sabato 7 aprile 2018

Il Fatto 7.4.18
La 18enne rimorchiata in confessionale. “Sesso sul divanetto della sagrestia”
In cella - Don Michele Barone arrestato per violenza su minore durante gli esorcismi
di Vincenzo Iurillo


“Disse di essersi innamorato di me, mi riempiva di regali e disse che già da un anno voleva smettere di fare il prete. E dopo due o tre mesi mi convinse che dovevamo avere effusioni come due fidanzati normali”. Il resto del racconto diventa a luci rosse. E quel che accade, ovvero sesso orale e altro (ma senza un rapporto completo), accade sul divanetto del pian terreno de “La piccola casetta di Nazareth”, la sagrestia di don Michele Barone, 42 anni, il prete-esorcista di Casapesenna (in provincia di Caserta) in carcere con l’accusa di maltrattamenti, lesioni e violenze compiute durante gli esorcismi.
Lucia (il nome è di fantasia) è stata sentita il 9 marzo dagli agenti della Squadra Mobile di Caserta. Il verbale è stato allegato all’inchiesta dei pm di Santa Maria Capua Vetere Daniela Pannone e Alessandro Di Vico. Un pezzo di carta che trasforma in atto giudiziario le testimonianze raccolte dagli inviati de Le Iene, che hanno rivelato la vicenda delle violenze su una minore durante un esorcismo. E che sviluppa ulteriori sospetti sui metodi di don Michele, che approfittava della tonaca per attirare ragazze fragili e portarsele a letto. O sul divanetto della sagrestia. E se qualcuno bussava alla porta sul più bello? “Don Michele rispondeva che stava effettuando una confessione”.
Don Michele è accusato di violenza sessuale nei confronti di alcune donne e di maltrattamenti nei confronti di una ragazzina di 13 anni, affetta da un disturbo di conversione. Fu “curata” con i riti del prete e con il consenso dei genitori. L’ordinanza di arresto del 23 febbraio che ha svelato il caso della bambina ha avuto l’effetto di squarciare un velo di connivenze e protezioni. Ed altre presunte vittime si sono fatte avanti. Lucia è una di queste. E spiega fatti risalenti al 2002. Lei aveva 18 anni e viveva un momento difficile. Le conseguenze di un fidanzato lasciato da poco e di un rapporto conflittuale col padre. Don Michele si presenta come un amico che la vuole aiutare. Si reca in famiglia tutte le sere “per portare in casa la parola di Dio”, dice la ragazza. I genitori apprezzano. Poi, una sera, sull’uscio, il primo bacio. Qui finisce la storia del prete gentile e inizia quella di un uomo che cerca sesso. Anche virtuale. “Se non poteva vedermi mi telefonava chiedendomi di parlargli in modo che si masturbasse”. Le attività sessuali si trasferiscono a casa della ragazza “quando non c’era mia madre”. Lei ci sta. “Lui diceva di amarmi, che voleva avere una famiglia”. Lei però si rende conto che don Michele le sta mentendo. “Dopo un po’ capii che non avrebbe mai lasciato la tonaca. Gli dissi che volevo lasciarlo. Minacciò di suicidarsi”. Don Michele insiste, vuole un rapporto sessuale completo. Lei si rifiuta, vuole restare vergine, però acconsente ad andare in albergo a Giugliano per sottostare a rapporti anali. “Ma dopo un po’ mi rifiutai, provavo molto dolore”. La tresca finirà quando la madre di Lucia ne viene informata da un parente di don Michele. Tra le urla e gli schiaffi.
Corriere 7.4.18
Il musicista Usa aveva 89 anni
Addio al pianista Cecil Taylor, pioniere del free jazz
di Claudio Sessa


Dopo Ornette Coleman, scomparso nel 2015, il 5 aprile se ne è andato anche il grande pianista Cecil Taylor, l’altro «inventore» del free jazz. Aveva appena compiuto 89 anni, essendo nato a New York il 25 marzo 1929, e da qualche anno si era ritirato dall’attività, anche se continuava a essere presente sulla scena intellettuale della sua città.
Taylor aveva frequentato il New England Conservatory prima di iniziare a proporre la propria musica all’aprirsi degli anni Cinquanta, destando subito attenzione e sconcerto. La sua tecnica, nella quale si riconosceva anche l’attento studio dei compositori accademici contemporanei, era fuori discussione, ma non tutti ne coglievano il profondo legame con la tradizione del pianoforte jazz. Taylor rivendicava invece un rapporto essenziale con i maestri afroamericani: da James P. Johnson a Fats Waller, da Duke Ellington a Bud Powell e Thelonious Monk. Come Monk, esaltava la natura percussiva dello strumento; qualcuno definì il suo pianoforte «un’orchestra di ottantotto tamburi intonati». Ma Taylor intrecciava la propria musica anche ai movimenti corporei, al grande legame che il jazz ha da sempre con la danza; le sue dita si muovevano sulla tastiera come una complessa coreografia, capace di dare a ogni nota sonorità ed echi diversi.
Fu anche un grande leader e talent scout; nei suoi primi gruppi si rivelarono Steve Lacy, Bill Dixon, Archie Shepp, Roswell Rudd, più tardi i due musicisti con cui avrebbe avuto un’affermazione internazionale, Jimmy Lyons al sax alto e Sunny Murray alla batteria. Lyons rimase al suo fianco fino alla morte, nel 1986, mentre Murray fu sostituito dall’altro batterista Andrew Cyrille.
Fino agli anni Ottanta la musica torrenziale e incontaminata di Taylor ebbe poche occasioni per essere documentata discograficamente (ma ricordiamo i due classici album Blue Note, Unit Structures e Conquistador del 1966, e il piano-solo dal vivo a Montreux del 1974, Silent Tongues ). Premiato anche con il prestigiosissimo Kyoto Prize, Taylor nella sua musica ha saputo fondere per oltre mezzo secolo il senso della libertà più assoluta e la consapevolezza di una superiore, emozionante struttura complessiva.
Corriere 7.4.18
Maestri
Gillo Dorfles, la lezione infinita
A Milano l’omaggio per i 108 anni, che avrebbe compiuto questo mese
Martedì 10 aprile una serata nel Salone d’onore della Triennale: sulla torta un disegno scelto da lui prima di morire
di Aldo Colonetti


Gillo Dorfles avrebbe compiuto 108 anni il 12 aprile e per festeggiare il suo compleanno aveva già scelto un proprio dipinto da trasformare in una grande torta. La torta ci sarà e ci sarà anche l’ultimo suo libro, La mia America (Skira), alla Triennale di Milano il giorno 10, alla presenza di tutti i suoi più cari amici, perché il Palazzo dell’Arte, progettato da Giovanni Muzio, era anche un po’ la sua casa, tanto è vero che a giugno dell’anno scorso il suo penultimo saggio, Paesaggi e personaggi (Bompiani), fu al centro di una serata memorabile durante la quale improvvisò al piano a coda un piccolo concerto che stupì tutti i presenti, a cominciare dal sindaco Beppe Sala.
Ecco, direi che da questi brevi elementi di cronaca culturale emerge tutta la sua personalità, eclettica, contemporanea, aperta a tutte le discipline, attenta alla sperimentazione, curiosissima di tutto ciò che la vita gli ha offerto, ogni giorno sempre in attesa del nuovo, dell’inedito. Gillo con la sua scomparsa non ci lascia soli; basti pensare che la sua abitazione milanese, che è sempre stata anche il suo studio dove ha dialogato con tutti i protagonisti del Novecento e di questa prima parte del secolo, fino all’ultimo giorno, è piena di sorprese, di documenti, perché non ha mai voluto mettere ordine: «Sono i miei strumenti di lavoro, ho tante cose ancora da fare, archiviare è un po’ come storicizzare, trasformare un luogo vivo in un museo. No, è ancora presto, ci penseranno gli altri dopo di me».
È bello pensarsi, come noi lo abbiamo sempre pensato, «militante» nel suo significato più alto, ovvero c’è sempre qualcosa di originale in ciascuno di noi, bisogna saperlo cogliere. Per questo abbiamo ancora tantissimo lavoro da fare, non per rendere il suo pensiero e la sua vita un museo, ma per utilizzare al meglio il suo laboratorio che ci sorprenderà sempre di più, quando andremo a conoscerlo più direttamente.
Per questa ragione Gillo c’è, e lo dimostra l’ultimo volume, La mia America, curato con estrema attenzione e intelligenza filologica da Luigi Sansone, un libro che Dorfles non ha visto stampato ma che ha seguito fino in fondo, compresa la scelta della copertina, a stelle e strisce.
Il suo laboratorio è sempre stato il mondo reale, non tanto le «accademie», e lo dimostra il lungo saggio introduttivo di Sansone: Dorfles arriva negli Stati Uniti, la prima volta, il 16 settembre 1953, e viaggia da est a ovest, da nord a sud fino al 14 dicembre; la seconda volta, con una permanenza più breve, nel 1955, seguita da una serie successiva di inviti per conferenze, mostre e incontri. Gli amici che gli danno alcune dritte sono, in primo luogo, Leo Lionni e Leo Castelli, il più grande gallerista del secolo scorso, amico d’infanzia di Trieste, con cui, «dopo aver passato la giornata al Bagno Savoia, insieme a Bobi Bazlen, si andava a giocare a bocce con Italo Svevo».
Ecco, questo è Gillo; accanto alla scoperta e alla conoscenza diretta di artisti — come poi saranno i protagonisti dell’arte contemporanea americana, che sbarcheranno ufficialmente alla Biennale di Venezia solo nel 1964, in particolare il suo caro amico Robert Rauschenberg — alcune note di costume e di attenzione ai dettagli della vita quotidiana, scoprendo, come un vero «fenomenologo», anche un po’ archeologo della contemporaneità, che sono i particolari a farci riconoscere lo spirito del tempo. Un Dorfles un po’ hegeliano ma anche husserliano, come il suo grande amico Enzo Paci; visitando la casa di vetro di Philip Johnson: «Una casa dove vive da solo, con tutte le pareti di cristallo in mezzo a un magnifico bosco. Solo nel centro della grande stanza c’è un cilindro di mattoni in cui è ricavato il bagno», e subito la sua nota, «questo per fortuna chiuso!». Oppure quando, su invito di Lloyd Wright, visita il complesso di Taliesin West, in Arizona, e si sorprende, positivamente, del fatto che «alcuni locali sono davvero impressionanti tanto sono bene amalgamati con il deserto e le montagne circostanti», ma nello stesso tempo, in una lettera alla moglie Lalla, così si esprime a proposito del gusto personale del grande architetto: «Taliesin è un insieme di geniali trovate spaziali e di pessimo, indicibilmente abietto, cattivo gusto per quanto riguarda tutto quello che è furniture , decorazione e trucchi di materiali allo scoperto. Fa ribrezzo!».
Protagonista è il Dorfles che guarda altrove e già, forse, s’immagina una ricerca e un libro sul Kitsch, perché il mondo reale è un immenso laboratorio, dove la dimensione estetica ci fa capire anche l’antropologia della persona. Medico, psichiatra, più Jung che Freud, camminatore infaticabile con la mente e con il corpo, sciatore fino all’ultimo, chissà quante altre sorprese Gillo Dorfles ci offrirà in un futuro prossimo; noi saremo sempre qui in attesa di conoscere se finirà, o come si concluderà, la sua ricerca.
Repubblica 7.4.18
Mengele, l’angelo della morte che visse due volte
di Susanna Nirenstein


