sabato 19 giugno 2010

l’Unità 19.6.10
Il segretario Pd: «Bossi finirà per smarcarsi, pronti a costruire l’alternativa nel paese»
Bersani: «Litigano su tutto non dureranno tre anni»
di Maria Zegarelli

Bersani: «Questa maggioranza non durerà tre anni. Dobbiamo essere pronti all’alternativa, quando saremo al dunque i due campi saranno davvero alternativi. Il centrosinistra non accetta deformazioni populiste».

Non saprebbe dire «dove, come o quando», ma Pier Luigi Bersani si dice certo che questo governo non durerà altri tre anni. E più che Gianfranco Fini, la spina nel fianco del premier potrebbe essere proprio Umberto Bossi, oggi «punto di sutura» della maggioranza, domani possibile punto critico a causa di «questo federalismo» che è «una storia che non sta in piedi, Brancher non potrà risolvere tutti i problemi. Questo per loro sarà un problema, non riesco a immaginare che una storia del genere possa durare tre anni». Il segretario Pd risponde alle domande di Giovanni Floris che lo intervista durante la manifestazione «Non stop banda larga», in corso alla città del gusto a Roma, tornando spesso sul punto: «I problemi arriveranno quando ci saranno le noci da rompere sul piano economico, quando si crea l’impossibilità di far sognare che è un handicap per Berlusconi». Secondo il segretario Pd il Cavaliere sente che il cerchio si sta stringendo intorno al suo stesso fortino: la Lega preme sul federalismo, inizia a smarcarsi dal ddl intercettazioni perché la base inizia a mostra insofferenza verso un provvedimento che mina la sicurezza; Giulia Bongiorno, finiana doc, in Commissione Giustizia ha detto chiaro e tondo che dovranno esserci modifiche e come se non bastasse il governo è costretto a chiedere lacrime e sangue con una manovra da 24 miliardi di euro. La fine del sogno. E chissà se Berlusconi è disposto a farsi mettere nell’angolo. Il segretario Pd anche per questo non è sicuro « che dietro le aperture di questi giorni ci sia un ripensamento vero, la forzatura è sempre dietro l’angolo, sono sempre porti a tornare alla carica con la faccia dura, l’elmetto in testa e procedere a colpi di fiducia». Inutili allora le corse «nello stesso campo», soprattutto nell’eventualità che la legislatura finisca bruscamente, per dimostrare che è più duro nell’opposizione. «Noi dobbiamo essere pronti all’alternativa dice . C’è da fare ma non dispero perché quando si arriva al dunque è evidente che i due campi sono davvero alternativi sui grandi temi costituzionali è evidente che il grande campo del centrosinistra non accetta deformazioni populiste e plebiscitarie». E quando dai microfoni di «Radio anch’io», di buona mattina gli chiedono di possibili alleanze costituzionali, risponde che soltanto di fronte ad deriva populista andrebbe con «chiunque». «Ma se devo guardare al profilo politico di un’alleanza aggiunge devo fare delle scelte e non mi risulta che Fini e Casini siano alleati».
BANDA LARGA E CRESCITA ECONOMICA
Ma visto che il tema all’ordine del giorno di questa manifestazione è la banda larga, tra gli ospiti Paolo Gentiloni, Vincenzo Vita, Renato Soru, Fabrizio Meli ad de l’Unità è di questo che si parla. Anche la banda larga, spiega Bersani, è un modo di pensare al paese e all’utilizzo della tecnologia per rilanciare la crescita. «Con il governo Prodi avevamo stanziato 4miliardi di euro per la banda larga e le infrastrutture, loro li hanno presi e buttati nel grande calderone. Negli emendamenti alla manovra ce n’è uno che riguarda anche l’uso delle frequenze, vedremo se saranno disponibili a discuterne».
Secondo Renato Soru il premier ha una sola idea rispetto all’uso delle frequenze: «Aprire altri canali televisivi. Questo è il Paese a cui pensa, non certo al Paese di Internet e dell’inclusione. È per questo motivo che la banda larga non è un tema che attira l’attenzione dei media, né è al centro dell’azione del governo, malgrado l’Europa la metta al centro di una economia più competitiva e inclusiva. Costruire una economia inclusiva vuol dire che dentro ci siamo tutti. Per questo spetta alla politica occuparsi di questo tema, oltre che alle imprese direttamente coinvolte». Secondo il patron di Tiscali questo «la politica non può agire secondo i tempi del mercato. Chi ci ha preceduto, quando ha costruito le autostrade e le infrastrutture, non ha pensato ai tempi del mercato, ma ad una visione del Paese».

l’Unità 19.6.10
Addio Saramago, il mondo è cieco senza il tuo sguardo
Fedele alle idee: È sempre rimasto duro, combattivo e comunista
Fedele alla politica: Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar
di Oreste Pivetta

È morto a 87 anni il grande scrittore portoghese, autore di Memoriale del convento e Cecità
Di recente teneva un blog per ritrovare nell’immaginazione compagni d’avventure letterarie
Il manifesto Aveva un’antipatia mai dissimulata per Israele
La sua prosa Maestosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti accompagna

Lo scrittore portoghese e Premio Nobel per la Letteratura è morto all’età di 87 anni a causa di una leucemia cronica nella sua casa di Lanzarote, isola delle Canarie, dove risiedeva dal 1991.
Saramago conobbe momenti di celebrità anche in Italia: quando apparvero i suoi romanzi più belli, come Cecità, quando nel 1998 vinse il Nobel, quando fece intendere che cosa pensava di Berlusconi. Scrivendo di Berlusconi divise il suo pubblico vecchio e possibile, s’attirò accuse pesanti, si guadagnò simpatie estreme. Ormai ottantasettenne. La sua polemica antiberlusconiana sta in un libretto, Il Quaderno, che venne pubblicato da Bollati Boringhieri, dopo che l’Einaudi mondadoriana l’aveva rifiutato. Censura, non si discute. Troppo esplicito il verdetto di condanna nei confronti del nostro presidente del consiglio e dell’italietta pecorona e volgare modellata a sua immagine. Non tutta l’Italia è così e Saramago lo sapeva, altrimenti non avrebbe accettato un viaggio nella piovosissima Torino, per presentare il suo «diario». Che stupiva già per una ragione intrinseca, per il modo con cui era nato, cioè dialogando in un blog: che un vecchio intellettuale famoso, in marcia verso i novant’anni, perdesse il suo tempo dietro un blog potrebbe apparire insolito...
Ho usato l’espressione «in marcia» non a caso, perché al nostro appuntamento me lo vidi, alla lettera, marciare incontro, ritto, elegante in completo grigio, camicia e cravatta (con la bella moglie, assai più giovane, al fianco). Era magro, il viso scavato, calvo, mai stanco di parlare, anche se gli altri tutto attorno trepidavano in ansia per la sua stanchezza. Mi spiegò che il blog era un’invenzione di un cognato. Lui si era prestato volentieri a quel dialogo quotidiano, che gli serviva per ritrovare nell’immaginazione vecchi compagni d’avventure letterarie, per connettere tanti episodi della sua esistenza, per introdurre temi di carattere universale, dalla fame nel mondo al potere delle banche, per polemizzare non risparmiandosi avversari. Perché se, dicendo dell’Italia, il suo bersaglio preferito era Berlusconi, ne aveva pesantemente anche per la nostra sinistra, sbeffeggiata per la sua indolenza in varie pagine, con un angolo riservato al nostro Veltroni, descritto, in modo crudo, fragile di carattere e assai incerto nell’ideologia. A proposito di Berlusconi ne scrisse di peggio. Citiamo: «Con la sua particolarissima opinione sulla ragione d’essere e il significato dell’istituzione democratica,
Berlusconi ha trasformato in pochi anni l’Italia nell’ombra grottesca di un Paese e una grande parte degli italiani in una moltitudine di burattini...».
Francamente non mi sentirei di dissentire, ma ci sarà stato qualcuno che l’avrà tacciato di settarismo e l’avrà accusato di non conoscere la realtà del bel paese. Il dubbio venne anche a me e glielo esposi. Saramago teneva un’aria seria, non sorrideva. Accettava le mie domande senza un attimo di impazienza, rispondeva pacato e lento nella parola. Mi rispose che conosceva l’Italia grazie ai suoi viaggi, agli amici che gli riferivano, ai giornali. Ineccepibile. Poi c’era il blog... Ci sarebbe altro da raccontare, ad esempio l’antipatia mai dissimulata per Israele, con qualche durezza di troppo, come nel manifesto che firmò in nobile compagnia, con John Berger, Noam Chomsky, Harold Pinter, Gore Vidal, l’ostilità nei confronti della chiesa portoghese e del «suo» Dio «vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia», lo spregio per i banchieri, considerati più o meno delle canaglie (s’era in piena crisi finanziaria). Insomma Saramago, dal ritiro di Lanzarote, alle Canarie, dove ieri è morto, non si risparmiava, duro, combattivo e comunista, come era rimasto, fedele a un’idea più che alla sua dispersione materiale nel corso della storia. Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar (al partito comunista portoghese, in clandestinità, s’era iscritto nel 1959), appena oltre confine poteva apprezzare quella di Franco. Dopo la libertà, che arrivò con la rivoluzione dei garofani, era rimasto un uomo all’antica, onesto, un combattente, diventando un «grande scrittore», come lo riteneva il più grande dei critici, Harold Bloom: un «titano» lo considerava. Certo rappresenta una delle voci più maestose del secolo che è da poco passato. Maestosa è la sua prosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti conduce tra i misteri della vita e della storia, insegnando a guardare, moltiplicando gli sguardi lungo le traiettorie dell’insolito, come nel suo romanzo forse più bello, Cecità, dove la nebbia diventa la lente che costringe a seguire passaggi anomali e per questo meglio aperti sulla verità. C’è anche ironia nelle sue pagine e c’è soprattutto pena per una umanità fragile, destinata alla sconfitta.
José de Sousa Saramago era nato ad Azinhaga il 16 novembre 1922. Il padre era un agricoltore, che, una volta a Lisbona dal 1924, aveva trovato lavoro come poliziotto. Il fratello minore, Francisco, morì a due anni, pochi mesi dopo l’arrivo nella capitale. Non c’erano soldi in famiglia e così il giovane Saramago non frequentò l’università, ingegnandosiper mantenersi nei lavori più diversi, fabbro, disegnatore, correttore di bozze, traduttore, giornalista, fino a impiegarsi in campo editoriale, lavorando per dodici anni come direttore letterario e di produzione. Il suo primo romanzo, Terra del peccato, del 1947, non trovò gran fortuna. Sino alla Rivoluzione dei Garofani, nel ‘74, Saramago visse una stagione di formazione. Pubblicò poesie (Le poesie possibili, 1966), cronache (Di questo e d’altro mondo, 1971), testi teatrali, novelle. Il secondo Saramago (vice direttore del quotidiano Diario de Noticias nel ‘75 e quindi scrittore a tempo pieno), crollata la dittatura, si presentò nel 1977 con il romanzo Manuale di pittura e calligrafia, seguito da Una terra chiamata Alentejo, incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più ad Est del Portogallo. Ma è con Memoriale del convento (1982) che ottenne il successo. In sei anni pubblicò tre opere di grande impatto (oltre al Memoriale, L’anno della morte di Riccardo Reis e La zattera di pietra). Gli anni novanta lo consacrarono con L’assedio di Lisbona, Il Vangelo secondo Gesù e Cecità.
Nel 1998 il riconoscimento «ufficiale»: il Nobel. Non piacque al Vaticano il premio ad un uomo che non s’era mai risparmiato nelle critiche alla Chiesa, alla religione, ad un certo modo di usare persino Dio. Critiche che gli dettava la vicenda del suo paese e della Spagna accanto.

l’Unità 19.6.10
Intervista a Vincenzo Consolo «Coraggioso e senza peli sulla lingua. Come lui ce ne sono davvero pochi»
Lo scrittore siciliano «Insieme visitammo la Striscia di Gaza, ma parlò apertamente di crimine contro l’umanità e i suoi libri furono ritirati»
di Roberto Carnero

Con Saramago perdiamo un autore di alta letteratura e di profondo impegno civile». In questo binomio – qualità letteraria coniugata con un’attenzione sempre vigile alla realtà circostante – uno dei più importanti autori italiani, Vincenzo Consolo, individua la peculiarità del lavoro di José Saramago. E ricorda un rapporto di amicizia quasi trentennale con lo scrittore portoghese, che conobbe all’inizio degli anni ’80 in Sicilia, la terra d’origine di Consolo. In che occasione ha conosciuto Saramago?
«Fu a un convegno letterario organizzato a Catania, al quale ricordo che parteciò anche Leonardo Sciascia. In quell’occasione feci da cicerone a Saramago, che portai a visitare il Convento dei Benedettini, ricordato nei Viceré di Federico De Roberto, un romanzo che Saramago conosceva bene».
Avete avuto modo di incontrarvi altre volte? «Sì, in diverse circostanze. Abbiamo mantenuto un rapporto costante negli anni. Ricordo, in particolare, un viaggio che compimmo nel 2002 con un gruppo di scrittori di diversi Paesi europei, organizzato dall’Unione Europea. Visitammo anche la Striscia di Gaza e nel constatare le terribili condizioni di vita della popolazione palestinese Saramago ebbe una reazione molto forte, pronunciando parole estremamente dure. Pronunciò, cioè, qualcosa di impronunciabile, parlando apertamente di crimine contro l’umanità. La reazione del governo israeliano fu molto determinata: i libri di Saramago vennero immediatamente ritirati dalle librerie». Come ricorda il suo carattere? «Questo era l’uomo: un uomo coraggioso, privo di autocensure, sempre disposto a dire apertamente ciò che pensava. Come prova l’episodio che ho appena rievocato. Non aveva cautele diplomatiche. Era schietto, diretto, a costo di essere fastidioso. Era una persona trasparente. Dotata di una grande capacità di empatia. Era innamoratissimo della sua seconda moglie, con la quale, quando era lontano da casa, passava delle intere mezz’ore al telefono». Come mai era così importante per lui la dimensione dell’impegno civile? «Lo si capisce facilmente se si guarda alla sua provenienza. Lui veniva dal giornalismo, da giovane, durante gli anni della dittatura di Salazar, aveva lavorato nel giornalismo d’opposizione. Pur essendo poi passato alla narrativa, non ha mai dimenticato di essere partito da lì. E ha mantenuto la forma mentis del bravo cronista, del giornalista d’inchiesta».
Quale dei suoi libri le è più caro?
«Sono molte le opere che l’hanno reso grande e che ho amato. Da Memoriale del convento a La zattera di pietra, fino a Storia dell’assedio di Lisbona. Un libro come Cecità è una grande metafora della nostra condizione attuale: una condizione di accecamento generale, specchio del mondo d’oggi».
In particolare in Italia, forse. Non è un caso che Einaudi, una casa editrice del gruppo Mondadori (la cui proprietà è riferibile alla famiglia Berlusconi), si sia rifiutata di pubblicare uno dei suoi ultimi libri, «Il quaderno» (poi edito da Bollati Boringhieri), perché conteneva critiche al nostro Presidente del Consiglio. Ha avuto modo di raccogliere le sue reazioni su questa vicenda?
«No, e devo dire che ho volutamente evitato di farlo. Perché mi è sembrata una storia davvero sgradevole, un caso di censura bella e buona, particolarmente grave visto che colpiva un autore della sua statura. E mi ha spinto a riflettere su come un’attività come la letteratura, per molti versi oggi considerata marginale, abbia evidentemente ancora la capacità di disturbare i poteri forti. Autori come Saramago e come Roberto Saviano danno fastidio ai potenti, politici o criminali che siano, perché dicono la verità, spiattellano con candore le tante piccole e grandi scomode verità che spesso facciamo prima a non vedere. O che il potere mediatico ci impedisce di vedere, rincitrullendo e rimbambendo la gente con ore e ore di programmi tv stupidi, superficiali e sostanzialmente vuoti. Ecco perché la perdita di uno scrittore come Saramago è gravissima: perché sono pochi quelli che come lui, in un panorama letterario per molti aspetti desolante, continuano a concepire il lavoro della scrittura in questi termini così ampi». L’altro suo bersaglio polemico, soprattutto negli ultimi anni, era diventato la religione. Da dove derivava questa attenzione al fenomeno religioso? «Anche questa critica alle religioni rivelate si inserisce nella più ampia critica al potere. Saramago attaccava le grandi fedi monoteiste, in particolare il cattolicesimo da cui proveniva per formazione e l’islam nelle sue derive fondamentaliste, a partire da una matrice laica e razionalista. Lo si vede bene anche nel suo ultimo libro, pubblicato poche settimane fa da Feltrinelli, Caino, che è una rilettura della Bibbia fatta in maniera del tutto anticonvenzionale».

