ministro della Giustizia nel primo governo De Gasperi, esista una relazione. Il leader comunista aprì le porte del partito agli intellettuali perché aveva bisogno di professionisti del consenso. Conosceva le loro debolezze e le loro ambizioni, sapeva che erano abituati da tempo a cercare un riparo all’ombra del potere (principe o partito). Sapeva infine che la distanza tra il fascismo di sinistra e il comunismo non era poi così grande. Lo aveva già sostenuto il filosofo Giovanni Gentile nel suo discorso in Campidoglio del 24 giugno 1943, un mese prima della caduta del fascismo. Alludendo alla presenza fra i giovani di una tendenza comunista, disse: “Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente delle more necessarie allo sviluppo di una idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo”. Tradotte in chiaro le parole un po’ barocche di Gentile dicevano ai giovani comunisti italiani: non siate impazienti, il fascismo va nella stessa direzione e ci arriverà prima di una ideologia utopistica come il comunismo. Togliatti lanciava agli intellettuali un messaggio opposto, ma fondato su una stessa premessa; ed era certo che sarebbe stato raccolto.
L’amnistia del 1946, invece, fu il risultato di una constatazione che Togliatti, in quel momento, non avrebbe mai ammesso pubblicamente. Dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile 1945 vi era stata in Italia, insieme alla guerra di liberazione, una guerra civile, vale a dire un sanguinoso conflitto tra fratelli da cui il vincitore esce generalmente in due modi: eliminando, dopo la fine della guerra, il maggior numero possibile di oppositori, come fecero Franco in Spagna e Lenin in Russia; oppure con un gesto di pacificazione e clemenza. Togliatti scelse la seconda strada perché il presidente del Consiglio (Alcide De Gasperi) e i partiti rappresentati nel governo che non avrebbero tollerato la prima.
La sua decisione non piacque a sinistra perché infrangeva due tabù su cui era stata costruita allora l’ideologia della Resistenza. Il primo tabù voleva che i partigiani avessero combattuto una guerra di liberazione nazionale contro un nemico straniero e i suoi servi (a cui non era neppure lecito attribuire la qualifica di «italiani»). Mentre il secondo tabù rappresentava la Resistenza come una lotta rivoluzionaria di liberazione sociale per l’avvento di una Repubblica popolare e proletaria.
Fu necessario attendere un importante libro di Claudio Pavone ( Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza ) pubblicato dalle edizioni Bollati Boringhieri nel 1991, perché il concetto di guerra civile fosse accettato anche dalla sinistra comunista e massimalista. Grazie a Pavone e agli studi di Renzo De Felice fu da allora possibile sostenere, senza suscitare scandalo, che nella guerra combattuta fra il 1943 e il 1945 vi erano stati italiani su entrambi i fronti, spesso divisi da un diverso concetto dell’onore. Togliatti, volontario nella Grande guerra, non poteva non esserne consapevole.
Lei vorrebbe sapere, caro Testa, che cosa accadde in altri Paesi europei afflitti dalla stesse problema. L’esempio più interessante è quello della Francia. Anche lì vi fu una guerra civile, ma si preferì agire con tempi più lunghi. Dopo parecchi processi, un certo numero di condanne a morte, qualche suicidio e parecchie epurazioni, furono adottate due amnistie: la prima per i reati puniti con pene inferiori ai 15 anni nel 1951, la seconda, più generosa ma non generale, nel 1953. Nel frattempo quasi tutti gli intellettuali che avevano più o meno felicemente convissuto con il governo di Vichy durante l’occupazione e avevano subito qualche rimbrotto dopo la liberazione, erano riapparsi sulla scena culturale e i loro peccati erano stati perdonati.

La Stampa TuttoLibri 14.2.15
Paul Valéry, il mondo è un cristallo in versi
Un filo rosso percorre tutti gli scritti del poeta francese: la ricerca di una sintesi tra arte e conoscenza scientifica
di Federico Vercellone


