sabato 20 maggio 2017

Il Fatto Quotidiano 20.5.17
di F.Q.
Corruzione: trema il presidente della Regione Crocetta.
Sicilia: indagato anche Crocetta E la sottosegretaria Vicari si dimette
Corruzione, coinvolta la Vicari. Domiciliari al deputato regionale candidato sindaco

Un maremoto giudiziario scuote nel profondo Trapani, la città del superlatitante Matteo Messina Denaro e decapita, alla vigilia del voto, il centrodestra. È finito agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione il candidato a sindaco Girolamo Fazio, deputato regionale, ex Pdl, all'indomani della proposta di soggiorno obbligato per Antonio D'Alì, senatore di Forza Italia, anch'egli aspirante primo cittadino. L'inchiesta dei pm di Palermo e dei carabinieri del Ros svela un presunto sistema corruttivo che ruota attorno al potente armatore Ettore Morace, in carcere, proprietario della Liberty Lines (ex Ustica Lines) che l'anno scorso ha rilevato la Siremar (ex Tirrenia) aggiudicandosi il 90 per cento dei collegamenti marittimi per la Sicilia. È il figlio di Vittorio Morace, "il comandante", patron del Trapani Calcio che aveva raggiunto la Serie B ma proprio due giorni fa è stata di nuovo retrocesso in Lega Pro. Non si ferma a Trapani, l'inchiesta palermitana. Tra gli indagati a vario titolo per corruzione c'è il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, sospettato di aver beneficiato di una vacanza a spese di Morace a Filicudi, con tanto di gita in barca, dopo l'accordo con la compagnia marittima sui collegamenti per le isole minori: "Mai salito in barca", ha detto il governatore. E soprattutto c'è Simona Vicari, senatrice palermitana Ncd (oggi Ap) e sottosegretaria alle Infrastrutture, anche lei indagata per corruzione: la inguaia un Rolex ricevuto in cambio di un provvedimento di riduzione dell'Iva dal 10 al 4 per cento alle imprese del trasporto marittimo, un 'operazione che ha sottratto circa 7 milioni di euro all'Erario. "Sei stato un tesoro", ha detto Vicari a Morace al telefono, che era intercettato dai magistrati palermitani. La sottosegretaria alfaniana, che pure respinge gli addebiti, si è dimessa ieri sera. Secondo gli investigatori il "sistema Trapani"coinvolgeva dirigenti della Regione come Giuseppe Montalto (ai domiciliari) ma anche magistrati e uomini delle forze dell'ordine. E il deputato regionale Fazio, un tempo legatissimo a D'Alì ma ora su sponde opposte: non era escluso un ballottaggio tra i due campioni del centrodestra. Fazio è accusato di aver beneficiato dell'uso gratuito di un'auto da 40 mila euro, di 10 mila euro in gadget e manifesti elettorali, di biglietti per viaggi e per lo stadio. Morace sarebbe così riuscito, con soldi e regali, a condizionare la politica regionale in materia di trasporto marittimo, fino a bloccare la nomina di un consulente "sgradito".
La Repubblica 20.5.17
di Alessandra Longo
ROMA.
Gianni Cuperlo: “Il Pd non cambia rotta e non lo riconosco più c’è troppa intolleranza. Mi batto da dentro ”
Cuperlo, ultimamente mi sembra che lei coltivi molto il silenzio. Posso chiederle con franchezza se sta pensando di uscire dal Pd, visto che è ormai assente dalla direzione? «Da un partito si esce se pensi che hanno spiantato le sue radici o che le ragioni per cui lo hai scelto sono venute meno. Io non mi preoccupo che qualcuno esca perché non ha più un posto. Io mi preoccupo quando qualcuno entra perché un posto pensa di trovarlo». Si spieghi meglio. «Vedo compagni andarsene perché dopo le primarie non colgono il minimo cambio di rotta. E sento intolleranza dove invece servirebbero ascolto e umiltà. Ma scelgo di battermi dentro». Resta il fatto che, vista dall'esterno, la sua assenza dalla direzione del Pd è surreale. Si era anche speso a favore del Si al referendum. Ingrati? «Non metterei la direzione del Pd tra le emergenze del Paese. Quanto alla politica non mi interessa la gratitudine ma la coerenza. Il nodo vero di quel referendum è che lo si è rimosso. Non si è neppure provato a capire cosa si è davvero spezzato tra il Pd e 20 milioni di italiani». Insomma non è cambiato niente. Lei è rimasto, molti dei suoi compagni se ne sono andati. Non c'è il rischio di un isolamento politico? «L'isolamento lo rischia una sinistra che non vince più in tutto l'Occidente e succede dopo i dieci anni che hanno travolto la classe media e messo in crisi le democrazie. Resta isolato chi non ha il coraggio di rifondare tutto, culture e strategie». Sulla legge elettorale lei si è molto speso. Adesso si aprono scenari inquietanti, addirittura si parla di formazioni nascenti al Senato per condurre in porto la riforma… «Parto dal merito, un misto di collegi e proporzionale è meglio dell'Italicum. Lo pensavo prima e lo penso adesso. Su quell'impianto ora bisogna lavorare ascoltando le ragioni degli altri perché la strada giusta è allargare il consenso, non mercanteggiare il voto di qualche senatore ». Allargare il consenso significa anche recepire le critiche di Articolo 1? «Hanno ragione Prodi e Pisapia. Secondo me chiudere la porta a un'intesa che si può trovare rendendo quell'impianto un po' più "tedesco" è un errore». Dovesse definire come si sente oggi dentro il suo partito che immagine le viene in mente? «Parafrasando Groucho "Ho militato in uno splendido partito. Ma non era questo"». Da uno a dieci, tra quanto la vedremo al fianco di Giuliano Pisapia in un centrosinistra altro ? «Al fianco di Pisapia già oggi pomeriggio alla marcia "Insieme senza muri" voluta da Sala e Majorino. Quanto al centrosinistra è la ragione di un impegno comune, Giuliano come federatore di un campo largo, io e altri a batterci perché il Pd non divenga un organismo geneticamente modificato. Al fondo quel silenzio serve anche a capire come dobbiamo cambiare noi se vogliamo ripartire».
Huffington Post
Roma 20.05.17
Di Nicola Fratoianni

Cari Civati, Speranza, Pisapia, Acerbo: ricostruiamo la sinistra. Insieme
La questione per la sinistra italiana è più semplice di quanto la racconti il dibattito quotidiano. Basterebbe guardare alla realtà piuttosto che affannarsi tra la ricerca di un "federatore", gli appelli a Matteo Renzi e al PD perché recuperi lo spirito del centrosinistra (basta che sia nuovo) o dell'Ulivo (purché sia almeno 2.0) e il richiamo continuo e quasi salvifico alla mitica cultura di governo da opporre a un fantomatico radicalismo minoritario. Guardare alla realtà e fare quello che la Politica dovrebbe fare: scegliere da che parte stare. Gli anni che abbiamo alle spalle hanno visto crescere a dismisura la diseguaglianza fino a livelli che solo qualche tempo fa non avremmo nemmeno immaginato. E' aumentata la precarietà e il lavoro, anche quello che c'è, per la grande maggioranza è sempre più povero, sottopagato, sfruttato e deprivato di diritti e tutele. Il sistema formativo, dalla scuola primaria all'università e al comparto della ricerca, ha subito un pesante definanziamento con conseguenze molto concrete: diminuzione degli immatricolati, dei laureati, aumento dell'abbandono scolastico, impoverimento generale della capacità competitiva del Paese. Sono crollati gli investimenti pubblici in nome di austerità e liberismo, lo smantellamento del welfare e l'attacco ai servizi pubblici ha ridotto sensibilmente le possibilità di fette sempre più larghe di popolazione di accedere a diritti fondamentali come sanità e casa. In breve, negli anni della crisi in pochi si sono arricchiti e moltissimi si sono drammaticamente impoveriti. Elusione, evasione e corruzione continuano a pesare come macigni sui bilanci e l'attuale struttura dei trattati su cui si regge l'Europa risulta sempre più incompatibile con qualsiasi ipotesi di svolta e con la stessa sopravvivenza del progetto europeo. Questa situazione non è il frutto di un destino cinico e baro. E' il risultato concreto e del tutto prevedibile di scelte e politiche precise. In Italia, solo per stare al recentissimo passato portano i nomi di Jobs Act, Buona scuola, Sblocca Italia. In Italia come in Europa queste scelte hanno padri e madri: sono in buona parte figlie di una cosiddetta sinistra di governo che si è progressivamente trasformata nel notaio dei grandi poteri economico finanziari. Occorre partire da qui se vogliamo almeno provare a capire le ragioni di quello che succede nel ventre della società, italiana ed europea. La rabbia sociale cresce in modo direttamente proporzionale alla crescita della diseguaglianza e dell'ingiustizia. Ed è qui che cresce la destra peggiore, che tornano razzismo xenofobia e violenza. E' in questo contesto che trova nutrimento la sfiducia quando non il disprezzo per la politica percepita solo come la guardia del corpo delle élites e dei loro interessi. Dunque eccoci al punto. Può la sinistra essere credibile se immagina di allearsi prima o dopo il voto con i responsabili di questa situazione? Davvero c'è qualcuno che pensa che l'appello ad una sorta di union sacrée contro i barbari alle porte possa funzionare? La mia risposta è semplice: no. Per riconquistare ciò che è stato perso in termini di credibilità serve tutt'altro. Serve innanzitutto il coraggio di una proposta e di una piattaforma chiara. Una proposta che parli ai molti che hanno pagato il prezzo della crisi e delle politiche che ne hanno acuito gli effetti, che chieda il conto a chi ha solo preso senza nulla dare, che rimetta l'interesse generale al centro della politica. Una lotta senza quartiere alla diseguaglianza e all'ingiustizia, fondata su poche semplici cose. Redistribuzione della ricchezza con misure di sostegno al reddito e un riforma fiscale che intervenga sulle grandi ricchezze e sui grandi patrimoni, un piano di investimenti pubblici per rilanciare l'economia, la riduzione del tempo di lavoro per fare dell'innovazione una opportunità e non una condanna e per redistribuire il lavoro che manca. La restituzione dei diritti espropriati a cominciare dall'articolo 18 perché difendere i lavoratori dai licenziamenti ingiusti significa difendere il lavoro ma soprattutto la libertà. E poi gratuità dell'istruzione e ricostruzione del welfare, dalla sanità al diritto alla casa. Sono alcune delle questioni che a me paiono più urgenti. Apriamo una discussione su questo, contribuiamo a costruire uno spazio aperto e partecipato nel quale definire una piattaforma, decidere le priorità. Facciamolo a partire da un metodo che consenta a tutti e a tutte di partecipare e decidere. Non solo alle organizzazioni della sinistra politica ma soprattutto a chi non si riconosce in nessuna di queste. Un metodo per il quale ci aiuta ancora una volta la semplicità: democrazia. Democrazia per definire la piattaforma, per scegliere i candidati, per individuare chi meglio possa rappresentare pubblicamente questa proposta politica ed elettorale, magari immaginando forme plurali e certamente non monosessuate. Facciamolo attraversando l'Italia, provincia per provincia, comune per comune. Si può fare ed è necessario farlo. Ma occorre muoversi. Senza steccati e senza veti preventivi. Ma con chiarezza e decisione. L'unica discriminante di cui abbiamo bisogno ha che fare col coraggio di immaginare e proporre una alternativa radicale allo stato di cose presenti perché radicale è la natura dei problemi che abbiamo davanti. Per queste ragioni mi rivolgo a tutti quelli che sentono questa urgenza, alle forze politiche e ai loro segretari, a Civati, Speranza, Acerbo, Pisapia a chi nell'esperienza di governo municipale si è opposto all'umiliazione dei territori e alla mercificazione dei beni comuni, alle tante liste civiche e di alternativa che si sono misurate alle amministrative scorse e che stanno costruendo da protagoniste questa campagna elettorale, a chi si è battuto per difendere la Costituzione, a chi ogni giorno organizza politica sui propri territori dalla parte dei più deboli. Cominciamo subito, pubblicamente e con determinazione a costruire questo cammino. Con unità e umiltà.
Huffington Post 20.5.17
Redazione

Walter Veltroni bacchetta i bersaniani: "Non si possono affrontare i temi del lavoro come la sinistra del Novecento"
L'intervista dell'ex premier a Sky Tg24