Repubblica 19.6.10
il mio maestro Josè
Accettare il rischio della parola l’ultima lezione del mio maestro
di Roberto Saviano

Di tutte le cose che poteva fare Josè Saramago morire è quella più inaspettata. Se conoscevi Josè proprio non lo mettevi in conto. Sì, certo tutti muoiono, anche gli scrittori
Ha sempre espresso solidarietà nei miei confronti e mi aveva invitato a trasferirmi da lui Non era affatto stanco della vita e mi aveva detto: "Potessi decidere, non me ne andrei mai"
Ma lui non ti dava proprio alcuna impressione di essersi stancato di vivere, respirare, mangiare, amare. Si era consumato negli ultimi anni, tra la carne e le ossa sembrava esserci sempre meno spessore, la sua pelle sembrava un sottile mantello che ricopriva il teschio. Ma diceva: «Potessi decidere, io non me ne andrei mai».
Parlare della morte di qualcuno cui si è voluto bene, molto bene, rischia di essere solo un esercizio retorico, una proclamazione di memoria e virtù del defunto. L´unico modo che si ha per mantenersi sinceri, è quello di tentare di descrivere lo spazio di vita in più che ti ha dato chi ha finito di respirare. Questo vale la pena fare. Vedere quanto ti è stato sommato alla tua vita, ciò che ti è rimasto dentro, che riuscirai a passare a chi incontrerai, e questo sì, ha il sapore della vita eterna. In fondo molto non è andato via, se molto sei riuscito a trattenere.
Avevo conosciuto Saramago per la prima volta come tutti, leggendolo. Il Vangelo secondo Gesù era il suo libro che mi aveva cambiato, trasformando il modo di sentire le cose. Quel Gesù uomo, che sbaglia, ama, arranca, cerca di essere felice, mi era sembrato essere un personaggio del tutto nuovo nella storia della letteratura. Era una sintesi dei vangeli apocrifi, dei vangeli ufficiali, dei racconti pagani e delle leggende materialiste sul Cristo socialista. Era il Gesù dell´amore carnale verso Maria Maddalena. Su questo Saramago ha scritto parole incantevoli come solo il Cantico dei Cantici era riuscito a creare: «Guarderò la tua ombra se non vuoi che guardi te, gli disse, e lui rispose "Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi"».
E´ un Gesù umano che non vuole morire: è il contrario della santità, è uomo con i suoi errori, peccati, talenti e con il suo coraggio. Sembra dire al lettore che basta esser fedeli a se stessi per conoscere la vita e non diventare dei servi, o degli schiavi. «Allora Gesù capì di essere stato portato all´inganno come si conduce l´agnello al sacrificio, che la sua vita era destinata a questa morte, fin dal principio e, ripensando al fiume di sangue e di sofferenza che sarebbe nato spargendosi per tutta la terra, esclamò rivolto al cielo dove Dio sorrideva, Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto». Proprio così: il Gesù di Saramago rivolgendosi all´uomo chiede di perdonare Dio, ribaltando la versione evangelica del "Padre perdona loro".
E poi ho letto Cecità, altro suo romanzo che ho amato molto e che spesso mi torna in mente. In una frase. Pronunciata da lui per rispondere a me che maledivo certe scelte che mi avevano rovinato la vita. «Arriva sempre un momento in cui non puoi fare altro che rischiare». E la parola di Saramago era sempre una parola rischiosa, non cercava mai di farsi comoda.
Sognavo di trasferirmi da lui, come mi aveva consigliato, esprimendomi solidarietà nei giorni più difficili. Non lo dimenticherò mai. E non dimenticherò mai l´imbarazzo estremo in cui mi trovai quando mi definì "maestro di vita". Io che da lui cercavo continuamente indicazioni, esperienza, per galleggiare in un oceano di difficoltà, bile, rabbia, ostilità. Lui era un maestro che insegnava per farsi a sua volta insegnare. A Stoccolma disse che nella sua vita le persone più sagge che avesse mai conosciuto erano i suoi nonni. Entrambi analfabeti. La loro saggezza era stata costretta a rinunciare per povertà al libro, alla musica, ai teatri, ai dipinti, ma che era riuscita a conoscere la vita, a sentirne con generosità quello che José chiamava sussurro. «Tutte le cose, le animate e le inanimate, stanno sussurrando misteriose rivelazioni».
Una volta scambiandoci alcune riflessioni sullo stile, citai Albert Camus convinto che «lo scrittore che decide di scrivere chiaro vuole lettori, lo scrittore che scrive oscuro vuole invece interpreti». E la risposta fu: «ecco cos´hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare». Trovare parole semplici è il mestiere più complicato che sceglie di fare uno scrittore. Avevi ragione, José: «il viaggio non finisce, solo i viaggiatori finiscono". E ora tocca a noi qui. Continueremo a camminare con le tue parole a indicarci la strada senza fine.
©2010 Roberto Saviano/
Agenzia Santachiara

l’Unità 19.6.10
Fucili, bombe e pallottole L’Italia tallona gli Usa sull’export delle armi
Rapporto 2010 sulla vendita di armamenti leggeri: 12% di incremento, il picco più alto dal 1996. Gli affari con Stati Uniti ed Europa ma anche con Paesi sotto embargo o accusati da Amnesty di gravi violazioni dei diritti umani
di Umberto De Giovannangeli

Finché c’è guerra c’è speranza». Non è solo il titolo di un famoso film con Alberto Sordi protagonista. È anche una logica di mercato. Il mercato delle armi. Un mercato in cui l’Italia eccelle. A darne conto è l’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo nel documentatissimo «Armi leggere, guerre pesanti. Rapporto 2010. Le esportazioni italiane di armi piccole e leggere ad uso civile». Dal Rapporto 2010 emerge un forte incremento nelle vendite. Infatti, l’Italia ha esportato armi comunida sparo, munizioni ed esplosivi per oltre 460 milioni di euro nel 2007 e per oltre 465 milioni di euro nel 2008, con un incremento del 12% rispetto al biennio precedente, toccando così i valori più alti dal 1996. Un giro di affari che, colloca l’Italia al secondo posto nel mondo, dopo gli Stati Uniti.
La ricerca dell’Archivio Disarmo, diretta da Emilio Emmolo, è stata condotta su fonte ISTAT, che periodicamente mette a disposizione i dati relativi alle esportazioni ad armi comuni da sparo, munizioni ed esplosivi, senza peraltro dettagliare le ditte fornitrici, il prodotto, gli acquirenti (evidenziando ancora una scarsa trasparenza sui trasferimenti, al punto da non poter distinguere la vendita di doppiette da quella di fucili da caccia grossa). In particolare, il 67% del totale delle esportazioni del biennio è costituito da pistole e fucili, a fronte di un 29% di munizioni e di un 4% di esplosivi. Nel biennio 2007-2008 tali esportazioni sono state dirette per la maggior parte verso gli Usa (30%) e i Paesi membri dell’Ue (45%), ma anche verso una serie di Paesi nei quali si riscontrano la presenza di conflitti e di gravi violazioni dei diritti umani.
Emerge, infatti, l’esportazione verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi (Cina, Libano, Repubblica Democratica del Congo, Iran, Uzbekistan, Armenia e Azerbaigian), e verso Paesi in cui sono in atto conflitti e in cui si riscontrano gravi violazioni dei diritti umani riconosciute non solo da Organizzazioni non governative (quelle prese in considerazioni dalla ricerca dell’Archivio Disarmo, tra le più autorevoli: Amnesty International, Escola de Cultura de Pau e Human Rights Watch), ma anche dalle stesse Nazioni Unite e dall’Unione Europea (la Federazione Russa, la Thailandia, le Filippine, il Pakistan, l’India, l’Afghanistan, la Colombia, Israele, il Congo, il Kenya, la Georgia, il Guatemala, la Bolivia,il Ciad ...). Attenzione anche al Messico che registra un incremento progressivo confermandosi sempre tra i primi venti maggiori importatori; dei 12 milioni di euro di materiali importati tra il 2007 e il 2008, oltre 11 milioni sono per pistole e fucili. Secondo il Rapporto 2009 di Amnesty International in Messico continuano a verificarsi gravi violazioni dei diritti umani, esecuzioni extragiudiziali, uccisioni di giornalisti, detenzioni arbitrarie e il ricorso alla tortura da parte delle forze di sicurezza è noto Nel biennio 2007-2008 l’Italia ha esportato complessivamente 927.888.960 euro in armi leggere ad uso civile e, precisamente, 461.997.732 euro nel 2007 e 465.891.228 euro nel 2008. Per quanto riguarda le diverse categorie di materiali il valore complessivo di pistole, fucili e relativi parti ed accessori esportati dall’Italia nel biennio 20072008 ammonta a oltre 600 milioni di euro (67% del totale), quello delle munizioni ad oltre 260 milioni di euro (29%) e quello degli esplosivi a oltre 33 milioni di euro (4%). Il trend si mostra in ascesa costante per quanto riguarda le esportazioni di munizioni che dal 2006 sono aumentate di circa il 23% e di un ulteriore 9% dal 2007 al 2008. L’andamento delle esportazioni di pistole, fucili e loro parti ed accessori mostra, invece, un incremento tra il 2006 e il 2007 (più 12%) e una leggera flessione nell’anno successivo (meno 10 milioni di euro pari a circa il 3%). Il valore delle esportazioni di materiale esplosivo registrano, invece, una tendenza diversa: diminuzione tra il 2006 e il 2007 (meno 48%) e leggero aumento nel 2008 pari al 14%.
Oltre sulla definizione di armi piccole e leggere, Il Rapporto si sofferma anche sulle normative vigenti in Italia e sul quadro giuridico internazionale, nonché sull’Arms Trade Treaty in discussione in ambito Onu, il trattato internazionale sul commercio che dovrebbe approdare nel 2012 ad accordo mondiale. In particolare, ancora una volta emergono le contraddizioni derivanti dal fatto che le procedure e i divieti previsti per le armi comuni da sparo (previste dalla legge 110/75) sono diverse dal quelle previste dalla legge 185/90 che si occupa dei trasferimenti di armi ad uso militare, una tra le discipline più avanzate a livello internazionale. Emergono dall’analisi da un lato l’incremento progressivo delle esportazioni italiane di armi «leggere ad uso civile», dall’altro un quadro normativo tutt’altro che univoco e che lascia delle zone d’ombra molto importanti (nonostante che la Relazione della Presidenza del Consiglio sull’export di materiale di armamento militare abbia più volte ribadito di seguire anche in questo ambito criteri analoghi a quelli applicati per la 185/90). È opportuno ricordare rilevano gli autori che, come ha più volte messo in luce l’Onu, spesso attraverso vendite legali si passa poi a successive forniture a soggetti che di questi strumenti fanno un uso non consentito, finendo per armare anche la delinquenza organizzata, formazioni terroristiche, bande paramilitari ecc. I Paesi dell’Unione Europea sono stati il maggiore importatore di pistole,fucili, munizioni ed esplosivi italiani: nel 2007 le esportazioni italiane sono state pari a 213.100.647 euro, seguite da una lieve diminuzione (meno 6%) nel 2008 con 199.939.220 euro. Rispetto al 200684 le esportazioni verso i Paesi dell’Unione Europea hanno registrato un aumento notevole. I primi otto Stati per valori di importazioni sono, come l’anno precedente, Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, Grecia, Belgio, Finlandia, Portogallo i quali complessivamente sono stati destinatari di armi italiane di piccolo calibro per un valore di 361 milioni di euro così ripartiti: oltre 195 milioni di euro in pistole e fucili, oltre 141 milioni di euro in munizioni e oltre 23 milioni di euro in esplosivi.
Partendo da queste considerazioni, una delle conclusioni a cui giunge il Rapporto è che, come avviene già a livello europeo, ancora una volta appare necessario considerare giuridicamente le armi comuni da sparo alla stregua delle armi leggere ad uso militare alla luce dell’ormai accertata pericolosità della loro presenza soprattutto nei numerosi scenari di conflitto che costellano i cinque continenti; conflitti in cui le armi, dalle più piccole alle più sofisticate, contribuiscono alla radicalizzazione della violenza e delle difficili condizioni post-conflittuali con impatti devastanti sulle popolazioni. «Il grosso problema dice a l’Unità Maurizio Simoncelli, Vicepresidente dell’ Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo è la scarsa trasparenza dei dati. Noi sappiamo che vengono esportate delle quantità di armamenti ma non esattamente quali e a chi. Un altro problema aggiunge il professor Simoncelli è che dichiarazioni contenute nella Relazione della Presidenza del Consiglio non appaiono conseguenziali nei fatti, per cui in Paesi come Cina, Colombia, Israele ed altri, dove teoricamente non si dovrebbe esportare, invece risultano esportazioni di armi italiane».

l’Unità 19.6.10
Conversando con Citto Maselli
«D’accordo con Reichlin: alla sinistra serve un’idea e ai giovani serve la sinistra»

di Toni Jop

Alla manifestazione di Piazza Navola dell’8 giugno contro i tagli alla cultura c’era anche Citto Maselli che ha detto: «Questo governo segue una strategia lucida e mortuaria contro il pensiero libero».
Aquel lago di simboli che si è divertito a collezionare nel suo film più recente, «Le ombre rosse», Citto Maselli uno dei grandi padri del nostro cinema ha incollato un finale didascalico. Due ragazze (e un ragazzo), un fabbricato alla periferia delle periferie, un metro a nastro in mano, prendono misure, larghezza, lunghezza. Cercano un posto, un luogo, una situazione da nutrire con i corpi e con i pensieri, con azioni solidali. Ma lontano, via dalla pazza folla, dove l’urbanesimo, anima della nostra civiltà, degrada e sfuma il rigore della sua ottica concentrazionaria. Il film chiude, mentre si prende atto della fine di un’era, di una esperienza collettiva eccitante il decollo e il tramonto di un centro sociale con i segni dell’allestimento di un Natale che verrà. Sono giovani e sono soprattutto donne, non si sa cosa sappiano fare di «socialmente rilevante», non si conoscono le loro abilità misurate sui bisogni del mercato, ma si sa che scommettono sulla vita a dispetto della loro invisibilità. Così l’allegoria frana sul reale: è esattamente ciò che sta accadendo a milioni di ragazzi, soprattutto in Italia. Dicono che un ragazzo su tre non troverà lavoro, nessun lavoro in questo paese. Almeno finché le condizioni non cambieranno. Uno su tre fa paura perché muta il dna sociale che abbiamo fin qui conosciuto. Da decenni, da «Gli sbandati» e non solo, hai sempre dedicato uno sguardo d’affetto ai giovani. Un cineasta è anche un po’ uno stregone...
Quel finale di film dice anche altro: per esempio che la politica, quel che resta della politica in anni recenti non ha saputo dare non dico modelli ma strumenti, «utensili» adatti a costruire una vita in cui i ruoli individuali e collettivi non siano imposti dal mercato, dal consumo. C’è una fondamentale differenza tra essere schiacciati dai grandi meccanismi di una durissima ristrutturazione «capitalistica» in una crisi psicologica ed esistenziale senza uscita e affrontarla, invece, con consapevolezza, collettivamente, con azioni che puntellano una nuova forte soggettività politica. In altre parole: la sinistra non ha saputo fornire ai giovani motivi sufficienti per lottare, resistere, inventare strade nuove. Benché Rifondazione Comunista, il partito cui appartengo, si muova con le forze di cui dispone, proprio in questa direzione. E questa insufficienza, se permetti, non racconta di una banale crisi della sinistra, ma di una sua crisi profonda, terribile.
Lo si capisce scorrendo la drammaturgia del tuo film. La sinistra tutta ne esce a pezzi, nessuno si salva: i partiti, gli intellettuali, figure ingrigite da una mediocrità senza respiro, interne a un gioco da cui sono state adottate con l’ambizione e il miraggio della «modernità». E si salvano solo i ragazzi del centro sociale.... Condivido un recentissimo richiamo di Alfredo Reichlin: alla sinistra serve un’idea. È un po’ un’astrazione, nelle corde di Reichlin, ma mi pare che anche solo porsi di fronte a questo bisogno, affermare che esiste e che corrisponde al vuoto di oggi, significa assumersi una responsabilità all’altezza della storia che stiamo vivendo.
Forse, però, sostenere che ci serve un’idea non è una tenera ammissione di impotenza? E questa ammissione non ha qualcosa in comune con il febbrile riposizionamento del “territorio” in testa alla top ten delle questioni di cui deve farsi oggi carico la sinistra? Cosa ci è successo?
So che Togliatti decise già nel 1941 di organizzare il Partito Comunista scartando il metodo della cooptazione diretta in base alla affidabilità burocratica dei comunisti come imponeva lo schema della Terza Internazionale. Impartì direttive affinché la selezione fosse affidata a dei dati «storici», e cioè alla generosità e alla efficacia della lotta messa in pratica nelle fabbriche, sempre e comunque nei territori. Poi, vorrei ricordare qual è il valore insostituibile del marxismo: l’idea di una società conflittuata come garanzia di democrazia e di crescita. Marxismo non come modello, quindi, ma metodo,
tra l’altro inevitabile in una relazione di potere vissuta con consapevolezza. Dov’è finita questa cultura? Verrebbe da chiederlo a chi si è assunto la responsabilità di far naufragare i due governi di centrosinistra. Non saranno stati i migliori governi del mondo ma alla luce di quel che ha messo in campo l’era berlusconiana non si può negare che testimoniavano un’altra cultura e proponevano un’altra Italia...
Ma se non àncori il fare quotidiano, anche quello politico, ad una visione complessiva che entra in conflitto con l’esistente, devi attendere che tramonti una esperienza di governo e che salga al potere un oligarca amorale come Berlusconi per comprendere che era meglio proseguire sulla vecchia strada. E comunque se la cultura che animava quei governi è la stessa che da anni muove le opposizioni di sinistra, mi pare che non siamo di fronte alla chiave, oppure come dice Reichlin all’«idea» che può aprire nuove porte, nuove vie d’uscita. Anche per quel trenta per cento di ragazzi italiani condannati a vivere senza lavoro.
Alla sinistra per non perdersi sarebbe forse bastato riuscire a mettere in campo la legge sul conflitto di interessi; non era nemmeno indispensabile farla passare, visto che i numeri pare non ci fossero; ma doveva «morire» su quella iniziativa di pura giustizia molto annunciata...
Sì, e quei giovani che ora sono nel tritacarne avrebbero in tasca almeno il valore morale di un impegno storico di democrazia, di una coerenza limpida; ma sui principi, appunto, non si dovrebbe transigere. E ora la sinistra avrebbe cose da dire nei territori e saprebbe, certamente meglio di ora, cosa vuol dire lottare per un ideale che vale tutte le tue energie, e conoscerebbe il valore della lotta, dello stare in piedi, di una prospettiva di società alternativa.
Invece, dici con «Le ombre rosse», i ragazzi se la devono inventare da sé la nuova casa... Una casa, un partito, un progetto nato dai bisogni delle loro condizioni materiali. L’estromissione pressocché totale dal mondo del lavoro allora produrrà nuova consapevolezza e nuova cultura. Quando, provati e demoralizzati, spulceranno la storia, troveranno forza in quel che hanno prodotto il Movimento dei lavoratori e il Partito Comunista italiano, perché qualcuno a sinistra se ne vergogna ma è storia bellissima e forte, soprattutto in Italia, in quella vicenda che gli ortodossi francesi del Pcf chiamarono «déviation italienne».

