Repubblica 5.1.19
Gialli d’arte
Un’opera michelangiolesca
Lo strano caso del crocifisso eretico
di Antonio Rocca
La
Crocifissione del Museo del Colle del duomo di Viterbo appartiene a una
fortunata serie, di ascendenza michelangiolesca e nasconde un mistero.
L’iconografia consueta prevede il Cristo vivo in uno sfondo oscuro, al
contrario in questa variante il Salvatore è morto e i tre crocifissi
sono immersi in un paesaggio luminoso. La tavoletta è caratterizzata da
intriganti anomalie e da una complessiva discontinuità stilistica. Il
paesaggio è pregevole, così come la resa dei corpi dei crocifissi, il
volto del Cristo è invece troppo piccolo e quasi giustapposto.
Inoltre
i ladroni sembrano abbandonati ai lati della composizione, mentre la
Maddalena s’inserisce goffamente tra la Vergine e la croce. Anomalo è
poi il perizoma, rosa festoso, del Redentore. Infine stupisce che, in
contrasto con il Vangelo, i ladroni siano ritratti vivi e persino
scalcianti, laddove in Giovanni è scritto che i soldati romani gli
spezzarono le gambe prima di colpire Cristo. Date tali incongruenze e le
cadute stilistiche, la critica più attenta all’estetica e
all’attribuzionismo ha archiviato il dipinto tra le stanche repliche del
modello michelangiolesco, senza prestargli eccessiva attenzione.
Era
invece proprio la serrata trama delle anomalie a suggerire aperture su
scenari inediti, ma a quella crocifissione andava riconsegnato un
preciso orizzonte culturale. Premesso che l’analisi del supporto e dei
pigmenti aveva fornito risultati compatibili con la datazione alla metà
del XVI secolo, e dopo aver assunto come termine di partenza i disegni
preparatori delle crocifissioni realizzati da Michelangelo intorno al
1540, si trattava di chiudere la forchetta temporale stabilendo un
termine ultimo. Il primo passo di questa ricerca è stato fornito dal
paesaggio. Nella campagna viterbese sono riconoscibili le terme romane
del Bacucco, più volte disegnate da Michelangelo.
Alle spalle dei
crocifissi sono visibili le cinque colonne che Alessandro Farnese fece
dislocare prima del 1570. Questa traccia di partenza è stata corroborata
da un altro dettaglio, che aiuta a ridurre il range temporale. Nel 1564
Andrea Gilio nei suoi famigerati quanto influenti Dialoghi, fondamento
teorico dell’intervento che emenda i nudi del Giudizio, chiede che i
ladroni siano raffigurati inchiodati alla croce e non legati con funi,
come ancora appaiono nella Crocifissione viterbese. Non erano prove, ma
indizi convergenti utili a orientare la direzione delle indagini.
Sottoposto a una scansione tridimensionale, il dipinto ha evidenziato
una superficie pittorica discontinua che monta in corrispondenza della
Maddalena, mentre recede all’altezza del volto di Cristo. La Maddalena
risultava quindi una figura posticcia, presumibilmente realizzata dallo
stesso mediocre pittore che aveva ridipinto il volto del Cristo. Come
dimostrato da una radiografia la depressione registrata in quest’area è
determinata dall’assenza dello stato di preparazione. Il volto
originario era stato raschiato e quindi malamente ridipinto. La lettura
di questi elementi ci spinge a pensare che un originario Cristo vivo sia
stato modificato e che la Maddalena sia stata aggiunta per ricentrare
la composizione, marginalizzando i due ladroni. Per quale motivo?
Siamo
in periodo conciliare, il tema della giustificazione per opere o per
fede è rovente anche in casa cattolica, all’interno della quale due
fazioni si confrontano apertamente. La prima guidata da Gian Pietro
Carafa, il cardinale che ha ripristinato la Santa Inquisizione, è
schierata su posizioni rigidissime; la seconda, guidata da sir Reginald
Pole, ha elaborato un manifesto dialogante, il Beneficio di Cristo.
Nel
Beneficio, pubblicato a Venezia nel 1543 ma redatto a Viterbo nel 1542,
si tenta di aggirare la dicotomia tra opere e fede facendo perno sulla
virtù salvifica della Passione. Il cristiano è salvo in quanto ha fede
nella potenza redentrice del Beneficio di Cristo. Dato il contesto si
spiega perché Carafa, divenuto pontefice nel 1555, già nell’anno
successivo decretò che i crocifissi non si dipingessero vivi. Il Cristo
che si rivolge al ladrone buono, salvandolo per sola fede, era divenuto
un’icona insopportabile per lo zelante inquisitore. Se Paolo IV non
poteva emendare Giovanni, poteva però inibire la riproposizione di quel
tema, e così fece. Il valore salvifico e aurorale attribuito alla
Passione dà allora ragione anche di quel perizoma rosa. Quell’elemento è
uno stendardo, quasi un sole nell’alba di una nuova era. La Passione è
prefigurazione della perfetta letizia o, per usare le parole di Vittoria
Colonna, "arra" dell’estremo riso. Versi che ben testimoniano il clima
che si respirava nel cenacolo radunatosi attorno al cardinale Pole negli
anni che precedono il concilio. Il sogno che preannuncia la catastrofe.
La giustificazione per fede fu condannata nel 1546, Vittoria Colonna
morì nel 1547, nel conclave del 1549 Pole mancò l’elezione per un
soffio. Da quel momento l’Inquisizione cancellò ogni traccia
dell’Ecclesia viterbiensis, comunità che vantava tra i suoi membri
Michelangelo e Marcantonio Flaminio. Questa piccola tavola,
sopravvissuta grazie a un intervento censorio, è tutto ciò che resta di
una stagione ricca di speranze.
– L’autore, storico dell’arte, ha pubblicato "Bomarzo" (Gangemi)
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 5 gennaio 2019
Corriere 5.1.19
Perché la Sindrome di Stendhal non poteva che nascere a Firenze
Il malessere d’autore. A diagnosticarlo per prima nel 1979 fu Graziella Magherini, guarda caso a Firenze
In edicola oggi con il quotidiano il secondo libro della Storia dell’arte raccontata da Philippe Daverio
di Stefano Bucci
La città toscana ospita un concentrato di capolavori senza eguali al mondo
Una bellezza che sconvolse lo scrittore francese e non smette di affascinare
Certo non si può dire che sia un caso se la famigerata Sindrome di Stendhal, quel malessere che colpisce il viaggiatore davanti alla grandezza dell’arte, sia stata diagnosticata nel 1979 dalla dottoressa Graziella Magherini (che la certificò anche con un libro pubblicato da Ponte alle Grazie) proprio a Firenze.
Perché sembra molto difficile, se non quasi impossibile, trovare un altro luogo che possa vantare un concentrato di capolavori (Botticelli, Caravaggio, Michelangelo sembrano essere gli autori più predisposti a scatenare la sindrome) equivalente a quello della «Città del Fiore». Basta pensare, d’altra parte, che la stessa dottoressa Magherini era responsabile del servizio per la salute mentale dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, il più antico ospedale della città. Che, fondato nel 1288 da Folco Portinari, era stato ampliato nel 1420 dal Chiostro delle Medicherie con gli affreschi di Bicci di Lorenzo. Lo stesso Spedale dove si conservano tuttora (tra l’altro) una terracotta invetriata raffigurante La Pietà di Giovanni della Robbia; un’altra terracotta con la Madonna col Bambino e due angeli attribuita a Michelozzo. E dove, nell’ex Chiostro delle Ossa, si trovava l’affresco staccato rappresentante il Giudizio universale di Fra Bartolomeo, ora al Museo di San Marco.
D’altra parte la stessa denominazione scelta da Magherini non può assolutamente fare a meno ancora una volta di Firenze, visto che sarebbe stato proprio il francese Stendhal (1783-1842), autore della Certosa di Parma ma anche grande appassionato d’arte, a descrivere nel suo Roma, Napoli e Firenze (1817) questa patologia psicosomatica da lui sperimentata in prima persona. Dove e quando? Durante una visita alla Basilica di Santa Croce, a Firenze, quando «venne colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo».
Nell’epoca dei «terzi occhi tecnologici utilizzati per fermare e immagazzinare i capolavori» di Giotto o di Ghirlandaio al posto di quelli fisiologicamente deputati a questa funzione, il malanno che aveva così profondamente segnato lo scrittore francese potrebbe però apparire definitivamente debellato. Come sembrerebbe confermare Grand Tourismo: il progetto-mostra del fotografo fiorentino Giacomo Zaganelli realizzato in collaborazione con la Galleria degli Uffizi (in mostra fino al 24 febbraio nella sala 56 del museo), che in tre video ha voluto certificare «la consuetudine a filtrare l’osservazione dell’opera d’arte attraverso l’obiettivo di smartphone, telecamere, macchine fotografiche». Ma poi si scopre che non è così e che la Sindrome di Stendhal continua a colpire, almeno a Firenze: lo scorso dicembre, un sabato mattina, un turista settantenne si accascia a terra davanti alla Venere di Botticelli (verrà poi salvato con tanto di defibrillatore) proprio agli Uffizi, un altro dei luoghi più pericolosi per gli individui predisposti. Il fatto è che, neppure oggi, si può sfuggire al potere di una tale concentrazione di bellezza come quella di Firenze.
Una concentrazione di classicità rinascimentale (ma non solo) che senza paura è potuta diventare fondale (eccellente) per film come Paisà (1946) di Roberto Rossellini (il Corridoio Vasariano), Ritratto di signora (1996) di Jane Campion con Nicole Kidman (il Duomo), Un tè con Mussolini (1999) di Franco Zeffirelli (la Gipsoteca dell’Istituto d’arte di Porta Romana), La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana (la Biblioteca Nazionale e la Chiesa di Santo Spirito). E persino per un horror di Dario Argento (La Sindrome di Stendhal, appunto, del 1996) e per Hannibal (2001) di Ridley Scott (sequel del Silenzio degli Innocenti) dove il cannibale si muove tranquillamente tra la Biblioteca di Palazzo Capponi, Ponte Vecchio e il Mercato Nuovo.
Il fascino (verrebbe da dire eterno) di Firenze è capace persino di annullare l’«effetto sbeffeggio» dell’irriverente scultura dorata Pluto e Proserpina di Jeff Koons piazzata davanti a Palazzo Vecchio, tra la Fontana del Nettuno dell’Ammannati e il gruppo scultoreo Ercole e Caco di Baccio Bandinelli, come dei 22 gommoni di salvataggio che Ai Weiwei aveva attaccato sulla facciata del quattrocentesco Palazzo Strozzi per Reframe (2006). Quella di Firenze è una bellezza diffusa che trova però alcuni centri di gravità permanenti e per niente immaginari: gli Uffizi, certo, ma anche la Galleria dell’Accademia con il David; la Porta del Paradiso del Ghiberti oggi nel Museo dell’Opera del Duomo; gli affreschi del Beato Angelico nel Convento di San Marco (tanto amati da un maestro dell’arte contemporanea come David Hockney che sogna di ritornare prima o poi a rivederli); la Cappella dei Pazzi del Brunelleschi (quello della Cupola tanto per chiarire); il Bargello con il San Giorgio di Donatello.
O, la chiesa di Santa Maria Novella con la Trinità di Masaccio: «Non grazia delicata, ma figure massicce e pesanti; non curve libere e fluenti, ma forme angolose e solide». Parola di un grande (critico) come Gombrich.
Perché la Sindrome di Stendhal non poteva che nascere a Firenze
Il malessere d’autore. A diagnosticarlo per prima nel 1979 fu Graziella Magherini, guarda caso a Firenze
In edicola oggi con il quotidiano il secondo libro della Storia dell’arte raccontata da Philippe Daverio
di Stefano Bucci
La città toscana ospita un concentrato di capolavori senza eguali al mondo
Una bellezza che sconvolse lo scrittore francese e non smette di affascinare
Certo non si può dire che sia un caso se la famigerata Sindrome di Stendhal, quel malessere che colpisce il viaggiatore davanti alla grandezza dell’arte, sia stata diagnosticata nel 1979 dalla dottoressa Graziella Magherini (che la certificò anche con un libro pubblicato da Ponte alle Grazie) proprio a Firenze.
Perché sembra molto difficile, se non quasi impossibile, trovare un altro luogo che possa vantare un concentrato di capolavori (Botticelli, Caravaggio, Michelangelo sembrano essere gli autori più predisposti a scatenare la sindrome) equivalente a quello della «Città del Fiore». Basta pensare, d’altra parte, che la stessa dottoressa Magherini era responsabile del servizio per la salute mentale dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, il più antico ospedale della città. Che, fondato nel 1288 da Folco Portinari, era stato ampliato nel 1420 dal Chiostro delle Medicherie con gli affreschi di Bicci di Lorenzo. Lo stesso Spedale dove si conservano tuttora (tra l’altro) una terracotta invetriata raffigurante La Pietà di Giovanni della Robbia; un’altra terracotta con la Madonna col Bambino e due angeli attribuita a Michelozzo. E dove, nell’ex Chiostro delle Ossa, si trovava l’affresco staccato rappresentante il Giudizio universale di Fra Bartolomeo, ora al Museo di San Marco.
D’altra parte la stessa denominazione scelta da Magherini non può assolutamente fare a meno ancora una volta di Firenze, visto che sarebbe stato proprio il francese Stendhal (1783-1842), autore della Certosa di Parma ma anche grande appassionato d’arte, a descrivere nel suo Roma, Napoli e Firenze (1817) questa patologia psicosomatica da lui sperimentata in prima persona. Dove e quando? Durante una visita alla Basilica di Santa Croce, a Firenze, quando «venne colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo».
Nell’epoca dei «terzi occhi tecnologici utilizzati per fermare e immagazzinare i capolavori» di Giotto o di Ghirlandaio al posto di quelli fisiologicamente deputati a questa funzione, il malanno che aveva così profondamente segnato lo scrittore francese potrebbe però apparire definitivamente debellato. Come sembrerebbe confermare Grand Tourismo: il progetto-mostra del fotografo fiorentino Giacomo Zaganelli realizzato in collaborazione con la Galleria degli Uffizi (in mostra fino al 24 febbraio nella sala 56 del museo), che in tre video ha voluto certificare «la consuetudine a filtrare l’osservazione dell’opera d’arte attraverso l’obiettivo di smartphone, telecamere, macchine fotografiche». Ma poi si scopre che non è così e che la Sindrome di Stendhal continua a colpire, almeno a Firenze: lo scorso dicembre, un sabato mattina, un turista settantenne si accascia a terra davanti alla Venere di Botticelli (verrà poi salvato con tanto di defibrillatore) proprio agli Uffizi, un altro dei luoghi più pericolosi per gli individui predisposti. Il fatto è che, neppure oggi, si può sfuggire al potere di una tale concentrazione di bellezza come quella di Firenze.
Una concentrazione di classicità rinascimentale (ma non solo) che senza paura è potuta diventare fondale (eccellente) per film come Paisà (1946) di Roberto Rossellini (il Corridoio Vasariano), Ritratto di signora (1996) di Jane Campion con Nicole Kidman (il Duomo), Un tè con Mussolini (1999) di Franco Zeffirelli (la Gipsoteca dell’Istituto d’arte di Porta Romana), La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana (la Biblioteca Nazionale e la Chiesa di Santo Spirito). E persino per un horror di Dario Argento (La Sindrome di Stendhal, appunto, del 1996) e per Hannibal (2001) di Ridley Scott (sequel del Silenzio degli Innocenti) dove il cannibale si muove tranquillamente tra la Biblioteca di Palazzo Capponi, Ponte Vecchio e il Mercato Nuovo.
Il fascino (verrebbe da dire eterno) di Firenze è capace persino di annullare l’«effetto sbeffeggio» dell’irriverente scultura dorata Pluto e Proserpina di Jeff Koons piazzata davanti a Palazzo Vecchio, tra la Fontana del Nettuno dell’Ammannati e il gruppo scultoreo Ercole e Caco di Baccio Bandinelli, come dei 22 gommoni di salvataggio che Ai Weiwei aveva attaccato sulla facciata del quattrocentesco Palazzo Strozzi per Reframe (2006). Quella di Firenze è una bellezza diffusa che trova però alcuni centri di gravità permanenti e per niente immaginari: gli Uffizi, certo, ma anche la Galleria dell’Accademia con il David; la Porta del Paradiso del Ghiberti oggi nel Museo dell’Opera del Duomo; gli affreschi del Beato Angelico nel Convento di San Marco (tanto amati da un maestro dell’arte contemporanea come David Hockney che sogna di ritornare prima o poi a rivederli); la Cappella dei Pazzi del Brunelleschi (quello della Cupola tanto per chiarire); il Bargello con il San Giorgio di Donatello.
O, la chiesa di Santa Maria Novella con la Trinità di Masaccio: «Non grazia delicata, ma figure massicce e pesanti; non curve libere e fluenti, ma forme angolose e solide». Parola di un grande (critico) come Gombrich.
Corriere 5.1.19
Dalle chiese di provincia agli scheletri di Bergamo
Daverio guida un «grand tour» nel Museo Italia
di Roberta Scorranese
Lo sapevate che a Milano c’è una chiesa con un affresco che raffigura una Madonna con le corna? E che a Bergamo, dietro l’altare di una apparentemente anonima chiesetta, ci sono dei dipinti che rappresentano scheletri vestiti da frati e coppie borghesi?
Il museo più bello d’Italia è l’Italia stessa, ci dice Philippe Daverio che ha da poco pubblicato uno dei suoi libri più belli, Grand Tour d’Italia — A piccoli passi (Rizzoli): non tanto una semplice «passeggiata d’autore» tra palazzi, musei, borghi d’arte e opere preziose, quanto un invito (nobile) a un sentimento raro e colto, cioè la maraviglia. Nella sua accezione cartesiana è quello stupore che ci fa perdere in una cosa, in una persona, in un’idea, mossi da uno stupore infantile e per questo divertito, un po’ come il temperamento dello storico dell’arte franco-milanese, le cui inflessioni nel parlato sono un involontario omaggio al sincretismo di Napoleone.
Bulimico di curiosità, ricchissimo di conoscenze culturali, eclettico nella preparazione, Daverio ha un segreto: il suo inesauribile divertimento nel discettare di certe cose. Della Certosa di Padula come della calata dei francesi in Italia (una delle tante), della Basilica di Sant’Eustorgio di Milano (quella con la Madonna con le corna, simbologia che allude all’inganno diabolico) come del «tagliatissimo gusto gotico» degli Angioini che si rintraccia a Sulmona. Partendo sempre dalla provincia, dal marginale, dall’inatteso, dalla sorpresa: chiave questa che ha guidato non solo le sue note trasmissioni televisive ma anche un suo libro meno conosciuto, L’arte di guardare l’arte, cioè un punto di vista spiazzante su pittura, architettura, scultura.
E in questo Grand Tour c’è il Daverio che ameranno tutti quelli che lo seguono da anni, nelle conferenze pubbliche fino agli itinerari televisivi e nelle sue collaborazioni con quotidiani come il nostro. Da dove cominciare? Bella domanda, perché non c’è un «centro», bensì una multipolarità di luoghi e di visioni che il bello, alla fine, risulta proprio perdersi. L’abbazia di Chiaravalle con i suoi scaloni affrescati, il «pezzo di gotico francese» che la storia (e la strategia dei Savoia) ha depositato nella piccola Saluzzo, la Biblioteca Malatestiana di Cesena con tanto di aneddoto (è stata voluta da Novello Malatesta, fratello del più famoso Sigismondo ma meno litigioso), la meravigliosa cupola della Sagrestia di San Marco nella Basilica di Loreto, con affreschi di Melozzo da Forlì, emblema di quella contaminazione tra le Marche e l’Emilia Romagna che si sente nei borghi assolati, nei lungomare luccicanti al tramonto. Daverio snoda e riannoda fili: Duccio di Buoninsegna, per esempio, del quale la Maestà senese è l’opera chiave, è stato uno che nel Duecento unì la latinità con la tensione del mondo del Nord. Carlo Borromeo, che prima di diventare santo è stato legato cardinale a Bologna e che qui ha lasciato un’opera straordinaria come l’Archiginnasio. Qui, nel Teatro anatomico, si sezionavano cadaveri e sarà a questo punto che il lettore curioso, quello maravigliato non si fermerà e andrà oltre, magari da solo: perché la prossima volta non andare a visitare il Museo delle cere anatomiche di Clemente Susini a Cagliari? E perché non fare un confronto tra il Teatro anatomico bolognese e quello di Padova, il più antico al mondo, voluto da Girolamo Fabrici d’Acquapendente nel 1594? Non fermiamoci: il pensiero corre all’opera più famosa in questo versante, cioè Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt. E perché non acquistare gli scritti di Gottfried Benn, Morgue e altre poesie?
Ecco la curiosità che stimola Daverio con i suoi libri: una meditata incapacità di restare a casa, anche d’inverno, anche con la neve.
Dalle chiese di provincia agli scheletri di Bergamo
Daverio guida un «grand tour» nel Museo Italia
di Roberta Scorranese
Lo sapevate che a Milano c’è una chiesa con un affresco che raffigura una Madonna con le corna? E che a Bergamo, dietro l’altare di una apparentemente anonima chiesetta, ci sono dei dipinti che rappresentano scheletri vestiti da frati e coppie borghesi?
Il museo più bello d’Italia è l’Italia stessa, ci dice Philippe Daverio che ha da poco pubblicato uno dei suoi libri più belli, Grand Tour d’Italia — A piccoli passi (Rizzoli): non tanto una semplice «passeggiata d’autore» tra palazzi, musei, borghi d’arte e opere preziose, quanto un invito (nobile) a un sentimento raro e colto, cioè la maraviglia. Nella sua accezione cartesiana è quello stupore che ci fa perdere in una cosa, in una persona, in un’idea, mossi da uno stupore infantile e per questo divertito, un po’ come il temperamento dello storico dell’arte franco-milanese, le cui inflessioni nel parlato sono un involontario omaggio al sincretismo di Napoleone.
Bulimico di curiosità, ricchissimo di conoscenze culturali, eclettico nella preparazione, Daverio ha un segreto: il suo inesauribile divertimento nel discettare di certe cose. Della Certosa di Padula come della calata dei francesi in Italia (una delle tante), della Basilica di Sant’Eustorgio di Milano (quella con la Madonna con le corna, simbologia che allude all’inganno diabolico) come del «tagliatissimo gusto gotico» degli Angioini che si rintraccia a Sulmona. Partendo sempre dalla provincia, dal marginale, dall’inatteso, dalla sorpresa: chiave questa che ha guidato non solo le sue note trasmissioni televisive ma anche un suo libro meno conosciuto, L’arte di guardare l’arte, cioè un punto di vista spiazzante su pittura, architettura, scultura.
E in questo Grand Tour c’è il Daverio che ameranno tutti quelli che lo seguono da anni, nelle conferenze pubbliche fino agli itinerari televisivi e nelle sue collaborazioni con quotidiani come il nostro. Da dove cominciare? Bella domanda, perché non c’è un «centro», bensì una multipolarità di luoghi e di visioni che il bello, alla fine, risulta proprio perdersi. L’abbazia di Chiaravalle con i suoi scaloni affrescati, il «pezzo di gotico francese» che la storia (e la strategia dei Savoia) ha depositato nella piccola Saluzzo, la Biblioteca Malatestiana di Cesena con tanto di aneddoto (è stata voluta da Novello Malatesta, fratello del più famoso Sigismondo ma meno litigioso), la meravigliosa cupola della Sagrestia di San Marco nella Basilica di Loreto, con affreschi di Melozzo da Forlì, emblema di quella contaminazione tra le Marche e l’Emilia Romagna che si sente nei borghi assolati, nei lungomare luccicanti al tramonto. Daverio snoda e riannoda fili: Duccio di Buoninsegna, per esempio, del quale la Maestà senese è l’opera chiave, è stato uno che nel Duecento unì la latinità con la tensione del mondo del Nord. Carlo Borromeo, che prima di diventare santo è stato legato cardinale a Bologna e che qui ha lasciato un’opera straordinaria come l’Archiginnasio. Qui, nel Teatro anatomico, si sezionavano cadaveri e sarà a questo punto che il lettore curioso, quello maravigliato non si fermerà e andrà oltre, magari da solo: perché la prossima volta non andare a visitare il Museo delle cere anatomiche di Clemente Susini a Cagliari? E perché non fare un confronto tra il Teatro anatomico bolognese e quello di Padova, il più antico al mondo, voluto da Girolamo Fabrici d’Acquapendente nel 1594? Non fermiamoci: il pensiero corre all’opera più famosa in questo versante, cioè Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt. E perché non acquistare gli scritti di Gottfried Benn, Morgue e altre poesie?
