sabato 21 giugno 2008

l’Unità 21.6.08
L’Onu condanna lo stupro, è arma di guerra
Approvata all’unanimità la risoluzione appoggiata da 30 Paesi. Votano sì anche Russia e Cina
di Roberto Rezzo


APPROVATA all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza la risoluzione che chiama tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite a fermare l’odioso fenomeno della violenza sessuale contro le donne nelle aree di guerra. «Oggi è stato finalmente riconosciuto che si tratta anche di un problema di sicurezza nazionale. Non riguarda solo la salute e il benessere delle donne, colpisce profondamente la stabilità economica e sociale dei loro Paesi», sono state le parole del presidente di turno, il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice. Sono presenti i rappresentanti di tutti i quindici Paesi membri del Consiglio, oltre alle delegazioni di sessanta governi invitati come osservatori. Ai lavori ha partecipato il segretario generale Ban Ki-moon. La risoluzione, introdotta dagli Stati Uniti, aveva altri ventinove Paesi come co-sponsor, tra cui l’Italia.
Particolare soddisfazione hanno suscitato negli ambienti diplomatici i voti a favore di Cina e Russia, due dei cinque membri permanenti che in Consiglio di Sicurezza hanno potere di veto su qualsiasi decisione. Nella migliore delle ipotesi ci si aspettava un’astensione. Appena un anno fa avevano sostenuto insieme al Sud Africa che «la violenza sessuale è uno spiacevole effetto collaterale della guerra di cui già si occupano molte agenzie umanitarie. E comunque non un problema che rientri nelle competenze del Consiglio di Sicurezza». Pechino con le Olimpiadi alle porte e sotto i riflettori per la repressione in Tibet, ha voluto lanciare un segnale distensivo ed evitare ulteriore pubblicità negativa. Mosca si è adeguata.
La risoluzione introduce procedure per monitorare il fenomeno e chiede al segretario generale dell’Onu di presentare una relazione al Consiglio di Sicurezza entro dodici mesi.
Il documento sollecita quindi interventi diretti dei governi per prevenire e reprimere il fenomeno della violenza, con ampio mandato di imporre sanzioni contro le nazioni inadempienti. Un sondaggio condotto su un campione di 2mila donne e ragazze in Liberia rivela che dal 1989 al 2003 il 75% è stata vittima di stupro. «La violenza contro le donne è un fenomeno che ha raggiunto dimensioni allarmanti - ha sottolineato Ban Ki-moon - Quando viene adottata una risoluzione con un linguaggio chiaro e forte, le Nazioni Unite possono rispondere con maggiore decisione». Il segretario ha promesso tolleranza zero per i crimini di violenza sessuale perpetrati dal personale Onu.
A margine della seduta, una riunione informale sulla situazione dello Zimbabwe, dove il prossimo 27 giugno si terranno le elezioni presidenziali. La repressione delle opposizioni da parte del regime del presidente Robert Mugabe dà ragione di temere che le consultazioni possano rivelarsi una farsa.
Molti i governi africani presenti all’incontro, assente lo Zimbabwe. Il Belgio ha chiesto una seduta formale del Consiglio di Sicurezza sull’argomento. L’ambasciatore americano Zalmay Khalilzad, presidente di turno dei quindici, ha segnalato che esistono profonde divisioni riguardo alla proposta.

Corriere della Sera 21.6.08
Unanimità Votata la Risoluzione 1820. Ban Ki-moon: «Da parte nostra applicheremo tolleranza zero». Il New York Times: era ora
«Lo stupro è un crimine contro l'umanità»
Il Consiglio di Sicurezza: «La violenza sulle donne usata come tattica di guerra»
Entro il 30 giugno 2009 il segretario generale dovrà presentare uno speciale rapporto e rafforzare i controlli sui caschi blu
di Alessandra Farkas


500.000 le donne violentate nel corso del genocidio del 1994 in Ruanda. Durante la guerra nell'ex Jugoslavia, le donne violate tra Croazia e Bosnia sono state 60 mila. Nel Congo orientale, durante la guerra civile, in alcune aree tre quarti delle donne sono state stuprate Vittime Due congolesi in un centro per il recupero delle vittime di stupri: spesso chi ha subito violenza per vergogna non denuncia i carnefici

NEW YORK — La violenza carnale contro le donne è un crimine contro l'umanità. Lo ha stabilito il Consiglio di Sicurezza dell'Onu che, raccogliendo la proposta Usa, ha approvato all'unanimità la risoluzione 1820, sponsorizzata da oltre 30 Paesi tra cui l'Italia, in cui lo stupro di massa viene definito «una tattica di guerra per umiliare, dominare, instillare paura, disperdere o dislocare a forza membri civili di una comunità o di un gruppo etnico».
Nel documento, definito «storico» da organizzazioni quali Human Rights Watch e Amnesty International, i 15 membri dell'esecutivo Onu chiedono alle parti coinvolte in un conflitto «l'immediata e completa cessazione di tutti gli atti di violenza sessuale contro civili». E «l'adozione immediata di misure per proteggere i civili, comprese donne e bambine, da tutte le forme di violenza sessuale».
La risoluzione chiede anche al segretario generale Ban Ki-moon di presentare uno speciale rapporto entro il 30 giugno 2009 e di rafforzare i controlli sui caschi blu dell'Onu che in passato si sono macchiati di questo crimine in varie regioni del mondo. «Il problema ha raggiunto proporzioni pandemiche — ha detto Ban —. Applicherò la tolleranza zero: se scopriremo nuovi casi non solo i responsabili, ma anche i loro superiori saranno puniti».
Gli stupratori in zone di guerra quali l'ex Jugoslavia, il Darfur, la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e la Liberia potranno da oggi essere giudicati davanti al Tribunale dell'Aja. Nel preambolo della 1820 si ricorda infatti che nello Statuto di Roma, l'atto costitutivo della Corte Penale Internazionale «è stato incluso un ampio ventaglio di violenze sessuali».
«Il mondo ora riconosce che la violenza sessuale non è solo un problema individuale delle vittime — ha dichiarato il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che ha presieduto parte della sessione —. Ma mina la sicurezza e la stabilità delle nazioni». La Rice ha citato la Birmania, «dove i militari violentano regolarmente donne e bambine anche di otto anni». Ma il capo della diplomazia Usa ha taciuto sui tanti casi di stupro che hanno visto coinvolti militari americani in missione all'estero.
Basterà una risoluzione Onu per porre fine ad uno dei drammi più comuni e brutali dell'era moderna? «Il vero problema di questa "guerra nella guerra" è il clima di omertà che la circonda — punta il dito Inés Alberdi, direttrice esecutiva della Unifem- United Nations Development Fund for Women, reduce da un viaggio di ricognizione in Africa —. Il silenzio significa impunità».
In un editoriale di fuoco sul New York Times il columnist Nicholas Kristof ironizza sul ritardo con cui «finalmente l'Onu dedica a questa forma di terrorismo lo stesso sdegno esibito nei confronti della pirateria di Dvd». Sono passati infatti già 15 anni da quando, nel 1993, il mondo si svegliò una mattina, scoprendo che le forze serbe avevano istituito un network di «campi stupro» pullulanti di donne e bambine «schiave».
«Oggi nel Sudan appoggiato da Cina, Sud Africa, Libia e Indonesia, il governo ha trasformato l'intero Darfur in un enorme campo-stupri», incalza Kristof, secondo cui «la capitale mondiale delle violenze carnali è il Congo orientale, dove in alcune aree tre quarti delle donne sono state violentate». «In guerra oggi è più pericoloso essere una donna che un soldato», dice il generale Patrick Cammaert, ex capo delle forze di peacekeeping dell'Onu.
«Lo stupro in guerra è vecchio quanto il mondo — gli fa eco Stephen Lewis, ex inviato Onu in Africa —. Ma solo oggi viene deliberatamente usato come un'arma dagli strateghi bellici, per determinare l'esito dei conflitti». Oltre ad essere «militarmente efficace e privo di rischi», incalza Lewis, «non causa nell'opinione pubblica la stessa indignazione provocata da montagne di cadaveri».
Anche perché le vittime, spesso mutilate e costrette ad una vita da invalide, si vergognano troppo per denunciare i carnefici.

Repubblica 21.6.08
Prigioniere della vergogna assassinate con lentezza
di Slavenka Drakulic


Ricordo molto chiaramente la prima donna stuprata che ho conosciuto. Era nell´autunno del ‘92, vicino a Zagabria. Era una musulmana di Kozarac, in Bosnia. Dopo alcuni mesi passati in un campo di detenzione, arrivò a Zagabria insieme a un gruppo di profughi. Selma (non è il suo vero nome) era una donna sui trentacinque anni, con capelli castani corti e occhi azzurri. Mi raccontò la sua storia a voce bassa, quasi sussurrando: si trovava nella sua casa con i due figli piccoli e la madre quando un gruppo di paramilitari serbi entrarono nel suo cortile. Dissero che cercavano armi. Ma non c´era nessun´arma, e neanche oro, perché è questo quello che cercavano. Arrabbiato, un uomo l´afferrò e la spinse in camera da letto. Poi fu raggiunto dagli altri. «Poi mi fecero quello», mi disse semplicemente Selma, abbassando lo sguardo a fissare le mani. «Dopo, per molto tempo non riuscii a guardare in faccia i miei figli… Mi lavavo, mi lavavo e mi lavavo, ma il loro odore non se ne andava. Pensi, me lo fecero sul mio letto di sposa», mi disse. Questa volta avvertii una traccia di disperazione nelle sue parole. Non piangeva, non più. Ma provava vergogna e la vergogna non l´abbandonava, dovette imparare a conviverci, e dovette farlo anche il marito. E la società? Alle circa 30.000 vittime di violenze sessuali in Bosnia non è stato riconosciuto lo status di vittime di guerra.
Mentre lavoravo al mio libro "Non avrebbero mai fatto male a una mosca" sui criminali di guerra dei Balcani sotto processo al Tribunale penale internazionale per l´ex Jugoslavia dell´Aja, mi imbattei nel "caso Foca". Si trattava di tre serbi che avevano tenuto prigioniere delle ragazze musulmane, torturandole, riducendole a schiave sessuali e stuprandole. Ma quegli uomini non capivano davvero perché li stessero processando. Uno di loro si difese dicendo: «Ma avrei potuto ucciderle!». Dal suo punto di vista, lui le aveva effettivamente risparmiate. Stupro? che razza di crimine è a confronto dell´ammazzare? È un caso molto importante, perché la magistrata dello Zambia, Florence Mumba, il 22 febbraio 2002 pronunciò contro di loro una sentenza di colpevolezza. Dragoljub Kunarac, Radomir Kovac e Zoran Vukovic furono, nella storia giudiziaria europea, i primi uomini condannati per tortura, riduzione in schiavitù, offese alla dignità umana e stupro di massa di donne musulmane bosniache giudicati come crimini contro l´umanità. La sentenza riconobbe che la violenza sessuale è un´efficacissima arma di pulizia etnica. Oltre a disonorare le donne violentate, umilia i loro uomini, che non sono stati capaci di proteggerle. Per questo spesso le donne erano deliberatamente violentate sotto gli occhi dei mariti. La violenza sessuale distrugge l´intera comunità, perché il marchio d´infamia rimane con loro, non dimenticato, non perdonato.
Al processo del caso Foca, c´era una testimone particolare, madre di una ragazzina di 12 anni presa prigioniera da Kovac. Kovac, un uomo sui 40 anni, la stuprò e poi la vendette a un soldato per cento euro. Da allora, nessuno ha più rivisto la ragazza. La madre venne per guardare in faccia il criminale e testimoniare contro di lui. Ma quando si sedette sul banco dei testimoni, non uscì neanche una parola dalla sua bocca. Solo un suono, un ululato insopportabile di un cane ferito a morte.
Il voto al Consiglio di sicurezza dell´Onu che definisce lo stupro un´arma di guerra non le restituirà sua figlia, nessuna risoluzione lo potrà fare. Ma è un momento storico perché finalmente la violenza sessuale è riconosciuta come un´arma e potrà essere punita. Nessun uomo potrà difendersi dicendo che avrebbe potuto uccidere una donna che ha «semplicemente» stuprato, perché lo stupro è una sorta di lento assassinio.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

il Riformista 21.6.08
Far la guerra con il corpo delle donne
di Claudia Mancina


D agli antichi romani ai serbi, passando per i vichinghi, i lanzichenecchi, e i liberatori sia russi che americani della II guerra mondiale, gli stupri di massa da parte degli eserciti invasori sono sempre stati un aspetto ineliminabile della guerra, quando questa dilaga nel territorio nemico; e tanto più nelle guerre moderne, nelle quali il coinvolgimento delle popolazioni civili è totale. Come hanno sottolineato alcune storiche, si esprime in quest'atto orribile non solo la violenza diretta alla donna come individuo, ma anche una violenza metaforica, e tuttavia concretissima, verso la patria del nemico: il corpo femminile da violare, da occupare come suolo patrio, per umiliare il nemico nel modo più tremendo, quello sessuale. Tanto che stupri di massa sono avvenuti anche al di fuori della guerra (e della condizione di violenza generale che le è propria e che ad alcuni pare un'attenuante), come nell'occupazione francese della Ruhr dopo la I guerra mondiale, studiata da Emma Fattorini in un saggio compreso in un fortunato volume su «Donne e uomini nelle guerre mondiali», curato da Anna Bravo e appena ripubblicato da Laterza.
La risoluzione delle Nazioni Unite. Un atto orribile dunque, come è orribile ogni stupro, ma anche di più, perché canalizza nella violenza sessuale questo sovraccarico di significati aggressivi, rendendola se possibile più violenta. Eppure un atto che è spesso considerato come un «normale» atto di violenza, non più grave dei tanti che vengono compiuti durante una guerra. E che tutti vengono considerati inevitabili, e quindi quasi giustificati, dai realisti politici che pensano che sia sciocco pretendere di porre limiti morali alla guerra. Non c'è da stupirsi che sugli stupri spesso cali il silenzio, complice anche il sentimento di vergogna e di umiliazione che la popolazione così ferita scarica sulle donne, vittime due volte. Per questo la decisione del Consiglio di sicurezza dell'Onu di considerare gli stupri come una vera e propria «arma di guerra» è un passo fondamentale sulla strada del riconoscimento dei diritti umani. I soliti realisti diranno che si tratta di parole vuote, di buone intenzioni prive di effettualità. Non è così: la risoluzione implica che i responsabili di stupri siano perseguiti davanti al tribunale internazionale dell'Aja, e quindi aggiunge questo ai crimini di guerra che quel tribunale è competente a trattare.
Messaggio etico. Ma più ancora del tribunale dell'Aja conta il messaggio etico che viene diffuso con questa risoluzione. Dire che gli stupri sono un'arma di guerra significa affermare che non possono essere considerati come casualties, come danni collaterali, quali sono le vittime civili dei bombardamenti, ma rientrano a pieno titolo nell'intenzione e nella tattica della guerra, con una finalità propria, che è quella di umiliare e ferire la popolazione in quanto tale, e possono essere parte di un genocidio. Chi ha assistito alle terribili vicende della guerra bosniaca non può certo dubitare che sia così. E nessuno che abbia presenti le atrocità commesse in questi anni in Africa e in altre parti del mondo può dubitare che punirne i responsabili, e rendere un po' meno terribile la guerra, sia un obiettivo tutt'altro che secondario. Con buona pace dei soliti realisti.