Nato a Roma, partigiano durante la Resistenza, Francesco Maselli inizia la sua carriera cinematografica al fianco di Chiarini, Antonioni e Visconti. Gira nel 53 con Zavattini il suo primo film, «Storia di Caterina».
Ma è con «Gli sbandati», 1955, che conquista un ruolo di primo piano nella storia della cinematografia italiana. Mette a fuoco uno dei suoi più intensi nuclei narrativi con «I delfini», alla cui sceneggiatura collabora Alberto Moravia: il film è una lente lucida sul galleggiamento dei giovani figli di una borghesia oziosa.
Ancora Moravia sul suo cammino: nel 64 porta sugli schermi una bellissima trasposizione da «Gli indifferenti». Impegnato culturalmente e sul fronte politico, Maselli è alla testa della contestazione sul finire degli anni Sessanta. Nel ‘73 governa le «Giornate del cinema italiano» a Venezia, una contro-Mostra militante e innovativa.
Nel 70 dirige «Lettera aperta a un giornale della sera», film politico che inizia a scavare nelle contraddizioni della sinistra. Altro focus che Maselli non abbandonerà e verrà confermato nel 2009. con «Le ombre rosse».


il Fatto 19.6.10
Lettera dei detenuti a Radio Radicale
“Noi, bestie di Poggioreale”
“Guardate quanti vengono medicati con fratture e lesioni. Sempre la stessa versione: è caduto”
Pubblichiamo ampi stralci di una lettera firmata da un gruppo di detenuti anonimi del carcere di Poggioreale, letta ieri a Radio Radicale. I detenuti denunciano maltrattamenti e vessazioni ad opera della polizia penitenziaria

Nel carcere di Poggioreale ci sono cose ben più gravi di quelle di solito raccontate. Pressioni psicologiche, maltrattamenti fisici e morali, violazioni dei diritti minimi che anche un detenuto dovrebbe avere. Il giorno 11, poco dopo il colloquio, durante l’attesa per tornare nelle nostre celle ci hanno chiuso in una camera di sicurezza, circa 40 detenuti in uno spazio di circa 10/12 mq. Un detenuto (malato di cuore, come registrato nelle cartelle cliniche del carcere) non riesce a respirare e si sente male! Chiama la guardia, la chiamiamo anche noi! Dopo averlo chiamato a squarciagola arriva, infuriato e infastidito... Gli facciamo presente che è grave, che quel nostro compagno è malato di cuore... Ci risponde: “Certo come tutti quelli che stanno qui”. Alla fine quel detenuto per la disperazione con tutta la forza che ha sbatte la testa contro la cella... Si spacca la fronte e il viso. Poco dopo viene portato in infermeria. È giusto? È giusto che nei colloqui, se uno prova ad abbracciare un familiare, le guardie battono le loro chiavi sul vetro fino a fare piangere i bambini? È giusto che la scorsa settimana dei detenuti sono stati puniti solo perché si sono lamentati per avere fatto 50 minuti di colloquio invece di un’ora? Controllate le cartelle cliniche dei detenuti e guardate quanti di questi vengono medicati con fratture, ematomi, lesioni... Sempre la stessa risposta: “Dottore è caduto!”.
[...] Il giorno 5 un detenuto scese per denunciare un’aggressione subita dalle guardie (nonostante lo avevamo sconsigliato, sapendo quanto sono vigliacchi), poco dopo abbiamo sentito delle urla che ci hanno fatto venire i brividi. Ad oggi non sappiamo ancora cosa è successo. E quando sono venuti a prendere le sue cose in cella e abbiamo chiesto notizie in merito, la guardia ci ha risposto: “Fate gli avvocati?”.
Sto scrivendo questa lettera, perché dicono che lo so fare meglio di altri. Scrivo a nome di circa 650 detenuti. Purtroppo non possiamo comunicare tra un padiglione e l’altro, ma lo stato di disagio qui è altissimo e tutti si sono accorti, o meglio si stanno accorgendo, che anche se si è educati e rispettosi, se si osservano le regole, tutti stanno alla mercé delle guardie e dei loro stati d’animo! [...] C’è un clima di terrore in tutto quello che si fa, se per esempio sbagliano la spesa, devi avere timore di chiamare un appuntato, perché se
lo fai alzare dalla sedia per una cavolata come questa, facile che si metta a strillare; non puoi fare niente tranne soffocare la tua rabbia e mangiare l’ennesimo sospiro. Sicuramente anche gli agenti lavorano con molta difficoltà, ma noi che stiamo già chiusi 22 ore su 24, oltre a questo, dobbiamo essere trattati come vermi, è veramente troppo! La stessa Costituzione dice che il trattamento delle persone internate o comunque sottoposte a restrizioni di libertà non può essere contrario al senso di umanità! [...] Chi sta qui e subisce un tale trattamento, quando esce (se prima non si uccide) è un animale, una belva, un cane rabbioso, ed è normale, per ciò che ha subito. Come si può avere fiducia nello Stato se qui è proprio lo Stato a fare cose inverosimili? Noi non possiamo fare altro che stare in silenzio, ma per quanto ancora? Dobbiamo autolesionarci? O magari dobbiamo morire come mosche prima che qualcuno si accorga che il problema più grande non è il sovraffollamento, ma i soprusi che subiamo ogni giorno, e che sicuramente molti subiscono in tante carceri d’Italia? È giusto che chi ha sbagliato debba pagare, ma comunque ha dei diritti. [...] Ci scusiamo per non avere messo i nostri nomi, perché questo significherebbe dover subire chissà quale tortura o quale dispetto da questi tutori dello Stato! Prima di lasciarvi vi informo di un altro grave episodio che si è verificato tempo fa. Un ragazzo giovane, molto giovane ha chiesto di essere portato in infermeria e per quasi due ore ha pregato il capoposto. Per favore, per cortesia e alla fine è salito l’ispettore che ha iniziato a fare il pazzo dicendo “lei non deve chiamare, quando è possibile la chiamiamo noi!”. Dopo dieci minuti il ragazzo si è tagliato le vene!

il Fatto 19.6.10
Don Gelmini prete molesto: processo per gli abusi in comunità
A giudizio per 12 episodi: le accuse dei ragazzi
di Enrico Fierro

Un brutto colpo per il prete che si fece cane feroce. Don Pierino Gelmini è stato rinviato a giudizio per molestie sessuali. Lo ha deciso il gup di Terni, Pierluigi Panarello, che ha contestato all’ex sacerdote (don Pierino è tornato allo stato laicale qualche anno fa) ben 12 episodi di molestie sessuali ai danni di ospiti delle sue comunità per recupero di tossicodipendenti. L’inchiesta, venuta alla luce nel 2007, scaturì da una serie di denunce. “Mi palpava, mi baciava e in più occasioni mi ha costretto ad atti sessuali", raccontò Michele Iacobbe, un passato nell’inferno della tossicodipendenza, il primo grande accusatore dell’ex prete. L’uomo era finito in carcere per una serie di reati compresa l'estorsione e la calunnia. "Mi ha rovinato, mi ha costretto a fare delle cose che non avrei mai voluto. Mi diceva: tagliati i capelli, dai lo faccio io che corti mi piacciono di più, dammi un bacio per favore". Alla Procura di Terni sfilano tanti testimoni, almeno una quindicina, tutti disposti a raccontare la loro “mala educacion”. Paolo Zanin, attore, è stato uno dei volti di Amarcord di Fellini, e scrittore, affida il suo racconto ai giornali. “Ho avuto a che fare con le voglie di don Gelmini tra il 1969 e il ’70, quando ancora abitava nella villa all’Infernetto”. Sentito dai magistrati, Zanin fa mettere a verbale la storia della sua vita di ragazzo sbandato, l’incontro con don Pierino, “che si atteggiava a monsignore”, e l’accoglienza, prima in una casa di Piazza Navona, poi nella villa alla periferia romana. I luoghi delle strane attenzioni del prete. Una brutta esperienza che l’ex ragazzo racconta nel libro Nessuno dovrà saperlo.
Accuse che don Pierino ha sempre respinto con forza, attaccando la magistratura e gli stessi vertici della Chiesa. "L'infamia non mi tocca", disse subito dopo l’inchiesta della procura davanti a trecento sostenitori, ex tossicodipendenti e i loro genitori che lo veneravano come un santo. "Pensavano di avere a che fare con un coniglio, invece hanno trovato un cane che morde. Io non mollo. Volevano prendersi la comunità". La chiusura con un amen e il poco ecclesiastico gesto dell’ombrello. Troppe dichiarazioni polemiche (“le accuse? Frutto della lobby massonica radical chic”), al punto che il suo legale, Franco Coppi, si vede costretto ad abbandonare la difesa. Don Pierino è stato sempre così, un vulcano, la sua è stata una vita piena di contraddizioni fin dall’inizio divisa tra fede, potere e mondanità. Quando la Chiesa dopo un lungo braccio di ferro accoglie la sua domanda di riduzione allo stato laicale, attacca il Vaticano. "Gli intrallazzi non sono fede. Bisogn Cristo non al cesaro-papismo. Perché qui siamo arrivati al punto in cui parliamo più del Papa che del Cristo". Una vita spericolata Gli esordi al fianco di un altro sacerdote discusso, don Eligio Gelmini, suo fratello. Era il prete in cachemire, amico dei calciatori e degli uomini di spettacolo, andava in tv e appariva spesso al fianco di campioni come Gianni Rivera. Altri tempi, tv in bianco e nero, vita a colori sempre in bilico tra la fondazione di comunità per il recupero di ex tossicodipendenti, e accuse di balletti rosa. È in questo ambiente che don Pierino muove i primi passi. Una villa a Roma, all’Infernetto, piscina, una Jaguar in garage e tre camerieri di colore. La bella vita viene interrotta da una serie di guai con la giustizia. Le accuse vanno dalla bancarotta fraudolenta, emissione di assegni a vuoto e truffa. In quel periodo, fine anni Sessanta, don Pierino si spaccia anche per monsignore. La Chiesa tenta di sospenderlo a divinis, ma non ci riesce. Un breve esilio in Vietnam – anche qui con il contorno di accuse di truffa – poi il ritorno in Italia e l’arresto. Quattro anni di carcere, tutti scontati. Nel 1979 la folgorazione sulla via della lotta alle tossicodipendenze, don Pierino fonda la Comunità Incontro ad Amelia, Umbria, che nel giro di poco tempo diventa una vera e propria multinazionale: 164 sedi in Italia, 74 all’estero. E tanto potere.
Don Pierino gode dell’amicizia degli uomini che contano nel mondo dello spettacolo e della politica. Alle sue manifestazioni non mancano mai Gigi D’Alessio e Amedeo Minghi, lo psichiatra Alessandro Meluzzi, ex parlamentare di Forza Italia, diventa il portavoce della comunità, Silvio Berlusconi gli dona 5 milioni di euro per le popolazioni asiatiche colpite dallo tsunami, e poi Giovanardi, Gasparri. Fino a Gianfranco Rotondi che lo propone come sottosegretario per la lotta alla droga. “Se necessario chiederemo la dispensa al Vaticano”. Una vita così, dove la carità cristiana diventa business e potere, una figura contraddittoria che divide ancora oggi.
Amici e potenti
Chi non nutre alcun dubbio sulla figura di don Pierino, sono i suoi amici del palazzo. ''Nel prendere atto che nel corso dell'attività giudiziaria parte importante delle accuse nei confronti di esponenti della Comunità Incontro sono cadute, resto convinto che il giudizio confermerà che don Gelmini ha agito e agisce per difendere la vita di migliaia e migliaia di persone strappate alla droga e all'emarginazione in ogni parte del mondo. È una verità conosciuta da tanti e che alla fine troverà ulteriori conferme'', dice Maurizio Gasparri. ''Sono vicino all'amico Don Gelmini in questo difficile momento e gli auguro forza e salu continuare nella sua preziosa azione nella Comunità Incontro e per poter uscire a testa alta da questo processo'', è la frase che gli dedica un altro amico, Carlo Giovanardi. Gli altri, per il momento, tacciono.

il Fatto 19.6.10
Il sindacato spaccato
Cgil e Fiom in teoria sono la stessa organizzazione. Ma sulla Fiat e sul futuro di Pomigliano hanno idee opposte
di Salvatore Cannavò

