sabato 24 novembre 2012

l’Unità 24.11.12
Bersani: un governo per il lavoro
«Moralità e lavoro: partiremo da qui»
«Queste primarie sono un salto oltre la Seconda Repubblica»
Domani il giorno del voto
intervista di Claudio Sardo


Quando ha deciso di fare le primarie, e di aprire la sfida a concorrenti esterni e interni al Pd, molti hanno pensato che si trattava di una mossa spericolata. Si metteva in gioco non solo una leadership, ma il profilo del solo partito rimasto sul campo, l’idea delle alleanze, la visione di sistema. Troppi rischi mentre siamo ancora tra le macerie della seconda Repubblica, non c’è alcuna intesa sulla riforma elettorale, la crisi sociale morde e la soluzione tecnocratica è alimentata dalla sfiducia verso la politica. «Invece sottolinea soddisfatto Pier Luigi Bersani abbiamo costruito un grande evento democratico che segnerà questa stagione più di quanto oggi non si percepisca. Darà dignità e forza all’Italia in Europa. Sarà un segno di riscossa del Paese».

Per Pier Luigi Bersani, 61 anni, segretario del Pd dal 2009, le primarie sono legate all’idea di un governo nuovo. Ha accettato il rischio perché non le ha mai pensate come una questione di partito. Il tema è l’Italia. Semmai, come un partito moderno ed europeo possa costruire un’«infrastruttura» civile che torni a legare la domanda di cambiamento con quella di partecipazione, con la voglia di contare. In un tempo in cui la politica pare condannata soltanto ad eseguire (e ad essere bersaglio di insulti). «Più di un milione di persone dice si è già registrato. Centomila volontari saranno domenica al lavoro. Siamo stati capaci di mettere su una macchina organizzativa che stupisce anche all’estero. E abbiamo posto questa macchina al servizio di un’impresa democratica, finalizzata ad un esplicito cambiamento delle politiche economiche e sociali. Se è vero che il passaggio da Berlusconi a Monti ha restituito all’Italia una credibilità perduta, le primarie del centrosinistra ci faranno fare un altro balzo in avanti. Anche perché contengono, sul piano culturale, la smentita di uno dei paradigmi della Seconda Repubblica».
Di cosa sta parlando?
«Per vent’anni l’ideologia di Berlusconi si è fondata sulla contrapposizione tra partito e società civile. Questa contrapposizione è stata funzionale al leaderismo, al populismo, al discredito dei corpi intermedi come vettori di partecipazione e di democrazia. In questi giorni stiamo dimostrando che il partito è società civile, è una sua espressione viva. Il collateralismo è finito da tempo. Ma i partiti democratici e mi auguro che la nostra esperienza contagi gli altri possono diventare l’infrastruttura di una nuova rappresentanza politica. Nella competizione delle primarie non si sono schierati soltanto cittadini singoli, ma anche cittadini associati, movimenti, gruppi di interesse. Non ci sarà più un partito-mamma. Ma un partito democratico, trasparente può aiutare il nuovo civismo e offrirgli il canale per partecipare alla decisione e alla responsabilità. Peraltro il 25 novembre è anche la giornata contro la violenza sulle donne: un altro significato condiviso per la nostra azione collettiva».
In questi vent’anni, accanto al dualismo partiti-società civile, ha tenuto banco anche quello tra sinistra riformista e sinistra radicale. Non teme che questo dualismo possa minare le basi di un governo futuro a guida Pd, come avvenne già al tempo dell’Unione? «La mia idea di sinistra è il Pd. E il Pd è anche la mia idea di centrosinistra. Siamo davanti a un tempo straordinariamente nuovo. Il tempo lima le parole. E guai se restassimo prigionieri delle contrapposizioni di ieri. Dobbiamo avere chiari i nostri valori, anzitutto l’uguaglianza delle persone. Ma dobbiamo esprimere una grande capacità di governo, se vogliamo al tempo stesso affrontare le sfide reali e cambiare le cose. Non ho mai creduto a una sinistra autosufficiente. Dobbiamo cogliere nelle altre culture, democratiche e liberali, gli arricchimenti necessari per affrontare questo cambio d’epoca. Saremo riformisti. Ma non si è riformisti senza essere radicali in alcuni passaggi cruciali».
Tra i cinque candidati lei è il solo non cattolico. Eppure, quando ha proposto papa Giovanni per il pantheon dei democratici, le sono piovute addosso critiche laiche. Si è pentito?
«No. Qualcuno non ha capito che, citando papa Giovanni, parlavo anche di sinistra riformista e sinistra radicale. Ho detto che quell’uomo ha realizzato cambiamenti rivoluzionari, mentre riusciva a rassicurare. Non sono credente, ma penso di aver dimostrato la mia sensibilità: considero la cultura cattolica parte della cultura democratica e progressista, avendo contribuito anche alla definizione di uno statuto di laicità della politica e dell’ordinamento».
L’accordo sulla produttività non ha la firma della Cgil. Un guaio per il centrosinistra che si candida a governare.
«Penso all’Italia, non al centrosinistra. Dobbiamo migliorare la nostra produttività. Abbiamo deciso di usare la leva fiscale per l’innovazione e di favorire la contrattazione aziendale. Ma mi auguro che non si limiti a questo l’impegno governativo. Spero che si compia una verifica puntuale dei risultati, anche per apportare eventuali correttivi. Ma soprattutto mi pare urgente definire regole chiare sulla rappresentanza dei lavoratori. Tutto l’impianto rischia di cadere se non è chiaro chi parla a livello aziendale a nome dei dipendenti. Il governo si faccia parte attiva: se lo farà, penso che il filo del dialogo con la Cgil possa essere ripreso».
Lei è il solo che in questa campagna elettorale si è misurato con il tema delle alleanze politiche. I suoi competitori hanno deciso di sottrarsi, o di rifiutarle. «Abbiamo firmato tutti la Carta d’Intenti dove è scritto che noi progressisti siamo pronti a lavorare in Parlamento con le forze democratiche e liberali che hanno rotto con i populisti e che sono consapevoli della necessaria ricostruzione. È la nostra posizione comune. Ma ora vogliamo vedere cosa viene fuori da questo dibattito al Centro. Vogliamo sapere in cosa consiste la Terza Repubblica e se si intende lavorare con il Pd. Spero che offrano agli elettori una proposta innovativa e unitaria: ma non mi intrometto. Dico una cosa senza la minima arroganza: il Pd è troppo grande perché qualcuno immagini di usarlo come salmeria. E un’altra cosa ancora: chi vuole mettersi in gioco, lo faccia senza tirare la giacca a Monti. Non si può guidare un processo così difficile, restando ai box».
Il Pd è nato come ponte verso un nuovo sistema politico. Ma, se resta il solo partito, rischia di essere schiacciato. Nonostante queste belle primarie. La riforma elettorale è un passaggio importante. Tuttavia siamo lontani dall’intesa.
«La ricostruzione del Paese passa da un nuovo sviluppo, dalla creazione di nuovi posti di lavoro, da nuove regole di moralità pubblica, ma passa anche da un nuovo sistema politico. È vero, il rischio di una involuzione è sempre presente. La tentazione dell’eccezionalismo italiano non è finita con Berlusconi. Il populismo e la demagogia sono sempre dietro l’angolo. Noi siamo consapevoli del ruolo costituente che dovrà avere il prossimo Parlamento. E nella prossima legislatura torneremo a proporre il doppio turno di collegio. Ma ora, prima del voto, ci vuole una legge che superi il Porcellum e che consenta quel tanto di governabilità necessaria a evitare la deriva dell’Italia. Se questo non ci sarà, ci opporremo con decisione». Abbiamo parlato di alleanze nazionali. Ma per i cambiamenti necessari sono forse più importanti le alleanze europee. Lei ha firmato il manifesto di Parigi insieme a Hollande e al leader dei socialdemocratici tedeschi. Confida nel loro sostegno o le sinistre saranno risucchiate, come altre volte, dagli interessi nazionali?
«Le alleanze europee sono decisive per noi. Il cambiamento richiede una dimensione europea. E, dopo il fallimento delle destre, solo la sinistra può mettersi alla testa di un nuovo processo di integrazione. Il programma dei progressisti europei oggi coincide con l’interesse nazionale dell’Italia. Dobbiamo cogliere l’occasione delle elezioni del 2014 per avviare una fase costituente anche nell’Unione. Come dimostra la conclusione negativa del vertice di Bruxelles, non possiamo più andare avanti alla velocità degli euroscettici. La zona Euro deve fare di più, accelerando l’integrazione politica».
Non teme, di fronte alla gravità della crisi sociale, che i margini di bilancio siano troppo stretti per un governo di centrosinistra dopo Monti?
«I margini sono stretti. E non vorrei che si dimenticasse come Berlusconi e Tremonti abbiano stretto un vero cappio attorno al collo dell’Italia. Siccome non avevamo più la minima credibilità internazionale, hanno accettato condizioni che a nessun altro governo sarebbero state imposte. Ora dovremo partire da standard di bilancio quasi impossibili, con avanzi primari stellari. Tuttavia siamo in Europa e con l’Europa intendiamo riaprire una stagione di crescita: sono convinto che la svolta sia possibile. Bisogna usare la leva fiscale per favorire il lavoro e l’innovazione. Bisogna indirizzare il risparmio privato verso gli investimenti. Bisogna dare una mano agli imprenditori che vogliono potenziare le aziende. Bisogna usare il bilancio pubblico per la banda larga. Bisogna derogare selettivamente al Patto di stabilità interno per consentire ai Comuni sani di fare le opere programmate. E bisogna costruire in parallelo un piano per la moralità pubblica».
Pone questo tema all’interno di un discorso sulle priorità economiche?
«Certo. Moralità e lavoro: si deve partire da qui. La fiducia dei cittadini, quella che oggi si è persa, è un fattore primario della coesione, e dunque dell’economia. La lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, la legalità, la sobrietà nei costi della politica, lo snellimento della Pubblica amministrazione, la legge sulla trasparenza dei partiti, la legge sul conflitto di interessi a tutti i livelli, le riforme istituzionali non sono solo i capitoli di un riscatto della moralità pubblica. Terrei insieme a questi anche i diritti: cittadinanza a chi nasce in Italia, unioni civili, legge sulla rappresentanza del lavoro. Così può rinascere la fiducia nella comunità e nello Stato».
Creare lavoro. Dare lavoro. Eppure i più sono convinti che il lavoro sia una variabile dipendente degli indici di sviluppo, o della produttività, o delle dinamiche del mercato.
«Su questo ci giochiamo tutto. Compresa la nostra coesione come società. Da dieci anni il lavoro declina. I livelli di occupazione delle donne e dei giovani sono inaccettabili. Questa è la priorità delle priorità, su cui far convergere gli sforzi del Paese. Mi fa sorridere quando usano la parola “laburista” per criticarmi. Secondo me, l’Italia è diventata troppo poco laburista e per questo rischia profonde fratture. Ovviamente nella stessa dimensione del lavoro vanno inclusi oggi sia i lavoratori dipendenti che quelli autonomi, i professionisti, gli artigiani, i piccoli imprenditori e tanti altri che rischiano l’osso del collo per tenere aperta la loro azienda in tempo di crisi. Il lavoro è anche la dimensione cercata da tanti giovani precari e dalle donne che pagano il costo più salato della riduzione dei servizi sociali».
Oggi torneranno in piazza gli studenti e gli insegnanti. Cosa ha da dire loro?
«Che la scuola e la cultura sono le basi della ricchezza nazionale. Che la legge Aprea è stata in parte già smontata dall’iniziativa del Pd. E che, nel passaggio in Senato, diremo ancora la nostra chiamando in Parlamento gli studenti, gli insegnanti, i genitori. Se va cambiata la struttura della rappresentanza, ciò non può avvenire senza rendere protagonisti gli attori della scuola».
I giovani, il rinnovamento, il nuovo. L’abbiamo lasciato in fondo, anche se è stato il motivo prevalente della battaglia mediatica nelle primarie. Ha un giudizio conclusivo?
«Il rinnovamento del Pd è in corso. La ruota gira e girerà ancora. Abbiamo bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno della buona politica. Chi ha esperienza non va buttato via, ma deve aiutare le nuove generazioni».

Un appello del mondo della cultura è arrivato per il segretario Pd con un incipit preciso: «Per far rinascere la cultura bisogna che l’Italia sia governata non più da improvvisati populisti né da pur valenti tecnici prestati alla politica, ma da politici competenti e legittimati dal consenso popolare come Pier Luigi Bersani: un politico che pone tra le sue priorità anche la crescita artistica e culturale del Paese». A seguire tantissime firme tra cui Salvatore Accardo, Dario Argento, Luis Bacalov, Giorgio Battistelli, Gisella Belgeri, Marco Bellocchio, Filippo Bianchi, Sabrina Ferilli, Massimo Ghini, Rosetta Loy, Luigi Mainolfi, Salvatore Mannuzzu, Dacia Maraini, Simona Marchini, Ennio Morricone, Gino Paoli, Ottavia Piccolo, Francesco Rosi, Stefania Sandrelli, Ettore Scola, Giovanni Soldati, Flavio Soriga, Sergio Staino, Paolo Taviani, Vittorio Taviani, Giuseppe Tornatore, Lucia Vasini, Dario Vergassola e Roman Vlad. Per il leader Pd anche Brando Benifei, vice presidente della rete europea dei socialisti e progressisti.

l’Unità 24.11.12
Francesco Guccini
«È il momento di pensare a progetti realizzabili, E lui è il più affidabile
La rottamazione? Non è una priorità. Se vincesse Renzi, io voterei Vendola»
«È una bella sfida. Ma il segretario è l’uomo giusto»
di Giuseppe Rizzo


Osservare l’Italia e il mondo da Pavana, da quel pezzo di Paese sull’Appennino tosco-emiliano che è periferia ma che per Francesco Guccini è crocevia formidabile di storie e stimoli. Osservare l’Italia e il mondo da Pavana: Guccini sorride, dice appunto che le sue sono idee come quelle di tanti altri, che vivano a Pavana o Milano o Roma. Idee comuni. Poco importa se molte di quelle messe in musica siano state colonna sonora di giorni e momenti della vita di persone di generazioni diverse.
Il suo ultimo album in studio, il ventesimo, «Ritratti», è del 2004, ma in tutti questi anni Guccini non ha mai smesso di osservare l’Italia e stigmatizzarne storture e brutalità. «Sono un comune cittadino», dice, quando lo chiamiamo per una chiacchierata sulle primarie del centrosinistra. Si schernisce, all’inizio risponde con poche parole, «sono un comune cittadino», ripete. Il comune cittadino di Pavana, però, a poco a poco allunga le frasi e i pensieri, e ci racconta le sue primarie, la coalizione che immagina e l’Italia che vorrebbe.
Per chi andrà a votare domani?
«Io appoggio Bersani e voterò sicuramente per lui».
Cos’è che l’ha convinta a votare il segretario del Partito Democratico?
«Lo voto perché è il più concreto dei cinque. Quello che non promette sogni irrealizzabili. Di promesse al vento in questi anni ne abbiamo sentite e viste svanire tantissime. Dalla destra sono arrivate promesse di tutti i tipi e di tutti i colori. Ora è il momento di pensare a progetti realizzabili, e Bersani da questo punto di vista è l’uomo giusto».
Ha seguito questi mesi di campagna per le primarie? Che gliene è sembrato? «Prima di tutto devo dire che non me l’aspettavo, ma poi, alla fine, la sfida si è fatta ed è stata bella. E rispetto a quello che sta succedendo dall’altra parte, al caos della destra, è stata decisamente più ordinata».
Cosa l’ha convinta di meno?
«L’idea della rottamazione di Matteo Renzi. Non è con la rottamazione che si risolvono tutti problemi, e sono molti, che ci sono in Italia. O meglio: non solo».
E se vince Renzi?
«Se vince Renzi io voterò per Vendola. Per carità, io dico “largo ai giovani”. Ma è innegabile che ci siano dei meno giovani che hanno ancora molte cose da dire, da fare. Cose da dimostrare, da fabbricare. Rottamare per il solo gusto di farlo non ha senso. E poi sono convinto che è una questione minoritaria rispetto a tutto quello che c’è da fare nel Paese».
Quali sono queste priorità?
«Bisogna salvare questo Paese dal pantano economico e culturale in cui è stato cacciato. Salvare i conti ma anche le teste».