Il romanzo di Olivier Guez sulla fuga del medico nazista
Per tre anni Olivier Guez , ebreo, giornalista, sceneggiatore nato a Strasburgo nel 1974, esperto di Germania nel dopoguerra, si è svegliato ogni mattina pensando a Josef Mengele; ha vissuto, rivendica, con questo criminale nazista di una mediocrità abissale, lottando contro lui e gridando il suo nome nella notte. Quel che voleva fare era rintracciare, in fondo alla sua fuga infinita, la psicologia del medico tedesco che per due anni, dal maggio ’43 al 17 gennaio ’45, ha incarnato il processo delle selezioni sulla banchina ferroviaria di Auschwitz, scegliendo chi mandare a morte nelle camere a gas e chi spedire ai lavori forzati, vagliando i convogli in entrata per scoprire eventuali gemelli con l’ordine Zwillinge heraus! (gemelli un passo avanti), la sua ossessione, visto che voleva scoprirne, quale medico primario di Birkenau, il segreto genetico per aumentare la prolificità della pura razza germanica. Bambini e adulti su cui sperimentò tutto, compreso il cambio dei colore degli occhi e l’unione dei corpi con organi in comune formando dei siamesi artificiali, o monitorando la morte per fame di neonati, uccidendoli alla fine dei suoi test con una iniezione di fenolo nel cuore, cercando anche individui con anomalie fisiche che potessero essere utilizzati per ricerche: questi ultimi dopo esser stati visitati venivano uccisi a colpi di arma da fuoco, i loro corpi dissezionati, le ossa inviate a Otmar von Verschuer, direttore dell’Istituto per la ricerca biologico-razziale che a fine guerra tornò in cattedra. Il loro scopo era dimostrare che la superiorità dei nordici era dovuta a fattori di ereditarietà. Mengele non è finito mai nelle mani dei cacciatori di nazisti e da questo libro capiamo tappa per tappa come ha fatto. Le connivenze, la famiglia alle spalle. Il governo tedesco nel 1956 gli ridette addirittura il suo documento di identità. La sua inafferrabilità divenne un mito ammantato di una definizione epica, l’Angelo della morte. Per Guez occorreva destrutturare la leggenda e calarsi nella sua miseria. È di pochi mesi fa il bel libro di Bettina Stangneth La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, una ricostruzione fattuale dei delitti commessi dell’ingegnere della deportazione e dello sterminio degli ebrei; ora Guez sceglie un metodo opposto, una storia documentata ma romanzata – sulle orme di A sangue freddo di Capote – che si svolge all’indomani della fuga di Mengele, dal rilascio del falso documento di identità a Termeno in Alto Adige e soprattutto dal suo viaggio sulla North King, la nave che, sotto il nome Helmut Gregor, meccanico italiano di lingua tedesca, lo porta da Genova a Buenos Aires. Gli ex camerati gli hanno promesso un arrivo facilitato in quella comunità di ex nazisti che in Argentina apre bar, giornali, locali Nuova Bavaria. Un universo protetto da Juan e Evita Perón, privilegiato e nostalgico, privo di rimorsi, che l’accoglierà, gli farà riprendere incredibilmente le sue vere generalità e lo proteggerà a lungo.
Se può essere di consolazione, la sua esistenza non sarà sempre dorata. Dalla cattura di Eichmann in poi, la fuga si farà sempre più affannata, disperata, solitaria, malata, in Paraguay prima, in Brasile poi, dove lo seguiamo passo passo. La mente malefica di Mengele è messa a nudo. Il risultato è compatto, disturbante.
Non c’è, come non ci poteva essere, redenzione.
Repubblica 7.4.18
L’iniziativa del re-sacerdote di Benin City
L’editto annulla il ricatto voodoo “ Libere in Italia le schiave nigeriane”
di Alessandra Ziniti


ROMA I video corrono di telefonino in telefonino. Chi non crede alle notizie che arrivano da Benin City può vederlo e sentirlo Oba Eware II mentre, davanti ad una platea di sacerdoti in rosso e di madri e nonne esultanti, pronuncia il solenne editto di annullamento di ogni giuramento dei riti voodoo e una potente fatwa contro chi gestisce la tratta delle donne nigeriane.
Libere, sono tutte libere dal ricatto che le aveva rese schiave del sesso nelle strade e nelle case d’Italia e d’Europa. Libere le ragazze arrivate convinte di fare le babysitter o le parrucchiere e finite invece nel giro miliardario della prostituzione per pagare il debito contratto per il viaggio, e libere persino le “maman”, le più grandi, che alla fine hanno accettato di trasformarsi da sfruttate in sfruttatrici e che adesso temono di incorrere nella maledizione del re-sacerdote.
A centinaia, nelle ultime settimane, stanno scappando dalle case in cui, sotto il ricatto del rito voodoo, sono costrette a prostituirsi, cercando aiuto e assistenza nelle tante associazioni che lavorano a difesa delle donne vittime di tratta.
Sempre di più, sempre più giovani, sempre più schiave. E ora in fuga dai loro aguzzini che non hanno più in mano la formidabile arma di una inossidabile credenza religiosa per alimentare il loro lucroso business.
«È una svolta storica, sta succedendo una cosa importantissima in Italia così come in molte altre città d’Europa — racconta da Londra Esohe Aghatise, presidente della associazione Iroko di Torino che fa parte della task force messa su dal re di Benin City nello stato di Edo da cui proviene il 95 per cento delle vittima di tratta — Da giorni siamo subissati da telefonate di ragazze, molte delle quali minorenni, che ci chiedono aiuto e assistenza. La maggior parte sono in fuga, altre sono state cacciate dalle case in cui venivano tenute prigioniere per prostituirsi e adesso non sanno dove andare. Chi può trova ospitalità temporanea in casa di amiche, ma sono tante e non c’è posto per tutte e allora si arrangiano a dormire in strada o nelle stazioni. Noi facciamo quel che possiamo ma non abbiamo né risorse né posti a disposizione per rispondere a tutte le richieste che ci stanno arrivando».
Il passaparola corre velocissimo.
I volontari delle associazioni ne trovano ogni sera decine nei loro giri notturni nelle stazioni, nei parchi, sotto i portici dei centri storici. Disorientate e impaurite da una libertà a cui avevano ormai rinunciato, senza documenti e senza alcuna idea di cosa fare. Le più coraggiose, temendo di essere raggiunte e riacciuffate dai connazionali che gestiscono un giro d’affari internazionale da trenta miliardi di dollari l’anno, si sono presentate in uffici di polizia per denunciare ottenendo la protezione prevista dalla legge.
Ma sono ancora poche. «Noi stiamo spiegando a tutte che possono denunciare chi le ha sfruttate — dice ancora Esohe Aghatise — ma non sono molte quelle che si sono convinte a farlo. Hanno paura. Ma questa è una paura che si può vincere.
Nulla a che fare con l’enorme pressione psicologica che esercita su di loro il rito a cui sono state sottoposte prima di partire ( il taglio di unghia, capelli e peli che vengono uniti a foto dei familiari e consegnati ad una sorta di santone), che è indissolubile, e che fa sì che non ci sia bisogno di nessun controllo fisico per tenerle legate ai trafficanti».
Da 20.000 a 50.000 euro. A tanto ammonta il debito che le ragazze ( la cui età nell’ultimo anno si è abbassata fino ai 13 anni) portate in Italia sono chiamate a restituire prostituendosi fino a dieci ore al giorno con prestazioni sessuali pagate anche solo 20 euro. Un debito adesso azzerato dall’editto del re-sacerdote, già ambasciatore nigeriano in Italia e Svezia, che con la sua iniziativa storica ha eliminato il ricatto su cui si basa il traffico che negli ultimi tre anni ha fatto segnare un aumento del 600 per cento degli sbarchi di ragazze nigeriane in Italia, più di 15.000 solo l’anno scorso. Un numero che l’editto sembra destinato ad abbassare drasticamente. Di più: le ragazze adesso, dopo aver provato sulla loro pelle qual era il vero destino riservato loro in Europa, vogliono tornare a casa. «Oba Eware II — spiega ancora la presidente dell’Associazione Iroko — sta favorendo i rimpatri. Con le risorse che ha a disposizione ha promesso un sussidio di tre mesi, l’ospitalità in comunità, corsi di formazione e avviamento al lavoro. Noi siamo qui per dare appoggio a chi vuole rientrare in Nigeria volontariamente.
Purtroppo non abbiamo mezzi e per questo facciamo un appello al governo italiano perché ci aiuti.
Sarebbe anche nell’interesse dell’Italia aiutare chi vuole tornare a casa in modo dignitoso».
La Stampa 7.4.18
“È ora che il parlamento italiano riconosca il genocidio armeno”
Il presidente della Repubblica Sargsyan in visita istituzionale a Roma
“So che Mattarella vuole rendere omaggio alle vittime a Erevan ”
di Francesco Semprini


«I negoziati sul Nagorno Karabakh oggi non vanno avanti perché le aspettative dell’Azerbaijan non sono realistiche». È perentorio il presidente della Repubblica di Armenia, Serzh Sargsyan, dopo la sua visita istituzionale tra Vaticano e Roma.
Presidente, in occasione dei suoi incontri istituzionali quale messaggio ha portato e quali indicazioni ha avuto sulle principali tematiche del suo Paese, a oltre un quarto di secolo dall’indipendenza?
«Giovedì assieme al Papa abbiamo partecipato all’inaugurazione della statua di San Gregorio di Narek in Vaticano, proclamato dottore della Chiesa universale, un riconoscimento per la conservazione del patrimonio cristiano svolto dal popolo armeno. Dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ho appreso con piacere che sta programmando una visita in Armenia. Con i rappresentanti delle due Camere abbiamo sottolineato l’importanza dello sviluppo dei rapporti interparlamentari, soprattutto perché nell’ambito della nostra transizione a repubblica parlamentare ci siamo ispirati anche al modello italiano».
Ha incontrato anche leader delle formazioni politiche?
«Certamente, abbiamo avuto modo di parlare con le alte rappresentanze dei partiti. Sono molto contento nel constatare che anche loro, nel prossimo futuro, visiteranno l’Armenia. Siamo incoraggiati vista la posizione di queste personalità nei confronti del Paese».
Il presidente dell’Artsakh, Bako Sahakyan, ha chiesto all’Italia, in quanto presidente di turno dell’Osce, di fare quello che i predecessori non hanno mai fatto, ovvero recarsi in Nagorno Karabakh, lei cosa ne pensa?
«Il Nagorno Karabakh è una questione imprescindibile. Devo sottolineare che sia il presidente Mattarella sia la Presidente del Senato, Casellati, sostengono il formato dei copresidenti del gruppo di Minsk dell’Osce. C’è poi l’Accordo di partenariato globale e rafforzato tra l’Ue e l’Armenia che contiene per l’Artsakh le stesse definizioni utilizzate dai co-presidenti del gruppo di Minsk sul rispetto di tre principi base per la soluzione del conflitto. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza, uguaglianza dei diritti ed autodeterminazione, integrità territoriale degli stati. Intesa che, dopo la ratifica, diventerà legge per tutti i Paesi Ue. I negoziati oggi non vanno avanti perché le aspettative dell’Azerbaijan non sono realistiche. L’Ue deve convincere Baku a rinunciare alle illusioni, in quel caso il gruppo di Minsk sarà efficiente. In questo senso ho chiesto al presidente Mattarella di sollecitare Bruxelles».
Potrebbe essere l’inizio di un processo per il riconoscimento dell’Artsakh?
«Certamente, il riconoscimento presuppone la sicurezza, quando questa sussisterà saremo i primi a riconoscere l’indipendenza dell’Artsakh. Farlo ora significherebbe interrompere i negoziati, la cosa importante è il riconoscimento da parte di Baku».
Aliyev però non appare collaborativo, anzi.....
«Non è la prima volta che Aliyev ricorre a toni aggressivi e non è il primo presidente azero a farlo. I suoi predecessori usavano spesso dire “tra una settimana andremo a prendere il tè a Stepanakert”. Per fortuna non è andata così. Un politico non dovrebbe mai porsi traguardi complicati da raggiungere, perché si fa male da solo. Quando Aliyev infine dichiara che il territorio storico dell’Armenia è in realtà un territorio dell’Azerbaijan, deve sempre ricordare che lo Stato dell’Azerbaijan è apparso per la prima volta sulla mappa politica cento anni fa, invece noi il prossimo autunno celebreremo i 2800 anni dalla fondazione della capitale Erevan».
Riguardo al genocidio, nel Parco del Memoriale del Genocidio “Tsitsernakaberd” i leader del mondo piantano alberi in omaggio alle vittime. Lo hanno fatto, tra gli altri, Giovanni Paolo II, Jacques Chirac, Vladimir Putin, ma non c’è nessun nome di presidenti italiani. Come mai?
«Perché in questi 25 anni nessun presidente italiano ha fatto visita all’Armenia. Io spero che con l’arrivo del Presidente Mattarella si aggiunga un altro albero. Questo sarebbe un importante messaggio politico, ma la decisone del riconoscimento del genocidio armeno deve essere presa dal Parlamento. Gli italiani hanno dato un grande contributo allo sviluppo dell’umanità, mentre il genocidio ne è la sua negazione».
Il Fatto 7.4.18
Ora Alitalia vola con i soldi che deve ai suoi dipendenti
La denuncia - La compagnia non versa o versa poco al fondo di solidarietà pagato dai passeggeri. Risultato? Meno cassa integrazione per gli addetti
di Daniele Martini