Ma Fiom e Cgil non sono lo stesso sindacato? La domanda è legittima, osservando gli ultimi eventi di cronaca. Mentre a Torino, allo stabilimento di Mirafiori, gli operai scioperano e fanno un corteo in solidarietà con Pomigliano, con adesioni all'80 per cento (secondo la Fiom), il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, dalle colonne del Corriere della Sera, bacchetta sia la Fiat che la Fiom e chiede a entrambe “di ascoltare la Cgil”. “Se fossimo stati coinvolti prima le cose andrebbero meglio”, dice Epifani che chiede alla Fiat di concedere due modifiche all'accordo su diritto di sciopero e malattia, perché si violano diritti fondamentali, e alla Fiom di dare la disponibilità alla firma. “Abbiamo due anni di tempo per ricomporre una frattura che è ricomponibile”, avverte Epifani. Dalla Fiom, però, gli risponde Giorgio Cremaschi, leader della sinistra interna alleata al segretario Maurizio Landini: “Se l'accordo è incostituzionale bisogna dire di no senza tentennamenti”. Di converso, Fausto Durante, della minoranza Fiom legata a Epifani, dice invece che se il 22 giugno vinceranno i sì “la Fiom dovrà firmare l'accordo”. Il quadro è quindi quello di una dialettica interna che si fa scontro aperto, di dissidi che invece di ricomporsi si acuiscono e che probabilmente si aggraveranno nel prossimo futuro.
LO SCONTRO. I rapporti tra Cgil e Fiom, in realtà, non sono mai stati semplici, per lo meno negli ultimi 10-15 anni. Sicuramente da quando alla guida del sindacato dei metalmeccanici andò Claudio Sabattini, storico dirigente sindacale anomalo e inquieto, che inventò per i metallurgici il concetto di “indipendenza”. Qualcosa in più della semplice autonomia che caratterizza una categoria, titolare esclusiva della contrattazione del proprio comparto, messa in discussione solo in caso di crisi generali con l'intervento pieno del governo. Come accaduto per Alitalia e come Epifani si aspettava avvenisse anche per Pomigliano.
MOVIMENTISMO. L'indipendenza di Sabattini costituiva un’ipotesi culturale e politica attinta alla storia “movimentista”
del Pci e che ispirava anche una linea sindacale. Ma che non ha mai trasformato il rapporto dialettico con la Cgil di Sergio Cofferati – che, come Sabattini, viene eletto nel 1994 – in scontro irreversibile. La divergenza più dura avviene proprio sul piano politico, nel 1997, quando Cofferati apre alla riforma pensionistica del governo Prodi e Sabattini si mette di traverso scontrandosi nella Fiom con l'ala riformista allora guidata da Cesare Damiano e Susanna Camusso. Sabattini è colui che porta la Fiom a Genova nel 2001 alle manifestazioni contro il G8 mescolando gli operai dell'industria con le culture giovanili, del non-lavoro, del cattolicesimo radicale. Cofferati non c’era ma recupererà un rapporto l'anno dopo nel corso delle grandi lotte contro la riforma dell'articolo 18 voluta dal governo Berlusconi. In quell'occasione Fiom e Cgil sono fianco a fianco e vincono. Lo saranno anche in occasione del referendum per l'estensione dell'articolo 18 alle piccole imprese, voluto da Rifondazione nel 2004. Stavolta a guidarle, ci sono i due nuovi segretari, Epifani alla Cgil e Gianni Rinaldini alla Fiom. Ed è scontro aperto, di nuovo e soprattutto sulla politica. Romano Prodi sta per vincere le elezioni, Epifani ne sostiene il programma e si accinge a fare da supporto al suo governo. Il 4 novembre del 2006 si tiene però la prima manifestazione contro Prodi, la Fiom sfila con Cobas e centri sociali ed Epifani non apprezza.
Lo scontro si fa ancora più duro l'anno seguente quando, modificando lo “scalone” Maroni (che alzava bruscamente l’età della pensione per alcune migliaia di lavoratori), Prodi e Damiano, suo ministro del Lavoro, provvederanno a una riforma del welfare che vede il consenso di Cgil, Cisl e Uil, con la Fiom decisamente contraria.
CONTRO EPIFANI. Poi c'è il congresso Cgil, il primo gestito da Epifani e in cui Rinaldini, con la “sua” Fiom, si schiera assieme alla sinistra interna di Cremaschi, presentando delle tesi alternative. Va in minoranza e ci resta, di fatto, fino a oggi quando al recente congresso Cgil, la Fiom, assieme alla Funzione pubblica e ai bancari, organizza un documento alternativo contrastando la volontà della Cgil di ricucire il rapporto con Cisl e Uil sulla riforma della contrattazione collettiva. Funzione pubblica e bancari vengono espugnati da Epifani mentre in Fiom la maggioranza è ancora con Rinaldini.
LA SFIDA CAMUSSO. Scaduti gli otto anni di mandato – dopo i quali in Cgil si viene sostituiti – Rinaldini lascia a Landini. Il quale si troverà tra pochi mesi a non dover discutere più con Epifani, anch’egli al termine degli otto anni, ma proprio con quella dirigente "riformista" che dalla Fiom fu allontanata da Claudio Sabattini, e cioè Susanna Camusso.
Da pochi giorni la sindacalista milanese è stata nominata vicesegretario vicario, cioè nuovo segretario generale in pectore, carica che andrà a ricoprire a ottobre. E in Fiom si teme la resa dei conti. Che potrebbe arrivare in caso di un rientro della Cgil al tavolo della riforma contrattuale. Camusso però potrebbe trattare il ritorno della Cgil al tavolo con governo e Confindustria oltre che con Cisl e Uil, come è nella sua indole e nel suo mandato congressuale. “È una craxiana di ferro” sibila qualche dirigente della sinistra interna mentre la sua fisionomia modernista è stata già apprezzata dal ministro del Welfare, Sacconi che ha detto di fare affidamento sulla sua “provenienza socialista”. In Fiom, non ripongono le stesse speranze. Lo scontro continua.

il Fatto 19.6.10
Cina: le conseguenze degli scioperi
di Alberto Martinelli

La stampa cinese ha riferito che nel solo mese di maggio si sono verificati dodici scioperi in varie fabbriche di grandi imprese tra cui, oltre alla Honda, le altre due giapponesi Sharp Electronics e Nikon e la coreana Xingyuche. Alla Pingmian Textile nella provincia di Henan gli addetti hanno scioperato per due settimane; alla Yihua Equipment Engineering nella provincia dello Jangsu continua lo sciopero di 700 addetti iniziato il 21 maggio. Si protesta soprattutto per i bassi salari, duemila yuan circa al mese (meno di 300 dollari), che si riducono drasticamente nei periodi di non lavoro in cui viene percepito solo l’80 per cento del salario base (circa 500-600 yuan). Consultando il China Statistical Yearbook, si rileva come i salari cinesi siano costantemente cresciuti negli ultimi anni (di quasi cinque volte dal 1995 a oggi) e come contemporaneamente siano aumentate le diseguaglianze tra settori produttivi, aree geografiche, tipo di proprietà dell’impresa e in particolare tra lavoratori specializzati e non. Come spesso accade, i più combattivi non sono gli addetti di imprese locali relativamente arretrate, ma i lavoratori di fabbriche tecnologicamente avanzate, con salari medi relativamente migliori e che nutrono tuttavia maggiori aspettative. Gli scioperi non riguardano solo gli operai di alcune fabbriche lontane, né solo la società cinese nel suo complesso, ma interessano tutti, anche noi, data l’importanza che ha la Cina, il paese con i più elevati tassi di crescita che sta vivendo uno straordinario processo di modernizzazione, nel mondo contemporaneo. Gli scioperi rappresentano una prima verifica della tesi della modernizzazione come processo complesso e multidimensionale. Non si può considerare, come avviene nella grande maggioranza delle analisi, lo sviluppo cinese soltanto dal punto di vista economico, prevedendo sorpassi imminenti del Pil cinese su quelli delle economie più sviluppate, fondando le previsioni sulla semplice estrapolazione dei dati presenti e deducendo una inesistente linearità e omogeneità del percorso di sviluppo. La modernizzazione cinese, come e più di ogni modernizzazione, date le dimensioni del paese, è un processo complesso che investe tutti gli aspetti della società; si svolge tra contraddizioni e conflitti, genera sia grandi opportunità di crescita individuale e collettiva sia grandi diseguaglianze, rimette in discussione rapporti istituzionali e di potere che sembravano consolidati, sfida valori e atteggiamenti culturali, modifica comportamenti. Gli scioperi come esempio di azione collettiva e i suicidi come forma estrema di protesta individuale sono la spia di disagi diffusi che provocano risposte di grande intensità. Riflettiamo sugli scioperi, partendo dall’analisi economica del mercato del lavoro, ma integrandola: si sostiene che grazie all’enorme esercito industriale di riserva costituito dalle centinaia di milioni di contadini, l’industrializzazione cinese può continuare a ritmi assai elevati e con salari assai bassi, mantenendo quindi (anche grazie all’aiuto della sottovalutazione della moneta cinese nei rapporti di cambio con le altre valute) una elevata competitività delle esportazioni della Cina e una convenienza a delocalizzare in Cina attività produttive per molte imprese di paesi più sviluppati (come la Honda giapponese). È vero che lo sviluppo cinese è in parte rilevante trainato dalle esportazioni (export-led), che i salari industriali sono incomparabilmente più bassi che nelle nostre società (130 dollari è il salario mensile degli operai della Honda); ma non è vero che la domanda di lavoro sia dovunque inferiore alla offerta. Esistono ostacoli sociali, resistenze culturali, ritardi burocratici e normativi, che contribuiscono a creare situazioni di carenza di mano d’opera per certi tipi di qualifica e in settori produttivi e aree geografiche particolari.
Una visione distorta. Questi sono i fenomeni alla radice dell’ondata di proteste in atto, che si rivolge per il momento alla dirigenza delle fabbriche (un bersaglio più facile trattandosi di stranieri e per giunta di giapponesi), ma che non può non coinvolgere le rappresentanze sindacali e il Partito comunista cinese che le controlla, e che può anche dar luogo alla formazione di sindacati autonomi secondo una sorta di modello polacco alla Solidarnosc. È bene evitare al riguardo comparazioni frettolose e ricordare la specificità del contesto in cui avviene la modernizzazione cinese. L’opinione pubblica dei paesi sviluppati sembra invece guardare alla modernizzazione cinese con un occhio solo: le borse (americana, europea, giapponese) vedono positivamente il dato sul valore quasi raddoppiato delle esportazioni cinesi nel mese scorso come segnale di ripresa mondiale e non vedono le contraddizioni della modernizzazione cinese. Se queste dovessero diventare ingovernabili, le conseguenze sarebbero drammatiche per tutti.
Copyright La voce.info (*) Docente di Scienza della Politica
l’Unità 19.6.10
Il segretario Pd: «Bossi finirà per smarcarsi, pronti a costruire l’alternativa nel paese»
Bersani: «Litigano su tutto non dureranno tre anni»
di Maria Zegarelli

Bersani: «Questa maggioranza non durerà tre anni. Dobbiamo essere pronti all’alternativa, quando saremo al dunque i due campi saranno davvero alternativi. Il centrosinistra non accetta deformazioni populiste».

Non saprebbe dire «dove, come o quando», ma Pier Luigi Bersani si dice certo che questo governo non durerà altri tre anni. E più che Gianfranco Fini, la spina nel fianco del premier potrebbe essere proprio Umberto Bossi, oggi «punto di sutura» della maggioranza, domani possibile punto critico a causa di «questo federalismo» che è «una storia che non sta in piedi, Brancher non potrà risolvere tutti i problemi. Questo per loro sarà un problema, non riesco a immaginare che una storia del genere possa durare tre anni». Il segretario Pd risponde alle domande di Giovanni Floris che lo intervista durante la manifestazione «Non stop banda larga», in corso alla città del gusto a Roma, tornando spesso sul punto: «I problemi arriveranno quando ci saranno le noci da rompere sul piano economico, quando si crea l’impossibilità di far sognare che è un handicap per Berlusconi». Secondo il segretario Pd il Cavaliere sente che il cerchio si sta stringendo intorno al suo stesso fortino: la Lega preme sul federalismo, inizia a smarcarsi dal ddl intercettazioni perché la base inizia a mostra insofferenza verso un provvedimento che mina la sicurezza; Giulia Bongiorno, finiana doc, in Commissione Giustizia ha detto chiaro e tondo che dovranno esserci modifiche e come se non bastasse il governo è costretto a chiedere lacrime e sangue con una manovra da 24 miliardi di euro. La fine del sogno. E chissà se Berlusconi è disposto a farsi mettere nell’angolo. Il segretario Pd anche per questo non è sicuro « che dietro le aperture di questi giorni ci sia un ripensamento vero, la forzatura è sempre dietro l’angolo, sono sempre porti a tornare alla carica con la faccia dura, l’elmetto in testa e procedere a colpi di fiducia». Inutili allora le corse «nello stesso campo», soprattutto nell’eventualità che la legislatura finisca bruscamente, per dimostrare che è più duro nell’opposizione. «Noi dobbiamo essere pronti all’alternativa dice . C’è da fare ma non dispero perché quando si arriva al dunque è evidente che i due campi sono davvero alternativi sui grandi temi costituzionali è evidente che il grande campo del centrosinistra non accetta deformazioni populiste e plebiscitarie». E quando dai microfoni di «Radio anch’io», di buona mattina gli chiedono di possibili alleanze costituzionali, risponde che soltanto di fronte ad deriva populista andrebbe con «chiunque». «Ma se devo guardare al profilo politico di un’alleanza aggiunge devo fare delle scelte e non mi risulta che Fini e Casini siano alleati».
BANDA LARGA E CRESCITA ECONOMICA
Ma visto che il tema all’ordine del giorno di questa manifestazione è la banda larga, tra gli ospiti Paolo Gentiloni, Vincenzo Vita, Renato Soru, Fabrizio Meli ad de l’Unità è di questo che si parla. Anche la banda larga, spiega Bersani, è un modo di pensare al paese e all’utilizzo della tecnologia per rilanciare la crescita. «Con il governo Prodi avevamo stanziato 4miliardi di euro per la banda larga e le infrastrutture, loro li hanno presi e buttati nel grande calderone. Negli emendamenti alla manovra ce n’è uno che riguarda anche l’uso delle frequenze, vedremo se saranno disponibili a discuterne».
Secondo Renato Soru il premier ha una sola idea rispetto all’uso delle frequenze: «Aprire altri canali televisivi. Questo è il Paese a cui pensa, non certo al Paese di Internet e dell’inclusione. È per questo motivo che la banda larga non è un tema che attira l’attenzione dei media, né è al centro dell’azione del governo, malgrado l’Europa la metta al centro di una economia più competitiva e inclusiva. Costruire una economia inclusiva vuol dire che dentro ci siamo tutti. Per questo spetta alla politica occuparsi di questo tema, oltre che alle imprese direttamente coinvolte». Secondo il patron di Tiscali questo «la politica non può agire secondo i tempi del mercato. Chi ci ha preceduto, quando ha costruito le autostrade e le infrastrutture, non ha pensato ai tempi del mercato, ma ad una visione del Paese».

l’Unità 19.6.10
Addio Saramago, il mondo è cieco senza il tuo sguardo
Fedele alle idee: È sempre rimasto duro, combattivo e comunista
Fedele alla politica: Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar
di Oreste Pivetta

È morto a 87 anni il grande scrittore portoghese, autore di Memoriale del convento e Cecità
Di recente teneva un blog per ritrovare nell’immaginazione compagni d’avventure letterarie
Il manifesto Aveva un’antipatia mai dissimulata per Israele
La sua prosa Maestosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti accompagna