Ecco la curiosità che stimola Daverio con i suoi libri: una meditata incapacità di restare a casa, anche d’inverno, anche con la neve.
Corriere 5.1.19
Un libro di Roberto Pertici
Con la nuova politica post-nazionale a nessuno importa più del passato
di Antonio Carioti
Importa qualcosa della storia d’Italia alla classe dirigente attuale? Pare di no, a giudicare dai frequenti svarioni dei politici e dal ridimensionamento che questa materia ha subito nelle prove di maturità. Del resto gli ultimi temi di storia assegnati in sede di esame erano alquanto scombinati. Le radici del fenomeno sono individuate da Roberto Pertici in uno dei saggi contenuti nel suo libro La cultura storica dell’Italia unita (Viella, pagine 351, € 34). I partiti della prima Repubblica coltivavano ciascuno la sua «idea dell’Italia» basata su un’interpretazione del passato, e in particolare del Risorgimento, ma la tensione culturale venne gradualmente meno con la trasformazione di quelle forze in «macchine di potere e di creazione clientelare del consenso». La svolta dei primi anni Novanta, lungi dal migliorarla, ha fatto precipitare la situazione, poiché ne sono scaturite formazioni «post-nazionali», nota Pertici, il cui interesse per la storia è sceso sottozero, se non in funzione strumentale e occasionale. Ieri negavano l’esistenza stessa di un’identità nazionale italiana in nome del secessionismo padano, oggi sventolano il tricolore. Con la stessa disinvolta superficialità.
Un libro di Roberto Pertici
Con la nuova politica post-nazionale a nessuno importa più del passato
di Antonio Carioti
Importa qualcosa della storia d’Italia alla classe dirigente attuale? Pare di no, a giudicare dai frequenti svarioni dei politici e dal ridimensionamento che questa materia ha subito nelle prove di maturità. Del resto gli ultimi temi di storia assegnati in sede di esame erano alquanto scombinati. Le radici del fenomeno sono individuate da Roberto Pertici in uno dei saggi contenuti nel suo libro La cultura storica dell’Italia unita (Viella, pagine 351, € 34). I partiti della prima Repubblica coltivavano ciascuno la sua «idea dell’Italia» basata su un’interpretazione del passato, e in particolare del Risorgimento, ma la tensione culturale venne gradualmente meno con la trasformazione di quelle forze in «macchine di potere e di creazione clientelare del consenso». La svolta dei primi anni Novanta, lungi dal migliorarla, ha fatto precipitare la situazione, poiché ne sono scaturite formazioni «post-nazionali», nota Pertici, il cui interesse per la storia è sceso sottozero, se non in funzione strumentale e occasionale. Ieri negavano l’esistenza stessa di un’identità nazionale italiana in nome del secessionismo padano, oggi sventolano il tricolore. Con la stessa disinvolta superficialità.
Corriere 5.1.19
Guelfi e ghibellini, il mito da smontare
Solo etichette fluide per lotte di potere
Medioevo La ricostruzione di Paolo Grillo (Salerno) dimostra che in realtà una contrapposizione ideologica netta tra le due fazioni non è mai esistita
di Amedeo Feniello
Guelfi e ghibellini. Poli di una contrapposizione ideologica che ha attraversato il Medioevo, ma anche termini che ritornano ancora adesso: veri e propri passe-partout retorici, da utilizzare nelle circostanze più svariate. Basta solo inserirli nel database di un giornale come quello che state leggendo e vi accorgerete che i riferimenti all’epoca in cui vennero davvero usati, il Medioevo, sono davvero pochi. «Solo per menzionare gli articoli più recenti, li usano i fautori e detrattori dell’uso della Var durante il campionato di calcio, dell’istituzione della zona a traffico limitato nel centro di Firenze, di una mozione sull’antifascismo discussa nel consiglio comunale di Torino, delle vaccinazioni obbligatorie e, per finire, di un particolare formaggio vegano a base di zucchine». Sono parole di Paolo Grillo, storico del Medioevo italiano, che, con ironia, ritorna sul tema della storia del rapporto tra guelfi e ghibellini in Italia nel volume La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell’Italia del Duecento (Salerno).
La prima, opportuna operazione da lui compiuta è stata depurare la diade guelfi/ghibellini dalla incombente sovrastruttura ideologica e attualizzante. Lavoro spinoso, che gli ha consentito però di offrire, degli eventi politici del basso Medioevo italiano, uno spaccato molto più sfaccettato di quanto si immagini. Non è vero, osserva Grillo, che all’epoca «tutta la vita pubblica si organizzasse attorno a tale polarizzazione. Essa era invece legata all’interesse di specifici gruppi di potere — talvolta interni al mondo comunale, talvolta estranei — che manipolavano a loro vantaggio il conflitto».
I due termini nascono negli anni Quaranta del XIII secolo in Toscana e divengono di uso generale in tutta Italia solo diversi decenni dopo. Prima di allora si parlava solo di «parte della Chiesa» e di «parte dell’Impero», senza specificare con esattezza appartenenze, gruppi, delimitazioni politiche, o adottando qualificazioni o appellativi. È probabile che i termini guelfi e ghibellini «rimandassero all’aspra contesa per il controllo della corona imperiale svoltasi fra il 1212 e il 1215 tra Federico II di Svevia, appoggiato da papa Innocenzo III, e Ottone IV di Brunswick. Ottone, infatti, discendeva dal duca Guelfo (Welf) di Baviera; a sua volta Federico apparteneva alla casata di Svevia, il cui castello avito era Weiblingen (Ghibellino, in italiano)». Nonostante ciò, non sembra che i campi avversi abbiano adottato allora i due termini per identificare la propria posizione politica. Dobbiamo invece ai fiorentini il loro battesimo, per definire proprio i membri della cittadinanza che parteggiavano per il papa o, viceversa, per l’imperatore. E quest’uso, per circa un ventennio, rimase un’esclusiva toscana. Finché il cronista angioino Andrea Ungaro, nel raccontare la battaglia di Benevento del 1266, sdogana i due termini, conferendo loro un «valore generale, valido per l’intera penisola, imitato, nei primi anni Ottanta del Duecento, dal cronista romano Saba Malaspina». Da allora, il fluire delle due demarcazioni diventa universale e si dipana con l’assumere quei connotati che siamo abituati, sin dai banchi di scuola, a conoscere. Il leitmotiv dello scontro politico nell’Italia medievale.
Ma Grillo smonta proprio la vulgata della contrapposizione netta tra i due schieramenti. La situazione, delle città italiane, sottolinea, fu molto più fluida. Le dichiarazioni di fedeltà all’Impero o alla Chiesa «coprivano in effetti una realtà politica e una prassi diplomatica assai più elastiche e più duttili. Esse potevano essere piegate o distorte lessicalmente per rivestire con una patina ideologica le scelte dei partiti al governo, oppure potevano venir semplicemente ignorate, nella costruzione di alleanze motivate da contingenze particolari».
Pure per le famiglie e le persone l’adesione a uno schieramento o all’altro non rappresentò mai una scelta di campo definitiva, destinata a segnare un’intera vita o addirittura quella di più generazioni. E se fu evidente che intorno alle idee guelfa e ghibellina si andarono consolidando alcuni tratti identitari della cultura politica del tempo, esse «non furono mai davvero cogenti nel determinare l’agire di chi vi aderiva».
Guelfismo e ghibellinismo, insomma, come parte di un gioco politico fluido e sfumato, aperto e indefinito, con una contrapposizione che prendeva consistenza quando qualcuno aveva interesse ad alimentarla, specie se il parteggiare si poteva rivelare utile per creare alleanze sovracittadine o ampi coordinamenti su scala «nazionale». Una partizione della società urbana che continuò a lungo, fino alle guerre d’Italia, nel Cinquecento. Ma si trattava, ormai, conclude Grillo, solo «di nomi tradizionali che non evocavano più alcuna posizione significativa sotto il profilo ideologico».
Guelfi e ghibellini, il mito da smontare
Solo etichette fluide per lotte di potere
Medioevo La ricostruzione di Paolo Grillo (Salerno) dimostra che in realtà una contrapposizione ideologica netta tra le due fazioni non è mai esistita
di Amedeo Feniello
Guelfi e ghibellini. Poli di una contrapposizione ideologica che ha attraversato il Medioevo, ma anche termini che ritornano ancora adesso: veri e propri passe-partout retorici, da utilizzare nelle circostanze più svariate. Basta solo inserirli nel database di un giornale come quello che state leggendo e vi accorgerete che i riferimenti all’epoca in cui vennero davvero usati, il Medioevo, sono davvero pochi. «Solo per menzionare gli articoli più recenti, li usano i fautori e detrattori dell’uso della Var durante il campionato di calcio, dell’istituzione della zona a traffico limitato nel centro di Firenze, di una mozione sull’antifascismo discussa nel consiglio comunale di Torino, delle vaccinazioni obbligatorie e, per finire, di un particolare formaggio vegano a base di zucchine». Sono parole di Paolo Grillo, storico del Medioevo italiano, che, con ironia, ritorna sul tema della storia del rapporto tra guelfi e ghibellini in Italia nel volume La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell’Italia del Duecento (Salerno).
La prima, opportuna operazione da lui compiuta è stata depurare la diade guelfi/ghibellini dalla incombente sovrastruttura ideologica e attualizzante. Lavoro spinoso, che gli ha consentito però di offrire, degli eventi politici del basso Medioevo italiano, uno spaccato molto più sfaccettato di quanto si immagini. Non è vero, osserva Grillo, che all’epoca «tutta la vita pubblica si organizzasse attorno a tale polarizzazione. Essa era invece legata all’interesse di specifici gruppi di potere — talvolta interni al mondo comunale, talvolta estranei — che manipolavano a loro vantaggio il conflitto».
I due termini nascono negli anni Quaranta del XIII secolo in Toscana e divengono di uso generale in tutta Italia solo diversi decenni dopo. Prima di allora si parlava solo di «parte della Chiesa» e di «parte dell’Impero», senza specificare con esattezza appartenenze, gruppi, delimitazioni politiche, o adottando qualificazioni o appellativi. È probabile che i termini guelfi e ghibellini «rimandassero all’aspra contesa per il controllo della corona imperiale svoltasi fra il 1212 e il 1215 tra Federico II di Svevia, appoggiato da papa Innocenzo III, e Ottone IV di Brunswick. Ottone, infatti, discendeva dal duca Guelfo (Welf) di Baviera; a sua volta Federico apparteneva alla casata di Svevia, il cui castello avito era Weiblingen (Ghibellino, in italiano)». Nonostante ciò, non sembra che i campi avversi abbiano adottato allora i due termini per identificare la propria posizione politica. Dobbiamo invece ai fiorentini il loro battesimo, per definire proprio i membri della cittadinanza che parteggiavano per il papa o, viceversa, per l’imperatore. E quest’uso, per circa un ventennio, rimase un’esclusiva toscana. Finché il cronista angioino Andrea Ungaro, nel raccontare la battaglia di Benevento del 1266, sdogana i due termini, conferendo loro un «valore generale, valido per l’intera penisola, imitato, nei primi anni Ottanta del Duecento, dal cronista romano Saba Malaspina». Da allora, il fluire delle due demarcazioni diventa universale e si dipana con l’assumere quei connotati che siamo abituati, sin dai banchi di scuola, a conoscere. Il leitmotiv dello scontro politico nell’Italia medievale.
Ma Grillo smonta proprio la vulgata della contrapposizione netta tra i due schieramenti. La situazione, delle città italiane, sottolinea, fu molto più fluida. Le dichiarazioni di fedeltà all’Impero o alla Chiesa «coprivano in effetti una realtà politica e una prassi diplomatica assai più elastiche e più duttili. Esse potevano essere piegate o distorte lessicalmente per rivestire con una patina ideologica le scelte dei partiti al governo, oppure potevano venir semplicemente ignorate, nella costruzione di alleanze motivate da contingenze particolari».
Pure per le famiglie e le persone l’adesione a uno schieramento o all’altro non rappresentò mai una scelta di campo definitiva, destinata a segnare un’intera vita o addirittura quella di più generazioni. E se fu evidente che intorno alle idee guelfa e ghibellina si andarono consolidando alcuni tratti identitari della cultura politica del tempo, esse «non furono mai davvero cogenti nel determinare l’agire di chi vi aderiva».
Guelfismo e ghibellinismo, insomma, come parte di un gioco politico fluido e sfumato, aperto e indefinito, con una contrapposizione che prendeva consistenza quando qualcuno aveva interesse ad alimentarla, specie se il parteggiare si poteva rivelare utile per creare alleanze sovracittadine o ampi coordinamenti su scala «nazionale». Una partizione della società urbana che continuò a lungo, fino alle guerre d’Italia, nel Cinquecento. Ma si trattava, ormai, conclude Grillo, solo «di nomi tradizionali che non evocavano più alcuna posizione significativa sotto il profilo ideologico».
La Stampa 5.1.19
La furia del genocidio
Shoah, un quarto delle vittime venne sterminata dai nazisti nell’arco di appena 100 giorni
di Marcello Pezzetti
Generalmente si ritiene che la Shoah sia stata una specie di onda che, come quella provocata da uno tsunami, sia partita, con dimensioni ridotte, da un preciso punto - in questo caso la Germania - e si sia via via ingigantita violentemente, devastando territori sempre più consistenti - l’intera Europa, oltre a buona parte dell’Unione Sovietica -, provocando nel corso del tempo un numero sempre più alto di vittime. Nell’Europa occidentale, ma soprattutto in Italia, dove la persecuzione delle vite iniziò solo nell’autunno del 1943, si ritiene dunque che il processo di distruzione degli ebrei abbia raggiunto il culmine nel 1944.
Come prova di ciò si fa riferimento alla storia del campo di Auschwitz-Birkenau, luogo di destinazione della quasi totalità degli ebrei dell’Europa occidentale e del Sud, che raggiunse la sua più imponente capacità di messa a morte proprio tra la primavera e l’estate del 1944.
Ora, una pubblicazione del professore israeliano Lewi Stone ha il merito di mettere seriamente in dubbio la correttezza dell’approccio storico appena esposto. Mettendo a confronto, soprattutto attraverso comparazioni statistiche, le dimensioni delle più gravi tragedie della storia del XX secolo, egli arriva a sottolineare il fatto che la Shoah ha avuto il suo picco non solo due anni prima di quanto non si tenda a pensare, ovvero nel 1942, ma che addirittura nel corso di soli 100 giorni ha mostrato una dimensione omicida di gran lunga superiore a quella dello sterminio di massa considerato come il più «concentrato» della storia, il genocidio dei tutsi avvenuto in Ruanda tra l’aprile e il luglio del 1994.
In effetti da alcuni anni gli storici specialisti della politica omicida nazista, soprattutto quelli tedeschi, hanno concentrato le loro ricerche su due periodi focali per la comprensione della storia del Novecento: quello che è avvenuto nel Reich nell’autunno del 1941, ovvero la decisione dello sterminio, e quello che è successo nell’Est dell’Europa nella seconda metà del 1942, ovvero la concretizzazione più intensa di tale progetto.
L’eliminazione della popolazione ebraica europea era iniziata nell’estate del 1941 con le fucilazioni di massa compiute dalle Einsatzgruppen, truppe speciali che incominciarono ad uccidere gli ebrei nei paesi baltici, in Bielorussia e in Ucraina, ma fu nella primavera del 1942 che i nazisti misero in atto due spaventosi progetti che non avevano precedenti della storia: l’«Aktion Reinhardt» e il «piano Auschwitz». Il primo consisteva nell’uccisione della popolazione ebraica che stava ormai morendo di fame e di malattie all’interno dei ghetti nel Governatorato Generale (il cuore dell’ex territorio della Polonia); il secondo nell’eliminazione dell’ebraismo dell’Europa occidentale, dai Paesi Bassi all’isola di Rodi. Le autorità naziste arrivarono alla conclusione che per raggiungere tale obiettivo si dovesse far ricorso principalmente alla deportazione delle vittime in luoghi dove le uccisioni fossero effettuate utilizzando il gas e si dovessero lasciare in vita soltanto pochissimi lavoratori indispensabili.
Tale piano generale, che non aveva alcun precedente in nessun tipo di civiltà, si concretizzò tra la primavera e l’estate del 1942 con l’attivazione di strutture adatte allo scopo: i campi della morte. Ma se i due progetti ebbero uno sviluppo tutt’altro che uguale (nel complesso di Auschwitz-Birkenau si assistette a un costante ingrandimento delle strutture di sterminio, per cui solo agli inizi dell’estate del 1944 entrarono in funzione impianti di messa a morte «tecnologicamente avanzati», i cosiddetti Krematorium «moderni», dotati di gigantesche camere a gas e una serie di forni per la liquidazione dei cadaveri), il periodo in cui venne raggiunta la più alta capacità complessiva di messa a morte di civili nella storia furono quei 100 giorni messi in evidenza dal professor Stone. Insieme funzionarono, infatti, le strutture di un sistema di sterminio con i Gaswagen – camion in cui si immetteva all’interno dei cassoni il gas di scarico dei motori, attraverso i tubi di scappamento – a Chełmno (Kulmhof), in una regione dell’ex Polonia occidentale annessa al Reich; i primi impianti a gas di Birkenau (Bunker 1 e 2); i tre campi dell’«Aktion Reinhardt» nel Governatorato Generale, le camere a gas «sperimentali» del campo di Majdanek, nei pressi di Lublino, oltre al fatto che continuò l’omicidio di massa delle Einsatzgruppen e di altri battaglioni di polizia con fucilazioni e uso di Gaswagen.
Per comprendere l’ampiezza dello sterminio, tuttavia, è necessario considerare soprattutto l’operazione omicida attuata all’interno del Governatorato Generale, denominata «Aktion Reinhardt» in onore del capo della Polizia di sicurezza, Reinhard Heydrich, ucciso in un attentato da resistenti cechi. Tale Aktion era effettuata in tre campi: Belzec, tra Cravovia e Leopoli, Sobibor, vicino a Lublino, e Treblinka, tra Varsavia e Białystok. Questi erano strutturati in modo simile: le vittime arrivavano direttamente su una rampa ferroviaria posta all’interno del campo stesso; venivano poi portate in un’area in cui si svestivano e consegnavano i loro averi; alle donne venivano tagliati i capelli e quindi tutti erano diretti nelle camere a gas in cui veniva immesso gas di scarico prodotto da motori installati in piccoli locali adiacenti. I loro cadaveri infine venivano gettati in enormi fosse e – come nel caso di Kulmhof – disseppelliti e bruciati durante il 1943.
Un genocidio di così ampie dimensioni e compiuto in uno spazio temporale così ristretto fu possibile perché gli esecutori agirono disponendo di un margine di manovra illimitato, non frenati da alcun tipo di vincoli burocratici, potendo fare uso indiscriminato della forza, ricorrendo in molti casi alla corruzione, in un ambiente privo di scrupoli, senza trovare alcuna resistenza, nella maggior parte dei casi con il sostegno di forze locali in un contesto vigorosamente antisemita, in cui le vittime – gli ebrei, ma, non dimentichiamolo, in parte anche i Sinti e i Rom – erano completamente indifese.
Solo a Treblinka furono uccise fra agosto e ottobre più di 600.000 persone, la maggior parte in sole tre camere a gas iniziali non progettate per lo sterminio di così tanta gente, ad opera di una quarantina di tedeschi e di circa 120 ex prigionieri di guerra sovietici collaborazionisti. Auschwitz avrebbe assunto il ruolo di campo principale della Shoah solo dopo il 1943.
Una storia «europea» non ancora entrata a far parte della nostra memoria collettiva.
La furia del genocidio
Shoah, un quarto delle vittime venne sterminata dai nazisti nell’arco di appena 100 giorni
di Marcello Pezzetti
Generalmente si ritiene che la Shoah sia stata una specie di onda che, come quella provocata da uno tsunami, sia partita, con dimensioni ridotte, da un preciso punto - in questo caso la Germania - e si sia via via ingigantita violentemente, devastando territori sempre più consistenti - l’intera Europa, oltre a buona parte dell’Unione Sovietica -, provocando nel corso del tempo un numero sempre più alto di vittime. Nell’Europa occidentale, ma soprattutto in Italia, dove la persecuzione delle vite iniziò solo nell’autunno del 1943, si ritiene dunque che il processo di distruzione degli ebrei abbia raggiunto il culmine nel 1944.
Come prova di ciò si fa riferimento alla storia del campo di Auschwitz-Birkenau, luogo di destinazione della quasi totalità degli ebrei dell’Europa occidentale e del Sud, che raggiunse la sua più imponente capacità di messa a morte proprio tra la primavera e l’estate del 1944.
Ora, una pubblicazione del professore israeliano Lewi Stone ha il merito di mettere seriamente in dubbio la correttezza dell’approccio storico appena esposto. Mettendo a confronto, soprattutto attraverso comparazioni statistiche, le dimensioni delle più gravi tragedie della storia del XX secolo, egli arriva a sottolineare il fatto che la Shoah ha avuto il suo picco non solo due anni prima di quanto non si tenda a pensare, ovvero nel 1942, ma che addirittura nel corso di soli 100 giorni ha mostrato una dimensione omicida di gran lunga superiore a quella dello sterminio di massa considerato come il più «concentrato» della storia, il genocidio dei tutsi avvenuto in Ruanda tra l’aprile e il luglio del 1994.
In effetti da alcuni anni gli storici specialisti della politica omicida nazista, soprattutto quelli tedeschi, hanno concentrato le loro ricerche su due periodi focali per la comprensione della storia del Novecento: quello che è avvenuto nel Reich nell’autunno del 1941, ovvero la decisione dello sterminio, e quello che è successo nell’Est dell’Europa nella seconda metà del 1942, ovvero la concretizzazione più intensa di tale progetto.
L’eliminazione della popolazione ebraica europea era iniziata nell’estate del 1941 con le fucilazioni di massa compiute dalle Einsatzgruppen, truppe speciali che incominciarono ad uccidere gli ebrei nei paesi baltici, in Bielorussia e in Ucraina, ma fu nella primavera del 1942 che i nazisti misero in atto due spaventosi progetti che non avevano precedenti della storia: l’«Aktion Reinhardt» e il «piano Auschwitz». Il primo consisteva nell’uccisione della popolazione ebraica che stava ormai morendo di fame e di malattie all’interno dei ghetti nel Governatorato Generale (il cuore dell’ex territorio della Polonia); il secondo nell’eliminazione dell’ebraismo dell’Europa occidentale, dai Paesi Bassi all’isola di Rodi. Le autorità naziste arrivarono alla conclusione che per raggiungere tale obiettivo si dovesse far ricorso principalmente alla deportazione delle vittime in luoghi dove le uccisioni fossero effettuate utilizzando il gas e si dovessero lasciare in vita soltanto pochissimi lavoratori indispensabili.