“Non abbiamo toccato i 900 milioni di euro di prestito che il governo aveva concesso un anno fa all’Alitalia”, ripetono i tre commissari straordinari della compagnia, Luigi Gubitosi, Stefano Paleari ed Enrico Laghi, volendo suggerire che sono bravi e meritano gli applausi. Forse hanno ragione, anche se bisogna credere sulla parola a quel che dicono perché le informazioni ufficiali da Fiumicino al momento latitano e non c’è alcuna documentazione contabile a supporto di affermazioni del genere.
Di sicuro Alitalia in questi mesi si è di fatto finanziata con i soldi dei dipendenti, gli oltre 10 mila addetti in cassa integrazione a rotazione e i 300 a zero ore (giovedì la durata della Cassa è stata prorogato di altri 6 mesi). È paradossale, ma è così. Ogni mese molti lavoratori Alitalia riscuotono meno di ciò che per legge dovrebbero percepire. Nel frattempo Alitalia non versa o versa a spizzichi e con estremo ritardo ciò che dovrebbe dare a un Fondo di solidarietà del trasporto aereo, istituito a suo tempo proprio per accrescere gli importi della cassa integrazione normale. Non si tratta di spiccioli, ma di cifre nel complesso rilevanti: da almeno 36 milioni di euro secondo i calcoli più prudenti fino a oltre 70 da maggio a dicembre 2017, senza contare i tre mesi dell’anno in corso.
Tra i diretti interessati tutti conoscono quest’andazzo, dall’Inps ai ministeri dei Trasporti e dell’Economia, fino all’Enac, l’Ente dell’aviazione civile: tutti informati in via ufficiale della vistosa anomalia. Anche i sindacati sono ovviamente al corrente del trattamento riservato ai lavoratori, ma si voltano dall’altra parte, come dovessero rispettare un tacito accordo. Solo il Cub-Confederazione unitaria di base dei Trasporti di Antonio Amoroso sta rompendo il circolo vizioso del silenzio con un esposto di 6 pagine all’Ispettorato del lavoro di Roma e alla Procura della Repubblica di Civitavecchia, competente per territorio sulle vicende dell’azienda aerea di Fiumicino.
Il dirigente sindacale chiede all’autorità giudiziaria di “accertare e valutare se nel comportamento dei commissari e dei dirigenti Alitalia sia riscontrabile un’ipotesi di responsabilità contabile ovvero di peculato d’uso nell’ipotesi di accertato uso momentaneo e/o di mancato riversamento tempestivo del denaro pubblico”.
Sentita dal Fatto, Alitalia riconosce che “con l’apertura dell’amministrazione straordinaria il processo di pagamento ha subito un iniziale, fisiologico, rallentamento che tuttavia” sarebbe “ormai superato e i pagamenti in corso”.
Il Fondo di solidarietà del trasporto aereo è costituito presso l’Inps e alimentato in piccola parte da un contributo pagato dai datori di lavoro (0,375 per cento), dai lavoratori (0,125 per cento), e in misura preponderante con la cosiddetta addizionale comunale sui diritti di imbarco pagata dai passeggeri in partenza dagli aeroporti italiani. Funziona così: il passeggero acquista il biglietto di una compagnia, non solo Alitalia, ma pure Ryanair, Lufthansa eccetera, e una parte del prezzo viene versata dalla compagnia stessa al gestore dell’aeroporto che a sua volta la gira in qualità di semplice agente contabile al Fondo di solidarietà e in parte minore ai comuni sede di aeroporto e ai vigili del fuoco.
Istituito dalla legge finanziaria del 2004 il Fondo è stato ritoccato una decina di volte nel corso del tempo, 14 anni fa l’addizionale era di appena 1 euro, oggi è di 6,5 euro in tutti gli aeroporti italiani e 7,5 euro a Fiumicino e Ciampino. Al Fondo vanno 5 euro a biglietto negli scali nazionali e 6,5 euro in quelli romani.
Come riportato anche dall’agenzia specializzata Avionews, Alitalia da tempo non è in regola: o non versa del tutto o versa con estremo ritardo, ben oltre i tre mesi di dilazione consentiti dalle norme. La vicenda dei pagamenti irregolari di Alitalia fu rivelata dal Fattoquotidiano.it il 25 maggio di un anno fa. Il sito online del nostro giornale scrisse che Alitalia non stava pagando i diritti di imbarco in numerosi aeroporti italiani e che i gestori di questi ultimi minacciavano di bloccare sulle piste gli aerei della compagnia italiana. Il 2 luglio Alitalia comunicò agli aeroporti che avrebbe pagato e così è stato, dai versamenti ha escluso però le addizionali comunali, cioè soprattutto i soldi per il Fondo di solidarietà.
Prima della fine dell’anno la maggior parte dei gestori aeroportuali ha segnalato ufficialmente l’anomalia a tutti i diretti interessati, dall’Inps fino ai ministeri. Ma poco o niente è cambiato.
Repubblica 7.4.18
L’analisi
La sfida persa della sinistra
di Emanuele Felice


La sinistra riformista è ai minimi storici un po’ dappertutto, non solo in Italia. Circola in proposito una spiegazione quasi fatalista, auto-assolutoria per gli sconfitti. La globalizzazione ha inevitabilmente colpito i ceti popolari, i più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti e alle conseguenze dell’immigrazione: è naturale che abbiano votato per chi promette di ristabilire le antiche sovranità. Ma questa diagnosi tralascia un punto importante. Il riformismo perde perché non ha saputo gestire la globalizzazione, rinunciando alla sua vocazione: trasformare la società con la politica. Ed è vero che è un problema non solo italiano.
L’errore di fondo risale agli anni Ottanta: è stata la liberalizzazione totale dei movimenti di capitale, anche quelli speculativi. Può sembrare una questione tecnica, o per addetti ai lavori, ma a ben vedere è da lì che discendono le disuguaglianze crescenti nei paesi avanzati e la difficoltà, per i singoli governi, di attuare politiche redistributive. Quella liberalizzazione è stata promossa dalla destra reaganiana e thatcheriana, ma sarebbe stata condivisa anche dalle forze riformiste, che non vollero cambiarla quando, negli anni Novanta, si ritrovarono quasi ovunque al governo: complice il clima generale dell’epoca, si lasciò che la finanza internazionale, senza più vincoli, diventasse più potente della politica.
Oggi ci vorrebbe un accordo, in sede di G20, per un nuovo sistema finanziario internazionale che, proprio come avveniva ai tempi di Bretton Woods ( 1944- 1971), ponga vincoli globali ai movimenti di capitale a breve termine; favorendo gli investimenti produttivi e permettendo ai singoli Stati (o magari all’Unione europea) di poter tornare a fare politiche redistributive senza la minaccia di una fuga di capitali. Non a caso l’epoca di Bretton Woods vide il miracolo economico e la nascita dei moderni “welfare states”. Si noti che, storicamente, queste sono le idee proprie della sinistra riformista e del liberalismo democratico: quelle di Keynes, per esempio, l’economista liberale che più di tutti contribuì a disegnare il mondo di Bretton Woods; o di quei filosofi politici che sin dall’Illuminismo mettono in guardia sui rischi (per la libertà di tutti) che comporta l’accumulo di potere nelle mani di pochi, senza adeguati controlli.
Il secondo errore consiste nel non aver saputo dare unità politica all’Europa. Anche questo era un compito soprattutto della sinistra, delle forze che dovrebbero rappresentare il mondo del lavoro: in uno spazio dove si possono muovere liberamente i fattori della produzione, ma le normative nazionali rimangono differenti, è il capitale a guadagnarci, mentre le politiche redistributive escono perdenti. È evidente quindi che l’unione commerciale e monetaria doveva completarsi nell’unione fiscale e politica. Invece sono passati vent’anni dall’entrata in vigore dell’Euro e ancora i partiti e le forze di sinistra si muovono quasi esclusivamente dentro logiche nazionali. Ne abbiamo avuto un assaggio anche nelle ultime elezioni in Italia, dove i richiami all’Europa sono rimasti confinati al campo della retorica o dell’idealità. Pesa su questo il portato di strutture di consenso e culture di riferimento che sono anch’esse nazionali, influenzando la formazione e l’agire delle classi dirigenti. Ma in questo modo la sinistra tradisce la sua storia e la sua missione. La globalizzazione, che aiuta a superare le barriere fra gli esseri umani, è nel Dna della sinistra: la sfida è saperla governare, per ridurre le disuguaglianze.
Il Fatto 7.4.18
Meno di venti deputati
Lunedì si decide se dare a LeU la deroga per fare un gruppo


Nelle scorse legislature è stata praticamente sempre concessa e chissà che lunedì non arrivi anche per gli eletti di Liberi e Uguali: una deroga al Regolamento della Camera, secondo il quale si può costituire un gruppo parlamentare se vi sono almeno 20 aderenti. Quelli di LeU ne hanno solo 14 (tra cui l’ex presidente della Camera Laura Boldrini) ma non vogliono rimanere nel calderone del gruppo misto. Così hanno chiesto all’ufficio di presidenza di Montecitorio di fare un’eccezione. Lunedì alle 17 la questione verrà esaminata. In passato i Cinque Stelle si sono più volte espressi con toni critici rispetto alle deroghe concesse, mentre la Lega nella scorsa legislatura aveva essa stessa ottenuto una deroga per i 19 deputati del Carroccio. Insieme al partito di Matteo Salvini la ottennero Sinistra Italiana (17), i Civici e innovatori (16), Scelta civica-Ala-Maie (16), Democrazia solidale–Centro democratico (14) e Fratelli d’Italia (11). Oltre a una cospicua serie di benefici (risorse economiche, personale, tempi per gli interventi in Aula) il Rosatellum prevede anche che le forze politiche che sono state rappresentate in un gruppo parlamentare, possono presentarsi alle elezioni senza dover raccogliere le firme.
Repubblica 7.4.18
Di Maio
“Al Pd dico: sotterriamo l’ascia di guerra e diamo un governo al Paese”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