Lo scrittore portoghese e Premio Nobel per la Letteratura è morto all’età di 87 anni a causa di una leucemia cronica nella sua casa di Lanzarote, isola delle Canarie, dove risiedeva dal 1991.
Saramago conobbe momenti di celebrità anche in Italia: quando apparvero i suoi romanzi più belli, come Cecità, quando nel 1998 vinse il Nobel, quando fece intendere che cosa pensava di Berlusconi. Scrivendo di Berlusconi divise il suo pubblico vecchio e possibile, s’attirò accuse pesanti, si guadagnò simpatie estreme. Ormai ottantasettenne. La sua polemica antiberlusconiana sta in un libretto, Il Quaderno, che venne pubblicato da Bollati Boringhieri, dopo che l’Einaudi mondadoriana l’aveva rifiutato. Censura, non si discute. Troppo esplicito il verdetto di condanna nei confronti del nostro presidente del consiglio e dell’italietta pecorona e volgare modellata a sua immagine. Non tutta l’Italia è così e Saramago lo sapeva, altrimenti non avrebbe accettato un viaggio nella piovosissima Torino, per presentare il suo «diario». Che stupiva già per una ragione intrinseca, per il modo con cui era nato, cioè dialogando in un blog: che un vecchio intellettuale famoso, in marcia verso i novant’anni, perdesse il suo tempo dietro un blog potrebbe apparire insolito...
Ho usato l’espressione «in marcia» non a caso, perché al nostro appuntamento me lo vidi, alla lettera, marciare incontro, ritto, elegante in completo grigio, camicia e cravatta (con la bella moglie, assai più giovane, al fianco). Era magro, il viso scavato, calvo, mai stanco di parlare, anche se gli altri tutto attorno trepidavano in ansia per la sua stanchezza. Mi spiegò che il blog era un’invenzione di un cognato. Lui si era prestato volentieri a quel dialogo quotidiano, che gli serviva per ritrovare nell’immaginazione vecchi compagni d’avventure letterarie, per connettere tanti episodi della sua esistenza, per introdurre temi di carattere universale, dalla fame nel mondo al potere delle banche, per polemizzare non risparmiandosi avversari. Perché se, dicendo dell’Italia, il suo bersaglio preferito era Berlusconi, ne aveva pesantemente anche per la nostra sinistra, sbeffeggiata per la sua indolenza in varie pagine, con un angolo riservato al nostro Veltroni, descritto, in modo crudo, fragile di carattere e assai incerto nell’ideologia. A proposito di Berlusconi ne scrisse di peggio. Citiamo: «Con la sua particolarissima opinione sulla ragione d’essere e il significato dell’istituzione democratica,
Berlusconi ha trasformato in pochi anni l’Italia nell’ombra grottesca di un Paese e una grande parte degli italiani in una moltitudine di burattini...».
Francamente non mi sentirei di dissentire, ma ci sarà stato qualcuno che l’avrà tacciato di settarismo e l’avrà accusato di non conoscere la realtà del bel paese. Il dubbio venne anche a me e glielo esposi. Saramago teneva un’aria seria, non sorrideva. Accettava le mie domande senza un attimo di impazienza, rispondeva pacato e lento nella parola. Mi rispose che conosceva l’Italia grazie ai suoi viaggi, agli amici che gli riferivano, ai giornali. Ineccepibile. Poi c’era il blog... Ci sarebbe altro da raccontare, ad esempio l’antipatia mai dissimulata per Israele, con qualche durezza di troppo, come nel manifesto che firmò in nobile compagnia, con John Berger, Noam Chomsky, Harold Pinter, Gore Vidal, l’ostilità nei confronti della chiesa portoghese e del «suo» Dio «vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia», lo spregio per i banchieri, considerati più o meno delle canaglie (s’era in piena crisi finanziaria). Insomma Saramago, dal ritiro di Lanzarote, alle Canarie, dove ieri è morto, non si risparmiava, duro, combattivo e comunista, come era rimasto, fedele a un’idea più che alla sua dispersione materiale nel corso della storia. Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar (al partito comunista portoghese, in clandestinità, s’era iscritto nel 1959), appena oltre confine poteva apprezzare quella di Franco. Dopo la libertà, che arrivò con la rivoluzione dei garofani, era rimasto un uomo all’antica, onesto, un combattente, diventando un «grande scrittore», come lo riteneva il più grande dei critici, Harold Bloom: un «titano» lo considerava. Certo rappresenta una delle voci più maestose del secolo che è da poco passato. Maestosa è la sua prosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti conduce tra i misteri della vita e della storia, insegnando a guardare, moltiplicando gli sguardi lungo le traiettorie dell’insolito, come nel suo romanzo forse più bello, Cecità, dove la nebbia diventa la lente che costringe a seguire passaggi anomali e per questo meglio aperti sulla verità. C’è anche ironia nelle sue pagine e c’è soprattutto pena per una umanità fragile, destinata alla sconfitta.
José de Sousa Saramago era nato ad Azinhaga il 16 novembre 1922. Il padre era un agricoltore, che, una volta a Lisbona dal 1924, aveva trovato lavoro come poliziotto. Il fratello minore, Francisco, morì a due anni, pochi mesi dopo l’arrivo nella capitale. Non c’erano soldi in famiglia e così il giovane Saramago non frequentò l’università, ingegnandosiper mantenersi nei lavori più diversi, fabbro, disegnatore, correttore di bozze, traduttore, giornalista, fino a impiegarsi in campo editoriale, lavorando per dodici anni come direttore letterario e di produzione. Il suo primo romanzo, Terra del peccato, del 1947, non trovò gran fortuna. Sino alla Rivoluzione dei Garofani, nel ‘74, Saramago visse una stagione di formazione. Pubblicò poesie (Le poesie possibili, 1966), cronache (Di questo e d’altro mondo, 1971), testi teatrali, novelle. Il secondo Saramago (vice direttore del quotidiano Diario de Noticias nel ‘75 e quindi scrittore a tempo pieno), crollata la dittatura, si presentò nel 1977 con il romanzo Manuale di pittura e calligrafia, seguito da Una terra chiamata Alentejo, incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più ad Est del Portogallo. Ma è con Memoriale del convento (1982) che ottenne il successo. In sei anni pubblicò tre opere di grande impatto (oltre al Memoriale, L’anno della morte di Riccardo Reis e La zattera di pietra). Gli anni novanta lo consacrarono con L’assedio di Lisbona, Il Vangelo secondo Gesù e Cecità.
Nel 1998 il riconoscimento «ufficiale»: il Nobel. Non piacque al Vaticano il premio ad un uomo che non s’era mai risparmiato nelle critiche alla Chiesa, alla religione, ad un certo modo di usare persino Dio. Critiche che gli dettava la vicenda del suo paese e della Spagna accanto.

l’Unità 19.6.10
Intervista a Vincenzo Consolo
«Coraggioso e senza peli sulla lingua. Come lui ce ne sono davvero pochi»
Lo scrittore siciliano «Insieme visitammo la Striscia di Gaza, ma parlò apertamente di crimine contro l’umanità e i suoi libri furono ritirati»
di Roberto Carnero

Con Saramago perdiamo un autore di alta letteratura e di profondo impegno civile». In questo binomio – qualità letteraria coniugata con un’attenzione sempre vigile alla realtà circostante – uno dei più importanti autori italiani, Vincenzo Consolo, individua la peculiarità del lavoro di José Saramago. E ricorda un rapporto di amicizia quasi trentennale con lo scrittore portoghese, che conobbe all’inizio degli anni ’80 in Sicilia, la terra d’origine di Consolo. In che occasione ha conosciuto Saramago?
«Fu a un convegno letterario organizzato a Catania, al quale ricordo che parteciò anche Leonardo Sciascia. In quell’occasione feci da cicerone a Saramago, che portai a visitare il Convento dei Benedettini, ricordato nei Viceré di Federico De Roberto, un romanzo che Saramago conosceva bene».
Avete avuto modo di incontrarvi altre volte? «Sì, in diverse circostanze. Abbiamo mantenuto un rapporto costante negli anni. Ricordo, in particolare, un viaggio che compimmo nel 2002 con un gruppo di scrittori di diversi Paesi europei, organizzato dall’Unione Europea. Visitammo anche la Striscia di Gaza e nel constatare le terribili condizioni di vita della popolazione palestinese Saramago ebbe una reazione molto forte, pronunciando parole estremamente dure. Pronunciò, cioè, qualcosa di impronunciabile, parlando apertamente di crimine contro l’umanità. La reazione del governo israeliano fu molto determinata: i libri di Saramago vennero immediatamente ritirati dalle librerie». Come ricorda il suo carattere? «Questo era l’uomo: un uomo coraggioso, privo di autocensure, sempre disposto a dire apertamente ciò che pensava. Come prova l’episodio che ho appena rievocato. Non aveva cautele diplomatiche. Era schietto, diretto, a costo di essere fastidioso. Era una persona trasparente. Dotata di una grande capacità di empatia. Era innamoratissimo della sua seconda moglie, con la quale, quando era lontano da casa, passava delle intere mezz’ore al telefono». Come mai era così importante per lui la dimensione dell’impegno civile? «Lo si capisce facilmente se si guarda alla sua provenienza. Lui veniva dal giornalismo, da giovane, durante gli anni della dittatura di Salazar, aveva lavorato nel giornalismo d’opposizione. Pur essendo poi passato alla narrativa, non ha mai dimenticato di essere partito da lì. E ha mantenuto la forma mentis del bravo cronista, del giornalista d’inchiesta».
Quale dei suoi libri le è più caro?
«Sono molte le opere che l’hanno reso grande e che ho amato. Da Memoriale del convento a La zattera di pietra, fino a Storia dell’assedio di Lisbona. Un libro come Cecità è una grande metafora della nostra condizione attuale: una condizione di accecamento generale, specchio del mondo d’oggi».
In particolare in Italia, forse. Non è un caso che Einaudi, una casa editrice del gruppo Mondadori (la cui proprietà è riferibile alla famiglia Berlusconi), si sia rifiutata di pubblicare uno dei suoi ultimi libri, «Il quaderno» (poi edito da Bollati Boringhieri), perché conteneva critiche al nostro Presidente del Consiglio. Ha avuto modo di raccogliere le sue reazioni su questa vicenda?
«No, e devo dire che ho volutamente evitato di farlo. Perché mi è sembrata una storia davvero sgradevole, un caso di censura bella e buona, particolarmente grave visto che colpiva un autore della sua statura. E mi ha spinto a riflettere su come un’attività come la letteratura, per molti versi oggi considerata marginale, abbia evidentemente ancora la capacità di disturbare i poteri forti. Autori come Saramago e come Roberto Saviano danno fastidio ai potenti, politici o criminali che siano, perché dicono la verità, spiattellano con candore le tante piccole e grandi scomode verità che spesso facciamo prima a non vedere. O che il potere mediatico ci impedisce di vedere, rincitrullendo e rimbambendo la gente con ore e ore di programmi tv stupidi, superficiali e sostanzialmente vuoti. Ecco perché la perdita di uno scrittore come Saramago è gravissima: perché sono pochi quelli che come lui, in un panorama letterario per molti aspetti desolante, continuano a concepire il lavoro della scrittura in questi termini così ampi». L’altro suo bersaglio polemico, soprattutto negli ultimi anni, era diventato la religione. Da dove derivava questa attenzione al fenomeno religioso? «Anche questa critica alle religioni rivelate si inserisce nella più ampia critica al potere. Saramago attaccava le grandi fedi monoteiste, in particolare il cattolicesimo da cui proveniva per formazione e l’islam nelle sue derive fondamentaliste, a partire da una matrice laica e razionalista. Lo si vede bene anche nel suo ultimo libro, pubblicato poche settimane fa da Feltrinelli, Caino, che è una rilettura della Bibbia fatta in maniera del tutto anticonvenzionale».

l’Unità 19.6.10
Fucili, bombe e pallottole
L’Italia tallona gli Usa sull’export delle armi
Rapporto 2010 sulla vendita di armamenti leggeri: 12% di incremento, il picco più alto dal 1996. Gli affari con Stati Uniti ed Europa ma anche con Paesi sotto embargo o accusati da Amnesty di gravi violazioni dei diritti umani
di Umberto De Giovannangeli

Finché c’è guerra c’è speranza». Non è solo il titolo di un famoso film con Alberto Sordi protagonista. È anche una logica di mercato. Il mercato delle armi. Un mercato in cui l’Italia eccelle. A darne conto è l’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo nel documentatissimo «Armi leggere, guerre pesanti. Rapporto 2010. Le esportazioni italiane di armi piccole e leggere ad uso civile». Dal Rapporto 2010 emerge un forte incremento nelle vendite. Infatti, l’Italia ha esportato armi comunida sparo, munizioni ed esplosivi per oltre 460 milioni di euro nel 2007 e per oltre 465 milioni di euro nel 2008, con un incremento del 12% rispetto al biennio precedente, toccando così i valori più alti dal 1996. Un giro di affari che, colloca l’Italia al secondo posto nel mondo, dopo gli Stati Uniti.
La ricerca dell’Archivio Disarmo, diretta da Emilio Emmolo, è stata condotta su fonte ISTAT, che periodicamente mette a disposizione i dati relativi alle esportazioni ad armi comuni da sparo, munizioni ed esplosivi, senza peraltro dettagliare le ditte fornitrici, il prodotto, gli acquirenti (evidenziando ancora una scarsa trasparenza sui trasferimenti, al punto da non poter distinguere la vendita di doppiette da quella di fucili da caccia grossa). In particolare, il 67% del totale delle esportazioni del biennio è costituito da pistole e fucili, a fronte di un 29% di munizioni e di un 4% di esplosivi. Nel biennio 2007-2008 tali esportazioni sono state dirette per la maggior parte verso gli Usa (30%) e i Paesi membri dell’Ue (45%), ma anche verso una serie di Paesi nei quali si riscontrano la presenza di conflitti e di gravi violazioni dei diritti umani.
Emerge, infatti, l’esportazione verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi (Cina, Libano, Repubblica Democratica del Congo, Iran, Uzbekistan, Armenia e Azerbaigian), e verso Paesi in cui sono in atto conflitti e in cui si riscontrano gravi violazioni dei diritti umani riconosciute non solo da Organizzazioni non governative (quelle prese in considerazioni dalla ricerca dell’Archivio Disarmo, tra le più autorevoli: Amnesty International, Escola de Cultura de Pau e Human Rights Watch), ma anche dalle stesse Nazioni Unite e dall’Unione Europea (la Federazione Russa, la Thailandia, le Filippine, il Pakistan, l’India, l’Afghanistan, la Colombia, Israele, il Congo, il Kenya, la Georgia, il Guatemala, la Bolivia,il Ciad ...). Attenzione anche al Messico che registra un incremento progressivo confermandosi sempre tra i primi venti maggiori importatori; dei 12 milioni di euro di materiali importati tra il 2007 e il 2008, oltre 11 milioni sono per pistole e fucili. Secondo il Rapporto 2009 di Amnesty International in Messico continuano a verificarsi gravi violazioni dei diritti umani, esecuzioni extragiudiziali, uccisioni di giornalisti, detenzioni arbitrarie e il ricorso alla tortura da parte delle forze di sicurezza è noto Nel biennio 2007-2008 l’Italia ha esportato complessivamente 927.888.960 euro in armi leggere ad uso civile e, precisamente, 461.997.732 euro nel 2007 e 465.891.228 euro nel 2008. Per quanto riguarda le diverse categorie di materiali il valore complessivo di pistole, fucili e relativi parti ed accessori esportati dall’Italia nel biennio 20072008 ammonta a oltre 600 milioni di euro (67% del totale), quello delle munizioni ad oltre 260 milioni di euro (29%) e quello degli esplosivi a oltre 33 milioni di euro (4%). Il trend si mostra in ascesa costante per quanto riguarda le esportazioni di munizioni che dal 2006 sono aumentate di circa il 23% e di un ulteriore 9% dal 2007 al 2008. L’andamento delle esportazioni di pistole, fucili e loro parti ed accessori mostra, invece, un incremento tra il 2006 e il 2007 (più 12%) e una leggera flessione nell’anno successivo (meno 10 milioni di euro pari a circa il 3%). Il valore delle esportazioni di materiale esplosivo registrano, invece, una tendenza diversa: diminuzione tra il 2006 e il 2007 (meno 48%) e leggero aumento nel 2008 pari al 14%.
Oltre sulla definizione di armi piccole e leggere, Il Rapporto si sofferma anche sulle normative vigenti in Italia e sul quadro giuridico internazionale, nonché sull’Arms Trade Treaty in discussione in ambito Onu, il trattato internazionale sul commercio che dovrebbe approdare nel 2012 ad accordo mondiale. In particolare, ancora una volta emergono le contraddizioni derivanti dal fatto che le procedure e i divieti previsti per le armi comuni da sparo (previste dalla legge 110/75) sono diverse dal quelle previste dalla legge 185/90 che si occupa dei trasferimenti di armi ad uso militare, una tra le discipline più avanzate a livello internazionale. Emergono dall’analisi da un lato l’incremento progressivo delle esportazioni italiane di armi «leggere ad uso civile», dall’altro un quadro normativo tutt’altro che univoco e che lascia delle zone d’ombra molto importanti (nonostante che la Relazione della Presidenza del Consiglio sull’export di materiale di armamento militare abbia più volte ribadito di seguire anche in questo ambito criteri analoghi a quelli applicati per la 185/90). È opportuno ricordare rilevano gli autori che, come ha più volte messo in luce l’Onu, spesso attraverso vendite legali si passa poi a successive forniture a soggetti che di questi strumenti fanno un uso non consentito, finendo per armare anche la delinquenza organizzata, formazioni terroristiche, bande paramilitari ecc. I Paesi dell’Unione Europea sono stati il maggiore importatore di pistole,fucili, munizioni ed esplosivi italiani: nel 2007 le esportazioni italiane sono state pari a 213.100.647 euro, seguite da una lieve diminuzione (meno 6%) nel 2008 con 199.939.220 euro. Rispetto al 200684 le esportazioni verso i Paesi dell’Unione Europea hanno registrato un aumento notevole. I primi otto Stati per valori di importazioni sono, come l’anno precedente, Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, Grecia, Belgio, Finlandia, Portogallo i quali complessivamente sono stati destinatari di armi italiane di piccolo calibro per un valore di 361 milioni di euro così ripartiti: oltre 195 milioni di euro in pistole e fucili, oltre 141 milioni di euro in munizioni e oltre 23 milioni di euro in esplosivi.
Partendo da queste considerazioni, una delle conclusioni a cui giunge il Rapporto è che, come avviene già a livello europeo, ancora una volta appare necessario considerare giuridicamente le armi comuni da sparo alla stregua delle armi leggere ad uso militare alla luce dell’ormai accertata pericolosità della loro presenza soprattutto nei numerosi scenari di conflitto che costellano i cinque continenti; conflitti in cui le armi, dalle più piccole alle più sofisticate, contribuiscono alla radicalizzazione della violenza e delle difficili condizioni post-conflittuali con impatti devastanti sulle popolazioni. «Il grosso problema dice a l’Unità Maurizio Simoncelli, Vicepresidente dell’ Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo è la scarsa trasparenza dei dati. Noi sappiamo che vengono esportate delle quantità di armamenti ma non esattamente quali e a chi. Un altro problema aggiunge il professor Simoncelli è che dichiarazioni contenute nella Relazione della Presidenza del Consiglio non appaiono conseguenziali nei fatti, per cui in Paesi come Cina, Colombia, Israele ed altri, dove teoricamente non si dovrebbe esportare, invece risultano esportazioni di armi italiane».