l’Unità 21.6.08
«Il mito religioso ha sconfitto la politica»
di Bruno Gravagnuolo


Totalitario è innanzitutto un «metodo» dell’azione politica novecentesca
I conflitti globali generano movimenti emozionali e tesi al Sacro

PARLA EMILIO GENTILE Che cosa fu il totalitarismo e chi sono i suoi eredi? Risponde lo storico del fascismo dell’Università di Roma che pubblica una nuova raccolta di saggi dedicati all’Italia

Discutere con Emilio Gentile è sempre arduo e appassionante. Storico di fama internazionale, molisano, 62 anni è studioso «tosto» e dai saldi convincimenti. Maturati alla scuola metodologica di Renzo De Felice (del quale però non si considera allievo). E tra i suoi chiodi fissi, in questi decenni, ve ne è uno in particolare: la natura «totalitaria» del fascismo. Sostenuta contro le «sdrammatizzazioni» all’italiana del regime. E anche contro il giudizio di Hannah Arendt, che del fascismo faceva un regime «autoritario», forse e solo dopo il 1938 con tratti totalitari. In questi giorni esce un nuovo libro di Gentile, in sintonia con questa discussione: La via italiana al totalitarismo (Carocci, pp. 414, Euro 26,50). Con saggi editi e inediti, che corrispondono all’intero percorso «post-defeliciano» dello storico. E nel quale ricordiamo per Laterza libri come La Grande Italia, il mito della nazione; Fascismo, storia e interpretazione; La democrazia di Dio, sugli Usa neocon; e il più recente Fascismo di pietra. La raccolta per Carocci è l’occasione giusta per riaffrontare la questione «totalitaria. Per verificare quanto il totalitarismo (metodo o sistema?) sia lontano. O se invece sopravviva in qualche forma, dove e fino a che punto.
Professore da anni lei insiste sul carattere «totalitario» del fascismo. Se quel regime sia stato totalitario o meno, potrebbe apparire questione accademica. Perché è ancora importante venire in chiaro su questo punto?
«Quello del totalitarismo è problema decisivo per capire il 900 e la società di massa. Assieme ai rischi totalitari che in tale società allignano, e che minacciano le democrazie parlamentari. Per di più il tema è stato individuato in Italia dalla cultura antifascista. Prima ancora del regime a partito unico. E con la denuncia e l’individuazione di un certo metodo politico, al di là dei proclami e dell’ideologia fasciste. Metodo specifico di conquista e di gestione del potere politico, nei pochi anni che vanno dalla nascita del Pnf alla soppressione totale delle libertà».
Ma il totalitarismo è una specifica possibilità insita nella democrazia parlamentare, oppure riguarda in generale gli sconvolgimenti mondiali del 900?
«Non faccio una teoria, una tipizzazione. Traccio un bilancio della situazione nei primi decenni del secolo trascorso. Ebbene, a differenza che in Russia, in Europa all’indomani della prima guerra mondiale, veniva proclamato il trionfo della democrazia parlamentare. Come mai dunque, nell’Italia democratica, era sorta la novità fascista? Da Amendola, Sturzo, Salvatorelli e Basso proviene in quegli anni l’indicazione a studiare un inedito fattore di organizzazione delle masse. Basato non più sulla razionalità, ma sul “mito”, peculiarità che il fascismo detiene in modo assoluto. Poiché, a differenza degli altri movimenti politici - non privi di elementi mitologici - il fascismo si richiamava espressamente al mito, e al suo ruolo rigeneratore. Contro la ragione e in nome della forza, oltre che del mito».
Concezione nichilistica del mito quasi come gioco?
«Non nichilistica, visto che il fascismo si concepiva in positivo come movimento di rigenerazione, in un’Europa giudicata decadente e corrotta a causa della democrazia, del liberalismo e del socialismo. Nel fascismo c’è un’affermazione contro qualcosa di negativo».
Il nichilismo può essere affermativo e culminare nell’adesione al mito arbitrariamente proclamato...
«Certo, chi afferma il mito finisce col crederci. Col credere nella potenza, nell’Impero e nella rigenerazione totale. I fascisti sono gli eredi di tutta la cultura irrazionalitica di fine 800. E pertanto accusano la democrazia di essere immorale, fintamente razionale, a fronte dell’intima verità vitalistica e irrazionale dell’essere umano. E qui il ruolo decisivo di un certo Nietzsche, che finisce con l’ispirare una sorta di brutale realismo della forza istintiva e creatrice. Insomma, un realismo che “smaschera” l’umanesimo razionalista e le sue giustificazioni morali».
Realismo, smascheramento, volontarismo. Qual è allora la differenza col bolscevismo leninista?
«Differenza di fondo. Perché il bolscevismo, benché fortemente caricato di mito, continua a concepirsi sulla base di una concezione “scientifica”. Che attribuisce all’uomo, in quanto essere sociale, il carattere della razionalità. Da un parte c’è chi fa leva sul mito, come ingrediente irrinunciabile dell’umanità. Dall’altra, chi invece critica la “falsa coscienza” delle mitologie. In base alla scientificità marxista, in grado di oltrepassarle. E su questo c’è una continuità tra illuminismo, liberalismo e comunismo».
Abbiamo evocato il discrimine. Ma quali sono le analogie totalitarie tra fascismo e comunismo?
«E qui torniamo al totalitarismo. A parte le differenze di contenuto sociale e culturale, quel che è importante sottolineare sono le analogie di metodo. Ed è di “metodo totalitario” che occorre parlare, non già di regimi totalitari. Il totalitarismo non è un modello del quale verificare di volta in volta la corrispondenza a certi contenuti. Per cui si possa dire una volta che quel regime soddisfa il modello, e un’altra volta no. Il punto non è se il fascismo, il nazismo e il comunismo si siano avvicinati alla “definizione”, o fino a che soglia, se nei fatti o solo nelle intenzioni. Questo modo di ragionare ci porta fuori strada. La strada giusta è un’altra: è il totalitarismo inteso come metodo. Metodo di conquista e gestione monopolistica del potere da parte di un partito unico. Al fine di trasformare radicalmente la natura umana attraverso lo stato e la politica. E tramite l’imposizione di una concezione integralistica del mondo. Con questo identico metodo, c’è chi è proteso all’Impero e al dominio globale, ancorati ad una comunità latina mitica. Chi è volto al dominio mondiale della razza ariana e germanica. E chi infine lotta per il comunismo internazionale, e per l’estinzione dello stato».
Scorge reviviscenze o eredità di questo «metodo» nel contesto del mondo contemporaneo?
«Sono molto cauto nella comparazioni col presente. E nelle riattualizzazioni di un concetto - il totalitarismo - nato in un ben preciso contesto, ormai alle nostre spalle. Non si possono più immaginare partiti unici animati dalla scopo di rigenerare per intero l’uomo. Anche i residui regimi comunisti si sono infatti laicizzati. E nemmeno si può parlare di totalitarismo o di fascismo, a proposito dei regimi islamici o del fondamentalismo. Sarebbe un anacronismo. Anche perché i fondamentalismi sono religiosi. Laddove i fascismi erano secolari, e tentavano di annullare o di incorporare la religione nelle loro mitologie laiche. Al più i fondamentalismi hanno rubato qualcosa ai totalitarismi, utilizzandone certe tecniche, ma pur sempre in un registro religioso. Le democrazie dal loro canto sono vaccinate, e difficilmente potrebbero ripiombare in dinamiche totalitarie. Il nuovo rischio semmai è costituito da due fattori. Il rifiuto del conflitto, tipico di una società moderna e immersa nella globalizzazione: con il contraccolpo identitario ed etnico. E poi la ricerca di mitologemi salvifici, per combattere l’insicurezza identitaria e conflittuale».
A che tipo di fuga nel mito si riferisce? Mito politico, mito religioso o entrambi?
«Al ritorno massiccio alla militanza religiosa. Che non è solo riscoperta dell’esperienza vissuta del divino. Bensì desiderio di riportare la società ad una unità religiosa totalizzante. Per trovare nella religiosità i fondamenti della vita civile. E ciò riguarda sia l’Europa che l’America. Secondo moduli che ripercorrono a contrario le movenze del fondamentalismo islamico».
È il sogno degli atei devoti e dei «teocon» tra Europa e Usa?
«Nono proprio e non solo. Specie i primi sono piuttosto dei machiavellici. Che dicono: “la religione ci serve per garantire l’ordine”. Quanto ai teocon, Usa, anch’essi proclamano l’utilità politica di Dio. E solo alcuni sono credenti. Mentre invece Bush jr è un vero credente, un cristiano rinato. Ecco, proprio questa ambiguità rende molto difficile comparare i miti del passato a quelli del presente. Fascismo, comunismo e nazismo si autodefinivano in modo molto chiaro. Oggi dobbiamo parlare di “movimenti emozionali”, tesi a una risacralizzazione della vita collettiva, e non di totalitarismo. La novità politica sta nel voler restituire potere sulla vita civile alle religioni tradizionali. Non già nel professare mitologie di massa secolari. E si tratta di una tendenza mondiale, non soltanto italiana o euro-americana. Basti pensare in America latina ai movimenti “nepentecos-
tali”, che non sono la vecchia Teologia della Liberazione di una volta, ma si propongono come alternative totali di vita. Comunitarie, e in definitiva anche politiche».

l’Unità 21.6.08
La Costituzione? Un monumento di sobrietà e di eleganza
di Marco Innocente Furina


SESSANT’ANNI DOPO Tullio De Mauro, Giulio Andreotti, Emilio Colombo e Michele Ainis: tutti d’accordo, la Carta è ancora un testo chiaro ed efficace

Si parla sempre di riformare i 139 articoli ed ora sia a destra che a sinistra sembrano riscoprirne il valore

Antonio Cassese in un’intervista «È come una miniera, scavando si trovano pepite di saggezza»

La sua forza è la semplicità del testo comprensibile anche da un bimbo delle elementari

Quando nel 2006, alla vigilia del referendum confermativo sulla riforma costituzionale voluta dal governo Berlusconi, alla costituzione della Repubblica fu assegnato il premio Strega, qualcuno storse la bocca: è un premio letterario dato con un evidente significato politico. Si sbagliavano. Se i legislatori dell’Italia repubblicana infatti avessero seguito l’esempio dei padri costituenti, forse oggi non ci sarebbe bisogno di un ministero per la semplificazione legislativa. Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75, l’organo incaricato di elaborare il testo base della futura Legge fondamentale, contrariamente a certi azzeccarbugli di oggi, aveva le idee chiare: «La costituzione si rivolge direttamente al popolo e deve essere capita». Ne è scaturito «un piccolo miracolo linguistico» che per eleganza e semplicità si fa ammirare ancor oggi. Anche perché le innovazioni proposte non sempre sono state all'altezza del testo originario. Un esempio? Il 70, un articolo chiave della nostra architettura costituzionale è di appena nove parole: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere». Punto. Ecco invece l’incipit dello stesso articolo secondo la riforma proposta al vaglio degli elettori due anni fa: «La camera dei deputati esamina i disegni di legge concernenti le materie di cui all’art 117, secondo comma, ivi compresi i disegni di legge attinenti ai bilanci ed al rendiconto consuntivo dello Stato, salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo… E cosi via per 113 righe. Tutto chiaro, no?
Ecco perché a distanza di sessantanni la costituzione ci appare ancora un «monumento di sobrietà e di eleganza». Una definizione su cui si sono trovati d’accordo i senatori a vita, Giulio Andreotti e Emilio Colombo, il linguista, Tullio De Mauro e il costituzionalista, Michele Ainis, coordinati dal giornalista di Repubblica, Sebastiano Messina, riuniti in convegno per confrontarsi su il linguaggio della costituzione.
Un testo breve, chiaro, efficace quello della Carta. Appena, «trenta cartelle per spiegare quello che deve essere un paese», ha detto Tullio De Mauro, che in uno studio di un paio di anni fa ha messo in luce lo sforzo sintesi e trasparenza semantica fatto dai costituenti: 139 articoli composti da 9369 parole. Repliche di 1397 lemmi. Di cui 1002 appartengono al vocabolario di base della lingua italiana. Comprensibili da tutti, anche da un bambino delle elementari. Non che avessero scelta i 556 membri dell’assemblea costituente: negli anni successivi alla guerra, quasi il 60 per cento degli italiani era analfabeta, e molti si esprimevano esclusivamente in dialetto. Ecco allora, periodi brevi, non superiori alle venti parole. Una chiarezza che ha un debito che non t’aspetti. «I costituenti - afferma De Mauro - avevano ancora in mente l’incisività delle formule mussoliniane». Del giornalista Mussolini.
Uno strano destino quello della Costituzione italiana. Da un quarto di secolo non si fa che parlare di una sua riforma, talvolta radicale, e ora tutti, destra e sinistra, sembrano riscoprirne il valore e la lungimiranza. «La costituzione è come una miniera: scavando si trovano pepite di saggezza», afferma il docente di diritto internazionale, Antonio Cassese, in Salviamo la Costituzione italiana (Bompiani), libro intervista di Dino Messina. Un testo utile e intelligente, quello del giornalista del Corsera, che affronta con costituzionalisti e politici (Andreotti, Tremonti, Violante, Sartori, Quagliarello, Bassanini, Carovita di Toritto, Margiotta Broglio, Cassese, Ichino, Onida), uno dei temi più qualificanti della legislatura che si è appena aperta e che non a caso è stato indicata come «costituente». Ne emerge, al di là dei distinguo su alcuni punti specifici, un sostanziale riconoscimento della validità dell’impianto della Carta del 48. Andreotti la definisce «un mobile antico di grande valore»; Violante propone di «metterla in sicurezza», con la riforma dell’art. 138; per Sartori bastano «due correzioni» in tema di poteri del Premier; un’idea condivisa anche da Bassanini, che però considera la Carta «straordinariamente moderna». Dopo le ubriacature della seconda Repubblica, quando si trattava la Costituzione con un ferro vecchio di cui disfarsi il prima possibile, oggi il clima è cambiato.
Spiace semmai constatare che nessuno degli intervistati senta il bisogno di proporre qualche novità coraggiosa: come abbassare il quorum per il Referendum, oggi messo fuori gioco dalla tattica dell’astensionismo, o consentire anche alle opposizioni di istituire commissioni di inchiesta. Allora, forse ha ragione Tremonti, quando cita il paradosso di Sieyés: «Il potere costituito non è mai costituente».