Luigi Di Maio, lei è uscito dallo studio di Sergio Mattarella formalizzando una proposta a due forze alternative: la Lega e il Pd. Ma come può pensare di andare al governo indistintamente con chi è per i vaccini e chi è contro; chi sostiene la Russia di Putin e chi espelle due suoi diplomatici; chi è pronto a uscire dall’euro, e chi non ci ha mai pensato?
«Non mi risulta che le posizioni delle due parti siano queste. In ogni caso, il governo si fa per risolvere i problemi concreti della gente e abbiamo il dovere di provarci partendo dalla situazione uscita dalle urne: forze politiche distanti, ma che devono trovare una sintesi su temi cruciali, portando ognuna le proprie soluzioni e proposte. Con chi troveremo le convergenze maggiori, lavoreremo».
Ma come si fa ad aprire contemporaneamente a due forze opposte?
«Lega e Pd non devono sentirsi sullo stesso piano. So di parlare a due forze politiche profondamente diverse».
Che vuol dire che non sono sullo stesso piano? Con una delle due si possono trovare più convergenze?
«Non è quello che intendevo».
Crede che le politiche sull’immigrazione del Pd e quelle di Salvini siano scambiabili?
«Il punto non è questo, ognuno porta le sue idee, il contratto si scrive insieme. Per questo ci sediamo intorno a un tavolo, per ragionare e trovare insieme una sintesi che serva a dare risposte e non a scontrarsi muro contro muro».
In campagna elettorale il Movimento ha usato un linguaggio sferzante nei confronti del Pd e di Renzi.
Perché il Pd dovrebbe aprire?
«Io non sto rinnegando le nostre idee né le critiche che in più momenti abbiamo espresso anche aspramente nei confronti del Pd, e che anche il Pd non ci ha risparmiato. Credo però che ora il senso di responsabilità nei confronti del Paese ci obblighi tutti, nessuno escluso, a sotterrare l’ascia di guerra. A noi viene chiesto l’onere di dare un governo al Paese, ma tutti hanno il dovere di contribuire a risolvere i problemi della gente e di mostrare senso di responsabilità».
Immagini che Martina si sieda al tavolo con lei per discutere di un governo e le chieda di confermare Jobs Act e Buona scuola: come risponderebbe?
«Che se rimaniamo ognuno sulle proprie posizioni non si va da nessuna parte. Renzi stesso ha ammesso che la buona scuola non ha funzionato del tutto e doveva essere migliorata. Io credo che ci potranno essere molte più convergenze di quel che si crede».
In questi giorni ha parlato con Martina. Cosa vi siete detti?
«Ci siamo sentiti in occasione dell’elezione del presidente della Camera ed è sempre stato un confronto franco. Martina è una persona con cui si può parlare e spero che il Pd si sieda al tavolo».
Perché ha tolto il veto su Renzi? È stato un segnale nei confronti del capo dello Stato?
«Io non ho mai posto veti o parlato di Pd “derenzizzato” come qualcuno ha scritto. Quello che abbiamo sempre contestato è la linea di totale chiusura decisa dal Pd all’indomani delle elezioni. Oggi il nostro appello sincero a mettere da parte le asperità per il bene del Paese è il segnale che gli italiani ci chiedono per dimostrare che siamo una forza politica all’altezza della situazione complessa nella quale ci troviamo e capace di governare».
Per anni avete presentato ogni alleanza con la parola inciucio, è per questo che siete così spaventati da quella parola e parlate di contratto? Ci spiega la differenza?
«Le alleanze per anni sono state il mettersi insieme per autoconservarsi e autotutelarsi.
Stiamo proponendo invece di mettere al centro solo ed esclusivamente l’interesse dei cittadini. Il contratto è una garanzia in questo senso: dentro ci mettiamo le cose da fare per le persone fuori dai palazzi, e non quelle dentro i palazzi. E quelle cose facciamo».
Cosa ritiene irrinunciabile in questo contratto?
«Mi interessa mettere al centro le risposte più urgenti alle grandi emergenze del Paese, le stesse che ho ascoltato mille volte anche durante il lungo tour che ho fatto in campagna elettorale: lotta alla povertà e alla corruzione, il lavoro, le pensioni, un fisco più leggero e una pubblica amministrazione che agevola e non ostacola i cittadini e le imprese. E poi sostegno alle famiglie e naturalmente lotta agli sprechi e ai privilegi della politica».
Il reddito di cittadinanza è diventato più genericamente “misure contro la povertà”.
Avete rinunciato?
«Il reddito di cittadinanza tiene insieme strumenti per la lotta alla povertà, ma anche per la lotta alla disoccupazione e per rimettere in moto il lavoro, partendo dalla riforma dei centri per l’impiego».
Ha parlato di un contrasto non personale, ma politico, con Forza Italia. Accettereste i suoi voti se Berlusconi facesse un passo indietro?
«Forza Italia è Berlusconi. E Berlusconi rappresenta il passato.
Poteva cambiare l’Italia e non lo ha fatto. A noi non interessa rimanere fermi o guardare indietro, vogliamo guardare al futuro».
E però Berlusconi, Salvini e Meloni andranno uniti alle consultazioni. Negando quel che lei ha detto davanti al capo dello Stato, che non esiste un centrodestra unito.
«Salvini sta scegliendo la restaurazione invece della rivoluzione. Il segretario della Lega in questo modo sta chiudendo tutto il centrodestra nell’angolo. E rischia di condannarsi all’irrilevanza».Cosa apprezza di Salvini?
«Ha dimostrato di saper mantenere la parola data, ora vediamo se avrà la forza di dimostrare la sua autonomia politica da Berlusconi».
Lei dice di sentirsi legittimato da 11 milioni di elettori e di aver diritto alla premiership, ma non ha i numeri in Parlamento. Il Quirinale ha detto chiaramente che non ci sono vincitori.
«In Germania la Merkel governa con il 32%. In Francia Macron è il presidente con il 24% al primo turno. Insomma è evidente che in Italia si sono inventati una legge elettorale che doveva metterci in difficoltà. Ma resta un fatto: siamo la prima forza politica e quasi doppiamo la seconda. Cioè, gli elettori hanno dato un segnale fortissimo. Uno tsunami, avremmo detto qualche anno fa. Questo urlo di cambiamento va assolutamente ascoltato».
Se l’unica strada per andare a un governo fosse un suo passo indietro?
«Questo Paese ha avuto tantissimi presidenti del Consiglio che hanno preso zero voti dagli italiani. Ora c’è un candidato premier che ne prende 11 milioni e la prima cosa che si chiede è che si faccia da parte?».
Il governatore della Liguria Giovanni Toti dice che serve un “accordo minimo”. Ritiene possibile un governo a tempo?
«Non risolverebbe nulla».
Si è detto che il limite del secondo mandato per i parlamentari M5S non sarà applicato se la legislatura durerà poco. È così?
«Io non credo che si tornerà alle urne a breve, il tema non è all’ordine del giorno».
Il premier Paolo Gentiloni ha rimandato la presentazione del Documento di programmazione economica e finanziaria.
Immagini di essere a Palazzo Chigi: cosa c’è nel Def di Di Maio?
«Misure per rilanciare una crescita economica sostenibile, rispettosa del benessere sociale dei cittadini, ma tenendo il rapporto deficit pil all’1,5%».
Salvini propone di togliere le sanzioni alla Russia. È d’accordo?
«Ora è il momento in cui tutti sentiamo una responsabilità più grande. Sono certo che le posizioni di tutti potranno essere volte alla cooperazione tra nazioni su ogni decisione».
Somiglia a più a no. E cosa pensa dei dazi cari a Trump e ventilati anche dalla Lega?
«Il protezionismo ideologico non è la soluzione e non ci interessa, ma qualche intervento selettivo e temporaneo può servire per proteggere lavoratori e imprese dai costi della globalizzazione. Ci muoveremo con pragmatismo a seconda del contesto internazionale».
Nell’ottica della democrazia diretta, perché non far decidere agli iscritti sul blog con chi stringere il patto di governo?
«Per tutta la campagna elettorale ho detto che se non avessimo avuto i numeri per governare da soli avrei fatto appello a tutte le altre forze politiche per parlare di temi e così ho fatto».
Davide Casaleggio nega conflitti di interessi, ma voi siete legati per statuto praticamente immodificabile all’Associazione Rousseau. Quell’associazione è nelle mani del capo di una società privata che persegue i suoi interessi, anche commerciali. E nessuno ha eletto Casaleggio, che ricopre nel Movimento una posizione centrale e non contendibile.
Come fa a dire che non c’è conflitto?
«Davide Casaleggio non assume decisioni politiche».
Ma lei si consulta con lui anche su quelle, o no?
«Assolutamente no».
Con le nuove regole lei può decidere tutto, anche sulla guida dei gruppi parlamentari. Siete passati dall’uno vale uno all’uno vale tutti?
«Non è così. Semplicemente, alcune decisioni spettano al capo politico».
Dopo questo primo giro di consultazioni, vede la possibilità di un ritorno al voto più o meno probabile?
«Il M5S non avrebbe nulla da perdere se ora si tornasse a votare, anzi. Ma noi vogliamo dare un governo a questo Paese».
Il Fatto 7.4.18
Due partiti in un corpo solo: i dem esplodono
La minoranza - Orlando sfida l’ex premier: “O lascia lavorare Martina, o ritira le dimissioni”
Andrea Orlando, ministro della Giustizia, all’attacco frontale a Renzi
di Wanda Marra


Maurizio Martina offre “collegialità” e chiede “idee prima di tutto”. Esattamente le due caratteristiche antitetiche al Pd, che dopo il primo giro di consultazioni fa registrare il suo “plot” più consueto: tutti contro tutti, in un caos di dichiarazioni, riunioni di corrente, iniziative pubbliche, nelle quali ciascuno segue la sua linea.
Comincia Andrea Orlando, in mattinata: “Renzi deve decidere: se ritiene che la colpa della sconfitta non è la sua, può ritirare le dimissioni. Altrimenti deve consentire a chi pro tempore ha avuto l’incarico di poterlo esercitare”. Il riferimento è soprattutto alla riunione con i fedelissimi fatta da Matteo Renzi, nell’ufficio delle società di Andrea Marcucci. Una sorta di segreteria ombra da opporre a Martina e ai big insieme ai quali si muove in questo momento (dallo stesso Guardasigilli a Franceschini). Obiettivo: trovare una strategia per evitare di perdere definitivamente il Pd. A Orlando seguono tweet e dichiarazioni delle rispettive tifoserie. Il moderato Lorenzo Guerini minimizza così le riflessioni dell’ex segretario: “Discutere se arrivare in assemblea con la decisione di indire il congresso o con l’elezione di un nuovo segretario è rispetto dello Statuto”.
Indire subito il congresso, però, significa non avere un segretario nella pienezza dei suoi poteri nella fase della formazione del governo. Anche perché Renzi per l’Assemblea del 21 non ha un candidato: non Graziano Delrio, non lo stesso Guerini. Indisponibili (almeno per ora). Non Matteo Richetti, né Debora Serracchiani che vogliono correre a eventuali primarie. E allora, c’è pure chi pensa a Ettore Rosato, vicepresidente della Camera. Ma l’ex premier non ha un nome vero né per adesso né per dopo. “Per fare un altro partito servono uomini e idee. Cose che non si trovano facilmente”, commenta un parlamentare che sarebbe renziano. Spie del fatto che l’area dell’ex premier potrebbe rapidamente sfaldarsi.
Indizio: martedì è stata convocata l’Assemblea dei gruppi per discutere la linea da portare al Colle. L’incontro viene definito come una banale informativa. Ma se si dovesse arrivare a una conta, si capirà esattamente quale percentuale dei gruppi ancora controlla l’ex premier. E ancora: oggi a Roma ci sono due iniziative. Una di Richetti all’Acquario, l’altra dei giovani Dem, promossa da quel Peppe Provenzano che rifiutò il posto in lista in Sicilia dietro a Daniela Cardinale. Presenti Orlando e Gianni Cuperlo. Martina andrà a tutte e due: tentativi di allargare il fronte dell’opposizione interna a Renzi.
La corrente di Michele Emiliano, intanto, con Francesco Boccia fa sapere di “star valutando” un suo candidato per l’Assemblea nazionale.
Nel gioco dei sospetti reciproci, ognuno accusa gli altri di parlare col nemico di turno: Renzi fa denunciare un giorno sì e l’altro pure la trattativa con Di Maio di Franceschini e soci. Orlando ieri ci ha tenuto a dire che la proposta di Di Maio è “irricevibile”. A Martina tocca rintuzzare le goffe avances di Danilo Toninelli condite di insulti: “Leggo che il capogruppo al Senato del M5S ritiene il Pd ‘responsabile del fallimento delle politiche di questi anni’. Queste parole dimostrano l’impossibilità di un confronto”. Nonostante gli abboccamenti reciproci, insomma, in campo ad oggi c’è al massimo un governo istituzionale.
Mentre gli anti-renziani sono convinti che l’ex segretario sia pronto a dare l’appoggio esterno dei suoi a un governo di centrodestra, magari guidato da Giancarlo Giorgetti, numero 2 della Lega. D’altra parte qualche contatto tra i due Matteo, Salvini e Renzi, c’è anche in questi giorni nonostante le dichiarazioni pubbliche. Per ora, però, l’ex premier pare soddisfatto dell’arrocco del Pd che – a suo dire – mette in evidenza i problemi dei “vincitori”. E infatti ha promesso silenzio fino all’Assemblea.
Repubblica 7.4.18
Il congresso
I massoni: “Da noi non si entra con un clic, controlliamo tutti”
L’incontro annuale del Grande Oriente d’Italia: “Il governo? Speriamo si faccia l’interesse dei cittadini”
di Rosario Di Raimondo


RIMINI Uno spettro s’aggira tra gli stand che vendono squadre e compassi. Anzi, due. Perché non bastava «l’inquisizione» della commissione parlamentare antimafia, come la definiscono qui, che ha messo il naso negli elenchi degli iscritti alle logge. Ora c’è pure il senatore dei 5 Stelle che vuole vietare ai dipendenti pubblici di indossare il grembiule. Roba da matti, mormorano i fratelli, una legge « fascista » , «un attacco alla democrazia » . Tremila massoni del Grande Oriente d’Italia si riuniscono al Palacongressi di Rimini fino a domenica. In tutto sono 23mila, affiliati in 858 logge. Preferirebbero un dito in un occhio, i venerabili, piuttosto che parlare di politica. Il gran maestro Stefano Bisi, la carica più alta, dice soltanto: «Spero che l’Italia possa avere un governo che faccia gli interessi dei cittadini» . Di che colore non è affar nostro.
L’affiliato Giovanni ha guidato il suo furgone per dodici ore di fila. « Mille e sessanta chilometri da Messina a qui», racconta fiero mentre mostra la sua mercanzia: dei vetri coi disegni di Pinocchio e Topolino, perché «pure gli autori di questi personaggi erano massoni!». Nello spazio a fianco i suoi colleghi vendono gli attrezzi del mestiere: grembiuli, spade, guanti, la felpa personalizzata col nome della loggia preferita e il “collare” per sentirsi venerabili maestri. I librai espongono volumi come Sciamanesimo dei nativi siberiani e Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz. Uno scrittore definisce i suoi romanzi « ad alto tasso di esoterismo».
Però c’è ben poco da scherzare. Soprattutto se si parla di politica. Qui tira una brutta aria. A dicembre la commissione guidata da Rosi Bindi svela che quasi duecento fratelli siciliani e calabresi sono in odor di mafia. Comincia un lungo braccio di ferro per ottenere i nomi degli affiliati alle logge. Stefano Bisi, sessant’anni, ex giornalista, si difende: « Si parla di 193 mafiosi ma nel computo ci sono pure gli assolti, i prosciolti e quelli che noi abbiamo respinto. È una caccia all’uomo. Ma da noi non si entra con un clic, bisogna avere la fedina penale pulita».
E ora pure l’altra grana, di cui gli uomini in giacca, cravatta e grembiule parlano durante la pausa caffè. Il senatore M5s Elio Lannutti vuole che chi esercita pubbliche funzioni non possa iscriversi. « Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica e massone, non avrebbe insegnato all’università. E il gendarme eroe che in Francia si è offerto come ostaggio al posto di una donna non avrebbe lavorato nella polizia » , continua Bisi.
Il “ tempio” del Grande Oriente, luogo di culto per i massoni, è un enorme stanza piena di simboli della tradizione. Il sole e la luna, l’occhio, il cielo stellato, il pavimento a scacchi. Qui i massoni si riuniscono anche quest’anno. Tra gli ospiti d’onore c’è Daniele Capezzone, ex parlamentare di Forza Italia. Qui è considerato un paladino della libertà.
Il Fatto 7.4.18
La domanda è: ma perché Renzi odia così tanto il Pd?
di Antonio Padellaro