l’Unità 24.11.12
Perché tra i candidati scelgo Pier Luigi
di Sandro Gozi

Deputato Pd

SONO STATO UN SOSTENITORE DI QUESTE PRIMARIE PER LA SCELTA DEL CANDIDATO PREMIER ANCHE QUANDO nessuno le voleva. Con pochissimi altri ho insistito per averle e già in aprile proposi di farle a doppio turno. Pier Luigi Bersani ha dimostrato lungimiranza nel convocarle. Oggi, con leggi elettorali abborracciate per gli accordi al ribasso tra partiti, sono ancora più convinto che le primarie vadano fatte anche per scegliere tutti i candidati al Parlamento. Per questo, chiedo che subito dopo il 2 dicembre venga fissata la data per tenerle.
Sono altrettanto convinto che Europa, diritti e libertà siano le priorità del centrosinistra italiano e proprio per portare avanti questi temi avevo presentato la mia candidatura. Tanti di noi avrebbero auspicato che i candidati rispondessero esplicitamente alle nostre proposte su come ridurre il debito pubblico, sui crediti d’imposta alle imprese, sulla legalizzazione delle droghe leggere, sull’amnistia o sull’alleanza coi radicali.
Ma credo sia assolutamente doveroso, soprattutto per me, prendere una posizione esplicita sin dal primo turno. Lo credo anche perché per voltare pagina dobbiamo saper comportarci meglio e diversamente rispetto a quanto visto in questi anni. E credo che uno degli aspetti più deteriori della nostra «italianità» sia quello di dire che qualcuno va sostenuto solo se ne ricaviamo una convenienza personale o che qualcosa conta solo se ne siamo protagonisti.
Alla luce del dibattito che si è sviluppato, Pier Luigi Bersani è il candidato che si è più avvicinato ad alcune mie priorità.
Penso in particolare all’accento sull’Europa che si trova nella sua proposta, e al referendum sugli Stati-Uniti d’Europa che assieme agli amici del Movimento Europeo sto difendendo da molto tempo, anche se su questo tema rimane ancora molto lavoro da fare Matteo Renzi, a cui va tutta la mia simpatia, ha avuto il grande merito di aver imposto nell’agenda politica italiana e nel Pd il tema del rinnovamento. Tema che, insieme a pochi altri ho posto da anni, ma sul quale Matteo è stato indubbiamente più efficace. Però il rinnovamento di per sé non è un programma di governo. Bersani, durante queste primarie, ha fatto molti passi avanti sul rinnovamento. Ora si tratta di tradurre le parole in fatti, privilegiando il merito e non la cieca fedeltà.
Infine, credo che le idee e le persone che sono emerse durante queste primarie siano il primo passo per formare una coalizione vincente. Bersani è il candidato che più degli altri ha dimostrato di riuscire a fare la sintesi politica tra le diverse proposte. Rimango impegnato a far sì che i progetti che avevo presentato su Europa, diritti, sviluppo e liberalizzazioni trovino spazio nel programma di governo e per questo riprenderò l’iniziativa politica con tutti coloro che li condividono a partire dal 3 dicembre, in vista delle elezioni politiche e del prossimo Congresso del Pd in autunno, di cui dovrà essere protagonista una generazione di dirigenti completamente nuova.


Repubblica 24.11.12
Con Bersani
Ci serve un Ulisse
di Adriano Sofri
 

Un Ulisse che sta con i feriti dalla crisi senza demagogie

CARO Pierluigi Bersani, come va? Mi auguro che lei vinca queste primarie. Poi, proverbialmente affidabile com’è, dovrà guardarsi anche un po’ da se stesso.
PERCHÉ la crisi sfugge alla normale amministrazione. È normale amministrazione anche quella che, riconoscendo e anzi accentuando la drammaticità della crisi, s’ingegna a rincorrerne i disastri senza toccare la logica che l’ha causata. In una barca che fa acqua e va a fondo, chi usi un secchiello per svuotarla (tecnicamente: aggottare) può tutt’al più rinviare l’affondamento, non sventarlo. E’ quello che sta avvenendo in Europa col debito: governi, di banchieri o di politici, aggottano più o meno affannosamente, e la barca va a fondo. Dunque lei, che ha il pregio di non disdegnare i secchielli, e di usare volentieri l’espressione “un po’ ” — “si può fare un po’ meglio”, dice, come un riformista emiliano, e un po’ anche come lo scrivano Bartleby — affronterà il dilemma della crisi: correre di qua e di là a rattoppare le falle, o provare a convertire modi di lavoro, di consumo, di vita. Intanto, restituendo alla politica internazionale il primato che la finanza ha confiscato. Gli speculatori fischiettano l’Internazionale, gli sfruttati hanno dimenticato le parole. Il riscatto della politica non è il ritorno alla sovranità degli stati nazionali umiliata dal rating.
Dipendiamo dal mondo intero, e possiamo fare che il mondo dipenda un po’ anche da noi. La nostra democrazia non è più una riserva privilegiata e al sicuro, da estendere o no ai territori ancora occupati dal dispotismo asiatico: la nostra democrazia ormai dipende dall’acquisto della democrazia altrui. La scelta di Nichi Vendola per l’europeismo federale e sociale di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi è la vera garanzia di una collaborazione, impossibile con la demagogia antieuropea accarezzata da Grillo e da nazionalismi di “estrema sinistra”.
Il legame fra partiti e movimenti europei non è mai stato così essenziale, e anche fra sindacati, in Europa e fuori, come ha finalmente fatto intuire lo scorso 14 novembre. Fra i sentimenti che Matteo Renzi sente più moderni c’è l’insofferenza per il sindacato, anche a scapito di categorie modernissimamente calpestate come le commesse nel commercio. Temo che l’entusiasmo iniziale di Renzi per Marchionne avesse questo se-
gno. Conservazione e corporativismi sindacali sono una cosa, impazienza verso la tutela sindacale di occupati di ogni genere e disoccupati è una debolezza autoritaria. La modernità è lo sviluppo sindacale in Cina e in Arabia Saudita, non la sua decadenza qui.
Ieri Massimo D’Alema — di cui era sciocco pensare che fosse “attaccato alla poltrona”, è attaccato alla sua passione politica — ha definito una banda di squilibrati i coinquilini del suo governo, che esigevano l’uscita dalla Nato. Però quando Vendola oggi denuncia la colossale spesa per i nuovi bombardieri, dice una cosa sacrosanta e piena di ragionevolezza. L’Unione Europea dei (quasi) 28 eserciti nazionali è una follia, e le loro spese in armamenti (Grecia alla fame compresa) sono un delirio estremista.
Tornare a un governo eletto non sarebbe un gran passo avanti, se lasciasse immutati l’operato del governo e i suoi condizionamenti. Anzi, l’“agenda Monti” applicata da chi non sia Monti sarebbe meno efficace. Lei, Bersani, dichiara su Twitter che l’ultimo De Gregori è forte.
Sarà votato da tante persone perché rilutta alla demagogia, quando respinge il fanatismo dell’“uomo solo al comando” suona sincero, e anche per quella fiducia nell’“usato sicuro” che è un po’ il contrario della rottamazione: ma bisognerà anche che si stacchi — “un po’” — dall’usato. Anche queste metafore lo dimostrano, sempre più lontane dall’andamento reale di auto private e acciaierie mortifere. Fu un errore grave baloccarsi con la fine del lavoro. Lo sarebbe altrettanto barricarsi attorno a produzioni e consumi che hanno fatto il loro tempo, o che è giusto che lo facciano. Chiamando gli italiani a un’impresa comune, a una fraternità aperta, bisognerà mirare alle cose più intelligenti: alla scuola, alla ricerca, all’invenzione, alla bellezza. Io confido che lei, come l’appassionato Vendola, abbia davvero a cuore le persone povere, e quelle impoverite, doppiamente ferite da qualcosa cui non si pensavano destinate. E le persone straniere e degne d’essere nostri concittadini. Che la sua avversione ai personalismi non ceda alle pretese di apparati e notabili: delle quali non ho mai capito se vengano prima dei cedimenti, o viceversa, come l’uovo con la gallina. Sarebbe bello provare: e se, specialmente quando si tratti dei diritti di alcune persone che non toccano quelli di altre persone, e ci si sente minacciare: “Allora me ne vado”, rispondere con calma: “Vai pure”. Confido che l’attenzione alle alleanze non vada a scapito del legame da ristabilire con chi è stato spinto verso richiami demagogici o al disgusto. Persone di coscienza chiara hanno scelto di costituirsi in partito, persuasi che col Pd non ci sia niente da fare. Provi a mostrare il contrario.
Non sono state male, queste primarie, finora. Via via Renzi ha impiegato toni e argomenti — per esempio, la rivendicazione di essere “la vera sinistra” — che possono confermare la diffidenza per una sua spregiudicatezza, ma anche segnalare un’apertura. Oggi è meno probabile che l’esito delle primarie porti a una rottura del Pd. Ho letto i programmi, sono come devono essere, promettenti, estemporanei, pubblicitari. Non ci sono differenze dirimenti? Non l’inclinazione per i finanzieri, nella quale caso mai Renzi emula i rivali anziani, fin troppo entusiasti a loro tempo di andare a cena coi banchieri. Sul liberismo sì: ma il liberismo è una gran bella idea, come la provvidenza, che si è rivelata strada facendo un’illusione di alcuni, e un alibi truffaldino di altri. Il liberismo somiglia, in alcuni credenti nell’onesto capitalismo, alla nostalgia dei “veri comunisti” di fronte ai disastri del comunismo reale. A ciascuno la sua nostalgia di un passato, reale o immaginato. Renzi e i suoi dicono di non amarla, la bella nostalgia, preoccupati di indebolire la pretesa di “ripartire da capo”. Noi vecchi il futuro lo vedemmo, quando finimmo in un vicolo cieco, si chiamava femminismo, ecologia. Il buon passato continuava a chiamarsi libertà, uguaglianza, solidarietà, carità. A distanza di qualche decennio e di una ragnatela globale, il futuro resta segnato da quelle aspirazioni. Il presente, s’intende, è un eterno tradimento: e tuttavia il futuro si nutre del passato, specialmente di ciò che nel passato sembrò buono, e si rivelò cattivo. Alessandro Baricco raccomanda a Renzi di fare come gli arabi sbarcati in Spagna, che si bruciarono i vascelli alle spalle per mostrare che quella sarebbe stata d’ora in poi la loro terra: non avrebbero avuto più un passato, solo il futuro. Bello. Disincantato ai sogni di azzeramento, io le suggerisco, caro Bersani, di guardare a Ulisse, a quel desiderio di partire e tornare e ripartire, a quella nostalgia inesauribile di Itaca e al richiamo fatale dell’alto mare aperto. Ulisse, erano gli dei offesi a distruggergli la flotta: non importa, i paragoni devono essere grandiosi. Lei faccia come Ulisse, “un po’”, si capisce. Purché non si accontenti di aggottare.

La Stampa 24.11.12
Pierluigi Bersani
La freddezza per Matteo e l’affetto per Nichi “Niente gioco della torre”


«A nche io mi fido di me» (ironico), ma lui si «fidasse del partito» perché qualche volta dà l’impressione «di aver sbagliato primarie» e non sarebbe niente male se «per una volta predicasse a casa sua, nel Pd». Sono frasi pronunciate in tempi diversi, ma tutte da Pierluigi Bersani a proposito di Matteo Renzi. Se andava bene, due palmi di distanza: «Se vinco nominerò Renzi ministro? Non ci ho pensato». Freddezza, poco affetto e senz’altro pochissima dissimulazione. Giochi di parole profondamente bersaniani sullo slogan dell’avversario: «Adesso! E dopo?». Reazioni infastidite alle minacce di rottamazione: «Non è accettabile che ci sia qualcuno che ti dice: tu sei il ramo secco». Il rinnovamento «lo facciamo noi senza bisogno di Renzi». E dunque «le idee di Renzi non sono sovrapponibili alle mie» e fosse soltanto una questione di contenuti, lo è anche nella forma quando la forma è sostanza: «Mi sento lontano dallo stile di Renzi e come si diceva una volta lo stile è l’uomo». Anzi, poiché il sindaco di Firenze si accompagna con certi finanzieri da paradiso fiscale, «chi ha base alle Cayman non dovrebbe dare consigli». Pertanto non venga a dire a noi di mettere tutti i conti on-line, «noi lo faremo, ce li metta lui», con vago riferimento ai viaggi aerei privati. Interessanti anche un paio di uscite di Alessandra Moretti, dello staff del segretario: «Basta lagnarsi». «Maschilista». Più soffice il rapporto con Nichi Vendola perché è «una persona speciale» oppure «una persona splendida» e infatti «abbiamo un rapporto splendido» e alle primarie «deve essere protagonista» dal momento che la nostra è «una competizione fra amici» e siamo «legati da grande simpatia». Io e lui faremo «tanta strada assieme» perché se la sua presenza nella coalizione «spaventa i mercati» ciò dipende da «un pregiudizio». Così, quando il governatore pugliese viene prosciolto, Bersani la definisce «una bella giornata». Non c’era dunque nessuna perplessità, «tra Casini e Vendola mi tengo Vendola». Oddio, «prima Vendola e poi vediamo Casini». «Non facciamo il gioco della torre». E tra Vendola e Renzi? «Voterei Renzi».
"Da Vendola non accetto lezioni di centrosinistra Bersani è una persona seria, un galantuomo, mi fido di lui"
"È inaccettabile che uno ti dica: tu sei un ramo secco Vendola è una persona speciale, ho un rapporto splendido Renzi è una variabile estremista del liberismo Bersani è un amabile socialdemocratico, ma è Golia"

Corriere 24.11.12
Alle urne anche l'ex finiano Campi «Se Renzi perde guidi i moderati»