 "La società è cambiata, il mondo è cambiato" e di conseguenza "anche il tema del lavoro non lo si può più affrontare come faceva la sinistra del '900, perché la società e il mondo sono cambiati, possiamo avere nostalgia per quel tempo ma non c'è più, il problema è creare lavoro". Lo afferma Walter Veltroni, ospite dell'intervista su Sky Tg24, in merito alle posizioni degli ex compagni di partito di Mdp. Premier e/o segretario. "Su questo non sono d'accordo con Prodi: in tutti i Paesi il leader del governo è anche leader del partito, pensiamo a Obama. Nei partiti non ci può essere dualismo". No alle larghe intese. Quindi ha bocciato l'ipotesi di larghe intese tra Pd e Berlusconi: "Ho sempre avito un'idea chiara, quella dell'alternativa. Spero in un centrosinistra maggioritario"
Huffington Post 20.5.17
Di Redazione


Massimo D'Alema: "Boschi si dimetta se pressioni confermate, l'intesa Renzi-Berlusconi sempre operativa"
"Se venisse confermato che in quanto esponente del governo ha fatto pressioni o ha incoraggiato Unicredit a farsi carico della Banca dell'Etruria, dato l'evidente conflitto di interessi, direi di sì, mi pare abbastanza clamoroso, no?". Così Massimo D'Alema, a margine dell'assemblea di Mdp a Milano, ha risposto a chi gli chiedeva se a suo parere il sottosegretario Maria Elena Boschi si dovrebbe dimettere. "Larghe intese dopo il voto? Non lo so, non sappiamo neanche quale sarà la legge elettorale. Ma a me sembra che una certa intesa fra Renzi e Berlusconi ci sia sempre stata. E sostanzialmente questa intesa è ancora operativa, a volte in modo sotterraneo a volte in modo aperto". Secondo l'ex premier, l'"intesa" fra i leader di Pd e FI "sostanzialmente ha caratterizzato tutta la politica renziana fin da quando Renzi andò a trovare Berlusconi ad Arcore". Su questa linea anche il giudizio sul Rosatellum: "Questa legge elettorale permette il massimo dell'arbitrarietà e del trasformismo". D'Alema interviene anche sul fronte migranti: "Il giorno in cui ci fosse in italia un vero governo di centrosinistra, di cui siamo carenti da molti anni, la prima cosa che dovrebbe fare è cambiare la legge" Bossi Fini "e cambiare allo spirito della Turco Napolitano, che non era una legge per cui tutti possono venire, ma prevedeva la possibilità di venire legalmente in Italia". "La propensione a delinquere degli immigrati legali - continua l'ex premier - è considerevolmente più bassa di quella dei cittadini italiani autoctoni. L'immigrazione legale delle persone che sono accolte e rispettate nei loro diritti è un fattore di ricchezza e sicurezza per i paesi che li accolgono. Ma ci vogliono leggi giuste e politiche adeguate".
Il Manifesto, 20.5.17Di Daniela Preziosi

La sinistra in cerca di identità
Articolo1, la tentazione dello strappo. Aspettando Pisapia
Milano. Domani alla kermesse l'atteso intervento dell'ex sindaco

Milano
«Serve una svolta, di continuità si muore». Roberto Speranza fa la faccia cattiva con il governo Gentiloni. Ma va anche peggio con chi gli chiede: scusi onorevole, ma mica state dicendo «svolta o rottura» come il Bertinotti del '98? Al Megawatt di Milano la citazione non è apprezzata. In un ex capannone industriale ora adibito ai grandi eventi ieri pomeriggio è iniziata la kermesse di Articolo 1. Oltre 400 iscritti solo il primo dei tre giorni di discussione sui "fondamentali" di una sinistra rifondata (e infatti Fondamenta è il titolo) dove sfilerà lo stato maggiore della diaspora Pd, da Bersani a D'Alema a Enrico Rossi, e anche quello ex vendoliano. Intanto in prima fila si accomoda la presidente della camera Laura Boldrini, accolta dagli applausi calorosissimi della platea: sarà anche una figura istituzionale, ma ormai nelle manifestazioni di questa sinistra è considerata di casa. Standing ovation e tutti in piedi per Carlo Smuraglia, l'anziano presidente dell'Anpi che da un palco della festa dell'Unità di Bologna aveva messo Ko l'allora premier Renzi impegnato nella campagna per il Sì. Oggi discute con l'avvocata Anna Falcone, anche lei già impegnata nel fronte del No al referendum, oggi particolarmente "attenzionata" dalla sinistra per un eventuale futuro unitario: dal palco propone di fare subito un tavolo per il programma. Ma di strada, per un programma comune, ancora ce n'è: comune fra chi, per esempio, sarà della partita anche Sinistra italiana? «Serve una svolta, di continuità si muore»Roberto Speranza Il primo giorno la manifestazione conta due defezioni. Non arriva neanche per un saluto il sindaco della città Beppe Sala: è nell'occhio del ciclone per aver patrocinato la manifestazione Milano senza muri di oggi pomeriggio. La platea lo applaude con affetto in contumacia: Fondamenta si fermerà oggi per dare il tempo ai militanti di partecipare al corteo. Dà forfait anche il giornalista Ferruccio De Bortoli. Annunciato per stamattina lo special guest, ormai icona dell'antirenzismo – che qui ai Navigli, periferia ovest, si porta molto – ha preferito una politicamente neutra presenza al Salone del libro di Torino al posto dei prevedibili osanna degli ex Pd a causa di quella rivelazione del suo ultimo libro: l''interessamento dell'ex ministra Boschi a favore di Banca Etruria – l'interessata ha smentito – che sta facendo tremare il governo. Ma il più atteso di tutti, Giuliano Pisapia, domani mattina, domenica, ci sarà. Duetterà con Roberto Speranza per capire se questo matrimonio fra i due movimenti, Art.1 e Campo Progressista, s'ha da fare. Ieri l'ex sindaco era il convitato di pietra, oggetto di desiderio e discussione di ogni capannello dei suoi nuovi compagni di strada. Si lancerà nell'avventura di un'altra nuova cosa di sinistra rompendo gli indugi e rifiutando il corteggiamento del Pd renziano? Fra i dirigenti ex Pd serpeggia un po' di malumore per il suo precipitoso sì al finto Mattarellum, la legge elettorale proposta dal Pd, invece bocciata senza appello da Pier Luigi Bersani. Nonché per l'insistenza con cui tende una mano al Pd di Renzi che risponde ora a sportellate (leggasi Matteo Orfini) ora con le sirene di vaghi accordi di coalizione (leggasi Maurizio Martina). Persino Romano Prodi ormai lo invita a rompere gli indugi e a rifondare la coalizione. «Via dalla maggioranza? Noi la reintroduzione dei voucher non la votiamo»Nico Stumpo Ieri Pisapia, che era dall'altra parte della città a parlare di centrosinistra con il sindaco di Bologna Merola, ha detto qualche parola di amicizia: «Bisogna dialogare con chi è uscito dal Pd e con chi oggi non vede nel Pd un punto di riferimento. L'unità del centrosinistra si raggiunge se c'è un movimento dal basso, dai territori. Ognuno ha il suo ruolo» il suo è quello di «facilitatore e federatore» ma «è chiaro che non lo posso fare da solo». Insomma, ci sta o non ci sta? Al Megawatt il giornalista Alessandro De Angelis interroga il coordinatore di Campo progressista Alessandro Capelli: « Che farete?, qui Sembra 'aspettando Godot'». La risposta: «Se non ci saranno le primarie e non ci sarà un campo contendibile, io sono per prenderci la responsabilità di unire noi il centrosinistra». Ma Pisapia, che avrebbe l'essenziale pregio di non lasciare gli ex Pd soli tra di loro (e i loro elettori, i sondaggi li danno al 4%, la legge elettorale pretende il 5 per entrare in parlamento) sarà della partita? Domani la risposta. L'altro domandone qui è quello sulla tenuta del governo. Se non siamo a «svolta o rottura» poco ci manca. «Usciamo dalla maggioranza? Non usiamo questi termini da prima repubblica: ma noi la reintroduzione dei voucher non la votiamo», spiega Nico Stumpo. «Il governo Gentiloni vuole rimettere i voucher dopo aver preso in giro gli italiani cancellandoli per evitare un referendum?», si chiede Ciccio Ferrara. «Noi non permetteremo che i voucher entrino nella manovrina. E diciamola così: è meglio che il governo non continui a fare danni».
La Repubblica 20.5.17
di Oriana Lico

Parla Perfrancesco Majorino
Secondo l’assessore comunale, solo l’integrazione può far uscire dalla logica dell’emergenza
“Un episodio isolato basta sciacallaggio contro tutti i profughi”

Milano.
«La marcia dei radical chic e dei riccastri di sinistra? Lo dicano a don Virginio Colmegna o al comitato delle donne del quartiere popolare di San Siro, che saranno in piazza con noi, con oltre mille associazioni e decine di sindaci: vediamo come rispondono ». Assessore Pierfrancesco Majorino, lei è stato il primo a voler replicare a Milano la marcia di Barcellona: ancora convinto che sua stata una buona idea? «Quella di oggi è una mobilitazione civile e culturale, non c'è alcuna pretesa di risolvere i problemi. È un modo positivo per dire che l'unico modo per uscire dalla logica dell'emergenza è l'integrazione, rifiutando il paradigma della paura che la destra continua ad agitare». Destra che adesso vi chiede di annullare tutto, dopo l'aggressione in stazione Centrale. «Piaccia o no, l'autore di questo gravissimo atto è italiano. E a chi fa sciacallaggio come Salvini rispondo con i numeri: in tre anni e mezzo abbiamo accolto a Milano 124mila persone e finora non c'è mai stato un fatto veramente grave di cronaca nera legato ai profughi. È vergognoso che accusino di essere complici dei terroristi e dei delinquenti i bambini e i ragazzi che apriranno la marcia». Questo vuol dire che non c'è un problema sicurezza a Milano? «Voglio dire che per rendere le nostre città più sicure — anche se la realtà è diversa da come viene raccontata dai professionisti della paura — non si può non attivare tutti i possibili strumenti di integrazione e di coesione sociale». A discapito degli italiani? Questa è l'accusa che vi viene mossa. «Da sei anni, come assessore, mi occupo molto di lotta alle povertà, e posso dire con certezza che la destra si accorge dei poveri italiani solo quando c'è da parlare male dei migranti, perché poi quando c'è da lottare per ottenere strumenti di sostegno al reddito per gli italiani non ci sono mai, sono davanti alla stazione a fare le proteste». Proprio davanti alla stazione Centrale, però, la situazione non è cambiata in questi anni. «E non cambia di certo con i blitz, anche se ci siamo confrontati con questura e prefettura e abbiamo convenuto sulla necessità, d'ora in poi, di muoverci con azioni condivise». Le azioni sono condivise anche con il governo? «In questi anni si è sentita molto poco la presenza del governo nella gestione delle politiche dell'immigrazione: soprattutto sul tema integrazione servono strumenti concreti, serve una distribuzione equa del carico dell'accoglienza. Mi auguro che a Roma mostrino più lungimiranza e coraggio, perché forse proprio le carenze di questi anni hanno determinato scelte a mio parere sbagliate come alcuni dei contenuti dei recenti decreti sulla sicurezza».
La Repubblica 20.5.17
di Andrea Montanari
Parla Roberto Maroni.
Per il governatore bisogna fermare la marcia pro-immigrati “Rischia di dare un messaggio sbagliato” “Servono più controlli ormai alla stazione il rischio è quotidiano”


Milano
«Fate un gesto di buon senso, distensione e solidarietà agli agenti feriti: annullate o rinviate la manifestazione ». Roberto Maroni governatore della Lombardia lancia un appello agli organizzatori della marcia "Insieme senza Muri" di oggi: «Rischia di dare un messaggio sbagliato e di ottenere l'effetto contrario». La marcia è per l'integrazione e il giovane accoltellatore è un italiano. «Il significato di questa marcia è stiamo dalla parte degli immigrati. Siccome c'è stato uno scontro forte tra un immigrato e le forze dell'ordine rischiamo di dare un messaggio sbagliato. Mentre io dico: sto dalla parte delle forze dell'ordine». Gli organizzatori hanno subito solidarizzato con le forze dell'ordine. Insisto: questo giovane è un italiano. «Sì, figlio di una cittadina italiana, ma ha sempre vissuto in Tunisia e inneggia all'Isis. Quindi fa parte della categoria di quelli che sono da considerare potenziali terroristi di matrice islamica. Se ci sono anche implicazioni terroristiche, il significato della marcia di oggi può essere frainteso». Non le sembra di esagerare? «Non lo dico da leghista, ma da governatore. Non sono contrario alla solidarietà. La Lombardia è la regione più solidale, ma dico al sindaco Sala e agli organizzatori che non possono nascondere il rischio che corrono». Quale? «La marcia fatta oggi sarebbe usata come propaganda da tutti quelli che fanno parte di quel mondo. Come se noi sostenessimo le ragioni del terrorismo invece di combatterlo». Sia più chiaro. «Dopo quello che è successo, c'è inevitabilmente il rischio che la marcia venga strumentalizzata. E questo renderà più aspro il confronto. Non capisco perché si voglia gettare benzina sul fuoco ». La benzina sul fuoco non la sta gettando il centrodestra? Sala dice che lei si è scordato il selfie con il Papa? «Sciacallaggio? La sinistra è abituata a lanciare queste accuse quando qualcuno non la pensa come lei. Non ho detto di annullare la marcia l'altro ieri, ma dopo quanto è accaduto. Quanto al Papa, non scomodiamolo per queste nostre beghe politiche». È durata una settimana la lega anti- lepenista di Maroni? «Cosa c'entra il lepenismo? Qui c'entra il buon senso e la scelta di campo tra chi sta con le forze dell'ordine e chi no. Sono pronto a sostenere gli immigrati che hanno diritto di asilo, ma la gestione va fatta a livello centrale. Il protocollo firmato in Prefettura è come la tachipirina. Fa scendere la febbre, ma non affronta il problema. Bisogna fermare gli sbarchi». Il suo modello è un nuovo blitz alla stazione Centrale? «Non si tratta di fare blitz, ma una serie di controlli costanti e permanenti. Per diffondere la consapevolezza che quando accade qualcosa non è solo per un colpo di fortuna, ma perché c'è un presidio continuo».
La Repubblica 20.5.17
Di Sandro De Riccardis


