«Siamo in un momento aspro e delicato per la nostra nazione. Si sono svolte le elezioni politiche e hanno visto la vittoria di un capo reazionario come Silvio Berlusconi. Ritengo che sia un evento brutto e grave per il mio paese e soprattutto per le grandi masse di lavoratori, oggetto di duro sfruttamento. Non c’è tempo però per lacrime e recriminazioni. Non possiamo rinchiuderci nel guscio di casa. Bisogna riprendere da subito, da domani stesso, la lotta. Ci sono già di fronte a noi nuovi appuntamenti brucianti, di grande importanza: prima di tutto l’elezione del sindaco di Roma capitale: città che è un simbolo per il mondo intero. Avanti allora a lavorare adesso col popolo e nel popolo per l’elezione di Francesco Rutelli, combattente generoso e conoscitore profondo delle questioni romane, a guida della metropoli capitolina. Questo è il compito alto e grave che sta ora dinanzi alle forze democratiche e di sinistra, e che non ci consente soste. La lotta continua. Da vecchio e testardo militante mi rivolgo al popolo romano e chiedo, invoco: in queste ore cruciali dia ognuno un contributo per eleggere Rutelli a sindaco di Roma»
l’Unità 19.4.08
Rifondazione, dopo la sconfitta l’assalto al quartier generale
Giordano potrebbe ritrovarsi in minoranza. Il Pdci propone di riunire i comunisti: critico Rizzo, no dal Prc
di Simone Collini
A SINISTRA le macerie sono ancora fumanti, tutti parlano di ricostruire, ma intanto ci si spacca per segnare la posizione, complici i congressi straordinari convo-
cati per luglio.
In casa Pdci, Oliviero Diliberto propone di ripartire dall’unione dei comunisti, la direzione del partito approva a larga maggioranza la proposta ma Marco Rizzo non partecipa al voto per protesta, visto che il segretario ha sì definito morta e sepolta la Sinistra arcobaleno, ma ha anche rivendicato che era l’unica scelta possibile alle ultime elezioni.
In casa Prc, Franco Giordano propone di dar vita a una costituente della sinistra, uno «spazio pubblico in cui tutte e tutti possano intervenire, pesare e decidere», sottolineando che non ha «mai pensato allo scioglimento di Rifondazione comunista». Ma Paolo Ferrero e le minoranze del Prc non esiteranno, alla riunione del comitato politico nazionale che si apre oggi e si chiude domani, a sfidare anche con un voto il segretario, proponendo di sostituire in questa fase congressuale la segreteria con un comitato di gestione all’interno del quale la maggioranza sia minoranza (l’ipotesi è che ne facciano parte un esponente indicato da Giordano, uno da Ferrero e uno dalla componente Essere comunisti di Claudio Grassi). Due esempi che la dicono lunga sulle difficoltà che dovranno essere superate a sinistra e che annunciano congressi tutt’altro che semplici, sia per il Prc che per il Pdci.
La sua proposta Diliberto la mette sul piatto alla direzione del partito: abbandonare al suo triste destino la Sinistra arcobaleno e lavorare invece per l’unificazione di Comunisti italiani e Prc. «Ora occorre ricostruire la sinistra iniziando da noi stessi, quindi rimettendo insieme i due partiti comunisti e tutti gli altri comunisti che non si riconoscono in Rifondazione e nel Pdci». Questa sarà la piattaforma con cui Diliberto si presenterà al congresso dei Comunisti italiani, che verrà convocato per luglio. Una piattaforma che però, per il segretario del Pdci, deve poggiare su una «autocritica severissima» su quanto fatto negli ultimi mesi con la Sinistra arcobaleno: «Il simbolo, l’insediamento sociale, la campagna elettorale sbagliata e anche il profilo della sinistra stessa». Ora bisogna «ricostruire da capo», ripartendo dalla falce e martello: «Con quel simbolo due anni fa abbiamo preso 3 milioni e 700 mila voti. Con l’Arcobaleno solo un milione». L’autocritica non è però per Rizzo abbastanza severa: il coordinatore del Pdci chiede di votare la relazione di Diliberto per parti separate, annunciando il suo voto contrario per la parte riguardante il passato (Sa unica scelta possibile) e a favore per il futuro. Richiesta respinta, e allora Rizzo non partecipa al voto. Alla fine la relazione viene approvata, dai 104 membri della direzione, con due no, cinque astenuti e sette non partecipanti alla votazione.
Ben più infuocata sarà la riunione del comitato politico di Rifondazione, a cui di sicuro non parteciperà Fausto Bertinotti. Si apre oggi con la relazione di Giordano, che rilancerà la costituente della sinistra e risponderà no alla proposta di Diliberto, che il capogruppo uscente del Prc Gennaro Migliore non esita a definire «ancora più disastrosa della già cataclismatica sconfitta elettorale». I lavori si chiudono domani, con un voto che può mettere in minoranza il segretario. Lo scenario è questo: Ferrero, anche lui contrario alla proposta di Diliberto, proporrà insieme a Giovanni Russo Spena e Ramon Mantovani non solo «il rilancio di Rifondazione» ma anche la creazione di un comitato di gestione che curi la preparazione del congresso; la minoranza dell’Ernesto presenterà un documento da mettere al voto in cui si punterà il dito sulle responsabilità del gruppo dirigente; andrà all’attacco anche la minoranza guidata da Grassi, che tra l’altro ha poco apprezzato la risposta di Migliore a Diliberto. Se, come al momento appare possibile, si sommeranno i voti di Ferrero e delle minoranze, Giordano finirà in minoranza. E Ferrero potrebbe cominciare da una posizione di vantaggio la campagna congressuale.
l’Unità 19.4.08
«Liberazione»: paura per il futuro del giornale
Il comitato di redazione e le rappresentanze sindacali unitarie di Liberazione, «alla luce dell’esito elettorale di domenica e lunedì scorso, che ha prodotto l’esclusione dal prossimo Parlamento della Sinistra Arcobaleno, esprimono la propria preoccupazione e quella dei lavoratori e delle lavoratrici per il destino e l’autonomia della testata». In una nota, il cdr e le rsu «chiedono quindi garanzie da parte della società editrice di Liberazione, la Mrc Spa, riguardo le sorti del giornale e il mantenimento dei livelli occupazionali nell’immediato e nel prossimo futuro». Le preoccupazioni delle rappresentanze sindacali si riferiscono in particolare ai contributi pubblici destinati ai quotidiani che fanno riferimento a Gruppi parlamentari, qual è appunto Liberazione, che ha come riferimento Rifondazione comunista.