MILANO — «In questo momento le primarie del centrosinistra sono, assieme al laboratorio dei moderati, l'unico spazio vitale del sistema politico italiano». Alessandro Campi, ex direttore scientifico della Fondazione Farefuturo, anima culturale dei finiani, spiega così la scelta di partecipare al voto in programma domenica. Una scelta annunciata via Facebook e che sul social media è stata oggetto di discussione. «Non faccio nessun endorsement pubblico, vado alle urne come cittadino e intellettuale interessato — precisa il professore di Storia delle dottrine politiche —. Sono stato anche alla convention di Italia Futura a Roma». E spiega: «Non si tratta di cambiare campo, ma di far ripartire la progettualità in questo Paese. Beppe Grillo è un demagogo, per il centrodestra servirebbe l'elettroshock». Se per molti le primarie potrebbero essere solo l'avvio di un grande cambiamento nel panorama politico, per Campi lo sono certamente qualunque sia l'esito del voto. Lo studioso, infatti, in un articolo su Il Mattino ha ipotizzato un passaggio di Matteo Renzi nell'area dei moderati, in caso di sconfitta. «Si tratta solo di un mio ragionamento», spiega. «Renzi ha le capacità di diventare l'uomo nuovo che molti cercano. Se è vera l'indisponibilità di Monti, il sindaco di Firenze scompaginerebbe le carte in tavola: in caso di sconfitta a lui basterebbe prendere atto che la sinistra non vuole cambiare e fare un ulteriore passo avanti». Un'idea che trova le sue basi nei dati snocciolati da una ricerca del Centro Italiano Studi Elettorali: l'elettorato di Renzi sarebbe composto al 50,7% da persone che si collocano nel centrodestra (35,3% di destra e 15,4% di centro). Molti insospettabili, come Sofia Ventura e Giorgio Squinzi, negli scorsi mesi hanno avuto parole d'elogio per il «rottamatore». «Renzi ha un consenso tanto trasversale ed è un bene, la maggioranza relativa dei suoi simpatizzanti è e resta comunque di sinistra», chiosa Campi. Intanto, per i cinque contendenti si gioca lo sprint finale nel convincere gli indecisi (il 12%) a votare: tra loro stravince il partito di coloro che verso le Politiche 2013 allargano al momento le fila di incerti e astenuti (il 65%).
Emanuele Buzzi

La Stampa 24.11.12
Palazzo Chigi i Democratici e gli equilibri oltre le urne
di Marcello Sorgi

Il centesimo che non avrebbe mai investito sull’ipotesi del Monti-bis, Pierluigi Bersani è pronto a scommetterlo su una promozione del premier al Quirinale, come successore di Napolitano. Il leader del Pd (ma non solo lui) ha incassato la presa di posizione del Capo dello Stato, contraria alla candidatura di Monti alla guida dello schieramento moderato, e ha tracciato, in caso di vittoria del centrosinistra, l’ipotesi di una sua elezione alla Presidenza della Repubblica. Da cui poi, par di capire, a Monti toccherebbe varare un governo guidato dallo stesso Bersani.
Ma se l’intervento di Napolitano ha tranquillizzato (per quanto possibile: siamo pur sempre alla vigilia del primo turno delle primarie) il Pd, al centro e a destra la ventilata esclusione del professore dalla prossima campagna elettorale ha creato preoccupazioni. Monti è infatti, non solo per le formazioni centriste, ma anche per una consistente ala del Pdl a cui fanno capo ex-ministri come Frattini e Gelmini, il candidato ideale per tentare il difficile recupero di una tornata elettorale che sembra segnata a favore del centrosinistra. La sua convinta o forzata astensione da una partita così difficile riapre il problema della ricerca di una personalità che sia in grado di federare il centrodestra, in una tornata elettorale in cui, salvo sorprese dell’ultima ora, Berlusconi dovrebbe assumere il ruolo di padre nobile, e Alfano, dopo le primarie del 16 dicembre, quello di candidato premier.
In una situazione così complicata, l’intento di Napolitano è stato invece quello di preservare per Monti la possibilità di essere ancora chiamato a guidare un governo d’emergenza, se i risultati elettorali non dovessero indicare chiaramente una maggioranza nelle nuove Camere. A giudizio del Capo dello Stato il ruolo di presidente super partes di una nuova larga maggioranza sarebbe stato certamente pregiudicato da un’entrata in scena del premier alla guida di uno degli schieramenti in campo, e da una competizione, che si annuncia molto dura, con i leader del centrosinistra e del centrodestra.
Ma Monti stava davvero preparandosi a candidarsi, come chiedevano sia Casini sia Montezemolo e Riccardi? Il presidente del consiglio non ha mai fatto trapelare pubblicamente questa intenzione, ma non l’ha neppure smentita. Resta il fatto che la rinuncia al seggio di senatore a vita, premessa indispensabile per un eventuale inserimento in lista del premier, le rare volte che è stata presa in considerazione s’è rivelata molto difficile. Francesco Cossiga, che ci provò un paio di volte, amava dire ironicamente che per smettere di essere senatore a vita l’unica cosa da fare era togliersi la vita.

l’Unità 24.11.12
Credenti, non credenti e il voto di domani
di Emma Fattorini


DOMANI ANDRÒ A VOTARE BERSANI, UN PO’ DELUSA. PERCHÉ MI SAREBBE PIACIUTO «VOTARLO» INSIEME AD ANDREA RICCARDI E NON A NICHI VENDOLA. Come a tanti, anche a me piace Bersani «come persona» ma è difficile voltarlo con entusiasmo dopo la delusione provocata dalle sue ultime scelte. La scelta di allearsi con forze così lontane dal suo leale sostegno al rigore e all’europeismo di Monti, la scelta di rinsecchirsi in un recinto di sinistra quando tutto è allo sfacelo e, quando, nell’immoralità e nella dissoluzione della politica, avrebbe finalmente avuto l’occasione per quell’incontro con tutti i riformisti, innovatori laici e cattolici che il Pds, Ds, Pd inseguono da sempre (almeno a parole anche se poco nei fatti).
Neanche a me piace parlare di moderati. Alla stessa convention di Riccardi-Montezemolo diversi interventi hanno esplicitamente rifiutato quell’aggettivo, ad esempio negli interventi femminili che hanno polemizzato con il moderatismo in nome di riforme forti e «rivoluzionarie», nella cultura e nelle politiche sociali. O in quello spirito del migliore degasperismo, quello dello «zaino in spalla», che, per senso di responsabilità, innovazione e merito, può aiutare la ricostruzione ben più di stanche e rassicuranti formule di una sinistra conservatrice.
Eppure a me Bersani era piaciuto non solo per la sua affidabile e rassicurante bonomia emiliana, ché da corregionale ne vedevo bene vizi e virtù. A me avevano convinto piuttosto due scelte di fondo coraggiose e generose: il responsabile e leale sostegno a Monti, nonostante l’evidente distanza di cultura politica e questione solo apparentemente minore la sua apertura e disponibilità al dialogo sul tema dei diritti civili, fatta non strumentalmente tanto e solo per «piacere ai cattolici». È questa una questione ben più importante di quanto non sembri, e ripeto non solo perché servirebbe a blandire le gerarchie ma perché metonimica di un atteggiamento di lungo periodo della sinistra, passata troppo disinvoltamente dalla strumentalità interessata o, nei casi migliori, dalla tattica di memoria togliattiana verso le questioni che stanno a cuore ai cattolici a quello pseudo-relativismo radicaloide, riventicativo e scomposto dell’ultimo decennio. Nelle posizioni di Bersani su quei temi coppie di fatto, fine vita, legge 40 ho visto invece una convinzione sincera: l’idea che davvero credenti e non credenti abbiano più cose in comune di quelle che li dividono. E, andando indietro con la memoria, mi sono ricordata che tanti, ma tanti anni fa era lui quell’esponente del Pci che a Bologna a un dibattito sulla teologia e la vita mi poneva interrogativi davvero interessati sul personalismo cristiano. Che fosse di animo fine, del resto, sono in tanti a dirlo.
Insomma con il passare del tempo Bersani sembrava far digerire (anche se molto a malincuore) il fallimento di un partito davvero post-comunista, autosufficente, moderno, innovatore, capace di parlare ai moderati, cioè quell’ultima speranza che aveva dato Veltroni che si potessero riprendere i fili delle migliori attese fiorite dopo l’89. Un partito in cui anche i cattolici potessero davvero trovare il riconoscimento dei loro valori, e che questo si riducesse solo a una rivendicazione di posti di potere. E la forza del fenomeno Renzi sta tutta nel fallimento di quel tentativo.
Finita dunque quell’ultima illusione, il Pd, più realisticamente sembrava riposizionarsi sulla vecchia idea di un partito di ispirazione socialdemocratica, ma con dignità e realismo. Sempre meglio di quella estenuante guerra di logoramento interna che aveva paralizzato, senza una linea e una identità, la sinistra italiana per decenni. Esempio di irresponsabilità della sua classe dirigente che andrebbe rottamata per questo e non per l’età. Per l’arroganza con cui ha preso in giro la sua base per decenni. E per avere illuso che davvero penso ai cattolici ci sarebbe potuto essere uno spazio reale per loro, per le loro idealità e convinzioni.
Insomma fine di un’illusione, ma con dignità, questo aveva rappresentato Bersani.
Ora vedo il rischio che sperperi anche questo patrimonio, per la consueta, arcaica paura della sinistra di avere qualcuno alla sua sinistra. Fallita l’idea di un partito riformista e liberal, disposto a ripensare davvero a fondo il ruolo del sindacato perché, anziché legarsi alla sinistra radicale non assomigliare allora sul serio a una Spd, che quella sinistra tiene distinta e distante?

l’Unità 24.11.12
Se l’Avvenire mette in mora i moderati
di Michele Prospero


Venti freddi di recessione, con picchi paurosi di disoccupazione e zone di sterminato disagio giovanile, continuano ad abbattersi sulla vecchia Europa, incuranti delle costose politiche del rigore. Su Avvenire di ieri, a firma di Leonardo Becchetti e Giancarlo Marini, è apparso un importante editoriale.
Un articolo che senza alcuna reticenza denuncia la piaga europea di un’austerità miope che scorre priva di ogni efficacia terapeutica e aggrava ancor più il malessere sociale. Al centro della riflessione è collocato il fallimento delle (non) politiche di rigore che non riescono ad addomesticare lo spread e quindi a favorire la crescita economica. Nel loro impatto reale, le misure imposte ai paesi affogati dal debito si convertono anzi in un paradossale e inopinato trasferimento di risorse. Come un mostro famelico, l’austerità toglie le esigue risorse ai Paesi in ginocchio per darle in dono a quelli che versano in condizioni competitive migliori. I governi delle nazioni più ricche, e per ora risparmiate dall’emergenza, solo per mantenere il consenso in vista delle imminenti elezioni, giocano con il demone della crisi (e civettano con la speculazione sul debito sovrano) e ostruiscono ogni percorso per una risposta europea alla crisi.
Il quotidiano cattolico rivela con acutezza la perversione del meccanismo ora vigente: ai Paesi più indebitati vengono richieste sempre nuove prestazioni eccezionali per migliorare subito i loro conti. Con tagli, rinunce ai diritti fondamentali e sacrifici sopportati in nome di un risanamento obbligato, i Paesi marciano diritti verso la cupa recessione. E così proprio la caduta della spesa pubblica, suggerita per mostrare agli investitori globali segnali di ravvedimento, fa precipitare entro una decrescita paralizzante. Il combinato maldestro di tagli, debito e recessione non fa altro che confermare il ritardo dei Paesi colpiti dalla crisi e aggravarlo nel tempo per la sconfortante mancanza di ogni segnale di crescita.
Il rigore è per certi versi l’arma impropria brandita dai Paesi più ricchi che, grazie all’austerità richiesta come abito per gli altri, accumulano un plusvalore competitivo e lo mantengono ben saldo, almeno finché la caduta generalizzata dei consumi non provocherà recessione anche nei loro confini. Un’Europa che si rivela come un arido terreno di conflitto tra opposte volontà di potenza è ben lontana dall’essere una area politica e sociale omogenea. Per questo Becchetti e Marini invitano a rompere un tabù quando se la prendono con «i sacerdoti del rigore» incapaci persino di presidiare l’integrità dell’euro dagli attacchi speculativi.
La disciplina fiscale concordata ai tempi di Maastricht, quando però i singoli Stati conservavano ancora intatta la sovranità sul fisco e sulla moneta, si rivela ormai una camicia di forza. È chiaro che così, sfidando anche l’idolo del Fiscal Compact («una cambiale in bianco agli speculatori da parte dei paesi sotto attacco»), gli editorialisti di Avvenire invitano ad entrare in un terreno minato, da attraversare con estrema cautela per non saltare in aria sotto l’accusa di completa inaffidabilità economica. Eppure, nell’agenda di una sinistra europea che sia degna di questo nome, non può essere a lungo cancellato l’appuntamento con una seria e anche consensuale rivisitazione di accordi che proceda con le accurate revisioni istituzionali, con le delimitazioni delle nuove funzioni della Bce.
Occorre un governo della ricostruzione che lavori in Italia per definire misure di equità e per sviluppare nel contempo agganci solidi in Europa per evitare costosi e impossibili atti unilaterali. A questo riguardo, Alfredo Reichlin l’altro giorno su l’Unità poneva degli interrogativi molto impegnativi ad un mondo cattolico agitato dalle sirene che accompagnano le tristi tentazioni neo-moderate. Questo editoriale di Avvenire fornisce in fondo una risposta alle preoccupazioni di Reichlin, a conferma che nell’arcipelago del cattolicesimo democratico abita una forte sensibilità sociale che lo proietta ben oltre la foresta del moderatismo e del liberismo comunque riverniciato.
La crisi drammatica che sconvolge l’Europa, generando abissali esclusioni e nuove povertà, non si placa certo inseguendo il piffero di qualche ricco manager illusionista che combatte le politiche di inclusione e promette una terza repubblica a salda conduzione tecnica. Per un governo della ricostruzione che nel rispetto dei vincoli di bilancio abbozzi anche politiche macroeconomiche, sostenga la domanda interna e sfidi i dogmi del liberismo e della «non-politica» europea, la confluenza organica del cattolicesimo democratico con le culture politiche progressiste è nell’ordine naturale delle cose.

l’Unità 24.11.12
Studenti e prof di nuovo in piazza
Oggi la manifestazione a Roma. Tensione per il corteo di Casapound
Contro la sfilata dei «fascisti del terzo millennio» si è mossa anche l’Anpi
Nelle strade i «book block». Il prefetto: «Niente zona rossa. Ma nessuno arriverà fino ai palazzi del potere»
di Luciana Cimino


Nessuna zona rossa, ma i palazzi del potere restano blindati. Oggi la scuola torna in piazza. Studenti e universitari si ritroveranno a Piramide per poi confluire verso il centro. Il prefetto Pecoraro non chiuderà la città, ma ha fatto sapere che alcuni luoghi saranno inviolabili e non saranno tollerati caschi o travisamenti. Allarme per il corteo di Casapound autorizzato dalle autorità.