l’Unità 21.6.08
Tre emergenze a sinistra
di Pietro Folena


Occorre, a fronte dell’afasia delle opposizioni parlamentari e dei rischi di autismo di quelle extraparlamentari, prendere in mano la bandiera di un’azione
di difesa di diritti oggi minacciati

Al Piccolo Eliseo, domenica mattina, anziché andare al mare, in molte e in molti della sinistra diffusa e dispersa ci ritroveremo in un’assemblea promossa da associazioni e movimenti della sinistra. Vogliamo lanciare un messaggio positivo: la sinistra del fare.
Vengo da un’educazione, e da un’esperienza politica, che ha dato molta importanza al dire. Le parole sono pietre, si ripeteva in anni in cui gli eccessi verbali formavano odio nel senso comune. E oggi si potrebbe dire lo stesso, in quest’Italietta malata di futuro, incapace di sognare, che non crede più che la legge sia eguale per tutti, che vede scivolare pericolosamente in giù l’asticella delle garanzie democratiche. Siamo malati, anche noi; e la sinistra, con le sue idee e con le sue emozioni, è gravemente malata.
Dov’è finita l’Italia che reagì con un sussulto democratico imponente alla sconfitta, nel 2001, e alle prime leggi ad personam ben meno inquietanti di quelle erga omnes di oggi? Dove sono il popolo di Genova, e la moltitudine altermondialista che riproposero il tema di una trasformazione di civiltà profonda e radicale? Dov’è quella Cgil - impegnata oggi nei suoi equilibri interni e incerta sulla propria strategia - che divenne, col quadratino rosso, l’ombrello popolare di un avvio di ricostruzione di una tensione democratica e di valori di libertà, eguaglianza e fraternità?
È evidente che un cambiamento così repentino, nella società prima che nella politica, si spiega solo con un’analisi più profonda sui cambiamenti materiali e soprattutto sugli orientamenti culturali della società italiana, presenti già in quell’epoca. Ma soprattutto con la totale inadeguatezza della risposta politica che la sinistra e l’Unione fornirono a quelle domande collettive nel 2006 e durante il governo Prodi.
Oggi si paga pegno. La ricostruzione è un processo lungo. La destra ha trovato nuove leadership morali e politiche, a partire dalla rottura radicale, rispetto a Papa Giovanni Paolo II, rappresentata da Ratzinger (la passeggiata con Bush nei Giardini del Vaticano è un emblema del potere nella contemporaneità). Noi non possiamo guardare solo a noi stessi, girando le punte dei nostri pollici. La sinistra, con la stagione dei congressi, rischia la scissione dell'atomo. La vera scissione, con la vita degli operai, col popolo, coi giovani, è già avvenuta, e vi è da colmare un fossato gigantesco.
Nel Pd si stenta a vedere una riflessione di respiro, su ciò che è avvenuto e soprattutto sul lavoro da compiere. Se vogliamo pensare a un’Epinay italiana, che coinvolga le culture socialiste, comuniste, femministe, dei diritti civili, radicali, altermondialiste, pacifiste, non si può non immaginare un processo radicalmente diverso da quelli visti negli ultimi anni. Che sia animato da umiltà e coraggio.
Personalmente - pensando che non esista alcuna scorciatoia ravvicinata che risolva questo problema - avverto ora tre necessità urgenti. La prima, è quella della battaglia culturale. Si tratta di ripartire persino dai fondamenti: le idee di eguaglianza e quelle di libertà, i valori della democrazia. Partendo dalla formazione alla politica dei giovani, dal coinvolgimento del lavoro culturale, per lo più precario, delle scuole, delle università, dei centri di ricerca e di cultura, dei produttori di arte, scienza, sapere. La seconda è quella di dotarsi di nuovi strumenti di diffusione di queste idee, dalla produzione di format e di contenuti tv, con la rivoluzione digitale in atto, alle enormi potenzialità nell’uso libero e non proprietario della rete. La terza è quella, appunto, del fare, su cui domenica metteremo l’accento. Fare sinistra: costruendo mutualismo, associazionismo politico, difesa di interessi concreti (salario e contrasto al carovita, mutui, casa, lotta al precariato, beni comuni, università popolare, corsi di cultura); aprendo nel territorio le case della sinistra, luoghi non partitici, in cui possano vivere famiglie politiche diverse, e si possano ricostruire elementi di comunità attorno a valori democratici.
Ma soprattutto occorre - a fronte dell’afasia delle opposizioni parlamentari e dei rischi di autismo di quelle extraparlamentari - prendere in mano la bandiera di un'azione, qui ed ora, di difesa di diritti e di interessi oggi gravemente minacciati. Per questo, proporremo a tutti e a tutte, di fare tre grandi campagne d'autunno: la raccolta di firme per un referendum abrogativo della legge 30, quella per una legge di iniziativa popolare per le coppie di fatto, una petizione contro il ritorno al nucleare e a favore dell’opzione radicale per le energie rinnovabili.
Insomma: a proposito di parole, pur diffidando dagli eccessi linguistici esterofili di questi tempi, torna in mente l’imperativo di quando eravamo più giovani: «Do it!», fallo!
Indipendente di sinistra
www.pietrofolena.net

l’Unità 21.6.08
Perché lascio il Pdci
di Nicola Tranfaglia


Dopo le elezioni, il Pdci ha fatto una scelta strategica che non mi trova affatto d’accordo: puntare sull’unità dei comunisti piuttosto che su un nuovo progetto di costruzione della sinistra unita

Dopo poco più di due anni ho lasciato il Partito dei comunisti italiani. Mi è dispiaciuto doverlo comunicare al segretario dopo una discussione che ci ha visti su posizioni diverse e, per certi versi opposte, sulla strategia da intraprendere dopo la disfatta elettorale e politica di aprile. E vorrei spiegarlo ai lettori de l’Unità che più volte mi hanno scritto anche nelle ultime settimane, dichiarandosi d’accordo o, a volte, polemizzando con miei articoli su questo giornale.
Nel 2005 accettai l’ipotesi di una candidatura nel Pdci alle imminenti elezioni politiche sulla base di tre punti essenziali: la lotta al berlusconismo che era al governo da quattro anni e stava trasformando, ma in maniera negativa, l’Italia; l’alleanza di centro-sinistra guidata da Romano Prodi; la difesa della costituzione repubblicana aggredita dalla destra di governo.
Nei due anni di presenza in Parlamento ho lavorato con lo spirito e le parole d’ordine appena citate. Qualche volta ho dissentito dalle scelte del governo Prodi sulla questione sociale, sugli accordi con il centro-destra, sulla politica estera. Ma non mi sono mai sognato di mettere in discussione il sostegno al governo Prodi o la rottura dell’alleanza di centro-sinistra, unica barriera ancora oggi ipotizzabile contro il ritorno di Berlusconi e l’assunzione invece di un cammino diritto verso un’autentica rivoluzione democratica.
Sono stato quindi deluso dalla direzione che ha assunto il Partito democratico guidato da Walter Veltroni che, nella campagna elettorale, ha attaccato soprattutto la sinistra, illudendosi di prendere così voti al centro e di vincere lo scontro con Berlusconi. Conosciamo i risultati di una simile strategia: Berlusconi ha vinto con nove punti di distacco e la sinistra di cui ho fatto parte non è più presente in parlamento.
Peraltro anche la sinistra, a mio avviso, ha sbagliato alle elezioni, costruendo un cartello elettorale e non un nuovo soggetto politico e mostrando di aver perduto i contatti profondi e continui con il suo popolo, che pure è parte importante della società italiana.
Dopo le elezioni, il Partito dei comunisti italiani ha fatto una scelta strategica che non mi trova affatto d’accordo: puntare sull’unità dei comunisti piuttosto che su un nuovo progetto di costruzione della sinistra unita. Di qui pericoli di settarismo e di isolamento piuttosto che sforzi fecondi per aprirsi alla società e alle altre forze di opposizione, a cominciare dal Partito democratico e dall’Italia dei Valori.
Chi scrive ritiene, al contrario, che sia necessario cominciare proprio da un nuovo rapporto più intenso e diretto con gli elettori, con i gruppi sociali interessati all’opposizione e contrari alla ulteriore berlusconizzazione del paese e con le forze politiche che lo rappresentano e che hanno raccolto quasi il quaranta per cento dei voti nelle ultime elezioni.
All’interno di queste forze politiche, la volontà di difendere la Costituzione repubblicana e la disponibilità a un’alleanza più larga, se non sbaglio, esistono ancora in contrasto a volte con i propri gruppi dirigenti e restano per me fondamentali.
A me pare che oggi, di fronte all’attacco riuscito della destra, in Italia come in Europa, che miete successi elettorali dovuti alle contraddizioni della globalizzazione e alla sterilità dei progetti di governo della sinistra, sia urgente promuovere alleanze assai larghe, capaci di mobilitare, non per via ideologica ma per via programmatica, gli interessi e i sentiementi colpiti dalla deregulation berlusconiana.
Non solo comunisti (o presunti tali) ma liberali e democratici, socialisti e radicali, tutti quelli che vogliono difendere la costituzione repubblicana e lo stato di diritto di fronte alla concezione patrimoniale e personalistica della politica che è propria non solo del Cavaliere di Arcore ma di tanti protagonisti della politica attuale, soprattutto a destra.
Spesso a sinistra si dice che nessuno è contrario a larghe alleanze ma di fatto queste non si fanno perché la borghesia parassitaria come quella produttiva nel nostro Paese si ritrova tutta intorno a Berlusconi e al suo partito. Mi pare che si tratti di una diagnosi semplicistica e poco realistica: negli ultimi quindici anni le cose non sono andate sempre così e la sinistra ha commesso errori assai gravi che hanno provocato in più occasioni la riscoperta e il ritorno di Berlusconi, quando era già in difficoltà anche nella sua coalizione.
Il problema a me pare, piuttosto, quello di coerenza e rappresentatività effettiva delle classi dirigenti democratiche italiane in grado di mostrare, con i fatti, la loro identità come alternativa al populismo mediatico. Non possiamo dire, per l’esperienza degli ultimi quindici anni, che questo sia emerso con chiarezza e continuità. Al contrario si sono spesso verificati contraddizioni e ritorni all’indietro che hanno favorito i ritorni e i colpi di coda degli avversari, più unitari di noi, e pronti sempre a sfruttare le dispute ideologiche e personali frequenti nel centro-sinistra.

l’Unità 21.6.08
Una festa dei partigiani per i «resistenti» di oggi
Musica, stand e... democrazia: ai Campi Rossi di Gattatico il primo festival dell’Anpi. In arrivo Veltroni
di Stefano Morselli


GLI INGREDIENTI sono quelli consueti nelle feste popolari: spettacoli, incontri, ristoranti, stand assortiti. Ma è del tutto inedito l’evento nel suo insieme. Infatti
quella che da ieri e fino a domenica va in scena nel podere e nel casolare che furono della famiglia Cervi, ai Campi Rossi di Gattatico – ora sede di un moderno museo della Resistenza e del mondo contadino – è la prima festa nazionale organizzata dall’Anpi nei suoi oltre sessant’anni di esistenza. «Democrazia e antifascismo – Democrazia è antifascismo» è lo slogan scelto per sottolineare un concetto che dovrebbe essere scontato, ma che l’Anpi teme possa invece diventare sempre più evanescente nell’Italia di oggi. «Un’Italia nella quale – avverte Tino Casali, presidente nazionale dell’associazione – si moltiplicano i segnali di ritorno in campo del fascismo, pur mascherato in forme diverse dal passato». Anche per questo i partigiani, che sono gente ancora tosta ma in età ormai avanzata, hanno pensato di spalancare le porte a nuove generazioni che la Resistenza non hanno potuto farla per ragioni anagrafiche, ma ne condividono i valori e sono impegnate in altre «resistenze» dei giorni nostri. Come diceva Alcide Cervi, padre dei sette fratelli fucilati dalle brigate nere nel dicembre del 1943, «dopo un raccolto ne viene un altro». E dunque, un paio d’anni fa, all’ ultimo congresso, l’Anpi ha modificato il proprio statuto, ha cominciato ad iscrivere anche giovani e giovanissimi. Proprio in quel momento è nata l’idea della festa nazionale, alla cui ideazione e organizzazione ha lavorato proprio un gruppo di giovani appositamente costituito. La manifestazione ai Campi Rossi, luogo simbolo della memoria, assume anche il significato di un passaggio delle consegne a una nuova leva di «resistenti». Lo sottolinea Armando Cossutta, da giovanissimo combattente nelle Sap, membro della direzione Anpi: «In una situazione politica pesante, l’Anpi può rappresentare un forte punto di riferimento». Ieri la cerimonia inaugurale con la musica dei Gang, che hanno dedicato le loro canzoni a Maria Cervi, figlia di uno dei sette fratelli, a sua volta scomparsa l’anno scorso. Messaggi di adesione sono arrivati, tra i tanti, da Scalfaro e da Ciampi, mentre Napolitano ha concesso il suo alto patronato. Nel fine settimana, insieme a decine di autobus provenienti da tutta Italia, sono attesi numerose personalità della politica della cultura, tra le quali Veltroni, Vendola, Rita Borsellino, don Ciotti. Sono in programma laboratori sulla Costituzione (con Domenico Gallo, Nicola Occhiocupo, Alessandro Pizzorusso), sulla comunicazione della memoria (con Bice Biagi e Loris Mazzetti), sull’antifascismo vecchio e nuovo, sul ruolo delle donne nella Resistenza. Il cartellone degli spettacoli prevede oggi Mauro Sarzi, Sine Frontera, Mercanti di Liquori, Gasparazzo; domani sarà la volta di Ivana Monti con le mondine di Novi e dei Sonnebrille.
Info: www.anpi.it