Tale piano generale, che non aveva alcun precedente in nessun tipo di civiltà, si concretizzò tra la primavera e l’estate del 1942 con l’attivazione di strutture adatte allo scopo: i campi della morte. Ma se i due progetti ebbero uno sviluppo tutt’altro che uguale (nel complesso di Auschwitz-Birkenau si assistette a un costante ingrandimento delle strutture di sterminio, per cui solo agli inizi dell’estate del 1944 entrarono in funzione impianti di messa a morte «tecnologicamente avanzati», i cosiddetti Krematorium «moderni», dotati di gigantesche camere a gas e una serie di forni per la liquidazione dei cadaveri), il periodo in cui venne raggiunta la più alta capacità complessiva di messa a morte di civili nella storia furono quei 100 giorni messi in evidenza dal professor Stone. Insieme funzionarono, infatti, le strutture di un sistema di sterminio con i Gaswagen – camion in cui si immetteva all’interno dei cassoni il gas di scarico dei motori, attraverso i tubi di scappamento – a Chełmno (Kulmhof), in una regione dell’ex Polonia occidentale annessa al Reich; i primi impianti a gas di Birkenau (Bunker 1 e 2); i tre campi dell’«Aktion Reinhardt» nel Governatorato Generale, le camere a gas «sperimentali» del campo di Majdanek, nei pressi di Lublino, oltre al fatto che continuò l’omicidio di massa delle Einsatzgruppen e di altri battaglioni di polizia con fucilazioni e uso di Gaswagen.
Per comprendere l’ampiezza dello sterminio, tuttavia, è necessario considerare soprattutto l’operazione omicida attuata all’interno del Governatorato Generale, denominata «Aktion Reinhardt» in onore del capo della Polizia di sicurezza, Reinhard Heydrich, ucciso in un attentato da resistenti cechi. Tale Aktion era effettuata in tre campi: Belzec, tra Cravovia e Leopoli, Sobibor, vicino a Lublino, e Treblinka, tra Varsavia e Białystok. Questi erano strutturati in modo simile: le vittime arrivavano direttamente su una rampa ferroviaria posta all’interno del campo stesso; venivano poi portate in un’area in cui si svestivano e consegnavano i loro averi; alle donne venivano tagliati i capelli e quindi tutti erano diretti nelle camere a gas in cui veniva immesso gas di scarico prodotto da motori installati in piccoli locali adiacenti. I loro cadaveri infine venivano gettati in enormi fosse e – come nel caso di Kulmhof – disseppelliti e bruciati durante il 1943.
Un genocidio di così ampie dimensioni e compiuto in uno spazio temporale così ristretto fu possibile perché gli esecutori agirono disponendo di un margine di manovra illimitato, non frenati da alcun tipo di vincoli burocratici, potendo fare uso indiscriminato della forza, ricorrendo in molti casi alla corruzione, in un ambiente privo di scrupoli, senza trovare alcuna resistenza, nella maggior parte dei casi con il sostegno di forze locali in un contesto vigorosamente antisemita, in cui le vittime – gli ebrei, ma, non dimentichiamolo, in parte anche i Sinti e i Rom – erano completamente indifese.
Solo a Treblinka furono uccise fra agosto e ottobre più di 600.000 persone, la maggior parte in sole tre camere a gas iniziali non progettate per lo sterminio di così tanta gente, ad opera di una quarantina di tedeschi e di circa 120 ex prigionieri di guerra sovietici collaborazionisti. Auschwitz avrebbe assunto il ruolo di campo principale della Shoah solo dopo il 1943.
Una storia «europea» non ancora entrata a far parte della nostra memoria collettiva.
Corriere 5.1.19
Scrivere a mano fa bene
Aiuta a pensare ed esprimersi meglio (in modo unico) Da Harvard alla Cina il ritorno al culto della bella grafia
di Candida Morvillo
Pare che stia tornando di moda scrivere a mano. Un’inchiesta del magazine americano Medium racconta che, ultimamente, molti professori di Harvard impongono agli studenti di prendere appunti manuali invece che su computer e tablet, e che in Arizona e North Carolina le scuole hanno lanciato campagne per insegnare correttamente il corsivo. In Cina, c’è un movimento per riappropriarsi della capacità di scrivere di proprio pugno: disabituarsi a maneggiare i loro difficili caratteri starebbe depauperando la memoria nazionale.
Anche l’Italia si sta scoprendo un popolo di scriventi oltre che di digitatori. Nel 2015 è nata l’associazione Smed (Scrivere a mano nell’era digitale). Riunisce insegnanti e calligrafi, organizza corsi da Roma in su, per «evitare un impoverimento della motricità fine, della memoria visuale e motoria, dell’organizzazione cognitiva della scrittura e della capacità di esprimere noi stessi in modo unico, immediato, personale». L’Aci, Associazione calligrafica italiana, sta registrando il boom d’iscrizioni ai suoi corsi, una cinquantina l’anno. Fenomeno, questo, globale, almeno da quando si sa che la duchessa Meghan Markle, da ragazza, per lavoro, scriveva inviti ai matrimoni.
La vicepresidente dell’Aci Anna Schettin racconta al Corriere: «Scrivere in bella grafia è un’attività lenta e tutti abbiamo bisogno di rallentare. Le persone stanno scoprendo che la grafia è personale, lascia un segno di sé, può essere lieve, forte, calcata, parla della propria personalità». È come se a furia di digitare, e anche dettare agli smartphone, di usare faccine, scrittura predittiva che non contempla l’intero alfabeto del cuore e della mente, abbiamo cominciato a chiederci se non ci stiamo perdendo qualcosa.
Ricerche scientifiche dimostrano che scrivere a mano aiuta a pensare meglio e l’Istituto grafologico internazionale di Urbino Girolamo Moretti si è adoperato affinché la scrittura a mano sia proclamata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Benedetto Vertecchi, professore emerito di Pedagogia all’Università Roma Tre, autore di oltre 600 pubblicazioni, è a capo di un gruppo di studio sui bambini e la scrittura manuale e spiega al Corriere: «I nostri test hanno dimostrato che scrivere a mano aumenta enormemente la capacità di usare il linguaggio. Non è solo questione di tracciare segni, ma del pensiero che corrisponde al segno che si traccia. Scrivendo sulla carta, il pensiero si esprime in modi molto più distesi e riflessivi che con altri mezzi». Le sue ricerche rilevano anche che usare la penna ha effetti positivi sulla manualità in generale: «Un bimbo che la tiene correttamente con pollice, indice e medio, invece che con due dita o impugnandola come una clava, è anche un bimbo che tipicamente sa allacciarsi le scarpe e usare bene un cucchiaio».
È come se il pensiero mi scivolas-se dalla testa lungo la mano de-stra. Come se avessi un cervelli-no nelle dita
Molti che scrivono per mestiere non si sono mai convertiti al pc. James Ellroy scrive a mano i suoi libri, così le loro sceneggiature Quentin Tarantino e George Clooney, che assicura di essere un disastro nel «copia e incolla». Da oltre trent’anni, Maria Venturi produce best seller (l’ultimo libro, per HarperCollins, è Tanto cielo per niente) e lo fa sempre a mano. Dice: «Quando ero una giovane giornalista, ero anche una veloce dattilografa e ora so usare il computer, però ho sempre creato solo con carta e penna: è come se il pensiero mi scivolasse dalla testa lungo la mano destra. È un testa-mano continuo, ho un cervellino nelle dita che reggono la penna e mi correggono o mi dettano il sinonimo. Se in mezzo ci metto una macchina, vado lenta e la concentrazione si spezza. Per cui, scrivo a mano e poi copio al computer e mando».
Se s’incontra in aereo o in treno l’ex Miss Italia Martina Colombari, è facile vederla intenta a compilare un taccuino. Lei stessa lo spiega così al Corriere: «Scrivere a mano mi rende i pensieri più chiari e limpidi. Lo faccio se prendo appunti e, dopo aver seguito i seminari di meditazione, metto su carta le mie riflessioni. È un momento per stare con me stessa che non sarebbe uguale se avessi per filtro una tastiera. Anche quando devo dire qualcosa d’importante a una persona cara, scrivo lettere, non email».
Il professor Vertecchi suggerisce un esercizio pensato per i più piccoli, ma utile anche agli adulti. Lo si trova nel suo libro I bambini e la scrittura (Franco Angeli editore, 2016) ed è l’esperimento intitolato a una frase di Plinio il Vecchio, «Nulla dies sine linea», «Nessun giorno senza un segno». Basta scrivere ogni giorno poche righe — gli scolari di quinta ne hanno scritte sei — ogni volta esercitandosi su un semplice tema, tipo «com’è il tempo oggi». In quattro mesi, si scopre che sono migliorati la qualità del linguaggio e del pensiero. Provare per credere.
Scrivere a mano fa bene
Aiuta a pensare ed esprimersi meglio (in modo unico) Da Harvard alla Cina il ritorno al culto della bella grafia
di Candida Morvillo
Pare che stia tornando di moda scrivere a mano. Un’inchiesta del magazine americano Medium racconta che, ultimamente, molti professori di Harvard impongono agli studenti di prendere appunti manuali invece che su computer e tablet, e che in Arizona e North Carolina le scuole hanno lanciato campagne per insegnare correttamente il corsivo. In Cina, c’è un movimento per riappropriarsi della capacità di scrivere di proprio pugno: disabituarsi a maneggiare i loro difficili caratteri starebbe depauperando la memoria nazionale.
Anche l’Italia si sta scoprendo un popolo di scriventi oltre che di digitatori. Nel 2015 è nata l’associazione Smed (Scrivere a mano nell’era digitale). Riunisce insegnanti e calligrafi, organizza corsi da Roma in su, per «evitare un impoverimento della motricità fine, della memoria visuale e motoria, dell’organizzazione cognitiva della scrittura e della capacità di esprimere noi stessi in modo unico, immediato, personale». L’Aci, Associazione calligrafica italiana, sta registrando il boom d’iscrizioni ai suoi corsi, una cinquantina l’anno. Fenomeno, questo, globale, almeno da quando si sa che la duchessa Meghan Markle, da ragazza, per lavoro, scriveva inviti ai matrimoni.
La vicepresidente dell’Aci Anna Schettin racconta al Corriere: «Scrivere in bella grafia è un’attività lenta e tutti abbiamo bisogno di rallentare. Le persone stanno scoprendo che la grafia è personale, lascia un segno di sé, può essere lieve, forte, calcata, parla della propria personalità». È come se a furia di digitare, e anche dettare agli smartphone, di usare faccine, scrittura predittiva che non contempla l’intero alfabeto del cuore e della mente, abbiamo cominciato a chiederci se non ci stiamo perdendo qualcosa.
Ricerche scientifiche dimostrano che scrivere a mano aiuta a pensare meglio e l’Istituto grafologico internazionale di Urbino Girolamo Moretti si è adoperato affinché la scrittura a mano sia proclamata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Benedetto Vertecchi, professore emerito di Pedagogia all’Università Roma Tre, autore di oltre 600 pubblicazioni, è a capo di un gruppo di studio sui bambini e la scrittura manuale e spiega al Corriere: «I nostri test hanno dimostrato che scrivere a mano aumenta enormemente la capacità di usare il linguaggio. Non è solo questione di tracciare segni, ma del pensiero che corrisponde al segno che si traccia. Scrivendo sulla carta, il pensiero si esprime in modi molto più distesi e riflessivi che con altri mezzi». Le sue ricerche rilevano anche che usare la penna ha effetti positivi sulla manualità in generale: «Un bimbo che la tiene correttamente con pollice, indice e medio, invece che con due dita o impugnandola come una clava, è anche un bimbo che tipicamente sa allacciarsi le scarpe e usare bene un cucchiaio».
È come se il pensiero mi scivolas-se dalla testa lungo la mano de-stra. Come se avessi un cervelli-no nelle dita
Molti che scrivono per mestiere non si sono mai convertiti al pc. James Ellroy scrive a mano i suoi libri, così le loro sceneggiature Quentin Tarantino e George Clooney, che assicura di essere un disastro nel «copia e incolla». Da oltre trent’anni, Maria Venturi produce best seller (l’ultimo libro, per HarperCollins, è Tanto cielo per niente) e lo fa sempre a mano. Dice: «Quando ero una giovane giornalista, ero anche una veloce dattilografa e ora so usare il computer, però ho sempre creato solo con carta e penna: è come se il pensiero mi scivolasse dalla testa lungo la mano destra. È un testa-mano continuo, ho un cervellino nelle dita che reggono la penna e mi correggono o mi dettano il sinonimo. Se in mezzo ci metto una macchina, vado lenta e la concentrazione si spezza. Per cui, scrivo a mano e poi copio al computer e mando».
Se s’incontra in aereo o in treno l’ex Miss Italia Martina Colombari, è facile vederla intenta a compilare un taccuino. Lei stessa lo spiega così al Corriere: «Scrivere a mano mi rende i pensieri più chiari e limpidi. Lo faccio se prendo appunti e, dopo aver seguito i seminari di meditazione, metto su carta le mie riflessioni. È un momento per stare con me stessa che non sarebbe uguale se avessi per filtro una tastiera. Anche quando devo dire qualcosa d’importante a una persona cara, scrivo lettere, non email».
Il professor Vertecchi suggerisce un esercizio pensato per i più piccoli, ma utile anche agli adulti. Lo si trova nel suo libro I bambini e la scrittura (Franco Angeli editore, 2016) ed è l’esperimento intitolato a una frase di Plinio il Vecchio, «Nulla dies sine linea», «Nessun giorno senza un segno». Basta scrivere ogni giorno poche righe — gli scolari di quinta ne hanno scritte sei — ogni volta esercitandosi su un semplice tema, tipo «com’è il tempo oggi». In quattro mesi, si scopre che sono migliorati la qualità del linguaggio e del pensiero. Provare per credere.
Corriere 5.1.18
La cura contro l’ansia? Scrivere a mano
Da Harvard alla Cina torna il culto della bella grafia. «È come avere il cervello nelle dita»
di Emanuele Trevi
Scrivere a mano fa bene. Aiuta a pensare ed esprimersi meglio. L’abitudine di scribacchiare a mano è un potente ansiolitico, innocuo per la salute e a basso costo. Come avere il cervello tra le dita. E da Harvard alla Cina torna la moda della bella grafia. Nell’università americana i professori spingono gli studenti a mettere da parte tablet e pc per prendere appunti con la penna.
«Chi non capisce la sua scrit-tura è un asino di natura». Le persone della mia età probabilmente ricordano questo saggio ammonimento delle maestre, alle elementari. Mi immaginavo sempre degli asini in grembiule scolastico che tenevano tra le zampe, molto imbarazzati, un quaderno pieno di scarabocchi indecifrabili. Il bello del proverbio è che mette in risalto un aspetto della scrittura che di solito viene trascurato: non c’è vera comunicazione con gli altri che non sia, prima di tutto, una comunicazione con se stessi. Oggi i margini di impiego della carta e della penna si sono talmente ristretti, soprattutto fra i più giovani, che la nobile arte di prendere appunti, di tenere un diario, di mandare una cartolina a qualcuno sembrano degli anacronismi non molto diversi dall’uncinetto o dalla caccia alla volpe. Eppure, lo sappia-mo: è quando le cose diventano del tutto inutili che possiamo compren-derne pienamente il loro valore. E il fatto che le librerie siano piene di quadernetti colorati e di penne di ogni tipo può essere visto come un indizio confortante. Personalmente, posso testimoniare che l’abitudine di scribacchiare a mano è un potente ansiolitico, innocuo per la salute e a basso costo. Ci sono degli argomenti che sembrano fatti apposta per la penna: provate ad annotare un sogno con la tastiera di un compu-ter, e dopo un po’ vi sembrerà di leggere il sogno di un altro, o una noiosa congerie di fatti strampalati. Il fatto è che la scrittura a mano è un potentissimo mezzo di appropria-zione di quelle zone, di quei livelli della realtà che tendono a sfuggire a una piena percezione. Quanto più una cosa è intima, infatti, tanto più è opaca, indeterminata. E la calligrafia, che oggi non è più vigilata da nessu-na regola, è lo strumento che più si addice alla sfera più personale della nostra esperienza: che è quella in cui le cose accadono in una data manie-ra per ogni individuo e solo per lui. Quel meraviglioso, incredibilmente complesso gioco neuronale e muscolare che mettiamo in atto ogni volta che scriviamo, infatti, non produrrà mai lo stesso identico risultato di un altro. Marina Cvetaeva annotò in uno dei suoi stupendi taccuini: «Scrivere significa vivere». Nel 1919, la grande poetessa russa era così povera che non aveva scelta: i quaderni se li cuciva, e si faceva anche l’inchiostro. Ma sono parole che valgono anche per noi, perché gli hobby a volte non sono meno urgenti delle necessità. È quando «non si vive», ci avverte Marina, che «la mano rifiuta la penna».
La cura contro l’ansia? Scrivere a mano
Da Harvard alla Cina torna il culto della bella grafia. «È come avere il cervello nelle dita»
di Emanuele Trevi
Scrivere a mano fa bene. Aiuta a pensare ed esprimersi meglio. L’abitudine di scribacchiare a mano è un potente ansiolitico, innocuo per la salute e a basso costo. Come avere il cervello tra le dita. E da Harvard alla Cina torna la moda della bella grafia. Nell’università americana i professori spingono gli studenti a mettere da parte tablet e pc per prendere appunti con la penna.
«Chi non capisce la sua scrit-tura è un asino di natura». Le persone della mia età probabilmente ricordano questo saggio ammonimento delle maestre, alle elementari. Mi immaginavo sempre degli asini in grembiule scolastico che tenevano tra le zampe, molto imbarazzati, un quaderno pieno di scarabocchi indecifrabili. Il bello del proverbio è che mette in risalto un aspetto della scrittura che di solito viene trascurato: non c’è vera comunicazione con gli altri che non sia, prima di tutto, una comunicazione con se stessi. Oggi i margini di impiego della carta e della penna si sono talmente ristretti, soprattutto fra i più giovani, che la nobile arte di prendere appunti, di tenere un diario, di mandare una cartolina a qualcuno sembrano degli anacronismi non molto diversi dall’uncinetto o dalla caccia alla volpe. Eppure, lo sappia-mo: è quando le cose diventano del tutto inutili che possiamo compren-derne pienamente il loro valore. E il fatto che le librerie siano piene di quadernetti colorati e di penne di ogni tipo può essere visto come un indizio confortante. Personalmente, posso testimoniare che l’abitudine di scribacchiare a mano è un potente ansiolitico, innocuo per la salute e a basso costo. Ci sono degli argomenti che sembrano fatti apposta per la penna: provate ad annotare un sogno con la tastiera di un compu-ter, e dopo un po’ vi sembrerà di leggere il sogno di un altro, o una noiosa congerie di fatti strampalati. Il fatto è che la scrittura a mano è un potentissimo mezzo di appropria-zione di quelle zone, di quei livelli della realtà che tendono a sfuggire a una piena percezione. Quanto più una cosa è intima, infatti, tanto più è opaca, indeterminata. E la calligrafia, che oggi non è più vigilata da nessu-na regola, è lo strumento che più si addice alla sfera più personale della nostra esperienza: che è quella in cui le cose accadono in una data manie-ra per ogni individuo e solo per lui. Quel meraviglioso, incredibilmente complesso gioco neuronale e muscolare che mettiamo in atto ogni volta che scriviamo, infatti, non produrrà mai lo stesso identico risultato di un altro. Marina Cvetaeva annotò in uno dei suoi stupendi taccuini: «Scrivere significa vivere». Nel 1919, la grande poetessa russa era così povera che non aveva scelta: i quaderni se li cuciva, e si faceva anche l’inchiostro. Ma sono parole che valgono anche per noi, perché gli hobby a volte non sono meno urgenti delle necessità. È quando «non si vive», ci avverte Marina, che «la mano rifiuta la penna».
il manifesto 5.1.19
La vittoria delle donne indiane contro l’oscurantismo
India. Due donne mestruate sono entrate per la prima volta in un tempio hindu in Kerala, supportate dal governo locale di sinistra e da una mobilitazione che ha infuriato gli estremisti e Modi
di Matteo Miavaldi
Lo scorso 2 gennaio Bindu Ammini e Kanakadurga, due donne di rispettivamente 42 e 41 anni, scortate da agenti di polizia in borghese sono riuscite a entrare nel tempio hindu di Sabarimala, nello stato indiano meridionale del Kerala.
Si tratta del primo ingresso di donne in età mestruale nel complesso templare sin dalla sentenza pronunciata dalla Corte suprema indiana nel mese di settembre, in risposta alla petizione inviata nel 2006 da sei avvocate della Indian Young Lawyer’s Association.
NEL PRONUNCIAMENTO, la Corte imponeva all’amministrazione del tempio di far decadere il divieto di ingresso a donne in età mestruale imposto per evitare che il dio Ayyappan – secondo la credenza, impegnato nel voto di celibato hindu – potesse cadere in tentazione alla presenza di donne tra i 10 e i 50 anni, in età fertile.
Dal mese di ottobre, numerosi tentativi di ingresso al tempio da parte di donne in età fertile sono stati respinti da gruppi di fedeli riuniti sotto l’ombrello della Sangh Parivar, unione di gruppi estremisti hindu vicina al partito conservatore hindu del primo ministro Narendra Modi, il Bharatiya Janata Party (Bjp), rendendo di fatto l’applicazione della sentenza impraticabile.
Alla presa di posizione degli estremisti hindu il governo locale del Kerala, guidato dalla coalizione di sinistra del Left Front, il primo gennaio ha risposto organizzando una catena umana lunga 620 km formata da cinque milioni di donne, a riaffermare i principi costituzionali di libertà e uguaglianza che dovrebbero vigere nel Paese. Il giorno seguente, Bindu e Kanakadurga attraversavano la soglia del tempio, facevano la storia, e mandavano su tutte le furie gli estremisti hindu keralesi. La Sabarimala Karma Samiti, che gestisce il tempio di Ayyappan, ha chiuso il luogo di culto per officiare un «rito purificatorio» e ristabilire la sacralità del sancta sanctorum, «violato» dalle due donne; intanto, fuori dal tempio, le proteste organizzate dalla Sangh Parivar, sostenute sia dal Bjp che dall’Indian National Congress (Inc) di Rahul Gandhi, si riversavano per le strade del Kerala.
GRUPPI DI MANIFESTANTI hanno attaccato le sedi dei partiti rivali e vandalizzato automobili, autobus ed edifici dell’amministrazione pubblica, scontrandosi con gli agenti di polizia dispiegati dal chief minister del Kerala Pinarayi Vijayan, 74 anni, figura storica del Partito comunista indiano marxista (Cpi-M).
Secondo diversi analisti indiani il sostegno offerto da Vijayan alla mobilitazione femminile del Kerala è stato un colpo da maestro in termini di politica locale, una sterzata molto ambiziosa che se di certo pagherà dividendi di consenso nel breve termine, espone il Cpi-M a un rischio di eccesso di avanguardismo ponendosi in opposizione a istanze tradizionaliste dure a morire anche in Kerala, stato che gode di livelli di progresso, apertura e benessere di media molto più alti rispetto al resto del Paese.
I MILIONI DI DONNE E UOMINI che hanno partecipato alla catena umana del primo gennaio e il chief minister Vijayan si rifanno esplicitamente a un periodo glorioso della fine del 19esimo secolo, il cosiddetto «rinascimento keralese», segnato dall’influenza di intellettuali riformisti di casta bassa in agitazione contro le élite brahmaniche di casta alta. In parole povere, progressisti anti-intoccabilità e anti sistema castale – considerato un abominio irriformabile, da abolire – contro tradizionalisti conservatori hindu.
Un’eredità che il Cpi-M ha abbracciato a fasi alterne ma che ora, sotto Vijayan, sembra più propenso a sposare, ponendosi in prima fila in una lotta per l’emancipazione femminile che, seppur per ora circoscritta al caso di Sabarimala, rappresenta una presa di posizione dell’alto valore simbolico. Se il sostegno del Cpi-M alle istanze delle fedeli hindu keralesi sia genuino o solo funzionale a un calcolo elettorale in vista delle prossime elezioni nazionali, previste in primavera, lo si vedrà nel futuro prossimo, quando il progressismo di Vijayan si scontrerà coi crucci aritmetici di uno stato dove i voti passano ancora, in buona parte, dal favore degli ambienti religiosi.