Nessuna zona rossa è prevista per oggi in una Capitale invasa dai cortei. Ma i cosiddetti palazzi del potere rimarranno comunque fuori dalla portata dei manifestanti. «Non facciamo zone rosse, autorizziamo solo itinerari chiesti. Se qualcuno all’improvviso scende in piazza senza autorizzazione ci saranno contromisure». Il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, è chiarissimo.
Oggi alle 9.30 gli studenti e universitari si ritroveranno a Piramide e poi sfileranno verso il centro della città. Non hanno mai nascosto di voler arrivare sotto il Parlamento, anzi lo hanno annunciato anche ieri premettendo che «la violenza del 14 novembre non ci ha messo paura». «Percorreremo le strade del centro, saremo imprevedibili nell’attraversare la città e porteremo in piazza le pratiche che appartengono al movimento studentesco annunciano gli studenti di Link arrivare ai palazzi del potere, occupare luoghi significativi, segnalare le banche in quanto responsabili della crisi, bloccare la città». I book block, gli scudi di cartone e gommapiuma a forma di libro, ci saranno. «Torneremo in piazza con i book block, uno strumento con cui abbiamo difeso i nostri corpi e più volte provato a violare insensate zone rosse aggiungono porteremo anche i caschi, avendo sperimentato sulla nostra pelle la violenza ingiustificata delle forze dell’ordine». E insistono nel dire che sarà una protesta pacifica. Dal canto suo il prefetto Pecoraro, comunicando alla stampa che finora le forze dell’ordine non hanno indizi di una regia di scontri, risponde agli studenti: «i luoghi sacri della democrazia sono inviolabili».
Tuttavia apre a delle delegazioni, che in piccolo gruppo potrebbero incontrare oggi alcuni rappresentanti delle istituzioni. Chiusura netta invece verso «chi si presenta con scudi, martelli e caschi: ha ben altre intenzioni». E precisa: «il travisamento con il casco, come ogni sorta di travisamento, è punibile. Chi lo indossa se viene identificato sarà invitato a toglierlo, altrimenti è denunciabile». «Vorrei assistere a un corteo pacifico in cui si possano esprimere le proprie idee nel rispetto della legge e non a episodi negativi come quelli della settimana scorsa» ha detto Pecoraro, spiegando che «chi ha voluto gli scontri, e non sono state certamente le forze dell’ordine, ha fatto sì che l’attenzione dell’opinione pubblica si concentrasse sugli scontri stessi e non sui motivi della protesta». E ribadisce con chiarezza: «non abbiamo nessun interesse a determinare situazioni conflittuali ma non possiamo permettere che gli agenti siano lasciati alla mercé dei violenti». Le forze dell’ordine capitoline saranno impegnate su più fronti.
Ma oltre al corteo degli studenti,
oggi è previsto anche dalle 10 alle 14 un sit-in di professori e precari davanti il Ministero dell’Istruzione, poi il grande raduno della Flc-Cgil per in difesa della scuola pubblica (al quale hanno aderito anche Vendola, Ferrero, Di Pietro) in piazza Farnese, il corteo dei Cobas, quello dei neofascisti di Casapound, da piazza Mancini a Ponte Milvio, e il contro sit–in antifascista a Piazza dell’Esquilino.
Per adesso il dispositivo previsto dalla questura è quello ordinario. Contingenti a controllare testa e coda del corteo e nuclei mobili, palazzi istituzionali presidiati, cassonetti tolti in alcuni punti strategici. Blindato il centro storico. Nonostante le poteste di cittadini e associazioni (prima fra tutte l’Anpi ma in rete era nato anche un appello ad Alemanno «Contro i cortei neofascisti in città») la sfilata dei «fascisti del terzo millennio», come si autodefiniscono i militanti di CasaPound, non è stato bloccata. Ieri anche il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici aveva chiesto «al Prefetto di revocare l’autorizzazione alla manifestazione di Casapound, con tanto di candidatura alle amministrative. Questa è la ricostituzione del partito fascista ed è un reato».
Ma Pecoraro risponde che non si può. «Non abbiamo motivi di ordine pubblico né motivazioni per applicare la legge Scelba che possano autorizzare un divieto. Casapound ci ha chiesto un itinerario che poi abbiamo modificato in modo da evitare interferenze, riteniamo che possa essere pacifico». Dal canto suo il movimento di Gianluca Iannone annuncia che arriveranno in queste ore a Roma diversi pullman di militanti da tutta Italia per sfilare, «contro il governo delle banche di Monti». «Nessuna interferenza con i neofasciti», dicono intanto gli studenti ma annunciano che il loro corteo sarà caratterizzato da una «forte impronta antifascista».

La Stampa 24.11.12
La rivolta delle divise “Noi pronti a scansarci”
Monta la protesta tra le forze dell’ordine: “Non siamo tutelati”
di Francesco Grignetti


Finora era una provocazione di Beppe Grillo. «Soldato blu - aveva scritto sul suo blog il giorno dopo gli scontri di Roma non ti senti preso per i fondelli a difendere l’indifendibile, a non schierarti con i cittadini? Togliti il casco e abbraccia chi protesta, cammina al suo fianco». La notizia è che sta succedendo. Non perché poliziotti e carabinieri siano di colpo diventati grillini, ma perché il malumore dentro le forze di polizia è esploso oltre ogni limite. E così il 90% dei celerini a inizio settimana ha chiesto un giorno di ferie per evitare il servizio di piazza: protesta clamorosa, ma simbolica. Le ferie sono state respinte; gli agenti saranno al loro posto. Ma intanto il segnale è arrivato ai piani alti del Viminale. Il Cocer dei carabinieri, a sua volta, scrive: «Siamo del parere che il personale delle forze dell’ordine che deve difendere i palazzi del potere debba invece essere pronto a togliere i cordoni e scansarsi all’arrivo dei manifestanti facinorosi».
Clamoroso. Oggi si attende u n’e n n e s i m a giornata difficile per l’ordine pubblico, il ministro Annamaria Cancellieri non perde occasione per dire quanto sia «preoccupata» dalla deriva violenta delle proteste e ora, in tutta risposta, dalla pancia della polizia e dei carabinieri si alza un vero e proprio ruggito di rabbia. «Quelle parole sul numero di identificazione da mettere sui caschi - spiega Felice Romano, segretario del Siulp - hanno toccato un nervo delicatissimo. La Cancellieri non s’è resa conto che andava a intaccare l’ultima riserva morale dei nostri: l’orgoglio di servire lo Stato. Certo non è per uno stipendio da fame che si fa questo lavoro. Da qualche anno, poi, non c’è provvedimento che ci lasci in pace. La gente in divisa non ce la fa più. Restava l’orgoglio. Quando invece si inverte l’onere della prova, e con questa storia del numero identificativo si manda il segnale che deve giustificarsi chi è in piazza per garantire il rispetto delle leggi, e non chi arriva per scassare tutto, allora salta il tappo».
Gli fa eco Alessandro Rumore, appuntato dei carabinieri, delegato del Cocer: «Il carabiniere, quando torna a casa, e si sveste della divisa, è un italiano qualunque con i problemi di tutti. Figurarsi se non capisce la rabbia di chi ha perso o non trova il lavoro. Ai manifestanti, tra i quali potrebbero esserci i nostri figli, diciamo che siamo al loro fianco poiché i loro problemi sono anche i nostri. Con l’aggravante che alla fine ci ritroviamo ad essere abbandonati dal ministero dell’Interno e attaccati da opinionisti ignoranti in materia. E mentre veniamo mandati in piazza a prendere le botte, vediamo contestualmente approvare provvedimenti per noi oltremodo penalizzanti».
Il documento del Cocer, al riguardo, trasuda furia. «Dopo aver appreso che bisogna essere numerati come altri uomini che fanno tornare alla mente epoche tragiche del passato per essere picchiati e poi magari ricevere un premio in danaro».
Potrebbero sembrare parole sopra le righe. Ma il paradosso è che in questi giorni sono proprio i sindacalisti con le stellette a frenare la rabbia dei loro colleghi. Tra i celerini si è sfiorato l’ammutinamento. È circolata persino la propostachoc di mettere un punto interrogativo sul casco e presentarsi così agghindati in piazza. «Sarebbe stato un errore clamoroso - spiega Felice Romano - e li abbiamo dissuasi. La polizia non si può permettere di apparire men che affidabile».
Il punto è che polizia e carabinieri chiedono maggiore attenzione al governo. L’elenco delle doglianze è lunghissimo, dallo straordinario non pagato alle qualifiche non rispettate, ai turni che diventano sempre più pesanti per via dei buchi in organico, all’ultima questione delle pensioni. In piazza chiedono più tutele. Una delle misure legislative che hanno quasi «preteso», è l’arresto in flagranza differita per i violenti di piazza. Ha funzionato allo stadio, vogliono che sia esteso alle manifestazioni. I sindacalisti sciorinano alcuni numeri: nel 2010 ci sono stati 122 feriti tra le forze dell’ordine per incidenti in manifestazioni sportive; due anni dopo i feriti si sono dimezzati grazie al Daspo e all’arresto in flagranza differita. Per le manifestazioni di piazza, invece, i feriti sono passati da 260 (2010) a 711 (2011). E il trend peggiora. «Il disagio tra noi è fortissimo - conferma Nicola Tanzi, Sap - e c’è necessità di leggi più adeguate. Insistiamo: serve il fermo preventivo di chi si presenta travisato in piazza».

il Fatto 24.11.12
Giuseppe De Rita
“Siamo senza talento, anche per il crimine”
intervista di Antonello Caporale


Siamo una società di coriandoli. Linguette di carta che volano ciascuna per suo conto e si disperdono senza mai ritrovarsi. Una società di pesi piuma, senza grandi talenti, senza molti pensieri”.
Addormentati.
“Manca il conflitto sociale”.
Purtroppo o per fortuna?
“Il conflitto esibisce un pensiero, garantisce una riflessione, muove intelligenze, cambia la società. Il conflitto è benefico”.
Non c’è conflitto, ma c’è violenza.
“No, neanche questo è vero. La suggestione è frutto di una rifrazione mediatica, quasi un effetto ottico. Episodi singoli, onde emotive, sprazzi violenti in una società piuttosto vecchia e stanca, che ha corso troppo ed è ancora relativamente agiata”.
Le squadracce naziskin che puntano il coltello alla gola dei tifosi inglesi, la crudeltà delle parole che conducono al suicidio un ragazzino, la guerriglia per strada e i manganelli che la polizia esibisce nelle piazze, la criminalità organizzata che domina fette intere di territorio. Tutto insieme e tutto oggi. Troppo, e tanto da far paura. Giuseppe De Rita, che studia l’Italia con la cura e la precisione di un entomologo, invita a non esagerare. Conosce ogni sbuffo del Paese, i mal di pancia, gli sguardi rabbiosi e quelli indolenti. A volte lo vezzeggia come fosse un fanciullino, altre, ed è questo caso, lo stordisce con un ceffone sonoro.
“La violenza può essere un effetto collaterale di un conflitto sociale, di una crepa che si manifesta nella società, e di un pensiero organizzato che si contrappone a un altro. Col Sessantotto è nata l’Italia nuova, le piccole aziende, i grandi numeri del sommerso. Quello era un conflitto autentico. La storia patria dell’ultimo cinquantennio è figlia di quel conflitto. Oggi purtroppo non è così. Ignava quando non pigra, non conosce che la solitudine. Questi sono picchi di rabbia, piccole onde isolate”.
Ci sarebbe da rallegrarsene.
“Niente affatto. Marcuse illustrava questa nostra età, del cosiddetto tardo capitalismo: moltiplica l’offerta e distrugge il desiderio. Ecco, questa è una società senza desiderio, senza rabbia organizzata né un’idea condivisa di futuro. Siamo soli ma senza solitudini; soli e senza desideri”.
Disperazioni singole.
“Ci sono migliaia di precari, ma ciascuno vive la sua difficoltà nel silenzio della sua stanza, della sua casa. Nessuno riconosce come propria la precarietà dell’altro, non la identifica, non avverte relazione né connessione, e la sua difficoltà resta una questione domestica, un dilemma personale, una disgrazia singola. E la rete non collega i sentimenti e per di più azzera le relazioni fisiche. Siamo più vicini eppure molto più lontani l’uno dall’altro”.
Viva il conflitto!
“Il conflitto per essere vero ha bisogno di un pensiero, di una riflessione profonda. E il conflitto è benefico, serve alla società perchè la ristruttura, fa emergere idee e gambe. Uomini nuovi”.
E tutti questi coltelli in giro? E le botte da orbi per strada?
Questi che fenomeni sono?
“Magari mi iscriverete fra i beoti ottimisti, ma questi non sono sintomi di un conflitto, piuttosto enzimi di un disagio che la crisi tende a espandere. Non da sottovalutare ma non in grado di farmi dire: l’Italia è divenuta un Paese violento”.
La paura come effetto ottico?
Tipica rifrazione mediatica. Le cosiddette bolle. Si estremizzano e si rendono di massa particolari picchi emotivi”.
I continui disordini di piazza li rubrichiamo come picchi emotivi?
“Ricordo quando partecipai alle proteste per Trieste italiana. Botte da orbi per strada, eppure quella fu una ragazzata, non una cosa seria”.
Ah, ecco.
“Pensi se l’opposizione al berlusconismo si fosse tradotta in atti violenti. Immagini se i girotondi avessero deciso una battaglia anche fisica. Ecco, in quel caso”.
Meno male che non è stato così.
“Anch’io dico meno male. Non fraintenda. Non è che non veda il disagio o questi episodi. Ma la violenza è un’altra cosa. Mi pare più grave che non esista il conflitto, perchè significa che i gruppi sociali non hanno capacità di analisi, né profondità. Amico mio, siamo ancora parecchio immersi nell’agio”.
Italia in poltrona. “Ecco, mediamente in poltrona, asfittica, senza slancio e senza idee. Siamo una società a coriandoli: l’uno disperso per aria segue una sua propria traiettoria. Mille e mille coriandoli in cielo, ognuno per la sua via aerea”. Ci vuole talento anche per essere dei criminali.
“Anzitutto ci vuole organizzazione. Infatti si dice criminalità organizzata. Ed ha un senso definirla così”.
Non c’è consolazione.
“Mi pare proprio di no”.