Corriere della Sera 21.6.08
Il dilemma dei democratici
Saper fare l’opposizione
di Giovanni Sartori


L'opposizione muro contro muro, sempre, ad ogni costo, del Prodi-pensiero sembrava relegata al passato. Purtroppo sembra riemergere. Per colpa di chi? Questa volta di Berlusconi. È lui che dopo un felice esordio rompe il tessuto del dialogo ricadendo nell'antico vizio di usare il potere a proprio vantaggio, di tutelare i suoi interessi privati in atti di ufficio.
Berlusconi quando si occupa di se stesso è sempre risolutissimo, si appella sempre alla volontà popo-lare, e oggi al fatto di essere sostenuto da un consenso del 60 e passa per cento. Ma il consenso elettorale non è un consenso «specifico », ma un consenso all'ingrosso. E il punto è se l'elettorato berlusconiano si rende conto della gravità del caso. Provo a spiegarlo con esempi. Mettiamo che Tizio sia proprietario di una banca, e che come tale stabilisca di poter prelevare quanti soldi vuole. Va bene? No, non va bene. Poniamo che Caio sia capo della polizia, che uccida la moglie e che stabilisca che la polizia non può indagare su di lui. Va bene? Direi di no. Tornando a Berlusconi, lui è capo del governo e come tale vuole essere intoccabile. Ha ragione? Vediamo.
L'immunità dei parlamentari è un istituto antico che si afferma, nelle monarchie assolute, per proteggerli dal sovrano. Giusto. Oggi, peraltro, i monarchi assoluti non esistono più. Così la protezione è diminuita: è fornita dalla autorizzazione a procedere. Che però al Cavaliere non serve, visto che il processo che lo preoccupa (il caso Mills) andrà a sentenza tra pochi mesi. Pertanto chiede, per salvare se stesso, un emendamento che rischia di mandare al macero fino a 100 mila procedimenti; e qui siamo davvero fuori proporzione. Non contento, il Nostro riesuma anche la ex Schifani per blindarsi senza fine. Questo secondo provvedimento prevede l'immunità nell'esercizio delle proprie funzioni per 19 casi, incluso ovviamente il suo. E tutti sanno che dopo Palazzo Chigi Berlusconi conta subito di salire per sette anni al Quirinale. Se non siamo ancora a una immunità a vita, siamo nei paraggi.
In frangenti come questi, una opposizione «responsabile » (così, bene, Piero Ostellino) cosa può fare per rendersi efficace, il più efficace possibile? Deve presentare contro-progetti che obblighino la maggioranza a discuterli. Nel caso del primo emendamento il suggerimento ragionevole per alleggerire un carico di arretrati giudiziari che è davvero irragionevole, è di accantonare tutti i procedimenti inutili, inutili perché finirebbero in prescrizione. E nel secondo caso la controproposta ragionevole potrebbe essere di concedere l'immunità a tutti i parlamentari che la richiedono, a patto, però, di non essere rieleggibili alla scadenza del loro mandato fino alla sentenza definitiva del procedimento a loro carico. Perché nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono, appunto, i dittatori. Solo loro, vorrei sperare.
Leggo che il presidente Napolitano è irritato e molto perplesso. Ne ha ben donde. Il «pacchetto sicurezza » gli sta bene; ma deve inghiottire per questo anche il «pacchettino» salva- Berlusconi? Il suo predecessore, presidente Ciampi, non usò mai — per negare al governo l'autorizzazione a procedere — l'art. 87 della Costituzione; e così fu poi tutto un cedere. Napolitano ha davvero motivo di meditare a fondo.

Corriere della Sera 21.6.08
Una resa dei conti in Italia e in Europa con i fantasmi del '94
di Massimo Franco


L'offensiva del Cavaliere favorita da un contesto cambiato in profondità

Più che un ritorno al passato, ha tutta l'aria di una resa dei conti col passato. A prima vista, lo scontro totale di Silvio Berlusconi con la magistratura e col centrosinistra rievoca quello del suo primo governo. Ma le situazioni non si ripetono mai in un contesto identico. Dunque, più che sottolineare i punti di contatto con quanto è già successo, diventa più istruttivo segnalare i cambiamenti. Ci si accorge allora che nella «sindrome del 1994» del presidente del Consiglio non prevale tanto l'istinto difensivo contro il «tentativo di sovvertire il voto popolare da una minoranza di giudici». Il premier annuncia l'inizio di un conflitto istituzionale dalla tribuna europea di Bruxelles, persuaso stavolta di vincerlo. La conferenza stampa che vuole tenere in Italia promette di alimentare le tensioni. La sua offensiva punta a piegare una magistratura accusata di avere coperto «giudici infiltrati e pm» politicizzati, e «quindici anni di persecuzioni».
Ma il 1994 a Berlusconi deve apparire molto remoto: altrimenti non sfiderebbe così apertamente il potere giudiziario. Se lo fa, è perché sente di avere dietro un consenso che allora gli mancava, ed una maggioranza costretta a seguirlo; e davanti, un processo costruito su quelle che definisce «accuse risibili». È il processo per corruzione in atti giudiziari per il quale è stato inserito nel disegno di legge sulla sicurezza la cosiddetta «norma salva-premier»: una misura della quale, il Cavaliere assicura e giura sui figli, non vuole approfittare. Ancora, attacca perché ha preso le misure ad un Pd sbandato: orfano di una «luna di miele» col governo, che il premier ha cancellato da un giorno all'altro in un amen. Il dialogo col centrosinistra non è sospeso: sembra proprio finito.
La virulenza con la quale Berlusconi evoca il buco nel bilancio del Campidoglio ai tempi di Walter Veltroni sindaco è più di un'aggressione polemica.
Sancisce il tramonto di qualunque rapporto con il capo dell'opposizione, già lesionato dalla sconfitta. Sospinge il Pd in un limbo, in bilico fra le pulsioni antiberlusconiane del dipietrismo ed il massimalismo di un'estrema sinistra residuale.
È il Cavaliere a sancire il fallimento della metamorfosi del Pd. Ma lo strappo toglie spazio alle mediazioni politiche. E drammatizza il muro contro muro con i giudici. Mette di fronte brutalmente Palazzo Chigi, e Associazione nazionale magistrati e Consiglio superiore della magistratura, di cui è presidente il capo dello Stato.
Lo «sconcerto» del Csm e la richiesta urgente di incontro rivolta dall'Anm a Giorgio Napolitano non rappresentano una novità assoluta. Nuova, però, appare la determinazione berlusconiana a non fare passi indietro, ed anzi a rilanciare. Lascia intuire una crisi che potrebbe estendersi ad altre istituzioni. Il capo dello Stato ha sempre mostrato attenzione ed equilibrio anche verso il Pdl. Nessuno è in grado di prevedere, però, che cosa potrebbe accadere se i rapporti si incrinassero. Anche da questo punto di vista, saltano agli occhi le differenze rispetto al 1994. Allora, al Quirinale sedeva il dc Scalfaro, avversario dichiarato di un centrodestra acerbo e numericamente precario. Il braccio di ferro con Berlusconi si concluse in otto mesi con la sua defenestrazione, accelerata dalla guerra con Mani pulite. Oggi, invece, il Cavaliere gode di una maggioranza netta, ed ha in Napolitano un interlocutore rispettato per la sua equidistanza.
La terza differenza col 1994 è confermata dal rapporto con l'Ue. Il ritorno di Berlusconi a Bruxelles ha già investito il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ed il presidente del Parlamento, Hans Poettering. Ieri il Cavaliere ha di fatto rivendicato il primato dei singoli Stati sulle strutture comunitarie. Ed ha annunciato per ottobre una riforma della «comunicazione» con la quale vuole regolare le esternazioni e le critiche dei commissari ai governi europei: offrirebbero pretesti per gli attacchi delle opposizioni «di destra e di sinistra». Barroso gli ha risposto che la Commissione non è «il segretariato degli Stati membri». Ma la questione è posta, e sembra avere l'appoggio di altri governi. Berlusconi riflette e dilata una voglia di normalizzazione, di cui vuole essere un protagonista. E gli altri, per ora, lo lasciano fare.

Corriere della Sera 21.6.08
Venti di guerra Oltre 100 caccia hanno condotto una missione di 1.500 chilometri
Attacco all'Iran, la prova generale Simulazione israeliana su Creta
ElBaradei dell'Aiea: «La regione diventerebbe una palla di fuoco»
Il presidente Ahmadinejad promette ritorsioni pesanti, l'ayatollah Khatami minaccia conseguenze «terribili»
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Nome in codice «Glorious Spartan 08». Teatro operativo: il tratto di mare a sud est dell'isola di Creta. E' in questo splendido angolo di Mediterraneo che l'aviazione israeliana ha simulato — dal 28 maggio al 18 giugno — l'attacco all'Iran. Oltre cento caccia F16 e F15, con l'ausilio di aerei per il rifornimento in volo, hanno condotto una missione di 1500 chilometri, la stessa distanza che divide lo Stato ebraico dall'impianto nucleare di Natanz. I jet hanno sganciato bombe, condotto raid contro i radar, attuato manovre evasive.
In loro supporto velivoli per la guerra elettronica ed elicotteri che trasportavano i commandos dell'unità speciale 5101, conosciuta come Shaldag, e gli incursori della Sayeret. Una delle simulazioni prevedeva infatti il recupero di piloti abbattuti in «territorio ostile». Al loro fianco i greci, che hanno offerto l'ospitalità dei poligoni e provato interventi coordinati.
Gli israeliani, di solito estremamente riservati su quello che combinano, hanno passato al New York Times le informazioni su «Spartan 08» accostando le manovre ad un possibile blitz contro l'Iran. E hanno spiegato, con l'abituale pragmatismo, quali fossero gli obiettivi. Il primo — tecnico — era quello di esercitarsi in un raid a lungo raggio. Le forze aeree israeliane sono abituate ad azioni di questo tipo. Hanno organizzato il raid di Entebbe andando a liberare ostaggi in Uganda e distrutto il reattore iracheno di Osirak. Ma proprio il ricorso «al lungo braccio» ha spinto gli avversari di Israele a dotarsi di contromisure e dunque una eventuale incursione in territorio iraniano può rivelarsi insidiosa.
Il secondo obiettivo era ribadire agli Stati Uniti e ai governi occidentali che l'opzione militare non è poi così lontana. Se i ripetuti tentativi negoziali falliranno, non resterà che la forza. Le fughe di notizie, i «piani» rivelati dai giornali, gli scenari dei think thank fanno parte di una accurata regia per preparare le opinioni pubbliche. E la stessa interpretazione va data alle previsioni nere di politici come il tedesco Josckha Fischer e del più coinvolto ex premier israeliano (di origini iraniane) Shaul Mofaz. Il punto non è più «se» ma piuttosto «quando» ci sarà l'assalto.
Preoccupato per questi sviluppi, Mohammed ElBaradei, il direttore dell'Aiea, l'ente per l'energia atomica dell'Onu, ha detto ieri sera che si dimetterà nel caso di un attacco contro l'Iran: «Secondo me, è la peggiore opzione possibile. Traformerebbe la regione in una palla di fuoco... Se l'Iran non sta già costruendo armi nucleari, lancerà un corso accelerato con la benedizione di tutti gli iraniani».
Agitando le sciabole gli israeliani hanno anche voluto accentuare le inquietudini degli ayatollah, ormai da tempo sotto una forte pressione psicologica e diplomatica. Ogni giorno Teheran dovrà chiedersi se la formazione di jet in avvicinamento sono l'ennesima simulazione o il colpo di maglio. Gli iraniani sono convinti che ai loro confini si sta preparando qualcosa. E reagiscono a parole e con i fatti. Il presidente Ahmadinejad promette ritorsioni pesanti, l'ayatollah Ahmad Khatami minaccia conseguenze «terribili ». L'aviazione è in costante allerta e nelle ultime settimane i vecchi caccia F4, eredità dello Scià, si sono levati in volo per intercettare aerei finiti fuori rotta. Lo Stato Maggiore ha intensificato il programma per potenziare la difesa contraerea: sono state acquistate diverse batterie di missili russi «Sa 300» e «Sa 20». Inoltre gli iraniani hanno chiesto aiuto ai tecnici di Mosca per migliorare i radar. Una necessità emersa dopo il raid compiuto da Israele in Siria il 6 settembre. Il blitz — che per alcuni esperti ha rappresentato un'ulteriore prova di attacco— ha dimostrato che i radar russi sono stati «accecati» con sistemi da guerra elettronica. L'intelligence khomeinista ha anche monitorato con attenzione le attività dell'Us Air Force. Nell'agosto di un anno fa, una formazione di F16 statunitensi ha condotto una misteriosa missione d'addestramento - durata 11 ore - dall'Iraq all'Afghanistan. Per l'analista William Arkyn «c'entra l'Iran».
E se il cielo promette tempesta, sul terreno la situazione non è serena. Minoranze etniche e oppositori interni sembrano spinti da nuova linfa e forse nuovi aiuti. I separatisti curdi sono passati all'attacco anche al di fuori della loro regione. I beluci del gruppo Jundallah continuano ad attaccare i pasdaran. Si sono mossi anche gruppi inediti: il Movimento jihadista della Sunna e i «Soldati dell'Assemblea del Regno» (nazionalisti). Entrambi hanno rivendicato la strage nella moschea di Shiraz. Negli ambienti della diaspora non si esclude che le tattiche «mordi e fuggi» di questi nuclei siano legate a un ordine segreto firmato da George Bush alla fine di gennaio con il quale si autorizzano «attività clandestine» per destabilizzare l'Iran.
Uno spettatore interessato, la Russia, ha fatto sentire la sua voce. Il ministro degli Esteri Lavrov ha lanciato ieri una severa messa in guardia. Non sarebbe strano se i russi avessero seguito da vicino le manovre a Creta: come ai tempi della Guerra fredda, la Marina ha rimandato in Mediterraneo le sue navi spia. A volte innocui pescherecci, irti di antenne, più interessati ai segreti che ai pesci.