Corriere della Sera 19.4.08
Resa dei conti Il ministro: comitato di gestione. Il no di Giordano
Prc, Ferrero va all'assalto Cambi in vista a «Liberazione»
Bertinotti si prepara a dare l'addio alla vita politica
di Maria Teresa Meli
ROMA — Non sarà oggi l'addio di Fausto Bertinotti. Oggi, per il Prc, sarà il giorno della divisione, che preluderà a una possibile scissione, più in là nel tempo. Paolo Ferrero e suoi alleati in nome della falce e martello intendono riprendersi il partito nel comitato politico che si riunisce nel pomeriggio. E hanno i numeri per farlo. Come hanno i numeri per commissariare Liberazione. Con un vero e proprio blitz, ossia destituendo il direttore Piero Sansonetti e mettendo al suo posto l'ex capogruppo del Senato Giovanni Russo Spena (legato a Ferrero dalla comune militanza in DP), oppure limitandosi a commissariarlo. Ma al momento l'opzione più gettonata dal ministro della Solidarietà sociale è la prima.
Fausto Bertinotti, comunque, non ci sarà. Oggi, per ovvi motivi di opportunità. Ma potrebbe non esserci neanche un domani. Il "subcomandante" Fausto, come lo chiamavano i suoi quando tutto andava bene, sta maturando la decisione di lasciare la vita politica attiva. «E' stato grave da parte mia - è il suo pensiero - non capire quello che stava succedendo e non posso rifuggire dalle mie responsabilità». Le dimissioni che aveva dato in diretta tv non bastano. Certo, ora Bertinotti non lascerà soli i "compagni" che finiscono in minoranza per essere stati dalla sua parte. Li accompagnerà fino al congresso prossimo venturo che con tutta probabilità si svolgerà a luglio. Ma il suo viaggio, probabilmente, terminerà lì. Medita addirittura di chiedere "scusa", Bertinotti, ma più in là, non quando Ferrero, oggi, lo metterà sul banco degli imputati.
Dunque, il presidente della Camera non andrà al comitato politico. E non ascolterà l'intemerata di Ramon Mantovani secondo il quale «il gran frequentatore dei salotti deve andarsene a casa». In compenso ci saranno tutti gli uomini di Bertinotti, dal segretario dimissionario Franco Giordano all'ex capogruppo a Montecitorio Gennaro Migliore. Dovranno essere loro a fare da bersagli all'offensiva di Ferrero e dei suoi. Il ministro della Solidarietà sociale, però, giocherà d'abilità. Formalmente non si impossesserà subito in prima persona del partito, ma proporrà all'ala bertinottiana di Rifondazione un comitato di gestione in cui siano presenti tutti. All'apparenza un'offerta di pace, in realtà un modo per coinvolgerli nella conduzione del partito, cosicché al congresso, quando Ferrero proverà a farsi eleggere segretario, non potranno smarcarsi da lui.
Ma se questa è la proposta, Giordano e gli altri hanno deciso di rispondere di "no": non entreranno in un organismo «fintamente collegiale», fanno sapere, e che «in realtà verrà gestito dal solo Ferrero». Questo "no", però, non equivarrà a un annuncio di scissione. I bertinottiani tenteranno di riprendersi la maggioranza al Congresso (e in questo caso il loro candidato sarà Migliore). Ma se non non ci riusciranno si troveranno davanti a una strada obbligata: quella della scissione. Per fare che? «Per cercare», rispondono loro, «di costruire la sinistra con chi ci sta». Ossia con la Sd di Fabio Mussi, con un pezzo dei verdi (l'altro pezzo vuole già confluire in tutta fretta nel Pd) e con una parte dei movimenti.
Alla fine la sinistra risulterà polverizzata. Ci saranno il Prc con falce e martello di Ferrero, il Pdci di Diliberto (con cui però il ministro di Rifondazione non vuole allearsi), la sinistra critica di Turigliatto, quella di Ferrando e quella movimentista e non comunista dei bertinottiani... Un arcipelago piccolo, ma, in compenso, molto frastagliato.
l’Unità 19.4.08
«Una casa comune per i comunisti»
Centinaia le adesioni
Sono centinaia le adesioni all’appello «Comunisti di tutta Italia, unitevi», fatto proprio anche dalla segreteria di Comunisti italiani. L’appello era stato lanciato cento intellettuali o esponenti del mondo del lavoro e dello spettacolo: da Ciro Argentino, operaio Thyssen, all’astrofisica Margherita Hack, al filosofo Gianni Vattimo. E ancora lo storico Luciano Canfora, Vauro, Bebo Storti, Marco Baldini. Un appello alla costruzione di una «casa comune dei comunisti», un «partito comunista forte e unitario», rivolto alle «centinaia di migliaia di comunisti senza tessera».
L’appello attacca duramente la proposta di Franco Giordano, Prc: «Non condividiamo l’idea di un soggetto unico della sinistra di cui alcuni chiedono ostinatamente un’accelerazione, nonostante il fallimento politico-elettorale. Proponiamo invece una prospettiva di unità e autonomia delle forze comuniste in Italia, un processo di aggregazione che, a partire dalle forze maggiori (Prc e Pdci) vada oltre coinvolgendo altre soggettività politiche e sociali, senza settarismi o logiche auto-referenziali». Insomma, l’obiettivo è «casa comune dei comunisti», un «partito comunista forte e unitario».