IN KERALA, IN PARTICOLARE, mediando anche tra le corpose minoranze cristiana, musulmana e atea, ricordando però un celebre adagio indiano per cui in India è impossibile dirsi atei, al massimo «atei cristiani, atei musulmani, atei hindu» e così via.
All’indomani della presa di posizione del governo keralese, il timore è che la polarizzazione della popolazione andata in scena negli scontri degli ultimi giorni possa rilanciare ulteriormente la strategia del divide et impera tipica del Bjp degli ultimi cinque anni, guidato dal duo Narendra Modi (primo ministro) e Amit Shah (presidente del Bjp), maestri nel sobillare e cavalcare a fini elettorali l’odio ora inter-castale, ora anti-musulmano, ora «anti-maoista», ora anti-progressista.
UNA PRIMA AVVISAGLIA di questa strategia, che dal Kerala potrebbe venire proiettata come simbolo pan-indiano in accoppiata alla battaglia per la costruzione di un grande tempio di Ram sulle ceneri della moschea di Ayodhya, demolita dagli estremisti hindu negli anni Novanta, è arrivata proprio per bocca di Narendra Modi durante un’intervista rilasciata alla agenzia di stampa Ani qualche giorno fa.
A differenza dell’abolizione del «triplo talaq» – una sorta di divorzio immediato applicato da una minoranza della comunità islamica indiana, recentemente giudicato dalla Corte suprema incostituzionale – sostenuta dal governo «tenendo a mente l’uguaglianza di genere», la questione del tempio di Sabarimala per Modi ha a che fare con «la tradizione»: «In India riteniamo che tutti abbiano diritto ad avere giustizia. Ci sono alcuni templi con delle tradizioni particolari, dove gli uomini non possono entrare. E gli uomini non ci entrano… Per quanto riguarda Sabarimala, un giudice donna della Corte suprema aveva fatto alcune dichiarazioni [in opposizione alla sentenza, ndr]. È necessario analizzarle con attenzione. Non c’è bisogno di attribuirle a questo o quel partito politico. In quanto donna, ha avanzato alcuni suggerimenti. E ci dovrebbe essere una discussione in merito, prima o poi».
LO STESSO TIMORE di inimicarsi l’elettorato hindu ha spinto l’Inc keralese «dalla parte sbagliata della Storia», in questi giorni schierato al fianco del Bjp e degli estremisti hindu a difesa della tradizione.
Una posizione in controtendenza rispetto alle ultime uscite pubbliche di Rahul Gandhi, presidente dell’Inc, impegnato a imprimere una svolta progressista nel «partito di famiglia» sperando di scongiurare l’esito catastrofico delle nazionali del 2014, quando il partito di Modi inflisse a Rahul Gandhi la peggiore sconfitta elettorale di sempre.
Tra calcoli elettorali, deprimenti ipocrisie di bottega e la minaccia di una nuova ondata ultrahindu questa volta senza nemmeno lo specchietto per le allodole della crescita economica, l’unico dato positivo rimane la straordinaria mobilitazione femminile in Kerala. Donne che, nel bel mezzo di un’India mai così abbruttita dall’oscurantismo bigotto, reclamano spazi, sfidano la tradizione, fanno sentire la propria voce. E che, a Sabarimala, hanno vinto.
La vittoria delle donne indiane contro l’oscurantismo
India. Due donne mestruate sono entrate per la prima volta in un tempio hindu in Kerala, supportate dal governo locale di sinistra e da una mobilitazione che ha infuriato gli estremisti e Modi
di Matteo Miavaldi
Lo scorso 2 gennaio Bindu Ammini e Kanakadurga, due donne di rispettivamente 42 e 41 anni, scortate da agenti di polizia in borghese sono riuscite a entrare nel tempio hindu di Sabarimala, nello stato indiano meridionale del Kerala.
Si tratta del primo ingresso di donne in età mestruale nel complesso templare sin dalla sentenza pronunciata dalla Corte suprema indiana nel mese di settembre, in risposta alla petizione inviata nel 2006 da sei avvocate della Indian Young Lawyer’s Association.
NEL PRONUNCIAMENTO, la Corte imponeva all’amministrazione del tempio di far decadere il divieto di ingresso a donne in età mestruale imposto per evitare che il dio Ayyappan – secondo la credenza, impegnato nel voto di celibato hindu – potesse cadere in tentazione alla presenza di donne tra i 10 e i 50 anni, in età fertile.
Dal mese di ottobre, numerosi tentativi di ingresso al tempio da parte di donne in età fertile sono stati respinti da gruppi di fedeli riuniti sotto l’ombrello della Sangh Parivar, unione di gruppi estremisti hindu vicina al partito conservatore hindu del primo ministro Narendra Modi, il Bharatiya Janata Party (Bjp), rendendo di fatto l’applicazione della sentenza impraticabile.
Alla presa di posizione degli estremisti hindu il governo locale del Kerala, guidato dalla coalizione di sinistra del Left Front, il primo gennaio ha risposto organizzando una catena umana lunga 620 km formata da cinque milioni di donne, a riaffermare i principi costituzionali di libertà e uguaglianza che dovrebbero vigere nel Paese. Il giorno seguente, Bindu e Kanakadurga attraversavano la soglia del tempio, facevano la storia, e mandavano su tutte le furie gli estremisti hindu keralesi. La Sabarimala Karma Samiti, che gestisce il tempio di Ayyappan, ha chiuso il luogo di culto per officiare un «rito purificatorio» e ristabilire la sacralità del sancta sanctorum, «violato» dalle due donne; intanto, fuori dal tempio, le proteste organizzate dalla Sangh Parivar, sostenute sia dal Bjp che dall’Indian National Congress (Inc) di Rahul Gandhi, si riversavano per le strade del Kerala.
GRUPPI DI MANIFESTANTI hanno attaccato le sedi dei partiti rivali e vandalizzato automobili, autobus ed edifici dell’amministrazione pubblica, scontrandosi con gli agenti di polizia dispiegati dal chief minister del Kerala Pinarayi Vijayan, 74 anni, figura storica del Partito comunista indiano marxista (Cpi-M).
Secondo diversi analisti indiani il sostegno offerto da Vijayan alla mobilitazione femminile del Kerala è stato un colpo da maestro in termini di politica locale, una sterzata molto ambiziosa che se di certo pagherà dividendi di consenso nel breve termine, espone il Cpi-M a un rischio di eccesso di avanguardismo ponendosi in opposizione a istanze tradizionaliste dure a morire anche in Kerala, stato che gode di livelli di progresso, apertura e benessere di media molto più alti rispetto al resto del Paese.
I MILIONI DI DONNE E UOMINI che hanno partecipato alla catena umana del primo gennaio e il chief minister Vijayan si rifanno esplicitamente a un periodo glorioso della fine del 19esimo secolo, il cosiddetto «rinascimento keralese», segnato dall’influenza di intellettuali riformisti di casta bassa in agitazione contro le élite brahmaniche di casta alta. In parole povere, progressisti anti-intoccabilità e anti sistema castale – considerato un abominio irriformabile, da abolire – contro tradizionalisti conservatori hindu.
Un’eredità che il Cpi-M ha abbracciato a fasi alterne ma che ora, sotto Vijayan, sembra più propenso a sposare, ponendosi in prima fila in una lotta per l’emancipazione femminile che, seppur per ora circoscritta al caso di Sabarimala, rappresenta una presa di posizione dell’alto valore simbolico. Se il sostegno del Cpi-M alle istanze delle fedeli hindu keralesi sia genuino o solo funzionale a un calcolo elettorale in vista delle prossime elezioni nazionali, previste in primavera, lo si vedrà nel futuro prossimo, quando il progressismo di Vijayan si scontrerà coi crucci aritmetici di uno stato dove i voti passano ancora, in buona parte, dal favore degli ambienti religiosi.
IN KERALA, IN PARTICOLARE, mediando anche tra le corpose minoranze cristiana, musulmana e atea, ricordando però un celebre adagio indiano per cui in India è impossibile dirsi atei, al massimo «atei cristiani, atei musulmani, atei hindu» e così via.
All’indomani della presa di posizione del governo keralese, il timore è che la polarizzazione della popolazione andata in scena negli scontri degli ultimi giorni possa rilanciare ulteriormente la strategia del divide et impera tipica del Bjp degli ultimi cinque anni, guidato dal duo Narendra Modi (primo ministro) e Amit Shah (presidente del Bjp), maestri nel sobillare e cavalcare a fini elettorali l’odio ora inter-castale, ora anti-musulmano, ora «anti-maoista», ora anti-progressista.
UNA PRIMA AVVISAGLIA di questa strategia, che dal Kerala potrebbe venire proiettata come simbolo pan-indiano in accoppiata alla battaglia per la costruzione di un grande tempio di Ram sulle ceneri della moschea di Ayodhya, demolita dagli estremisti hindu negli anni Novanta, è arrivata proprio per bocca di Narendra Modi durante un’intervista rilasciata alla agenzia di stampa Ani qualche giorno fa.
A differenza dell’abolizione del «triplo talaq» – una sorta di divorzio immediato applicato da una minoranza della comunità islamica indiana, recentemente giudicato dalla Corte suprema incostituzionale – sostenuta dal governo «tenendo a mente l’uguaglianza di genere», la questione del tempio di Sabarimala per Modi ha a che fare con «la tradizione»: «In India riteniamo che tutti abbiano diritto ad avere giustizia. Ci sono alcuni templi con delle tradizioni particolari, dove gli uomini non possono entrare. E gli uomini non ci entrano… Per quanto riguarda Sabarimala, un giudice donna della Corte suprema aveva fatto alcune dichiarazioni [in opposizione alla sentenza, ndr]. È necessario analizzarle con attenzione. Non c’è bisogno di attribuirle a questo o quel partito politico. In quanto donna, ha avanzato alcuni suggerimenti. E ci dovrebbe essere una discussione in merito, prima o poi».
LO STESSO TIMORE di inimicarsi l’elettorato hindu ha spinto l’Inc keralese «dalla parte sbagliata della Storia», in questi giorni schierato al fianco del Bjp e degli estremisti hindu a difesa della tradizione.
Una posizione in controtendenza rispetto alle ultime uscite pubbliche di Rahul Gandhi, presidente dell’Inc, impegnato a imprimere una svolta progressista nel «partito di famiglia» sperando di scongiurare l’esito catastrofico delle nazionali del 2014, quando il partito di Modi inflisse a Rahul Gandhi la peggiore sconfitta elettorale di sempre.
Tra calcoli elettorali, deprimenti ipocrisie di bottega e la minaccia di una nuova ondata ultrahindu questa volta senza nemmeno lo specchietto per le allodole della crescita economica, l’unico dato positivo rimane la straordinaria mobilitazione femminile in Kerala. Donne che, nel bel mezzo di un’India mai così abbruttita dall’oscurantismo bigotto, reclamano spazi, sfidano la tradizione, fanno sentire la propria voce. E che, a Sabarimala, hanno vinto.
Corriere 5.1.19
Facce nuove
Il diario in pubblico di Mahdia Hosseini
di Paolo Lepri
Dal campo profughi di Schisto, nei pressi di Atene, Mahdia Hosseini ha scritto a «un uomo afghano» quello che non ha mai potuto dire prima di prendere la strada della fuga. La lettera non è stata spedita per posta, anche perché sarebbe stato impossibile recapitarla ad un destinatario senza nome. È diventata un articolo del giornale Migratory Birds che quindici ragazze come lei hanno fondato nel 2017 tra le tende e i prefabbricati in cui hanno vissuto dopo il loro arrivo in Grecia. «Nel mio Paese — si legge — una donna non può decidere come vestirsi o chi sposare. È proibito indicare il suo nome sugli inviti di matrimonio. Perfino quando muore, nessuno saprà come si chiama: negli annunci funebri il solo riferimento è al marito o ai figli».
Migratory Birds è ormai arrivato al suo undicesimo numero e qualche mese fa ha festeggiato il suo primo anniversario. È scritto in cinque lingue: farsi, greco, inglese, arabo, urdu. Tutti i contributi vengono tradotti in inglese on line. Il progetto è sostenuto dalla Ong Network for Children’s Rights e dall’Unicef grazie ad un finanziamento della Commissione europea. Non è più un giornale tutto al femminile perché a collaborare sono anche molti ragazzi. «Abbiamo deciso di diventare reporter per essere la voce dei rifugiati», ha detto Mahdia a Deutsche Welle. Lei è la direttrice del giornale, diffuso in 13.000 copie tra i profughi e le organizzazioni umanitarie.
La scelta compiuta a Schisto è stata il tentativo di abbattere le «barriere» che hanno limitato l’esistenza di questa giovane donna. In Iran, dove ha vissuto dopo aver lasciato l’Afghanistan, ricorda di aver combattuto «una battaglia permanente, psicologica e intellettuale». La sua storia — legata alla doppia emergenza di cui sono vittime i «dannati della terra», tra oppressione e accoglimento — è anche una storia di maturazione personale. Lo capiamo scorrendo un altro testo, A new personality, in cui osserva che la vita nel campo le ha fatto dimenticare la parola «voglio». Ma le barriere si possono rialzare. L’estate scorsa è stata mandata via, «perché afghana», quando si è offerta di donare il sangue per le persone coinvolte negli incendi che hanno devastato la Grecia. «Uscendo dall’ospedale — racconta — quelle fiamme mi bruciavano nelle vene».
Facce nuove
Il diario in pubblico di Mahdia Hosseini
di Paolo Lepri
Dal campo profughi di Schisto, nei pressi di Atene, Mahdia Hosseini ha scritto a «un uomo afghano» quello che non ha mai potuto dire prima di prendere la strada della fuga. La lettera non è stata spedita per posta, anche perché sarebbe stato impossibile recapitarla ad un destinatario senza nome. È diventata un articolo del giornale Migratory Birds che quindici ragazze come lei hanno fondato nel 2017 tra le tende e i prefabbricati in cui hanno vissuto dopo il loro arrivo in Grecia. «Nel mio Paese — si legge — una donna non può decidere come vestirsi o chi sposare. È proibito indicare il suo nome sugli inviti di matrimonio. Perfino quando muore, nessuno saprà come si chiama: negli annunci funebri il solo riferimento è al marito o ai figli».
Migratory Birds è ormai arrivato al suo undicesimo numero e qualche mese fa ha festeggiato il suo primo anniversario. È scritto in cinque lingue: farsi, greco, inglese, arabo, urdu. Tutti i contributi vengono tradotti in inglese on line. Il progetto è sostenuto dalla Ong Network for Children’s Rights e dall’Unicef grazie ad un finanziamento della Commissione europea. Non è più un giornale tutto al femminile perché a collaborare sono anche molti ragazzi. «Abbiamo deciso di diventare reporter per essere la voce dei rifugiati», ha detto Mahdia a Deutsche Welle. Lei è la direttrice del giornale, diffuso in 13.000 copie tra i profughi e le organizzazioni umanitarie.
La scelta compiuta a Schisto è stata il tentativo di abbattere le «barriere» che hanno limitato l’esistenza di questa giovane donna. In Iran, dove ha vissuto dopo aver lasciato l’Afghanistan, ricorda di aver combattuto «una battaglia permanente, psicologica e intellettuale». La sua storia — legata alla doppia emergenza di cui sono vittime i «dannati della terra», tra oppressione e accoglimento — è anche una storia di maturazione personale. Lo capiamo scorrendo un altro testo, A new personality, in cui osserva che la vita nel campo le ha fatto dimenticare la parola «voglio». Ma le barriere si possono rialzare. L’estate scorsa è stata mandata via, «perché afghana», quando si è offerta di donare il sangue per le persone coinvolte negli incendi che hanno devastato la Grecia. «Uscendo dall’ospedale — racconta — quelle fiamme mi bruciavano nelle vene».
il manifesto 5.1.19
La scossa tanto attesa, riecco la sinistra palestinese
Palestina. Cinque partiti hanno annunciato la formazione a Gaza e in Cisgiordania dell’Unione democratica (Ud), un terzo polo alternativo ai due partiti maggiori, Fatah e il movimento islamico Hamas. Lotta all'occupazione israeliana, fine degli Accordi di Oslo e giustizia sociale sono le parole d'ordine
di Michele Giorgio
E pur si muove! La celebre frase attribuita a Galileo commenta alla perfezione la scossa avvenuta nella sinistra palestinese che, come nel resto del mondo, non se la passa bene. Cinque partiti, alcuni con una radice marxista come il Fronte popolare (Fplp) e il Fronte democratico (Fdlp), altri riformisti come Iniziativa Nazionale del parlamentare e attivista Mustafa Barghouti, il Partito del popolo (Ppp, ex comunisti) e Feda (socialdemocratici), hanno annunciato due giorni fa la formazione a Gaza e in Cisgiordania dell’Unione democratica (Ud), una sorta di terzo polo alternativo ai due partiti maggiori, Fatah del presidente Abu Mazen e il movimento islamico Hamas. Un passo atteso da tempo che vuole ridare un punto di riferimento concreto, e un po’ di entusiasmo, ai tanti palestinesi che non condividono le posizioni dei laici di Fatah che controllano le città autonome in Cisgiordania e quelle degli islamisti al potere nella Striscia di Gaza.
«Fatah e Hamas non sono nostri nemici e con loro percorreremo sempre la via del dialogo, il nostro nemico è Israele che opprime il popolo palestinese e nega i suoi diritti. Allo stesso tempo Fatah e Hamas sono due organizzazioni di destra e portano avanti politiche che noi non condividiamo in gran parte dei casi» dice al manifesto Mariam Abu Daqqa, storica dirigente del Fronte popolare e una delle leader delle donne nella Striscia di Gaza. «Posizioni diverse dalle nostre e in conflitto tra di loro. – aggiunge Abu Daqqa – La voglia di potere (da parte di Hamas e Fatah) ha contribuito ad aggravare la condizione dei palestinesi e a fallire l’obiettivo principale: la liberazione dall’oppressione israeliana» aggiunge Abu Daqqa. L’Ud, prosegue la dirigente del Fplp, vuole rappresentare agli occhi della popolazione una alternativa progressista e democratica nella lotta di liberazione, così come in politica, economia e società. «E per realizzare questi obiettivi abbiamo bisogno di maggior progresso e della partecipazione delle donne», conclude Abu Daqqa.
Da alcuni giorni è al lavoro un comitato che racchiude i rappresentanti delle cinque formazioni, con l’incarico di definire le strategie per combattere quelle che l’Unione democratica ritiene le malattie che stanno uccidendo la causa palestinese. «A cominciare dagli Accordi di Oslo (con Israele 1993)» ci spiega Iyad Abu Rahme, ex portavoce del Fplp, «che si sono rivelati una trappola per il nostro popolo. La loro fine è essenziale per ridare slancio all’idea di un progetto politico di tutti i palestinesi e per mettere fine allo scontro tra Fatah e Hamas». Khaled al Khatib, del Feda, teorizza una «strategia per costruire la giustizia sociale e creare uno Stato palestinese indipendente con piena sovranità sui Territori palestinesi occupati da Israele». Strategia che, prevede al Khatib, deve realizzarsi «sotto l’egida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), l’unico e legittimo rappresentante di tutti i palestinesi».
Se la fine, graduale, degli Accordi di Oslo e la rinascita dell’Olp rappresentano un principio condiviso, le cinque formazioni dell’Ud non si esprimono, o almeno non ancora, sul futuro dell’Autorità nazionale palestinese nata dalle intese del 1993 tra l’Olp e Israele. Così come non hanno ancora deciso una posizione comune su una soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) o a Stato unico non sionista sull’intero territorio storico della Palestina, per ebrei e palestinesi insieme. Dall’Ud giungono voci di discussioni accese tra i rappresentanti del Fplp e del Fdlp, più orientati verso lo Stato unico, o almeno binazionale, e i partiti più moderati, Ppp e Feda, favorevoli ai Due Stati. Non meno importante sarà capire nelle prossime settimane con quali politiche ed iniziative pubbliche l’Unione democratica pensa di strappare a Fatah e soprattutto ad Hamas a Gaza il favore di milioni di palestinesi. Tenendo conto anche che l’unico dei cinque partiti della coalizione che gode di un consenso di un certo rilievo è il Fplp mentre le altre formazioni appaiono più marginali se non residuali all’interno della società e della politica palestinese.
La scossa tanto attesa, riecco la sinistra palestinese
Palestina. Cinque partiti hanno annunciato la formazione a Gaza e in Cisgiordania dell’Unione democratica (Ud), un terzo polo alternativo ai due partiti maggiori, Fatah e il movimento islamico Hamas. Lotta all'occupazione israeliana, fine degli Accordi di Oslo e giustizia sociale sono le parole d'ordine
di Michele Giorgio
E pur si muove! La celebre frase attribuita a Galileo commenta alla perfezione la scossa avvenuta nella sinistra palestinese che, come nel resto del mondo, non se la passa bene. Cinque partiti, alcuni con una radice marxista come il Fronte popolare (Fplp) e il Fronte democratico (Fdlp), altri riformisti come Iniziativa Nazionale del parlamentare e attivista Mustafa Barghouti, il Partito del popolo (Ppp, ex comunisti) e Feda (socialdemocratici), hanno annunciato due giorni fa la formazione a Gaza e in Cisgiordania dell’Unione democratica (Ud), una sorta di terzo polo alternativo ai due partiti maggiori, Fatah del presidente Abu Mazen e il movimento islamico Hamas. Un passo atteso da tempo che vuole ridare un punto di riferimento concreto, e un po’ di entusiasmo, ai tanti palestinesi che non condividono le posizioni dei laici di Fatah che controllano le città autonome in Cisgiordania e quelle degli islamisti al potere nella Striscia di Gaza.
«Fatah e Hamas non sono nostri nemici e con loro percorreremo sempre la via del dialogo, il nostro nemico è Israele che opprime il popolo palestinese e nega i suoi diritti. Allo stesso tempo Fatah e Hamas sono due organizzazioni di destra e portano avanti politiche che noi non condividiamo in gran parte dei casi» dice al manifesto Mariam Abu Daqqa, storica dirigente del Fronte popolare e una delle leader delle donne nella Striscia di Gaza. «Posizioni diverse dalle nostre e in conflitto tra di loro. – aggiunge Abu Daqqa – La voglia di potere (da parte di Hamas e Fatah) ha contribuito ad aggravare la condizione dei palestinesi e a fallire l’obiettivo principale: la liberazione dall’oppressione israeliana» aggiunge Abu Daqqa. L’Ud, prosegue la dirigente del Fplp, vuole rappresentare agli occhi della popolazione una alternativa progressista e democratica nella lotta di liberazione, così come in politica, economia e società. «E per realizzare questi obiettivi abbiamo bisogno di maggior progresso e della partecipazione delle donne», conclude Abu Daqqa.
Da alcuni giorni è al lavoro un comitato che racchiude i rappresentanti delle cinque formazioni, con l’incarico di definire le strategie per combattere quelle che l’Unione democratica ritiene le malattie che stanno uccidendo la causa palestinese. «A cominciare dagli Accordi di Oslo (con Israele 1993)» ci spiega Iyad Abu Rahme, ex portavoce del Fplp, «che si sono rivelati una trappola per il nostro popolo. La loro fine è essenziale per ridare slancio all’idea di un progetto politico di tutti i palestinesi e per mettere fine allo scontro tra Fatah e Hamas». Khaled al Khatib, del Feda, teorizza una «strategia per costruire la giustizia sociale e creare uno Stato palestinese indipendente con piena sovranità sui Territori palestinesi occupati da Israele». Strategia che, prevede al Khatib, deve realizzarsi «sotto l’egida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), l’unico e legittimo rappresentante di tutti i palestinesi».