Video sull’Isis, proclami via web l’aggressore indagato per terrorismo - Milano, è un giovane italiano di padre tunisino. Sui social inneggiava allo Stato islamico Ma lui dal carcere si difende: “Sono solo, ero arrabbiato perché nessuno mi aiuta”

Milano
Non solo la reazione rabbiosa contro la pattuglia mista alla stazione Centrale, la barba che si lascia crescere come un islamico, i video di propaganda Isis sul suo profilo Facebook. A far scattare l'incriminazione per terrorismo internazionale (oltre a quella di tentato omicidio) a carico di Ismail Tommaso Ben Yousef Hosni, sono anche i contatti con soggetti già monitorati dall'Antiterrorismo perché ritenuti vicini al mondo dell'integralismo islamico. Un gruppo di tre o quattro stranieri, un libico e altri tunisini, che Ben Yousef incontra a Milano, tra la stazione Centrale e la zona nord di via Padova. La decisione del coordinatore del pool antiterrorismo della procura di Milano Alberto Nobili e del pm Alessandro Gobbis, serve per portare a termine tutti gli accertamenti utili a ricostruire il profilo dell'uomo che giovedì sera alle otto, durante un casuale controllo, ha ferito a colpi di coltello due militari e un agente Polfer. Le indagini tecniche dovranno appurare innanzitutto se il profilo Facebook a nome "Ismail Hosni", da ieri oscurato, sia riferibile al giovane arrestato, se sia stato lui a caricare i video sulla guerriglia siriana e a sostegno della lotta islamica radicale («Il più bell'inno dell'Isis che abbia mai sentito in vita mia», commenta Ismail in un post), se la pagina sia stata utilizzata per dialogare con militanti radicali. Quello che emerge dai primi accertamenti della Digos, diretta da Claudio Ciccimara, è il profilo di un giovane emarginato che negli ultimi mesi potrebbe essersi avvicinato all'islam radicale. «Sono solo e abbandonato», ha detto ieri agli agenti che lo hanno arrestato. Ismail era già conosciuto agli agenti Polfer in quotidiano servizio in stazione, dove bivaccava da mesi e dove è stato arrestato, lo scorso 19 dicembre, per spaccio. Il ventenne vendeva dosi per conto di un libico, che potrebbe aver favorito la sua radicalizzazione, insieme ad altri nordafricani. «Sono tornato in Italia perché speravo di avere più occasioni per trovare lavoro, invece sono finito in strada — ha detto al suo avvocato, Giuseppina Regina, a San Vittore — Nessuno mi ha aiutato. Mi dispiace per quello che è successo, ero arrabbiato. Ormai vivo in strada da un anno e mezzo». In carcere gli è stato chiesto di che religione fosse. «Sono musulmano, ma non praticante», ha detto al legale, che ha annunciato che farà richiesta di perizia psichiatrica. Intanto, il centrodestra chiede di annullare la marcia "Insieme senza mura" prevista oggi a Milano a sostegno dei migranti. Il sindaco Giuseppe Sala annuncia invece che sarà a capo del corteo. «L'accoglienza è un dovere della nostra città e di chiunque possa alleviare le sofferenze di chi è in difficoltà e chiede aiuto».
Il Manifesto 20.5.17
di Luca Fazio



Immigrazione: Polemica rovente a Milano per giornata dell’accoglienza
Sala contro Salvini e Maroni: accoglienza segno di civiltà
Insieme senza muri. Più di mille associazioni laiche e cattoliche, centri sociali, partiti della sinistra e sindacati oggi partecipano alla marcia antirazzista organizzata dal Comune di Milano. La piazza, con grande imbarazzo degli esponenti del Pd locale e non solo, critica apertamente le leggi sull'immigrazione Minniti-Orlando. Appuntamento alle 14,30 in Porta Venezia, si sfila fino in piazza del Cannone per il concerto finale

Milano
«Nessuna persona è illegale», poco importa se non sarà questo lo striscione che oggi a Milano aprirà la marcia per l'accoglienza dei migranti. L'incursione di chi ha lavorato per impedire che questa giornata antirazzista si trasformasse in una festosa e inutile parata filogovernativa ha già dato i suoi frutti. Non è ancora una novità politica ma potrebbe essere più di un semplice slogan, forse è la speranza di ritrovare la forza per rovesciare un discorso a senso unico che negli anni ha tolto voce a chi si oppone al razzismo e alle leggi discriminatorie contro gli stranieri. E' una storia lunga che si chiama Turco-Napolitano-Bossi-Fini-Minniti-Orlando. L'obiettivo di chi oggi prova a rivoltarsi è ambizioso, riaggregare per andare oltre il 20 maggio e non farsi più schiacciare dalle schermaglie tra chi esibisce politiche razziste da destra e chi applica le stesse ricette criminali mascherandole con la retorica dell'accoglienza (in mare e nel deserto libico, si muore). Con questa consapevolezza, sarà anche una festa. Con i bambini in prima fila (che ci guardano) e le musiche e le comunità straniere, per questo sarebbe bene dirla tutta senza ipocrisie. Sono attese in piazza migliaia di persone e considerata l'aria che tira, in Italia e in Europa, è già un fatto inedito rilevante. Un'occasione da non sprecare, pensano molti antirazzisti che da troppo tempo sono rimasti al palo. Non tutti però. Comunque, sulla carta, ci saranno tutte le associazioni e le organizzazioni politiche e sindacali che vorrebbero riconoscersi in una società più aperta e inclusiva. Laiche e cattoliche, più di mille. Ci sarà anche il Pd con qualche imbarazzo, è l'unica «formazione» invitata a non presentarsi in piazza con bandiere e simboli di partito (anche la presenza del ministro Maurizio Martina è percepita come un grattacapo). Sono tre mesi che l'assessore Pierfrancesco Majorino (Pd), il primo a credere nella necessità di questa giornata, procede a tentoni con i piedi in due scarpe: da una parte non può fare a meno delle associazioni che lavorano con i migranti, tutte critiche con la legge Minniti-Orlando, e dall'altra non può rischiare di organizzare suo malgrado un corteo contro il governo e il Pd. Ormai ci siamo. La voglia di esserci, forse per dovere, perché non ci si può sempre fare del male per eccesso di politicismo, è cresciuta in dirittura di arrivo anche per dare un segnale in controtendenza dopo un fatto di cronaca accaduto l'altra sera a Milano. Stazione Centrale, scenario perfetto: un giovane italiano senza fissa dimora, madre milanese e padre tunisino, Ismail Tommaso Ben Youssef Hosni, ha ferito tre agenti con un coltello da cucina durante un controllo. E' indagato per terrorismo internazionale perché avrebbe postato un filmato sull'Isis. Leghisti, post fascisti e centro destri con la bava alla bocca – in testa Salvini e Maroni – hanno chiesto la sospensione della marcia. Esemplare la risposta di Beppe Sala: «Resto convinto che l'accoglienza sia un dovere della nostra città e di chiunque possa alleviare le sofferenze di chi è in difficoltà serie e chiede aiuto. Confermo che guiderò la marcia Insieme senza muri. Il criminale che ha accoltellato gli uomini delle forze dell'ordine è figlio di madre italiana e di padre nordafricano ed è italiano a tutti gli effetti. Ciononostante a qualcuno fa comodo buttare questo atto criminoso sul conto dei migranti». Buon senso di libero manager. Il sindaco è anche l'unico tra gli organizzatori che non avrà problemi di identità – e di relazioni con il Pd – se gran parte delle associazioni oggi non dimenticheranno di puntare il dito contro le leggi del governo che sono in contraddizione con lo spirito di accoglienza. Lo sostiene chi si ritrova nella piattaforma «Nessuna persona è illegale» (centri sociali non solo milanesi, partiti della sinistra che non hanno bisogno di nascondere le bandiere, studenti, Arci Milano, Asgi, Naga, Melting Pot e altre 270 sigle). E anche associazioni socialmente meno «pericolose» come Legambiente: «Affrontare la questione migranti come se fosse un problema di ordine pubblico, come fanno le pessime leggi 46 e 48 su nuove procedure per i richiedenti asilo e sicurezza urbana, proposte dal governo e approvate dal parlamento, è un'operazione pericolosissima» (la presidente Rossella Muroni). E il segretario confederale della Cgil Giuseppe Massafra, un'organizzazione non filogovernativa ma non per questo tacciabile di estremismo: «Chiediamo l'abrogazione delle leggi Minniti-Orlando, provvedimenti che, in nome di sicurezza e decoro urbano, portano ad un passo indietro sul piano dei diritti civili». Inutile nascondersi dietro un dito: fare nomi e cognomi oggi non è reato. Chi ci sta scende in piazza alle 14,30 in Porta Venezia (la "piattaforma" anticipa alle 12 pranzando con i migranti). Pigri e riottosi possono rimediare con Radio Popolare, fanno una diretta esagerata.
Il Manifesto 16.05.17
di Yuri Colombo

L’asse Mosca-Pechino contro il protezionismo Usa e il blocco Ue

Mosca - Il progetto cinese di una "Nuova Via della Seta", volto a espandere la sua influenza economica su scala mondiale, ha come presupposto indispensabile la partnership russa. E non solo perché dovrà passare necessariamente attraverso la Russia e attraverso paesi come Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, legati tra di loro da accordo di libero scambio euro-asiatico a cui alla Cina è stato chiesto formalmente di collaborare, ma soprattutto perché potrebbe costituire il primo passo per una alleanza di ampio respiro tra Mosca e Pechino.
LA "NUOVA VIA DELLA SETA" approfondirebbe infatti una collaborazione economica di cui entrambi i paesi beneficerebbero. La Cina si impegnerebbe a realizzare investimenti nelle infrastrutture russe, di cui il paese ha disperata necessità, e aprirebbe un corridoio che attraverso l'Asia Centrale raggiungerebbe i ricchi mercati dell'Europa Occidentale. Putin, intervenendo a Pechino alla Conferenza sulla "Nuova Via della Seta" ha mostrato tutto il suo entusiasmo per l'iniziativa: «Ci occorrono come non mai nuovi meccanismi di collaborazione che accrescano la fiducia reciproca, che riducano le barriere o gli ostacoli doganali», ha detto rivolgendosi ai leader cinesi.
DURANTE LA CONFERENZA stampa tenuta al termine dei lavori, il presidente russo ha anche aggiunto che la collaborazione tra i due paesi potrebbe estendersi ad altri settori strategici. «La nostra collaborazione con la Cina nel settore aereo-spaziale è già positiva e ci sono ora tutte le condizioni perché la Russia possa fornire ai nostri vicini motori missilistici».
L'INTERSCAMBIO ECONOMICO tra Cina e Russia ha raggiunto nel 2016 i 69.525 miliardi di dollari (più 2,2% rispetto al 2015) e le previsioni per il 2017 sono ancora più rosee. Secondo Forbes la Cina acquista già oggi dalla Russia 27 milioni di tonnellate all'anno di petrolio, facendo di quest'ultima il più importante esportatore di petrolio in Cina. Un volume destinato ad aumentare ancora nel 2018 quando sarà pronta una nuova pipeline siberiana che collegherà i campi petroliferi russi con il nord-est della Cina. I legami economici tra i due paesi, del resto, non si limitano al settore energetico.
LA CINA ACQUISTA derrate di cereali dalla Russia e allo stesso tempo partecipa alla costruzione della nuova linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Mosca a Kazan. E la penetrazione economica della Cina in alcune zone della Russia, come nella regione di Irskusk, principalmente nel settore immobiliare e tessile, risale addirittura agli anni Novanta. Putin a Pechino ha voluto sottolineare che il suo paese «non teme la penetrazione commerciale cinese, perché la Russia ha le spalle abbastanza larghe per affrontare qualsiasi tipo di sfida». Parole sicuramente di circostanza, dettate dalla necessità di ottenere gli investimenti cinesi quanto prima, ma che non devono essere dispiaciute a Xi Jinping.
LASTRADA CHE PORTA ad un'alleanza strategica tra Cina e Russia, seppur solo in campo economico, tuttavia non è tutta in discesa. I rapporti tra i due colossi in Asia, già difficili nel XIX secolo, non divennero più facili anche quando nel XX secolo entrambi aderivano formalmente all'ideologia marxista-leninista. E anche oggi nelle zone russe confinanti con la Cina sono diffusi i pregiudizi contro i commercianti cinesi che hanno condotto negli scorsi anni a veri e propri pogrom contro «i musi gialli che vogliono comprarsi la Russia». Sullo sfondo della crescente collaborazione economica tra Russia e Cina si stagliano le crescenti tensioni internazionali che l'ascesa di Trump alla Casa Bianca ha approfondito.
LA PROPENSIONE USA ad intraprendere misure protezionistiche ha destato più di una preoccupazione a Pechino mentre a Mosca, cadute le illusioni di una svolta filo-russa della Casa Bianca, si valutano molto negativamente i primi passi dell'amministrazione Usa in materia di politica estera. Se la Cina fino ad oggi si è mostrata assai cauta per quanto riguarda i teatri che maggiormente interessano la Russia (Ucraina e Siria), ha però incassato l'appoggio di Putin per una soluzione negoziale della crisi coreana.
PUTIN HA BISOGNO di alleati strategici per contrastare l'egemonismo americano e il blocco dell'Unione Europea. All'epoca del lancio dei Brics nel 2014, ha già accarezzato la prospettiva di un più stretto legame con Pechino. La "Nuova Via della Seta" potrebbe essere un viatico per rilanciarla.
Il Sole 24 Ore 17.05.17
di Rita Fatiguso