l’Unità Roma 19.4.08
Gli ultras e lo squadrismo mistico-fascista
Gli arresti e il sequestro dei documenti che hanno permesso di collegare lo stadio e l’assalto a Villa Ada
di Massimiliano Di Dio
TEORIE «Il nucleo più consapevole degli Ultras Lazio ha un retroterra teorico che lo porta a identificare nello squadrismo mistico-fascista l’essenza di una condotta che vuole essere una risposta alla sterilità politica contingente». Tifo e ideologie fasciste appaiono per la prima volta insieme per iscritto nel manifesto del tifoso dell’Olimpico. Titolo: «Ultras: oltre il tempo. Storie di barricate e lacrimogeni». Un documento di ventinove pagine trovato a casa di Roberto Sabuzi, 41 anni, fede laziale. Per tutti lui è er Capitano, uno dei tifosi arrestati nella capitale per gli assalti alle caserme la notte dell’11 novembre scorso, subito dopo l’uccisione di Gabriele Sandri. «Quando parte "la carica alle guardie" - si legge - il grido di battaglia, come una sfida intera al mondo antifascista, rimane il classico Duce Duce». Quello stesso grido che accompagna gli ultras di estrema destra nella spedizione punitiva del 28 giugno 2007 a Villa Ada durante il concerto rock della Banda Bassotti. I feriti allora furono tre ma quell’irruzione, ribadiscono ora i carabinieri, «confermò la matrice politica che univa le singole tifoserie, laziali e romaniste, la cui aggressività trovava sfogo anche al di fuori dello stadio». Spedizioni punitive all’insegna della xenofobia. Dettate da un linguaggio senza filtri: «Sarebbe da sparaje in faccia alle guardie. Che te credi che non m’andrebbe de ammazzalla na guardia?», «Sti rumeni stanno infestando la nostra razza», «Stasera voglio ammazzare qualcuno, voglio andare in battaglia». Tra gli obiettivi portati a termine secondo l’accusa, oltre all’attacco a Villa Ada, anche un tentato incendio ad una baracca di rom, l’occupazione di un immobile Atac e soprattutto l’assalto alla caserma di via Guido Reni. In programma poi l’attacco ad un campo nomadi quale risposta all’omicidio di Giovanna Reggiani e una missione violenta in Campania per partecipare agli scontri sui rifiuti. Insieme a Sabuzi finiranno in manette altre quindici persone accusate, a seconda delle posizioni, di associazione a delinquere, devastazione e lesioni. Per alcuni c’è l’inedita aggravante del terrorismo. Molti sono vicini a Forza Nuova, tra loro anche Daniele Pinti, scarcerato insieme a Fabio Pompili perché risultato estraneo al contesto accusatorio e transitato nelle liste del “popolo della vita per Alemanno”. Gli inquirenti sanno di aver sferrato un duro colpo alla caccia avviata contro «gli sbirri e le strutture dello Stato». La sensazione è di aver decapitato ma non annientato l’organizzazione. Dopo gli arresti, non ci sono stati nuovi episodi di violenza. «Sanno di essere sotto controllo - fanno sapere gli investigatori -. Ma l’attenzione è sempre alta. Possono fare danni enormi. All’Olimpico la coltellata alla gamba potrebbe trasformarsi in altro e ci vuole poco per far scappare il morto». Lo stadio sotto controllo, com’è ovvio. Secondo i dati del Viminale su un esercito di 75mila tifosi, oltre 20mila sono violenti. Di questi 15mila si ispirano alla destra oltranzista e 5mila all’estrema sinistra. Gente pronta a colpire in ogni modo l’avversario. Tra le tifoserie più temute: quelle della Roma (Bisl, Basta infami solo lame, Tradizione e distinzione) e della Lazio (Banda noantri, cui appartenevano almeno tre degli arrestati). Entrambe ormai accomunate dalla matrice politica di estrema destra. «L’ultras nasce e muore clandestino - recita un volantino del 2003 diffuso da Bisl all’Olimpico - soprattutto non tradisce i suoi amici perché il numero uno resta chi lo vuole eliminare. Onore ai detenuti, ai diffidati, morte alle spie».
l’Unità Roma 19.4.08
«Con Gianni Alemanno l’estremismo fascista»
«Al di là degli apparentamenti, Alemanno e i suoi alleati più o meno ufficiali rischiano di far arretrare Roma e la cultura democratica che l’ha caratterizzata in questi anni», avvertono a due voci i vertici romani di Pd e Sinsitra Alternativa. Denunciano Riccardo Milana e Patrizia Sentinelli: «Alemanno ha candidato tra i suoi un esponente di Forza Nuova, Daniele Pinti. Abbiamo una destra xenofoba e intollerante che ha visto come protagonista Luca Romagnoli, un signore quarantenne che ha fatto impallidire il parlamento di Strasburgo con le dichiarazioni che negavano l’Olocausto». A riprova gli esponenti politici che sostengono Rutelli nella sfida per Roma mostrano le locandine che pubblicizzano le iniziative dei centri sociali di destra, primo fra tutti Casa Pound: Paolo Di Canio che fa il saluto fascista sotto la Curva Nord; Benito Mussolini, ancora in fase squadristica, che sgrana gli occhi in un primissimo piano. E ancora: camice nere ritratte in pose plastiche mentre partono alla ‘carica’ con il fez ben calcato sulla testa. «In un clima in cui si parla di legalità ci sono sedi di proprietà pubblica occupate da anni da circoli della destra in continuità con le ideologie del Ventennio e con cui Alemanno si appresta a fare un’alleanza», dice Riccardo Milana, segretario romano del Partito Democratico. E poi aggiunge: «A casa Pound è andato a fare campagna elettorale Francesco Storace, il 14 marzo. Alemanno - continua l’esponente Pd - nel 2003 sosteneva ancora che il fascismo non fu solo leggi razziali e non può essere definito il male assoluto, nè tantomeno An può apparire come un partito antifascista».
«Questa città ha comunque gli anticorpi per rispondere a questi personaggi», dice anche Massimo Cervellini, segretario romano di Sinistra Democratica.
l’Unità Firenze 19.4.08
25 aprile, l’appello di Anpi, Arci e Cgil
Primo avvertimento al premier in pectore Silvio Berlusconi, che in passato spesso ha snobbato le celebrazioni del 25 aprile, festa della Liberazione: «Attui il dettato della nostra Costituzione nella sua interezza e sia sempre rispettoso di tutti i diritti che la Costituzione consente al popolo italiano». Parola dell’ex partigiano «Pillo», oggi noto come Silvano Sarti, presidente dell’Anpi provinciale di Firenze. E per tramandare a giovani e bambini l’importanza e il significato della Liberazione, Arci, Cgil e Anpi organizzano per il 25 aprile iniziative e feste nelle case del popolo di Firenze e provincia, incontri nelle fabbriche e un’intera giornata di manifestazione in piazza Ghiberti, promossa con gli studenti universitari. Il 21 aprile la Cgil sarà alla Galileo insieme al presidente nazionale Anpi Tino Casali, mentre il 23 è previsto un incontro al nuovo Pignone col presidente della Regione Claudio Martini. Il 24, invece, per inaugurare un nuovo piano della sede del sindacato è stata organizzata una tavola rotonda col sindaco Leonardo Domenici. Pranzi, proiezioni, dibattiti, mostre, incontri e musica animeranno invece le tante iniziative organizzate presso i circoli Arci del territorio fiorentino, sia nei giorni del 25 aprile che successivamente. «Democrazia, lavoro, libertà, antifascismo: è fondamentale tramandare i valori del 25 aprile e della Costituzione ai più giovani, soprattutto in questo momento così particolare», vogliono ricordare Francesca Chiavacci, presidente di Arci Firenze, e Mauro Fuso, segretario della camera del lavoro. t.gal
Corriere della Sera 19.4.08
La verità nascosta del regime «mussolinista»
Piero Melograni: non ci fu un'ideologia fascista ma soltanto il potere personale di un dittatore
di Dario Fertilio
Si comincia con il dramma delle trincee: fango e baionette sui fronti del '15-18, e poi quella rabbia per la «vittoria mutilata» che sarebbe presto degenerata in fascismo. E si finisce con la tragedia dell'aprile 1945, quando nel crepuscolo del regime si consumano grandi eroismi e piccole vendette da guerra civile.