il Riformista 21.6.08
I settecento di Walter e il waltericidio di Silvio
di Antonio Polito


Sarebbe facile concedersi una ripicca. Al segretario del Pd che voleva chiuderci la bocca perché a suo dire vendiamo «solo duemila copie», potremmo ribattere oggi che a sentire la sua relazione ieri sono andati solo 700 delegati su 2800 aventi diritto, secondo i cronisti, 860 secondo fonti ufficiose e più generose. Ma poiché il Pd è il nostro partito preferito, preferiamo valutare il flop dell'assemblea di ieri, che ha discusso poco ed è stata chiusa con una giornata d'anticipo, alla luce dell'allarme che ormai da mesi lanciamo sulle condizioni di salute di questo bambino della politica italiana, invece di stupirci per il dilettantismo politico che l'ha provocato.
Ieri avevamo scritto che il Pd è in un momento molto pericoloso: come un aeroplano lanciato sulla pista, o decolla o si schianta. Ebbene, ieri di certo non è decollato. E per ragioni che precedono la linea politica e attengono all'esistenza stessa di una forma-partito. I disertori dell'assemblea sono infatti quadri locali, gente che si è sbattuta per le primarie con nobilissimi intenti, o che si è battuta per un posto in quell'assemblea convinta che fosse una pre-iscrizione alla gestione di un qualche potere. Ai primi, i più nobili, la vicenda successiva del Pd ha tolto l'entusiasmo. Ai secondi, meno nobili, ha tolto l'interesse. In queste condizioni un partito non dura a lungo. Sul territorio la gente se ne va: o a casa, o in un altro partito che può dargli l'assessorato. È di qui che bisogna ripartire. Oggi chi fa politica nel Pd trova più indispensabile aderire a una corrente che andare all'assemblea costituente. E pensare che qualcuno vagheggia di congresso e nuove primarie: in quanti andrebbero alle urne?
Per quanto riguarda la linea, c'è poco da aggiungere. Veltroni ha parlato per la prima volta di «sconfitta». Ci ha messo qualche mese, ma è arrivato dove il Riformista era giunto la sera delle elezioni: a Waterloo. Sapere che di sconfitta si tratta, e non di vittoria mutilata, conta molto ai fini della sua gestione politica. Infatti ora, accettando la sconfitta, Veltroni ne trae conseguenze radicali: butta a mare la stagione del confronto e annuncia il ritorno alla stagione della piazza. Un po' peristaltica, come linea. E si poteva evitare.
Ma non è questo il problema maggiore. Il problema maggiore è che Berlusconi e il centrodestra hanno completamente cambiato strategia nei confronti del Pd. Hanno deciso che Veltroni non gli serve più. Che il dialogo non gli conviene o che Veltroni è troppo debole per poterne essere l'interlocutore. Di fatto, ieri Berlusconi ha dimostrato di volersi disfare del Pd di Veltroni. Così si spiega l'accusa di bancarotta a Roma, l'insulto di «fallito», la minaccia di espulsione dalla storia politica del paese.
A questo punto, non possiamo che confermare il nostro giudizio: oggi è in gioco l'esistenza stessa del Pd. Deve lottare per la vita o per la morte, e questo è un tipo di lotta che presuppone un corpo robusto e agile. Questo corpo oggi non c'è, come dimostra l'assemblea di ieri a Roma. È urgente dotarsene. Smettano capi e capetti di parlar d'altro a Roma mentre Sagunto viene espugnata. Diano sedi, soldi e dirigenti a quei pochi militanti che sono rimasti in provincia tra il deluso e il disgustato. Riprenda l'autobus, Veltroni, e provi a costruirlo lui quel corpo in giro per l'Italia, perché non nascerà in uno studio della Rai. Hanno poco tempo, un anno al più, prima di finire a riunire correnti sulle macerie. Chi non se la sente, si faccia da parte, e lasci che sia qualcun altro a provarci.

il Riformista 21.6.08
Reportage. Una triste giornata tra i tristissimi delegati del pd
La domanda più gettonata è: a quando la scissione?


La terza Assemblea del Pd è cominciata sottotono e così è andata avanti fino alla fine. I delegati parlano di Berlusconi come hanno sempre fatto, nemico era nemico è, si lamentano delle correnti a cui si affrettano a iscriversi, implorano fino alle lacrime (è capitato alla delegata di Imola) di «credere nel nuovo partito». I dirigenti parlano con prudenza attenti a non superare la soglia della polemica che non fa male. Tranne Parisi. Non c'è dramma peggiore di quello senza sentimenti e senza speranze. L'assemblea è iniziata un'ora dopo perché mancano i delegati. Sono la metà che a Milano, un anno fa circa, meno che a Roma prima delle liste elettorali. Parisi, sempre lui, il lottatore solitario, dice che non c'è il numero legale.
Il segretario inizia a parlare senza canzonette d'accompagno, "il cielo non è sempre più blu", né la musica è popolare, forse la storia non siamo più noi. La musica è finita. Mentre è alla cartella 25 un cigolio di ferraglie fa da sfondo alle sue parole. Non gli stanno smontando il partito, non ancora, ma si portano via, senza rispettare la solennità dell'appuntamento, le impalcature di una precedente campionaria della Nuova Fiera di Roma. Mentre Athos De Luca, baffuto ex esponente verde entra nella sala rifiutandosi di mostrare l'accredito («sono un senatore», ha detto al povero addetto alla vigilanza), la presidenza si compone frettolosamente con i soliti noti che sorprendono i ritardatari occupandogli il posto. Ovviamente c'è la Melandri. Fioroni non molla l'orecchio dal telefonino poi sottopone un foglio da firmare agli altri colleghi. Un imbronciato Vincenzo Cerami guadagna la prima fila della platea come fa da sempre Massimo Brutti, i delegati parlano fra di loro sfogliando i giornali gratuiti, la mezza età trionfa, al bar un centinaio di militanti prende il caffè senza chiedersi che cosa stia dicendo Veltroni.
Barbara Pollastrini ci spiega, come fa da trent'anni, che la novità siamo solo noi e che «le donne, le donne…». Parisi litiga con Franceschini. "Nessuno tv", la futura tv di D'Alema, intervista un sempre più annoiato Bersani. Fuori dalla Fiera all'ora di pranzo sciamano forse duemila giovani lì per un concorso o per qualcos'altro, passano davanti a delegati che ignorano e che li ignorano.
I più applauditi dalla Costituente sono gli extracomunitari e Prodi. L'ex presidente si prende cinque minuti di battimani che potevano essere dieci o di più se Veltroni non li interrompesse ricominciando a parlare. L'annuncio dell'autunno caldo e della manifestazione nazionale è applaudito da metà della sala. Veltroni aveva cominciato parlando di Berlusconi che pensa solo a sistemare le proprie cose e finisce parlando dell'alterità del Pd che è la stessa cosa della diversità del Pci.
La sconfitta non c'è. L'agenda non la prevede se non come dato di fatto. Abbiamo perso, annota il segretario burocraticamente, ma fa notare che abbiamo gli stessi voti che sono serviti al Labour di Blair per governare e alla Spd per guidare la Cancelleria. Anomalie italiane. I delegati siciliani si lamentano e protestano contro la Finocchiaro che gli fa segno che hanno parlato più del tempo assegnato. Franco Marini attacca la Finocchiaro senza nominarla perché ha rinunciato a fare il capo dell'opposizione dopo la sconfitta alle regionali. D'Alema plaude a Veltroni che gli ha distrutto la politica delle alleanze e le ambizioni della Fondazione. Ugo Sposetti è il più baciato di tutti. Castagnetti alla fine dell'intervento del segretario se ne va. Stefano Ceccanti protesta con il Riformista perché è poco veltroniano, poi va a fare una lauta colazione. La Picierno siede alla presidenza prima degli altri e poi sparisce.
Fra i delegati due sono le domande che hanno più successo. Quando ci sarà la scissione? Quando Walter mollerà tutto per andare a occuparsi dei poveri del mondo? Questo è stato il tema della cena che Bettini ha consumato con i quarantenni che non sanno più a che santo votarsi e che sono certi che il segretario sta cercandosi un incarico internazionale. Fassino manda sms a tutto spiano. I fotografi non sanno che diavolo fare e il servizio d'ordine non deve più cacciarli perché non affollano la scena prima del discorso del capo.
Non ci sono né ballerine né nani, il più basso sono io. Tutti mi chiedono se è vero che mi sto divertendo di più ora che non faccio politica. Enrico Letta chiede che non ci siano rese dei conti e organizza la sua corrente. Fassino spiega che i primi mesi dopo un voto «sono più facili per chi ha vinto e più difficili per chi ha perso». Uno dopo l'altro i tristissimi leader del Pd si lamentano, si incitano, si insultano fra le righe ma non ce n'è uno che provi a spiegare perché il paese ha scelto Berlusconi. L'attenzione è rivolta al passo falso che verrà, alla fine della luna di miele che ineluttabilmente ci sarà, alla Lega che tradirà, alle delusioni che mortificheranno gli stessi elettori di destra un giorno non lontano, all'illusionismo berlusconiano che finirà di sorprendere, al partito liquido che tutti vogliono solido come un Bronzo di Riace. Mai una forza politica si era tanto affidata, per sperare, al caso, al fattore C., agli errori dell'avversario, al destino. Il problema, tuttavia, non è capire che cosa pensano i generosi pessimisti che occupano quasi tutte le sedie di questa spoglia sala della Fiera di Roma. Il problema è capire dov'è quell'altra metà dell'Assemblea che se ne è rimasta a casa. Se il Pd non fa la chiama degli assenti, con i presenti non va da nessuna parte.

venerdì 20 giugno 2008

l’Unità 20.6.08
Accuse, sospetti, minacce
Il Prc sull’orlo della scissione
di Simone Collini


Il rischio è la scissione prima ancora di arrivare al congresso. E un teso faccia a faccia tra Franco Giordano e Paolo Ferrero non ha disinnescato la mina. Il fatto è che da quando sono cominciati i congressi di circolo, quelli che di fatto decidono chi vince, la temperatura dentro Rifondazione comunista si è impennata. Le accuse che reciprocamente si rivolgono i sostenitori della mozione Vendola e quelli della mozione Ferrero-Grassi sono pesanti. Si va da quella di gonfiare i tesseramenti a quella di impedire a operai e migranti di partecipare alle votazioni, da quella di sospendere d’autorità i congressi per avere il tempo di interrogare i nuovi iscritti a quella di voler far decidere le sorti del Prc da simpatizzanti di Sinistra democratica.
Da parte della mozione Ferrer-Grassi già è stata avanzata la richiesta di «non omologare» alcuni congressi. Per altri è stato chiesto di invalidare i voti dei nuovi tesserati. La mozione Vendola ha risposto dicendo che questi «inquietanti episodi minacciano di inquinare la limpidezza del confronto interno».
Un colloquio tra Giordano e Ferrero c’è stato ieri nella sede della Direzione del partito. «Se hai dei sospetti sui tesseramenti fai le tue verifiche - ha detto il primo al secondo - ma basta con le accuse immotivate». L’ex ministro ha però soltanto ribadito che è «inaccettabile» far decidere le sorti del partito dall’esterno, «dagli iscritti dell’ultimo minuto». Ferrero ha interpretato le parole di Giordano come un non voler ammettere che ci sono delle anomalie nel tesseramento. Giordano ha interpretato le parole di Ferrero come una minacciata richiesta di annullamento che incombe su chissà quanti altri congressi di circolo. I due si sono lasciati senza giungere a un chiarimento. E ora tanto tra i bertinottiani (sostenitori della necessità di avviare un processo costituente della sinistra) quanto tra i ferreriani (contrari alla costituente e convinti che il Prc debba ripartire dal radicamento sociale) si inizia a temere che a Chianciano, dal 24 al 27 luglio, ci andrà solo chi vuole farsi una vacanza alle terme. Perché la fine di Rifondazione comunista sarà decretata molto prima.
A chi giova? I bertinottiani dicono che Ferrero, Grassi e gli altri iniziano a rendersi conto che Vendola prenderà oltre il 50% e vogliono impedire la ratifica di un tale risultato. Ferrero, Grassi e gli altri dicono che i bertinottiani iniziano a rendersi conto che Vendola si fermerà sotto il 50% e vogliono impedire la ratifica di un tale risultato.
Il primo caso è scoppiato a Massafra, in provincia di Taranto. I sostenitori della mozione Vendola hanno denunciato che quelli della mozione Ferrero-Grassi non hanno fatto votare tre operai precari dell’Ilva che erano assenti al momento delle votazioni perché di turno in fabbrica, «con ciò contravvenendo a una precisa norma del regolamento congressuale». I ferreriani hanno risposto che la norma dello statuto dice semplicemente che chi è assente alle due chiame non può votare. Poi è scoppiato il caso Bologna: «Gli orari e la sede di svolgimento del congresso del Circolo Migranti sono stati spostati d’autorità, rendendo non più facile ma assai più difficoltosa la partecipazione dei migranti iscritti», hanno lamentato con un comunicato interno i bertinottiani.
Ma soprattutto, il punto della discordia sono i tanti nuovi iscritti. E ad Arezzo è esploso in tutta la sua virulenza: «La parte conclusiva del congresso cittadino - si legge in una nota della mozione Ferrero-Grassi fatta circolare nella federazione - è stata “occupata” da persone da sempre esterne al partito, reclutate nelle ultime settimane, con il solo obiettivo di cancellarne l’esistenza e di scioglierlo in una indistinto contenitore vicino al Pd» (il dito viene puntato su uno dei nuovi iscritti, che in passato aveva già preso la tessera di Sd). Prima hanno chiesto di «non omologare» il congresso, poi (e lunedì quando si riunirà la commissione congressuale l’otterranno) di invalidare i 46 voti dei nuovi iscritti.
Ma oltre a «una lettera che impone la riconsegna di tutte le tessere già consegnate ai nuovi iscritti» (la cui esistenza viene smentita da Ferrero) è soprattutto la pratica avviata a Brescia a non piacere ai bertinottiani: «È stata disposta la sospensione del congresso per dar modo alle commissioni provinciali di “interrogare” uno per uno i nuovi iscritti, al fine di vagliare la loro purezza politica e ideologica nonché le ragioni della loro adesione al Prc», denunciano facendo tra l’altro notare che i nuovi tesserati sono da anni iscritti Fiom. «Una pratica letteralmente inaudita, sconosciuta ai partiti della sinistra italiana persino negli anni più bui della loro storia».
I bertinottiani hanno scritto una lettera al presidente del comitato di garanzia chiedendo un incontro dei primi cinque firmatari delle mozioni per «chiarire la situazione». Ma Ferrero sta pensando a un incontro con i primi firmatari delle altre tre mozioni di minoranza. Non ci vorrà molto per sapere come andrà a finire.