Se la fine, graduale, degli Accordi di Oslo e la rinascita dell’Olp rappresentano un principio condiviso, le cinque formazioni dell’Ud non si esprimono, o almeno non ancora, sul futuro dell’Autorità nazionale palestinese nata dalle intese del 1993 tra l’Olp e Israele. Così come non hanno ancora deciso una posizione comune su una soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) o a Stato unico non sionista sull’intero territorio storico della Palestina, per ebrei e palestinesi insieme. Dall’Ud giungono voci di discussioni accese tra i rappresentanti del Fplp e del Fdlp, più orientati verso lo Stato unico, o almeno binazionale, e i partiti più moderati, Ppp e Feda, favorevoli ai Due Stati. Non meno importante sarà capire nelle prossime settimane con quali politiche ed iniziative pubbliche l’Unione democratica pensa di strappare a Fatah e soprattutto ad Hamas a Gaza il favore di milioni di palestinesi. Tenendo conto anche che l’unico dei cinque partiti della coalizione che gode di un consenso di un certo rilievo è il Fplp mentre le altre formazioni appaiono più marginali se non residuali all’interno della società e della politica palestinese.
il manifesto 5.1.19
Oggi si torna in piazza contro Orbán
Ungheria. Studenti, operai in protesta per le leggi sul lavoro e per la libertà accademica
di Massimo Congiu
BUDAPEST Oggi riprendono le manifestazioni contro il governo di Viktor Orbán. Si tratta della continuazione delle proteste di piazza che hanno caratterizzato l’ultimo scorcio dell’anno scorso.
LO SPUNTO PRINCIPALE delle dimostrazioni di dicembre è stato fornito dalla legge sul lavoro che innalza a 400 le ore annuali di straordinario, ma c’è dell’altro. Oggetto della contestazione sono anche la legge che prevede l’istituzione di tribunali amministrativi destinati a giudicare i reati contro lo Stato, con giudici scelti tra i fedeli a Orbán, e certa politica del governo che, secondo i manifestanti, sopprime la libertà accademica. Insieme a sindacati, lavoratori e studenti hanno protestato rappresentanze di partiti dell’opposizione di centro-sinistra e lo stesso Jobbik.
Questa forza politica è nata come partito di estrema destra e da qualche tempo è impegnato a farsi percepire come soggetto conservatore moderato in conflitto con le forze governative. Le manifestazioni che si sono svolte il mese scorso sono state caratterizzate anche da tensioni con le forze dell’ordine, specie quelle avvenute a Budapest, precisazione doverosa visto che si è dimostrato anche in altre città del paese.
«QUANDO LA DITTATURA è un dato di fatto la rivoluzione è doverosa», si leggeva su un cartello comparso alla manifestazione sindacale di inizio dicembre.
Ciò che si è visto in quelle giornate di agitazione dimostra che c’è una parte di Ungheria fortemente scontenta dell’operato di un governo che l’opposizione considera antidemocratico e corrotto. Per la Maszsz, principale organizzazione sindacale ungherese, l’esecutivo ha approvato la legge sugli straordinari senza tenere nella minima considerazione il parere dei lavoratori e dei loro rappresentanti, segno che nel paese il dialogo sociale continua ad essere ignorato dal potere.
E PER IL POTERE e, per i suoi sostenitori, a manifestare sono stati i sobillatori ispirati da George Soros che, secondo il governo, è da tempo impegnato a creare destabilizzazione in Ungheria. I sobillatori hanno deciso, dal canto loro, di tornare in piazza oggi e di manifestare tutto il loro malcontento a fronte di un sistema politico che definiscono autoritario e discriminatorio, cioè volto a privilegiare «gli amici» del primo ministro e del suo »regime».
Tutto ciò dopo la tregua natalizia che comunque non ha mancato di annunciare nuove iniziative contro l’esecutivo guidato dal partito Fidesz. Soggetto politico, quest’ultimo, nato come movimento impegnato sul fronte dei diritti civili e del liberalismo, quello stesso liberalismo che oggi il Fidesz bolla come tendenza politica superata dalla storia e dai fatti.
Oggi si torna in piazza contro Orbán
Ungheria. Studenti, operai in protesta per le leggi sul lavoro e per la libertà accademica
di Massimo Congiu
BUDAPEST Oggi riprendono le manifestazioni contro il governo di Viktor Orbán. Si tratta della continuazione delle proteste di piazza che hanno caratterizzato l’ultimo scorcio dell’anno scorso.
LO SPUNTO PRINCIPALE delle dimostrazioni di dicembre è stato fornito dalla legge sul lavoro che innalza a 400 le ore annuali di straordinario, ma c’è dell’altro. Oggetto della contestazione sono anche la legge che prevede l’istituzione di tribunali amministrativi destinati a giudicare i reati contro lo Stato, con giudici scelti tra i fedeli a Orbán, e certa politica del governo che, secondo i manifestanti, sopprime la libertà accademica. Insieme a sindacati, lavoratori e studenti hanno protestato rappresentanze di partiti dell’opposizione di centro-sinistra e lo stesso Jobbik.
Questa forza politica è nata come partito di estrema destra e da qualche tempo è impegnato a farsi percepire come soggetto conservatore moderato in conflitto con le forze governative. Le manifestazioni che si sono svolte il mese scorso sono state caratterizzate anche da tensioni con le forze dell’ordine, specie quelle avvenute a Budapest, precisazione doverosa visto che si è dimostrato anche in altre città del paese.
«QUANDO LA DITTATURA è un dato di fatto la rivoluzione è doverosa», si leggeva su un cartello comparso alla manifestazione sindacale di inizio dicembre.
Ciò che si è visto in quelle giornate di agitazione dimostra che c’è una parte di Ungheria fortemente scontenta dell’operato di un governo che l’opposizione considera antidemocratico e corrotto. Per la Maszsz, principale organizzazione sindacale ungherese, l’esecutivo ha approvato la legge sugli straordinari senza tenere nella minima considerazione il parere dei lavoratori e dei loro rappresentanti, segno che nel paese il dialogo sociale continua ad essere ignorato dal potere.
E PER IL POTERE e, per i suoi sostenitori, a manifestare sono stati i sobillatori ispirati da George Soros che, secondo il governo, è da tempo impegnato a creare destabilizzazione in Ungheria. I sobillatori hanno deciso, dal canto loro, di tornare in piazza oggi e di manifestare tutto il loro malcontento a fronte di un sistema politico che definiscono autoritario e discriminatorio, cioè volto a privilegiare «gli amici» del primo ministro e del suo »regime».
Tutto ciò dopo la tregua natalizia che comunque non ha mancato di annunciare nuove iniziative contro l’esecutivo guidato dal partito Fidesz. Soggetto politico, quest’ultimo, nato come movimento impegnato sul fronte dei diritti civili e del liberalismo, quello stesso liberalismo che oggi il Fidesz bolla come tendenza politica superata dalla storia e dai fatti.
La Stampa 5.1.19
Imprese cinesi troppo indebitate
Aiuti statali per centinaia di miliardi
di F. Sem.
Il debito delle «Corporate China» spaventa i mercati finanziari internazionali. A partire da quelli americani dove l’aggiustamento di mira della Federal Reserve, giunto ieri dopo settimane di incertezza sui tassi, ha fatto dimenticare solo temporaneamente i rischi legati alle difficoltà cinesi. A partire dall’enorme indebitamento delle aziende del Dragone e dall’incapacità delle autorità di Pechino di procedere a un’organica azione di «deleveraging» (ovvero la riduzione del debito delle imprese nazionali che grava sugli equilibri economici interni e, di riflesso, sui mercati internazionali) dinanzi al rallentamento della crescita del Pil e alle tensioni commerciali con gli Stati Uniti di Trump.
Ecco allora giungere la notizia che la Banca centrale cinese (Pboc) è intervenuta ancora sui requisiti della riserva obbligatoria degli istituti di credito con un taglio di 100 punti base di cui la metà operativo dal 15 gennaio e il resto entro i successivi dieci giorni. La manovra rilascerà sui mercati una liquidità netta di 800 miliardi di yuan, pari a 116 miliardi di dollari, e arriva dopo i quattro tagli dello stesso tenore attuati nel 2018. Con il risultato che sono stati iniettati nel mercato centinaia di miliardi di dollari disponibili nella forma di finanziamento per le aziende cinesi. Esattamente il contrario di quanto Pechino dovrebbe fare per agevolare il «deleveraging».
Le stesse autorità centrali hanno definito il taglio del debito delle aziende cinesi, in particolare di quelle partecipate dallo Stato, una priorità nazionale al fine di preservare la salute economica e finanziaria del Paese. Anche perché secondo la Manca dei regolamenti internazionali la crescita del credito alle imprese cinese, dal 2004 quando era pari a quella del Pil del Dragone, è arrivata ad essere cinque volte superiore nel 2016, con una crescita annua di circa 165 miliardi di dollari.
Di certo non aiuta la guerra commerciale con gli Usa, che ad oggi ha danneggiato più i mercati finanziari cinesi di quelli americani con lo Shanghai Composite Index sceso del 25% lo scorso anno a fronte del calo del 6% dello S&P 500. Fa ben sperare la nuova missione a Pechino (7-8 gennaio) della delegazione Usa, primo appuntamento negoziale sul complesso dossier dopo la tregua sui dazi di 90 giorni siglata a Buenos Aires dai presidenti Xi Jinping e Trump. La task-force americana sarà guidata dal vice rappresentante sul Commercio Jeffrey Gerrish, impegnato in colloqui di lavoro a livello ministeriale per «rafforzare il consenso» raggiunto dai leader in Argentina facendo leva su basi «propositive e costruttive». Il presidente Usa parla di “grandi progressi” fatti dalle parti nei negoziati dopo la telefonata della scorsa settimana con Xi e ostenta un certo ottimismo sul futuro. Per Pechino i colloqui saranno cruciali anche in prospettiva di avviare quel processo di «deleveraging» che per ora le costerebbe «solo» un punto di Pil ma che, se rimandato, potrebbe risultare assai più penalizzante, specie per quei livelli di elevata occupazione interna che rimangono una priorità del Partito comunista cinese.
Imprese cinesi troppo indebitate
Aiuti statali per centinaia di miliardi
di F. Sem.
Il debito delle «Corporate China» spaventa i mercati finanziari internazionali. A partire da quelli americani dove l’aggiustamento di mira della Federal Reserve, giunto ieri dopo settimane di incertezza sui tassi, ha fatto dimenticare solo temporaneamente i rischi legati alle difficoltà cinesi. A partire dall’enorme indebitamento delle aziende del Dragone e dall’incapacità delle autorità di Pechino di procedere a un’organica azione di «deleveraging» (ovvero la riduzione del debito delle imprese nazionali che grava sugli equilibri economici interni e, di riflesso, sui mercati internazionali) dinanzi al rallentamento della crescita del Pil e alle tensioni commerciali con gli Stati Uniti di Trump.
Ecco allora giungere la notizia che la Banca centrale cinese (Pboc) è intervenuta ancora sui requisiti della riserva obbligatoria degli istituti di credito con un taglio di 100 punti base di cui la metà operativo dal 15 gennaio e il resto entro i successivi dieci giorni. La manovra rilascerà sui mercati una liquidità netta di 800 miliardi di yuan, pari a 116 miliardi di dollari, e arriva dopo i quattro tagli dello stesso tenore attuati nel 2018. Con il risultato che sono stati iniettati nel mercato centinaia di miliardi di dollari disponibili nella forma di finanziamento per le aziende cinesi. Esattamente il contrario di quanto Pechino dovrebbe fare per agevolare il «deleveraging».
Le stesse autorità centrali hanno definito il taglio del debito delle aziende cinesi, in particolare di quelle partecipate dallo Stato, una priorità nazionale al fine di preservare la salute economica e finanziaria del Paese. Anche perché secondo la Manca dei regolamenti internazionali la crescita del credito alle imprese cinese, dal 2004 quando era pari a quella del Pil del Dragone, è arrivata ad essere cinque volte superiore nel 2016, con una crescita annua di circa 165 miliardi di dollari.
Di certo non aiuta la guerra commerciale con gli Usa, che ad oggi ha danneggiato più i mercati finanziari cinesi di quelli americani con lo Shanghai Composite Index sceso del 25% lo scorso anno a fronte del calo del 6% dello S&P 500. Fa ben sperare la nuova missione a Pechino (7-8 gennaio) della delegazione Usa, primo appuntamento negoziale sul complesso dossier dopo la tregua sui dazi di 90 giorni siglata a Buenos Aires dai presidenti Xi Jinping e Trump. La task-force americana sarà guidata dal vice rappresentante sul Commercio Jeffrey Gerrish, impegnato in colloqui di lavoro a livello ministeriale per «rafforzare il consenso» raggiunto dai leader in Argentina facendo leva su basi «propositive e costruttive». Il presidente Usa parla di “grandi progressi” fatti dalle parti nei negoziati dopo la telefonata della scorsa settimana con Xi e ostenta un certo ottimismo sul futuro. Per Pechino i colloqui saranno cruciali anche in prospettiva di avviare quel processo di «deleveraging» che per ora le costerebbe «solo» un punto di Pil ma che, se rimandato, potrebbe risultare assai più penalizzante, specie per quei livelli di elevata occupazione interna che rimangono una priorità del Partito comunista cinese.
Il Fatto 5.1.18
Cina, la Via della Seta è l’unica
di Alessia Grossi
Manca un mese al 5 febbraio, il Capodanno del Dragone, ma in migliaia di aziende cinesi gli operai sono già in ferie anticipate per mancanza di commesse. Il fatturato delle imprese a novembre 2018 è calato per la prima volta negli ultimi tre anni. L’economia rallenta, e per il 2019 il tasso di crescita sarà il più basso degli ultimi 29 anni, anche a causa delle ostilità commerciali e tecnologiche con gli Usa. Eppure – a 40 anni da quel 18 dicembre 1978, in cui davanti all’assemblea del Partito comunista Deng Xiaoping annunciava la grande rivoluzione commerciale della Cina – l’attuale presidente Xi Jinping, nel suo discorso celebrativo dell’anniversario, è tornato a ribadire “la centralità” del paese sul “palcoscenico globale”. A proposito di globalizzazione, Jinping ha giurato che anche nel 2019 “la diplomazia cinese si concentrerà nel promuovere ulteriormente il progetto economico d’integrazione della Nuova Via della Seta, per sostenere i processi di globalizzazione e costruzione di una comunità globale con unico destino”. Qualunque cosa significhi quest’ultimo passaggio, dall’Asia agli Usa all’Europa e in tutto il Mediterraneo, il discorso di Jinping si legge “Belt and Road Initiative” ed è il più grande e ambizioso progetto infrastrutturale del mondo nonché uno dei progetti pubblici più importanti del XXI secolo. Lanciato dallo stesso presidente appena salito al potere nel 2013, il Piano di Sviluppo per la connessione e la collaborazione tra la Cina e l’Europa prevede la creazione di una rete di comunicazione e di trasporto attraverso 65 paesi e ha avviato la collaborazione con 70 paesi dello spazio eurasiatico. Così la Nuova Via della Seta dovrebbe consentire al paese, entro il 2022, di intensificare le proprie rotte commerciali già avviate nel triennio 2014-2017 per cui sono stati investiti 70 miliardi di dollari in 1400 progetti a cui si aggiungeranno da qui al 2022 ulteriori investimenti per altri 30 miliardi di dollari. Sulla falsariga della vecchia Via della seta, le direttrici principali previste da Pechino per la Bri sono due: quella di mare e quella di terra. Quest’ultima, la Silk Road Economic Belt collegherà non solo i centri produttivi della Cina meridionale ai mercati di consumo europei tramite la ferrovia che passa per l’Asia Centrale (Kazakistan), ma anche la Russia alla Turchia, passando per Pakistan e Iran, e l’India, tramite il Sud Est Asiatico (Thailandia e Myanmar). La rotta vedrà il potenziamento di sei corridoi: il nuovo ponte eurasiatico, una ferrovia che collegherà la provincia cinese dello Jiangsu a Rotterdam; il corridoio Cina-Mongolia-Russia e la costruzione di un collegamento Cina-Asia Centrale-Asia Occidentale dalla provincia cinese dello Xinjiang fino alle coste del Mediterraneo e alla penisola arabica; il corridoio Cina-Penisola Indocinese che unirà il paese a Singapore. Saranno poi realizzati i corridoi Cina-Pakistan e Bangladesh-Cina-India-Myanmar.
Quella più interessante per l’Europa in realtà è la direttrice marittima, la cosiddetta Maritime Silk Road che consentirà alle merci di raggiungere il Mediterraneo passando per Suez – allungandosi fino alle coste dell’Africa Orientale (Gibuti, Kenya e Tanzania) e al Magreb – e il resto dell’Asia tramite il Mar cinese meridionale. Nel monumentale progetto nel 2018 la Repubblica Popolare ha investito 12 miliardi di dollari, il 6,4% in più del 2017, ma a puntare sulla Bri sono state anche – crescita o no – le aziende cinesi, soprattutto colossi logistici come Cosco e China Merchants Group, già da decenni impegnati in investimenti nel Mediterraneo. Il primo, con il 67% delle quote di mercato della società, controlla il porto greco del Pireo considerato “la porta del Mediterraneo”, il secondo ha aperto un centro di ricerca a Ravenna e sarebbe interessato a investire nel porto di Trieste.
L’attracco italiano in realtà rientra nel progetto dei 5 porti del Nord Adriatico cofinanziato a partire dal 2014 dal governo italiano e dal fondo cinese per la via della seta per un costo stimato di 2,2 miliardi di euro. Oltre a Trieste e Ravenna interesserà i porti di Venezia, Capodistria (Slovenia) e Fiume (Croazia). Attraverso questa rotta l’Italia dovrebbe competere con la Grecia e la Turchia, offrendo alle navi cinesi un percorso alternativo a quello che dai porti del sud del Mediterraneo passa per i Balcani. Ma la seta non si ferma qui. Nell’augurio di Xi Jinping nascerà un’altra via: quella della Seta Polare che dovrebbe passare lungo tre nuove rotte. Una a nord-est (Russia), una centrale e uno a nord-ovest (Canada). E l’anno del maiale non è ancora iniziato.
Cina, la Via della Seta è l’unica
di Alessia Grossi
Manca un mese al 5 febbraio, il Capodanno del Dragone, ma in migliaia di aziende cinesi gli operai sono già in ferie anticipate per mancanza di commesse. Il fatturato delle imprese a novembre 2018 è calato per la prima volta negli ultimi tre anni. L’economia rallenta, e per il 2019 il tasso di crescita sarà il più basso degli ultimi 29 anni, anche a causa delle ostilità commerciali e tecnologiche con gli Usa. Eppure – a 40 anni da quel 18 dicembre 1978, in cui davanti all’assemblea del Partito comunista Deng Xiaoping annunciava la grande rivoluzione commerciale della Cina – l’attuale presidente Xi Jinping, nel suo discorso celebrativo dell’anniversario, è tornato a ribadire “la centralità” del paese sul “palcoscenico globale”. A proposito di globalizzazione, Jinping ha giurato che anche nel 2019 “la diplomazia cinese si concentrerà nel promuovere ulteriormente il progetto economico d’integrazione della Nuova Via della Seta, per sostenere i processi di globalizzazione e costruzione di una comunità globale con unico destino”. Qualunque cosa significhi quest’ultimo passaggio, dall’Asia agli Usa all’Europa e in tutto il Mediterraneo, il discorso di Jinping si legge “Belt and Road Initiative” ed è il più grande e ambizioso progetto infrastrutturale del mondo nonché uno dei progetti pubblici più importanti del XXI secolo. Lanciato dallo stesso presidente appena salito al potere nel 2013, il Piano di Sviluppo per la connessione e la collaborazione tra la Cina e l’Europa prevede la creazione di una rete di comunicazione e di trasporto attraverso 65 paesi e ha avviato la collaborazione con 70 paesi dello spazio eurasiatico. Così la Nuova Via della Seta dovrebbe consentire al paese, entro il 2022, di intensificare le proprie rotte commerciali già avviate nel triennio 2014-2017 per cui sono stati investiti 70 miliardi di dollari in 1400 progetti a cui si aggiungeranno da qui al 2022 ulteriori investimenti per altri 30 miliardi di dollari. Sulla falsariga della vecchia Via della seta, le direttrici principali previste da Pechino per la Bri sono due: quella di mare e quella di terra. Quest’ultima, la Silk Road Economic Belt collegherà non solo i centri produttivi della Cina meridionale ai mercati di consumo europei tramite la ferrovia che passa per l’Asia Centrale (Kazakistan), ma anche la Russia alla Turchia, passando per Pakistan e Iran, e l’India, tramite il Sud Est Asiatico (Thailandia e Myanmar). La rotta vedrà il potenziamento di sei corridoi: il nuovo ponte eurasiatico, una ferrovia che collegherà la provincia cinese dello Jiangsu a Rotterdam; il corridoio Cina-Mongolia-Russia e la costruzione di un collegamento Cina-Asia Centrale-Asia Occidentale dalla provincia cinese dello Xinjiang fino alle coste del Mediterraneo e alla penisola arabica; il corridoio Cina-Penisola Indocinese che unirà il paese a Singapore. Saranno poi realizzati i corridoi Cina-Pakistan e Bangladesh-Cina-India-Myanmar.
Quella più interessante per l’Europa in realtà è la direttrice marittima, la cosiddetta Maritime Silk Road che consentirà alle merci di raggiungere il Mediterraneo passando per Suez – allungandosi fino alle coste dell’Africa Orientale (Gibuti, Kenya e Tanzania) e al Magreb – e il resto dell’Asia tramite il Mar cinese meridionale. Nel monumentale progetto nel 2018 la Repubblica Popolare ha investito 12 miliardi di dollari, il 6,4% in più del 2017, ma a puntare sulla Bri sono state anche – crescita o no – le aziende cinesi, soprattutto colossi logistici come Cosco e China Merchants Group, già da decenni impegnati in investimenti nel Mediterraneo. Il primo, con il 67% delle quote di mercato della società, controlla il porto greco del Pireo considerato “la porta del Mediterraneo”, il secondo ha aperto un centro di ricerca a Ravenna e sarebbe interessato a investire nel porto di Trieste.
L’attracco italiano in realtà rientra nel progetto dei 5 porti del Nord Adriatico cofinanziato a partire dal 2014 dal governo italiano e dal fondo cinese per la via della seta per un costo stimato di 2,2 miliardi di euro. Oltre a Trieste e Ravenna interesserà i porti di Venezia, Capodistria (Slovenia) e Fiume (Croazia). Attraverso questa rotta l’Italia dovrebbe competere con la Grecia e la Turchia, offrendo alle navi cinesi un percorso alternativo a quello che dai porti del sud del Mediterraneo passa per i Balcani. Ma la seta non si ferma qui. Nell’augurio di Xi Jinping nascerà un’altra via: quella della Seta Polare che dovrebbe passare lungo tre nuove rotte. Una a nord-est (Russia), una centrale e uno a nord-ovest (Canada). E l’anno del maiale non è ancora iniziato.
il manifesto 5.1.19
Xi Jinping si rivolge all’esercito cinese: «Tenetevi pronti»
Cina. Dopo le minacce a Taiwan, un altro discorso del presidente cinese passato sotto silenzio sui media occidentali
di Simone Pieranni
Fino a qualche tempo fa la Cina sui quotidiani occidentali era spesso descritta come una barbara dittatura, il cui successo commerciale era basato solo ed esclusivamente sulla bassa qualità della sua merce, sullo sfruttamento del lavoro e il sospetto di furti di proprietà intellettuale.
Si trattava di una descrizione parziale di quanto stava avvenendo all’interno del gigante asiatico. Oggi la Cina è la seconda potenza mondiale e in un Occidente in cui è messa sempre più in discussione la «democrazia liberale», ecco che governi e una certa opinione pubblica si ritrovano improvvisamente affascinati dal sistema politico cinese, autoritario ma – per ora – in grado di sviluppare forza produttiva e ormai geopolitica.
Addirittura il Telegraph ha proposto una summa delle citazioni di Xi, mentre altri giornali ospitano pagine gestite dalla Cina: ben pagate e sfoggio di soft power. E allora di Cina si parla ormai, spesso, in termini molto ottimistici, sottolineando la straordinaria lungimiranza del Pcc, dimentichi del fatto che è l’unico partito – di fatto – in Cina. Ed ecco che anche il recente invito di Xi Jinping al suo esercito a «prepararsi a una guerra» perché le situazioni internazionali stanno precipitando, passa in cavalleria.