Tra l'uno e l'altro evento, in un arco di tempo da riassumere e spiegare — anche per smontare i luoghi comuni interpretativi intorno a quegli anni — c'è lo storico Piero Melograni. La sua rivisitazione del ventennio nero — una ricerca in cui ha selezionato, interpretato e commentato una enorme quantità di materiale con l'aiuto della giovane studiosa Federica Saini - rappresenta anche l'occasione di lanciare una diversa definizione del regime. Che fu in realtà, secondo il suo giudizio, «mussolinismo ».
Ma c'è una differenza significativa tra i due termini?
«Certo, ed è essenziale, come compresero per primi i fratelli Rosselli: anzi, nei Quaderni di Giustizia e Libertà sostennero più volte questa tesi. Se vogliamo afferrare il senso del sistema di potere del ventennio, dunque, conviene evitare di definirlo "fascista". Fu un regime mussoliniano. Perché il centro del sistema di consenso era rappresentato da lui stesso, il Duce, e nessun altro. E perché è ormai tempo di comprendere che anche i dittatori hanno bisogno di consenso».
Il che si può tradurre così: il fascismo, in quanto sistema politico, non possedeva una vera e propria consistenza ideologica. Infatti, osserva Melograni, «ne aveva molto meno di quella che gli è stata attribuita in seguito. Oltretutto, l'uomo che ne era a capo si poteva definire una persona fortemente indecisa». E dire che secondo l'opinione corrente, compresa quella degli avversari, Benito Mussolini incarnò il "decisionismo". Tanto che molti decenni dopo, in circostanze diversissime, gli avversari del "decisionista" Bettino Craxi si sarebbero serviti proprio del paragone con Mussolini per attaccarlo.
«Una fama completamente immeritata, quella del Duce capace di prendere sempre la decisione giusta » afferma Melograni. «I suoi collaboratori, a cominciare dal capo della polizia Carmine Senise, hanno riferito che Mussolini subiva talmente l'influenza altrui, da dare sempre ragione all'ultimo che gli aveva parlato».
Si potrebbe capovolgere lo slogan «il Duce ha sempre ragione», insomma, nello slogan «il Duce dà sempre ragione»... «E non è solo una battuta. Si arrivava ad estremi incredibili: non era raro che gli accadesse di rispondere affermativamente a progetti completamente contraddittori, sottoposti a lui lo stesso giorno! Una conferma diretta di un simile atteggiamento viene da Guido Leto, il capo della polizia segreta fascista, la famosa e lugubre Ovra».
Dunque, si trattava di una condizione legata alla personalità unica di Benito Mussolini, o piuttosto di un tratto comune agli altri grandi dittatori del suo tempo?
«Qualcosa in comune lo avevano. Il comportamento di Adolf Hitler, ad esempio, era a dir poco ondeggiante. L'architetto Albert Speer, a lui molto vicino, scrisse che si lasciava influenzare moltissimo da coloro che sapevano prenderlo per il verso giusto. Credo che sia corretto definirlo un incompetente accentratore, o per lo meno che questa fosse una delle sue caratteristiche peculiari».
Un bel paradosso: fascismo e nazionalsocialismo finirono per affidarsi entrambi a leader indecisionisti. «Ma con una precisazione: l'ideologia nazionalsocialista era molto più potente e strutturata di quella fascista ». Se ne può dedurre che una caratteristica del dittatore totalitario novecentesco sia stata quella di lasciarsi imprigionare dal mito del consenso. Un consenso talmente "totalitario" da voler accontentare tutti, o quasi, tanto che — secondo Melograni — «Mussolini e Hitler furono schiavi del loro stesso consenso».
In una certa misura anche Stalin si può ricondurre allo stesso profilo psicologico: «Secondo la figlia Svetlana, lo si vedeva ben poco al lavoro, nel suo ufficio. Certo era molto più rozzo di Mussolini. E forse persino più rozzo di Hitler».
Le loro personalità erano ben diverse, dunque, da come oggi le immaginiamo. Erano, si direbbe, tutti e tre schiavi del loro potere. «Insomma — spiega Melograni — incarnavano il contrario del principio di onnipotenza. Succubi dei loro collaboratori, prigionieri e spaventati dal ruolo che interpretavano ».
Ma questa affinità di fondo non può cancellare le grandi differenze tra l'uno e l'altro, che « furono profonde, in parte ideologiche e in parte dovute a condizionamenti geopolitici. E influì sul comportamento dei dittatori il carattere dei loro popoli ».
Resta da stabilire se il «mussolinismo » sia stato un fenomeno realmente «totalitario», nel senso che soppresse la società civile, o semplicemente «autoritario», rassegnato a convivere entro certi limiti con centri di potere concorrenti. A questo proposito, secondo Melograni, «la svolta fu quella del 1938: leggi razziali e alleanza con Hitler. Da quel momento si può parlare di un vero totalitarismo fascista, mentre fino ad allora il ruolo dei Savoia aveva fatto somigliare piuttosto l'Italia a una diarchia, in cui il capo del regime condivideva il potere con il Re».
Tuttavia, se chiamiamo «mussolinista» la dittatura, dove va a finire quella famosa categoria dell'uomo «fascista», che nel costume e nel linguaggio politico è sopravvissuta quasi fino ad oggi, sia pure sotto forma di insulto? Secondo Piero Melograni essere "fascista" equivaleva di fatto a dichiararsi fanatico. Dunque, «più fascista di Mussolini, confermandosi tale anche dopo, durante la Repubblica sociale». Ben diverso era invece Mussolini, «che aveva il senso della mediazione, e sapeva come comportarsi... e non a caso si era fatto le ossa nel partito socialista».
La parabola del fascismo si chiude dunque definitivamente con la morte del Duce?
«Sì, anche se la Repubblica Sociale era già una cosa completamente diversa dal regime, prigioniera di fatto della Germania. La verità è che Mussolini aspirava a una pace di compromesso fra i due blocchi in guerra, in cui lui avrebbe potuto svolgere il ruolo di mediatore».
Eccoli dunque, i tre grandi dittatori messi in fila da Piero Melograni, ognuno con il suo profilo psicologico "indecisionista". «Mussolini, Hitler e Stalin interpretarono ugualmente la paura verso il mondo moderno, incarnarono una reazione al caos. Il che coincise, per Hitler e Mussolini, con un tentativo di ritorno all'ordine della civiltà contadina, agricola, "verde". Lenin invece, ancor prima di Stalin, concepì il tutto come un salto a marce forzate nel futuro».