Mi giunge una vibrata protesta (di alcuni) tra i dieci lettori per la pochezza di questo diario. Non vi trovano (dicono) neppure una stilla di quei succosi retroscena che movimentano le informatissime cronache degli altri giornali. Mai nulla di insolito, di sorprendente, di veramente sensazionale come, ad esempio, lo strepitoso incipit del grande Francesco Merlo su Repubblica, direttamente dalla stanza presidenziale. Là dove “Mattarella ha stretto la destra di Di Maio con la sua destra e poi ci ha messo sopra anche la sinistra in modo da attrarlo a sé. Ed è stato”, leggiamo, “quel tocco delle mani, il momento di maggiore comprensione tra i due soggetti smarriti”.
Si resta senza parole di fronte a un’istantanea così autentica (sembrava di essere proprio lì, nel palmo delle due mani destre e di quella sinistra) che nell’intimità dell’atto coglie il reciproco turbamento del presente (non so cosa voglia dire ma suona bene). Attrazione del tocco e del ritocco che forse soltanto Tvboy aveva intuito nel famoso murale di Matteo Salvini che bacia in bocca Luigi Di Maio, sollevandogli il viso con le delicate manone. Il Capo Politico, dunque, che oggetto del desiderio politico trasversale, ancora oggi può scegliere tra forni diversi dove acquistare il pane, e fare un governo.
Concentriamoci un attimo sulla rivendita Pd, poiché solo se dovessero trovarla ancora sbarrata i Cinque Stelle passeranno al negozio successivo (governo con Salvini ma senza Silvio Berlusconi). Ma se anche qui andasse male non resterebbe (a tutti quanti) che il supermarket delle nuove elezioni.
Che al Nazareno e dintorni sia in corso la solita rissa tra contrari e favorevoli al dialogo coi grillini, è cosa nota. È pure stranoto che nell’Assemblea nazionale del 21 aprile si assisterà al solito regolamento di conti per impedire l’elezione alla segreteria dell’attuale reggente Maurizio Martina. Si cercherà quindi di convocare un congresso che, visto l’aria che tira, potrebbe essere l’Armageddon dei Democratici.
Allora la vera domanda è: perché Matteo Renzi – incarnazione dello spirito del no a tutto ciò che non è lui – odia tanto il Pd? Non è una provocazione, basta sfogliare il suo album personale. Prima foto: lui nella Margherita, il Pd non c’è ancora. Seconda foto: lui che scala il Pd per rottamarlo. Terza foto: lui che sogna il Partito della Nazione. Quarta foto: lui che progetta l’uscita dal Pd per costruire un nuovo partito sull’esempio del macroniano “En Marche!”. Quanto alla serie ininterrotta di disastri elettorali (nei prossimi giorni si replica in Molise e nel Friuli) viene in mente quella famosa battuta su Stalin: nessuno ha eliminato più comunisti di lui. Nessuno come Renzi ha eliminato più elettori Pd.
Del resto, l’odio come categoria della politica è stato trattato da Massimo Recalcati, psicoanalista renziano, quando si occupò dell’avversione “smisurata” che si era scatenata nel Pd contro l’allora segretario. Ma se odio chiama odio come potrà sopravvivere il partito (qualsiasi partito) a una tale furia autodistruttiva? E che ne sarà degli elettori superstiti (malgrado tutto quasi sei milioni), a cui nessuno sembra badare? Infine, esiste un nesso tra la comprensione tattile di Mattarella per Di Maio e l’odio nel Pd? Ora mi chiedete troppo.
il manifesto 7.4.18
«Renzi ci lasci lavorare o ritiri le dimissioni». Nel Pd parte la mischia
Democrack. L’ex leader indeciso fra Martina e un futuro segretario più fedele Orlando lo attacca ma finisce sotto accusa dagli ultrà del giglio. Il senatore "semplice": «Non farò uscite pubbliche fino al 21 aprile quando parlerò in assemblea»
di Daniela Preziosi

ROMA  L’immagine di un futuro segretario in balia del predecessore e dei suoi ultrà non era edificante. Né quella del «caminetto renziano», ovvero i capicorrente di maggioranza Pd, riuniti in uno studio di Via Veneto per litigare su chi sarà il prossimo leader e come sarà eletto: dimostrazione plastica del fatto che Renzi stavolta non riesce a mettere ordine fra i suoi ma comunque non ha mai smesso di dirigere il partito. Nonostante le dimissioni e la promessa di «due anni di silenzio».
LA MINORANZA DEM ci ha messo una notte per realizzare che Martina, sul quale stava dirigendo i propri voti all’assemblea del 21 aprile, era gradito a Renzi proprio perché ritenuto «controllabile». Poi finalmente ieri mattina il ministro Andrea Orlando, all’uscita da Palazzo Chigi, ha acceso le polveri: «Renzi deve decidere: se ritiene che la colpa di questa sconfitta non sia la sua, che sia la mia o dei cambiamenti climatici, allora deve ritirare le dimissioni e continuare a esercitare il mandato avuto dagli elettori». In caso contrario si dimetta davvero e consenta «a chi pro tempore ha avuto l’incarico di poterlo esercitare».
CON ORLANDO si schierano Gianni Cuperlo e Francesco Boccia (area Emiliano): «Martina sta facendo un buon lavoro, dobbiamo tutti aiutarlo a gestire la transizione». Contro di lui invece sui social si scatena la contraerea renziana: «Orlando vorrebbe per Renzi ritiro a vita privata, come lo vorrebbero Di Maio Salvini Berlusconi Bersani», attacca Michele Anzaldi. Il ministro prova a replicare: «Convocare 3/4 della delegazione che è andata al Quirinale senza il segretario reggente produce un messaggio ben preciso che sono certo non ti sfuggirà». Ma la risposta è una goccia nel mare. Ciascuno regola un suo conto. Riescono fuori vecchie ruggini, come quella di Raffaella Paita, corregionale del ministro e sconfitta alla regione Liguria, che lo sfida a ripresentarsi a congresso: «Lì sì che potrai mostrare quanto vali al nostro paese».
MARTEDÌ È CONVOCATA la riunone dei gruppi parlamentari in vista del secondo giro delle consultazioni del Colle. Dal Nazareno spiegano che la linea resta quella: la strategia «dell’arrocco» voluta da Renzi sta funzionando: più il Pd sta fermo, più è chiaro che il problema non riguarda i dem. Tanto più che tutto il partito – tranne Emiliano – è sulla linea dell’opposizione. Almeno per ora.
Ma la partita del governo del paese rischia paradossalmente di finire in secondo piano rispetto a quella del governo del Pd.
IN QUESTE ORE RENZI fa la parte del paciere: «Calma e gesso». Insieme a Matteo Orfini: «Non abbiamo bisogno di alimentare tensioni e polemiche interne, che già tanto male hanno fatto in passato al Pd». E Lorenzo Guerini: «Consiglierei a tutti, a partire da me stesso, di darci una calmata». La verità però è evidente: è bastata una iniziativa dell’ex segretario – la convocazione della riunione della maggioranza – per far saltare la fragile tregua firmata dal partito intorno a Martina.
I RENZIANI SONO DIVISI fra quelli che preferiscono appoggiare un segretario considerato travicello come Martina, eletto dall’assemblea (dove l’ex leader controlla ancora quasi il 60 per cento dei delegati) e che fa proclami di «collegialità» ma di fatto si offre come garante di Renzi e dei suoi. E quelli invece che puntano su un nuovo segretario, possibilmente ancora più fedele a Renzi e in grado di sventare la «derenzizzazione» del partito. Ma senza convocare un congresso vero, con le primarie che garantiscono un mandato pieno, non si trova il candidato. Delrio si è già sfilato, Guerini pure, nel pomeriggio spunta l’ipotesi di Rosato ma rasenta la provocazione («Mister Rosatellum» partirebbe fra i fischi di mezza Italia). Matteo Richetti oggi a Roma farà il suo appello contro «il rischio di estinzione del Pd» ma per lanciarsi nella corsa chiede l’apertura dei gazebo. Dall’area della minoranza anche Nicola Zingaretti batte un nuovo colpo, per non rischiare di perdere il treno dell’eventuale congresso. La confusione è tanta. Delrio, che passa per un moderato, stavolta è sulle barricate delle primarie che fatalmente toglierebbero di scena Martina. Ma però poi racconta ai colleghi che «Maurizio non è indebolito».
MARTINA IN EFFETTI «REGGE» l’assalto di chi lo vuole archiviare. Ma soprattutto «regge» la linea politica dell’opposizione a prescindere, che è quello che gli chiede Renzi. Prova a mediare agitando un fazzoletto bianco mentre le opposte trincee si sparano colpi sul suo nome. «Chiedo di fermare discussioni e polemiche sbagliate e di rimanere concentrati sul nostro lavoro», dice, «Chiedo unità e offro collegialità, perché abbiamo bisogno di questo e non di dividerci», «Qui c’è da dare una mano insieme per costruire il nostro rilancio nel paese. Possiamo farcela».
RENZI NON HA ANCORA DECISO, chi sarà il prossimo segretario e come sarà eletto. Cioè di fatto il Pd non ha ancora deciso: «Per quanto mi riguarda non farò uscire pubbliche fino al 21 aprile quando parlerò in assemblea», confida ai suoi.
il manifesto 7.4.18
Nel cuore orientale d’Europa il populismo si fa «Stato» e regime
Tempi presenti. «L’Europa dell’Est e i nuovi nazional-populismi. I casi polacco e ungherese», il libro di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu, per Bonomo editore
Frans Masereel, da «La città, un viaggio appassionato»
di Tommaso Di Francesco