l’Unità 19.6.10
Conversando con Citto Maselli «D’accordo con Reichlin: alla sinistra serve un’idea e ai giovani serve la sinistra»
di Toni Jop

Alla manifestazione di Piazza Navola dell’8 giugno contro i tagli alla cultura c’era anche Citto Maselli che ha detto: «Questo governo segue una strategia lucida e mortuaria contro il pensiero libero».
Aquel lago di simboli che si è divertito a collezionare nel suo film più recente, «Le ombre rosse», Citto Maselli uno dei grandi padri del nostro cinema ha incollato un finale didascalico. Due ragazze (e un ragazzo), un fabbricato alla periferia delle periferie, un metro a nastro in mano, prendono misure, larghezza, lunghezza. Cercano un posto, un luogo, una situazione da nutrire con i corpi e con i pensieri, con azioni solidali. Ma lontano, via dalla pazza folla, dove l’urbanesimo, anima della nostra civiltà, degrada e sfuma il rigore della sua ottica concentrazionaria. Il film chiude, mentre si prende atto della fine di un’era, di una esperienza collettiva eccitante il decollo e il tramonto di un centro sociale con i segni dell’allestimento di un Natale che verrà. Sono giovani e sono soprattutto donne, non si sa cosa sappiano fare di «socialmente rilevante», non si conoscono le loro abilità misurate sui bisogni del mercato, ma si sa che scommettono sulla vita a dispetto della loro invisibilità. Così l’allegoria frana sul reale: è esattamente ciò che sta accadendo a milioni di ragazzi, soprattutto in Italia. Dicono che un ragazzo su tre non troverà lavoro, nessun lavoro in questo paese. Almeno finché le condizioni non cambieranno. Uno su tre fa paura perché muta il dna sociale che abbiamo fin qui conosciuto. Da decenni, da «Gli sbandati» e non solo, hai sempre dedicato uno sguardo d’affetto ai giovani. Un cineasta è anche un po’ uno stregone...
Quel finale di film dice anche altro: per esempio che la politica, quel che resta della politica in anni recenti non ha saputo dare non dico modelli ma strumenti, «utensili» adatti a costruire una vita in cui i ruoli individuali e collettivi non siano imposti dal mercato, dal consumo. C’è una fondamentale differenza tra essere schiacciati dai grandi meccanismi di una durissima ristrutturazione «capitalistica» in una crisi psicologica ed esistenziale senza uscita e affrontarla, invece, con consapevolezza, collettivamente, con azioni che puntellano una nuova forte soggettività politica. In altre parole: la sinistra non ha saputo fornire ai giovani motivi sufficienti per lottare, resistere, inventare strade nuove. Benché Rifondazione Comunista, il partito cui appartengo, si muova con le forze di cui dispone, proprio in questa direzione. E questa insufficienza, se permetti, non racconta di una banale crisi della sinistra, ma di una sua crisi profonda, terribile.
Lo si capisce scorrendo la drammaturgia del tuo film. La sinistra tutta ne esce a pezzi, nessuno si salva: i partiti, gli intellettuali, figure ingrigite da una mediocrità senza respiro, interne a un gioco da cui sono state adottate con l’ambizione e il miraggio della «modernità». E si salvano solo i ragazzi del centro sociale.... Condivido un recentissimo richiamo di Alfredo Reichlin: alla sinistra serve un’idea. È un po’ un’astrazione, nelle corde di Reichlin, ma mi pare che anche solo porsi di fronte a questo bisogno, affermare che esiste e che corrisponde al vuoto di oggi, significa assumersi una responsabilità all’altezza della storia che stiamo vivendo.
Forse, però, sostenere che ci serve un’idea non è una tenera ammissione di impotenza? E questa ammissione non ha qualcosa in comune con il febbrile riposizionamento del “territorio” in testa alla top ten delle questioni di cui deve farsi oggi carico la sinistra? Cosa ci è successo?
So che Togliatti decise già nel 1941 di organizzare il Partito Comunista scartando il metodo della cooptazione diretta in base alla affidabilità burocratica dei comunisti come imponeva lo schema della Terza Internazionale. Impartì direttive affinché la selezione fosse affidata a dei dati «storici», e cioè alla generosità e alla efficacia della lotta messa in pratica nelle fabbriche, sempre e comunque nei territori. Poi, vorrei ricordare qual è il valore insostituibile del marxismo: l’idea di una società conflittuata come garanzia di democrazia e di crescita. Marxismo non come modello, quindi, ma metodo,
tra l’altro inevitabile in una relazione di potere vissuta con consapevolezza. Dov’è finita questa cultura? Verrebbe da chiederlo a chi si è assunto la responsabilità di far naufragare i due governi di centrosinistra. Non saranno stati i migliori governi del mondo ma alla luce di quel che ha messo in campo l’era berlusconiana non si può negare che testimoniavano un’altra cultura e proponevano un’altra Italia...
Ma se non àncori il fare quotidiano, anche quello politico, ad una visione complessiva che entra in conflitto con l’esistente, devi attendere che tramonti una esperienza di governo e che salga al potere un oligarca amorale come Berlusconi per comprendere che era meglio proseguire sulla vecchia strada. E comunque se la cultura che animava quei governi è la stessa che da anni muove le opposizioni di sinistra, mi pare che non siamo di fronte alla chiave, oppure come dice Reichlin all’«idea» che può aprire nuove porte, nuove vie d’uscita. Anche per quel trenta per cento di ragazzi italiani condannati a vivere senza lavoro.
Alla sinistra per non perdersi sarebbe forse bastato riuscire a mettere in campo la legge sul conflitto di interessi; non era nemmeno indispensabile farla passare, visto che i numeri pare non ci fossero; ma doveva «morire» su quella iniziativa di pura giustizia molto annunciata...
Sì, e quei giovani che ora sono nel tritacarne avrebbero in tasca almeno il valore morale di un impegno storico di democrazia, di una coerenza limpida; ma sui principi, appunto, non si dovrebbe transigere. E ora la sinistra avrebbe cose da dire nei territori e saprebbe, certamente meglio di ora, cosa vuol dire lottare per un ideale che vale tutte le tue energie, e conoscerebbe il valore della lotta, dello stare in piedi, di una prospettiva di società alternativa.
Invece, dici con «Le ombre rosse», i ragazzi se la devono inventare da sé la nuova casa... Una casa, un partito, un progetto nato dai bisogni delle loro condizioni materiali. L’estromissione pressocché totale dal mondo del lavoro allora produrrà nuova consapevolezza e nuova cultura. Quando, provati e demoralizzati, spulceranno la storia, troveranno forza in quel che hanno prodotto il Movimento dei lavoratori e il Partito Comunista italiano, perché qualcuno a sinistra se ne vergogna ma è storia bellissima e forte, soprattutto in Italia, in quella vicenda che gli ortodossi francesi del Pcf chiamarono «déviation italienne».

Nato a Roma, partigiano durante la Resistenza, Francesco Maselli inizia la sua carriera cinematografica al fianco di Chiarini, Antonioni e Visconti. Gira nel 53 con Zavattini il suo primo film, «Storia di Caterina».
Ma è con «Gli sbandati», 1955, che conquista un ruolo di primo piano nella storia della cinematografia italiana. Mette a fuoco uno dei suoi più intensi nuclei narrativi con «I delfini», alla cui sceneggiatura collabora Alberto Moravia: il film è una lente lucida sul galleggiamento dei giovani figli di una borghesia oziosa.
Ancora Moravia sul suo cammino: nel 64 porta sugli schermi una bellissima trasposizione da «Gli indifferenti». Impegnato culturalmente e sul fronte politico, Maselli è alla testa della contestazione sul finire degli anni Sessanta. Nel ‘73 governa le «Giornate del cinema italiano» a Venezia, una contro-Mostra militante e innovativa.
Nel 70 dirige «Lettera aperta a un giornale della sera», film politico che inizia a scavare nelle contraddizioni della sinistra. Altro focus che Maselli non abbandonerà e verrà confermato nel 2009. con «Le ombre rosse».

venerdì 18 giugno 2010

Repubblica 18.6.10
La menzogna di Stato
di Francesco Merlo

Gianni De Gennaro non è un uomo qualunque, è da moltissimi anni un pezzo importante dello Stato italiano, ha alle spalle una carriera di poliziotto modello.
Ma proprio per questo la sentenza che lo condanna non dovrebbe spingere nessuno a recitare le solite tragicommedie del garantismo e del giustizialismo alle quali purtroppo stiamo invece assistendo.
Un servitore dello Stato, un ex capo della Polizia oggi Signore dei servizi segreti, non può apparire come un manipolatore di testimoni, non può permettersi una condanna anche se non definitiva, non può consentire che la gente pensi a lui come a un bugiardo. Ha ovviamente diritto alla presunzione di innocenza ma ha il dovere di liberare lo Stato dalla fosca ombra che lo sovrasta. Non sappiamo cosa De Gennaro deciderà, ma abbiamo fiducia nella sua coscienza, nel suo spirito di servizio, nel suo alto senso dello Stato che, mai come oggi, coincide con la sua dignità di insospettabile.
E però, più inquietante della sentenza c´è la solidarietà meccanica, ideologica, quasi fosse "di partito", del ministro dell´Interno Maroni e del ministro della Giustizia Alfano. Le loro dichiarazioni a caldo, istintive e assolutorie finiscono con l´apparire come una prova involontaria della giustezza della sentenza: come si può essere solidali con un condannato di questa portata? Che fine ha fatto quell´idea rigorosa di Stato che un tempo dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e pulizia assoluta? Neppure De Gennaro è, secondo noi, solidale con se stesso come Maroni e Alfano lo sono con lui. E se fosse stato direttore del Tg1 o del Tg5 di sicuro De Gennaro avrebbe evidenziato nei titoli la notizia che invece Minzolini e Mimun hanno nascosto. Come si fa a non capire che delegittimare o malcelare una sentenza così rilevante finisce con il rafforzarla, con il fornire ulteriori argomenti alla colpevolezza?
Insomma, più grave della sentenza c´è la complicità politica con il reo, l´idea che la politica possa annullare le ragioni della giustizia. Di sicuro non è bello lo scontato crucifige ideologico dei soliti nemici di De Gennaro e della polizia, ma si tratta in fondo di pezzi di un´opposizione d´antan e tribunizia di pochissimo peso istituzionale. Ben più indecente è l´amicizia ammiccante di Maroni e di Alfano. E in tv ci ha colpito il silenzio del procuratore antimafia Piero Grasso che, seduto per caso tra Alfano e Maroni che difendevano il condannato, esibiva una impassibilità che somigliava - ci è parso - allo sconcerto trattenuto, allo scandalo dissimulato. Cosa avrebbe detto Piero Grasso se fosse stato lui il condannato, magari pure ingiustamente? Come reagisce un Servitore della Cosa Pubblica se il suo operato vulnera l´istituzione che rappresenta? Difende se stesso anche a costo di offendere lo Stato? Tratta se stesso come un uomo qualunque quando invece è un pezzo di Stato?
Ma voglio essere ancora più chiaro. A noi piacciono i capi che coprono i loro uomini, capiamo le ragioni psicologiche e anche professionali, specie di un poliziotto che ha vissuto i giorni pesanti di Genova, dove però le violenze cieche, di strada, sono purtroppo risultate alla fine meno cruente delle violenze di Stato, quelle costruite a freddo contro degli inermi. De Gennaro insomma lo capiamo senza giustificarlo. Ha le attenuanti del capo che si compromette in favore dei suoi. C´è una nobiltà nella ignobiltà che ha commesso.
Ma la solidarietà dei ministri degli Interni e della Giustizia sconfessa l´operato dei giudici in maniera sconsiderata, solo perché De Gennaro è uno dei loro, uno come loro. Il messaggio che arriva agli italiani è che la corporazione, la cricca, la casta e l´amicizia rendono innocente anche un reo condannato. L´impunità è la peggiore delle sporcizie di Stato.

l’Unità 18.6.10
I disastrosi effetti dell’accordo
L’Italia, la Libia e il trattato della vergogna
di Valentina Bridi e Ernesto Ruffini

Il 2 giugno la sede di Tripoli dell’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu è stata costretta a chiudere poiché, non aderendo la Libia alla Convenzione di Ginevra, le attività svolte dall’ufficio venivano considerate “illecite”. È una questione che riguarda, e molto, l’Italia. E, infatti, il «Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione» siglato con la Libia ha appena compiuto un anno. Una cooperazione nella «lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina» attraverso «un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche». Così, dal 15 maggio 2009, viene attuata una politica di respingimento di quanti tentano di approdare irregolarmente sulle nostre coste. Gli effetti di questa politica sono drammatici. Per un verso si è registrata una riduzione delle richieste di asilo presentate agli organi italiani: dagli oltre 31mila del 2008 a poco più di 17mila nel 2009. Per altro verso gli sbarchi, che nel 2008 sono stati 36.900, si sono ridotti a 9.573 (ma quelli in Sicilia rappresentavano appena il 5% degli ingressi irregolari), con un calo notevole, del 90%, da maggio a dicembre. Ma la realtà che si cela dietro questi numeri rimanda mette sotto accusa la pratica dei respingimenti e più in generale l’inasprimento delle misure di contrasto all’immigrazione. Ne conseguono la rinuncia al viaggio da parte di chi è a conoscenza delle politiche migratorie italiane, il pesantissimo controllo libico sul territorio e sulle coste, l’intercettazione e il respingimento in mare di quanti riescono a imbarcarsi. Quei migranti respinti con ogni probabilità, avevano diritto di ottenere lo status di rifugiati, ma di loro non sapremo più nulla. Certo, avevamo solidi motivi per chiudere il contenzioso con la Libia per il nostro passato coloniale, ma, evidentemente, nemmeno un motivo qualunque per aiutare uomini e donne provenienti da paesi dove quel passato è stato ugualmente disastroso. Intanto il ministro Franco Frattini vanta il fatto di aver salvato tanti dalla morte in mare. È immorale il tentativo di presentare all’opinione pubblica una sola faccia del fenomeno migratorio: se i morti sono morti (e i 419 del 2009 a noi sembrano molti), qual è il destino dei salvati, dei “respinti”? L’alternativa possibile sarà tra la detenzione nei campi libici di cui sono stati ben documentati i livelli di civiltà giuridica, e il ritorno coatto alle situazioni di guerra, miseria, persecuzione dalle quali erano fuggiti. Ma, secondo l’articolo 16 del Trattato, le parti non dovrebbero adoperarsi «per la diffusione di una cultura ispirata ai principi della collaborazione tra i popoli»?

l’Unità 18.6.10
I teatri si infiammano Sciopero delle «prime» contro il decreto Bondi
Il primo sì l’altro ieri al provvedimento che da qualche spicciolo alla cultura e nessuno emendamento dell’opposizione è stato recepito, differentemente da quanto annunciato. La prima protesta il 22.
di Luca Del Fra

Tornano a incendiarsi i grandi teatri d’opera italiani: i sindacati dichiarano lo sciopero di tutte le prime e uno sciopero nazionale con presidio davanti a Montecitorio nel giorno della definitiva approvazione alla Camera del cosiddetto decreto Bondi che dovrebbe avvenire il 22 giugno. È la reazione al primo via libera del Senato per la conversione in legge del decreto avvenuta l’altro ieri: «Dopo molti sforzi fatti in sede di commissione cultura per migliorare il testo attraverso gli emendamenti – spiega il Sentore del Pd Vincenzo Vita –, giunti in aula la maggioranza è tornata indietro sulle sue decisioni e il ministro Bondi sulle sue stesse promesse, mostrando il volto peggiore e più vero». Il provvedimento colpisce in maniera pesante i lavoratori dei teatri, blocca il turnover così da rendere impossibile il ricambio nelle orchestre delle Fondazioni lirico-sinfoniche –come la Scala, il Maggio fiorentino, il San Carlo, il Regio di Torino e la Sinfonica di Santa Cecilia–, così destinandole a trasformarsi in pochi anni in ensemble raccogliticci: dopo una lunga mediazione su questi due punti il testo era stato migliorato, ma all’atto della votazione in Senato la maggioranza ha fatto dietrofront. Inoltre il provvedimento sostanzialmente commissaria tutti i nostri grandi teatri lirici, togliendo loro autonomia e mettendoli sotto il giogo del ministro delle Attività Culturali e del suo entourage.
«È un decreto anticostituzionale, ingiusto e inutile» -ha più volte ripetuto Silvano Conti della Cgil che stavolta ribadisce–: «Se passerà così la Cgil e la Fials (il sindacato autonomo) dopo questi scioperi continueranno le agitazioni questa estate e in ogni possibile occasione, da San Nicola a Sant’Ambrogio», rispettivamente l’inaugurazione della stagione del Petruzzelli e della Scala, vale a dire da Sud a Nord. Sul futuro finora sono invece apparse molto più caute la Csil e soprattutto la Uil.
Malgrado Bondi dopo il voto del senato abbia esternato la sua soddisfazione «abbiamo salvato la lirica»-, secondo molti il provvedimento, unito ai tagli apportati ai finanziamenti alle attività culturali da parte del Governo, è il colpo di grazia alle fondazioni lirico-sinfoniche, nel bene e nel male rappresentano l’unico sistema di produzione teatrale estesa su tutto il territorio nazionale. I profili di possibile incostituzionalità del decreto sono parecchi –le attività culturali sarebbero materia su cui il governo dovrebbe legiferare in accordo con le regioni, il che non è avvenuto in questo caso. Tanto è vero che giunte come quella della Toscana stanno vagliando un possibile ricorso se il decreto sarà convertito in legge.