Corriere della Sera 19.4.08
L'antropologo Marc Augé descrive come si pensano le soluzioni nell'era dell'esistenzialismo pratico
Le utopie hanno rubato il futuro
«Ora cambiamo il mondo senza doverlo immaginare»
di Marc Augé
Il tema del migliore dei mondi deve situarsi in rapporto ai due tipi di miti apparsi nella storia: i miti di origine, fondatori delle religioni, di cui i filosofi occidentali hanno potuto dire che la modernità del XVIII secolo li aveva uccisi, e i miti del futuro, i grandi racconti fondatori delle ideologie politiche progressiste, che la storia del XX secolo avrebbe fatto scomparire.
Le due declinazioni del tema dell'altro mondo presentano paradossi, differenze e similitudini. Le utopie laiche possono apparire più generose e disinteressate delle religioni di salvezza, poiché non promettono alcuna ricompensa individuale a breve termine e non si interessano alla morte individuale. Ma entrambe hanno conseguenze nel mondo attuale (se designiamo con l'espressione «mondo attuale» il mondo in cui viviamo e con l'espressione «mondo virtuale» il mondo che le religioni o le utopie pretendono di sostituirgli). Le religioni di salvezza, infatti, accordano importanza alle «opere»; quanto alle utopie laiche, esse sono state spesso legate a filosofie della felicità che hanno cambiato il rapporto con la vita «mondana». Storicamente, le une e le altre sono state sovente, per una moltitudine di individui, un modo di vivere il mondo attuale piuttosto che un modo di cambiarlo.
Forse l'attualità ci invita a sfumare il tema della fine dei due tipi di miti. Se è vero che l'esistenza di forme aggressive di religione (islamismo, evangelismo) può farci temere un XXI secolo dilaniato da concezioni opposte e ugualmente retrogradi del mondo — il che smentirebbe il tema della fine dei miti di origine e del trionfo della modernità —, non bisogna sottovalutare l'aspetto politico delle nuove affermazioni religiose, né il loro aspetto reattivo. Forse la modernità è ancora da conquistare e noi siamo al centro di una crisi che in realtà è simile a una fine. Inoltre, se è bene constatare l'indebolimento delle proiezioni politiche di vasta portata, non sono da escludere sorprese in questo campo; le concezioni dominanti non sono più sicure delle loro precorritrici, e l'assenza o l'indebolimento di rappresentazioni costruite dell'avvenire può costituire un'opportunità per cambiamenti effettivi che si sono nutriti dell'esperienza storica concreta. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a convertirci a una sorta di esistenzialismo pratico. Le innovazioni tecnologiche che hanno sconvolto i rapporti di sesso e i modi di comunicare (la pillola, Internet), non sono nate dall'utopia, ma dalla scienza e dalle sue conseguenze tecnologiche. L'esigenza democratica e l'affermazione individuale prenderanno probabilmente strade inedite che solo oggi intravediamo.
Dall'inizio del XX secolo, la scienza ha compiuto progressi accelerati che oggi ci lasciano scorgere prospettive rivoluzionarie. Nuovi mondi cominciano ad aprirsi davanti a noi: da un lato, l'universo, le galassie (e questo cambiamento di scala non sarà privo di conseguenze, a termine, sull'idea che ci facciamo del pianeta e dell'umanità); dall'altro, il confine tra la materia e la vita, l'intimità degli esseri viventi, la natura della coscienza (e queste nuove conoscenze comporteranno una ridefinizione dell'idea che ogni individuo può farsi di se stesso). Quello che sapremo del mondo cambierà il mondo, ma questi cambiamenti sono oggi inimmaginabili; non possiamo sapere, per esempio, quali saranno i progressi della scienza entro i prossimi trenta o quarant'anni.
A tal proposito, due osservazioni: 1) Se nel campo dell'educazione non si realizzeranno cambiamenti rivoluzionari, c'è il rischio che l'umanità di domani si divida fra un'aristocrazia del sapere e dell'intelligenza e una massa ogni giorno meno informata su quello che la conoscenza comporta. Questa disuguaglianza riprodurrebbe e moltiplicherebbe la disuguaglianza delle condizioni economiche. L'educazione è la priorità delle priorità.
2) Le conseguenze tecnologiche della scienza sono come una seconda natura. Le immagini e i messaggi ci circondano e ci rassicurano, ci alienano dal nuovo ordine delle cose senza necessariamente darci i mezzi di comprenderlo. È qui il rischio connesso a ciò che ho chiamato «cosmotecnologia». Essa ci dà l'illusione che il mondo sia finito. Aiuta a vivere, ma può anche essere il passaggio che apre a tutti gli sfruttamenti se coloro che alla cosmotecnologia si richiamano non hanno una coscienza esatta del suo ordinamento.
La scienza non ha bisogno di disuguaglianze, né di dominazione. Se, di fatto, dipende dai politici che la finanziano, e in larga misura la orientano, la scienza risponde di diritto solo al desiderio di conoscere. Riguardo a questa esigenza, la miseria e l'ignoranza sono fattori di ritardo. Un mondo che ubbidisse soltanto all'ideale di conoscenza (e di educazione) sarebbe più giusto e insieme più ricco. Constatare che la scienza cambia il mondo significa ammettere che non esiste un altro mondo se non quello che stiamo cambiando; un mondo che, in sé, è al tempo stesso fine e finalità.
(Traduzione di Daniela Maggioni) Nostradamus (1503-1566). In alto scritta su un muro di Roma, citazione attribuita a Paul Valéry.
Dà il titolo a una raccolta di poesie di Mark Strand (foto Ciofani) Marc Augé, 72 anni, ha pubblicato l'anno scorso «Il mestiere dell'antropologo» (Bollati Boringhieri)
Repubblica 19.4.08
Sfida Capezzone-Bergamini per il portavoce del Cavaliere
ROMA - Daniele Capezzone potrebbe essere il nuovo portavoce di Silvio Berlusconi, quando il leader del Pdl si insedierà a Palazzo Chigi. Paolo Bonaiuti, l´attuale portavoce, sembra infatti destinato ad assumere una carica ministeriale nel nuovo governo. E in quel caso il suo ruolo verrebbe appunto ricoperto dall´ex segretario radicale, che nell´ultima legislatura era stato eletto nelle liste della Rosa nel Pugno all´interno dell´Unione. Non è escluso che la "squadra" della comunicazione di governo venga in realtà composta da un tandem. Molti fanno anche il nome di Deborah Bergamini, ex assistente del Cavaliere, poi direttore del Marketing strategico della Rai e consigliere di amministrazione di RaiTrade, ed ora deputato del Pdl.