Xi Jinping si rivolge all’esercito cinese: «Tenetevi pronti»
Cina. Dopo le minacce a Taiwan, un altro discorso del presidente cinese passato sotto silenzio sui media occidentali
di Simone Pieranni
Fino a qualche tempo fa la Cina sui quotidiani occidentali era spesso descritta come una barbara dittatura, il cui successo commerciale era basato solo ed esclusivamente sulla bassa qualità della sua merce, sullo sfruttamento del lavoro e il sospetto di furti di proprietà intellettuale.
Si trattava di una descrizione parziale di quanto stava avvenendo all’interno del gigante asiatico. Oggi la Cina è la seconda potenza mondiale e in un Occidente in cui è messa sempre più in discussione la «democrazia liberale», ecco che governi e una certa opinione pubblica si ritrovano improvvisamente affascinati dal sistema politico cinese, autoritario ma – per ora – in grado di sviluppare forza produttiva e ormai geopolitica.
Addirittura il Telegraph ha proposto una summa delle citazioni di Xi, mentre altri giornali ospitano pagine gestite dalla Cina: ben pagate e sfoggio di soft power. E allora di Cina si parla ormai, spesso, in termini molto ottimistici, sottolineando la straordinaria lungimiranza del Pcc, dimentichi del fatto che è l’unico partito – di fatto – in Cina. Ed ecco che anche il recente invito di Xi Jinping al suo esercito a «prepararsi a una guerra» perché le situazioni internazionali stanno precipitando, passa in cavalleria.
Corriere 5.1.19
L’intervista
«Trump impopolare all’estero coltiva l’intesa speciale con Roma Siete il ponte dei populisti nell’Ue»
Parla Charles Kupchan, ex direttore degli Affari Europei del Consiglio per la Sicurezza nazionale di Bill Clinton e poi di Barack Obama, oggi professore di Studi internazionali all’Università di Georgetown
di Viviana Mazza
WASHINGTON «L’Amministrazione Trump considera particolarmente importante il rapporto con il governo italiano. C’è un’affinità ideologica tra di loro. Anche se non senti i funzionari della Casa Bianca parlarne ufficialmente, c’è un desiderio di costruire una coalizione di governi populisti in opposizione alle politiche centriste. Sappiamo che Steve Bannon, pur non essendo più parte dell’Amministrazione, sta lavorando esplicitamente in questa direzione. Gli ungheresi e i polacchi non hanno lo stesso peso dell’Italia nell’Unione europea, e dunque Roma è un interlocutore chiave per Trump».
Charles Kupchan, ex direttore degli Affari Europei del Consiglio per la Sicurezza nazionale di Bill Clinton e poi di Barack Obama, oggi professore di Studi internazionali all’Università di Georgetown, riflette sulla visita del ministro Enzo Moavero Milanesi. «L’Italia sta emergendo come il principale Paese europeo ad avere buoni rapporti con Washington anche perché in tutta l’Europa il presidente americano è assai impopolare. Nel Regno Unito, dove inizialmente c’era la sensazione che potesse crearsi una forte alleanza con Theresa May, ciò non si è realizzato. E ora anche Macron sembra aver rinunciato...».
La scorsa estate Trump avrebbe persino offerto aiuto al premier Conte per il finanziamento del debito pubblico. Quant’è profondo il legame tra loro?
«Il vostro è tra i Paesi che spendono di meno per la difesa: sarebbe strano se Trump desse una significativa assistenza all’Italia. Dev’essere stata una delle sue frequenti uscite a titolo personale. Io credo che questo illustri come l’attuale affinità sulla visione dell’Europa tra Roma e Washington sia in realtà superficiale. È vero che il vostro attuale governo è euroscettico, ma in fin dei conti gli italiani sanno che non ha senso uscire dall’Ue. Invece l’Amministrazione Trump è apertamente ostile al progetto di integrazione europea, lo vede come una minaccia per l’economia americana e per l’idea di un mondo di Stati sovrani. Sulle migrazioni, così come sulla Russia, invece, ci sono affinità più profonde».
Anche sulle sanzioni contro la Russia?
«Sia sotto i governi passati di Renzi e Gentiloni che quello attuale, Roma ha rispettato il consenso europeo delle sanzioni alla Russia, benché ci fossero pressioni del mondo degli affari italiano a rimuoverle. Quanto a Trump, lui vuole rapporti migliori con la Russia, ma è solo: il comportamento di Mosca, il Congresso e i suoi stessi consiglieri gliel’hanno impedito. È una delle poche questioni su cui i repubblicani si sono opposti a lui».
Ungheresi
e polacchi non hanno lo stesso peso dell’Italia in Europa. L’alleanza con May non si è realizzata
e anche Macron ha rinunciato
Quanto è utile per Moavero incontrare Pompeo e Bolton? Quanta influenza hanno sulle decisioni di politica estera del presidente?
«È chiaro che nessuno nell’Amministrazione può parlare per Trump, perché non c’è un processo coerente attraverso il quale le agenzie rilevanti discutono le decisioni con il presidente, per arrivare a un consenso. Trump sceglie d’impulso: nessuno sapeva che avrebbe annunciato il ritiro dalla Siria né la riduzione delle truppe in Afghanistan. Questo mette Bolton e Pompeo in difficoltà. Non sanno mai cosa dirà, farà o twitterà, anche in contraddizione con quello che dicono loro».
Però Pompeo e Bolton sono ideologicamente più vicini a Trump di MacMaster e Tillerson.
«Sì, anche se hanno idee diverse per esempio sulla Corea del Nord. In ogni caso, nessun segretario di Stato o consigliere per la sicurezza nazionale è nella posizione di dire che cosa succederà nelle prossime quattro ore».
Ha senso allora per Moavero parlare con loro, per esempio, di Libia?
«C’è una buona possibilità che giungano a posizioni realizzabili su alcune cose, anche perché molte questioni non arrivano sul tavolo di Trump, a lui non interessano i dettagli. Ma sulle questioni più ampie, continua l’imprevedibilità. In ogni caso, non mi aspetto grandi annunci. Per l’Amministrazione le questioni delle migrazioni nel Mediterraneo sono un problema europeo, non americano. Ognuno per se: America First, Italy First».
L’intervista
«Trump impopolare all’estero coltiva l’intesa speciale con Roma Siete il ponte dei populisti nell’Ue»
Parla Charles Kupchan, ex direttore degli Affari Europei del Consiglio per la Sicurezza nazionale di Bill Clinton e poi di Barack Obama, oggi professore di Studi internazionali all’Università di Georgetown
di Viviana Mazza
WASHINGTON «L’Amministrazione Trump considera particolarmente importante il rapporto con il governo italiano. C’è un’affinità ideologica tra di loro. Anche se non senti i funzionari della Casa Bianca parlarne ufficialmente, c’è un desiderio di costruire una coalizione di governi populisti in opposizione alle politiche centriste. Sappiamo che Steve Bannon, pur non essendo più parte dell’Amministrazione, sta lavorando esplicitamente in questa direzione. Gli ungheresi e i polacchi non hanno lo stesso peso dell’Italia nell’Unione europea, e dunque Roma è un interlocutore chiave per Trump».
Charles Kupchan, ex direttore degli Affari Europei del Consiglio per la Sicurezza nazionale di Bill Clinton e poi di Barack Obama, oggi professore di Studi internazionali all’Università di Georgetown, riflette sulla visita del ministro Enzo Moavero Milanesi. «L’Italia sta emergendo come il principale Paese europeo ad avere buoni rapporti con Washington anche perché in tutta l’Europa il presidente americano è assai impopolare. Nel Regno Unito, dove inizialmente c’era la sensazione che potesse crearsi una forte alleanza con Theresa May, ciò non si è realizzato. E ora anche Macron sembra aver rinunciato...».
La scorsa estate Trump avrebbe persino offerto aiuto al premier Conte per il finanziamento del debito pubblico. Quant’è profondo il legame tra loro?
«Il vostro è tra i Paesi che spendono di meno per la difesa: sarebbe strano se Trump desse una significativa assistenza all’Italia. Dev’essere stata una delle sue frequenti uscite a titolo personale. Io credo che questo illustri come l’attuale affinità sulla visione dell’Europa tra Roma e Washington sia in realtà superficiale. È vero che il vostro attuale governo è euroscettico, ma in fin dei conti gli italiani sanno che non ha senso uscire dall’Ue. Invece l’Amministrazione Trump è apertamente ostile al progetto di integrazione europea, lo vede come una minaccia per l’economia americana e per l’idea di un mondo di Stati sovrani. Sulle migrazioni, così come sulla Russia, invece, ci sono affinità più profonde».
Anche sulle sanzioni contro la Russia?
«Sia sotto i governi passati di Renzi e Gentiloni che quello attuale, Roma ha rispettato il consenso europeo delle sanzioni alla Russia, benché ci fossero pressioni del mondo degli affari italiano a rimuoverle. Quanto a Trump, lui vuole rapporti migliori con la Russia, ma è solo: il comportamento di Mosca, il Congresso e i suoi stessi consiglieri gliel’hanno impedito. È una delle poche questioni su cui i repubblicani si sono opposti a lui».
Ungheresi
e polacchi non hanno lo stesso peso dell’Italia in Europa. L’alleanza con May non si è realizzata
e anche Macron ha rinunciato
Quanto è utile per Moavero incontrare Pompeo e Bolton? Quanta influenza hanno sulle decisioni di politica estera del presidente?
«È chiaro che nessuno nell’Amministrazione può parlare per Trump, perché non c’è un processo coerente attraverso il quale le agenzie rilevanti discutono le decisioni con il presidente, per arrivare a un consenso. Trump sceglie d’impulso: nessuno sapeva che avrebbe annunciato il ritiro dalla Siria né la riduzione delle truppe in Afghanistan. Questo mette Bolton e Pompeo in difficoltà. Non sanno mai cosa dirà, farà o twitterà, anche in contraddizione con quello che dicono loro».
Però Pompeo e Bolton sono ideologicamente più vicini a Trump di MacMaster e Tillerson.
«Sì, anche se hanno idee diverse per esempio sulla Corea del Nord. In ogni caso, nessun segretario di Stato o consigliere per la sicurezza nazionale è nella posizione di dire che cosa succederà nelle prossime quattro ore».
Ha senso allora per Moavero parlare con loro, per esempio, di Libia?
«C’è una buona possibilità che giungano a posizioni realizzabili su alcune cose, anche perché molte questioni non arrivano sul tavolo di Trump, a lui non interessano i dettagli. Ma sulle questioni più ampie, continua l’imprevedibilità. In ogni caso, non mi aspetto grandi annunci. Per l’Amministrazione le questioni delle migrazioni nel Mediterraneo sono un problema europeo, non americano. Ognuno per se: America First, Italy First».
Repubblica 5.1.19
L’inchiesta di Torino
I volontari contro l’Isis nel mirino della procura " Socialmente pericolosi"
Sotto accusa 5 ex combattenti: "Possono addestrare i loro compagni dei centri sociali". La replica: "In Siria abbiamo lottato pure per voi"
Per gli inquirenti la partecipazione ad azioni militari costituisce un segnaledi allarme
di Ottavia Giustetti e Jacopo Ricca
Torino Socialmente pericolosi e quindi " sorvegliati speciali" per aver combattuto l’Isis in Siria a fianco dei curdi. « Essendosi arruolati in un’organizzazione paramilitare e avendo partecipato anche a scontri bellici, possono utilizzare le loro conoscenze in materia di armi e di strategie militari per indottrinare altri militanti d’area e commettere delitti contro la persona con più gravi conseguenze».
La procura di Torino così ha spiegato la richiesta di una misura di prevenzione per cinque persone, legate ai centri sociali torinesi, che dal 2016 a oggi si sono unite o hanno seguito da vicino le brigate internazionali dello Ypg, le milizie curde protagoniste della resistenza contro l’esercito del Califfato. Sono Davide Grasso, Jacopo Bindi e Maria Edgarda Marcucci, autonomi del centro sociale Askatasuna, già a processo per azioni contro l’alta velocità Torino- Lione. Fabrizio Maniero, anarchico del centro sociale Barocchio, condannato anche lui per gli scontri del 2011 in Valsusa. Anarchico anche Paolo Andolina, soprannominato Pachino, il quinto " sorvegliato speciale" che più volte è stato individuato in zone di guerra della Siria del Nord, come Raqqa. « Questa è una misura di polizia che limita la libertà dei cittadini e getta una macchia su tutto l’esercito popolare, decine di migliaia di persone che muoiono per proteggere la popolazione civile, dice Davide Grasso. « Sono ragazzi giovanissimi, poveri e disperati che combattono contro un esercito di psicopatici, quello dell’Is, autore di esecuzioni sommarie, che arma camion bomba, e schiavizza donne e bambini. Gli stessi magistrati che ci mettono sotto accusa possono vivere più sicuri grazie alle Ypg».
La richiesta, firmata dai pm Emilio Gatti ed Emanuela Pedrotta, sarà discussa davanti al Tribunale il 23 gennaio e prevede due anni di sorveglianza e il divieto di dimora a Torino. È frutto di un anno di monitoraggio della Digos: la partecipazione ad azioni di guerra, l’addestramento all’uso delle armi costituisce un segnale d’allarme visti i precedenti di cui si sono resi protagonisti i cinque durante le loro attività politiche in Italia. Tutti sono stati almeno una volta in Siria, e lo hanno rivendicato pubblicamente. Bindi ha inviato reportage per quotidiani italiani, Marcucci ha scritto una serie di lettere dal fronte e Grasso ha pubblicato un libro sulla sua esperienza. Andolina, di ritorno dal suo primo viaggio in Rojava ha preso parte a manifestazioni e proteste, alcune delle quali sfociate in tensioni e scontri con le forze dell’ordine. Nella notte di Capodanno 2018 è stato denunciato per la mobilitazione in solidarietà dei detenuti del carcere delle Vallette, e per questo non avrebbe più potuto tornare in Siria. Divieto che ha violato a marzo 2018 per ripartire per il Kurdistan: « È una scelta che rivendico — dice Andolina — per questo motivo mi trovo tutt’ora ai domiciliari ».
A settembre 2018, il sardo Pierluigi Caria, esperto di diritto internazionale, è stato arrestato con l’accusa di terrorismo internazionale perché qualche mese prima si era unito alle Ypg. L’antiterrorismo sarda aveva accostato le milizie curde con le quali hanno combattuto anche i cinque torinesi al Pkk, il partito indipendentista curdo attivo in particolare in Turchia, e inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche internazionali. Ma i colleghi torinesi non si sono spinti tanto avanti e, formalmente, hanno chiesto la misura di prevenzione solo per la provata pericolosità sociale che deriva dal mix tra attività politica in Italia ed esperienza con le armi in Siria.sorveglianza speciale
L’inchiesta di Torino
I volontari contro l’Isis nel mirino della procura " Socialmente pericolosi"
Sotto accusa 5 ex combattenti: "Possono addestrare i loro compagni dei centri sociali". La replica: "In Siria abbiamo lottato pure per voi"
Per gli inquirenti la partecipazione ad azioni militari costituisce un segnaledi allarme
di Ottavia Giustetti e Jacopo Ricca
Torino Socialmente pericolosi e quindi " sorvegliati speciali" per aver combattuto l’Isis in Siria a fianco dei curdi. « Essendosi arruolati in un’organizzazione paramilitare e avendo partecipato anche a scontri bellici, possono utilizzare le loro conoscenze in materia di armi e di strategie militari per indottrinare altri militanti d’area e commettere delitti contro la persona con più gravi conseguenze».
La procura di Torino così ha spiegato la richiesta di una misura di prevenzione per cinque persone, legate ai centri sociali torinesi, che dal 2016 a oggi si sono unite o hanno seguito da vicino le brigate internazionali dello Ypg, le milizie curde protagoniste della resistenza contro l’esercito del Califfato. Sono Davide Grasso, Jacopo Bindi e Maria Edgarda Marcucci, autonomi del centro sociale Askatasuna, già a processo per azioni contro l’alta velocità Torino- Lione. Fabrizio Maniero, anarchico del centro sociale Barocchio, condannato anche lui per gli scontri del 2011 in Valsusa. Anarchico anche Paolo Andolina, soprannominato Pachino, il quinto " sorvegliato speciale" che più volte è stato individuato in zone di guerra della Siria del Nord, come Raqqa. « Questa è una misura di polizia che limita la libertà dei cittadini e getta una macchia su tutto l’esercito popolare, decine di migliaia di persone che muoiono per proteggere la popolazione civile, dice Davide Grasso. « Sono ragazzi giovanissimi, poveri e disperati che combattono contro un esercito di psicopatici, quello dell’Is, autore di esecuzioni sommarie, che arma camion bomba, e schiavizza donne e bambini. Gli stessi magistrati che ci mettono sotto accusa possono vivere più sicuri grazie alle Ypg».
La richiesta, firmata dai pm Emilio Gatti ed Emanuela Pedrotta, sarà discussa davanti al Tribunale il 23 gennaio e prevede due anni di sorveglianza e il divieto di dimora a Torino. È frutto di un anno di monitoraggio della Digos: la partecipazione ad azioni di guerra, l’addestramento all’uso delle armi costituisce un segnale d’allarme visti i precedenti di cui si sono resi protagonisti i cinque durante le loro attività politiche in Italia. Tutti sono stati almeno una volta in Siria, e lo hanno rivendicato pubblicamente. Bindi ha inviato reportage per quotidiani italiani, Marcucci ha scritto una serie di lettere dal fronte e Grasso ha pubblicato un libro sulla sua esperienza. Andolina, di ritorno dal suo primo viaggio in Rojava ha preso parte a manifestazioni e proteste, alcune delle quali sfociate in tensioni e scontri con le forze dell’ordine. Nella notte di Capodanno 2018 è stato denunciato per la mobilitazione in solidarietà dei detenuti del carcere delle Vallette, e per questo non avrebbe più potuto tornare in Siria. Divieto che ha violato a marzo 2018 per ripartire per il Kurdistan: « È una scelta che rivendico — dice Andolina — per questo motivo mi trovo tutt’ora ai domiciliari ».
A settembre 2018, il sardo Pierluigi Caria, esperto di diritto internazionale, è stato arrestato con l’accusa di terrorismo internazionale perché qualche mese prima si era unito alle Ypg. L’antiterrorismo sarda aveva accostato le milizie curde con le quali hanno combattuto anche i cinque torinesi al Pkk, il partito indipendentista curdo attivo in particolare in Turchia, e inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche internazionali. Ma i colleghi torinesi non si sono spinti tanto avanti e, formalmente, hanno chiesto la misura di prevenzione solo per la provata pericolosità sociale che deriva dal mix tra attività politica in Italia ed esperienza con le armi in Siria.sorveglianza speciale
Repubblica 5.1.19
Intervista a Zerocalcare
"A fianco dei curdi criminalizzarli è un atto politico"
J.R.
«Tutti si riempiono la bocca di lotta al terrorismo, poi però criminalizziamo chi si unisce ai curdi». Zerocalcare, il fumettista autore di Kobane Calling, sta con i giovani italiani sorvegliati speciali: «Salvano la dignità del nostro paese di fronte alla storia, visto che l’Italia non dà alcun aiuto concreto e, anzi, continua a finanziare e a vendere armi alla Turchia».
Cosa pensa della sorveglianza speciale ai combattenti italiani?
«È un provvedimento politico per colpire chi si organizza facendo propri i valori della rivoluzione curda: protagonismo femminile, uguaglianza e giustizia sociale, convivenza pacifica tra culture.
Tutte cose che ci piacciono se le rivendicano in Medio Oriente, mentre a casa nostra, a quanto, pare meritano la sorveglianza speciale».
Anche lei potrebbe ricevere un provvedimento simile.
«Diciamo che io sono un privilegiato perché si solleverebbe un vespaio di polemiche, Questi ragazzi, invece, sono più facili da colpire e da isolare». – j.r.
Intervista a Zerocalcare
"A fianco dei curdi criminalizzarli è un atto politico"
J.R.
«Tutti si riempiono la bocca di lotta al terrorismo, poi però criminalizziamo chi si unisce ai curdi». Zerocalcare, il fumettista autore di Kobane Calling, sta con i giovani italiani sorvegliati speciali: «Salvano la dignità del nostro paese di fronte alla storia, visto che l’Italia non dà alcun aiuto concreto e, anzi, continua a finanziare e a vendere armi alla Turchia».
Cosa pensa della sorveglianza speciale ai combattenti italiani?
«È un provvedimento politico per colpire chi si organizza facendo propri i valori della rivoluzione curda: protagonismo femminile, uguaglianza e giustizia sociale, convivenza pacifica tra culture.
Tutte cose che ci piacciono se le rivendicano in Medio Oriente, mentre a casa nostra, a quanto, pare meritano la sorveglianza speciale».
Anche lei potrebbe ricevere un provvedimento simile.
«Diciamo che io sono un privilegiato perché si solleverebbe un vespaio di polemiche, Questi ragazzi, invece, sono più facili da colpire e da isolare». – j.r.
Il Fatto 5.1.19
Hanno combattuto tra i curdi contro l’Isis: sorveglianza speciale per cinque antagonisti
di A. Giamb.
Sono stati nel Nord della Siria a combattere al fianco delle milizie curde contro lo Stato islamico. Sul fronte mediorientale, nel Rojava, tra le file dell’Unità di protezione popolare (Ypg), avrebbero imparato a maneggiare le armi. Per questa ragione il sostituto procuratore di Torino Manuela Pedrotta, su istanza della Digos, ha chiesto al tribunale che disponga la sorveglianza speciale di due anni e il divieto di soggiorno nei confronti di cinque esponenti di Askatasuna e altri centri sociali torinesi. I cinque dovranno partecipare a un’udienza della sezione “Misure di prevenzione” il 23 gennaio prossimo. Tra di loro ci sono due militanti anarchici, Fabrizio Maniero e Paolo “Pachino” Andolina. Quest’ultimo, dopo una prima esperienza in Siria, a marzo era tornato sul fronte. Per farlo, però, aveva violato una misura cautelare, l’obbligo di firma, ragione per cui una volta rientrato in Italia si è presentato in questura per essere arrestato. C’è poi una donna, una delle poche se non addirittura l’unica italiana partita a combattere coi curdi e contro l’Isis.
Si chiama Maria Edgarda Marcucci, per gli amici “Eddi”, già “nota” poiché nel luglio 2016 il regista Paolo Virzì, padre di una sua amica, le aveva scritto una lettera aperta su La Stampa chiedendole dove fosse: la ragazza, dopo un’operazione contro i No Tav, era diventata irreperibile. Nel 2017 la giovane, vicina ad Askatasuna, è entrata nella brigata femminile, l’Unità di Difesa delle Donne (Ypj). Nel mirino della Procura altri due militanti del centro sociale, Jacopo Bindi, ricercatore di fisica al Politecnico di Torino, e Davide Grasso, ex studente di filosofia: “Nelle carte fa riferimento al procedimento avviato a Cagliari”, ha detto ieri a Radio Onda D’Urto. Qui la procura ha indagato per associazione finalizzata al terrorismo internazionale tre sardi partiti per combattere con i curdi.
Hanno combattuto tra i curdi contro l’Isis: sorveglianza speciale per cinque antagonisti
di A. Giamb.
Sono stati nel Nord della Siria a combattere al fianco delle milizie curde contro lo Stato islamico. Sul fronte mediorientale, nel Rojava, tra le file dell’Unità di protezione popolare (Ypg), avrebbero imparato a maneggiare le armi. Per questa ragione il sostituto procuratore di Torino Manuela Pedrotta, su istanza della Digos, ha chiesto al tribunale che disponga la sorveglianza speciale di due anni e il divieto di soggiorno nei confronti di cinque esponenti di Askatasuna e altri centri sociali torinesi. I cinque dovranno partecipare a un’udienza della sezione “Misure di prevenzione” il 23 gennaio prossimo. Tra di loro ci sono due militanti anarchici, Fabrizio Maniero e Paolo “Pachino” Andolina. Quest’ultimo, dopo una prima esperienza in Siria, a marzo era tornato sul fronte. Per farlo, però, aveva violato una misura cautelare, l’obbligo di firma, ragione per cui una volta rientrato in Italia si è presentato in questura per essere arrestato. C’è poi una donna, una delle poche se non addirittura l’unica italiana partita a combattere coi curdi e contro l’Isis.