l’Unità 20.6.08
Lo stupro tra i crimini di guerra, l’emergenza arriva all’Onu
La violenza sessuale sulle donne spesso è un’arma nei conflitti. Gli Usa vogliono punirla ma non riconoscono la Corte penale internazionale
di Roberto Rezzo


LA VIOLENZA sessuale contro le donne nelle aree di guerra è stato l’argomento che ha dominato l’ultima riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La speciale seduta è stata introdotta dalla segretaria di Stato americano Condoleezza Rice. Un obiettivo dichiarato all’ordine del giorno: implementare la risoluzione 1325 - approvata il 31 ottobre 2000 - che per la prima volta include lo stupro fra i crimini di guerra. E per tutti questi anni rimasta lettera morta.
Il dossier Unifem denuncia una situazione che ha la portata di una tragedia umanitaria. Donne e bambini rappresentano la schiacciante maggioranza delle vittime in tutti i più recenti conflitti. Stupro e violenza sessuale sono sistematicamente impiegati per terrorizzare, umiliare e dominare il nemico.
Sono armi non convenzionali capaci di distruggere intere comunità per le generazioni a venire. «Ma non si tratta solo di un problema umanitario - sottolinea Rice - È un problema che investe la sicurezza nazionale e internazionale. Perché le donne sono una parte fondamentale del tessuto economico e sociale». Negli ambienti diplomatici l’iniziativa ha raccolto un vasto consenso, suscitando insieme non poche perplessità.
Il sottosegretario agli Esteri Vincenzo Scotti, primo rappresentante del governo Berlusconi a intervenire al Palazzo di Vetro, ha annunciato che l’Italia «sta per finanziare» con un milione di euro un programma di monitoraggio e prevenzione in Liberia. «Partecipiamo a questa iniziativa al massimo livello. Esattamente come ci siamo impegnati per la moratoria internazionale sulle esecuzioni capitali. L’attenzione dell’Italia per questi temi non cambia a seconda dei governi». Le resistenze più forti sono venute dalla Cina e dalla Russia, convinte che il tema della violenza sessuale esuli dalle competenze del Consiglio di Sicurezza. Una posizione di minoranza. Le vere questioni sono altre, a cominciare da come si passa dalle dichiarazioni d’intenti ai fatti.
Uno degli aspetti più allarmanti del dossier Unifem riguarda l’impunità della violenza contro le donne. La Corte Penale Internazionale dell’Aia ha competenza su questi crimini qualora i singoli governi locali manchi d’intervenire. Il suo statuto è entrato in vigore il 1 luglio del 2002 con il Trattato di Roma. Su 192 Stati membri dell’Onu, solo 104 lo hanno ratificato. Gli Stati Uniti hanno firmato il trattato ma l’amministrazione Bush si è rifiutata di ratificarlo. Ufficialmente per timore che il suo personale civile e militare possa essere oggetto di persecuzioni giudiziarie motivate politicamente.
E resta il fatto che gli Stati Uniti, in questo momento alla presidenza del Consiglio di Sicurezza, sponsorizzano un’iniziativa contro la violenza e per l’affermazione della legalità che è in palese contrasto con le trattative condotte su altri scacchieri. È di questi giorni la notizia che il governo iracheno ha respinto la richiesta di Washington di assicurare l’immunità permanente dalle leggi irachene per il personale sia civile che militare di stanza in Iraq. Compresi i dipendenti delle società che lavorano in appalto per il Pentagono o il dipartimento di Stato. Baghdad ha motivato la decisione citando anche numerosi episodi di violenza contro le donne da parte di suddetto personale. E un rapporto del Congresso accusa l’amministrazione Bush di complicità negli abusi verificatisi a Guantanamo, Abu Graib e in Afghanistan.
Il documento menziona esplicitamente torture e violenza sessuale nei confronti dei prigionieri.
Scotti - incontrando i giornalisti prima della riunione - assicura che la bozza di risoluzione all’esame del Consiglio di Sicurezza fa riferimento all’importanza di allargare il numero dei Paesi che aderiscono al trattato di Roma.
Un passaggio indispensabile per dare forza, credibilità ed efficacia alla Corte Penale Internazionale. In realtà il testo del documento si limita a ricordare che il Trattato di Roma esiste. E Marcello Spatafora, l’ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite, si affretta a correggere il tiro: «Il numero di Paesi che sottoscrivono uno statuto non è una questione prioritaria in questa fase. L’importante è che i caschi Blu e tutto il personale dell’Onu presente nelle aree di conflitto sia preparato e in grado di affrontare il problema della violenza contro le donne».

l’Unità 20.6.08
Dal Ruanda all’ex Jugoslavia
le cifre delle violenze


Il Fondo di Sviluppo delle Nazioni per le Donne (Unifem) stima che il 70% delle vittime nei conflitti armati sono civili. La stragrande maggioranza di questi sono donne e bambini. L’agenzia Onu denuncia che le donne sono sempre più percepite come un obiettivo da parte dei belligeranti, che adottano una «strategia del terrore» come metodo di guerra. In questo contesto le donne possono essere violentate, rapite, costrette a gravidanze forzate e ridotte in schiavitù. Lo statuto di Roma della Corte Penale Internazionale è il primo strumento internazionale che include la violenza sessuale tra i crimini contro l’umanità (art. 7) e i crimini di guerra (art. 8). Quasi la metà delle persone sotto processo presso la Corte Penale e gli altri tribunali internazionali sono accusate di stupro o di violenza sessuale, sia in quanto esecutori che mandanti. Fenomeni di violenza nei confronti delle donne sono stati registrati in quasi ogni conflitto internazionale o civile: Afghanistan, Burundi, Ciad, Colombia, Costa d’Avorio, Congo, Iraq, Liberia, Perù, Ruanda, Sierra Leone, Cecenia, Darfur, Sudan, Nord Uganda ed ex Jugoslavia.
In Ruanda mezzo milione di donne sono state violentate durante il genocidio del 1994; 60mila sono state vittima di violenza sessuale durante il conflitto tra Croazia e Bosnia-Erzegovina; in Sierra Leone i casi di violenza sessuale contro le donne sfollate sono stati 64mila. Al termine della sua visita in Darfur il relatore Speciale Onu per la violenza contro le donne ha riportato testimonianze di donne che pur essendo state vittime di violenza, incontrano forti difficoltà nell’accesso alla giustizia e alla tutela sanitaria. Il coordinatore Onu per l’Emergenza Umanitaria, visitando la regione del Sud Kivu nella Repubblica Democratica del Congo, ha riferito che dal 2005 sono stati riportati 32mila casi di violenza sessuale. Tutte le cifre sono approssimate per difetto.
Unifem denuncia che la protezione e il sostegno alle donne vittime della violenza nelle zone di guerra e nella fase post-conflitto sono ancora inadeguati. La generale impunità di cui godono i colpevoli aggrava la situazione, fungendo da incentivo alle violenze. A otto anni dall’adozione della risoluzione 1325, l’agenzia Onu rileva come resta ancora molto da fare per rafforzare i meccanismi di prevenzione, d’indagine, di raccolta informazioni e di riparazione per le vittime. E molto resta da fare anche sul piano della partecipazione delle donne ai processi di pace.

Corriere della Sera 20.6.08
L'intervista «D'Alema non capisco che mondo vuole, stimo Prodi però la riscossa non verrà da lui»
Ingrao: Berlusconi? Non è il nazifascismo
«Ma è un avversario e Veltroni ha capito tardi che ogni alleanza è impossibile»
di Monica Guerzoni


Paragoni sbagliati Non farei paragoni con l'incarnazione più grave di un regime reazionario per il quale il mondo ha pagato milioni di morti

ROMA — La svolta di Veltroni? «Condivisibile, ma tardiva». E D'Alema? «Non capisco che mondo vuole». Il grande vecchio del Pci e i «nipotini » del Pd. Pochi li conoscono bene come Pietro Ingrao, 93 anni, parlamentare per mezzo secolo e, nel 1976, primo comunista a salire sullo scranno di presidente della Camera. E ora che li osserva a distanza dal salotto della sua casa romana — tra la foto del «Che» e quelle dei biondissimi nipoti — l'autore di Volevo la luna ne parla con severo e affettuoso rispetto. Consiglia loro di non cedere alle sirene girotondine che gridano al «regime » e infine li assolve, giustificandone la sconfitta con quella, «molto più grande », del comunismo.
Ha fatto bene Veltroni a strappare la tela del dialogo?
«Assolutamente sì. A dire il vero è una posizione che io condivido da tempo».
L'aver chiuso il confronto non rischia di riportarci indietro, allo scontro del '92? E le riforme, che fine faranno?
«Quelle riforme le ho ritenute da tempo un assurdo e non per "chiusura", ma perché credo di conoscere la politica — pessima, secondo me — del presidente del Consiglio. E non mi pare che le vicende delle ultime settimane avessero portato mutamenti.
Da molto tempo io considero Berlusconi un avversario da combattere e non un possibile alleato ».
Veltroni lo ha capito tardi?
«Direi proprio di sì».
È d'accordo con chi ritiene che la svolta improvvisa del leader del Pd sia stata condizionata dai giornali?
«Mi sembra una spiegazione troppo gracile. A me pare che Veltroni abbia dovuto verificare nei fatti che Berlusconi non è solo un uomo di destra, ma anche un leader reazionario. Quanto a me, faccio una grande fatica a immaginare un'alleanza con lui».
C'è aria di Girotondi, a sinistra c'è chi grida al «regime». Ma si può definire «dittatura» il governo Berlusconi?
«Io non farei paragoni con la dittatura fascista. Sono avversario di Berlusconi, ma il nazifascismo è stato di certo un'altra cosa: forse l'incarnazione più grave di un regime reazionario, per il quale il mondo ha pagato milioni di morti e rovine inenarrabili».
Oggi si riunisce l'Assemblea Costituente del Pd. È giusto chiedere a Romano Prodi di non lasciare la presidenza?
«Ho stima di Prodi. Ma — con tutto il mio profondo rispetto — penso che non sia da lui che possa venire la svolta necessaria per la riscossa delle forze democratiche di sinistra e di centro. Le quali, guai a dimenticarlo, escono da una durissima sconfitta e hanno una fortissima sete di rinnovamento».
Dallo staff di Veltroni si alzano voci critiche contro la fondazione culturale di Massimo D'Alema, sospettata di essere una corrente. Lei come la vede, dal momento che nel Pci le correnti erano vietate?
«Sulle correnti ci sono stati scontri pesanti nel Pci. E io ho pagato parecchio perché sostenevo la "pratica del dubbio", al punto di finire ai margini del partito di cui ho fatto parte a lungo e con passione».
Qual è oggi il ruolo dell'ex premier?
«Ho forte stima di D'Alema anche se ho attraversato momenti anche pesanti di dissidio e di scontro con lui. Adesso però — lo dico con franchezza — non ho chiara la strategia a cui s'affida. Un demonietto maligno forse potrebbe dire che la sua proposta politica non è chiara nemmeno nelle parole che dice. Forse mi sbaglio, però negli anni più recenti l'ho visto come in posizione di attesa. È intelligente, acuto e furbo, ma che mondo vuole?».
E Veltroni? Non è anche colpa sua se a Roma ha vinto Alemanno?
«Mi sembra che Veltroni abbia dato parecchio al cammino di questa città. Il Campidoglio ha conosciuto più volte e a lungo una direzione comunista e sarebbe ingiusto — e anche un po' ridicolo — dimenticare ciò che i rossi hanno dato a questa città simbolo. Gianni Alemanno non lo conosco, tuttavia gli direi di riflettere su ciò che è stato il Campidoglio diretto dai rossi».
Veltroni, D'Alema, Fassino, Bettini... I sogni degli ex ragazzi del Pci-Pds-Ds si sono realizzati solo in parte e spesso si ritrovano in lotta l'uno contro l'altro. Perché?
«La prego, non mi faccia questa domanda! Posso solo dirle che, prima di loro, c'è una sconfitta più grande che li scavalca ed è la sconfitta del comunismo. Loro sono stati ragazzi in quel mondo che guardava a Marx e a Gramsci, nei cui testi c'erano risposte segnate da errori anche pesanti. Quel vincolo ha inciso su di noi in modo straordinario».
Nichi Vendola o Paolo Ferrero, per ricostruire Rifondazione?
«Non credo sia la questione essenziale che sta di fronte al mondo di Rifondazione. In quel campo, a cui io sono più che vicino, c'è necessità stringente di una riflessione. E non solo su scelte e responsabilità di vertice, ma sulle idee e sul volto di una sinistra di fronte ai grandi e gravi antagonisti che sono il nocciolo decisivo della destra mondiale. E che stanno prima di tutto in America».