Corriere 24.11.12
L'odio cieco degli ultrà senza politica
di Giovanni Bianconi


Destra e sinistra perdono importanza, il collante è la provenienza dai quartieri
ROMA — Quando sono andati a perquisire le case dei fermati, presunti aggressori del pub «Drunken Ship», i poliziotti non hanno trovato alcun indizio di militanza politica. Niente estrema destra, nessun riferimento a ideologie antisemite. Uno dei due arrestati — sostengono alla Digos — sarebbe vicino al gruppo di tifosi romanisti «Offensiva Ultras», ed era noto per aver partecipato ad alcuni scontri del 2006 che gli valse il divieto di entrare allo stadio. Ma dai reati contestati fu assolto, precisa il suo avvocato, e il divieto revocato.
Sei anni dopo, quel ragazzo di 27 anni di cui l'unica militanza conosciuta è quella nel tifo giallorosso (e c'è chi afferma che sia un «cane sciolto», senza legami coi gruppi organizzati) si ritrova coinvolto nel raid contro i supporter inglesi. Che col passare delle ore sembra assumere una colorazione più «sociale» che razzista. Più di appartenenza identitaria che a schieramenti ideali: ultrà di casa nostra contro ultrà britannici, senza distinzione tra una squadra e l'altra se sarà dimostrato che al fianco dei romanisti c'era pure qualche laziale. Gli investigatori che si occupano di tifo estremo studiano da tempo le dinamiche delle curve, e per quella di marca giallorossa sono giunti a una conclusione: le adesioni politiche che negli anni passati erano inizialmente orientate in prevalenza a sinistra e successivamente a destra, negli ultimi tempi hanno lasciato il posto a un sentimento di ribellione e protesta generalizzata che supera le barriere ideologiche. Un oltranzismo indirizzato essenzialmente contro le forze dell'ordine, simbolo dell'istituzione contrapposta alla cosiddetta «mentalità ultras».
Del resto la militanza politica ha perso buona parte del suo fascino in tutta la società civile, ed è naturale che ciò sia avvenuto anche in quello spicchio molto particolare che sono le curve degli stadi, dove dentro si può trovare di tutto. Miscelato secondo regole non sempre chiare. Tra chi aveva un'identità politica c'è chi l'ha conservata, ma al momento degli scontri passa in secondo piano. Che si debbano affrontare «le guardie» o i sostenitori delle squadra avversarie, come l'altra notte. Prevale l'alleanza contro il nemico comune, la rivolta violenta come valore in sé, che dà luogo a strane commistioni. Capita così che militanti di destra e di sinistra si ritrovino al fianco di chi non s'è mai interessato di partiti, e che i romanisti ingaggino battaglie insieme ai laziali, uniti dalla frequentazione dello stesso ambiente: un quartiere, una periferia, un qualsiasi luogo di ritrovo o aggregazione. E se c'è da assaltare un bar con gli inglesi dentro, magari per vecchie ruggini, o da fronteggiare un muro di celerini, si va insieme.
Il gruppo «Offensiva ultras», al quale secondo gli investigatori faceva riferimento uno dei fermati per l'aggressione di giovedì notte, potrebbe essere un esempio di questa evoluzione. A giudicare dalle foto della curva Sud sembra frequentato da estremisti di destra: lo striscione esposto nella parte bassa degli spalti appare spesso affiancato da qualche croce celtica, e alcune scritte sui muri sono accompagnate dal fascio romano stilizzato. Poi però, tra gli imputati per gli scontri alla manifestazione degli Indignati del 15 ottobre 2011 (quella terminata con la camionetta dei carabinieri data alle fiamme in piazza San Giovanni) figurano due ragazzi di 20 e 27 anni appartenenti proprio a «Offensiva». Strano, visto che quell'appuntamento era stato indetto dalla sinistra più estrema e arrabbiata. Meno strano se si considera che nei tumulti furono coinvolti ultras di altre squadre venuti da città come Livorno, Ancona, Teramo. Tifoserie notoriamente catalogate a sinistra, ma è probabile che in quell'occasione la calamita fosse più la prospettiva di battagliare con gli sbirri che non la proposta politica sottesa al corteo.
Pochi giorni fa, all'indomani del derby Lazio-Roma, è stato arrestato un altro tifoso ritenuto affiliato a «Offensiva ultras». Ha 23 anni, ed è accusato di aver lanciato una molotov contro le forze dell'ordine: azione tipica di una manifestazione politica d'altri tempi più che di disordini da stadio, dove solitamente compaiono armi improprie di diverso tipo. Il processo dovrà stabilire se è davvero colpevole, lui come gli altri inquisiti per i tanti episodi di violenza legati al tifo. Che certamente possono avere anche connotazioni politiche o razziste. Ma il collante nella maggior parte dei casi pare diverso. Qualche settimana fa alcuni gruppi di laziali avevano preparato un'accoglienza poco amichevole per i sostenitori del Panathinaikos che in quell'occasione erano spalleggiati dai romanisti. Ma al momento di partire all'attacco hanno trovato i reparti schierati dalla polizia, che era riuscita a intercettare i piani di battaglia. E non è successo quasi niente.

l’Unità 24.11.12
Antisemitismo Fatti e opinioni
di Moni Ovadia


IL LETTORE DI QUESTO GIORNALE SA CHE SONO UN SUO COLLABORATORE CON UNA RUBRICA SETTIMANALE E CON QUALCHE ALTRA RAPSODICA «INCURSIONE» CHE MI VIENE RICHIESTA DI TANTO IN TANTO. Spesso approfitto dello spazio concessomi per scrivere di Medioriente e specificamente di conflitto israelo-palestinese (fatto). Ogni volta che, sulla dolorosa questione, esprimo le mie idee strettamente personali e, ribadisco «strettamente personali» perché non rappresento nessuno, piovono contro di me le accuse di ebreo antisemita, nemico del popolo ebraico o traditore (opinioni).
Questo avviene tramite mail, post e dichiarazioni su vari blog e siti inviatimi da fanatici, farabutti o sbroccati di varia risma (opinione). Alcune persone, sia amici che detrattori, ritengono che ciò che dico e penso, anche a causa della passione partecipante con cui mi esprimo, abbia un’influenza rilevante a causa della mia notorietà e che quindi dovrei essere cauto (opinione). Io sostengo invece che ogni essere umano, in democrazia, sia libero di esprimere come meglio crede le sue idee (opinione) e se coloro che non le condividono o vi si oppongono ravvisano nei suoi discorsi i reati di istigazione all'odio o al razzismo, possono rivolgersi all'Autorità giudiziaria per denunciarlo (fatto) in luogo di spargere vigliaccamente ripugnanti accuse protetti dalla libertà della rete (fatto). Sono ebreo e, a mio modo, ho dedicato trent'anni e più della mia vita professionale e di studio, alla cultura ebraica della Diaspora in particolare quella yiddish (fatto). Ho contribuito alla diffusione dei suoi valori e della sua espressività nel mio Paese (fatto). Antisemitismo è sottocultura dell'odio e della violenza contro gli ebrei (fatto) ed io ho sempre combattuto con tutte le mie forze quest’ideologia criminale come ebreo e come essere umano (fatto).
Ho invece criticato aspramente le politiche di molti governi israeliani (fatto). Esponenti istituzionali e della destra e dell'estrema destra e loro sostenitori in Israele e nella Diaspora, sostengono che chi professa posizioni politiche radicalmente avverse alla loro, sia antisemita tout court (opinione). Io penso invece che costoro siano fanatici, affetti da cortocircuiti psicopatologici o, peggio, siano dei fascisti (opinione). Non ho mai messo in discussione il diritto di Israele all'esistenza, né la sua piena legittimità (fatto), in primis perché la proclamazione e la nascita dello Stato di Israele è stata sancita a grande maggioranza da una risoluzione dell'Onu (fatto) e io credo al valore della legalità internazionale pur riconoscendo gli enormi limiti che limitano l'efficacia dell'azione degli organismi preposti alla sua tutela (opinione). Altresì condivido l'assioma che non possa essere messo in discussione l'inviolabile diritto a tutelare la sicurezza dei propri cittadini per ogni nazione, nessuna esclusa (fatto). Nethanyahu, Lieberman e i loro ultras invece praticano il credo che al governo israeliano sia sempre e comunque consentito violare il diritto internazionale (fatto). Condannano giustamente il lancio di razzi da parte di Hamas sulle città israeliane (fatto) e gli attentati terroristici (fatto), ma hanno trovato giusto blindare Gaza come in una gabbia con un blocco totale, compreso quello navale, glissando sulle convenzioni che considerano l'assedio un atto di guerra (fatto). Praticano l'occupazione e la colonizzazione di terre dei palestinesi con ininterrotto accanimento (fatto), li espropriano dalle loro case a migliaia o le demoliscono (fatto), li cacciano dalle loro terre e gliele rubano (fatto), razionano loro l'acqua (fatto), praticano durante le operazioni militari stragi di civili e punizioni collettive che rende un inferno la vita della popolazione inerme, in particolare quella dei bimbi (fatto), hanno instaurato un apartheid de facto e promuovono l' «ebraizzazione» di Gerusalemme con continue requisizioni (fatto). Questi sedicenti democratici promuovono, senza se e senza ma, questi abusi e criminalizzano chi li condanna con l'infamante calunnia di antisemita (opinione). Ma se stare dalla parte degli oppressi, dei discriminati, dei segregati, chiunque essi siano e chiunque sia l'oppressore è antisemitismo, allora sì, lo confesso, sono un ebreo antisemita (opinione e fatto).

l’Unità 24.11.12
Femminicidio: ribelliamoci ora
di Roberta Agostini


Sono più di cento le donne uccise fino ad oggi nel nostro paese. Dal sud al nord senza distinzione di nessun tipo, reddito, livello di istruzione, etnia, appartenenza religiosa. Un solo elemento unifica queste morti: sono tutte o quasi state uccise da chi conoscevano, il partner, un familiare, un cosiddetto amico.
Uccise perché donne, ma in realtà i dati non li conosciamo veramente perché non abbiamo un sistema informativo che ci consenta di monitorare il fenomeno nei suoi diversi aspetti. L’ultima ricerca approfondita l’ha fatta l’Istat nel 2007. L’anno dopo un gruppo di giornaliste e scrittrici ha pubblicato un libro «Amorosi assassini» analizzando per un anno le pagine dei quotidiani e raccogliendo in ordine cronologico, mese per mese, circa trecento casi di violenza e tracciando una terribile e dolorosa fotografia della vita e della morte di quelle donne.
Ma quante rimangono in silenzio? Le donne pagano con la vita per aver detto un no, quel «no» che fu pronunciato da Franca Viola tanti anni fa, che ha cambiato i rapporti tra uomini e donne nel Paese, ma che ancora non si è affermato, così come le parole autonomia ed eguaglianza.
Intorno a questo 25 novembre ci siamo ritrovate in tante occasioni, associazioni, ong, donne impegnate nella politica e nelle istituzioni per discutere di come rilanciare la battaglia contro la violenza. Un primo obiettivo concreto, importantissimo è stato raggiunto anche grazie al nostro impegno parlamentare e alla raccolta di firme che abbiamo promosso in molte città: il governo il 27 settembre scorso ha firmato la convenzione di Istanbul e dobbiamo fare in modo che la legge di ratifica venga approvata entro la fine di questa legislatura, dotando il nostro Paese di uno strumento essenziale di contrasto alla violenza.
In più occasioni dalla presentazione della convenzione «No more», promossa da numerose ed importanti associazioni, alle iniziative di «Se non ora quando», fino alla presentazione della proposta di legge del Pd al senato ci siamo tutte dichiarate d’accordo sul fatto che la violenza non è un fatto privato e non è neppure un’emergenza, ma un dato strutturale in una società che pone donne ed uomini in una relazione di disparità e di dominio.
Per combatterla servono politiche concrete in un’ottica multidisciplinare ed integrata: serve uno sforzo coordinato tra enti locali e livelli nazionale e sovranazionale. Serve una rete forte e sinergica tra i diversi attori del contrasto: centri antiviolenza, magistratura, forze dell’ordine, presidi sociali e sanitari e serve la loro formazione aggiornata e costante. Servono risorse per le politiche di accoglienza delle vittime (in Italia ci sono 500 posti letto e ne servirebbero 5000) e per le politiche di prevenzione. Serve una cultura nuova e diversa di educazione alla parità e al rispetto, una battaglia della quale dovrebbero essere protagonisti la scuola, gli insegnanti, i ragazzi ed i mass-media, tutti. Di fronte ad un fenomeno tanto complesso, le politiche giudiziarie e di sicurezza possono essere una risposta solo molto parziale.
Serve una reazione civile, una nuova consapevolezza dell’autonomia e della libertà femminile, dalle quali nascono nuove relazioni tra uomini e donne che poggiano sulla reciprocità, sul rispetto e non sul dominio. Un riconoscimento reciproco tra uomini e donne fondato sul senso dei propri limiti.
Domani sceglieremo il futuro candidato alla presidenza del consiglio, ma saremo uniti, uomini e donne, per ribadire il nostro impegno costante contro la violenza.

l’Unità 24.11.12
Accendere la luce sulla violenza. Domani le donne si mobilitano
di Cristiana Cella


Per troppi anni le donne italiane vittime di violenze, intimidazioni e umiliazioni, sono state private della loro libertà e dei loro diritti, nascoste sotto un burka fatto di paura, ignoranza, omertà, vergogna, silenzio. E il silenzio è anch’esso violenza. Per anni, violenze psicologiche e fisiche, fino agli omicidi, sono state rinchiuse nell’ambito ambiguo del privato, nella colpevole tolleranza di una cultura distorta e diffusa, nella palude del sommerso. Non esistono neppure dati certi. Nell’unica ricerca del 2007, dell’Istat, si parla di 6 milioni di donne vittime di stupro, minacce e molestie. Quasi sempre ignorate. Si è giustificata la violenza con la gelosia, la passione, il dolore di essere abbandonati. Le parole sono importanti, hanno conseguenze e l’amore non ha nulla a che fare con la violenza. Le cose, adesso, cominciano finalmente a cambiare, grazie alla tenacia di donne coraggiose, che hanno continuato a denunciare, proteggere e combattere, nelle loro vicende personali, nelle associazioni, nei media e nei Centri Antiviolenza. La parola femminicidio è entrata con forza nel vocabolario, come «specifico reato e crimine contro l’umanità», come scrive Barbara Spinelli.
Nel 2012 l’Italia è scesa dal 74° all’80° posto – dopo il Ghana e il Bangladesh – nella classifica del Gender Gap Report sulla condizione della donna nel mondo, stilata dal World Economic Forum. Nel 2011 e nel 2012 le nazioni Unite e il Comitato Cedaw hanno redarguito il nostro Paese, preoccupati non solo per la diffusione della violenza contro donne e bambine e per l’elevato numero di femminicidi ma anche per « il persistere di tendenze socio-culturali che minimizzano o giustificano la violenza domestica».
Nel testo della Convenzione «No more» (www.nomoreviolenza.it), promossa da diverse associazioni di donne si chiede al Governo di verificare l’efficacia del Piano Nazionale contro la violenza varato nel 2011, perché la protezione della vita e della libertà delle donne diventi subito priorità dell’agenda politica. La prima risposta è stata quella del Presidente Napolitano che ha mandato ieri una lettera di ringraziamento al Cooordinamento delle Associazioni promotrici. Cinquanta parlamentari hanno, intanto, aderito all’interpellanza lanciata da Rosa Callipari del Pd.
La data di domani non sarà più solo una ricorrenza formale e scomoda. Ma una giornata di mobilitazione nazionale per divulgare, riflettere e trovare soluzioni concrete. Urgenti, perché il fenomeno non fa che aumentare. In media ci sono più di 100 femminicidi all’anno, quest’anno, siamo già a 115, una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Secondo le anticipazioni dei dati 2012 di Telefono Rosa questo tipo di abusi, all’interno dei rapporti amorosi, ha raggiunto l’85% di tutte le violenze, il 3% in più del 2011. Per il 25 novembre, Telefono Rosa ha organizzato al Centrale Teatro Preneste, a Roma, alle ore 10, uno spettacolo (15 22, scritto da Pina Debbi, regia Tiziana Sensi; titolo che prende spunto dal numero nazionale antiviolenza che dal 19 dicembre sarà gestito da Telefono Rosa) per far conoscere e riflettere sul fenomeno. Moltissime le iniziative di associazioni di donne per accendere i riflettori sulla ‘normalità’ di questa inaccettabile tragedia che si consuma ogni giorno.
Far luce e trovare soluzioni sono le parole d’ordine della giornata di domani. Simbolicamente, dalle ore 17 in poi, si illuminerà anche il Colosseo. Far luce anche su quelle forme di violenza meno conosciute, come stalking, intimidazioni e minacce, di cui sono vittime le donne per il loro lavoro.
Il 27 si terrà a Montecitorio, un convegno sulle gravi minacce di cui sono state vittime nel 2012 molte giornaliste. Nasce in questi giorni anche una nuova associazione, «Hands off WomenHow», con l’obiettivo di creare una rete internazionale di associazioni e persone per contrastare la violenza sulle donne. In questi giorni si rinnova anche il sito zeroviolenzadonne.it.
Cambiare è possibile ma richiede il coinvolgimento di tutta la società, soprattutto degli uomini.