Si chiama Maria Edgarda Marcucci, per gli amici “Eddi”, già “nota” poiché nel luglio 2016 il regista Paolo Virzì, padre di una sua amica, le aveva scritto una lettera aperta su La Stampa chiedendole dove fosse: la ragazza, dopo un’operazione contro i No Tav, era diventata irreperibile. Nel 2017 la giovane, vicina ad Askatasuna, è entrata nella brigata femminile, l’Unità di Difesa delle Donne (Ypj). Nel mirino della Procura altri due militanti del centro sociale, Jacopo Bindi, ricercatore di fisica al Politecnico di Torino, e Davide Grasso, ex studente di filosofia: “Nelle carte fa riferimento al procedimento avviato a Cagliari”, ha detto ieri a Radio Onda D’Urto. Qui la procura ha indagato per associazione finalizzata al terrorismo internazionale tre sardi partiti per combattere con i curdi.
La Stampa 5.1.19
Gli africani non possono più partire
di Domenico Quirico
L’oscura pericolosa magia del muoversi insieme, verso l’ignoto, che dava moto agli alberi stecchiti, alle capanne di lamiera, alle luride piste di sabbia, non si ripeterà. Eppure, così, i giovani facevano la Storia camminando, la loro vita era un’epopea, un’odissea. Erano l’Inizio assoluto. L’Africa intera affronta il primo anno senza Migrazione.
Riuniti nello spiazzo del villaggio, tra le capanne strette come scaglie di pigna; nei sordidi caffè delle bidonvilles di uomini ammonticchiati, dove la povertà sembra ancora più cruda, città affamate di pane, di elettricità, di acqua, di soldi; aggruppati lungo i mercati di stracci e di fango, si sente un pensiero fisso che rode. Inutile: quest’anno per la prima volta non si partirà!
Le notizie che arrivano da Nord del mondo sono chiare: le vie sono chiuse. In Niger, in Libia, lungo tutta la frontiera del mare i gendarmi i soldati i funzionari ora vigilano. L’incredibile è accaduto: l’Europa ha sbarrato le porte del mare e di terra. Come se per miracolo avesse di colpo spostato le sue frontiere, i suoi muri più a Sud. Avesse reso più piccolo il mondo.
Qualcuno, testardo, tenterà. Partirà egualmente. Forse qualche rivolo di migranti riuscirà ancora a passare. Ma era la Grande Migrazione verso il nord del mondo la stella polare su cui ruotava la vita di migliaia di giovani africani. E questa improvvisamente si è spenta. Da questa parte del mondo non ce ne siamo mai accorti, avvolti nella nostra piccola rete di paure razziste, di furberie geopolitiche, di ipocrisie. Ma la migrazione ha disincagliato la Storia di un continente, ora per reinventare il mondo dovranno rivolgersi a sé stessi. Non sarà passaggio lieve.
Una generazione di africani nel partire ha trovato una uscita di sicurezza alla miseria del loro presente, tanto da farne un rito di passaggio verso la vita adulta. Nel contempo ha allentato la stretta su economie sull’orlo della carestia e sollevato dalla prospettiva di essere uccisi in conflitti tribali e fanatici, o schiacciati da regimi implacabili. Ora sono di nuovi prigionieri di un cerchio remissivo che protegge e sfianca. Sono uomini che si devono ricomporre.
Per i despoti, gli eterni signori della «tribù signorsì» dell’Africa subsahariana con cui teniamo interazioni avide e disoneste la Migrazione è stato un utilissimo diversivo. Ha distratto una generazione dall’intuizione che la loro liberazione poteva farsi se non con la forza. La forza rivoluzionaria. Se li ritrovano davanti, i traviati e i proscritti, faccia a faccia. Bisognerà fornire ai nostri «alleati» ancora una volta baionette e cannoni. Dobbiamo cominciare a sospettare che l’Africa che abbiamo voluto, per sfruttarla con comodo, stia per dissolversi, decomporsi, diventare amorfa, come dicono i chimici.
La brutalità dei rapporti di potere qui impone la violenza come unica soluzione per rovesciarli, non c’è mediazione: anche per colpa nostra. Il giovane africano che da noi aspettava un aiuto e un pezzo di carta che l’autorizzasse a un’altra vita sarà costretto a ricominciare dalla fine, dalla rivolta, dalla cancellazione dell’ordine antico. Devono di nuovo decolonizzarsi, estirpare da sé il mite, servile suddito di queste infinite tirannidi. I dannati della terra sono di nuovo al punto di partenza. La migrazione fallita ha creato uomini nuovi ma li ha lasciati a metà.
Ma c’è un altro elemento in questo primo anno senza Migrazione: coloro che hanno tentato, sono stati respinti e tornano indietro. La sconfitta era vissuta finora come una umiliazione personale, un rimorso. Perché altri avevano dimostrato che era possibile riuscire. La sconfitta collettiva impone una riflessione più complessa: i giovani possono ricomporre la loro condizione umana solo se rifiutano la colpa e la trasformano in rabbia. Hanno vissuto tutto il ciclo delle esperienze, superato le prove più dure e sentono di essere rimasti incompleti, mutilati. Diventano ribelli e rivoluzionari perché trasferiscono questa sensazione di incompletezza alla società in cui sono tornati: per metterla frutto. Li farà saltare il fosso. Finalmente con le spalle al muro liberano la rabbia che suscitano in loro vecchi misfatti riscaldati. La violenza come la lancia di Achille può cicatrizzare le ferite.
C’è qualcuno che potrebbe sfruttare a suo vantaggio la rabbia di questi giovani sconfitti. I jihadisti. Sono lì, dal Mali alla Nigeria, dalla Somalia al Centrafrica. Attendono l’occasione. Tra questi giovani rimasti senza Migrazione c’è il «lumpenproletariat» africano ma anche una generazione istruita: dunque i futuri burattinai del terrore e i futuri martiri ciechi e inconsapevoli.
Gli africani non possono più partire
di Domenico Quirico
L’oscura pericolosa magia del muoversi insieme, verso l’ignoto, che dava moto agli alberi stecchiti, alle capanne di lamiera, alle luride piste di sabbia, non si ripeterà. Eppure, così, i giovani facevano la Storia camminando, la loro vita era un’epopea, un’odissea. Erano l’Inizio assoluto. L’Africa intera affronta il primo anno senza Migrazione.
Riuniti nello spiazzo del villaggio, tra le capanne strette come scaglie di pigna; nei sordidi caffè delle bidonvilles di uomini ammonticchiati, dove la povertà sembra ancora più cruda, città affamate di pane, di elettricità, di acqua, di soldi; aggruppati lungo i mercati di stracci e di fango, si sente un pensiero fisso che rode. Inutile: quest’anno per la prima volta non si partirà!
Le notizie che arrivano da Nord del mondo sono chiare: le vie sono chiuse. In Niger, in Libia, lungo tutta la frontiera del mare i gendarmi i soldati i funzionari ora vigilano. L’incredibile è accaduto: l’Europa ha sbarrato le porte del mare e di terra. Come se per miracolo avesse di colpo spostato le sue frontiere, i suoi muri più a Sud. Avesse reso più piccolo il mondo.
Qualcuno, testardo, tenterà. Partirà egualmente. Forse qualche rivolo di migranti riuscirà ancora a passare. Ma era la Grande Migrazione verso il nord del mondo la stella polare su cui ruotava la vita di migliaia di giovani africani. E questa improvvisamente si è spenta. Da questa parte del mondo non ce ne siamo mai accorti, avvolti nella nostra piccola rete di paure razziste, di furberie geopolitiche, di ipocrisie. Ma la migrazione ha disincagliato la Storia di un continente, ora per reinventare il mondo dovranno rivolgersi a sé stessi. Non sarà passaggio lieve.
Una generazione di africani nel partire ha trovato una uscita di sicurezza alla miseria del loro presente, tanto da farne un rito di passaggio verso la vita adulta. Nel contempo ha allentato la stretta su economie sull’orlo della carestia e sollevato dalla prospettiva di essere uccisi in conflitti tribali e fanatici, o schiacciati da regimi implacabili. Ora sono di nuovi prigionieri di un cerchio remissivo che protegge e sfianca. Sono uomini che si devono ricomporre.
Per i despoti, gli eterni signori della «tribù signorsì» dell’Africa subsahariana con cui teniamo interazioni avide e disoneste la Migrazione è stato un utilissimo diversivo. Ha distratto una generazione dall’intuizione che la loro liberazione poteva farsi se non con la forza. La forza rivoluzionaria. Se li ritrovano davanti, i traviati e i proscritti, faccia a faccia. Bisognerà fornire ai nostri «alleati» ancora una volta baionette e cannoni. Dobbiamo cominciare a sospettare che l’Africa che abbiamo voluto, per sfruttarla con comodo, stia per dissolversi, decomporsi, diventare amorfa, come dicono i chimici.
La brutalità dei rapporti di potere qui impone la violenza come unica soluzione per rovesciarli, non c’è mediazione: anche per colpa nostra. Il giovane africano che da noi aspettava un aiuto e un pezzo di carta che l’autorizzasse a un’altra vita sarà costretto a ricominciare dalla fine, dalla rivolta, dalla cancellazione dell’ordine antico. Devono di nuovo decolonizzarsi, estirpare da sé il mite, servile suddito di queste infinite tirannidi. I dannati della terra sono di nuovo al punto di partenza. La migrazione fallita ha creato uomini nuovi ma li ha lasciati a metà.
Ma c’è un altro elemento in questo primo anno senza Migrazione: coloro che hanno tentato, sono stati respinti e tornano indietro. La sconfitta era vissuta finora come una umiliazione personale, un rimorso. Perché altri avevano dimostrato che era possibile riuscire. La sconfitta collettiva impone una riflessione più complessa: i giovani possono ricomporre la loro condizione umana solo se rifiutano la colpa e la trasformano in rabbia. Hanno vissuto tutto il ciclo delle esperienze, superato le prove più dure e sentono di essere rimasti incompleti, mutilati. Diventano ribelli e rivoluzionari perché trasferiscono questa sensazione di incompletezza alla società in cui sono tornati: per metterla frutto. Li farà saltare il fosso. Finalmente con le spalle al muro liberano la rabbia che suscitano in loro vecchi misfatti riscaldati. La violenza come la lancia di Achille può cicatrizzare le ferite.
C’è qualcuno che potrebbe sfruttare a suo vantaggio la rabbia di questi giovani sconfitti. I jihadisti. Sono lì, dal Mali alla Nigeria, dalla Somalia al Centrafrica. Attendono l’occasione. Tra questi giovani rimasti senza Migrazione c’è il «lumpenproletariat» africano ma anche una generazione istruita: dunque i futuri burattinai del terrore e i futuri martiri ciechi e inconsapevoli.
La Stampa 5.1.19
Si allontana l’integrazione dei migranti
di Maria Rosa Tomasello
Giandomenico Maniscalco ha la fermezza delle convinzioni e il coraggio dell’amore di un padre: «A Ibrahim l’abbiamo detto. Finché starà a casa nostra, lo difenderemo a tutti i costi, dovranno mandare l’esercito... Ma prima per fortuna ci sono molte vie che possono essere percorse sul piano del diritto». Nella casa di Palermo di Maniscalco, dirigente in pensione della Regione Sicilia, e di sua moglie Patrizia Picciotto e dei due figli, Ibrahim è arrivato un anno fa nell’ambito del progetto «Refugees Welcome», e per lui le porte si sono aperte «a tempo indeterminato». Venuto dal deserto subsahariano e dalle prigioni libiche, che oggi è uno studente modello dell’ Istituto Nautico e che, come migliaia di altri ragazzi, rischia di passare senza colpe dalla legalità alla clandestinità. Un caso emblematico perché, sottolinea Maniscalco, «se è vero che il decreto sicurezza vuole garantire una migliore integrazione, noi questo già lo pratichiamo». Il futuro di Ibra è appeso alla richiesta di rinnovo del permesso umanitario, ma a novembre, dopo l’entrata in vigore del decreto Salvini, l’ufficio anagrafe del Comune gli ha negato l’iscrizione: nessuna residenza, nonostante i documenti sulla sua situazione di accoglienza fossero già da mesi nella banca dati della questura. «Ha una casa, una famiglia. Cosa occorre che abbia di più? – chiede Maniscalco - Condividiamo pranzo e cena, le risate davanti alla tv, qual è l’elemento ostativo che può privare una persona della sua felicità?».
Un’analisi dell’Ispi stima che la stretta imposta dal governo creerà nei prossimi due anni 130mila irregolari, persone che oggi risiedono in Italia legalmente grazie ai permessi umanitari che la nuova legge cancella, mentre Save the Children lancia l’allarme per le migliaia di minori stranieri non accompagnati che compiranno 18 anni nel 2019 (6780) e che, rimasti senza tutele, potrebbero finire in un limbo.
Said D. ha compiuto 20 anni il 15 luglio. E’ arrivato in Italia da solo, quando era minorenne. «Come minore non accompagnato nel 2015 ha avuto la protezione umanitaria per vulnerabilità e oggi, dopo aver lavorato in condizioni di sfruttamento nelle campagne del sud Italia, vive in un centro di accoglienza del Comune di Roma - racconta Giovanna Cavallo, coordinatrice legale di Baobab - Il suo permesso di soggiorno è scaduto a giugno: ma mentre in precedenza per i neo-maggiorenni il rinnovo era abbastanza automatico, prima ancora che entrasse in vigore il decreto Salvini la questura gli ha chiesto di presentarsi a gennaio con un contratto di lavoro. Una richiesta che noi abbiamo contestato perché illegittima».
A finire nelle maglie della legge c’è anche chi ha un lavoro stabile, spiega Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio. Mohamed ,originario del Mali,è uno di questi: «Fa il magazziniere, parla perfettamente italiano. Ha fatto domanda di rinnovo del permesso per motivi umanitari prima di ottobre, quando il contratto di lavoro non era richiesto, e gli hanno dato l’etichetta di “caso speciale”: vale un anno e non potrà più essere convertito in un nuovo permesso». Un rigore che non risparmia nessuno. Neppure Liu, 30 anni, tunisino. Nel Natale del 2015 sbarca in Italia dalla Francia per far visita agli amici, subisce una gravissima aggressione alla stazione Termini e perde la vista. Il questore gli concede un permesso umanitario e Liu inizia un lungo e difficile percorso di riabilitazione: «Ora vogliono dargli un permesso per cure mediche, che però non assicura gli stessi diritti. Perderebbe l’indennità di invalidità e la possibilità di vivere nel centro per non vedenti. Tutto diventerebbe precario, interrompendo il percorso che il nostro Paese finora gli ha garantito».
Si allontana l’integrazione dei migranti
di Maria Rosa Tomasello
Giandomenico Maniscalco ha la fermezza delle convinzioni e il coraggio dell’amore di un padre: «A Ibrahim l’abbiamo detto. Finché starà a casa nostra, lo difenderemo a tutti i costi, dovranno mandare l’esercito... Ma prima per fortuna ci sono molte vie che possono essere percorse sul piano del diritto». Nella casa di Palermo di Maniscalco, dirigente in pensione della Regione Sicilia, e di sua moglie Patrizia Picciotto e dei due figli, Ibrahim è arrivato un anno fa nell’ambito del progetto «Refugees Welcome», e per lui le porte si sono aperte «a tempo indeterminato». Venuto dal deserto subsahariano e dalle prigioni libiche, che oggi è uno studente modello dell’ Istituto Nautico e che, come migliaia di altri ragazzi, rischia di passare senza colpe dalla legalità alla clandestinità. Un caso emblematico perché, sottolinea Maniscalco, «se è vero che il decreto sicurezza vuole garantire una migliore integrazione, noi questo già lo pratichiamo». Il futuro di Ibra è appeso alla richiesta di rinnovo del permesso umanitario, ma a novembre, dopo l’entrata in vigore del decreto Salvini, l’ufficio anagrafe del Comune gli ha negato l’iscrizione: nessuna residenza, nonostante i documenti sulla sua situazione di accoglienza fossero già da mesi nella banca dati della questura. «Ha una casa, una famiglia. Cosa occorre che abbia di più? – chiede Maniscalco - Condividiamo pranzo e cena, le risate davanti alla tv, qual è l’elemento ostativo che può privare una persona della sua felicità?».
Un’analisi dell’Ispi stima che la stretta imposta dal governo creerà nei prossimi due anni 130mila irregolari, persone che oggi risiedono in Italia legalmente grazie ai permessi umanitari che la nuova legge cancella, mentre Save the Children lancia l’allarme per le migliaia di minori stranieri non accompagnati che compiranno 18 anni nel 2019 (6780) e che, rimasti senza tutele, potrebbero finire in un limbo.
Said D. ha compiuto 20 anni il 15 luglio. E’ arrivato in Italia da solo, quando era minorenne. «Come minore non accompagnato nel 2015 ha avuto la protezione umanitaria per vulnerabilità e oggi, dopo aver lavorato in condizioni di sfruttamento nelle campagne del sud Italia, vive in un centro di accoglienza del Comune di Roma - racconta Giovanna Cavallo, coordinatrice legale di Baobab - Il suo permesso di soggiorno è scaduto a giugno: ma mentre in precedenza per i neo-maggiorenni il rinnovo era abbastanza automatico, prima ancora che entrasse in vigore il decreto Salvini la questura gli ha chiesto di presentarsi a gennaio con un contratto di lavoro. Una richiesta che noi abbiamo contestato perché illegittima».
A finire nelle maglie della legge c’è anche chi ha un lavoro stabile, spiega Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio. Mohamed ,originario del Mali,è uno di questi: «Fa il magazziniere, parla perfettamente italiano. Ha fatto domanda di rinnovo del permesso per motivi umanitari prima di ottobre, quando il contratto di lavoro non era richiesto, e gli hanno dato l’etichetta di “caso speciale”: vale un anno e non potrà più essere convertito in un nuovo permesso». Un rigore che non risparmia nessuno. Neppure Liu, 30 anni, tunisino. Nel Natale del 2015 sbarca in Italia dalla Francia per far visita agli amici, subisce una gravissima aggressione alla stazione Termini e perde la vista. Il questore gli concede un permesso umanitario e Liu inizia un lungo e difficile percorso di riabilitazione: «Ora vogliono dargli un permesso per cure mediche, che però non assicura gli stessi diritti. Perderebbe l’indennità di invalidità e la possibilità di vivere nel centro per non vedenti. Tutto diventerebbe precario, interrompendo il percorso che il nostro Paese finora gli ha garantito».
Corriere 5.1.19
I 49 profughi sulle navi
La soluzione che l’Europa non riesce a trovare
di Luigi Manconi
I dati essenziali sono questi: da quindici giorni, una nave dell’Ong Sea Watch, dopo aver raccolto dalle acque del Mediterraneo 32 migranti e profughi — tra cui 7 minori e 4 donne — chiede che un porto europeo possa accoglierli. I naufraghi provengono da undici diverse nazioni africane. Tutti Paesi dove si verificano condizioni di massima insicurezza, o a causa del dominio di regimi totalitari o a motivo di uno stato di estrema povertà; o perché dilaniati da conflitti bellici e guerre civili o perché teatro di attività terroristiche e di persecuzioni di natura etnica, religiosa e sessuale. Nella stessa situazione si trova la nave dell’Ong Sea Eye, che il 29 dicembre ha salvato 17 persone.
La lunga permanenza in mare e il peggioramento delle condizioni climatiche producono conseguenze che dai medici di bordo sono così riassunte: «per persone malnutrite e in condizioni di salute molto precarie la disidratazione come causa del mal di mare è un pericolo molto grave, soprattutto se associata all’ipotermia». Di fronte a tale situazione, c’è chi ha scritto con scandalo di: «povericristi salvati dal mare e sballottati tra le tempeste delle acque maltesi, una trentina di persone umane a cinquanta miglia dai porti chiusi di un Paese di sessanta milioni di abitanti con reddito di cittadinanza e quota cento». Non sono le parole del sindaco (sospeso) Mimmo Lucano o del missionario comboniano Alex Zanotelli, bensì di un giornale flemmatico e poco incline all’emotività come Il Foglio. Ed è difficile sottrarsi alla tentazione di comparare la vulnerabilità di quelle 49 persone spossessate di tutto alla robusta cifra di oltre 500 milioni di cittadini europei. La replica è inevitabile: accogliendo quelle 49 persone si rischia di alimentare un flusso che può farsi imponente e compromettere la stabilità economico-sociale di Paesi che, in maggioranza, non godono di ottima salute.
Non si vuole qui rispondere con la ragionevolezza, documentata da mille ricerche, che giungono a una conclusione pressoché unanime: se l’Europa adottasse una politica condivisa e di medio-lungo periodo, quei migranti non solo potrebbe accoglierli, ma ne verificherebbe l’irrinunciabile necessità. Consideriamo, piuttosto, la circostanza attuale che si configura come un vero stato di emergenza; e che richiama l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Qui si legge che «nessuno può essere sottoposto» a «trattamenti inumani o degradanti». La condizione fisica e psicologica di quei 49 configura o no un «trattamento inumano»? E come negare che si tratti proprio di questo, dal momento che un simile stato di esposizione al pericolo ha ormai raggiunto, per la gran parte di loro, le due settimane? Il nodo giuridico, prima ancora che umanitario e politico, è questo: e su questo sembra che, nelle ultime ore, qualcosa infine si muova grazie alla disponibilità di alcuni Paesi europei. Vi viene la curiosità di sapere se, tra questi, si trovi la nostra Italia, terra notoriamente dotata di «un cuore grande così»? Beh, tranquillizziamoci: non c’è.
Viene in mente una vecchia storia: nel 1939, la nave St. Louis salpò da Amburgo con a bordo 937 ebrei tedeschi alla ricerca di un porto sicuro, che non trovò a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada. Dopo parecchie settimane, fu costretta a tornare in Europa: una parte dei profughi fu accolta dall’Inghilterra, altri dalla Francia, dal Belgio, dai Paesi Bassi. Molti tra essi qualche anno dopo finiranno nei lager nazisti. Per carità, nessuna comparazione è possibile tra le due epoche storiche, le due tragedie e le diverse responsabilità. Ma, come hanno affermato Piero Terracina e Liliana Segre, sopravvissuti ad Auschwitz, un fattore avvicina le due vicende: l’indifferenza dell’Europa.
Ora, uno spiraglio sembra aprirsi: quanto ampio, chissà.
I 49 profughi sulle navi
La soluzione che l’Europa non riesce a trovare
di Luigi Manconi
I dati essenziali sono questi: da quindici giorni, una nave dell’Ong Sea Watch, dopo aver raccolto dalle acque del Mediterraneo 32 migranti e profughi — tra cui 7 minori e 4 donne — chiede che un porto europeo possa accoglierli. I naufraghi provengono da undici diverse nazioni africane. Tutti Paesi dove si verificano condizioni di massima insicurezza, o a causa del dominio di regimi totalitari o a motivo di uno stato di estrema povertà; o perché dilaniati da conflitti bellici e guerre civili o perché teatro di attività terroristiche e di persecuzioni di natura etnica, religiosa e sessuale. Nella stessa situazione si trova la nave dell’Ong Sea Eye, che il 29 dicembre ha salvato 17 persone.