Pechino. L’incontro tra Gentiloni e Xi
Per la Via della Seta la Cina conterà sui porti italiani


PECHINO - L'anno prossimo il presidente cinese Xi Jinping verrà in visita ufficiale in Italia. L'ha confermato il premier Paolo Gentiloni che, durante il bilaterale di ieri dopo il Forum One Belt One Road, ha rinnovato l'invito per conto del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, «quale segno tangibile dell'importanza che l'Italia attribuisce al rapporto con la Cina». Un impegno di quelli che contano, dal momento che Xi manca dall'Italia dal mese di giugno del 2011 quando fece visita in occasione dell'anniversario della fondazione della Repubblica, ma in veste di presidente designato. L'Italia e la Cina - ha detto Xi Jinping - oltre a vantare antiche civiltà, sono legate dalla storica Via della Seta. Per il premier Paolo Gentiloni la One Belt One Road è destinata ad avere un peso notevole sul futuro, è un piano strategico molto importante, l'Italia deve inserirsi in questo nuovo contesto globale. Trieste e Genova, intanto, sono finiti nel radar di Pechino, ha confermato il premier. Il che potrà aiutare i porti italiani a sviluppare le loro potenzialità. Ma un esempio concreto di collaborazione sulla strada dell'Obor è il caso delle operazioni congiunte in Paesi terzi: rispondendo a una domanda in conferenza stampa, Gentiloni ha detto di aver parlato nella bilaterale «di operazioni triangolari sia nei Balcani occidentali sia in Africa, come in Mozambico, dove già lavoriamo insieme; ci sono due o tre Paesi su cui lavorare in Africa, dove i cinesi conoscono l'impegno italiano per le diverse decine di dighe costruite e le numerose infrastrutture realizzate. Eni è il principale operatore petrolifero in Africa». Poi, c'è il contesto internazionale. «C'è un contesto internazionale di cui credo i cinesi tengano conto e di cui faremmo bene noi europei a tenerne conto e che spinge a non chiudere gli occhi di fronte agli ostacoli e alle difficoltà che ci sono in settori industriali che vanno tutelati senza dubbio in Europa, ma ci spinge – ha detto Gentiloni – a considerare in una luce ancora più rilevante i rapporti economico-commerciali tra Cina e Unione europea». «La dinamica sulla questione dello status di economia di mercato da riconoscere alla Cina è stata piuttosto complessa, si è conclusa alcune settimane fa con la decisione di non prendere di petto il market economy status (Mes), ma di diluirlo nell'ambito di una decisione più generale che riguarda i criteri anti-dumping da adottarsi da parte dell'Unione europea». Un approccio che, ha aggiunto Gentiloni, «può essere visto da parte cinese come il ribadimento di una difficoltà o come un passo in avanti. Certamente non è un passo indietro: adesso la decisione è affidata alle dinamiche triangolari col Parlamento europeo, cioè è in discussione al Parlamento europeo». Nell'incontro con il premier Li Keqiang, intanto, è stato siglato il memorandum of understanding (Mou) tra Cassa depositi e prestiti e la China development bank per dare vita al "Sino-Italian Co-InvestmentFund", un nuovo fondo di investimento dotato di 100 milioni di euro complessivi che investirà nel capitale di società italiane e cinesi, soprattutto Pmi, che operano in Italia o in Cina. 
«L'accordo con China development bank apre una nuova fase dei rapporti Italia - Cina ponendo le basi per una collaborazione strategica di lungo periodo. Questa iniziativa che prevede l'investimento diretto nel capitale delle imprese - dice l'ad Fabio Gallia al Sole24 Ore - permetterà, infatti, di sostenere la crescita delle Pmi italiane e cinesi con elevate prospettive di sviluppo domestico e internazionale». Un nuovo protocollo quinquennale, intanto, è stato sottoscritto per rilanciare la collaborazione in campo agricolo. L'intesa, firmata dal ministro cinese per l'agricoltura Hang Changfu e dall'ambasciatore italiano Ettore Sequi, in rappresentanza del Mipaaf, prevede un più intenso scambio di informazioni nella ricerca scientifica, ma anche la promozione di maggiori investimenti e scambi commerciali nel settore agricolo.
ANSA 15.05.2017
Ascoltata la 'voce’ del cuore, cellula per cellula


Con  'cimice' hitech che percepisce suoni e movimenti cellulari

E' possibile ascoltare la 'voce' del cuore, ovvero i deboli suoni emessi dalle singole cellule cardiache mentre si contraggono per generare il battito: le ha 'origliate' in provetta una minuscola 'cimice' hitech, che è in grado di percepire i suoni e perfino i movimenti delle singole cellule in coltura. Questa nuova tecnologia, realizzata con una speciale fibra ottica arricchita di nanoparticelle d'oro, è presentata sulla rivista Nature Photonics dai ricercatoridell'Università della California a San Diego. In futuro potrà darà origine ad applicazionifantascientifiche, come il super stetoscopio che 'ascolta' le cellule in vivo direttamente nel corpo, ma non solo: potrà permettere analisi sempre più raffinate, ad esempio per rilevarela presenza di un singolo batterio, oppure per verificare le alterazioni del comportamento meccanico di una cellula che segnalano l'attacco da parte di un virus o una trasformazione tumorale in atto. Per realizzare la 'cimice' cellulare, dieci volte più sensibile di un microscopio a forza atomica, gli ingegneri californiani hanno usato una fibra ottica di diossido di stagno 100 volte piu' sottile di un capello, e l'hanno ricoperta con uno strato di polimero (polietilenglicole) arricchito di nanoparticelle d'oro. Quando il dispositivo viene immerso nel liquido di coltura dove si trovano le cellule, viene fatto attraversare da un raggio di luce: l'intensità del segnale che riemerge è diverso a seconda dei suoni emessi dalle cellule e delle forze generate dal loro movimento. Nei primi test di laboratorio i ricercatori sono riusciti a misurare la 'nuotata' dell'Helicobacter pylori, il batterio che vive nello stomaco causando ulcere e tumori; inoltre hanno 'ascoltato' le cellule cardiache di topo coltivate in provetta, che emettono suoni mille volte più deboli di quelli percepibili dall'orecchio umano
La Repubblica 17.5.17
di Lea Mattarella


Mostre. La staffetta dei Caravaggio
Roma

MOSTRE
Queste opere sono tutte dipinte da Caravaggio durante il suo soggiorno romano. I musici hanno una committenza importante: quella del cardinal Del Monte che ospitava l'artista nella sua residenza a Palazzo Madama. Il prelato, uomo di grande cultura, era patrono del coro della Cappella Sistina e amava molto la musica. Teneva concerti nella sua dimora e affidava ai suonatori, vestiti all'antica proprio come nel dipinto, la sua collezione di strumenti musicali. È evidente come qui Caravaggio cerchi di aprire il quadro all'osservatore: la figura di spalle porta lo spettatore dentro la tela. Lo stesso fanno gli sguardi dei giovani con gli strumenti in mano. Chi sono? Qualcuno ha riconosciuto nel suonatore di corno il volto di Caravaggio (come nel Bacchino malato) che durante l'esecuzione dell'opera (tra il 1594 e il 1595), aveva tra i 23 e i 24 anni, forse troppi per poter essere identificato con questi volti angelici. Altri hanno visto il ritratto del suo aiutante Marco Minniti, altri ancora vari personaggi, ogni volta diversi, presi dalla sua cerchia di amici. Ciò che sembra certo è che questo dipinto, dominato dal calore del rosso del mantello e dalla luce calda e avvolgente che emana dal colore bianco, o meglio dall'avorio, per citare Il Cantico dei Cantici, della pelle dei fanciulli, rappresenti, come dimostrato da Maurizio Calvesi, la musica come strumento di elevazione spirituale, nella ricerca dell'accordo perfetto, dell'armonia impeccabile. Aiutata da Amore, abituato soprattutto in pittura, a muoversi con sapienza tra sacro e profano. Mostre. La staffetta dei Caravaggio


I MUSICI
I Musici (1595), dal Metropolitan di New York, è in mostra a Napoli fino al 16 luglio Quattro figure, che già nel Seicento Giovanni Baglione, autore de Le vite dei pittori, scultori, architetti e intagliatori definì "ritratti al naturale", stanno preparandosi per un concerto. È questo il tema de I Musici, il capolavoro di Caravaggio che il Metropolitan Museum di New York ha inviato a Napoli (alle Gallerie di Palazzo Zevallos Stigliano, sede museale di Intesa Sanpaolo, fino al 16 luglio). Ma in realtà la questione è più complessa, perché la figura a sinistra, che ha in mano un grappolo d'uva, possiede ali e frecce. Si tratta quindi di Cupido. Ciò significa che questo quadro è qualcosa di più di un gruppo di suonatori dipinti "al naturale": la tela si muove nel territorio di confine tra realtà e simbolo e ha a che fare con l'amore. Come succede nel Suonatore di liuto (conservato all'Ermitage a San Pietroburgo), suo parente stretto, inquadrato mentre intona un madrigale del compositore fiammingo Jacob Archadelt che recita Voi sapete che io v'amo/ anzi v'adoro… La fratellanza tra i due dipinti la rivelano non soltanto il soggetto musicale e la caratterizzazione sessuale incerta dei personaggi inquadrati, androgini e portatori di una serena sensualità con le loro labbra dischiuse e gli occhi languidi (il Suonatore di liuto è descritto in un vecchio inventario come La Fornarina che suona la chitarra), ma anche il particolare del violino posto in diagonale in primo piano. I musici dipinti da un Caravaggio poco più che ventenne sono per l'artista il banco di prova per una composizione a più figure. E il pittore, che era da poco arrivato a Roma, se la cava benissimo con la prospettiva, con le figure che scalano in diagonale creando spazio. E soprattutto con la luce. Qui non c'è nulla del pathos del Caravaggio maturo: il suo grande palcoscenico del chiaroscuro, del contrasto drammatico tra ombre e squarci luminosi, deve ancora essere allestito. Ma già si vede l'importanza della luce nella sua opera. Che qui è diffusa, come lo sarà la musica che di lì a poco avrà inizio. Intanto la figura al centro accorda il suo liuto, quella in fondo ha in mano il corno che sta per suonare e infine il fanciullo di spalle legge uno spartito che, purtroppo, non si è riusciti a decifrare. È di spalle anche l'angelo che suona il violino ne Il riposo durante la fuga in Egitto (Galleria Doria Pamphili) e i musicologi hanno chiarito che a risuonare durante la sosta della Sacra Famiglia è il Cantico dei Cantici.