Se il populismo si manifesta quando un popolo non si sente rappresentato, che cosa è quando, raggiunto il potere nelle forme o del partito o del movimento politico, diventa sistema e regime?
Un interrogativo attuale, alla luce del risultato elettorale in Italia, al quale risponde il saggio L’Europa dell’Est e i nuovi nazional-populismi. I casi polacco e ungherese di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu (Bonomo Editore, pp. 125, euro 15), che attraversa genesi e forme ormai istituzionali di un populismo al potere in due società dell’Est Europa, Polonia e Ungheria. Che mostrano perfino una articolazione delle loro fondanti degenerazioni-ragioni «ideologiche», con elementi a comuni, come la riscoperta dell’integralismo nazionalista e dall’autoritarismo, la xenofobia contro il diverso e il migrante tanto da costituire l’anima del Gruppo dei Paesi di Visegrad, ma anche con «ispirazioni» politiche difformi.
TUTTE COMUNQUE SORRETTE da una profonda quanto menzognera rilettura-revisione della storia del XX secolo, il «secolo breve» , che spazia dal periodo tra le due guerre mondiali, comprende il ruolo del nazismo – per il quale si rivendica la presunta innocenza delle due nazioni – e arriva fino al periodo del socialismo realizzato. Ungheria e Polonia vedono, dopo la caduta del Muro di Berlino, nell’avvento al potere di forze finalmente nazionaliste una «rivoluzione» realizzata – o controrivoluzione necessaria – rispetto ai limiti e ai «tradimenti» che sarebbero stati rappresentati dai governi democratici eredi diretti delle svolte dell’89. Fatto singolare, mentre la leadership di destra di Budapest deriva da una trasformazione in senso reazionario di una forza, il Fidesz, che alla nascita si dichiarava «progressista» e contendeva questo spazio alla formazione d’ispirazione socialdemocratica, in Polonia invece la continuità a destra resta confermata ma certo con una sterzata nella voragine della conservazione dell’integralismo cattolico del PiS al potere, che arriva ormai a mettere all’indice anche le espressioni più sociali e storiche di figure come Walesa, protagonista del fermento degli anni Ottanta che fu Solidarnosc. Quando infatti nel giugno dell’89 vennero fatti i funerali di Stato a Budapest all’ex segretario comunista Imre Nagy, impiccato dopo i moti del ’56, era presente tra la folla l’attuale presidente Viktor Orbán, un giovanotto con barba e capelli lunghi, un contestatario qualsiasi che avrebbe dato vita ad una formazione «progressista», la stessa che ora è autoritaria, revisionista storica e razzista.
NEL PREZIOSO SAGGIO di Cristina Carpinelli e Massimo Congiu emerge che entrambi i «sistemi» che si insediano per esplicita «reazione», trovano legittimità in una nuova «volontà di nazione», come programmaticamente dichiara il Pis, il partito di Jaroslav Kaczyinski, per motivare la risposta autoctona alla sfida della crisi dei modelli occidentali importati e «accettati»: il capitalismo finanziario, la democrazia parlamentare e la difesa atlantica.
ALLA DERIVA delle privatizzazione che a Est – e ovunque – hanno ricostituito vere e proprie oligarchie economiche, si risponde con la riscoperta dell’intervento dello Stato, dove in Ungheria si insiste sul rilancio del «capitalismo ungherese» e del «lavoro ungherese» con una sorta di Ungheria first, e con il welfare da difendere ma nella logica dell’Ordo caritatis, un ordine della carità che sostiene «prima la tua famiglia, poi la tua nazione, poi gli altri».
I migranti economici così sono out, pena il declino della «civiltà occidentale, e quelli che in fuga dalle guerre pure, visto che Polonia e Ungheria dichiarano di non aver partecipato ai conflitti in corso, come in Siria. Un’altra menzogna, perché al conflitto in Iraq – l’inizio della fine – si arruolarono subito nella coalizione dei volenterosi nel 2003 al seguito di Bush.
E si risponde alla crisi dei partiti democratici e socialdemocratici al potere dopo l’89, con l’autoritarismo e la devastazione dello stato di diritto, con la messa sotto controllo della stampa, della magistratura e delle forme appena abbozzate della cosiddetta «società civile»,- così fragile da poggiare l’esistenza sul sostegno esterno come fa l’odiato magnate Soros con le Ong.
IL TERZO ELEMENTO, fondamentale è l’adesione alla Nato come punto qualificante d’appartenenza. In particolare per la Polonia, sia dal punto di vista interno, assicurando sul territorio polacco basi militari decisive come quella del nuovo sistema antimissile Usa a ridosso della frontiera russa, sia con il 2,5% del Pil di spesa per gli armamenti; con incremento degli addetti alle Forze armate e la creazione di una forza paramilitare su base volontaria di 53mila unità, una guardia nazionale parallela su imitazione di quella americana. Fatto significativo, nella Polonia che ha la memoria del golpe di Jaruzelski del 1981 e che partecipò all’invasione dell’ex Cecoslovacchia nel ’68, hanno fatto ingresso in pompa magna come fosse un trionfo nel gennaio 2017 circa tremila militari della Nato accompagnati da festosa sfilata di 80 carri armati. Come se non bastasse, l’arrivo di Trump in Europa per il G20, ha visto come prima tappa presidenziale proprio la Polonia: una apoteosi, con la partecipazione al secondo summit dell’iniziativa «Tre mari» (Trimarium, Baltico, Mar Nero e Adriatico) che schiera militarmente dodici paesi dell’Europa centro-orientale, tutto l’ex Patto di Varsavia, tranne per ora l’Ungheria) contro la Russia dopo l’eterodiretta crisi ucraina. Mentre l’Ue sullo sfondo appare più come copertura ideologica e fornitrice di assistenza monetaria; perché l’obiettivo per Budapest e Varsavia è una «Europa delle patrie» e va rigettata ogni dimensione sovranazionale che possa assomigliare alle unioni come l’Urss.
Nazional-populismi dunque da paura. Avvisaglia di guerra in Europa, ma intanto si consolidano come «Stato» e regime. Non più solo democrature come denunciava Predrag Matvejevic.
Corriere 7.4.18
Il voto in Ungheria
Orbán e la corsa con un solo rivale
di Paolo Valentino


Gergely Karácsony, 40enne ecologista alla guida di una coalizione rosso-verde, unica alleanza nel panorama devastato della sinistra magiara, è il solo avversario credibile del premier Viktor Orbán nelle elezioni ungheresi di domani.
Quando uno speaker troppo entusiasta lo introduce a un migliaio di persone come il «prossimo primo ministro ungherese», Gergely Karácsony offre un sorriso timido. Il giovane sindaco del 14mo distretto di Budapest non si fa illusioni sull’esito del voto. Eppure è lui, quarantenne ecologista trovatosi alla guida di una coalizione rosso-verde, unica alleanza nel panorama devastato della sinistra magiara, il solo avversario credibile di Viktor Orbán nelle elezioni di domani.
I sondaggi lo danno intorno al 20 per cento dei consensi, metà del Fidesz, il partito di Orbán, e più o meno la stessa percentuale di Jobbik, la destra più estrema che prova a indossare un improbabile doppiopetto. Ma poiché più della metà dei 199 seggi dell’Orszaggyulés, l’Assemblea nazionale, viene eletta in collegi uninominali a maggioranza semplice, l’eventuale desistenza tra le forze di opposizione in favore dei candidati con più chance, potrebbe fare la sorpresa.
E’ già successo in febbraio, in un comune roccaforte di Orbán, dove l’unità tra oppositori, Jobbik compreso, ha inflitto una clamorosa sconfitta al candidato di Fidesz. Ma a livello nazionale, la partita è un’altra. E per quanto forti siano le voci di accordi segreti in corso, è molto probabile che Orbán vinca il terzo mandato consecutivo.
Non a braccia levate, comunque. Difficile infatti che ripeta l’exploit di quattro anni fa, quando Fidesz, con il 44 per cento dei voti e grazie a una legge elettorale confezionata su misura, ottenne due terzi dei deputati e la possibilità di cambiare la Costituzione, opportunità di cui Orbán ha ampiamente approfittato in senso autoritario.
«Orbán non governa, regna — mi dice Karácsony, appena sceso dal palco —. Non fa nulla per educazione, salute, sicurezza sociale, domina un sistema corrotto e per pochi, meglio se sono suoi parenti. E nel frattempo restringe gli spazi di libertà». «E voi cosa offrite?», chiedo: «Un nuovo modello democratico per l’Ungheria, il nostro programma propone soluzioni concrete: buone scuole, buoni ospedali, salari migliori, prospettive per le centinaia di migliaia di giovani che oggi emigrano, un buon rapporto con l’Europa. Da Orbán non ne abbiamo ascoltato nessuno, tranne quello della paura: la sua campagna è stata costruita su menzogne e fake news».
Che Viktor Orbán abbia puntato tutto sulle emozioni è un fatto. Agitando davanti agli ungheresi la visione di un futuro distopico, dominato dallo scontro fra le civiltà e dalla minaccia di «dieci milioni di migranti in marcia verso l’Europa da Africa e Medio Oriente», il premier magiaro ne ha solleticato le ansie profonde, facendo sanguinare ferite mai rimarginate, dalla dominazione ottomana al Trattato del Trianon, corollario della Pace di Versailles, che dopo la Prima guerra mondiale tolse all’Ungheria due terzi del suo territorio e popolazione. «L’Europa è sotto invasione. Bruxelles non ci difende e vuole trasformaci in terra d’immigrazione, eliminando la nostra identità e modo di vita, ciò che ci distingue dal resto del mondo. Ma è impossibile per culture diverse coesistere», è il refrain di Orbán, che si vuole defensor fidei e paladino dell’Occidente contro gli infedeli.
Si è scelto anche un nemico fisico, vero convitato di pietra della campagna elettorale: il finanziere e filantropo americano George Soros, di origine ungherese, che in cento comizi e migliaia di manifesti Orbán ha accusato di avere architettato un piano segreto per favorire «l’invasione islamica» dell’Europa. Quasi una nemesi, visto che fu Soros a finanziare la borsa grazie a cui il giovane Orbán studiò per un anno a Oxford.
Perfino un velato tono antisemita fa capolino nella retorica del premier, membro del Partito popolare europeo: «Combattiamo un nemico diverso da noi, non aperto ma nascosto, non onesto ma abietto. Che non crede nel lavoro ma specula col denaro. Che non ha patria ma si sente a casa in tutto il mondo», ha detto il 15 marzo, anniversario della rivolta del 1848 contro gli Asburgo. Vocabolario da intenditori.
Ne aveva bisogno? L’economia cresce più della media europea, la disoccupazione è sotto il 4 per cento, i fondi di coesione della Unione europea affluiscono generosi. Ma intanto aumenta la corruzione, diminuisce la qualità della democrazia, mentre quasi 400 mila giovani tra 20 e 30 anni hanno piani concreti per emigrare. Vincerà lo stesso, Viktor Orbán, ma sulla paura non si costruisce il futuro del Paese.
La Stampa 7.4.18
Nel regno sovranista di Orban
“Vinco e mi occupo dei nemici”
Il premier attacca il rivale Soros, i migranti e “le potenze straniere” L’economia in crescita aiuta il leader. Opposizione assente sui media
di Monica Perosino