A più riprese il nostro tempo si è richiamato alla necessità di superare le due culture, di realizzare una sintesi fruttuosa di arte e scienza. Un grande antesignano di questo cammino, quasi un veggente in grado di scrutare in epoca remota questo nuovo orizzonte è stato Paul Valéry del quale viene ora pubblicato un pregevolissimo Meridiano Mondadori a cura di Marina Giaveri. Ne va qui, fra l’altro, di un pensiero che riflette sulla natura poietica della tecnica, suggerendoci così di proseguire per conto nostro sino a oggi, e cioè sino alla presenza dominante e tuttavia quanto mai affabile delle tecniche digitali.
Il percorso di Valéry è così oggi, e sotto ogni aspetto, quanto mai significativo. Egli sembra affrontare in controtendenza, con sguardo di veggente, un’epoca attraversata da una crisi di valori profonda che leverà dolente le proprie antenne sensibili dapprima nell’arte simbolista e poi nella grande cultura filosofica e sociologica della crisi dei primi decenni del ventesimo secolo.
In questo quadro la crisi personale attraversata dal Valéry ventenne nel 1892 assume i toni di una vera e propria conversione evangelica. Consapevole della debolezza della propria vocazione e delle proprie capacità letterarie, Valéry rinnova il proprio cammino in direzione di un’arte di ispirazione gnoseologica, volta cioè a riattivare il nesso arte-conoscenza. E’ questo probabilmente il filo rosso più evidente che attraversa questa silloge di Opere scelte. Essa contempla in modo esauriente la produzione di Valéry dalla poesia (dagli Album d’antichi versi, agli Incanti, alle Poesie sparse), per venire alla prosa poetica, a Monsieur Teste e all’insegnamento di Poetica al Collège de France, ai dialoghi, tra cui spicca il famoso Eupalinos o L’architetto, al teatro, ai saggi di pittura (Degas, Manet, Berthe Morisot, la prefazione al catalogo di arte italiana), alla letteratura (dalla Fedra di Racine a Mallarmé), all’estetica e alla poetica e ai temi di politica e di attualità.
A proposito di questo quadro tanto mosso e pur così ben composto di un’attività molteplice che si sviluppa su molti piani correlati viene da riprendere quanto Valéry afferma nel Discorso in onore di Goethe definito PATER ÆSTHETICUS IN ÆTERNUM. Goethe è colui il quale è in grado di realizzare, con ritmo volutamente lento, un’opera grandiosa che racchiude in sé le più diverse sfere dell’essere e del sapere. Egli «visse tutto il tempo che era necessario per sperimentare più di una volta ognuna delle molle del suo essere; per farsi di sé molte e diverse idee, di cui disfarsi per riconoscersi sempre più grande». Entriamo così nell’ambito di un pensiero fondamentalmente dialogico. L’io è sempre un noi, un dialogo costante che procede non deduttivamente, ma sulla base dell’analogia, come fra l’altro si ricava dall’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci. L’analogia si affida al linguaggio delle immagini e scopre nella struttura intima dell’oggetto relazioni segrete tra esseri all’evidenza profondamente diversi. Essa attraversa dunque i campi del sapere, e va al di là di ogni artificiosa divisione tra le scienze per rinnovare il legame misterioso che attraversa le forme del mondo. Non c’è dunque, né potrebbe darsi mai un sistema esaustivo; se ne possono edificare bensì molti a seconda delle relazioni che si vengono a rilevare e a creare. Lo spirito di sistema cede dunque il passo a una logica poetica che è anche una logica poietica: essa crea il sapere non descrivendo il mondo ma insediandosi nel processo del suo stesso farsi. Dice Valéry: «Il segreto, quello di Leonardo come quello di Bonaparte, come quello che talora possiede un’intelligenza sovrana, risiede, e non potrebbe essere che così, nelle relazioni che essi hanno trovato – che sono stati costretti a trovare – tra elementi la cui legge di continuità ci sfugge».
Abbiamo così a che fare con un pensiero sintetico e dunque simbolico che si immerge nelle sorprendenti regolarità del mondo. «Il mondo» - scrive Valéry - «è irregolarmente disseminato di disposizioni regolari. Fra queste i cristalli; i fiori, le foglie; ornamenti scanalati, pellicce maculate, ali, conchiglie; tracce del vento sulla sabbia e sulle acque ecc.». E’ una geniale anticipazione della teoria della complessità venuta poi a svilupparsi, in particolare nella filosofia della scienza, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. E’ un pensiero che rifiuta dunque la specializzazione per inseguire le ramificazioni di senso delle cose. E’ un pensiero poetico che conosce e sperimenta le gioie del costruire come un essere l’edificio della conoscenza, che pone dunque al centro della riflessione estetica l’architettura. Per quanto riguarda quest’ultimo versante è in gioco un ampliamento gigantesco dei confini della disciplina filosofica che non indagherà più semplicemente i principi del bello e dell’opera d’arte, ma quelli della strutturazione sensibile e oggettiva del mondo fornitaci dalle diverse scienze e, in particolare, dalla fisica.

il manifesto 14.2.15
La generosità tra Eros e potere
di Sarantis Thanopulos

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il manifesto Alias 14.2.15
Lo sguardo di Narciso
Ultraoltre. La funzione guardiana e quella erotica sono aspetti complementari di un patto tra umanità e natura che non deve essere tradito
di Raffaele K. Salinari

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