Libertà d´impresa, ecco la legge meno vincoli anche nell´urbanistica

Repubblica 18.6.10
Il direttore della Normale di Pisa: è la stessa Carta che all´articolo 9 garantisce la tutela
Settis: "Norme generiche e confuse rischiano di stravolgere il paesaggio"
Quella del governo se confermata, è davvero una pessima idea. Appare come un attacco all’urbanistica
di Lucio Cillis

ROMA - C´è un passaggio nel disegno di legge costituzionale di modifica agli articoli 41 e 118 della Carta, che fa scorrere dei brividi sulla schiena di chi si occupa di tutela del paesaggio, di urbanistica.
Salvatore Settis, archeologo, scrittore, ed direttore della Normale di Pisa, è in questo caso uno degli interlocutori ideali.
Settis premette di «non conoscere» nel dettaglio il testo appena battuto dalle agenzie di stampa. Ma quando nel ddl compare inaspettatamente il richiamo alla «materia urbanistica», quando si concedono tre mesi a Comuni, città metropolitane, Province e Regioni per adeguare le proprie normative in modo da "limitare le restrizioni del diritto di iniziativa economica", i dubbi, così come i timori di un colpo di mano mascherato tra le righe del documento, cominciano a farsi largo tra i pensieri di chi si occupa di queste tematiche.
Professore, come giudica le novità in materia urbanistica introdotte nel ddl che oggi verrà esaminato dal Consiglio dei ministri?
«Da questa prima lettura a me sembra una pessima idea. In questo modo, se quello che leggiamo oggi sarà confermato, si rischia di stravolgere la tutela stessa del paesaggio. Garantita, vorrei sottolineare, dall´articolo 9 della Costituzione...».
Eccolo, professore: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione...". Il ddl del governo, tra l´altro, chiama in causa "normative comunitarie o internazionali" e concede tre mesi agli Enti locali per adeguarsi alla nuova legge costituzionale. Quasi a salvaguardia di eventuali abusi sul fronte urbanistico, non crede?
«Intanto a me sembra che queste norme siano state scritte in modo generico e confuso. Inoltre, va detto che a livello europeo non c´è nulla di così "protettivo", non c´è niente di più alto rispetto all´articolo 9 della nostra Costituzione...».
Quindi lei ha il sospetto che dietro questa modifica si possano celare dei colpi di mano?
«Ripeto, da questa prima lettura del testo, intravedo dei seri rischi. Qualsiasi cosa attacchi in modo diretto l´articolo 9, è un qualcosa che attacca direttamente l´urbanistica e il paesaggio...».

Repubblica 18.6.10
Fo: "Ora vi racconto Correggio pittore dell´erotismo e visionario"
Il Nobel sarà alla rassegna "Sotto il cielo di Parma" con lo spettacolo dedicato all´artista
di Anna Bandettini

La sua è la storia di un self made man, «il figlio di un vu cumprà del Cinquecento, cresciuto senza mezzi, in una casa modesta affollata di parenti, dove però lui trovava la concentrazione per dedicarsi alla pittura e alle buone letture». Fu così che Antonio Allegri divenne Correggio, uno dei massimi artisti del Rinascimento italiano, un innovatore e un gaudente, il primo a trasporre in pittura le teorie di Copernico e a riscoprire la matrice pagana del classicismo in dipinti di fantastico e gioioso erotismo.
Lo racconta così Dario Fo, infaticabile cacciatore di storie e di uomini speciali. Dopo Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Mantegna, Giotto, Caravaggio, il Nobel si è dedicato al pittore emiliano. Dieci anni di studi per un bottino grosso: la scoperta in una collezione privata di un dipinto del Correggio che ritrae l´amata Girolama; un libro a cura di Franca Rame, Correggio che dipingeva appeso al cielo (Panini editore, 248 pagg., 200 ill., 20 euro); e uno spettacolo omonimo, debutto (dopo due anteprime a Salsomaggiore domani e il 20) a Parma il 23 e 24 per la rassegna "Sotto il cielo di Parma".
Lo spettacolo, racconti inframmezzati da tre giullarate (di cui un paio del Ruzante) e illustrazioni dello stesso Fo dai dipinti originali, ha il valore di una vera riscoperta del Correggio, «a lungo dimenticato - spiega il Nobel - Eppure nella sua epoca era una star, al pari di Raffaello e Leonardo. I collezionisti di mezza Europa facevano a gara per un Correggio, cosa che comportò la dispersione delle sue opere. Fu il grande lavoro critico di Longhi a riportarne alla luce la paternità».
Di Correggio, Fo ricostruisce la formazione, il legame al maestro Mantegna, gli amori, soprattutto la bella personalità intellettuale. «Correggio - racconta - era un giovane intelligente, vivace, con un´ansia d´apprendimento straordinaria. Leggeva di matematica, scienza, filosofia. Era una spugna e le sue conoscenze confluivano poi nei dipinti». Prova ne è l´imponente ciclo di affreschi delle due cupole del Duomo e della basilica di San Giovanni sempre a Parma: «Qui nel Cristo al centro della cupola e attorno gli apostoli, come fosse il sole e i suoi pianeti, ci sono le rivoluzionarie tesi eliocentriche di Copernico - dice Fo - Ma la cosa straordinaria è l´azzardo tecnico di quei dipinti: 15 anni prima di Michelangelo alla Sistina, Correggio riuscì non solo a dipingere così in alto grazie alle invenzioni di macchine e impalcature, ma lo fece creando nello spettatore l´illusione di sfondare il tetto e arrivare al cielo. Di una modernità assoluta».
Moderna anche l´attenzione, non secondaria, di Correggio per l´amore e le donne, una in particolare Girolama, la donna della vita, modella di tante Madonne e Maddalene. «Attraverso lei e per lei - dice Fo - Correggio è il pittore della fantasia dell´erotismo, vissuto con giocondità, come si vede nella decorazione della camera della badessa nel convento di San Paolo o nel trionfo di nudi e seni nella cupola del Duomo. Lo vedevano anche i monaci, che storcevano il naso: ma Correggio li tacitava con le armi del grottesco e dell´ironia».

il Fatto 18.6.10
E il papa graziò il gay
Il vescovo polacco Paetz è stato reintegrato Nel 2002 ebbe rapporti con seminaristi
Parecchi giovani nel 2001 erano pronti a mettere nero su bianco le molestie
Oggi, a 83 anni, potrà ordinare nuovamente nella diocesi dalla quale fu cacciato
di Marco Politi

Papa Ratzinger “grazia” l’ex vescovo polacco di Poznan, costretto alle dimissioni da Giovanni Paolo II, perché coinvolto in una girandola di rapporti erotici con seminaristi. Dopo il condono vaticano Juliusz Paetz potrà di nuovo esercitare tutte le funzioni sacramentali di un vescovo nella stessa diocesi dove aveva provocato lo scandalo.
Benedetto XVI ha deciso così nonostante l’opposizione del nuovo vescovo mons. Gadecki, indignato per il colpo di spugna che mina la credibilità della Chiesa. Il nuovo vescovo tenta di far ritirare il provvedimento: un boomerang nell’anno in cui l’opinione pubblica è scossa per gli abusi sessuali del clero.
La storia risale al 2002, quando il giornale conservatore Rzeczpospolita fece esplodere lo scandalo, raccontando dell’attivismo sessuale dell’arcivescovo Juliusz Paetz e riferendo dello scontro avvenuto con il rettore del seminario di Poznan, don Karkosz. Il rettore aveva fisicamente impedito l’ingresso in seminario al vescovo, accusandolo di aver insidiato e molestato ripetutamente dei seminaristi. Per tutta la Polonia erano corse le voci sui messaggini seduttivi e sui regalini ammiccanti inviati dal vescovo ai suoi amichetti. Poche settimane dopo l’arcivescovo, il 28 marzo 2002, era stato costretto alle dimissioni. La vicenda è tipica di come le cose funzionavano in Vaticano durante il pontificato di Wojtyla. Era dal 1999 che erano cominciate a circolare accuse contro Paetz. Ma il prelato godeva della fiducia di Giovanni Paolo II e del suo segretario mons. Dziwisz, perché aveva fatto parte della “Famiglia pontificia”, a stretto contatto con il Papa. Wojtyla lo aveva nominato vescovo di Lomza in Polonia nel 1982 e nel 1996 lo aveva promosso arcivescovo dell’importante e storica diocesi di Poznan. Sicché le accuse erano state regolarmente insabbiate. Solo nel tardo 2001, intorno a Natale, dal Vaticano era partito come ispettore un giudice polacco della Sacra Rota, mons. Stankiewicz. A smuovere Giovanni Paolo II e il suo entourage era stato necessario l’intervento dell’amica personale di Wojtyla, la psichiatra Wanda Poltawska, che aveva denunciato lo scandalo del silenzio intorno a comportamenti indegni di un vescovo. Scesero in campo con una lettera aperta anche decine di esponenti cattolici di Cracovia e Varsavia, chiedendo chiarezza.
Quando lo scandalo esplose e nel Palazzo apostolico si venne a sapere che c’erano parecchi giovani pronti a mettere nero su bianco le molestie sessuali del prelato, la soluzione trovata fu quella classica. Nessun procedimento trasparente per informare la comunità cattolica dell’innocenza o della colpevolezza dell’arcivescovo, ma la firma di una lettera di dimissioni. La punizione inferta (mai dichiarata ufficialmente) fu blanda: Paetz non avrebbe potuto esercitare le sue funzioni vescovili all’interno della diocesi di Poznan.
D’ora in avanti il Vaticano – benché non ci sia ancora comunicazione ufficiale – lo autorizza a svolgere nuovamente i riti di un vescovo. L’83enne Paetz potrà ordinare a Poznan sacerdoti, celebrare cresime, guidare processioni, consacrare chiese e presiedere messe solenni. Le frequenti visite del prelato ai suoi amici in Vaticano gli hanno guadagnato la grazia di Ratzinger, firmata dal cardinale Re, prefetto della Congregazione dei Vescovi in procinto di andarsene per limiti di età.
Come se nulla fosse accaduto.
Con un eclatante doppiopesismo: le autorità ecclesiastiche invocano sempre il pretesto dello “scandalo” e del grave peccato per vietare la comunione a due disgraziati, che sono divorziati e risposati, mentre un vescovo molestatore per anni può tornare tranquillamente a benedire in pompa magna.
A Roma Paetz era conosciuto per il suo garbo, la sua cultura, la sua gentilezza. I suoi gusti sessuali non interesserebbero nessuno, se il magistero ecclesiastico non tuonasse continuamente contro l’omosessualità, definita “grave disordine morale” e collocata ufficialmente tra i “peccati che gridano vendetta a Dio”. Non da oggi i gruppi omosessuali cattolici chiedono alla Chiesa comprensione e riconoscimento della dignità di “figli di Dio” per i loro legami. Ma le autorità ecclesiastiche sono rigidissime: a chi vive in coppia omosessuale è negata l’assoluzione. In ogni caso per gli standard, proclamati ufficialmente dalla Chiesa, il comportamento dell’ex vescovo di Poznan rappresenta una gravissima infrazione, che rientra fra gli atti che spingevano il cardinale Ratzinger ad esclamare alla Via Crucis del 2005: “Signore, quanta sporcizia c’è nella Chiesa”. Che Benedetto XVI si sia lasciato consigliare a diventare improvvisamente “flessibile” sta suscitando una marea di interrogativi in Polonia e anche nell’opinione pubblica non polacca. La fortuna di Paetz – se così si può dire – è che ai tribunali polacchi non arrivò mai nessuna denuncia da parte di minori o per rapporti con minorenni. Ma non aiuta la credibilità della Chiesa che le autorità ecclesiastiche non abbiano mai voluto dare conto delle sue relazioni extra-celibatarie. Ancora una volta – quando si tratta di tonaca e sesso – il Vaticano non sceglie la trasparenza. Che il vento nella Curia romana stesse volgendo a favore di Paetz lo avevano capito in Polonia, quando esattamente un anno fa il Papa mandò al prelato un telegramma di auguri per i 50 anni della sua ordinazione, congratulandosi per la sua “testimonianza di fede” e il suo “fecondo lavoro per il bene della Chiesa”. Era un messaggio prestampato, si tentò di dire. Invece era presagio di condono.

il Fatto 18.6.10
Immigrati, quattro nuovi Cie nel menù del governo
Veneto, Campania, Marche e Toscana le “prescelte” Nelle strutture solito inferno
di Chiara Paolin

Tra ruote panoramiche e trenini che si tuffano in piscina, Zaia deve rispondere a una domanda antipatica: ma quando apre il nuovo Centro di Identificazione ed Espulsione? Risposta: ''Voglio ricordare che un Cie non è la fine del mondo ma la conclusione di un circolo virtuoso delle leggi sull'immigrazione. Questi centri non saranno né ghetti né caserme, ma strutture di tutta tranquillità". Ancora un sorriso ai fotografi, e poi via con l’auto blu. Così è finita la gita a Gardaland del governatore in risposta al ministro dell'interno Roberto Maroni che la settimana scorsa era sbarcato in Veneto pronunciando parole chiarissime: "Il Cie si farà entro la fine dell’anno. Ne ho nuovamente discusso con Zaia e abbiamo trovato l’accordo". Da allora non si parla d'altro in zona. Il sindaco leghista di Verona, Fabio Tosi, freme e scalpita essendosi offerto per primo come partner ideale dell'impresa. Ma Zaia precisa: "Non c'è ancora nulla di deciso. In ogni caso, sarò io a dialogare col ministro". Dunque il Cie si farà presto. “E' assolutamente indispensabile ha spiegato Maroni -. Se in una regione non c’è, nove volte su dieci un clandestino fermato dev’essere rimesso in libertà, perché quelli delle altre regioni sono già pieni. Ecco perché abbiamo individuato quattro regioni che ne sono prive dove li realizzeremo entro la fine di quest’anno”.
Toscana, Marche e Campania hanno reagito male all’annuncio. I governatori delle regioni rosse da sempre osteggiano l'iniziativa, e il toscano Enrico Rossi s'è beccato pure una severa ramanzina. Aveva proposto un modello innovativo: anziché una grande struttura carceraria meglio individuare diversi 'mini centri' per garantire ospitalità dignitosa, mediazione culturale, assistenza legale, percorsi di recupero. Maroni però ha tagliato corto: chi arriva al Cie è un clandestino e per la legge va espulso, non aiutato. Il centro toscano, da far sorgere nell'area di Campi Bisenzio, sarà uguale a tutti gli altri.
E si va per le spicce anche in Campania, nonostante i malumori interni al Pdl. Angelo Polverino, consigliere regionale di un certo peso (presidente di commissione e papabile assessore al primo rimpasto utile), ha lanciato l’allarme: a Caserta doveva nascere il nuovo aeroporto intercontinentale sfruttando le piste della struttura militare, ormai votata al civile. Ma il governatore Caldoro ha avuto una richiesta precisa da Maroni e il destino pare già segnato. Spiega Polverino: “Mi rifiuto di credere che al posto dell’aeroporto si edifichi una galera con sbarre e cancelli chiusi a chiave. No, non è questo che la comunità casertana vuole. Del resto a Napoli il Cie non se lo piglieranno mai, e Salerno è ben rappresentata in giunta. Alla fine toccherà per forza a Caserta”.
I quattro nuovi centri dovrebbero garantire un migliaio di posti in più rispetto ai 1.800 attualmente disponibili. La Finanziaria non ha fatto tagli, dunque nulla osta. Tranne la cronaca di ciò che accade quotidianamente nei Cie, notizie che restano ai margini della realtà come le vittime di una violenza di Stato ormai ingestibile. Solo nelle ultime settimane a Milano ci sono state due rivolte e diversi tentativi di suicidio. Il centro di Crotone (come già quello di Caltanissetta) è stato chiuso perché reso inagibile dalla rabbia disperata dei detenuti. Dal Cie di Gradisca sono fuggiti in 36, ma 19 li hanno ripresi subito e castigati a dovere. Idem a Brindisi, con 10 persone fuggite tra i campi e un senegalese ricoverato in fin di vita. A Roma evasione di gruppo: 6 clandestini scappati e un egiziano finito all’ospedale. Qualche giorno dopo un algerino si è tagliato il corpo in diversi punti standosene arrampicato sopra le sbarre della cella. Il sangue sgocciolava a terra mentre gli agenti tentavano di tirarlo giù. E ieri Debby e Priscilla, due prostitute nigeriane, hanno avuto la notizia peggiore: saranno imbarcate su un volo Frontex che le scaricherà in patria. Quando torneranno la prossima volta, in fuga da fame e violenza, troveranno quattro nuovi Cie ad accoglierle.