Corriere della Sera 20.6.08
Cordone ombelicale Un nuovo divieto alla conservazione
di Margherita De Bac


ROMA — No alla conservazione «personale» del cordone ombelicale.
L'ordinanza che vieta la pratica «autologa solidale», scadenza 30 giugno, è stata prorogata fino al 29 febbraio dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Il via libera, tuttavia, sembra solo rinviato, come spiega Francesca Martini, sottosegretario con delega alla Salute: «Stiamo elaborando linee guida che serviranno alle Regioni per accreditare le strutture pubbliche e private — dice la Martini —. Sono favorevole.
Non c'è motivo di negare questa possibilità. Purché non diventi una moda e purché non costituisca un costo per il servizio sanitario. Quindi ci sarà un ticket. Le donne devono sapere che la comunità scientifica ha molti dubbi sull'utilità delle staminali del cordone. Chiederemo ai ginecologi di aiutarci a fare informazione». L'unica alternativa restano i centri stranieri. La conservazione del cordone è prevista dal decreto Milleproroghe che però subordinava l'introduzione del nuovo sistema alla presenza di una rete di biobanche, di cui al momento non c'è ancora il disegno.
L'ordinanza di divieto contiene una sola deroga. Sì alla conservazione privata solo se in famiglia ci sono casi di malattie potenzialmente curabili con trapianto di staminali. Si parla di autologa solidale quando il sangue cordonale viene messo a disposizione della comunità dal legittimo proprietario. L'unica banca privata su suolo italiano è il Bioscience di San Marino. Altri centri offrono un diverso tipo di servizio: il sangue viene raccolto in Italia e inviato in strutture straniere, soprattutto in Svizzera e in Inghilterra. Nel 2007 sono stati esportati circa 5 mila cordoni, la richiesta di autorizzazioni al ministero della Salute è in vorticoso aumento. Diminuite invece le donazioni.
«Mai proroga fu più inopportuna e intempestiva. L'Italia si potrebbe allineare al resto del mondo e invece rinuncia», è critica Donatella Poretti, deputata radicale. Chiede al governo «di non perdere l'opportunità e di mettersi al passo con le direttive europee» Luca Marini, presidente di Assobiobanche, l'associazione delle imprese che si occupano di ricerca e servizi in questo settore. Secondo Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti, la rete italiana è di ottimo livello: «Sono perplesso sull'uso autologo. Mancano prove su applicazioni di staminali cordonali autologhe».

Corriere della Sera 20.6.08
Lo studio Le università di Illinois e New Mexico analizzano gli amori di 35 mila uomini. La ricerca su «New Scientist»
La formula dei mascalzoni: ecco perché piacciono alle donne
di G. S.


LONDRA — La formula scientifica del successo con le donne è la «triade oscura» nella psiche del maschio. Parola degli scienziati delle università del New Mexico e dell'Illinois che hanno studiato la psicologia di 35.200 soggetti in 57 Paesi, hanno incrociato i dati con le loro conquiste femminili e le loro infatuazioni maschili e poi hanno elaborato la teoria. Le donne sono attratte dalla
dark triad caratteriale dell'uomo: narcisismo ossessivo; ricerca psicopatica dell'emozione; capacità machiavellica di ingannare e approfittare delle situazioni.
Il professor Peter Jonason, presentando la ricerca sulla rivista New Scientist, ha usato espressioni cliniche: «Questi tratti rappresentano una strategia di successo nell'evoluzione della specie, perché procurando al maschio dotato di "triade oscura" un gran numero di partner per attività sessuale, assicurano una discendenza ». In caso contrario, la disapprovazione sociale per i narcisisti ingannatori avrebbe portato da secoli all'estinzione del tipo. «La strategia ha funzionato, visto che invece abbiamo ancora questi tratti in circolazione».
Lo studio conclude anche che uno dei segreti del successo del genere «maschio mascalzone» è dovuto alla sua relativa rarità: se ce ne fossero di più in circolazione, le donne imparerebbero a conoscerli meglio e starebbero in guardia. I professori di psicologia del comportamento, dunque, arrivano alla stessa conclusione di molti genitori che non smettono mai di ammonire le figlie dai rischi di incontrare «il tipo sbagliato». Gli scienziati americani cedono anche alla tentazione di compiacere l'orgoglio britannico (e così la notizia ieri è stata ripresa da tutti i giornali londinesi di qualità, dal progressista
Guardian al conservatore Daily Telegraph)
e per dare un volto al loro «uomo della triade oscura» evocano James Bond. «L'agente 007 dei libri di Ian Fleming è un tipo poco raccomandabile, a volte spiacevole, molto estroverso e al quale piace fare nuove esperienze, uccidere persone e avere molte donne». Qualche critico ricorda che oltre ad essere poco raccomandabile, Bond forse portava anche un po' male: le sue amanti, a partire dalla prima, Vesper Lynd, finiscono tutte ammazzate.
Conquistatori Sean Connery in James Bond, Georges Simenon (disse: «Ho avuto 10 mila amanti»), Marlon Brando e Norman Mailer, tutti «mascalzoni»

Corriere della Sera 20.6.08
L'assassinio di Gentile e la sentenza di Togliatti
di Sergio Romano


Rileggendo una pagina della storia del nostro Paese, mi sono imbattuto in questa domanda: «Perché fu assassinato il filosofo Giovanni Gentile?». La sua morte, avvenuta a Firenze nel 1944, non è stata del tutto chiarita, se non sbaglio. Dico questo, perché alcuni storici ipotizzano che dietro quel delitto ci siano stati i servizi segreti inglesi, mentre per alcuni altri ci sarebbe una pista che porta al vecchio Partito comunista, senza peraltro escludere altre tesi a me sconosciute. Può aiutarmi a capire come andarono le cose?
Michele Toriaco
Torremaggiore (Fg) Caro Toriaco,

La prima delle due ipotesi da lei prospettate è contenuta in un libro affascinante di Luciano Canfora («La sentenza») apparso presso l'editore Sellerio nel 1985. Canfora applicò alla lettura dei documenti (un articolo di Concetto Marchesi, un articolo di Togliatti, le notizie diramate dalla Bbc e una sorta di necrologio del filosofo apparso a Ginevra con una sconcertante preveggenza nel giorno stesso della morte) la stessa accattivante perizia filologica con cui ha letto più recentemente il papiro di Artemidoro. Per quanto mi riguarda, tuttavia, continuo a pensare che il caso sia meno misterioso di quanto lei pensi e che le responsabilità comuniste siano evidenti.
È vero, tuttavia, che l'assassinio di Giovanni Gentile di fronte alla villa fiorentina che lo ospitava, il 15 aprile 1944, suscitò immediatamente illazioni e sospetti. Il filosofo aveva aderito al fascismo repubblicano, aveva accettato incarichi innocui ma simbolici, come la presidenza dell'Accademia d'Italia, aveva pronunciato discorsi d'intonazione nazional- fascista e aveva fatto un'affettuosa visita a Mussolini nella sua villa sul Lago di Garda. Ma si servì della sua autorità per deplorare la crudeltà delle bande fasciste, invocare la pace civile degli italiani e intervenire presso il prefetto per salvare la vita di persone arrestate e condannate a morte. Vi era quindi tra i fascisti fiorentini, nelle settimane che precedettero la sua uccisione, un partito degli intransigenti per cui il filosofo era diventato un pericoloso esempio di lassismo morale e ideologico.
Ma sull'identità e sull'affiliazione politica degli uccisori non esistono dubbi. L'assassinio fu opera di un Gap fiorentino, guidato da un uomo, Bruno Fanciullacci, che venne arrestato tre mesi dopo e morì, per non parlare, gettandosi dalla finestra della villa in cui era stato interrogato e torturato. Secondo lo storico Sergio Bertelli, l'ordine sarebbe stato impartito da un gruppo di intellettuali comunisti fiorentini che decisero la morte del filosofo senza consultare il Cln della città, dove i rappresentanti del partito d'Azione erano legati a Gentile da vecchia amicizia. Agivano sulla base di istruzioni provenienti dalla direzione del partito? È questo il punto in cui la vicenda si complica. Qualche settimana prima lo storico Concetto Marchesi, già rettore dell'Università di Padova, aveva scritto in Svizzera un articolo polemico contro Gentile e i suoi inviti alla riconciliazione nazionale. L'articolo apparve anonimo su un giornale clandestino dei comunisti milanesi in una versione che terminava con queste parole: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!». Le parole conclusive non appartenevano al testo di Marchesi ed erano state aggiunte da Girolamo Li Causi. Ma divennero parole di Marchesi quando Palmiro Togliatti riprodusse l'articolo su Rinascita
dell'1 giugno 1944 e lo fece precedere da una nota intitolata «Sentenza di morte» di cui Sergio Bertelli ha ritrovato il testo autografo. Eccolo: «Questo articolo di Concetto Marchesi venne pubblicato nel numero 4 (marzo 1944) della rivista del Partito comunista
La nostra lotta che si pubblica clandestinamente nelle regioni occupate dai tedeschi. Esso venne scritto in risposta a un miserando e vergognoso appello di Giovanni Gentile alla "concordia", cioè al tradimento della patria, apparso nel Corriere della Sera
fascista. Poche settimane dopo la divulgazione di questo articolo, che suona come atto di accusa di tutti gli intellettuali onesti contro il filosofo bestione, idealista, fascista e traditore dell'Italia, la sentenza di morte veniva eseguita da un gruppo di giovani generosi e la scena politica e intellettuale italiana liberata da uno dei più immondi autori della sua degenerazione. Per volere ed eroismo di popolo, giustizia è stata fatta».
Non è importante quindi chiedersi se gli uccisori di Firenze abbiano eseguito un ordine impartito da Togliatti. Vi sono casi in cui l'avallo a posteriori ha il valore di una sentenza.

Corriere della Sera 20.6.08
Lo studioso Francesco Berto racconta il teorema che ha cambiato la scienza moderna
Non solo matematica sugli impervi sentieri del genio Kurt Gödel
di Giuseppe Galasso


L'aneddoto più bello su Kurt Gödel è di Albert Einstein che diceva di essere andato a Princeton «solo per avere il privilegio di camminare insieme a Gödel sulla via di casa». Era un'ammirazione meritata. Il teorema per cui Gödel entrò nella storia della scienza è stato definito da Rebecca Goldstein (studiosa di filosofia, e anche narratrice) insieme al principio di indeterminazione di Heisenberg e alla relatività di Einstein la terza gamba di quel tripode di cataclismi teorici che sono stati percepiti come un terremoto nella profondità dei fondamenti delle «scienze esatte» e ci hanno condotti «in un mondo sconosciuto che quasi un secolo dopo stiamo ancora lottando per renderci conto di dove, esattamente, siamo arrivati».
Detto in parole poverissime, il teorema di Gödel dimostrava, nel 1931, che qualsiasi teoria matematica in guisa di sistema formale e coerente contenente l'aritmetica elementare (ossia la teoria dei numeri interi naturali) è «sintatticamente incompleta ». Per la logica matematica un sistema è sintatticamente incompleto se nel suo linguaggio si incontrano formule di cui non si può dimostrare né la verità, né la falsità. In altri termini (mi si passi l'esempio) è come se nella grammatica di una lingua si formulassero regole di cui non si possa dire se siano corrette o scorrette. Gödel smentisce così in modo radicale che, data l'inevitabilità di proposizioni indecidibili, si possano costruire nell'universo dei numeri sistemi formali in cui tutto sia conosciuto o conoscibile, e lascia, quindi, aperti e indecisi gli esiti di qualsiasi sistema. La logica matematica prevede, però, anche un'altra incompletezza, quella semantica, se gli sviluppi di un sistema portano a formulare proposizioni non appartenenti al sistema stesso (in questo caso, per stare all'esempio di prima, è come se la grammatica italiana a un certo punto formulasse regole fuori della sua logica e del suo sistema, e secondo la logica e il sistema di un'altra ed estranea grammatica). E quest'altra incompletezza era per Gödel causata dal fatto che in tutti i sistemi la coerenza interna, ossia la loro non-contraddittorietà, è una proposizione non decidibile al loro interno. In altri termini, incompleto nel primo senso, un sistema lo è anche nel secondo senso, essendo incapace di coerenza interna, e quindi di auto-sufficienza.
Si dirà: ma questo non è molto astratto, puramente teorico? Lo è, infatti, ma, come accade nella più alta scienza, dall'astrazione nascono conseguenze e applicazioni pratiche di sconcertante concretezza. Lo stesso Gödel assimilava le classi e i concetti logici, di cui si occupava, ai corpi fisici che sono a base delle percezioni dei nostri sensi. In pratica, procedeva traducendo gli enunciati dell'aritmetica relativi alle proprietà formali o strutturali delle sue espressioni in enunciazioni semplicemente aritmetiche, per cui a ognuna di tali espressioni (formula, funzione, dimostrazione etc.) era associato un numero. Così, le relazioni logiche diventavano rapporti numerici. Poiché un sistema chiuso di tali rapporti era sintatticamente e semanticamente incompleto, occorreva, per procedere, uscire fuori dai sistemi chiusi e finiti e ammettere qualche ipotesi non formalizzabile in aritmetica. Ora, pensate che nei computer qualsiasi oggetto o dato o immagine o testo etc. è traducibile in numeri ed è memorizzabile, e avrete un'idea di quel che è stata la correlazione stabilita tra dati numerici e dati logici, di cui Gödel è stato un protagonista, così come lo è stato della negazione che l'aritmetica costituisca un sistema finito e chiuso.
A far capire tutto ciò ha mirato Francesco Berto, docente di Ontologia a Parigi e di Logica a Venezia, col suo Tutti pazzi per Gödel! (Laterza). Quel tutti è, in realtà, un auspicio di Berto stesso, che di Gödel (perché, dice, seguirne il percorso logico è stato per lui «una delle esperienze più emozionanti») si dichiara, appunto pazzo e tali vuol fare diventare gli altri. Speriamo che sia così. Non è tanto semplice. Berto stesso dice di avere spesso, da filosofo, sbattuto la testa in un muro di difficoltà. Dice pure che per il suo libro si deve sapere un po' di logica elementare e che ha dovuto iniziare con un po' di teoria degli insiemi. Ma chi supera gli ostacoli trova in lui una guida abile e suasiva. E la fatica sarà premiata. Gödel è stato discusso, e dopo di lui matematica e logica hanno preso anche altri sentieri. Ma il nucleo duro del suo pensiero si è dimostrato, oltre che durevole, anche davvero affascinante (Berto ha ragione), quale lo ritrasse, fra gli altri, Douglas R. Hofstadter nel suo Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda (Adelphi), associando, non a caso, il grande logico-matematico a un grande artista della grafica e a un sommo musicista.
Protagonisti
Gli omaggi di Albert Einstein e il paragone con la musica di Bach e la grafica di Escher Albert Einstein diceva di essere andato a Princeton per passeggiare con Gödel (Ap)