Corriere 24.11.12
Stato palestinese, l'Italia chiede una linea europea
di Maurizio Caprara


ROMA — Il «cessate il fuoco» tra Israele e Hamas su Gaza non elimina per l'Italia un problema: che cosa votare sulla risoluzione con la quale l'Autorità nazionale di Abu Mazen vorrebbe far salire alle Nazioni Unite la condizione della rappresentanza palestinese da delegazione di «ente» con invito permanente a quella di Stato osservatore non membro? A caldeggiare un «sì» alla proposta che verrà portata il 29 novembre nell'Assemblea generale a New York è stato ieri alla Farnesina il ministro degli Esteri palestinese Riad al Malki.
Ricevuto dal suo collega Giulio Terzi, l'inviato di Abu Mazen ha giudicato il colloquio «franco e amichevole». In pubblico Terzi ha affermato che la scelta italiana «non è ancora definita» perché il governo punta a una posizione comune dell'Unione Europea e reputa i negoziati israeliano-palestinesi «il principale binario» per un processo di pace.
Tra i 193 Paesi dell'Onu, Abu Mazen conterebbe su oltre 120 voti. Il governo italiano preferirebbe un'astensione europea. Qualora non la ottenesse, Israele, contrario alla richiesta palestinese, ha chiesto nei canali diplomatici di votare contro per bilanciare i favorevoli dell'Ue. I presupposti per una spaccatura non mancano: Svezia, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, Malta sono per il «sì», la Francia non lo esclude. La Repubblica Ceca tende verso il «no», Germania e Olanda potrebbero aggiungersi. Di astensionisti ne esistono, ma qualcuno teme che il rafforzamento di Hamas non debba indurre a indebolire Abu Mazen. Nell'attesa, Terzi si è premurato di dire: il voto «non va interpretato come un referendum tra Stato palestinese sì o no».

Corriere 24.11.12
Il peso insostenibile della pace
Keynes: così la Conferenza di Parigi nel 1919 preparò la tragedia
di Pietro Citati


Non ho mai letto la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, che John Maynard Keynes pubblicò nel 1936. E me ne vergogno. Ma mi permetto di consigliare a qualsiasi lettore Le conseguenze economiche della pace (Adelphi), che ebbe un grande successo subito dopo la Conferenza di pace di Parigi nel 1919. Ora Adelphi pubblica un piccolo libro, Le mie prime convinzioni (a cura di David Garnett, Pierangelo Dacrema e Brunella Bruno, con un saggio di Giorgio La Malfa, pp. 148 12), che sviluppa la materia delle Conseguenze economiche della pace. Il 2 febbraio 1921 Keynes ne lesse una parte ai suoi amici di Bloomsbury. «Caro Maynard», gli scrisse Virginia Woolf, «ci faresti avere il tuo manoscritto in modo che possiamo leggere quello che ci siamo persi ieri sera? Lo terremo segreto, e te lo restituiremo subito. Ci è parso magnifico, e non so dirti quanto ti invidio per il modo come descrivi i personaggi».
Keynes aveva passato i primi mesi del 1919 a Parigi come rappresentante del ministero del Tesoro inglese alla Conferenza di pace. Tutti gli alberghi di Parigi erano occupati da rappresentanti dei vari paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania agli Stati Uniti all'Australia al Giappone. Come un vero figlio di Ermes, Keynes si muoveva tra la protervia, la stolidità e l'inutile sottigliezza dei politici di tutto il mondo, e li guardava con un occhio spaventosamente ironico. «Un senso di incombente catastrofe — scriveva — sovrastava la frivola scena; la futilità e piccolezza dell'uomo davanti ai grandi eventi che lo fronteggiavano; il misto di impotenza e irrealtà delle decisioni; leggerezza, cecità, arroganza, grida confuse da fuori: tutti gli elementi della tragedia antica erano presenti». Ma, stando seduto tra i teatrali ornamenti nei saloni di gala francesi, Keynes si chiedeva se i volti di Wilson e Clemenceau fossero delle vere facce umane, e non «le maschere tragicomiche di qualche strano dramma o spettacolo di burattini».
A Parigi, gli Alleati stavano preparando per la Germania una pace cartaginese: la prosecuzione dell'embargo, l'occupazione del territorio tedesco, la proibizione di commercializzare, al di fuori dei propri confini, oro, titoli esteri o altre disponibilità liquide, la requisizione della flotta mercantile. Dapprima alla conferenza e poi nelle Conseguenze economiche della pace, Keynes con la sua calma voce ironica dimostrava cosa sarebbe successo: dapprima la disperazione e la fame in Germania, poi la diffusione d'odio verso i vincitori, infine la futura vendetta dei vinti, che dopo due decenni avrebbe portato all'autodistruzione dell'Europa.
Ciò che affascina e meraviglia nelle Conseguenze economiche della pace è il dono narrativo e il talento psicologico, che ne fanno un capolavoro letterario, da mettere accanto ai libri di Virginia Woolf e di Lytton Strachey.
Ecco le mirabili pagine su Clemenceau. «Nel Consiglio dei Quattro — Clemenceau portava una giubba a tagliere di buon panno nero, e alle mani, che non erano mai scoperte, guanti grigi di pelle scamosciata; le scarpe erano di grosso cuoio nero, ottime, ma di foggia campagnola, e a volte fermate sul davanti, curiosamente, da una fibbia invece dei lacci. Nella sala della casa del presidente Wilson in cui si tenevano le riunioni regolari del Consiglio dei Quattro, Clemenceau sedeva su una seggiola quadrata, rivestita di broccato, nel mezzo del semicerchio davanti al caminetto, con alla sua sinistra il primo ministro italiano Orlando e, accanto al caminetto, il presidente Wilson, e alla sua destra, dirimpetto a Wilson, il premier britannico Lloyd George». «Non aveva con sé carte né portafogli e non era assistito da un segretario personale, ma vari ministri e funzionari francesi confacenti all'argomento in esame erano presenti intorno a lui. Il suo passo, la mano e la voce non mancavano di vigore; nondimeno, specialmente dopo l'attentato di cui era stato oggetto, aveva l'aspetto di un uomo molto vecchio, che riservava le sue forze per le occasioni importanti. Parlava di rado, lasciando l'esposizione iniziale del punto di vista francese ai suoi ministri o funzionari; spesso chiudeva gli occhi e se ne stava rilasciato sulla sedia con un viso impassibile di cartapecora, le mani guantate di grigio intrecciate in grembo. Una breve frase, recisa o cinica, era in genere sufficiente, una domanda, una sconfessione netta dei suoi ministri senza salvarne la faccia, o un'impuntatura caparbia rafforzata da qualche parola in un inglese dalla pronuncia asprigna. Ma eloquenza e fervore non mancavano quando ce n'era bisogno, e l'improvvisa eruzione verbale, spesso seguita da un accesso di tosse cavernosa, produceva il suo effetto piuttosto col vigore e la sorpresa che con la persuasione».
* * *
La figura di Keynes mi incanta, e rinuncerei volentieri al posto importantissimo che egli ha segnato nella scienza economica, per raccogliere le tracce lasciate in quella meravigliosa raccolta di chiacchiere, pettegolezzi e opinioni che sono le Lettere di Virginia Woolf. Keynes vi appare dappertutto, sempre sottile, intelligente e frivolo. Frequentava Virginia: per qualche tempo abitò un pied-à-terre al piano sotto il suo: andava a trovarla nella sua casa di campagna; e quando prese in affitto una casa a Gordon Square ne fece il centro di una nuova Bloomsbury, dando feste e balli in maschera.
Nelle lettere di Virginia Woolf appare continuamente Lydia Lopokova, che aveva danzato come prima ballerina della compagnia Diaghilev nel 1916, 1919 e 1925, nelle rappresentazioni della «Boutique Fantasque», di «Les Sylphides» e della «Bella addormentata». Ritornò a ballare nel 1926 in un adattamento da Milton, e immaginava di mimare anche delle scene di Orlando. Almeno nei primi anni di conoscenza, sembrava deliziosa a Virginia Woolf: veniva a trovarla di tanto in tanto, come un uccellino che saltava allegramente da un ramo all'altro; graziosa, esuberante, spiritosa, simpaticissima. Aveva l'aria di uno scoiattolo: stava seduta per ore e ore a lustrarsi il naso con le zampe anteriori.
Malgrado una relazione con Duncan Grant, Keynes spalancava i suoi occhi limpidi sul mondo femminile, e quando vide Lydia Lopokova danzare nella compagnia Diaghilev, si innamorò di lei. Voleva sposarla, dovette affrontare ostacoli: ci riuscì soltanto il 4 agosto 1925, e venti giorni dopo diede un grande ricevimento. Malgrado la simpatia per Lydia, Virginia era stata contraria al matrimonio. «Penso veramente — aveva scritto alla sorella — che dovresti fermare Maynard prima che sia troppo tardi. Non riesco a credere che si renda conto delle possibili conseguenze. Mi vedo fin troppo bene Lydia diventare grassa, affascinante, esigente; Maynard entrare nel governo; e casa sua diventare luogo di duchi e di primi ministri. Maynard, che è un uomo semplice, sprofonderebbe irrimediabilmente prima di rendersi conto della sua condizione. Poi si sveglierebbe, per ritrovarsi con tre bambini, e controllato a vita». Lydia era molto meglio come bohèmienne senza legami, affamata e piena di speranze, che come matrona, con tutti i suoi diritti assicurati.
A Londra e nella sua casa di campagna, Virginia Woolf continuò a controllare, con ironia non sempre benevola, il matrimonio dell'uccello-scoiattolo con il grande economista scrittore. Lydia aveva un carattere gradevole e un cervello limitato. Il suo contributo era uno strillo, un ballo: poi il silenzio, come una bambina remissiva, con le mani intrecciate. «Dicono — scriveva Virginia — che ora si può conversare con Keynes solo usando parole di una sillaba. Se no, Lydia non capisce». Tutto quello che aveva preveduto intorno a Keynes e a Lydia — aggiunse — si stava avverando. «Hanno pranzato con noi due sere fa; e mio Dio! Il passerotto si sta già trasformando in una gallina, riservata, silenziosa, seria, matura, completa di uovo, penne e coccodè. Uno spettacolo davvero triste, e vedo avvicinarsi il giorno in cui non sopporterà nessuna allusione alla danza».
Credo che Virginia esagerasse. La ballerina-passerotto continuò a saltare con grazia da un ramo all'altro; e lo scoiattolo non smise di lustrarsi il naso con le piccole zampe anteriori.

Corriere 24.11.12
Censure feroci su Bergman L'Italia tradì anche i dialoghi
Sesso e religione, stravolte intere frasi nel doppiaggio
di Paolo Mereghetti


La «verginità» trasformata in «sfacciataggine». Il figlio in nipote, a scanso equivoci incestuosi. E se una donna racconta che la prima volta che ha fatto l'amore era «in chiesa» lo spettatore italiano sente invece «in un sottoscala». Non sono errori di traduzione, sono interventi deliberati che la censura italiana impose, tra i tanti, ai film di Ingmar Bergman prima di concedere il visto.
Siamo abituati a pensare al censore come a una specie di Edward mani-di-forbice sempre pronto a far sparire baci proibiti o scollature provocanti (quando non addirittura a inviare al rogo film troppo osceni per essere «recuperati» come Ultimo tango a Parigi). Eppure nel caso del maestro svedese l'intervento fu persino più subdolo e invasivo, arrivando anche a cambiare dialoghi e battute. La prova ce la dà la «Bergman Collection»: 25 titoli (più due solo sceneggiati e vari documentari sul suo lavoro) che Bim, Qmedia e 01 metteranno in vendita entro febbraio, ognuno accompagnato da un ebook di analisi e documentazione curato da Roberto Chiesi e Paola Cristalli della Cineteca di Bologna, dove i film non solo hanno ritrovato lo splendore originale (grazie a un restauro in alta definizione) ma sono stati reintegrati delle scene tagliate. Mentre i sottotitoli in italiano permetteranno di verificare le assurdità e gli oscurantismi imposti dalla censura in fase di doppiaggio.
Prendiamo uno dei film più famosi di Bergman, Il posto delle fragole, viaggio onirico di un vecchio professore che ripensa alla sua vita: le parole sarcastiche del protagonista a proposito di un prete sparirono, così come il riferimento beffardo di uno dei giovani autostoppisti a un coetaneo che voleva prendere i voti. E quando la giovane Sara confesserà la propria verginità, gli italiani pensarono che parlasse della sua sfacciataggine mentre l'ironico interrogativo «Ma come si può credere in Dio?» fu cambiato in «Ma perché discute sempre di Dio?».
Altri esempi. Nei Quattrocento colpi, Antoine Doinel ruba in un cinema una foto di Harriet Andersson seminuda in Monica e il desiderio. Chissà che cosa avrà pensato lo spettatore italiano, a cui il film arrivò con 25 metri di tagli, che fecero sparire tutti i nudi della protagonista, così come furono accorciate o manipolate le scene in cui Monica fa entrare nel proprio sacco a pelo il fidanzato Harry. Tutte scene che naturalmente l'edizione in dvd reintegra, così come sarà possibile ritrovare le intenzioni originali del regista in Sorrisi di una notte d'estate: il figlio dell'avvocato Egerman ridiventa figlio da nipote e quando una domestica troppo disponibile sarà apostrofata con «Una cameriera resta sempre una cameriera» i sottotitoli ci sveleranno che Bergman aveva fatto dire «Una sgualdrina resta sempre una sgualdrina». Così come «una goccia di seme di una pozione d'amore» diventa «una goccia di sangue», dai dialoghi spariscono le allusioni a Martin Lutero (siamo un Paese cattolico o no?) e gli studi «di teologia» diventano studi «di filosofia».
L'ecatombe non si ferma. Nel Settimo sigillo la canzone medioevale che canta lo scudiero viene purgata e stravolta (Non più «Tra le gambe di una troia/è la vita una gran gioia./In alto siede l'Onnipotente/così lontano che è sempre assente/mentre il Diavolo suo fratello/lo trovi anche al tuo cancello» bensì «È stanco il cavaliere/è stanco lo scudiero/ma il cavaliere è fiero/e ammetterlo non può./Ei sogna di pranzare/di bere e poi dormire/però non lo vuol dire o forse non lo può»). Nella Fontana della vergine saltarono 30 secondi nella sequenza dello stupro e la censura aggiunse addirittura un fotomontaggio per dissimulare un'inquadratura. Ma forse lo scempio maggiore lo subì Il silenzio che anche in Svezia suscitò reazioni controverse e in Argentina fece condannare il distributore a un anno di carcere (per fortuna con la condizionale). Vietato ai minori di 18 anni nonostante la soppressione totale di ben tre scene (quella in cui Anna spia una coppia che fa l'amore, quella in cui Ester si masturba e quelli finale dell'amplesso tra Anna e uno sconosciuto), il film trasformò una «chiesa» in uno «scantinato», il monologo in cui Ester confessa il suo disgusto per gli uomini perse tutta la sua crudezza («sangue e muco» diventano «ormoni e uomini» e via di questo passo) arrivando a «far pentire» la donna della propria sessualità mentre l'arbitraria traduzione della misteriosa parola «Hadjek» con «anima» (sul biglietto che scrive Ester) aprì il film a una lettura spiritualista che Bergman non voleva assolutamente.