L'ultimo capolavoro in trasferta al Metropolitan di Antonio Pinelli Scovato in una villa di Eboli nel 1955 da Ferdinando Bologna, che ne sospettò la paternità caravaggesca, ma si arrese di fronte al diniego di Roberto Longhi, il Martirio di Sant'Orsola dovette attendere ancora una ventina d'anni prima di essere riconosciuto per quel che era da Mina Gregori, che poté vederlo dopo un restauro eseguito da Antonio De Mata. Sulla base del solo esame autoptico, la studiosa individuò la cifra stilistica delle ultime opere di Caravaggio: una serie di documenti, rinvenuti poi da Giorgio Fulco e Vincenzo Pacelli, confermarono l'attribuzione e rendono anzi questa tela una delle più documentate dell'artista e ci dicono che fu una delle ultime, se non l'ultima, su cui egli posò il pennello. La Sant'Orsola confitta dal tiranno fu commissionata nel 1610 dal principe Marcantonio Doria, che cinque anni prima aveva brevemente ospitato nel proprio palazzo genovese l'artista, in fuga da Roma per una delle sue tante risse. Marcantonio aveva sposato la vedova del principe di Salerno, la cui figliastra Anna, molto cara al patrigno, aveva preso i voti col nome di "sor Orsola". Di qui la scelta del soggetto. Il 26 maggio 1610, Doria ricevette a Genova una lettera speditagli quindici giorni prima da Lanfranco Massa, suo procuratore a Napoli, che gli comunicava un imprevisto incidente: «Pensavo mandarle il quadro di Sant'Orzola questa settimana però, per assicurami di mandarlo ben asciutato, lo posi ieri al sole, che più presto ha fatto revenir [risciogliere] la vernice che asciutatolo, per darcela il Caravaggio assai grossa; voglio di nuovo esser da d°Caravaggio per pigliar parere come si ha da fare perché non si guasti». L'intervento riparatore fu immediato e Massa poté spedire il quadro via mare a Genova, dove arrivò, «benissimo conditionato », il 18 giugno. Dal contesto delle due lettere si deduce che la tela era stata commissionata non più di due mesi prima, il che la dice lunga sui frenetici tempi di esecuzione del pittore in questo suo periodo estremo. Rientrato a Napoli nel settembre- ottobre 1609, dopo la rocambolesca fuga da Malta e il suo affannoso peregrinare in Sicilia, Caravaggio, tra l'autunno e la tarda primavera 1610, realizzò vari quadri, tra i quali, il San Giovanni Battista e il Davide e Golia della Borghese, cui seguirono i due che sono più vicini alla Sant'Orsola: la Negazione di Pietro, ora a New York, e la Maddalena in estasi, di cui conosciamo due versioni; quella in una raccolta romana (già Klain) e quella, recentemente ricomparsa proposta come autografa dalla Gregori. Nella Sant'Orsola, come negli altri suoi dipinti estremi, il buio dilaga, inghiottendo gran parte della scena, e l'azione si condensa in un unico, intensissimo attimo, rivelato da un flash che sferza protagonisti e comparse, cogliendoli, per così dire, in flagrante. Orsola è fra i due sgherri che l'hanno sospinta dinanzi al re unno. Sdegnato per il rifiuto oppostogli dalla vergine, Attila la trafigge con una freccia. La corda dell'arco ancora vibra, mentre la saetta affonda nel petto di Orsola, facendo sprizzare un fiotto di sangue. La luce batte radente e rivela imparzialmente la smorfia sul volto alterato del carnefice, il baluginio degli elmi e delle corazze, il gesto istintivo di difesa di Orsola che si comprime il petto, il suo capo reclinato, di vittima rassegnata al sacrificio, la febbrile concitazione degli astanti. Non ci sono scomposte torsioni anatomiche come nelle acrobatiche composizioni dei manieristi, che volevano esprimere il prima e il dopo di un'azione, moventi e conseguenze; e nemmeno pose magniloquenti e statuarie, come avrebbe preteso il classicista Bellori, che definì le scene di Caravaggio «historie senza attione». Divisi in tutto, manieristi e classicisti concordavano nel rifiutare la pittura che registra l'evento nel suo accadere «qui ed ora», bloccato come in un fotogramma. Poco dopo l'arrivo a Genova della tela, anche il pittore s'imbarcò su una feluca, che avrebbe dovuto portarlo alla sospirata remissione della pena capitale, ma invece lo consegnò alla morte, che lo colse a Porto Ercole il 18 luglio 1610.©RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica 19.5.2017
Di Nadia Urbinati


LE TANTE VERSIONI DELLA LAICITÀ
La decisione della Corte di Cassazione sull'obbligo degli stranieri di conformarsi ai nostri valori non è uno specchio di chiarezza. Non soltanto per l'oggetto della sentenza — che pertiene alla restrizione di un diritto fondamentale — ma per il linguaggio usato nella motivazione; un linguaggio che sovrappone piani diversi invece di adottare l'arte della distinzione: "valori" e "diritti", "valori" e "diritto" sono termini che designano realtà diverse e vi è da chiedersi per quale motivo i giudici abbiano deciso di fare appello, per esempio, a supposti "valori occidentali", un'espressione a sua volta etnocentrica e ben poco universalista. Come sappiamo, la decisione è relativa al caso di un cittadino indiano che è stato fermato perché portava con sé il kirpan, il pugnale sacro dei Sikh, con l'imputazione di portare un'arma senza avere il porto d'armi. La persona fermata si è appellata alla libertà religiosa e all'articolo 19 della nostra Costituzione — il kirpan non è un "oggetto" ma "uno dei simboli della religione monoteista Sikh". La decisione della Corte sostiene che lo Stato italiano, pur riconoscendo il principio di eguaglianza e della libertá di culto, non riconosce il kirpan come simbolo religioso ma solo e semplicemente come un'arma; pertanto la persona che lo porta con sé deve conformarsi alle norme sulla sicurezza che vigono sul territorio nazionale. La dimensione della lama non lo rende accettabile come un coltellino da boyscout. Non è la prima volta che la religione Sikh e la legge italiana collidono. Questa religione, fondata nel quindicesimo secolo e soggetta a molte persecuzioni, impone ai fedeli alcuni obblighi nel comportamento e nell'aspetto fisico: per esempio, i maschi non devono tagliarsi i capelli a partire dalla loro maggiore età e devono coprirli con un turbante; devono portare il pettine in segno di pulizia, pantaloni di foggia particolare in segno di castità, e oltre al bracciale d'acciaio anche il pugnale (con una lama fino a ventidue centimentri) alla cintola. Ciascuno di questi "oggetti" è un elemento essenziale per l'identità e la pratica religiosa. In passato anche il turbante aveva creato problemi; nel 1995 il ministero dell'Interno ne ha autorizzato l'uso nelle foto delle carte d'identità. Circa il kirpan, già a partire dal 2005 alcune sentenze lo avevano messo fuori legge provocando ricorsi della comunità Sikh che questa decisione della Suprema Corte dovrebbe risolvere. La questione ripropone il rapporto tra religione e stato; nei paesi occidentali, fondati sui diritti e la separazione tra religione e autorità civile, ha ricevuto due tipi di risposta, che si riferiscono a due tradizioni genericamente associate a quella anglo-americana e a quella continentale (avvicinabile a quella francese). In India e in Gran Bretagna la legge riconosce il diritto dei Sikh a portare il kirpan in quanto parte della loro identità mentre il divieto violerebbe la libertà religiosa; negli Stati Uniti e in Canada i tribunali hanno stabilito che ogni divieto che impedisca ai Sikh di portare il kirpan viola i diritti ed è incostituzionale. Contrariamente a questo si è letto in questi giorni, non è necessario arrendersi al pluralismo giuridico per far posto ai diritti dei Sikh di portare il kirpan. L'Italia, viene detto, si è schierata con l'altra tradizione, secondo la quale lo Stato non può fare eccezioni alla sua normativa (in questo caso sulle armi) per motivi religiosi. Ma è proprio così?. L'Italia non ha mai seguito in effetti la linea dello Stato laico, non solo perché la sua Costituzione ha l'articolo 7 che riconosce una religione sopra tutte le altre — una scelta di "valore" che la riforma del Concordato del 1984 non ha rimosso, anche se ne attenua le implicazioni giuridiche. Alcune decisioni importanti, come quella del crocifisso esposto sui muri delle aule nelle scuole pubbliche, confermano che l'Italia non è proprio uno Stato laico su modello continentale, perché anche se ha cercato di attenuare il legame esclusivo con la chiesa di Roma lo ha fatto abbracciando un metodo che non è di neutralità rispetto alle religioni proprio perché non neutrale rispetto alla religione della larga maggioranza (che è nei fatti parte della cultura della nazione). La sovrapposizione di cultura giuridica e "valori" a cui questa recente recente sentenza si appella stride quindi con la presunta regola della laicità, alla quale evidentemente ci si appella di preferenza quando si tratta di rapporti con religioni minoritarie. I "valori" ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico. In questa sentenza lo stato liberale cerca di essere laico ma lo fa appellandosi a "valori" intrisi di religione (quella maggioritaria). La prova è nella tensione tra l'appello agli articoli 2 e 19 della Costituzione (e poi l'affermazione del limite "costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante") e la giustificazione di questa restrizione con argomenti sia giuridici che etico- culturali. Questi ultimi rendono purtroppo l'argomentazione altrettanto identitaria. È questo che si ricava leggendo, da un lato, che "l'integrazione non impone l'abbandono della cultura di origine" e, dall'altro, che "è quindi essenziale l'obbligo per l'immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale". Quale è il "mondo occidentale" non è detto (né potrebbe esserlo senza cadere in una panoplia di assunti ideologici) mentre vi è di che dubitare che tutti gli occidentali abbiano gli stessi valori dei giudici della Corte di Cassazione o che abbiano una visione etica dello stato come questa sentenza sottintende. Presumibilmente la Corte ha pensato che appellandosi ai "valori" sarebbe riuscita a dare più forza argomentativa alla giustificazione della restrizione dei diritti costituzionali nel caso specifico di un gruppo religioso. Il fatto è che così facendo ha reso la "civiltà giuridica" di riferimento altrettanto "identitaria" della religione di minoranza con il rischio, evidente, di svelare che, in fin dei conti, qui come in altri ambiti relativi ai rapporti pubblici con le minoranze culturali, la questione sembra essere di forza, piuttosto che di diritto: la forza della cultura della maggioranza (e dei suoi valori), appunto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Corriere della Sera 16.5.2017
di Ilaria Sacchettoni


Immigrazione. La Cassazione, i migrati si adeguino ai nostri valori
Il caso del pugnale sacro indiano
E’ obbligo essenziale se vogliono vivere in un mondo occidentale.
I giudici: la società multietnica è una necessità, ma la sicurezza è un bene da tutelare


ROMA - Con una sentenza che già divide gli entusiasti dai perplessi, i giudici della Cassazione stabiliscono dei parametri all'integrazione: la rinuncia da parte degli immigrati ai propri simboli religiosi o culturali se in contrasto con la tutela della sicurezza. Respingendo l'istanza di un indiano sikh di Mantova a girare con il kirpan (coltello di circa 18 centimetri) infilato nella cintura, i togati sottolineano: «Intollerabile che l'attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante». E ancora: «La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti a seconda delle etnie che la compongono». Specie, dicono, se quegli «arcipelaghi» sono in contrasto con il bene collettivo della sicurezza pubblica. Il sikh mantovano dovrà dunque scendere a patti con le proprie abitudini nel rispetto della nostra normativa che «individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e a tal fine pone il divieto del porto d'armi e di oggetti atti a offendere». La condanna della Cassazione E qui la Cassazione porta anche argomenti della giurisprudenza europea: «Nello stesso senso», scrive, «si muove anche l'articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo che stabilisce che "la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell'ordine pubblico, della salute o della morale pubblica o per la protezione dei diritti e della libertà altrui"». Conformi i valori del mondo occidentale Non sarebbe la prima volta, affermano i togati, che lo Stato limita la libertà di manifestare una religione «se l'uso di quella libertà ostacola l'obiettivo perseguito di tutela dei diritti e delle libertà altrui, l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica». Applaude Luca Zaia (Lega). Per Mara Carfagna (FI): «Chi sceglie l'Italia deve integrarsi, rispettando non solo le nostre leggi, ma anche i nostri valori, la nostra cultura e le nostre tradizioni». Mentre per Emanuele Fiano (Pd): «È una sentenza da non usare come una clava». «La sentenza è molto equilibrata», sottolinea Giancarlo Perego direttore di Migrantes, fondazione della Cei, «e sottolinea anche il valore di diversità e multiculturalità e la necessità di un cammino di integrazione degli immigrati. Ora, però, la politica non strumentalizzi». © RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica 19.5.17 
Di Sara Strippoli

“Che emozione quei reading da lassù...”
Nemmeno lo stop and go della mongolfiera frena gli appuntamenti “off” sparsi in città