Corriere della Sera 20.6.08
In Belgio Siegfried Verbeke e Vincent Reynouard, «piccoli Faurisson» che contestano la Shoah e il diario di Anna Frank
Condanna a un anno di carcere per due negazionisti
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — La Fondazione che lui costituì 25 anni fa, e che battezzò «Verità storica obiettiva», ora si chiede dal suo sito Internet: «Chi accetterà la nostra sfida? Offriamo 3.000 euro a chiunque saprà dimostrarci, con un dibattito in contraddittorio, che la Shoah non è un mito della propaganda». Ma Siegfried Verbeke, fiammingo di 67 anni, almeno per un altro anno ancora non potrà «premiare» nessuno: era già in cella, ed ora il tribunale di Bruxelles gli ha confermato una condanna a 12 mesi di prigione, e a 25.000 euro di multa, per aver diffuso e spedito a varie persone opuscoli di 12 pagine che negavano i fatti dell'Olocausto, e perfino alcuni risvolti del diario di Anna Frank. Insieme con lui, alla stessa pena e per gli stessi motivi, è stato condannato anche Vincent Reynouard, 39 anni, francese, militante del «Movimento di lotta San Michele» che si auto- qualifica come «movimento cattolico, nazionalsocialista, revisionista» e che sollecita dibattiti su temi come «La questione del complotto giudeo-massonico». Reynouard è un ex professore di matematica cacciato nel 1997 dalle scuole del suo Paese, dopo che nel suo computer erano stati trovati documenti «negazionisti» della Shoah.
La sentenza di ieri è l'ultimo passo di una vicenda cominciata nel 2003, dopo alcune denunce firmate dalle persone a cui erano stati recapitati gli opuscoli «negazionisti». Protestano i «camerati» di Verbeke e Reynouard: «Non ammazzano nessuno e dicono apertamente quello che pensano, invece di contestare i loro argomenti li mettete in manette...». A loro volta, i due personaggi sostengono di non essere antisemiti, ma solo «appassionati di storia»: degli Irving o Faurisson in tono minore, tanto per capirsi. Ma il curriculum di Verbeke sembra un brogliaccio di polizia, e dipinge una vita quasi dominata dall'«ossessione negazionista». Nel 1980, militante di un gruppo dell'estrema destra fiamminga poi sciolto per atti di violenza xenofoba, distribuisce discorsi di Hitler. Nel 1990 spedisce documenti «negazionisti» a persone con cognomi ebrei. Nel 1993, la prima condanna in Belgio, con la privazione dei diritti civili — cioè del diritto di voto — per 10 anni. Poi, Verbeke chiede asilo politico in Olanda. Nel 1998, è condannato in Germania per la diffusione di opuscoli «sulle bugie di Goldhagen e Spielberg». Nel 2000 scrive un libretto con Robert Faurisson, contestando il diario di Anna Frank. Nel 2001, le sue opere vengono ritirate dalle librerie belghe.
Nel 2004, Verbeke è condannato a un anno in Belgio, e nel 2005 viene arrestato all'aeroporto di Amsterdam, su ordine di cattura internazionale emesso in Germania. Trascorre 9 mesi in carcere, fino al maggio 2006. Poi torna libero, fino al dicembre 2006. Secondo i suoi amici, in cella riceve molte lettere da tutta l'Europa.

Repubblica 20.6.08
Dallo stato sociale allo stato di carità
di Nadia Urbinati


Questo è davvero un governo rivoluzionario, proprio come aveva promesso il suo leader in campagna elettorale. Ma di quale rivoluzione si tratta?

A partire da quella francese di fine Settecento, le rivoluzioni hanno dimostrato di poter avere sia lo sguardo rivolto al futuro sia lo sguardo rivolto al passato; le prime per cercare di realizzare l´utopia della società giusta, le seconde, che in genere seguono al fallimento delle prime, per ripristinare o istituire ordine e gerarchia. Quella che stiamo subendo in Italia oggi è del secondo tipo. Per questo sarebbe opportuno chiamarla con il suo vero nome: non rivoluzione ma contro-rivoluzione o meglio ancora restaurazione, visto che questo governo ha dato alla sua politica l´aura della normalità, anzi premunendosi di tradurre la politica dell´eccezione in uno stato di normalità.
La questione non riguarda soltanto l´uso dell´esercito per funzioni di ordine pubblico, o la violazione dei diritti fondamentali per i non cittadini; essa riguarda anche la politica economica. La manovra approvata in soli 9 minuti dal consiglio dei Ministri ha lanciato un messaggio eloquente e forte: non esiste più uno stato sociale; d´ora in poi esisteranno solo politiche di soccorso per i bisognosi. Il che puó così essere tradotto: non ci sono più cittadini uguali o che hanno un egual diritto ad accedere ai servizi con i quali soddisfare quei bisogni che la Costituzione definisce come primari; ci sono invece cittadini che possono fare da sé e cittadini che non potendo far da sé sono aiutati dallo Stato.
Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale ci saranno italiani con la tessera di povertà. Per la prima volta nella storia della democrazia italiana ci saranno cittadini dichiarati per legge poveri che lo Stato tratta diversamente dai non bisognosi o dagli abbienti. Per la prima volta dall´entrata in vigore della Costituzione, l´eguaglianza democratica – che gli articoli 2 e 3 sanciscono impegnando istituzioni e cittadini a rispettare – è stravolta e gravemente compromessa proprio nel suo fondamento, ovvero nel riconoscimento del principio di eguale dignità di tutti i membri del corpo sovrano.
Con questo stravolgimento gravissimo l´idea che ha accompagnato la rinascita politica del dopoguerra – la cittadinanza come grappolo di diritti civili, politici e sociali – viene a cadere. La restaurazione è a tutto tondo quindi, un´organica politica che scientemente mira a cambiare fondamenti e principi della democrazia italiana, decretando che non tutti i cittadini saranno d´ora in poi eguali nelle opportunità sociali.
A voler essere corretti, l´attacco alla cittadinanza sociale era già cominciato, con l´aiuto degli stessi governi di centro-sinistra. Per esempio, il diritto all´educazione è da diversi anni ormai sotto sistematico e diretto attacco nel nome della libertà dell´offerta educativa, ma in realtà con l´intento nemmeno troppo velato di dirottare soldi pubblici alle scuole private e religiose. E che dire del diritto costituzionale alla salute? Non è forse stato manomesso gravemente con le politiche federalistiche e poi con quelle delle convenzioni con le cliniche private (altro stratagemma per sovvenzionare il privato) e della monetarizzazione delle prestazioni mediche?
Ora, il governo si appresta a mettere la classica ciliegina sulla torta: istituisce le tessere di povertà, premunendosi di raccomandare che verrà garantito l´anonimato dei possessori, quindi ammettendo che la conoscenza della condizione di povertà puó generare discriminazioni e ulteriori ingiustizie (proprio per evitare questo rischio i costituenti avevano istituito i diritti sociali). L´Italia ha da oggi cittadini di serie A e cittadini di serie B; e sopra tutti, un´oligarchia che prospera a spese dell´intera società, facendo leggi funzionali ai propri interessi e bisogni, e quindi estendendo esponenzialmente i propri privilegi mediante l´uso strumentale non solo delle procedure ma anche dei poteri dello stato, in primo luogo quello giudiziario (ammoniva Montesquieu, che lo stravolgimento di questo potere è il primo grave segno di degenerazione illiberale di un governo). La tessera di povertà rientra per tanto in un´organica politica di diseguaglianza che coinvolge tutti i livelli della vita sociale e civile.
Pensare che questa discriminazione riguardi solo una minoranza e che quindi non debba destare eccessiva preoccupazione è ovviamente quanto di più improvvido si possa immaginare, visto che a tutti puó toccare la sfortuna di scivolare giù nella scala sociale – un´immagine, quella dell´eguaglianza nel rischio di caduta, invece che nell´opportunità di vivere con dignità, che sempre di più verrà a far parte del nostro immaginario individuale e collettivo.
Del resto, come il ministro Tremonti ci ricorda, la sfortuna è una condizione dalla quale nessun essere umano puó tutelarsi completamente, dovendo tutti noi pagare per il peccato originale. E la tessera di povertà è lì a dirci che lo Stato ha definitivamente abbandonato l´illusione che, se non proprio sconfitta, la sfortuna potrebbe almeno essere neutralizzata. Ma era la democrazia sociale, quella a suo modo rivoluzionaria che il grande T. H. Marshall aveva teorizzato nel 1950, a coltivare quell´ispirazione, a voler costruire un futuro nel quale tutti i cittadini potevano godere concretamente di eguale dignità e libertà. Oggi, l´ideologia egemone della compassione per i poveri e del privilegio per i potenti ci annuncia (e decreta) che quell´utopia è sepolta. Come altre volte in passato, la restaurazione detta la sua legge: i ranghi si riorganizzano, le diseguaglianze rinascono.

Repubblica 20.6.08
La maggioranza di Ferrero accusa: tessere fantasma. E i bertinottiani minacciano il ricorso al magistrato
Prc, test della verità ai nuovi iscritti il congresso rischia di finire in tribunale
La posta in palio è la vittoria alla convention di fine luglio a Chianciano
di Umberto Rosso


ROMA - L´ombra del magistrato sul congresso di Rifondazione. Esplode la guerra delle tessere, con congressi annullati e accuse feroci su iscritti-fantasma. I ferrerriani, che hanno conquistato la maggioranza del partito, annullano i congressi di Arezzo e Ancona, sono pronti a fare altrettanto con molti altri a cominciare da Portici a Napoli e San Basilio a Roma, e lanciano gli "interrogatori" dei nuovi iscritti partendo dai circoli di Bologna e Brescia, per fugare i sospetti di iscrizioni dell´ultimora e poco trasparenti. Troppo per i bertinottiani guidati dal candidato segretario Nichi Vendola. Che hanno inviato una durissima lettera al capo dei probiviri Cappelloni contro i provvedimenti presi dalla troika congressuale (Grassi e Pegolo per la maggioranza, Bonato per la minoranza), invocando una riunione urgentissima di tutte le mozioni. Ma un faccia a faccia, convocato ieri fra Paolo Ferrero e Franco Giordano, si è già concluso malamente, fra reciproche accuse. E così nei corridoi tempestosi dei bertinottiani, che denunciano uno stravolgimento del regolamento interno, aleggia il fantasma del ricorso alla magistratura contro gli strappi.Una guerra di nervi e veleni, che ha come posta in palio la vittoria alla convention convocata il 25-27 luglio a Chianciano. Dove a fare la differenza fra le due correnti, in un partito praticamente spaccato a metà, saranno proprio i nuovi iscritti, registrati soprattutto nelle regioni del sud e schierati in larga parte con Vendola. Secondo i ferreriani un boom poco chiaro, e da qui la campagna per indagare su alcune situazioni giudicate sospette: i nuovi tesserati andranno politicamente "identificati" uno ad uno. Il compito di condurre gli accertamenti è stato delegato ai comitati federali. Così a Brescia, dove è suonato strano alla maggioranza lo sbarco di alcune decine di operai della Fiom, visto che uno dei leader del sindacato dei metalmeccanici è Maurizio Zipponi, molto vicino a Bertinotti. Dubbi dei ferreriani sui quasi trecento nuovi tesserati a Portici. Apriti cielo per quella intera sezione di Sinistra democratica che, ad Arezzo, è transitata dal partito di Fava al Prc, «in questo modo si stravolge il risultato del congresso», che difatti nella città toscana è stato ora annullato. Gli uomini dell´ex ministro indagano anche su quel centinaio di aderenti che ha chiesto di iscriversi a Roma al circolo del quartiere San Basilio. Tutti quanti saranno sottoposti dunque al test della verità. Perché ti sei iscritto qui? Che esperienza politica hai? Condividi davvero il progetto? «Veri e propri interrogatori - si indignano i bertinottiani - per vagliare purezza politica e ideologica, peggio degli anni bui della sinistra. Sanno di perdere e vogliono far saltare tutto». Gira voce anche dell´ipotesi di azzerare l´intero tesseramento 2008. La maggioranza nega: «Semplici controlli, perché alcune situazioni sono strane. Nessuno vuol bloccare il congresso». Intanto, si "combatte" città per città. Sgambetti e colpi bassi. A Taranto, raccontano i bertinottiani, agli operai dell´Italsider è stato di fatto impedito il voto non consentendo deroghe sull´orario. Stessa scena a Bologna dove sarebbe saltato il voto di un gruppo di migranti, fissato d´imperio alle due del pomeriggio. «Macchè migranti - ironizzano i ferreriani - quelli vivono in provincia di Bologna...».

Repubblica 20.6.08
D'Alema registra "Red" gli amici di Italianieuropei
La sigla sta per "Riformisti e democratici". Ma anche "rosso" in inglese
Nell´iniziativa coinvolto Marini: un suo fedelissimo nel gruppo-guida dell´associazione
di Mauro Favale


ROMA - Per adesso c´è il nome, depositato ieri davanti ad un notaio romano. Per il simbolo, invece, bisognerà aspettare ancora qualche giorno. Si chiamerà RED, rosso in inglese. Ma, soprattutto, l´acronimo di Riformisti e Democratici. L´associazione è la nuova "creatura", costola del Pd, che nasce con la regia di Massimo D´Alema e Franco Marini. Per ora è composta da deputati e senatori ma è pronta una campagna di adesioni aperta a tutti. I numeri, a livello parlamentare, parlano di 114 eletti tra Montecitorio e Palazzo Madama. Presidente sarà il deputato Paolo De Castro, prodiano della prima ora ma candidato con Enrico Letta alle primarie del Pd lo scorso ottobre. Insieme a lui, un ufficio di presidenza composto da altri quattro nomi: gli ex ministri del governo Prodi, Pierluigi Bersani e Livia Turco, il deputato (dalemiano doc) Michele Ventura e Nicodemo Oliverio, braccio destro dell´ex presidente del Senato Franco Marini. Sono questi, dunque, gli "amici" della fondazione "ItalianiEuropei", l´iniziativa culturale fondata da D´Alema 10 anni fa, con la collaborazione di Giuliano Amato. Per ora è stato depositato uno scarno statuto da associazione culturale che avrà come mission il riferimento alla tradizione riformista e a quella del cattolicesimo democratico. E uno specifico rapporto di collaborazione con la fondazione dalemiana. Per il regolamento, invece, c´è ancora da aspettare. Ma è lì dentro che si è deciso di inserire la strutturazione formale dell´associazione che avrà una direzione nazionale e propaggini in tutte le regioni. Non è un caso la decisione di far nascere formalmente l´associazione proprio ieri, a poche ore dalla riunione dell´assemblea costituente del Pd. «A me non interessa fare una corrente - aveva spiegato ieri D´Alema in un´intervista sull´Unità - in queste settimane ho letto cose inaudite. Sono solo forme moderne di organizzazione della politica». Intanto RED è partita. Martedì prossimo il debutto ufficiale a Roma. Assicurata una sfilata di deputati.