venerdì 23 novembre 2012

l’Unità 23.11.12
Oltre un milione di iscritti per domenica
Appello di costituzionalisti a favore di Bersani
di Giuseppe Vettori


ROMA Oltre un milione le persone sono già iscritte per votare domenica alle primarie del centrosinistra. Un numero che raccoglie sia le registrazioni on line, sia le vere e proprie iscrizioni nei gazebo e nelle sedi, diventate uffici elettorali.
Mancano due giorni e siamo allo sprint finale: i cinque candidati corrono per l’Italia e si moltiplicano gli appelli al voto. In sostegno di Pier Luigi Bersani come candidato premier del centrosinistra si schierano autorevoli costituzionalisti, che hanno firmato un appello: «Ristabilire un rapporto di fiducia nelle istituzioni pubbliche», rafforzandone «la capacità di governo e l’autonomia dal potere economico e da quello dei mezzi di comunicazione». Non è solo una «questione di democrazia» prosegue il documento «ma il presupposto per affrontare con successo la crisi economica e sociale, e per superare le disuguaglianze sempre più marcate che si sono venute consolidando».
Nell’appello si sottolinea come Bersani abbia «fatto proprie» alcune imprescindibili premesse per avviare un dialogo su un processo di riforme, costituzionali e legislative: il rilancio dell’impianto della Costituzione vigente, il principio della separazione dei poteri, il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali, l’ordinamento parlamentare, il rilancio del ruolo e del radicamento dei partiti politici e la difesa dell’articolo 138 come unico procedimento per modificare la Costituzione».
L’appello è firmato da Mario Dogliani, Andrea Giorgis, Umberto Allegretti, Vittorio Angiolini, Enzo Balboni, Sergio Bartole, Paolo Caretti, Massimo Carli, Enzo Cheli, Stefano M. Cicconetti, Marilisa D’Amico, Gianmario Demuro, Maria Cristina Grisolia, Enrico Grosso, Massimo Oliviero, Cesare Pinelli, Saverio Regasto, Paolo Ridola, Antonio Saitta, Massimo Siclari, Luigi Ventura.
(...)

l’Unità 23.11.12
Con Bersani per l’Italia dell’innovazione
di Stella Bianchi
, Responsabile ambiente Pd e Fabrizio Vigni, Presidente ecologisti democratici

CI VUOLE UNA GUIDA SOLIDA E COMPETENTE PER IL PAESE. UNA PERSONA AUTOREVOLE, di grande apertura ed esperienza che abbia chiaro il senso di marcia e sappia dire a chi cerca un lavoro in quale direzione vuole portare l’Italia: innovazione, agenda digitale, efficienza energetica, ambiente per qualificare la produzione. Possiamo uscire dalla crisi solo percorrendo strade nuove, unendo la lotta ai cambiamenti climatici alla creazione di lavoro, allo sviluppo sostenibile, alla giustizia sociale, all’eguaglianza delle opportunità. Per questo sosteniamo Pier Luigi Bersani nelle prossime primarie per scegliere il candidato premier per il centrosinistra.
Insieme a noi, tra gli altri, i capigruppo delle commissioni parlamentari ambiente e attività produttive Raffaella Mariani, Andrea Lulli e Filippo Bubbico con i colleghi Bratti, Braga, Cenni, Margiotta e assessori regionali come Giancarlo Muzzarelli (attività produttive ed economia verde in Emilia Romagna), Anna Rita Bramerini (ambiente ed energia in Toscana), i liguri Renzo Guccinelli e Pippo Rossetti (sviluppo economico; bilancio e formazione professionale), Fernanda Cecchini (agricoltura e parchi in Umbria), il direttore di Aster Emilia Romagna Paolo Bonaretti, la neo rieletta consigliera regionale siciliana Concetta Raia, esperti come Gianni Silvestrini e Daniele Fortini insieme a numerosi altri amministratori locali, esponenti del mondo ambientalista, persone impegnate nell’unire rispetto dell'ambiente e sviluppo economico.
Ci vuole un nuovo modo di produrre e consumare, nuove forme di energia, uso efficiente delle risorse, recupero di materia. Una scelta chiara per l’economia verde per rafforzare la nostra vocazione naturale, dal nord al sud del Paese, in un quadro europeo di investimenti, dall’energia del futuro al recupero di materia, dalla chimica all’edilizia, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura, dalle città «intelligenti» ai parchi.
È così che l’Italia torna a fare l’Italia, forte della sua industria manifatturiera, la sua bellezza, la cultura, la scelta della qualità e della tipicità. Siamo convinti che Pier Luigi Bersani abbia tutte le qualità per lavorare con efficacia in questa direzione, nella definizione di politiche industriali integralmente ecologiche, come proposto nella carta di intenti, e nella centralità dei beni comuni, primo fra tutti il territorio che va messo in sicurezza anche fermando il consumo del suolo e dicendo no a ogni condono. Il rispetto dell’ambiente come chiave di sviluppo, la riconversione in chiave ecologica dell’economia sono una priorità da affrontare con competenza.

La Stampa 23.11.12
Bersani cerca di vincere subito
Il leader, vicino alla soglia del 50%, spera di non andare al ballottaggio
Già un milione di iscritti ai gazebo
di Carlo Bertini

qui

Corriere 23.11.12
Legge elettorale, Bersani ottimista «Si può arrivare a una soluzione»


«Non dico che sono ottimista ma credo sia possibile arrivare a una soluzione in queste settimane». Lo ha detto ieri al Tg3 Pier Luigi Bersani parlando della riforma della legge elettorale. Il segretario del Pd ha ribadito la disponibilità dei democratici a lavorare per un'intesa: «Pensi un po' che disponibilità che abbiamo: pur di togliere il Porcellum discutiamo perfino di proposte che hanno quel protagonista...». Il «protagonista» in questione sarebbe Roberto Calderoli, autore del Porcellum e della proposta sul premio di maggioranza a scaglioni su cui Pd e Pdl sembrano vicini a un accordo. Ma, avverte Bersani, «con delle correzioni: la sera delle elezioni il mondo deve sapere che qualcuno è in grado di organizzare un governo». Poi ha aggiunto: «Chi pensa che da una situazione frammentata venga fuori un Monti bis non fa i conti né con la politica né con la matematica». L'esame della riforma elettorale riprenderà in commissione Affari costituzionali al Senato lunedì. Mercoledì il testo base approderà in Aula dove, secondo gli auspici del presidente Schifani, dovrebbe essere votato entro la fine della prossima settimana

il Fatto 23.11.12
“Se perdo, porterò i miei amici in Parlamento”
Primarie all’ultimo miglio: Renzi scivola in un fuorionda
Bersani spera nella vittoria al primo turno
di Wanda Marra


Se perdo porterò un po’ di amici miei in Parlamento, cercherò di avere dello spazio. Mica mi faccio comprare, non voglio diventare come loro”. Sulla classica buccia di banana Matteo Renzi ci scivola durante un Fuorionda a Radio 105 (che poi era un fuorionda registrato). E per la prima volta mette insieme il concetto di “amici” e “Parlamento”. Sorridono tra il divertito e l’irritato gli uomini di Bersani, che si vedono arrivare sul tavolo l’agenzia. Approfittano subito per fare dell’ironia Bindi e Fioroni, i primi minacciati ad essere mandati in soffitta dal Sindaco: “Ecco come rottamerà”, ma “le liste le fa il partito”. Nel clima convulso, surriscaldato da vigilia delle primarie, ognuno dei due candidati ha i suoi problemi da affrontare. Renzi, che è indietro in tutti i sondaggi, ieri si becca anche un esposto al comitato dei garanti da parte del comitato Bersani di Bologna. Che lo accusa di aver mandato in onda sull’emittente locale E tv uno spot a pagamento. Cosa vietata dal Regolamento. “Quale spot? - dice lui - era un documentario”. Reggi ammette che il filmato è andato in onda su più emittenti. Ma gratuitamente, dice. In realtà erano venti minuti del film sulla campagna in camper girato da Fausto Brizzi. Il direttore di E tv smentisce: “Lo spazio televisivo non è stato acquistato da alcuna società, ma fornito direttamente da E'Tv”. A metterci una pezza Reggi ci prova pure sulla questione amici in Parlamento: “Renzi ha anche detto che farà le primarie tra i candidati. Anche se è ovvio che noi che siamo suoi amici avremo più possibiltà”. E così la questione “composizione delle liste” entra per la prima volta nei discorsi dei renziani.
INTANTO Bersani si trova tra capo e collo l’ultima uscita di Napolitano, e le ombre del Monti - bis, che potrebbero vanificare il tutto. “Monti? Avrà un posto di grande rilievo”, dice. E pure lui tira dentro le tematiche tipiche da battaglia del Pd: “Se Renzi non vince le primarie immagino che continuerebbe a fare il sindaco. Dopodichè l’anno prossimo c'è il congresso... ”. Poi, “per dovere d’ufficio”: “Se dovessi uscire tra lui e Vendola al secondo turno voterei lui”.
Ancora, Renzi parla di eventuale sconfitta nella sua neswletter, E-news: “In teoria non c'è partita. Pensate ai parlamentari: con noi stanno in meno di 15 parlamentari del Pd su oltre 300, mentre il 95% dei parlamentari sta con Bersani. Poco diversa è la percentuale del gruppo dirigente".
Ha un bel incitare al tam tam telefonico, ma mette ampiamente le mani avanti.
I sondaggi d’altra parte sono sempre più favorevoli. D’Ali-monte ieri sul Sole 24ore scriveva che Bersani è in vantaggio (anche se lo sfidante avrebbe più possibilità di vincere le elezioni) con il 48% delle preferenze, contro il 38 di Renzi. Poi, ci sono gli indecisi (il 7). Stesso trend per la rilevazione Ipsos: 46 a 32. La vittoria al primo turno sembra a un passo. In effetti, tutti i sondaggi (che peraltro registrano una crescente motivazione ad andare a votare) hanno un’alta percentuale di indecisi: che se divisi tra gli sfidanti possono portare il segretario alla vittoria. Fatta salva l’imponderabilità di un’affluenza veramente alta. I registrati sono un milione. I bersaniani dicono che a votare saranno 3 milioni, i bersaniani 4. Al secondo turno potrebbe cambiare tutto, ma i bersaniani si appellano preventivamente al regolamento: “Il bacino è quello, è blindato. E i voti della Puppato e di Vendola non vanno certo a Renzi”. Proprio il regolamento è in via di semplificazione costante. Il Comitato per le primarie, una sorta di ministero dell’Interno che ha messo in piedi una macchina da 9100 seggi, 9000 uffici elettorali, 100mila volontari, più scrutatori, rappresentanti di lista, presidenti di seggio ieri ha diffuso una circolare “Taglia - file”, come la definisce Paganelli. In pratica si chiede di distribuire ai cittadini in fila il modulo di registrazione, insieme all’Appello pubblico e alla liberatoria per i dati della privacy, in modo che, mentre aspettano, possano intanto compilare e firmare questi documenti. In origine ci volevano quattro firme. Ha giocato di certo la paura che alla fine a presentarsi siano talmente tanti e la procedura di registrazione così farraginosa da far esplodere il caos. D’altra parte anche le primarie di Prodi e quelle di Veltroni fecero registrare file lunghissime e tempi sforati. Per ora di certo, assicurano che voterà chi è in fila: ma in una fila quanto lunga?

Corriere 23.11.12
Legge elettorale, Bersani ottimista «Si può arrivare a una soluzione»


«Non dico che sono ottimista ma credo sia possibile arrivare a una soluzione in queste settimane». Lo ha detto ieri al Tg3 Pier Luigi Bersani parlando della riforma della legge elettorale. Il segretario del Pd ha ribadito la disponibilità dei democratici a lavorare per un'intesa: «Pensi un po' che disponibilità che abbiamo: pur di togliere il Porcellum discutiamo perfino di proposte che hanno quel protagonista...». Il «protagonista» in questione sarebbe Roberto Calderoli, autore del Porcellum e della proposta sul premio di maggioranza a scaglioni su cui Pd e Pdl sembrano vicini a un accordo. Ma, avverte Bersani, «con delle correzioni: la sera delle elezioni il mondo deve sapere che qualcuno è in grado di organizzare un governo». Poi ha aggiunto: «Chi pensa che da una situazione frammentata venga fuori un Monti bis non fa i conti né con la politica né con la matematica». L'esame della riforma elettorale riprenderà in commissione Affari costituzionali al Senato lunedì. Mercoledì il testo base approderà in Aula dove, secondo gli auspici del presidente Schifani, dovrebbe essere votato entro la fine della prossima settimana

l’Unità 23.11.12
Produttività, il patto «storico» è già zoppo
Dopo la firma dell’intesa tutti tirano per la giacca il sindacato di Susana Camusso
Napolitano: «Importante che non manchi il contributo Cgil»
Bersani: «Negoziare ancora»
di Bianca Di Giovanni


ROMA Dopo la nottata di conferenze stampa separate, sulla produttività si scatena il dibattito politico, che lascia intendere in filigrana tutte le trame che si nascondono dietro l’intesa separata. Dal mondo delle imprese, invece, traspare preoccupazione. «L'accordo è un passo fatto, ma se la Cgil non entra, il rischio è che l'intesa venga applicata a macchia di leopardo e perda tutta la sua forza intrinseca. Il rischio è che sia insomma un passo zoppo», dichiara la presidente degli industriali torinesi Licia Mattioli. Per Alberto Bombassei il patto «è al di sotto delle aspettative».
Sopra le parti si staglia il presidente Giorgio Napolitano. «È un fatto importante dichiara e mi pare di capire che la porta è sempre aperta. Ci possono essere, e io mi auguro che accada, degli avvicinamenti, perché è importante che non manchi il contributo della Cgil». Sul ring della politica tutti tirano per la giacchetta l’unico sindacato che si è astenuto dalla firma. Il Pd, messo sotto tensione dalla scelta di Susanna Camusso, traccia una linea con Pier Luigi Bersani. «È stato fatto un passo, ma è necessario discutere ancora per raggiungere un'intesa più completa, l'anno prossimo», dichiara il segretario. Insomma, ci sono alcuni punti che vanno chiariti. «Bisogna che si parli di investimenti veri in innovazione, e questo è da verificare spiega il leader Pd e che ci sia un modello di rappresentanza dei lavoratori che possa vedere una loro partecipazione nelle scelte aziendali». Il partito si allinea. Da Stefano Fassina, che riconosce il passo avanti, ma spera in una «coerente applicazione del Protocollo del 28 giugno», fino a Sergio D’Antoni che parla di «accordo importante» e invita la Cgil a riflettere. «Finora il potere d’acquisto non è stato affatto difeso osserva l’ex leader Cisl oggi parlamentare Pd c’era qualcosa che non andava. Questo è un modo per rafforzare il potere d’acquisto».
Lo stesso rammarico per il no della Cgil arriva dalla ministra del Lavoro Elsa Fornero, mentre dal fronte del centrodestra si ricalcano i soliti slogan, sui sindacati che farebbero politica, e che esercitano potere di veto. Ma a fare politica, e tanta in questa vicenda, è il centro, anzi il «nuovo» centro, quello targato Montezemolo che sostiene il montismo. Lo si capisce dalla sottile irritazione che trapela dalle dichiarazioni dell’Udc, partito in «concorrenza» al centro. L'accordo sulla produttività è «un primo segnale importante di fiducia che viene dato alle imprese, ai lavoratori, al mercato che innova il mondo del lavoro e lo rende meno ideologizzato dichiara Pier Ferdinando Casini Non siamo tra coloro che non si rammaricano per la mancata firma della Cgil perché è miope sogghignare soddisfatti per la divisione del mondo della rappresentanza dei lavoratori». Una frase che non lascia spazio a molti dubbi, e che lancia una luce inquietante sulla sera dell’intesa. Fonti vicine alla trattativa parlano di un imbarazzato siparietto tra Monti e Camusso sull’opportunità di tenere una conferenza stampa insieme. E anche della decisione della Uil di declinare l’invito, dopo aver fiutato il rischio di un’operazione politica pro-Monti. Solo dietrologie?
IL SOSPETTO
Certo il partito di Casini ha esercitato un pressing senza precedenti per evitare la firma separata, che ha «regalato» fiato all’ipotesi Monti-bis. Corrado Passera si dichiara «molto dispiaciuto» del no della Cgil. Ma poi va all’affondo. «L' unità del sindacato non deve essere un valore tale da porre diritti di veto che non sono giustificabili», dichiara.
Intanto in casa Cgil si ripetono tutti i punti oscuri dell’intesa. In primo luogo, la platea a cui si riferiscono le risorse messe in campo, cioè quei 2,1 miliardi che Passera vorrebbe anche aumentare. Andranno ai 14 milioni di dipendenti privati, ai due milioni che hanno un contratto di secondo livello, ai 18 milioni che includono anche i pubblici? E ancora: con quali criteri verranno distribuiti? Il primo che arriva prende tutto? Infine, se come pare i pubblici sono esclusi, si provocherà un’altra divisione tra i due comparti. Oggi i dipendenti dello stato pagano il contributo di solidarietà (sospeso solo dopo due anni dalla Corte costituzionale) e hanno il blocco contrattuale. E da oggi in poi è possibile che non abbiano neanche lo sgravio per la produttività. Per la Cgil il comparto pubblico è una priorità. È di ieri l’allarme sui 230mila precari in scadenza, di cui 130mila a fine anno e 70mila a fine anno scolastico nella scuola. Il punto più debole riguarda la sanità, con 40mila posizioni che potrebbero essere cancellate. Altro che produttività.