Il vento forte limita i viaggi del pallone aerostatico “Turin eye”, con a bordo scrittori che leggono i classici. Ma i fan irriducibili non si fanno scoraggiare E Amitav Ghosh all’università elogia le location alternative: “Qui è più bello”
TORINO Sale, non sale? Gaia e Maria Sole hanno sedici anni. Sono davanti all'Arsenale della Pace che a Torino accoglie i migranti. La mongolfiera Turin Eye, pezzo forte del Salone che si apre alla sua città, va su e giù, ma solo per le prove del vento. La delusione lascia spazio alla speranza quando le condizioni del tempo migliorano. Sono venute, raccontano, perché fan di Guido Catalano, che si fa immortalare davanti al pallone aerostatico con il libro di Dino Buzzati Un amore. Ha scelto questo romanzo, dice lo scrittore perché «L'ho letto soltanto un anno fa e sono stato flashato da questa storia d'amore impossibile». La follia ideata da Giuseppe Culicchia, che per il Salone Off ha scelto luoghi stravaganti di una Torino anche un po' inedita per provare a vedere che effetto fanno le parole nell'altrove delle sale, ha spinto fuori dal Lingotto i più avidi di emozioni. Dopo tentativi e tentennamenti, la mongolfiera sale fino a dieci metri d'altezza. Più in su oggi non si può andare. Lo spettacolo scenografico è rimandato a domani e domenica, quando il meteo darà il via libera. Abbastanza però per vedere la Mole, per scorgere il grattacielo progettato da Renzo Piano, uno dei simboli della Torino che si è scrollata di dosso il peso della città industriale. Catalano legge la descrizione appassionata del cinquantenne ossessionato dalla giovane prostituta Adelaide e riflette che poche ore dopo, proprio dal grattacielo di Intesa lì davanti, sarà Daniel Pennac a leggere le vicende del suo Malaussène. Storie diversissime, sguardi speculari dall'alto. Stefano è uno studente di medicina e aspetta Levante. La cantante di origine siciliana partita da un locale torinese per scalare le classifiche ha in mano L'arte della gioia dell'attrice, scrittrice Goliarda Sapienza: «E il mio libro preferito – dice –. Leggere volando mi pare un'idea bellissima. Non so quale potrebbe essere l'atmosfera lassù, forse potrebbe cambiare la mia voce, forse potrei fare fatica a concentrarmi». Stefano è un irriducibile del Salone del Libro, per lui sempre e solo abbonamenti per essere presente cinque giorni su cinque al Lingotto: «Non mi perdo un'edizione da anni ma quest'anno ho deciso che questa volta avrei tentato un approccio diverso con le parole ». Dieci minuti lungo la Dora e il Salone firmato da Nicola Lagioia invade un altro simbolo della città che ha lottato per rinnovarsi. Al Campus Einaudi dell'università di Torino, gli studenti accolgono Amitav Ghosh, qui per parlare di ambiente e giustizia sociale. Anche lui nota che i luoghi fanno la differenza: «Ero già stato qui a Torino all'università in passato. Ma era nel vecchio edificio e devo dire che questo è molto meglio». Se il gioco è flirtare con i simboli, oggi entra in scena il sommergibile Andrea Provana, classe 1915, Regia Marina. Se ne sta placido lungo il Po, al Valentino, e sono molti i torinesi che nulla sanno della sua esistenza. Questo pomeriggio gli eccentrici della Libropoli torinese potranno immaginare un viaggio avventuroso nel tempo e nello spazio ascoltando Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne letto da Bruno Gambarotta. Upperside e underground. Ci vorrebbe una guida esperta per condurre i lettori in questo viaggio immaginato nella Torino illuminista e per questo attratta irrimediabilmente dall'irrazionale. Stasera i più audaci si cimentano con la seduta spiritica al Cimitero monumentale. Con Paolo Nori e Valeria Parrella, grazie al Festival napoletano Un'altra galassia, si supera il confine fra le tombe con La dama di picche di Puskin. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica, 19.5.17
Di Simonetta Fiori


Salone Internazionale del Libro: è record di pubblico e editori
Folla a Torino nella prima giornata. Riccardo Levi verso la presidenza dell’Aie
E i lettori riprendono la loro love story con il Salone

TORINO

Non si interrompe una storia d'amore così, senza motivo. E non si spezza dopo trent'anni, quando il legame è diventato forte e profondo: tra il Salone e la città di Torino, tra il Salone e la comunità del libro. Nel segno della riscossa e delle lacrime è il primo giorno della prima edizione sopravvissuta allo scisma milanese. Un'affluenza di pubblico mai vista al debutto. Confusione alle stelle. Rumore assordante. E una sorridente tolleranza da parte di tutti nell'accogliere il caos. Perché si festeggia di esserci ancora, esserci tutti insieme. E si festeggia, ma senza dirlo, di aver vinto sugli assenti, sui colossi editoriali che hanno scelto di disertare il trentesimo compleanno del salone nazionale. E che questa sia la Signora italiana del Libro deve essere chiaro a tutti: sembrano ribadirlo le cariche presenti, il presidente del Senato Grasso e il vicepresidente della Camera Di Maio, i due ministri Fedeli e Franceschini. Il titolare dei Beni culturali confessa pubblicamente che a molti eventi è costretto a presenziare per obbligo istituzionale, ma ad alcuni partecipa anche con affetto, e questo è uno di quei casi. Altro non può dire, ma il pensiero corre alla sua faccia perplessa durante la cerimonia inaugurale della fiera concorrente – quattro settimane fa a Rho – quando una voce fuori campo annunciava gli ospiti alla maniera di uno show. «Ma chi è che parla?», continuava a chiedere stranito al presidente dell'Aie, orgoglioso artefice della kermesse spettacolare. Che la sfida con Rho sia stata vinta si capisce da un aggettivo pronunciato dal ministro Franceschini: «Insostituibile». Il Salone non può essere rimpiazzato da niente altro. Il neodirettore Lagioia, con l'espressione festosa di chi sta per dare vita a una nuova Woodstock, ne aggiunge un altro: «Inimitabile». La più appassionata appare la sindaca Appendino, la quale sa benissimo che, se fosse stato riconfermato Fassino, i giganti dell'editoria non ci avrebbero neppure provato a scippare Torino del suo Salone. Ma preferisce glissare e concentrarsi sulla zampata orgogliosa della città. «Il Salone resterà qui per molti anni», promette con voce ferma. E, come accade ai sopravvissuti di qualsiasi tormenta, si rievocano fino alle lacrime le pagine più difficili dell'epopea. «L'estate scorsa nessuno ci avrebbe più scommesso », dice un quasi piangente Massimo Bray, presidente della Fondazione per il Libro. E ora eccoci qua, più numerosi di prima. Eccoci di nuovo al Lingotto, rassicurante con le sue mura annerite come quelle vecchie case che appaiono vissute. Non c'è la sontuosità della fiera milanese, la moquette fucsia fa a pugni con i colori squillanti degli stand, ma quando ci si ritrova tutti insieme non si sta a guardare se la tappezzeria è da cambiare. Quel che importa oggi è il ritorno della comunità, simboleggiata dalla splendida colonna di libri che troneggia nel terzo padiglione: i librai indipendenti di Torino insieme ai bibliotecari piemontesi, così come insieme convivono editori e scuole, autori e lettori, l'Italia dei festival e delle piccole fiere. Al centro della festa torinese è proprio una visione del libro che è la grande forza del Salone, soprattutto di questo Salone fortissimamente sostenuto dagli editori medi e piccoli: il libro nella sua funzione civile e culturale, sideralmente lontana dalla dittatura del marketing. E non si notano i grandi vuoti – quelli lasciati dalla galassia Mondadori/Rizzoli e da Gems – colmati dall'elegante architettura di Sellerio con le sue copertine blu, dal piccolo stand del Leone verde, dalle pareti rosse di Feltrinelli e Laterza. E tutt'intorno da quei marchi che esercitano un ruolo di avanguardia culturale alle latitudini più diverse da Iperborea a Sur, da e/o a minimum fax e Marcos y Marcos. Appare un po' mortificato il punto vendita Einaudi, con le pile di libri per terra: niente a che vedere con il piglio signorile dell'allestimento milanese. Ma il direttore editoriale Ernesto Franco s'è dovuto accontentare: non è stato facile ottenere il consenso allo stand torinese da parte di Mondadori. E il comune di Torino sembra risarcire la sua leggenda editoriale con le vetrine dedicate alle collane storiche di Einaudi. Altro paradosso, uno dei tanti. Al Salone della riscossa appaiono cambiati gli equilibri di potere. E se fino a un mese fa il pendolo sembrava a favore dei gruppi editoriali più forti che controllano un'importante fetta del mercato (e che si sono fatti la loro fiera a Milano) oggi sembra oscillare dalla parte del Lingotto. Da qui si ricomincia a trattare per il futuro. «Vedremo se ci sono le condizioni per passare dalla non collaborazione alla collaborazione o addirittura all'integrazione», dice Franceschini. In sostanza non è esclusa la possibilità che le due fiere possano dar vita a un'unica manifestazione. Tutto dipende anche da quello che accadrà nelle prossime settimane nelle stanze dell'Aie, dove si dovrà decidere se rinnovare o meno la presidenza di Federico Motta. La sua gestione non è piaciuta a molti – soprattutto ai piccoli e agli scolastici – per il tratto caratteriale non privo di arroganza e per le spaccature prodotte tra gli editori con il divorzio da Torino. Anche per questo Stefano Mauri, timoniere di Gems, ha proposto il nome alternativo di Riccardo Franco Levi, personalità apprezzata per la capacità di tessitura mostrata nell'omonima legge sul libro (la legge che contiene gli sconti sul prezzo di copertina e su cui oggi si è riaccesa la discussione tra chi vuole ridurli al 5% e chi è contrario). Si attende solo il placet di Mondadori, finora legata alla figura di Motta anche per le sue doti servizievoli. Riuscirà il profilo più autonomo di Levi a mettere d'accordo tutti? Dall'aspetto sorridente del nuovo candidato, che ieri si è avvicinato a salutare Franceschini, parrebbe proprio di sì. Dalla sua elezione potrebbe dipendere anche l'accordo futuro tra le due fiere. E intanto il Salone annuncia che la prossima edizione sarà sempre a maggio. «Come la festa della Madonna», dice Lagioia, reduce da una notte insonne. «Si può spostare la festa di Maria? ». No, non si può. L'autore della legge sul libro sostituirebbe Motta alla guida degli editori
La Repubblica, 17.5.17
di Simonetta Fiori



Baricco racconta il suo rapporto con la rassegna di Torino
che apre al Lingotto la trentesima edizione:
“È difficile riprodurre la formula altrove…
Il Salone vincerà perchè è un brand come la Nutella”