Il premier ungherese Viktor Orban sembra considerare il voto di domani una noiosa seppur necessaria formalità. Lui guarda già oltre, come se nulla potesse scalfire il suo regno ininterrotto e, apparentemente, incrollabile.
Strategia elettorale o convinzione poco importa, l’uomo forte dell’Ungheria non mostra tentennamenti, e il quarto mandato (il terzo consecutivo) per lui non è in discussione.
Per questo guarda già avanti e promette: «Dopo la vittoria mi occuperò dei miei nemici, con mezzi morali, politici e legali».
Lo sguardo volitivo del premier rimbalza all’infinito sui poster formato gigante che macchiano di verde e rosso le facciate dei sontuosi palazzi di Budapest. Sono ovunque, e dappertutto ripetono la promessa elettorale di Orban. Solo il logo del partito di ultradestra Jobbik compete in dimensione, non certo in numero. Appesi con scotch di carta ai lampioni, timidamente incollati ai cestini e ai muri delle vie laterali sono comparsi, nemmeno due settimane fa, i volti dei candidati all’opposizione. «Fino a ieri neanche sapevamo che faccia avessero - dice János Seres, che vende lattine di paprika ungherese al mercato -. Ma non siamo sorpresi, d’altronde è il governo che dà i permessi per le affissioni. Le elezioni qui sono inutili». I sondaggi sembrano dargli ragione, pochi dubbi che sarà ancora Orban, l’inventore della «democrazia illiberale», a guidare il Paese: l’ultimo attribuisce all’alleanza Fidesz-Cristiano democratici il 47% dei voti, un risultato che, se dovesse avverarsi, fornirebbe a Orban una solida maggioranza nel Parlamento magiaro. Molto staccato il principale rivale, il partito ultranazionalista di Jobbik, con il 18%. Il Partito socialista si attesterebbe sul 14%.
I nemici di Viktor
La promessa di abbattere «i nemici dell’Ungheria» è stata la cifra di una campagna elettorale che negli ultimi 8 mesi ha raggiunto picchi di tensione altissimi, culminati in scandali finanziari, accuse di spionaggio, propaganda e contropropaganda, fake news, corruzione. Sono stati chiusi giornali di opposizione, e «gli oligarchi amici di Orban - spiega l’analista Ivett Korosi - si sono comprati quasi tutti gli altri». Da lunedì, a scanso di sorprese elettorali, la battaglia continuerà.
I nemici sono innanzitutto i migranti, che «vogliono invadere l’Ungheria e cancellare i valori cristiani», contro i quali Orban ha già innalzato un muro di 175 chilometri e, due anni fa, ha indetto un referendum per fermare la ricollocazione chiesta dalla Ue. È contro «l’invasione» che si è concentrata la campagna elettorale. Il governo ha diffuso storie terribili di malattie tropicali diffuse dai profughi, ha mostrato foto di fantomatici ghetti islamisti (a Vienna, Parigi, Berlino e Stoccolma) paventando un destino simile per l’Ungheria e ha diffuso «dati», come quello della percentuale di nigeriani malati di Aids («l’80%»). Pochi giorni fa Zoltan Lomnici Jr., portavoce del Com, movimento pro-Orban, ha arringato la folla a Budapest sostenendo che la maggior parte degli africani è malato di Hiv e in Svezia 4 donne su 5 violentate dai migranti hanno contratto il virus.
L’attacco straniero
La retorica funziona. Molti ungheresi credono alla narrativa di Orban secondo la quale il Paese sarebbe sotto attacco da varie potenze straniere «aiutate dai media internazionali» e dal miliardario filantropo americano-ungherese George Soros, attraverso i suoi «agenti», ovvero le Ong internazionali che difendono i diritti umani. È Soros il nemico pubblico numero uno: alla guida di «un impero che lavora, con duemila “mercenari” in tutta l’Ungheria, per trasformare l’intero continente e i suoi Stati in Paesi di immigrati».
Daniel Makonnen, portavoce della Fondazione Open Society di Soros a Budapest, snocciola l’infinita serie di fondi destinati a organizzazioni umanitarie, educazione, media indipendenti e organizzazioni anti corruzione. L’anno scorso si sono sfiorati i 4 milioni di euro: «La fondazione lavora anche per promuovere l’informazione: nel Paese, Budapest a parte, le uniche fonti sono i giornali locali, controllati dal governo, e la tv nazionale, infarcita di pubblicità di Fidesz in mezzo ai programmi di cucina. Questa campagna elettorale è stata durissima, le voci del dissenso praticamente annullate». Non stupisce che la base degli elettori, soprattutto nelle aree rurali, «non abbia neanche idea di un’alternativa a Orban».
Il suo elettorato non è più quello delle élite filo-europee delle grandi città, ma quello dei ceti medio-bassi e dei contadini. Le indagini demoscopiche rivelano che su tre aventi diritto solo due dichiarano l’intenzione di andare a votare: la bassa affluenza favorisce Fidesz che ha una base solida di circa 2 milioni di votanti certi. Il 30-35% dell’elettorato, infine, sarebbe incerto su chi votare. Se, ipotesi improbabile, i partiti di opposizione riuscissero a chiamare questa parte di elettori alle urne, una sorpresa non è esclusa.
L’economia
La forza persuasiva del premier sta soprattutto nell’economia: come l’alleata Polonia, l’Ungheria ha una crescita fortissima (+4% nel 2017), anche se pesantemente dopata dai 5 miliardi di euro dell’Europa. Il risultato è un «benessere» che però non si rispecchia nella realtà nazionale. Un quarto della popolazione è a rischio povertà, con salari bassissimi e una flat tax che piega soprattutto le classi più basse, tanto che nel 2017 la Commissione europea ha indicato in Ungheria l’aumento peggiore delle diseguaglianze in tutta l’Unione.
In campo economico Orban ha progressivamente abbandonato le politiche liberiste dei primi anni, orientandosi verso un potenziamento del settore pubblico. Ammiratore di Putin e Trump («finalmente con lui finisce il multiculturalismo»), lo stesso Bannon ha definito Orban un «eroe» per la sua rivoluzionaria visione di «democrazia illiberale» e nazionalista.
Il paradosso europeo
Sebbene il premier ungherese sia considerato un euroscettico (anche se il suo Fidesz è nel Ppe), e l’Europa lo consideri un pericolo per lo stato di diritto, Orban sta molto attento a non spingersi troppo oltre, anche perché è consapevole che gli ungheresi sono fortemente europeisti. Non solo, Martin Michelot, vice direttore del think tank «Europeum», e curatore di un rapporto pubblicato dall’Istituto Delors di Parigi, spiega che «Orban non combatte l’Europa», e «sa benissimo che il Paese dipende dai fondi europei e dagli investimenti stranieri, inclusi quelli delle banche italiane, così come dipende dalla libera circolazione dei lavoratori».
Il Fatto 7.4.18
Ungheria stregata a vita dalle botte di Orbán
Anti-migranti e Ue - La parabola del premier “illiberale”: da pupillo delle élite a capo-popolo delle classi povere favorito nel voto di domani
Orbán è diventato il leader dei Paesi dell’Est critici con l’Unione
di Andrea Valdambrini


“Mostrami un giovane conservatore e ti dirò che è senza cuore. Mostrami un vecchio progressista e ti dirò che è senza cervello”. L’adagio, falsamente attribuito a Churchill, pare perfetto per racchiudere la storia di Viktor Orbán, anzi di Orbán e il suo doppio. Il primo è un ragazzo di 26 anni magro, capelli fluenti, come emerge da una foto del 1989, quando pochi mesi prima del crollo del regime arringava la folla inneggiando della libertà di espressione e del libero mercato. Il secondo è un uomo sulla sessantina, volto più tondo e pancia prominente, che difende i valori cristiani contro l’invasione dei migranti in nome del nazionalismo magiaro, critica i tecnocrati di Bruxelles, flirta con Mosca, controllando i media e mette in atto misure dirigiste definite dai suoi avversari esempi di “populismo economico”. Cosa è successo nello spazio di tempo quasi trentennale che separa il primo dal secondo politico?
Premier in carica dal 2010, in corsa per il quarto mandato (il primo era stato tra il 1998 e il 2002), che dovrebbe ottenere senza difficoltà domani, l’Orbán di oggi si comprende più considerando il pragmatismo delle scelte che la presunta folgorazione ideologica sulla via del sovranismo. Dopo i primi successi, Fidesz, il partito da lui fondato, subisce un’amara sconfitta nel 1994.
Da allora il giovane leader smette di rivolgersi alle élite urbane – già rappresentate da altre formazioni – bensì a quelle classi sociali provinciali e marginalizzate da cui lui stesso proveniva. E che rimangono la base del suo ampio consenso.
Perfino il contrasto andato in scena negli ultimi mesi con George Soros è l’esempio di un clamoroso cambiamento. Fu proprio il magnate filantropo, ebreo di origine ungherese, a finanziare sul finire dell’era comunista i primi passi dell’attuale premier. Eppure contro Soros, sostenitore della necessità dell’immigrazione per l’Europa, Orbán non ha esitato a scatenare una violenta e lunga campagna d’opinione, culminata nella legge che impone forti restrizioni all’azione delle ong – tra cui la fondazione Open Society riconducibile al magnate – e attirandosi per questo anche le accuse di antisemitismo. Proprio l’opposto di quanto accaduto con un altro antico alleato come l’oligarca Lajos Simicska, che ha voltato le spalle a Orbán, dichiarando il supporto per l’estrema destra di Jobbik, ma soprattutto scatenandogli contro la stampa di sua proprietà per denunciare uno grosso scandalo legato a fondi Ue che coinvolgerebbe esponenti del governo. Una campagna non in grado di impensierirlo, dato che il controllo sui media rappresenta un corposo capitolo dell’atteggiamento quantomeno disinvolto di Orbán verso la democrazia liberale.
A partire dal 2010, il premier ha messo sotto stretto controllo l’intero sistema radiotelevisivo pubblico e privato, nonché i principali quotidiani nazionali e locali. Caso esemplare, l’acquisto nel 2015 di un canale nazionale da dell’oligarca e già produttore hollywoodiano Andy Vajna -, tassello di una rete di fedelissimi alla testa dell’informazione, di cui tira le fila il sottosegretario Antal Rogán, conosciuto come “ministro della Propaganda”.
Stampa amica funzionale a sostenere la traiettoria in rotta di collisione con le politiche delle capitali occidentali invece accondiscendente con i valori (e gli interessi economici) della Russia diventata amica da nemica che era per chi fu anti-sovietico come lui. Basti pensare all’esaltazione dell’Ungheria cristiana, “ultimo bastione contro l’islamizzazione dell’Europa”, come ha tuonato il leader di Fidesz nel discorso sullo stato della nazione di febbraio, in cui ha anche biasimato chi minaccia lo stile di vita magiaro come “i politici di Berlino, Parigi e Bruxelles“. “L’Europa è sotto invasione e chi non la ferma andrà in rovina”, ha rincarato il premier di recente.
Nel 2015 il governo ha voluto una barriera di filo spinato di quasi 180 chilometri sul confine serbo per fermare il flusso dalla rotta balcanica. Contro le quote di ripartizione dei migranti volute dall’Ue, Orbán ha perfino indetto un referendum nell’ottobre 2016: quorum del 50% mancato, ma il 98% dei votanti gli ha dato ragione. “L’immigrazione non è un fatto positivo e non rientra nel novero dei diritti umani”, chiarisce se mai ce ne fosse bisogno il portavoce del premier Zoltán Kovács
“L’Ungheria non è in senso stretto una dittatura, ma neppure più una democrazia liberale”, ha scritto il politologo britannico Timothy Garton Ash. “È un regime ibrido, in parte autoritario, che pone domande fondali sulla natura dell’Unione europea”. La quale è consapevole della popolarità degli autocrati che coltiva in seno. Ma mentre contro la Polonia, Bruxelles ha mostrato il pugno duro, l’atteggiamento verso il leader ungherese è molto più morbido. Sarà che Fidesz fa parte della grande famiglia del Partito popolare europeo di Angela Merkel, osservano in molti. Così, tra realpolitik e cinismo, l’Ue vuole illudersi che Orbán – uno e bino, liberale da giovane, teorico della “democrazia illiberale” ora – sia in fin dei conti meno brutto di quanto appare.
Repubblica 7.4.18
La caduta dell’ex presidente del Brasile
Lula e il crepuscolo degli dei
La sua parabola riassume l’ennesima tragedia di una sinistra che ansima da sempre tra entusiasmi e feroci delusioni
di Vittorio Zucconi


Fu chiamata la “ Marea Rosa”, lo tsunami di una grande speranza per l’America Latina, oggi infranta nell’assedio umiliante all’ex presidente condannato e renitente, a Lula in Brasile. Era la marea di una nuova sinistra democratica e riformista non rossa, più indigena che guevarista, che aveva investito l’America Latina dal Venezuela alla Patagonia con la promessa di una nuova alba di giustizia sociale. Ma la grande onda che sembrava destinata a sommergere il continente si è spenta e l’acqua si ritira lasciando visibili i relitti di un’altra grande illusione.
La parabola di Inácio Lula da Silva, la storia della ascesa e della caduta di questo amatissimo e ancora oggi molto popolare personaggio dentro e fuori il Brasile, riassume in sé l’ennesima tragedia di una terra che ansima perennemente fra entusiasmanti speranze e feroci delusioni, fra scosse populiste epocali e delusioni concrete quotidiane. Nessuno, non in Ecuador, in Perù, in Venezuela, in Bolivia, ovunque la “Marea Rosa” si fosse alzata, era riuscito a incarnare meglio di lui, di questo presidente del popolo, di questo affascinante “uomo qualunque”, le speranze della nuove politiche di redistribuzione della ricchezza ed era riuscito a produrre più risultati. Dunque nessuno rappresenta meglio di lui e della disperazione dei suoi fedeli rimasti a far quadrato per impedirne l’arresto, l’abisso del nuovo, ennesimo autunno di un altro patriarca.
Dalla caduta de L’Avana nelle mani di Fidel Castro il primo gennaio del 1959 all’arresto di Lula da Silva ieri quasi sessant’anni dopo è scritta la storia di una Sinistra latina prigioniera di una terra sempre “troppo lontana da Dio e troppo vicina all’America”, al Grande Norte, come scriveva il poeta messicano Octavio Paz. Generazione dopo generazione, si sollevano movimenti e illusioni, leader e organizzazioni che tra la violenza guerrigliera alla Tupamaros, o ancora prima alla Zapata, alla via democratica dei Lula e degli Allende promettono quello che inesorabilmente non riescono a mantenere, senza abbandonarsi al peronismo che da due generazioni intossica l’Argentina. Ma sprofondano nelle sabbie mobili delle prepotenze esterne, della corruzione interna, di investimenti stranieri speculativi che accorrono e fuggono dopo avere rapinato, del fatalismo, della impossibilità. Zapatistas e Barbudos, Chavistas e Caracazos venezuelani, le onde si alzano e poi la palude vince. I corvi dei fondi d’investimento “becca e fuggi” chiedono le loro libbre di carne e volano via.
Con molta fretta e qualche acre gioia, lassù nel Grande Norte, in quegli Stati Uniti oggi più ferocemente arcigni di prima nelle mani di un Presidente che detesta tutto il mondo di “stupratori, spacciatori e ladri” a Sud della “Frontera” del Rio Grande, qualcuno pronuncia già il requiem anche per le nuove sinistre latine, annunciando la fine di questo esperimento di rivoluzione sociale ed economica non violenta.
L’appello dei successi e dei risultati, obiettivamente, è deprimente. Il Venezuela di Maduro è una tragedia umana, prima che politica, che il mondo preferisce malevolmente ignorare o vuole ignorare perché il “Chavismo” consumi in un ultimo falò la minaccia al Nuovo Ordine Mondiale che aveva portato. Ogni giorno, mentre i resti della vita democratica sono puntualmente schiacciati, file di venezuelani attraversano la frontiera con la Colombia non per emigrare ma per cercare alimenti e medicinali da riportare a casa.
In Bolivia Evo Morales, il sindacalista dei coltivatori di piante di coca che era riuscito, con nazionalizzazioni draconiane a ridurre la povertà di un massiccio venticinque per cento godendo di un favore immenso, è riuscito a farsi rieleggere con appena un punto percentuale sopra l’avversario, mentre la sua ex favorita e amante, Gabriela Zapata è sotto accusa per avere ricevuto una supertangente di 500 milioni di dollari dai cinesi. Brasile e Argentina, che avevano temporaneamente goduto del boom delle materie prime, fra petrolio e agricoltura, dei primi anni del Duemila, restano imprigionate dalla corruzione che inesorabilmente riaffiora e divora la ricchezza. Anche i più coraggiosi, i più sinceri, come Rafael Correa, l’ex presidente dell’Ecuador con sangue indio, cresciuto dai salesiani e dalle università cattoliche, figlio di un corriere della droga che lui difese spiegando che gli spacciatori spesso erano “madri di famiglia, padri disoccupati e alla fame”, devono difendersi dal ritorno di avversari politici conservatori.
Ma l’annuncio della morte delle nuove sinistre centro e latino americane, incluso il Messico dove è possibile il ritorno della opposizione progressista al governo dopo trent’anni, può essere largamente prematura. Il tradimento delle persone, dei Lula, dei Maduro, della Dilma Rousseff delfina di Lula, non comporta l’abbandono delle speranze che la “Marea Rosa” aveva sollevato. Milioni di boliviani, ecuadoriani, brasiliani, colombiani, venezuelani hanno assaggiato il sapore di nuove politiche di redistribuzione della ricchezza e dell’uscita dalla miseria e quel gusto rimane. Oltre la nausea per gli errori e le debolezza degli uomini e delle donne che li avevano traditi. Le maree vanno e poi ritornano.
Il Fatto 7.4.18
Assedio all’ex presidente “Resisteremo per Lula”
Voci dalla “roccaforte” del leader della sinistra sotto mandato di arresto ma difeso da migliaia di cittadini per strada
Difesa popolare – La folla sotto l’edificio dove è asserragliato Lula
di Giuseppe Bizzarri