Repubblica 19.4.08
Criminali impuniti
Un saggio di Filippo Focardi con nuovi documenti
Quando la politica cancella la memoria
di Simonetta Fiori
I responsabili delle stragi naziste in Italia beneficiarono di un´amnistia occulta, mai riconosciuta dalla verità ufficiale
Svelate le trame filonaziste del vescovo austriaco Alois Hudal
L´esiguità dei processi italiani rispetto alla giustizia in Europa
È un capitolo oscuro, tuttora irrisolto, che si nutre del controverso rapporto tra politica e storia. Politica e storia di sessant´anni fa, ma anche politica e storia di oggi. Investe un tema delicato, la memoria italiana dei crimini nazifascisti subiti dal nostro paese, ma anche il confronto con i crimini commessi altrove dai nostri soldati, in Grecia e in Jugoslavia, in Francia, in Albania e in Etiopia. Una memoria fragile, incline a reticenza, che lo storico tedesco Lutz Klinkhammer stigmatizza - nel raffronto con gli altri paesi europei - come "forte anomalia italiana": sia per l´esiguità dei processi penali celebrati nel dopoguerra, sia per la ripresa tardiva dei dibattimenti dopo la scoperta negli anni Novanta dell´"armadio della vergogna", centinaia di istruttorie insabbiate negli scaffali della procura militare. Di fatto un´amnistia per occultamento, dettata da ragioni diverse, non ultimo garantire l´impunità ai criminali di casa nostra.
Ora un nuovo libro di Filippo Focardi, arricchito da una nutrita documentazione, aiuta a ricostruire questa pagina ancora incompiuta, "sbianchettata" appena due anni fa dalla "verità" di Stato sancita - in conclusione dei lavori della Commissione d´inchiesta parlamentare sulle stragi nazifasciste - dall´allora maggioranza di centro-destra (Criminali di guerra in libertà, Un accordo segreto tra Italia e Germania federale, 1949-1955, pagg. 170, euro 18,20, Carocci). Non fu una tessitura politico-diplomatica - sentenziò nel febbraio del 2006 il Parlamento italiano - a impedire i processi contro gli aguzzini tedeschi o a vanificarne l´esito. Si trattò più semplicemente di negligenza da parte della giustizia militare. Ed è da escludere - recita ancora la relazione di maggioranza della Commissione - qualsiasi relazione tra il corso rallentato dell´azione giudiziaria verso i criminali tedeschi con la pratica dilatoria attuata dal governo italiano verso l´estradizione dei criminali italiani, richiesta avanzata soprattutto dalla Jugoslavia. Anzi, sostennero i parlamentari di centro-destra, sarebbe più opportuno concentrarsi sulle violenze commesse dai partigiani di Tito contro gli italiani, da qui la proposta di istituire una commissione di inchiesta sulle foibe. La politica ieri, la politica oggi. Ma le cose stanno esattamente così? Non agì piuttosto, al principio degli anni Cinquanta, una ragion di Stato che pose un freno alla giustizia militare?
L´"accordo segreto" cui allude il titolo di Focardi non è in realtà una novità storiografica. Lo rivelò lo stesso studioso nel 2003 in un convincente saggio su Italia Contemporanea. Nel novembre del 1950 Heinric Höfler, compagno di partito e amico personale del cancelliere Adenauer, s´accordò con il conte Vittorio Zoppi, segretario generale del ministero degli Esteri, per la liberazione dei criminali di guerra tedeschi condannati con sentenza definitiva. Nel giro di pochi mesi, attraverso decreti di grazia firmati dal presidente Luigi Einaudi e controfirmati dal ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, i militari furono rimpatriati in Germania. Tra essi, i quattro ufficiali del cosiddetto Gruppo di Rodi, in testa il generale Otto Wagener, responsabili dell´uccisione sull´isola greca di numerosi prigionieri di guerra italiani.
Nel nuovo lavoro di Focardi acquista centralità un curioso personaggio finora rimasto sullo sfondo, il vescovo austriaco Alois Hudal, rettore del Collegio teutonico presso la Chiesa di Santa Maria dell´Anima a Roma. Il prelato si distinse nel dopoguerra per "l´attività caritatevole" al cospetto dei criminali tedeschi in Italia, "poveri connazionali" secondo una sua bizzarra definizione. Fu Hudal nel maggio del 1949 a scrivere una lettera a monsignor Montini, futuro Paolo VI, per sollecitare la Santa Sede verso una sanatoria a beneficio dei prigionieri di guerra tedeschi condannati in Italia, missiva cui fece immediatamente seguito un´iniziativa del Vaticano a favore del "gruppo di Rodi". Il profilo di Hudal si staglia nitidamente dietro le manovre diplomatiche di questi anni, fino al suo "licenziamento" decretato nel giugno del 1951 dal ministro della giustizia tedesco, il quale in una lettera lo ringrazia per "l´opera disinteressata e piena di abnegazione", invitandolo a riconsegnare i soldi fino a quel momento amministrati per le necessità dei criminali. «Un emissario di fiducia del governo tedesco», sintetizza Focardi, che utilizza le carte dell´archivo personale di Hudal già studiate da Matteo Sanfilippo.
In fondo, il governo tedesco fece con noi esattamente quel che l´Italia aveva fatto con la Grecia. Nel marzo del 1948 anche le autorità italiane s´erano adoperate per la liberazione dei nostri criminali di guerra responsabili di sanguinose rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile greca. Accordi naturalmente condotti in gran segreto, in paesi in cui erano ancora molto vive le ferite impresse dal nazifascismo.
La "pista politica" è dunque quella che spiega l´impunità dei criminali - italiani e tedeschi - pista incomprensibilmente negata dalla relazione conclusiva approvata a maggioranza dalla commissione parlamentare sulle stragi nazifasciste (che pure poteva tener conto delle preziose acquisizioni storiografiche). La ragion di Stato e il contesto internazionale vengono invece letti come fattori decisivi nella relazione di minoranza presentata dal centro-sinistra, che fa riferimento proprio al caso del generale Wagener e coimputati, raccontato estesamente in questo volume di Focardi.
Le nuove ricerche della storiografia europea consentono inoltre di cogliere l´anomalia italiana in tutta la sua portata nel raffronto con gli altri paesi. Se l´Italia fu capace di dare solo tre ergastoli (Kappler, Reder e Niedermayer), di cui uno in contumacia, due sole condanne a più di 15 anni di reclusione (Wagener e Mair), ben dodici assoluzioni su un totale di ventisei persone processate, un piccolo paese come la Danimarca - dove l´occupazione tedesca fu certo meno sanguinaria - celebrò tra il 1948 e il 1950 almeno settantasette processi, con settantuno condanne. Le cifre prodotte da Focardi sono impressionanti. In Belgio furono condotti trentuno processi contro una novantina di criminali, con pene molto pesanti tra cui ventuno condanne a morte (solo due eseguite). In Olanda i criminali di guerra processati furono duecentotrentuno, con diciotto condanne a morte (cinque eseguite). In Francia i processi furono centinaia, circa cinquanta i giustiziati.