il Fatto 18.6.10
Cina mai vista: scioperi e contestazioni
Nelle fabbriche proteste e prime vittorie sindacali
I lavoratori si organizzano grazie a sms e chat room Le aziende adesso devono trattare
di David Barboza e Keith Bradsher

Zhongshan (Cina). I 1.700 operai della Honda Lock scesi in sciopero nei giorni scorsi sono per lo più migranti poveri che hanno fatto a malapena la scuola media. Ma sono sorprendentemente abili con le nuove tecnologie. A poche ore dall’inizio dello sciopero già fornivano in Rete informazioni sui picchetti non solo ai compagni di lavoro, ma anche ad altri operai in agitazione in altre zone della Cina.
Con gli sms invitavano i colleghi a resistere alle pressioni dei capi e, come se non bastasse, sono entrati in un sito controllato dallo Stato – workercn.cn – che sta diventando la piazza digitale del movimento operaio cinese. Poi hanno scaricato in Rete i video degli addetti alla sicurezza della Honda Lock che maltrattavano i dipendenti.
Gli operai di questa città nel sud della Cina hanno avuto l’idea da altri scioperanti di altre fabbriche della Honda, che a maggio hanno avviato un duro scontro con la fabbrica giapponese sui salari e le condizioni di lavoro utilizzando su Internet diversi blog. Ma si sono serviti anche di un gigantesca rete di comunicazioni che consente agli operai cinesi di mettere a punto piattaforme di rivendicazione e strategie di lotta. Molti dirigenti sindacali non fanno altro che setacciare la Rete per aggiornarsi sul diritto del lavoro. Nella guerra appena iniziata contro le multinazionali avide di profitti e i loro alleati locali, l’emergente movimento sindacale cinese è riuscito finora ad aggirare la censura grazie ai cellulari e ai computer.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se il governo cinese nel corso degli ultimi dieci anni non avesse drasticamente ridotto i costi dei cellulari e dei servizi Internet nel quadro di un programma di modernizzazione che ha prodotto la più grande popolazione mondiale di utenti della rete – 400 milioni – e ha consentito anche ai più poveri di usare il Web.
“È una realtà di cui pochi si sono accorti: i lavoratori migranti possono organizzarsi usando le moderne tecnologie”, dice Guobin Yang, professore al Barnard College. “In genere pensiamo che queste tecnologie siano monopolio dei giovani del ceto medio e degli intellettuali”, aggiunge Guobin Yang. La Rete e la tecnologia digitale sono diventati strumenti di trasformazione sociale così come avvenne per la macchina da scrivere nel 1989 in occasione delle manifestazioni di Pechino soffocate nel sangue a piazza Tien an Men nel giugno del 1989, con il pesante bilancio di centinaia di morti. Ma se l’attuale movimento sindacale dovesse continuare e crescere e magari finisse per minacciare l’ordine sociale, il governo potrebbe decidere di intervenire per soffocare la protesta?
Il governo ha già tentato di oscurare alcuni siti utilizzati dagli operai e ha cancellato il contenuto di molti blog che parlano degli scioperi. Il servizio di messaggeria istantanea QQ – accessibile via Internet o con il cellulare – strumento privilegiato all’inizio dai leader sindacali perché molto popolare tra i giovani – è stato infiltrato dai dirigenti della Honda Lock e dagli agenti della sicurezza, così da costringere gli scioperanti a cambiare mezzo di comunicazione. “Non usiamo più QQ”, dice un leader sindacale. “Vi accedevano spie dell’azienda. Ora usiamo di più i cellulari”. Secondo gli analisti è stata una mossa intelligente. “Il sistema QQ può essere facilmente intercettato dalle autorità cinesi ed è stato un bene averlo abbandonato”, dice Rebecca MacKinnon, sinologa e studiosa di informatica all’Università di Princeton. “QQ non è sicuro. Tanto varrebbe informare direttamente la polizia”. Ma gli attivisti fanno sapere che riescono ad aggirare alcuni di questi ostacoli spostandosi da una piattaforma all’altra (tra cui una rete telefonica online e gratuita, simile a Skype, chiamata YY Voice) e ricorrendo ad un codice per comunicare ai dimostranti dove debbono incontrarsi.
Da anni alcuni attivisti denunciano le dure condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi inviando video e foto realizzati con il cellulare e utilizzando la rete per far circolare documenti sulle violazioni dei diritti dei lavoratori. Il fatto nuovo è che questi attivisti, che un tempo agivano clandestinamente, ora sono usciti allo scoperto.
Strani suicidi: il mese scorso quando si sono diffuse notizie di operai morti suicidi dalla Foxconn Technology, uno dei massimi produttori mondiali di apparecchiature elettroniche, la rete è stata subito invasa da video che testimoniavano le violenze degli addetti alla sicurezza. Inoltre, in rete sono apparse le buste paga di molti operai della Foxconn ed è emerso che le ore di straordinario erano superiori a quanto consentito dalla legge. A Zhongshan, dove molti operai hanno ripreso il lavoro mentre proseguono le trattative, i dimostranti hanno seguito la stessa strategia messa a punto il mese scorso nella fabbrica Honda di Foshan. A Foshan gli organizzatori dello sciopero hanno organizzato oltre 600 operai mediante chat room su QQ. “Ne ho creata una anche io la sera prima dello sciopero e si sono immediatamente iscritti in 40”, dice Xiao Lang, uno degli organizzatori delle manifestazioni di protesta che è stato licenziato subito dopo la manifestazione. “Nella chat room abbiamo discusso tutti i dettagli”, dice Xiao Lang. “Dove incontrarci, quale percorso doveva seguire il corteo e quali erano le nostre rivendicazioni salariali”. Le autorità cinesi hanno consentito ai media statali di pubblicare e trasmettere le notizie sul primo sciopero di Foshan, ma poi hanno deciso di censurare tutte le informazioni. I giovani cinesi che non accettano le tremende condizioni di lavoro dei loro genitori, sono tutti abilissimi con le nuove tecnologie digitali. Gli operai della Honda Lock sono in attesa dell’esito della trattativa che si svolge alla presenza di esponenti del governo. Finora è stato offerto un aumento salariale dell’11%, ma gli operai sono certi di ottenere oltre il 50% pari a 234 dollari al mese – esattamente come gli operai di Foshan. “Non ce l’avremmo fatta se non avessimo saputo quello che era avvenuto a Foshan”, dice un giovane operaio che usa il computer da quando aveva 7 anni. “Abbiamo seguito il loro esempio. Perché non dovremmo ottenere aumenti salariali uguali?”.
© The New York Times Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 18.6.10
“Vi racconto mio padre, il sogno chiamato Che”
Camilo vive a Cuba: aveva 5 anni quando il comandante Ernesto Guevara fu ucciso in Bolivia
“Con l’elezione di Barack Obama non è ancora cambiato nulla nell’atteggiamento americano verso di noi”
di Luca Morino*

L’Avana. Camilo, il terzo figlio di Ernesto Che Guevara, è nel Centro Studi dedicato a suo padre e situato nella stessa casa, a L’Avana, abitata dal rivoluzionario argentino fino alla sua partenza per il Congo, nel 1965. “Abbiamo iniziato a lavorare agli archivi personali nel 1983 spiega Camilo Guevara e con il tempo abbiamo realizzato numerose pubblicazioni e lavori accademici che hanno reso sempre più complessa la nostra attività. Attualmente siamo in sette, ma con i collaboratori esterni arriviamo a oltre trecento persone che lavorano al progetto: quasi tutti compagni o amici del Che, persone che occuparono incarichi nel periodo in cui faceva parte del governo”. L’immagine di suo padre corrisponde al vero Che e al suo pensiero?
C’è sicuramente una commercializzazione eccessiva dell’immagine del Che.
Spesso viene associata a elementi che hanno poco a che vedere con lui, come una bottiglia di rum o un pacchetto di sigarette. A volte la gente cerca di arricchirsi attraverso il Che utilizzandolo per vendere un prodotto e quando succede questo, di solito, consapevoli o no che siano, in pratica separano l’immagine dell’uomo dalla sua storia, dalla sua ideologia. Pensa che anni fa in Italia, in una manifestazione dichiaratamente fascista, fu visto un tipo che sventolava l’immagine del Che. Non so se fosse lì per protestare contro la manifestazione, tutto può essere, ma la situazione era decisamente ambigua, no?
Che ricordi ha di suo padre? Ero molto piccolo quando partì per il Congo, nel 1965 avevo 3 anni. Quando tornò non poteva violare le norme della clandestinità e per questo ovviamente noi figli non potevamo vederlo. Il giorno in cui partì per la Bolivia era già calvo e venne a salutarci travestito. Quando morì nel ’67 io avevo solo 5 anni: era un uomo che aveva un’enorme responsabilità nel Paese, passava il tempo a lavorare e studiare, anche diciotto ore al giorno. Solo la domenica, dopo il lavoro volontario, veniva a casa e giocava con noi. Questa è stata le mia relazione con lui e non riesco a ricordarlo con chiarezza, non capisco neanche se sia stato parte di un sogno o una costruzione della mia fantasia. Quando girano un film sul Che consultano la sua famiglia?
A volte sì, ultimamente abbiamo lavorato con un regista argentino che si chiama Tristan Bauer e Walter Salles per esempio è venuto a consultarci per I diari della Motocicletta, così come Gianni Minà per un documentario. Per il film di Soderbergh con Benicio Del Toro abbiamo fornito una serie di informazioni storiche molto precise, poi ovviamente hanno fatto scelte artistiche in cui la realtà veniva anche alterata e a quel punto ci siamo fermati. A me sembra che il bilancio di questi ultimi film sia positivo, anche se non sono fatti per insegnare la Storia. Cosa rappresenta oggi il Che per i giovani cubani?
Mi sembra che il Che sia sempre una figura che i ragazzi proteggono e rispettano e funge tuttora come riferimento: quando per esempio una cosa non va bene o dovrebbe essere differente si dice “se ci fosse qui il Che questo non sarebbe successo”. Con questo non voglio dire che sarebbe stato esattamente così perché la vita è molto più complessa, ma questo sentimento, questa speranza, mi sembrano un grande omaggio alla sua vita di sacrifico, intoccabile e limpida. Il Che è sempre stato un uomo onesto.
Crede che i rapporti tra Cuba e Stati Uniti potranno cambiare? Non sono un esperto di politica, però personalmente penso di no. Negli Stati Uniti la vittoria di Obama, ormai quasi due anni fa, non una rivoluzione: è un presidente di colore, però ampiamente sostenuto dal denaro nordamericano. Credo che quello che è successo sia stato un cambio cosmetico. Nessuno ci crede veramente, bisogna cambiare, bisogna dimostrare che è cambiato qualcosa perché per ora non è ancora successo nulla.
Quindi, il giudizio su Obama è negativo? Claro! C’è l’Iraq, l’Afghanistan, c’è la IV Flotta che controlla i Caraibi e il Sudamerica. Perché la lasciano lì? Ci sono le basi militari in Colombia. Cos’è cambiato con Obama? Non è cambiato nulla. Possono cambiare alcuni aspetti all’interno degli Stati Uniti, bisogna vedere se succederà, ma in ultima istanza la cosa importante sarebbe cambiare le cose perché potessero durare nel tempo. Se suo padre fosse ancora vivo?
Io credo che una rondine non fa primavera, però credo anche che non si vedono rondini se non inizia la primavera! Il Che ha sempre fatto capire chiaramente la sua posizione e sapeva perfettamente che non esiste una società che non sia perfettibile, che non si possa migliorare. Di fatto si pensava, quando il Che era a Cuba, che la Rivoluzione cubana fosse una sommatoria risultante da più pensieri e mi sembra che ora il processo di sviluppo storico renda ancora molto più articolato il tema: la cosa certa è che c’è un progetto nazionale che risale a prima che nascessero Fidel Castro, il Che e tutti i rivoluzionari che nel ‘59 trionfarono nel Paese. Questo progetto-nazione antimperialista si è formato quasi naturalmente: a 90 miglia dalle nostre coste il padre della democrazia americana, Thomas Jefferson, già nell’Ottocento scriveva di suo pugno che bisognava conquistare Cuba e... Marx non aveva nessuna colpa di questo! La nostra esperienza si è messa in linea con un progetto che è in alternativa al capitalismo e ci ha mostrato che anche a Cuba possono esserci borghesi, ma non una borghesia nazionale. La borghesia nazionale era legata per forza agli interessi degli Usa. Posso affermare con certezza che il Che approverebbe il progetto-nazione cubano al cento per cento.
*voce e chitarra dei Mau Mau

il Fatto 18.6.10
Gentiloni: liberare le frequenze
Il Pd si schiera con Internet

Il Partito democratico sembra voler fare sul serio: oggi dedica un’intera giornata a Internet. L’iniziativa “PDigitale” va in scena a Roma, alla Città del Gusto. Si parte alle 10 con Alec Ross, esperto di innovazione e fidato collaboratore di Hillary Clinton. Alle 12:30 “A che punto è l’ultrabanda” sul presente e futuro della fibra ottica in Italia (partecipa anche il presidente Agcom Corrado Calabrò); alle 16 Derrick De Kerckhove parlerà di “società digitale e intelligenza collettiva”. Nel pomeriggio, arriva la discesa in campo del segretario in persona. A settembre, durante una festa dell’Unità, Pier Luigi Bersani definì Internet “quell’ambaradan là”, ma oggi il segretario Pd sembra pronto ad impostare un nuova rotta: “Politica Digitale. Il Pd si schiera” il titolo del suo colloquio con Giovanni Floris. Nella giornata, infine, spazio anche ai blogger e giornalisti Alessandro Gilioli, Vittorio Zambardino e Luca De Biase: all’avvocato Guido Scorza punto di riferimento sulle questioni digitali e a Riccardo Luna, direttore di Wired Italia. Paolo Gentiloni, deputato Pd e ministro delle Comunicazioni nell’ultimo governo Prodi, spiega al Fatto Quotidiano il senso di questa giornata: “L’intenzione – dice Gentiloni – è quella di spingere il Pd a una maggiore consapevolezza dell’importanza di Internet come leva di sviluppo e come luogo principe per libertà e democrazia. Il web 2.0, inoltre, può essere motore di cambiamento per i partiti”. Gentiloni ammette un ritardo della politica sulle tematiche digitali: “La classe politica in molti casi non conosce lo strumento. Ma anche a livello paese ci sono sia ritardi infrastrutturali (tante famiglie non sono raggiunte da connessioni veloci), sia di carattere economico: in tanti non si possono permettere la banda larga. Abbiamo un governo in tutto e per tutto televisivo che nella migliore delle ipotesi ignora la Rete, e nella peggiore cerca di ritardarne lo sviluppo”. Se il Partito democratico andasse domani al governo cosa farebbe per la Rete? “Bisogna proseguire sulla strada degli investimenti contro il digital divide già avviata dal governo Prodi continua Gentiloni poi andrebbero messe immediatamente all’asta le frequenze liberate dalla transizione dall’analogico. Si otterrebbero così fondi consistenti liberando al contempo frequenze per i collegamenti mobili. Il governo Berlusconi invece vuole regalare le frequenze al vecchio club della televisione. Infine ci asterremmo da fare danni dal punto di vista normativo alla libertà della Rete: i tentativi fatti in questi mesi, ultima in ordine di tempo la norma contenuta nella legge sulle intercettazioni che equipara i blog ai giornali, non dovrebbero più verificarsi”.

Martedì il sito del nostro giornale
Su Antefatto.it le prime anticipazioni
Mancano quattro giorni al lancio del nuovo sito Web del nostro giornale: martedì 22 giugno antefatto.it diventa ilfattoquotidiano.it, un portale di news a 360 gradi. All’informazione del Fatto e delle sue firme, si affiancheranno notizie in esclusiva, contenuti multimediali
e una piattaforma di blog; il tutto puntando alla massima interazione con i lettori. Online su antefatto.it alcune anticipazioni: la prima delle nostre “videostorie” (Marco Travaglio racconta una storia di mafia alla Favorita di Palermo), la nuova pagina Facebook e le istruzioni per blogger e utenti che vogliono contribuire alla campagna virale per il lancio del nuovo sito.