Roma
Una ragione sentimentale. Potrà sembrare bizzarro ma quando si parla del Salone di Torino non c'è scrittore o editore che non invochi quell'affetto che nasce dall'abitudine e dai ricordi. «È un brand vincente come la Nutella», dice Alessandro Baricco che della fiera torinese è stato uno dei primi cronisti e uno dei primi direttori culturali. «Il Salone è entrato nel cuore delle persone. E riprodurre un legame simile da un'altra parte potrebbe richiedere anni». Domani al Lingotto si inaugura la trentesima edizione della Libropoli fondata nel maggio del 1988 sotto gli archi di Torino Esposizioni, al parco del Valentino. E, come succede per i compleanni a cifra tonda, si sfoglia l'album delle foto più importanti. Tra baruffe, metamorfosi e paradossi che ne costituiscono una chimica costante. Il suo primo Salone? «Avevo trent'anni: mi occupavo di musica e avevo appena pubblicato un libro su Rossini. Ma ricordo nitidamente l'impressione che mi fece vedere gli scrittori in carne ed ossa. Lalla Romano seduta sul sofà. Giulio Einaudi che passeggia tra gli stand. Sebastiano Vassalli in piedi davanti a una pila di libri. Allora il rapporto fisico con l'autore era una novità assoluta». L'idea era stata di un libraio torinese, Angelo Pezzana, cui seppe dare concretezza l'imprenditore Guido Accornero. «Un'idea geniale che riprendeva il Salon du Livre parigino ma con un tratto di originalità nel quale si vedevano la mano fantasiosa di Pezzana e il gusto di Accornero. Si trattava dell'iniziativa di due privati. Quando si dice che la cultura non si può fare senza soldi pubblici spesso non è vero». Al primo Salone si affacciò Gianni Agnelli, mentre non venne il ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Galloni. «Ecco, un aneddoto che la dice lunga». Però la politica non restò a guardare. L'allora sindaco di Milano Pillitteri cercò di appropriarsene rivendicando il primato lombardo dei libri. E la sindaca Maria Magnani Noya, prima donna alla guida di Torino, ne contenne con eleganza il tentativo di scippo. «Perché poi alla fine il soggetto economico più forte sono i cittadini. E i cittadini si organizzano attraverso i loro rappresentanti. I privati ne devono tenere conto». Il Salone ebbe subito grande successo. Beniamino Placido ci scrisse sopra un divertente corsivo: il libro viene celebrato proprio quando cominciano a morire la "libridine" e "la lettura come vizio". «Io però la interpreterei in modo differente. Non si trattava dell'inizio della fine ma del principio di una metamorfosi che ha allargato gli steccati della lettura includendo un pubblico che prima non c'era. Il Salone riuscì a intercettare questa trasformazione». In che modo? «Fino agli anni Settanta la lettura è stata una pratica diffusa in un mondo molto piccolo. E lo specchio di questo piccolo mondo era la libreria. La nascita delle grandi catene – guardata con sospetto – ha favorito l'ingresso tra gli scaffali anche di chi non vi aveva mai messo piede. E questi neofiti che magari leggevano testi diversi rispetto a quelli dell'élite colta hanno cambiato anche la fruizione del libro: sono lettori che consumano molto lo scrittore e forse un po' meno il libro. Il Salone ebbe il merito di anticipare tutto questo» Il consumo dello scrittore? «Sì, il piacere di consumare lo scrittore. Poi ciascuno può giudicare come vuole questo fenomeno, ma è innegabile che sia diventato parte importante dell'industria culturale. Diventa prevalente il rapporto con l'autore come corpo e come personaggio. Italo Calvino incontrava solo una selezionata cerchia di intellettuali di sinistra. Oggi anche i più raffinati tra i nostri autori sono diventati dei performer». Neppure gli aristocratici dell'Einaudi ignoravano il problema. Quando uscirono le Fiabe italiane curate da Calvino, Giulio Einaudi propose che alla presentazione partecipassero Sophia Loren e Gina Lollobrigida, fisicamente non proprio insignificanti. «Certo mi riesce difficile immaginare Calvino…». Ma il bagno di folla da rockstar non può essere pericoloso per l'ego di uno scrittore? «Ho visto più narcisismo in autori che parlavano a quindici lettori». E a proposito di performance, quest'anno non mancherà la sua: una lettura di "Furore" insieme a Bianconi dei Baustelle. Colpisce la modalità da rave party: rivelerete la location solo all'ultimo. «Non volevo fare uno spettacolo imbalsamato, ma una cosa più mossa da condividere anche nell'improvvisazione. Era da tempo che volevo occuparmi dei migranti. E Furore è un romanzo che dice tutto quel che c'è da dire sulla migrazione degli umani». Quale fu il suo primo incontro folgorante al Salone? «Un incontro mancato. Ero stato incaricato di una sorta di direzione culturale – parliamo dei primi anni – e riuscii a ottenere il sì di Umberto Eco. Tutto fiero ed emozionato lo aspettai sotto gli archi del Valentino. Fin quando mi dissero che Eco era già in sala a tenere la sua lezione sull'umorismo. Aveva una gran fretta e giustamente si dimenticò di salutarmi». Leggerezza colta fu la cifra della direzione di Beniamino Placido, poi ripresa da Ernesto Ferrero. «Beniamino era un maestro d'ironia. La cosa formidabile di quella prima stagione era che il direttore culturale cambiava ogni anno, al massimo durava due o tre anni. Una buona abitudine. Le direzioni troppo lunghe producono rigidità e automatismi». Quando ha visto il Salone cambiare? «Quando hanno prevalso gigantismi immotivati, sprechi, lentezze burocratiche: questo può succedere quando interviene il denaro pubblico, anche se i primi anni della nuova gestione mantennero una discreta vitalità. Poi sono arrivate anche le inchieste giudiziarie. E più di recente il divorzio da Torino sancito dai grandi gruppi editoriali, che si sono fatti la loro fiera a Milano. Alla fine dobbiamo ringraziarli. Urtato con forza, l'albero ha fatto cadere foglie secche e mele marce. Una nuova generazione s'è messa al lavoro. E tutta la città ha reagito nel modo migliore». È come se il tentativo di trasferire il Salone altrove avesse risvegliato una sorta di orgoglio sabaudo. «Nell'incontro tra vocazione industriale e tradizione culturale, Torino sa di essere la città ideale per un Salone del Libro. E poi all'Italia non conviene avere Milano e Roma che fanno tutto». Questo Salone segna anche un cambio generazionale, con l'ingresso di una nuova squadra di quarantenni guidata da Nicola Lagioia. Cosa porta di più questo nuovo sguardo? «Non bisogna mai chiedersi se la generazione successiva sia più o meno brava della precedente. Il ricambio è comunque necessario. Il più giovane ha più voglia di lavorare. Ha meno amici che lo rallentano. Ha più fame. Si diverte di più. E ha anche più resistenza fisica. Porta un altro modo di muoversi nel mondo, sicuramente più appropriato al mondo così com'è». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica 15.5.17
di Diego Longhini


Parla il direttore Nicola Lagioia: “Il derby con Milano? Una scossa positiva”

Sulla scrivania un mazzo di manifesti da scartare, freschi di stampa. «Me li hanno lasciati stamattina per distribuirli. Non sono solo il direttore, mi sento ambasciatore del Salone», racconta lo scrittore Nicola Lagioia che alla fine degli anni Novanta, battendo palmo a palmo gli stand di Librolandia, ha trovato il suo primo lavoro. «Alla Castelvecchi di Roma, era il grande periodo degli editori indipendenti». Ha visto il Salone crescere anno dopo anno, «perché diventa parte della tua vita, la scandisce, come i compleanni e gli altri anniversari », e da direttore delle trentesima edizione è convinto che il derby con Milano e il suo Tempo di Libri si possa vincere. «La concorrenza ci ha fatto bene, l'effetto derby per noi è stato positivo. Ci ha costretto a fermarci e a pensare cose nuove», sottolinea. «Nuove iniziative come il Superfestival non si sarebbero fatte, oppure Gastronomica in accordo con Slow Food o il villaggio all'ex Incet con gli spettacoli serali. Milano è stata una scossa per noi». Nelle cose nuove inserisce altri progetti, come il consorzio librai e bibliotecari. «Potrà avere uno sviluppo autonomo, ma senza Salone non sarebbe nato», dice. Il direttore si ferma un attimo, guarda i manifesti e si chiede: «Li dovrò attaccare io?». Non ci sarebbe nulla di strano nel vederlo all'opera. Come non c'è nulla di strano nel vederlo smanettare sulla tastiera per confrontare le previsioni meteo nei giorni della buchmesse torinese. «Manie di controllo», ammette. «Siamo tutti carichi. I primi mesi mi svegliavo alle tre e mezza del mattino per l'ansia, ora mi sveglio alle quattro per l'eccitazione», racconta. Torino ha sentito l'affetto di chi torinese non era, come Lagioia, 44 anni, pugliese, tra i primi a prenderne le difese dopo lo strappo dell'Aie. «Ad agosto la città era smarrita, ma ha reagito. C'è stato un moto d'orgoglio. Torino e il Salone hanno una comunità che è cresciuta in questi trent'anni. Comunità che Milano non ha». Il direttore si sente già adottato. «All'inizio non è stato semplice. Gli ultimi tre mesi sono stati bellissimi. Il Salone è un grande mix tra mistero, factory e fanzine. A chi dice che Torino è una grande Cuneo, non una piccola Parigi, io rispondo che Torino è a metà tra Cuneo e Seattle. Da una parte è la grande provincia italiana, da dove io provengo. Dall'altra le cose che succedono qui non succedono altrove. Ha un'offerta culturale forte. Nulla da invidiare a Milano». E i torinesi? «Discendono da Cesare Pavese, sono chiusi, ma sanno che devono superare questo stato. C'è una macerazione, un continuo non essere risolto che è un segno di vitalità». Milano non lascerà perdere la sua Fiera, sarà un derby continuo? «È una follia rinunciare a Torino. Sarebbe come Viareggio senza carnevale e Siena senza palio». Lagioia non è estremista: «Una seconda fiera ci può stare, ma non può nascere da una spaccatura nell'Aie e come espressione della Mondadori. Piuttosto si pensi a una fiera che vada là dove i lettori non ci sono, al Sud, un secondo evento che possa germogliare e diventare come il Salone». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Fatto Quotidiano 15.5.17
Di Stefano Caselli


Al via il 30esimo Salone del Libro a Torino: Oltre il confine
Doveva essere l’inizio della fine di una storia cominciata nel 1988,
invece l’edizione numero 30 nasce in un clima di entusiasmo
impensabile solo pochi mesi fa



Te Ka è un mostro di lava in mezzo all'Oceano, in collera con il mondo intero e dall'aria piuttosto infelice. Te Fiki era l'isola madre in grado di creare la vita. Un temerario semidio le rubò il cuore e di lei non si seppe più nulla. Vaiana, giovane erede al trono della piccola isola di Motunui, viene scelta dall'Oceano per restituire il cuore di Te Fiki. Vaiana obbligherà il semidio a seguirla e, dopo mille peripezie, scoprirà che Te Ka altro non è che Te Fiki senza cuore. Una volta rimesso al suo posto, la lava ritorna vegetazione rigogliosa e dal volto incandescente del mostro incazzato rinasce il dolce viso della dea. È LA TRAMA di Oceania, l'ultimo film Dysney, ma sembra una perfetta metafora della Torino degli ultimi 12 mesi: Te Ka è la città dell'estate 2016, Te Fiki quella di queste settimane. Il cuore – rubato da un semidio milanese –non è un'ametista ma un libro di carta. A rimetterlo al suo posto, nel ruolo di Vaiana, il capobanda Nicola Lagioia, non a caso barese. Sembrava impossibile, per una città permalosetta e affetta da ricorrente sindrome da abbandono. Eppure sta accadendo: il 30º Salone del Libro, complice anche il mezzo passo falso di "Tempo di Libri" del semidio Milano, nasce sotto i migliori auspici, con un entusiasmo che non si respirava da tempo: "Ricordo mesi fa quando presi il taxi per andare in aeroporto – racconta ridendo il direttore del Salone Nicola Lagioia, che sotto la Mole si è trasferito in pianta stabile –Il tassista attaccò un lamento sullo scippo del Salone da parte di Milano. Allora mi presentai, gli dissi 'Sono il direttore sa? Vedrà che si sbaglia...'. Nulla, non mi calcolò affatto e proseguì sulla stessa linea. Quando sono arrivato c'era una tale situazione di terrore che avevamo studiato soluzioni scenografiche per coprire i vuoti al Lingotto. Invece abbiamo dovuto allargare l'area espositiva". Da giovedì 18 a lunedì 22 maggio quello che avrebbe dovuto essere il Salone del de profundis si preannuncia invece un'edizione da record: 469 espositori (nel 2016 erano 338) per un totale di 1.060 case editrici, spazi commerciali superiori, numero di biglietti venduti online che hanno già superato la cifra complessiva dello scorso anno. Meglio di così non si poteva iniziare. Per capire le ragioni di un colpo di reni per molti insperato, è utile chiacchierare con Nicola Lagioia: "Com'è stato possibile? Principalmente per un motivo identitario. Il Salone è uno dei simboli in cui questa città si riconosce. Alla prima conferenza stampa dopo lo 'scippo' di Rho non sapevamo dove mettere la gente: a palazzo Madama c'erano 3 mila persone e certo non erano tutti addetti ai lavori. Poi c'è una ragione economica: il Salone costa tra i 3 e i 4 milioni di euro ma genera un indotto, secondo i calcoli della Camera di Commercio, di 53 milioni". C'è però una ragione sentimentale che tocca prima di tutto il cuore di chi di letteratura vive: "Al Salone –ancora Lagioia – ci sono sempre stato, da lettore e da addetto ai lavori. Le varie edizioni sono un calendario sentimentale: a quell'edizione ero fidanzato con… a quell'altro ero già spostato...". SULLA STESSA lunghezza d'onda Giuseppe Culicchia, torinese doc che del Salone curerà "Festa mobile" del Salone Off: "Noi scrittori abbiamo quasi tutti un rapporto affettivo con Torino: qui abbiamo presentato il primo libro, qui ci siamo trovati per la prima volta davanti a un pubblico. Un'altra novità, per una città di rito rigorosamente oligarchico, è stato il lavoro di squadra: "Molti hanno sorriso –ricorda Culicchia –quando comunicammo che il Salone avrebbe avuto 14 curatori, c'era chi scommetteva sul fallimento, troppe teste. Invece sono saltate fuori le idee. Per fare qualcosa di nuovo mantenendo ciò che di buono è stato fatto. Perché non si buttano via 30 anni. Certo, gli ultimi 18 hanno avuto una sola guida ed era il tempo di cambiare, ma il Salone non era quel regno di solo malaffare che a un certo punto sembrava essere diventato". A denti stretti, alla fine, quasi viene da ringraziare "quelli di Rho", come con poca delicatezza si identifica il "Tempo di Libri" milanese sotto la Mole: "La concorrenza fa bene – ancora Lagioia – Mi chiedono spesso se due saloni possano coesistere; io rispondo pure quattro, a patto che la pluralità non sia frutto di una spaccatura. Sarebbe bello andare anche dove i lettori sono di meno, cioè al Sud. Ma queste non sono cose che possiamo decidere noi bisognerebbe chiedere a loro". In fondo – già dal logo disegnato da Gipi, un libro che scavalca un muro e dal titolo "Oltre il Confine" – l'idea del Salone diffuso è già ben radicata. Per coinvolgere la città – oltre i tradizionali appuntamenti (oltre mille) del Lingotto che quest'anno chiuderà i battenti alle 20 invece che alle 22 – i 14 cervelli hanno lavorato parecchio. Il Salone Off promette bene: lettura d'alta quota a 150 metri da terra sulla mongolfiera del Balòn, oppure (quasi) sottomarine a bordo dell'ultimo esemplare di sommergibile della Grande guerra intatto in Europa (ebbene sì, a Torino, attraccato sul Po, esiste anche quello), perfino al cimitero monumentale, rigorosamente al calar della sera. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Manifesto 16.5.17
di Roberto Ciccarelli