Né provvidero i tedeschi a riscattare le vittime italiane. Tutti i fascicoli aperti in Germania alla metà degli anni Sessanta si conclusero con "un non luogo a procedere". Con l´eccezione di Caiazzo, nessuna strage di civili italiani ha mai avuto un processo. Per la giustizia non ci sono colpevoli.
Repubblica 19.4.08
Klinkhammer "L'Italia ha un problema di coscienza"
Lutz Klink-hammer, autore di studi fondamentali sull´occupazione tedesca in Italia, fa riflettere su un aspetto paradossale della nostra storia: da una parte siamo il paese che meno degli altri ha fatto i conti con i crimini del nazifascismo, dall´altra non abbiamo rivali nella detenzione di due personaggi-simbolo come Kappler e Reder. «Dagli anni Cinquanta in poi», dice lo storico, «l´Italia si dimostrò il paese occidentale con l´atteggiamento più duro nell´esecuzione della pena inflitta ai due criminali nazisti condannati all´ergastolo, Herbert Kappler e Walter Reder. Nonostante le insistenti richieste di Bonn, il governo italiano non acconsentì al rilascio del boia delle Fosse Ardeatine, fino a quella strana "fuga" dal Celio».
Una durezza in realtà apparente. Per due criminali in galera, tutti gli altri beneficiarono di un´amnistia occulta.
«Sì, la carcerazione di Kappler funzionò da evento simbolico, dietro il quale far passare l´insabbiamento di tutte le altre stragi. Rimane il fatto che l´Italia fu l´unico paese della nascente comunità europea a non concedere, per tre decenni, il rilascio di un criminale di guerra tedesco».
Altri criminali furono rimpatriati o mai processati.
«Le ragioni dell´insabbiamento cambiarono nel corso dei decenni. Alla fine degli anni Quaranta il rallentamento della giustizia serviva ad evitare la punizione dei criminali di guerra italiani. Alla metà degli anni Sessanta, su esplicita richiesta della Germania, le autorità italiane decisero di riaprire una decina di casi, mentre centinaia rimasero occultati».
Il risultato finale è che quei crimini sono rimasti impuniti.
«Sì, l´altro aspetto dell´anomalia italiana è la ripresa tardiva dei processi negli anni Novanta. Istruttorie e dibattimenti sono ancora in corso, ma è sempre più difficile provare la colpevolezza. È passato troppo tempo per una condanna certa».
L´anomalia rivela l´incapacità di misurarsi con quella storia.
«L´Italia ha un problema di coscienza. Quella guerra fu combattuta all´inizio con i tedeschi e questo crea difficoltà e imbarazzi. In Germania c´è stata Norimberga: in qualche modo alla riflessione siamo stati costretti. In Italia c´è ancora chi inneggia a Mussolini».
S.Fio.
Repubblica 19.4.08
Festival della filosofia
Schopenhauer. Il mondo non ha senso
di Franco Cordero
La parabola del filosofo Schopenhauer, artista della lingua viva capace di svelare i verminai della storia
La Germania 1813 è l´epicentro del collasso napoleonico e il filosofo non è certo un patriota
La sua opera dissona dai tempi quindi cade e qualche recensore fa dello spirito
Nel 1848 l´hegelismo più cortigiano ha perso l´appeal ed emerge il buio
Quando nasce Sainte-Beuve, controllore della bienséance letteraria francese (Boulogne-sur-Mer 1804), viaggiava nel continente e oltre Manica il figlio appena adolescente d´un facoltoso mercante tedesco: Arthur Schopenhauer (Danzica, 22 febbraio 1788) conosceva la Francia del Direttorio avendo abitato due anni a Le Havre; nei Reisetagebücher appare già pensatore introverso. Dal 17º anno fa pratica commerciale in una Casa d´affari amburghese, non avendo la stoffa dei Buddenbrook, e anche Heinrich Floris, suo padre, nasconde punti fragili se, come pare, muore suicida senza motivo perché gli affari vanno bene nell´Europa 1805. Johanna Troisiener è una fredda e vanitosa «précieuse ridicule»: rimasta vedova, trasloca da Amburgo a Weimar aprendo un salotto; tra gli ospiti annovera Goethe, gli Schlegel, i Grimm, Wieland; scrive romanzi à la page.
Stupisce che Arthur resista due anni nella Casa Jenisch, poi coltiva lettere classiche tra Gotha e Weimar. Nell´autunno 1809 studiava medicina: filosofo d´istinto, cambia Facoltà; a Göttingen coniuga Platone e Kant, non trascurando gl´inglesi, specie Hume. Due anni dopo sperimenta l´insegnamento berlinese d´un Fichte profeta della riscossa tedesca: la Germania 1813 è l´epicentro del collasso napoleonico ma non esiste tedesco meno patriota d´Arthur; s´addottora, 2 ottobre, discutendo i quattro fondamenti della ragione sufficiente. Tornato a Weimar, frequenta Goethe, sulla cui teoria dei colori pubblicherà una memoria. Lì scopre fonti buddistiche e indiane, guidato dall´orientalista Friedrich Mayer. Madre letterata e figlio in rotta col mondo sono incompatibili: dalla primavera 1814 s´asserraglia in Dresda, immerso nell´opus, finché nasce Die Welt als Wille und Vorstellung (Brockaus, Leipzig 1819); tre nomi, il mondo come volontà e immagine. Nella premessa, agosto 1818, indica i percorsi d´una lettura seria. Chi cerca svago vada altrove. Cos´è il mondo: «Vorstellung» significa quel che percepiamo; «Wille» denomina l´oscuro substrato, in lingua kantiana «fenomeno» e «noumeno». Sotto i fenomeni batte un impulso senza senso, privo d´ogni fine: nell´animale umano lo chiamiamo Es, da cui affiora precariamente l´Io; ed è anche gravità, cristalli, magnete, materia viva, poussées vegetali, catena biologica.