“Siamo qui. Resisteremo. Contiamo su di voi”. Sono le parole registrate in un rapido video in Rete dalla presidente, anzi l’ex guerrigliera, Dilma Rousseff, la quale invita i militanti della sinistra ad aggiungersi alla moltitudine presente di fronte alla sede del Sindicato dos Metalúrgicos a São Bernardo do Campo, divenuto il bunker del carismatico Inacio Lula da Silva. Lula, l’ex presidente più amato e votato della storia brasiliana (2003-2011), si è asserragliato nella storico sindacato assieme ai leader del partito, il Pt, deputati, dirigenti sindacali e i capi dei principali movimenti di base, i quali l’hanno persuaso a opporsi al mandato di arresto spiccato dal giudice Sergio Moro, capo dell’equipe d’inchiesta della Lava Jato che indaga il giro di mazzette legato alla statale Petrobras. Lula è stato condannato in secondo grado a 12 anni di prigione per corruzione e riciclaggio.
L’ex metalmeccanico – divenuto un mito per il popolo brasiliano e che si trova in vetta alle statistiche elettorali per le presidenziali previste ad ottobre, si considera innocente. La condotta del processo è stata criticata anche da organismi internazionali. Moro – che avrebbe emesso il mandato di prigione a tempo record e senza rispettare i termini giuridici, ossia attendere il nullaosta del Tribunale federale regionale di Porto Alegre – ha ordinato a Lula di costituirsi entro le 17 di venerdì alla polizia federale di Curitiba.
Fino alla pubblicazione di questo articolo, non c’erano segni che Lula si sarebbe consegnato agli agenti della Polizia Federale che, probabilmente, dovranno ricorrere alla forza per entrare dentro l’edificio, dove si trovano non solo militanti, ma anche deputati, intellettuali, artisti. Il mandato d’arresto è stato spiccato poche ore dopo il travagliato verdetto emesso dagli 11 giudici del Supremo tribunale federale che per un solo voto hanno negato a Lula la protezione dell’habeas corpus che l’avrebbe protetto sino all’ultima istanza processuale richiesta dalla difesa presso il tribunale di Porto Alegre, lo stesso organo giudiziario che avrebbe ignorato il giudice Moro per emettere il mandato d’arresto. La difesa di Lula ha dichiarato che ricorrerà all’Onu per impedire la detenzione. Secondo Stellamaris Pinheiro, militante all’interno della “roccaforte” di Lula, i militanti “hanno ben chiaro” che l’arresto del “maggiore presidente della storia brasiliana” non dovrà avvenire.
Militanti del Movimento sem terra hanno bloccato strade in altri Stati del Brasile, dove si registrano manifestazioni e scontri tra oppositori e difensori di Lula. “Siamo qui per Lula, per il Brasile e per la democrazia duramente conquistata. Diversi partiti, parlamentari, movimenti sociali, gente comune, artisti, seguono la lotta per la libertà e per il diritto di Lula d’essere candidato alle presidenziali”, afferma Pinheiro convinta che, come milioni di brasiliani, l’ex metalmeccanico sia stato condannato senza prove e senza il rispetto della costituzione brasiliana.
“Non possiamo permettere che il golpe si sviuluppi oltre. L’arresto, tutto il processo, è stato politico, ha avuto come obiettivo d’impedire a Lula di vincere l’elezione per invertire il disegno neo-liberale in corso”, aggiunge Pinheiro. Dopo l’impeachment della presidente Rousseff, considerato un “golpe branco” per milioni di brasiliani, la crisi politica, sociale e della sicurezza pubblica si è aggravata in Brasile, dove la ripresa economica stenta a ripartire.
E preoccupa anche l’ingerenza dello stato maggiore dell’esercito nella vita democratica del paese, spalleggiati da una parte dei conservatori, i cosiddetti “Coxinhas”, ma soprattutto dalla classe imprenditoriale.
Corriere 7.4.18
Il capo dei Sem Terra «Lo libererà la piazza, faremo marce e scioperi»
di R. Co.


«Dovesse succedere, incendieremo il Brasile!». È lo slogan che la militanza dura e pura del «lulismo» agitava da tempo, in previsione di una giornata storica come quella di ieri. Ma poiché la capacità di mobilitazione del Pt (il Partito dei Lavoratori fondato da Lula) è ormai limitata, l’unico movimento in grado di far sentire la sua voce a livello nazionale è quello dei contadini senza terra. Ieri lo storico Mst (Movimento Sem Terra) ha bloccato con picchetti varie strade nel grande Paese. Il suo leader João Pedro Stedile è un vecchio amico di Lula, sin dalle prime battaglie negli anni Ottanta. È nato nel Sud del Brasile, da una famiglia di origini trentine.
La prigione di Lula è una partita perduta?
«Per nulla. Il campionato è lungo ed è arrivato il momento di reagire e stimolare la reazione popolare ad una evidente ingiustizia. Non abbiamo i grandi media, quelli che hanno orchestrato questa offensiva, ma i social network che sono i nostri muri, l’unico luogo dove possiamo scrivere liberamente. Lula verrà liberato dai suoi militanti, da grandi manifestazioni di massa. Vedrete».
Ieri si è radunata gente a San Paolo, dove Lula ha passato le ultime ore di libertà nella sede del sindacato. Ma nel resto del Brasile?
«I senza terra hanno organizzato marce e blocchi stradali in decine di città e Stati. Ma la mobilitazione deve continuare e allargarsi al sindacato. È ora di tornare a grandi scioperi. La prigione di Lula è un altro attacco dei poteri forti dell’economia contro il nostro popolo».
Come è possibile che tutte le accuse contro Lula non abbiano alcun fondamento?
«Tutto è nato in televisione, anzi in un’unica tv, la rete Globo. Una volta la borghesia aveva le sue scuole, le chiese, oggi il pensiero unico passa dalla tv monopolista, il vero partito ideologico delle élites. Mentono dalla mattina alla sera. Cosa possiamo fare? L’unica è spegnere la televisione, denunciare le sue menzogne. E un giorno il popolo chiederà il conto».
Come andrà a finire con le elezioni di ottobre?
«Con l’esclusione forzata e illegittima di chi è chiaramente in testa alle preferenze di voto e non potrà competere, si rischia un processo elettorale del tutto anomalo. Il popolo brasiliano aveva già scelto, vuole il ritorno di Lula che è stato il miglior presidente della sua storia».
Corriere 7.4.18
La resistenza di Lula con gli scudi umani
di Rocco Cotroneo


Lula non si consegna alle autorità per essere portato in carcere a Curitiba, dopo la condanna per corruzione. L’ex presidente brasiliano è rimasto barricato nel quartier generale della Metalworkers Union di São Bernardo do Campo. I suoi avvocati hanno iniziato una trattativa per definire i termini dell’arresto e della detenzione. In tutto il Paese diverse le manifestazioni di protesta a favore di Lula.
RIO DE JANEIRO Il bunker della resistenza finale è una brutta palazzina di quattro piani circondata da altro cemento, nella periferia di una delle più sterminate metropoli del mondo. Ma la sua insegna è un pezzo di storia del Brasile, ed è qui che Lula decide di ignorare i giudici e rendere drammatico il suo ultimo giorno di libertà. La sede del sindacato metalmeccanici di San Paolo è la culla della storia politica dell’ex tornitore che ha perso un dito sotto una pressa, poi ha sfidato la dittatura da leader operaio e molti anni dopo è diventato presidente del suo Paese. È circondata da militanti con le bandiere rosse, oltre che giornalisti e fotografi. Sono poche migliaia i fedelissimi, non il cordone umano che potrebbe proteggerlo dalla «giustizia ingiusta e serva delle élites», come nella narrativa di parte di questa lunga vicenda giudiziaria. Non le decine di milioni di brasiliani che lo hanno votato in cinque occasioni. Ma in qualche modo la scenografia ottiene il suo scopo: a fronte di una persecuzione c’è un martire rinchiuso in un luogo simbolico di lotta.
Lula dunque non si è consegnato spontaneamente entro le 17 ore locali di ieri (le 22 in Italia), come il giudice Sergio Moro gli aveva suggerito. Avrebbe dovuto presentarsi a Curitiba, sede dell’inchiesta giudiziaria che l’ha travolto, e in cambio ottenere un trattamento di favore. Niente manette e telecamere, e come cella una specie di ufficio al quarto piano della sede della Polizia federale: 15 metri quadrati, con bagno privato, letto e un tavolo di lavoro. Era un dormitorio per agenti in trasferta, non ci sono sbarre: il giudice Moro ha ammesso l’eccezione in considerazione del ruolo svolto in passato dal leader brasiliano e chiesto alla polizia di preparare una stanza speciale. Lula prigioniero avrà diritto a due ore d’aria al giorno e una visita di familiari e amici per settimana. Nessun contatto con gli altri detenuti, come il suo ex ministro dell’Economia, Antonio Palocci, o il costruttore che gli aveva regalato il famoso attico al mare, Leo Pinheiro. La pena da scontare è lunga, 12 anni e un mese, anche se sulla durata effettiva della detenzione di Lula fioccano previsioni di ogni tipo. Anche poche settimane, sostiene qualcuno, conoscendo i meandri del sistema giudiziario brasiliano.
Saputo dell’ordine di arresto, Lula ha scelto di passare la notte tra giovedì e ieri nella sede del sindacato, con amici e avvocati, dormendo poche ore nella stanza della presidenza senza tornare a casa. Poi è cominciata una giornata lunghissima. Un elicottero della tv ronzava sulla palazzina, i manifestanti fuori, i giornalisti in maratone davanti alle telecamere e alcuni momenti curiosi, come l’arrivo di un furgone con casse di birra, carne e sacchi di carbonella, come per ogni «churrasco» (grigliata) che si rispetti. In strada due camion-palco, dai quali militanti del partito e dei movimenti sociali si alternano a parlare per ore e ore, strappando applausi via via più annoiati. Nel corso della giornata, la polizia concede a Lula di presentarsi, sempre entro le 17, nella sede di San Paolo, da dove poi un aereo l’avrebbe immediatamente portato a Curitiba. Mentre gli avvocati giocavano le ultime disperate carte per trovare un giudice di una istanza più alta in grado di sospendere la detenzione: due le nuove istanze, entrambe respinte.
Passato l’ultimatum, senza alcun segnale che Lula intendesse lasciare la sede del sindacato, la polizia ha fatto sapere di escludere un blitz per andarlo a prendere con la forza. Troppi rischi di scontri con i manifestanti, un eccesso di drammaticità evitabile. Ma la previsione ieri sera era che la consegna fosse ormai imminente, secondo un accordo già raggiunto tra polizia e legali di Lula.