Unità, è sciopero a oltranza

Roma
Da oggi i giornalisti dell'Unità sono in sciopero ad oltranza. Il conflitto che li oppone all'editore Pessina che ha in mano la maggioranza delle azioni del quotidiano del Partito democratico è arrivato alle stelle quando ai giornalisti è giunta una singolare richiesta: gli stipendi saranno pagati quando questi ultimi avranno convinto i colleghi a ritirare gli atti di pignoramento presentati contro l'azienda per ottenere il pagamento di spettanze e arretrati. Una richiesta che il comitato di redazione ha ritenuto inaccettabile: «Mai lavoratrici e lavoratori erano stati sottoposti ad un ricatto di una tale, devastante portata – sostiene il Cdr – per aver riconosciuto il vostro diritto al salario dovete conculcare i diritti di vostri ex colleghi; diritti sanciti da un tribunale. Non ci piegheremo a questo ricatto». Ad aprile ai giornalisti è arrivato uno stipendio da 88 euro, in qualche caso 93 eur o. Le cifre sono state denunciate ieri dai redattori nel corso di una conferenza stampa tenuta nella sede della Federazione nazionale della Stampa (Fnsi) a Roma. Il Cdr sostiene di avere sollecitato il versamento dello stipendio vero e proprio. Ma l'azienda avrebbe risposto con tre e-mail senza testo. L'iniziativa è clamorosa. Mai, fino ad oggi, nel quotidiano «fondato da Antonio Gramsci», era stata adottata una simile forma di lotta. La prospettiva del licenziamento collettivo di 20 persone, preannunciata dall'editore, non lascia tranquillo nessuno in una redazione entrata in conflitto con l'ex direttore Sergio Staino e ora è diretta da Marco Bucciantini. «Ci opporremo in ogni sede e con la massima determinazione ai licenziamenti collettivi ipotizzati dalla proprietà» ha puntualizzato il Cdr. Con Stampa romana e Fnsi, il cdr dell'Unità ha avviato anche un procedimento giudiziario nei confronti dell'azienda per comportamento antisindacale. Da parte dell'amministratore delegato Guido Stefanelli, che nei giorni scorsi ha incontrato Bucciantini, c'è la «consapevolezza che il taglio dei posti di lavoro dovrà costituire l'extrema ratio, ma che al contempo la società deve trovare un sostenibile equilibrio finanziario». Giornalisti e poligrafici hanno ricevuto la solidarietà di Slc-Cgil: «bisogna mettere in campo tutti gli strumenti per rilanciare il giornale» è l'auspicio. «Ripristinare corrette relazioni sindacali e garantire soluzioni condivise evitando di umiliare i lavoratori» ha detto Anna Maria Furlan, segretaria della Cisl.
Il Fatto Quotidiano 16.5.17
di Roberto Rotunno


La crisi infinita dell’Unità: sciopero ad oltranza dal 16.5.2017
La redazione vuole risposte da Pessina e Pd: “Ci ricattano e Lotti non fa niente”
Primavera calda all’Unità - Sciopero a oltranza e denunce per gli editori




Al ricatto cui siamo sottoposti risponderemo con lo sciopero a oltranza e con un ricorso al giudice per comportamento antisindacale". La battaglia dei giornalisti dell'Unità contro la proprietà della testata, la Pessina Costruzioni, sta per trasferirsi in tribunale. Un'iniziativa che sarà accompagnata, a partire da oggi, dall'astensione dal lavoro. Il dito dei cronisti è puntato anche verso il Partito democratico, in quanto partner di minoranza della società editrice e colpevole di avere quantomeno voltato lo sguardo dall'altra parte quando i cronisti del proprio house organ hanno denunciato un abuso subito. L'EPISODIO è stato segnalato il 3 maggio dal comitato di redazione. "Abbiamo chiesto all'ad Guido Stefanelli quando saranno pagati i nostri stipendi di aprile –ha scritto il cdr - e la risposta è stata 'appena farete ritirare il pignoramento alle vostre colleghe'". Il riferimento è alle ex dipendenti del giornale che, vantando crediti da lavoro, hanno chiesto al giudice l'azione forzata, come tra l'altro è nel loro pieno diritto. Secondo quanto raccontato, insomma, la proprietà ha posto un aut-aut ai giornalisti che sono ancora "in servizio". Volete l'ultima mensilità? Allora convincete chi è stato licenziato a rinunciare ai soldi che gli spettano. Sullo sfondo, c'è pure la spada di Damocle di nuovi tagli al personale che potrebbero colpire altri 20 dei 28 che compongono attualmente la redazione. Non pervenuta finora la reazione del Pd, che secondo il neo-segretario Matteo Renzi si accinge a diventare "il partito del lavoro" ma si trova a fronteggiare una situazione complicata direttamente in casa sua. "Questa vicenda è politica – ha detto Umberto De Giovannangeli, che fa parte del cdr – Il Pd ha una quota significativa di azioni e in questo momento ha una responsabilità di governo del Paese: non può essere silente". L'altro grande assente tirato in ballo è il ministro Luca Lotti, titolare della delega all'Editoria. "Chiederemo un incontro con lui. Dovrebbe interessarsi di noi così come ha fatto quando ci furono problemi simili all'Adnkronos". All'Unità lo sciopero a oltranza non ha precedenti ed è appoggiato dal sindacato dei giornalisti: "Un atteggiamento del genere –ha detto Raffaele Lorusso, segretario della Fnsi –va oltre le normali relazioni industriali, un ricatto contro chi si è rivolto ai magistrati per vedere riconosciuti i propri diritti". LA CRISI DEL QUOTIDIANO deriva dai numeri bassi nelle vendite e da una scarsa raccolta pubblicitaria, elementi che pongono i conti in uno stato comatoso. Negli scorsi giorni il direttore Marco Bucciantini –subentrato il 4 aprile a Sergio Staino –ha incontrato l'amministratore delegato per discutere di un possibile rilancio. "Sono mesi che parlano di un nuovo piano industriale ma ancora non lo vediamo", ha affermato la giornalista Maria Zegarelli. La Pessina Costruzioni ha acquisito la testata nel 2014 con un'operazione sulla quale Report ha gettato l'ombra di uno scambio di favori di tipo politico. Intanto, la redazione accusa i proprietari di non essersi comportati da veri editori. "Per due anni l'azienda è stata latitante – ha detto Massimo Solani – Si è fatta vedere solo negli ultimi sette mesi per farci questi ricatti". © RIPRODUZIONE RISERVATA
La Repubblica 17.05.17
di David Brooks
Se l’uomo più potente del mondo agisce come un bimbo

Nel tempo Donald Trump ha dato idea di essere un leader autoritario in erba, un corrotto alla Nixon, un agitatore populista o un corporativista paladino della grande impresa. Ma dopo l'insediamento alla Casa Bianca ha concesso interviste dalla cui trascrizione vien fuori che, in fondo, non è nulla di tutto ciò. Fondamentalmente, Trump è infantile. Non ha imparato tre cose che si sanno già a 25 anni. L'immaturità sta diventando la nota dominante della sua presidenza, la mancanza di autocontrollo il filo conduttore. Innanzitutto, gli adulti sanno stare seduti in silenzio. Ma lui è un bimbo che gironzola per la classe. Le sue risposte non sono lunghe - 200 parole al massimo - ma salta di palo in frasca, per poi lagnarsi delle scorrettezze della stampa. Incapace di concentrarsi, è mal informato sulle sue stesse politiche e calpesta le sue tesi. Parla a ruota libera. È capace di promettere d'impulso la riforma fiscale quando il suo staff ha fatto ben poco a proposito. In secondo luogo, a vent'anni si ha già una certa consapevolezza di sé. Trump invece sembra avere costante necessità di approvazione, di cui va in cerca raccontando storie fantasiose ed eroiche. «In breve ho capito tutto quello che c'è da sapere sull'assistenza sanitaria», ha detto a Time. «Lo hanno detto in tanti che è stato il miglior discorsomai tenuto in quell'aula» ha dichiarato all'Associated Press riferendosi al suo intervento a camere riunite. A sua detta, Trump conosce le portaerei meglio della Marina militare. Nell'intervista all'Economist ha sostenuto di aver inventato l'espressione "priming the pump" (nota già nel 1933). È il campione dell'effetto Dunning-Kruger, la distorsione cognitiva che induce a sopravvalutare le proprie capacità. Pensava sarebbe stato acclamato per il licenziamento di Comey e che la copertura mediatica lo avrebbe premiato. È ora sorpreso che la realtà non corrisponda alle sue fantasie. In terzo luogo, da adulti si riesce a intuire l'impatto che si ha sugli altri, apprendendo arti sottili come la falsa modestia. Ma per Trump gli altri sono scatole nere che forniscono approvazione o disapprovazione. Di conseguenza è trasparente. Il che conduce al suo tradimento di una fonte di intelligence rivelando segreti ai suoi ospiti russi. A quanto sappiamo, non lo ha fatto con cattive intenzioni, ma per superficialità, in cerca dell'approvazione di chi ammira. La vicenda rivela però la pericolosità di un uomo vuoto. In genere si presume che dietro le parole di un presidente ci sia un processo parte di una qualche strategia. Ma le sue affermazioni non vanno necessariamente in una qualche direzione. Eppure il mondo intero impiega le sue capacità analitiche per capire un tizio con poche idee, che gli si accendono come lucciole in un barattolo. «Ci piacerebbe moltissimo capire Trump», scrive David Roberts su Vox. «Potremmo derivarne un certo senso di controllo, o la capacità di predire la sua prossima mossa. Ma se c'è il vuoto lì dentro?». E da quel vuoto è nata una leggerezza che con tutta probabilità ha tradito una fonte di intelligence e messo in pericolo un Paese. New York Times New Service (traduzione Emilia Benghi)
La Repubblica 17.05.17
di Anna Lombardi

La sinistra liberal americana non teme Trump…
L’intervista. 1/Il filosofo Michael Walzer
“L’attrazione istintiva di Donald per le figure forti del pianeta”


«Mi preoccupa di più l'incompetenza di Trump che le sue pulsioni autoritarie. Avrei timori per la nostra democrazia solo in caso di un brutto attacco terroristico. Perché la possibile risposta di questa amministrazione potrebbe travalicare i limiti. Ma nella situazione attuale, no, non ho timori». Micheal Walzer, professore emerito di Princeton, è l'influente filosofo della politica autore di decine di saggi, nonché condirettore di Dissident, la rivista politico-culturale della sinistra liberal americana. Cosa la rende così ottimista? In un duro commento il Financial Times mette in guardia gli americani: le dittature hanno un inizio soft... «L'ammirazione che Donald Trump prova per leader forti come Erdogan, ma anche Putin, è nota. E forse prova anche gli stessi impulsi autoritari. Ma il presidente americano è lontano dal poter agire come quello turco. E per diverse ragioni». Ce ne elenca qualcuna? «La questione religiosa, ad esempio. Trump ha il sostegno dei cristiani evangelici, certo. Ma, a parte il fatto che non è nemmeno uno di loro, parliamo di un movimento che non è nemmeno lontanamente maggioritario. Al contrario Erdogan ha cavalcato un imponente revival religioso. E poi negli Stati Uniti gli equilibri del sistema di potere funzionano: lo abbiamo visto nel caso del bando anti musulmani bloccato dai giudici». Cosa pensa della lealtà del partito repubblicano verso Trump, lo sostengono su tutto... «Cercano solo di spingere la loro agenda. Se Trump dovesse esagerare non esiterebbero a sostituirlo con Mike Pence. Di cui condividono i valori. E che sentono molto di più come uno di loro».