«Die Welt» svela un pensatore artista dalla lingua viva, immaginosa, moderna, e scoperchia i verminai della storia, contro l´ottimismo hegeliano (Spirito=Stato prussiano). Libro choquant, dissona dai tempi, quindi cade piatto. Qualche recensore fa dello spirito. Dal 1820 è Privatdozent: Hegel l´ha beccato nella discussione; e lui lancia una sfida fissando le sue lezioni nelle stesse ore; vanno deserte; invano bussa a Heidelberg e Würzburg. Con eguale sfortuna ritenta la scena accademica 1825-31. Infine, abbandona Berlino infetta dal colera, del quale muore l´antagonista soverchiante; e trasloca sul Meno, fermo nell´assunto che la storia non meriti credito: l´Io spunti dal Wille, motore del nonsenso cosmico, donde cannibalismo, omicidio, asservimento, rapina, invidia, gusto del male; l´animale umano patisca bisogno, desideri, conflitti, delusione, sospeso tra dolore e noia, in una sequela stupidamente meccanica alla cui fine «ricomincia il ballo» (ed it. Laterza, 1968, 416, 57; ivi, C. Vasoli, viii-liii); l´arte apra intervalli quieti; sia raccomandabile la compassione; e l´unica terapia radicale consista nel rinnegare l´impulso egotistico, ma non è chiaro come, se regna una ferrea causalità.
L´autore violava la consegna ascetica nella guerra accademica: insegue premi banditi da accademie scandinave; ne ottiene uno («la mia premiata monografia: ivi, 385, 55); e diamogli atto d´essere tutto fuorché narciso; anzi, intrattiene con l´Io rapporti d´irsuta antipatia. L´opera era finita al macero: dopo 24 anni la ristampa con dei Supplementi, forse sentendo aria nuova, sebbene la prefazione deprechi i tempi. Manca ancora qualche anno. L´ultimo capoverso denuncia le manovre omertose d´una filosofia ridotta ad affare pratico: gl´integrati tengono d´occhio ministero, Chiese, profitto editoriale, afflusso studentesco, solidarietà corporativa; scambiano lodi; inscenano rumorose feste; aborrono chiunque pensi, salvo strappargli qualche piuma adoperabile nel loro mercato verbale; sinora è riuscita la politica del silenzio, prima o poi però le idee importanti emergono. L´explicit è un´allegoria: l´aerostato sale dall´aria caliginosa nell´atmosfera pura restandovi; niente l´abbasserà (Francoforte sul Meno, febbraio 1844: ivi, 11-23).
La scossa sopravviene nel 1848: convulsioni, reazione, arcigno ordine borghese; l´hegelismo cortigiano ha perso l´appeal; il malato non crede più al medico imbroglione che lo convinceva d´essere sano; va fuori legge la sinistra hegeliana, parente dello spettro comunista. Smontata la fiera d´una finta razionalità, emergono fondali bui. L´irregolare post-kantiano offre un diversivo anestetico e l´establishment cambia cavallo, dall´ottimismo filisteo alla mistica del Nulla. Piacciono i Parerga und Paralipomena, 1851.
«Die Welt» va muovendosi. L´ormai vecchio libero docente rentier senza uditorio ha rotto le chiavarde.
Settembre 1859, nuova edizione accresciuta: l´autentico pensiero, nota malinconicamente, avrebbe vita meno dura se gl´inetti a produrlo non impedissero che nasca, congiurati; ci sono voluti 41 anni perché fosse letto; cita Petrarca, De vera sapientia; è tanto vedere la sera, avendo corso l´intero giorno. Nella fortuna tardiva rimane eremita. Muore venerdì 21 settembre 1860 lasciando erede universale un fondo berlinese pro vittime 1848-49, dalla parte dell´ordine, beninteso.
Nietzsche gli rende onore (terza Inattuale, autunno 1874): sotto il geroglifico mondano ha scoperto un teatro futile col quale mascheriamo la paura d´essere soli (vedi Pensées, sub Misère de l´homme e Divertissement); l´educato pratica un´impavida scepsi; non sa essere invidioso né maligno; ammira le qualità eminenti; lavora al perfezionamento della natura (Schopenhauer come educatore, Opere, III.1, 406-12). Era ignoto, adesso l´adoperano quale «pepe metafisico» (ivi, 435). In mano d´una cultura versipelle «Die Welt» diventa narcotico, evasione, fantasia quietistica, ma l´antistoria è angoscia luterana: Doctor Martinus la grida negli opuscoli contro i contadini, e qui c´entra poco il capitalismo tirato in ballo dagli scoliasti marxisti; secondo tutt´e due, i ribelli aggravano l´infelicità dello stare al mondo. Misantropo, orfico litigioso, profeta del disimpegno, anticipa Freud e continua Pascal, sulla «misère de l´homme» tra bisogno, desiderio, dolore, falso piacere, noia mortale. L´analisi schopenhaueriana è ferro acuminato. L´effetto varia secondo le mani.
Non s´era mai visto l´analogo tra i filosofi tedeschi: impara le lingue, viaggia; sperimenta commercio, vanità letterarie, faide accademiche; ignora le guerre patriottiche; detesta Fichte imbonitore del germanesimo; rifiuta i cagliostrismi hegeliani; vede chiaro negl´instrumenta regni. Insomma, è l´antipode dell´intellettuale organico: gli adepti spendono quel tanto d´acume che l´autorità permette, e del mestiere nelle «mosse volpine»; promuovendosi servono persone, caste, chiese, governi dominanti; sono «pensatori riconosciuti dallo Stato»; «non ha mai turbato nessuno» è l´epitaffio da scolpire sulla loro tomba (ivi, 422s., 451, 457).
Nietzsche appartiene alla stessa famiglia, malvista da chi pensa disciplinatamente, spesso fraintesa e presentata a testa in giù, infatti György Lukács li classifica «distruttori della ragione», agenti imperialisti, come Kafka. Le sue plumbee glosse applicano i canoni d´un marx-leninisno staliniano, quindi lasciamolo da parte: è Sainte-Beuve stile Politburo, ancora vivo quando i giovani inalberano l´»imagination au pouvoir»; partendo dall´ebreo maledetto Baruch Spinoza, siamo scesi all´annus mirabilis 1968. Tentiamo un consuntivo. La sagra ha inciso nel costume, dalla moda alla vita familiare (due anni dopo viene il divorzio). In politica genera dei gruppuscoli, equivoca rivolta senza fondamenti né prospettive.
Aveva il fiato corto l´»imagination» i cui corifei aspiravano al potere: «nte toi que je m´y mets moi»; quel rissoso verbiage ha lasciato idee importanti? L´assalto era innocuo. Colpiva duro Papini, stroncatore cortese della crociana Logica come scienza del concetto puro (Leonardo, III, 1905, 115-20), idem contro l´Estetica (Lacerba, I, 1 giugno 1913, 116-19). Gli scorridori 1968 sono logomachi dall´eloquio gestuale, aggressivo, molto adoperabile nelle battaglie assembleari, dove raccoglie noia o ringhi chi porti idee chiare, sintassi, parsimonia verbale. I media, poi, scatenano sinergie i cui spettacoli abbiamo sotto gli occhi. Infine la jacquerie causa danni permanenti ispirando riforme scolastiche dall´abbecedario all´Università. Dopo quarant´anni è impopolare l´arte del pensare.