La lunga permanenza in mare e il peggioramento delle condizioni climatiche producono conseguenze che dai medici di bordo sono così riassunte: «per persone malnutrite e in condizioni di salute molto precarie la disidratazione come causa del mal di mare è un pericolo molto grave, soprattutto se associata all’ipotermia». Di fronte a tale situazione, c’è chi ha scritto con scandalo di: «povericristi salvati dal mare e sballottati tra le tempeste delle acque maltesi, una trentina di persone umane a cinquanta miglia dai porti chiusi di un Paese di sessanta milioni di abitanti con reddito di cittadinanza e quota cento». Non sono le parole del sindaco (sospeso) Mimmo Lucano o del missionario comboniano Alex Zanotelli, bensì di un giornale flemmatico e poco incline all’emotività come Il Foglio. Ed è difficile sottrarsi alla tentazione di comparare la vulnerabilità di quelle 49 persone spossessate di tutto alla robusta cifra di oltre 500 milioni di cittadini europei. La replica è inevitabile: accogliendo quelle 49 persone si rischia di alimentare un flusso che può farsi imponente e compromettere la stabilità economico-sociale di Paesi che, in maggioranza, non godono di ottima salute.
Non si vuole qui rispondere con la ragionevolezza, documentata da mille ricerche, che giungono a una conclusione pressoché unanime: se l’Europa adottasse una politica condivisa e di medio-lungo periodo, quei migranti non solo potrebbe accoglierli, ma ne verificherebbe l’irrinunciabile necessità. Consideriamo, piuttosto, la circostanza attuale che si configura come un vero stato di emergenza; e che richiama l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Qui si legge che «nessuno può essere sottoposto» a «trattamenti inumani o degradanti». La condizione fisica e psicologica di quei 49 configura o no un «trattamento inumano»? E come negare che si tratti proprio di questo, dal momento che un simile stato di esposizione al pericolo ha ormai raggiunto, per la gran parte di loro, le due settimane? Il nodo giuridico, prima ancora che umanitario e politico, è questo: e su questo sembra che, nelle ultime ore, qualcosa infine si muova grazie alla disponibilità di alcuni Paesi europei. Vi viene la curiosità di sapere se, tra questi, si trovi la nostra Italia, terra notoriamente dotata di «un cuore grande così»? Beh, tranquillizziamoci: non c’è.
Viene in mente una vecchia storia: nel 1939, la nave St. Louis salpò da Amburgo con a bordo 937 ebrei tedeschi alla ricerca di un porto sicuro, che non trovò a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada. Dopo parecchie settimane, fu costretta a tornare in Europa: una parte dei profughi fu accolta dall’Inghilterra, altri dalla Francia, dal Belgio, dai Paesi Bassi. Molti tra essi qualche anno dopo finiranno nei lager nazisti. Per carità, nessuna comparazione è possibile tra le due epoche storiche, le due tragedie e le diverse responsabilità. Ma, come hanno affermato Piero Terracina e Liliana Segre, sopravvissuti ad Auschwitz, un fattore avvicina le due vicende: l’indifferenza dell’Europa.
Ora, uno spiraglio sembra aprirsi: quanto ampio, chissà.
Corriere 5.1.19
Quel voto ha «tradito» il ruolo del Parlamento
La protesta Il Pd chiede alla Corte costituzionale di pronunciarsi sullo «strappo»
Nessun dibattito Le Camere sono state mortificate, sottraendo le scelte alla logica di un confronto aperto
di Valerio Onida
Presidente emerito della Corte Costituzionale
Caro direttore, cerchiamo di ragionare, non si dice a freddo, ma con pacatezza, sulla vicenda della approvazione parlamentare della legge di bilancio: un’approvazione avvenuta, al Senato, sulla base di un maxi-emendamento «monstre» presentato dal governo, corretto fino all’ultimo minuto, e composto da varie centinaia di commi di uno stesso articolo, dai contenuti più disparati.
Non è la prima volta che la cosiddetta «manovra» di fine anno viene varata faticosamente con la discutibile procedura di un voto unico, su un testo fitto di disposizioni diversissime, sul quale il governo pone la questione di fiducia. Ma è la prima volta che il testo sul quale si è votato è rimasto praticamente sconosciuto e non conoscibile da parte dei parlamentari chiamati ad esprimersi, perché modificato fino a poche ore prima del voto finale, senza alcuna possibilità di esame e discussione, né in Commissione, né in Aula. Quando il governo pone la questione di fiducia su un testo, è vero che il voto assume un significato ulteriore rispetto a quello suo proprio, e cioè l’effetto di conferma o di smentita del rapporto fiduciario dalla cui permanenza dipende la continuità di vita del governo. Ma ciò non toglie che il voto continui a essere anzitutto una espressione di consenso o di dissenso delle due Camere rispetto a un testo preciso, destinato ad assumere forza di legge dopo la promulgazione da parte del Capo dello Stato.
Ora, approvare un testo che non si conosce e non si può conoscere nella sua formulazione definitiva è qualcosa che non costituisce solo una cattiva prassi, ma che smentisce e tradisce l’essenza stessa del ruolo del Parlamento nel procedimento legislativo. Su questo vero e proprio strappo sarà chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale, decidendo sul conflitto di attribuzioni promosso da un gruppo parlamentare di opposizione (quello del Pd) e insieme da parlamentari costituenti quel decimo dei componenti di una Camera che per Costituzione ha il potere di chiedere un voto dell’assemblea nell’ambito del procedimento legislativo e su una mozione di sfiducia.
La giustificazione della maggioranza per questo modo di procedere è che la trattativa con le istituzioni dell’Unione Europea si è dovuta prolungare fino a raggiungere l’intesa idonea a evitare la procedura di infrazione, e che quindi la manovra ha dovuto essere adattata alle nuove condizioni, in particolare ridimensionando l’entità del deficit previsto. La giustificazione ha un suo fondamento di fatto: ma qui si rivela l’altro vero «peccato originale» di questo tipo di manovra. Infatti, secondo la legge generale di attuazione del nuovo art. 81 della Costituzione (riformato nel 2012), la legge di bilancio dovrebbe limitarsi a contenere le previsioni di entrata e di spesa nei tre anni a venire, sia quelle derivanti dalla legislazione già in vigore, sia quelle funzionali a realizzare i nuovi obiettivi programmatici, evidenziando i risultati differenziali complessivi: in ogni caso solo misure quantitative, con esclusione di norme «di carattere ordinamentale o organizzatorio» e di «interventi di natura localistica o microsettoriale».
Nella prassi invece la legge di bilancio (come in passato la legge finanziaria o di stabilità) viene infarcita di innumerevoli disposizioni particolari, aventi effetti di entrata o più spesso di spesa a carattere spesso microsettoriale e localistico. Sono, per quanto riguarda le spese, quelle che si usano chiamare «mance» intese a soddisfare i più svariati interessi particolari, magari meritevoli, ma appunto svincolati da una visione generale dei problemi. Nella legge di bilancio appena approvata dal Senato il Sole 24 Ore ha contato 106 micro-misure di spesa, dell’ordine da 60.000 euro a 10 milioni di euro ciascuna nel 2019. In questo modo le centinaia di commi della legge mirano a soddisfare tanti micro-interessi, e il maxi-emendamento governativo diventa il luogo di sintesi di queste misure. Qui l’Europa non c’entra. Le istituzioni europee possono giustamente avere contrattato i risultati complessivi di bilancio (il famoso 2,04 invece che il 2,4 di deficit), ma da questo punto di vista l’esito avrebbe dovuto essere una legge che ridefinisse in modo coerente i saldi di bilancio, non certo un profluvio di misure spicciole di entrata e di spesa. Certo, i risultati complessivi del bilancio dipendono anche dalla programmazione di nuove entrate e di nuove spese, oltre che dall’andamento previsto delle entrate e spese già regolate. Ma il bilancio, per quanto riguarda le spese, contiene sia gli stanziamenti per specifiche destinazioni di spesa, sia accantonamenti o fondi speciali destinati a finanziare nuove spese che ancora debbono essere disciplinate. Per esempio è significativo che per le due grandi misure che l’attuale maggioranza di governo considera per sé caratterizzanti, vale a dire la cosiddetta quota cento per le pensioni e il cosiddetto reddito di cittadinanza, la legge di bilancio non contenga alcuna normativa diretta a introdurle e regolarle, ma solo degli accantonamenti. Allora sarebbe bastato rivedere la legge riducendo o spostando gli accantonamenti, in modo da giungere ai risultati differenziali voluti (riduzione del deficit previsto). Per le nuove entrate è diverso, perché se non sono specificamente regolate il bilancio non può registrarle: ma nulla vieterebbe ad esempio di ridurre temporaneamente gli accantonamenti per le nuove spese riservandosi di accrescerli una volta che, anche con provvedimenti separati, si fosse provveduto a procurare e disciplinare le nuove entrate atte a coprirle. Ma per far questo occorrerebbe davvero assegnare alla legge di bilancio il ruolo suo proprio, riservando a separati provvedimenti legislativi le misure particolari comportanti nuove entrate o nuove spese. Con questo si perderebbe però l’opportunità, per i vari micro-interessi, dell’annuale «assalto alla diligenza», cioè di agganciare il proprio vagoncino al «treno» della legge di bilancio che ha un iter sicuro e veloce: tanto veloce, che il Parlamento se lo vede praticamente passare sotto il naso senza fermarsi.
Continuando ed esasperando tale prassi si mortifica il Parlamento, e si offre al governo, che formula il suo «maxi-emendamento», e alle sue diverse articolazioni (i ministeri), l’opportunità di essere il luogo di sfogo di lobby e interessi particolari, le cui ragioni finiscono spesso per sfuggire alla logica di un confronto aperto e di un dibattito alla luce del sole.
Quel voto ha «tradito» il ruolo del Parlamento
La protesta Il Pd chiede alla Corte costituzionale di pronunciarsi sullo «strappo»
Nessun dibattito Le Camere sono state mortificate, sottraendo le scelte alla logica di un confronto aperto
di Valerio Onida
Presidente emerito della Corte Costituzionale
Caro direttore, cerchiamo di ragionare, non si dice a freddo, ma con pacatezza, sulla vicenda della approvazione parlamentare della legge di bilancio: un’approvazione avvenuta, al Senato, sulla base di un maxi-emendamento «monstre» presentato dal governo, corretto fino all’ultimo minuto, e composto da varie centinaia di commi di uno stesso articolo, dai contenuti più disparati.
Non è la prima volta che la cosiddetta «manovra» di fine anno viene varata faticosamente con la discutibile procedura di un voto unico, su un testo fitto di disposizioni diversissime, sul quale il governo pone la questione di fiducia. Ma è la prima volta che il testo sul quale si è votato è rimasto praticamente sconosciuto e non conoscibile da parte dei parlamentari chiamati ad esprimersi, perché modificato fino a poche ore prima del voto finale, senza alcuna possibilità di esame e discussione, né in Commissione, né in Aula. Quando il governo pone la questione di fiducia su un testo, è vero che il voto assume un significato ulteriore rispetto a quello suo proprio, e cioè l’effetto di conferma o di smentita del rapporto fiduciario dalla cui permanenza dipende la continuità di vita del governo. Ma ciò non toglie che il voto continui a essere anzitutto una espressione di consenso o di dissenso delle due Camere rispetto a un testo preciso, destinato ad assumere forza di legge dopo la promulgazione da parte del Capo dello Stato.
Ora, approvare un testo che non si conosce e non si può conoscere nella sua formulazione definitiva è qualcosa che non costituisce solo una cattiva prassi, ma che smentisce e tradisce l’essenza stessa del ruolo del Parlamento nel procedimento legislativo. Su questo vero e proprio strappo sarà chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale, decidendo sul conflitto di attribuzioni promosso da un gruppo parlamentare di opposizione (quello del Pd) e insieme da parlamentari costituenti quel decimo dei componenti di una Camera che per Costituzione ha il potere di chiedere un voto dell’assemblea nell’ambito del procedimento legislativo e su una mozione di sfiducia.
La giustificazione della maggioranza per questo modo di procedere è che la trattativa con le istituzioni dell’Unione Europea si è dovuta prolungare fino a raggiungere l’intesa idonea a evitare la procedura di infrazione, e che quindi la manovra ha dovuto essere adattata alle nuove condizioni, in particolare ridimensionando l’entità del deficit previsto. La giustificazione ha un suo fondamento di fatto: ma qui si rivela l’altro vero «peccato originale» di questo tipo di manovra. Infatti, secondo la legge generale di attuazione del nuovo art. 81 della Costituzione (riformato nel 2012), la legge di bilancio dovrebbe limitarsi a contenere le previsioni di entrata e di spesa nei tre anni a venire, sia quelle derivanti dalla legislazione già in vigore, sia quelle funzionali a realizzare i nuovi obiettivi programmatici, evidenziando i risultati differenziali complessivi: in ogni caso solo misure quantitative, con esclusione di norme «di carattere ordinamentale o organizzatorio» e di «interventi di natura localistica o microsettoriale».
Nella prassi invece la legge di bilancio (come in passato la legge finanziaria o di stabilità) viene infarcita di innumerevoli disposizioni particolari, aventi effetti di entrata o più spesso di spesa a carattere spesso microsettoriale e localistico. Sono, per quanto riguarda le spese, quelle che si usano chiamare «mance» intese a soddisfare i più svariati interessi particolari, magari meritevoli, ma appunto svincolati da una visione generale dei problemi. Nella legge di bilancio appena approvata dal Senato il Sole 24 Ore ha contato 106 micro-misure di spesa, dell’ordine da 60.000 euro a 10 milioni di euro ciascuna nel 2019. In questo modo le centinaia di commi della legge mirano a soddisfare tanti micro-interessi, e il maxi-emendamento governativo diventa il luogo di sintesi di queste misure. Qui l’Europa non c’entra. Le istituzioni europee possono giustamente avere contrattato i risultati complessivi di bilancio (il famoso 2,04 invece che il 2,4 di deficit), ma da questo punto di vista l’esito avrebbe dovuto essere una legge che ridefinisse in modo coerente i saldi di bilancio, non certo un profluvio di misure spicciole di entrata e di spesa. Certo, i risultati complessivi del bilancio dipendono anche dalla programmazione di nuove entrate e di nuove spese, oltre che dall’andamento previsto delle entrate e spese già regolate. Ma il bilancio, per quanto riguarda le spese, contiene sia gli stanziamenti per specifiche destinazioni di spesa, sia accantonamenti o fondi speciali destinati a finanziare nuove spese che ancora debbono essere disciplinate. Per esempio è significativo che per le due grandi misure che l’attuale maggioranza di governo considera per sé caratterizzanti, vale a dire la cosiddetta quota cento per le pensioni e il cosiddetto reddito di cittadinanza, la legge di bilancio non contenga alcuna normativa diretta a introdurle e regolarle, ma solo degli accantonamenti. Allora sarebbe bastato rivedere la legge riducendo o spostando gli accantonamenti, in modo da giungere ai risultati differenziali voluti (riduzione del deficit previsto). Per le nuove entrate è diverso, perché se non sono specificamente regolate il bilancio non può registrarle: ma nulla vieterebbe ad esempio di ridurre temporaneamente gli accantonamenti per le nuove spese riservandosi di accrescerli una volta che, anche con provvedimenti separati, si fosse provveduto a procurare e disciplinare le nuove entrate atte a coprirle. Ma per far questo occorrerebbe davvero assegnare alla legge di bilancio il ruolo suo proprio, riservando a separati provvedimenti legislativi le misure particolari comportanti nuove entrate o nuove spese. Con questo si perderebbe però l’opportunità, per i vari micro-interessi, dell’annuale «assalto alla diligenza», cioè di agganciare il proprio vagoncino al «treno» della legge di bilancio che ha un iter sicuro e veloce: tanto veloce, che il Parlamento se lo vede praticamente passare sotto il naso senza fermarsi.
Continuando ed esasperando tale prassi si mortifica il Parlamento, e si offre al governo, che formula il suo «maxi-emendamento», e alle sue diverse articolazioni (i ministeri), l’opportunità di essere il luogo di sfogo di lobby e interessi particolari, le cui ragioni finiscono spesso per sfuggire alla logica di un confronto aperto e di un dibattito alla luce del sole.
Repubblica 5.1.18
Il costituzionalista
Flick: "Contestare le leggi promulgate non vuol dire criticare il Colle"
di Liana Milella
ROMA «Contestare o disapprovare una legge promulgata dal presidente della Repubblica non è un delitto di lesa maestà nei confronti del presidente stesso. Io stimo molto l’attuale capo dello Stato. Mi ritrovo pienamente nelle sue parole di augurio verso i 5milioni di migranti che oggi vivono in Italia, ma non per questo perdo il diritto di criticare la legge che lui ha promulgato». È netto il giudizio che Giovanni Maria Flick – ex presidente della Consulta, nonché ex ministro della Giustizia nel primo governo Prodi – esprime sulla querelle che vede contrapposti i sindaci progressisti e Salvini. Il quale continua a dire: «Questi sindaci vogliono disattendere una legge firmata dal presidente della Repubblica».
Ma Flick scuote decisamente la testa e replica: «Quando il presidente promulga una legge non le dà un attestato di intangibilità. Esprime un suo giudizio politico-istituzionale sulla legge nel suo complesso senza necessariamente compiere un esame analitico dei singoli aspetti. In quel giudizio evidentemente possono (vorrei dire devono) avere un rilievo condizionante soltanto le eventuali violazioni macroscopiche della Costituzione".
Nelle parole di Mattarella – «Firmo anche leggi che non mi piacciono, respingo solo se sono palesemente incostituzionali» – si trova una conferma delle considerazioni di Flick. Il quale non si limita a un semplice assunto, ma porta delle "prove". «La storia della Consulta e del sistema legislativo è piena di esempi di leggi promulgate dal presidente e ciononostante sottoposte al giudizio di costituzionalità della Corte, che numerose volte le ha dichiarate in tutto o in parte incostituzionali». Flick fa degli esempi: leggi elettorali come il Porcellum e l’Italicum, bocciate in parte; il lodo Alfano e il legittimo impedimento; la procreazione assistita.
Del resto, come osserva Flick, proprio il saluto di Mattarella agli italiani per Capodanno, dimostra come la sua posizione sia antitetica a quella di Salvini.
Lui è per "Felicizia", un mondo in cui coesistono in pace italiani e stranieri. Salvini per un’Italia chiusa ai migranti. Dice Flick: «Il principio di accoglienza proposto dalla Costituzione, e ispirato a una logica internazionale, e quello di uguaglianza sono antitetici alla intitolazione del decreto che considera l’immigrazione solo dal punto di vista della sicurezza. Da questo discende un’impostazione in cui si possono individuare molteplici profili e dubbi di incostituzionalità che solo la Corte può valutare su richiesta di un giudice».
Il costituzionalista
Flick: "Contestare le leggi promulgate non vuol dire criticare il Colle"
di Liana Milella
ROMA «Contestare o disapprovare una legge promulgata dal presidente della Repubblica non è un delitto di lesa maestà nei confronti del presidente stesso. Io stimo molto l’attuale capo dello Stato. Mi ritrovo pienamente nelle sue parole di augurio verso i 5milioni di migranti che oggi vivono in Italia, ma non per questo perdo il diritto di criticare la legge che lui ha promulgato». È netto il giudizio che Giovanni Maria Flick – ex presidente della Consulta, nonché ex ministro della Giustizia nel primo governo Prodi – esprime sulla querelle che vede contrapposti i sindaci progressisti e Salvini. Il quale continua a dire: «Questi sindaci vogliono disattendere una legge firmata dal presidente della Repubblica».
Ma Flick scuote decisamente la testa e replica: «Quando il presidente promulga una legge non le dà un attestato di intangibilità. Esprime un suo giudizio politico-istituzionale sulla legge nel suo complesso senza necessariamente compiere un esame analitico dei singoli aspetti. In quel giudizio evidentemente possono (vorrei dire devono) avere un rilievo condizionante soltanto le eventuali violazioni macroscopiche della Costituzione".
Nelle parole di Mattarella – «Firmo anche leggi che non mi piacciono, respingo solo se sono palesemente incostituzionali» – si trova una conferma delle considerazioni di Flick. Il quale non si limita a un semplice assunto, ma porta delle "prove". «La storia della Consulta e del sistema legislativo è piena di esempi di leggi promulgate dal presidente e ciononostante sottoposte al giudizio di costituzionalità della Corte, che numerose volte le ha dichiarate in tutto o in parte incostituzionali». Flick fa degli esempi: leggi elettorali come il Porcellum e l’Italicum, bocciate in parte; il lodo Alfano e il legittimo impedimento; la procreazione assistita.
Del resto, come osserva Flick, proprio il saluto di Mattarella agli italiani per Capodanno, dimostra come la sua posizione sia antitetica a quella di Salvini.
Lui è per "Felicizia", un mondo in cui coesistono in pace italiani e stranieri. Salvini per un’Italia chiusa ai migranti. Dice Flick: «Il principio di accoglienza proposto dalla Costituzione, e ispirato a una logica internazionale, e quello di uguaglianza sono antitetici alla intitolazione del decreto che considera l’immigrazione solo dal punto di vista della sicurezza. Da questo discende un’impostazione in cui si possono individuare molteplici profili e dubbi di incostituzionalità che solo la Corte può valutare su richiesta di un giudice».
il manifesto 5.1.19
L’Anpi con i Sindaci che resistono costituzionalmente
di Carla Nespolo
È un fatto molto positivo che alcuni Sindaci, per rispetto pieno della Costituzione, abbiano deciso di sospendere l’attuazione di quelle parti della legge sicurezza e immigrazione inerenti l’attività dei Comuni. Lo ha fatto per primo meritoriamente il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, ed altri sindaci, altrettanto meritoriamente, stanno seguendo la sua strada.
L’articolo 13 della legge nega al richiedente asilo in possesso del permesso di soggiorno la possibilità di iscriversi all’anagrafe e quindi di avere la residenza, impedendogli di conseguenza di usufruire di qualsiasi servizio, a cominciare dall’assistenza sanitaria.
Migliaia e migliaia di persone, pur presenti legalmente nel nostro Paese, sono così giuridicamente cancellate. Ciò comporterà inevitabilmente il passaggio di gran parte di costoro all’illegalità, compromettendo ogni loro speranza e la sicurezza di tutti i cittadini.
La coraggiosa decisione di Orlando e di altri Sindaci di non dare attuazione a tale articolo apre così anche sul terreno istituzionale quel percorso di resistenza civile che da tempo l’Anpi aveva auspicato non contro questo Governo in quanto tale, ma contro i provvedimenti che negassero i fondamentali diritti costituzionali ribaditi dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
Se c’è un contrasto fra leggi e Costituzione, occorre che venga alla luce con chiarezza affinché la Corte Costituzionale possa pronunciarsi in merito. Ci auguriamo che ciò avvenga al più presto.
L’autrice è Presidente nazionale Anpi
L’Anpi con i Sindaci che resistono costituzionalmente
di Carla Nespolo
È un fatto molto positivo che alcuni Sindaci, per rispetto pieno della Costituzione, abbiano deciso di sospendere l’attuazione di quelle parti della legge sicurezza e immigrazione inerenti l’attività dei Comuni. Lo ha fatto per primo meritoriamente il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, ed altri sindaci, altrettanto meritoriamente, stanno seguendo la sua strada.
L’articolo 13 della legge nega al richiedente asilo in possesso del permesso di soggiorno la possibilità di iscriversi all’anagrafe e quindi di avere la residenza, impedendogli di conseguenza di usufruire di qualsiasi servizio, a cominciare dall’assistenza sanitaria.
Migliaia e migliaia di persone, pur presenti legalmente nel nostro Paese, sono così giuridicamente cancellate. Ciò comporterà inevitabilmente il passaggio di gran parte di costoro all’illegalità, compromettendo ogni loro speranza e la sicurezza di tutti i cittadini.
La coraggiosa decisione di Orlando e di altri Sindaci di non dare attuazione a tale articolo apre così anche sul terreno istituzionale quel percorso di resistenza civile che da tempo l’Anpi aveva auspicato non contro questo Governo in quanto tale, ma contro i provvedimenti che negassero i fondamentali diritti costituzionali ribaditi dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
Se c’è un contrasto fra leggi e Costituzione, occorre che venga alla luce con chiarezza affinché la Corte Costituzionale possa pronunciarsi in merito. Ci auguriamo che ciò avvenga al più presto.
L’autrice è Presidente nazionale Anpi