La Stampa 23.11.12
La Cgil
E Camusso insiste “Così si abbassano i salari e la recessione peggiorerà”
Cresce il dissenso verso riforme e politiche economiche dell’esecutivo dei tecnici
di R. Gi.


Non è che sia ormai una grande novità, per la Cgil, trovarsi tagliata fuori da un accordo firmato da tutte le altre organizzazioni sindacali e d’impresa. Quella che un tempo veniva chiamata (per il suo potere e per la sua potenza monolitica) la «Triplice» di Cgil-Cisl-Uil, da un bel po’ fa notizia quando firma accordi insieme, non quando si spacca. Adesso è la volta dell’intesa sulla produttività, con una rottura che ieri in Cgil qualcuno sosteneva (molto sotto voce, per non incorrere in guai) che era tranquillamente evitabile.
Evitabile, sì. Anche perché è un fatto che più o meno tutti i protagonisti del negoziato, sia nei sindacati che nelle imprese in camera caritatis e senza mai rilasciare dichiarazioni - ai giornalisti dicono chiaro e tondo una cosa. Ovvero, che questa intesa, festeggiata come una novità storica, è piuttosto «purissima acqua fresca». Roba che verrà ricordata quanto l’allora celebrato «Patto di Natale» firmato ai tempi del governo D’Alema. Zero.
Il giorno dopo la rottura le agenzie di stampa non hanno registrato neanche una dichiarazione del vertice della Cgil, a partire dal segretario generale Susanna Camusso. Che nella serata di mercoledì però aveva bollato il protocollo firmato da tutti gli altri a Palazzo Chigi come «un attacco ai salari» e «un’operazione che aggraverà la recessione». Al di là dei contenuti di merito dell’intesa, in molti valutano che il «niet» del sindacato di Corso d’Italia dipenda molto dall’ormai radicale incomunicabilità instauratasi tra Cgil e il governo di Mario Monti. Dopo una brevissima fase di «ascolto», col passare dei mesi il dissenso Cgil nei confronti delle politiche economiche e delle riforme varate dall’esecutivo dei «tecnici» è cresciuto in modo esponenziale. In più, spiegano nei corridoi di Corso d’Italia, sulla questione della produttività non è andata giù la pressione fortissima e a volte «sgangherata» esercitata dal governo sul negoziato delle parti sociali. Ormai le relazioni con Monti e i suoi ministri sono davvero ai minimi termini. Firmare, sia pure un’intesa di «acqua fresca», era un «regalo» politico a Monti e al «montismo» che la Cgil non aveva proprio voglia di fare.
In casa di Cisl e Uil, tuttavia, ricordano che il testo finale consacrato a Palazzo Chigi in realtà ricalcava esattamente quanto concordato il 17 ottobre scorso dagli «sherpa» di Confindustria e sindacati. Un testo su cui aveva dato il via libera anche il «messo» di Susanna Camusso. Per quale ragione, allora, la marcia indietro della Cgil? «Quella era solo una bozza, un documento di lavoro - ha spiegato mercoledì sera Camusso La mattina dopo abbiamo fatto una valutazione politica più attenta, e quel testo non poteva avere il nostro consenso».
E adesso? «Adesso niente», replicava il leader Cgil. Nel senso che in Corso d’Italia pensano che sarà possibile depotenziare le parti sgradite dell’accordo, bloccando grazie alle regole del 28 giugno 2011 (che fanno pesare il numero degli iscritti) i contratti nazionali e aziendali che conterranno innovazioni non condivise. Come lo spostamento degli aumenti salariali dai contratti nazionali a quelli aziendali, e deroghe esagerate in quelli di secondo livello. Nella maggior parte dei casi, spiegano, è probabile che si procederà unitariamente. E poi il 10 marzo ci saranno le elezioni.

l’Unità 23.11.12
Scuola, effetto firma separata Domani sciopero Cgil e Cobas
Dopo l’incontro con Profumo Cisl, Uil, Gilda non protestano più
Cgil: è il gioco delle tre carte
Pantaleo (Flc): azzerato il fondo per l’offertta formativa, nessuna risposta sui precari
di Luciana Cimino


ROMA L’incontro di ieri fra governo e sindacati di categoria non è servito a fermare lo sciopero della scuola di sabato prossimo. Si sfilano tutti gli altri sindacati, soddisfatti dalle garanzie presentate dall’esecutivo.
Ma non la Cgil che conferma la mobilitazione e cambia solo la piazza: da piazza del Popolo a Piazza Farnese. E con essa scioperano i Cobas, gli studenti, i docenti, i precari. Aderiscono anche Sel e Idv. Soddisfatto dell’incontro si dice il ministro Profumo che parla di fatto «estremamente positivo con la condivisione di un percorso», mentre i sindacati che hanno sospeso la mobilitazione (Cisl, Uil, Snals Confsal e Gilda) spiegano: «avevamo due obiettivi e li abbiamo entrambi conseguiti », ha detto Rino Di Meglio, coordinatore della Gilda, mentre di «soluzione positiva» parla anche Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, aggiungendo con una frecciata che «il confronto negoziale paga sempre al contrario di chi nel movimento sindacale insegue ancora soluzioni velleitarie o cavalca i movimenti con motivazioni politiche».
CHE DELUSIONE
Ma la FlcCgil di Mimmo Pantaleo tiene il punto. Si dichiara «delusa» dall’incontro. «Ci hanno proposto un atto di indirizzo all’Aran per trovare 480 milioni ma andandoli a prendere dal fondo del Mof (Miglioramento offerta formativa) e dal fondo di istituto ha spiegato il segretario nazionale ma solo per il 2011; poi bisognerà trovare le risorse per il 2012. Così si azzera quasi il Mof e il fondo per la contrattazione decentrata e per il resto restano solo briciole». «Non è una soluzione ribadisce Pantaleo – ma il gioco delle tre carte. L’onere del pagamento si scarica sui lavoratori che dovranno rinunciare a una parte del salario accessorio, quello finalizzato al miglioramento dell’offerta formativa cioè il valore aggiunto alla didattica. Gli scatti verranno pagati dagli stessi lavoratori ma anche dagli studenti che avranno meno offerta formativa».
La Flc – Cgil è insoddisfatta anche sul piano dell’occupazione: «questo ’’impegno’’ del Governo dovrà essere compensato da un aumento della produttività del personale docente e Ata: vale a dire lavorare di più a parità di salario. Il governo tace invece su precariato e piano di stabilizzazioni, tagli agli organici, finanziamenti, docenti inidonei e rinnovo del contratto». Insomma le ragioni lo sciopero rimangono e la Cgil «chiede ai lavoratori e alle lavoratrici, agli studenti e ai cittadini di aderire in massa per difendere la scuola pubblica e la dignità del lavoro». Intanto continuano le iniziative di protesta di insegnanti e studenti nelle scuole. Roma, dopo i fatti del 14 novembre, guida la mobilitazione con almeno 50 scuole “in stato di agitazione”. Ieri un cospicuo gruppo di universitari e studenti medi ha aperto gli ombrelli di fronte all’ingresso del ministero della Giustizia, esponendo un manifesto con la scritta “Piove: governo tecnico” (con il riferimento ai lacrimogeni sparati il 14 novembre). «Il 24 ci ricolleghiamo agli scioperi del 14 dove abbiamo ottenuto repressione ha affermato Gianluca, dell’Uds Abbiamo reagito con l’occupazione di decine di scuole per fare nel concreto quel modello di scuola che vogliamo».
A Roma La Sapienza ha deciso di sospendere la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2012-2013 prevista per stamattina. «Troppa tensione a Roma – scrive in un comunicato l’ateneo Le gravi problematiche economico-finanziarie del Paese, con il disagio di tante famiglie, e lo stato di sofferenza della scuola pubblica stanno facendo salire la tensione con riflessi nella città universitaria. Per senso di responsabilità si soprassiede alla cerimonia». A Palermo altri cortei di studenti anche ieri.
MOBILITAZIONE IN TUTTA ITALIA
Ma in tutta Italia sono decine le scuole occupate. Secondo un sondaggio di Skuola.it la metà degli studenti italiani è coinvolta in occupazioni o autogestioni. In questo contesto ieri Profumo ha mandato una lettera a studenti e insegnanti dissociandosi dall’ex ddl Aprea. « L’attuale governo non ha nulla a che fare con il ddl 953 detto ddl Aprea – scrive il ministro Tale proposta è stata formulata e discussa in piena autonomia dal parlamento. Dunque non c’è alcuna diretta responsabilità del governo, né mia personale». Poi ribadisce la volontà di ascolto del governo alle forme di dissenso che si augura pacifiche.
«Anche dopo i cortei del 5 ottobre il ministro disse che era disponibile a discutere con noi – risponde Luca Spadon, portavoce nazionale di Link (rete di universitari e medi) dopodiché la realtà è diversa». «La legge Aprea non è dipesa da lui ma ha la possibilità di rimetterla in discussione, non vogliamo una lettera ma una presa di posizione chiara sul finanziamento alla scuola e al diritto allo studio».

l’Unità 23.11.12
Femminicidio, in Senato legge Pd
di Virginia Lori


ROMA Più di cento donne uccise dall’inizio dell’anno, due anche ieri, massacrate da uomini che le considerano di loro proprietà, senza riconoscere loro il diritto di dire di no. Domenica è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne e ieri il Pd ha presentato in Senato una proposta di legge «per la promozione della soggettività femminile e il contrasto al femminicidio».
Prima firmataria la senatrice Pd Anna Serafini, che in una conferenza stampa ha spiegato come il ddl voglia «contrastare la violenza contro le donne e sostenere l’impegno e l’azione di tante associazioni e del Parlamento, che nelle scorse settimane ha portato alla firma della Convenzione di Istanbul». Il disegno di legge «tocca tutti i piani: certamente quello penale ma soprattutto quelli sociali e culturali», con un approccio «integrale e multidisciplinare al fenomeno» che fa riferimento alle più recenti Convenzioni internazionali e le Raccomandazioni del Comitato Cedaw (la Convenzione sull’Eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne).
Per quel che riguarda le norme penali, ha spiegato Serafini «si prevede un’aggravante comune per tutti i delitti contro la persona commessi mediante violenza, realizzati alla presenza di minori» e altre aggravanti per lo stalking (anche da parte del coniuge, anche separato solo di fatto). Pene estese al reato di maltrattamenti nei casi in cui la «persona di famiglia» non sia convivente (come indica la Convenzione). Si prevedono modifiche alla disciplina della violenza sessuale. E sono estese aggravanti «per discriminazione, previ-
ste tra l’altro dalla legge Mancino, anche alle discriminazioni di genere». C’è poi l’aspetto culturale da combattere, come l’uso deformante da parte dei media i termini come «delitto passionale» o «raptus della gelosia» e la rete dei centri antiviolenza.
Parallelamente, martedì è stato depositata una proposta di legge firmata da Giulia Bongiorno, deputata finiana, e Mara Carfagna, ex ministra del Pdl, per la pena dell’ergastolo per femminicidio. Secondo Serafini «l’ergastolo non è la soluzione al problema» perché «non considera che l’omicidio di una donna da parte di un uomo è in continuità con il brodo di coltura della discriminazione».
Elsa Fornero, ministro del Lavoro e delle Pari Opportunità è favorevole all’aggravante per «femminicidio» per i reati contro le donne e annuncia che «la convenzione di Istanbul sarà ratificata entro questa legislatura.
Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, ha sottoscritto il ddl Serafini e si augura che il Parlamento ne inizi presto l’esame: «Il femminicidio, che vede le donne vittime di mariti, compagni, fratelli, amanti ed ex, ha profonde cause culturali che vanno contrastate non solo con il diritto penale, ma attraverso la prevenzione, il sostegno ai centri antiviolenza, la promozione di una cultura del rispetto del corpo femminile, il riconoscimento del reale valore e del ruolo che le donne hanno già assunto nella società. Anche da questo dipende il futuro del nostro Paese».
Bersani sollecita l’approvazione della ratifica della Convenzione di Istanbul entro la fine della legislatura», sulla quale il Pd ha premuto sul governo perché la sottoscrivesse, perché «l’Italia è troppo indietro su questi temi»

Repubblica 23.11.12
Se in tutto il mondo le donne ballano in piazza contro la violenza
Una giornata per dire basta al femminicidio
di Elena Stancanelli


NESSUNA di loro stava tradendo, o raccogliendo le sue cose per andarsene, quando è stata ammazzata. Cento donne inermi, uccise a freddo come farebbe un killer. Invece i loro assassini sono uomini che conoscevano bene. Cento donne diverse, giovanissime, madri, professioniste, migranti, e un’unica responsabi-lità: essere femmina.
Come si può comprendere e quindi combattere un crimine, che si fonda su una motivazione tanto spaventosa, irrazionale, disincarnata? Inaspriremo la pena, faremo del femminicidio un reato che prevede l’ergastolo. Ma questo orrore, questa mostruosa guerra civile, la si combatte soprattutto nella testa delle persone. Cosa dovremmo modificare, perché non si verifichino le circostanze che armano la mano di un uomo? Dovremmo imparare insieme a loro ad uscire da una relazione, così come ci sembra divertente e senza conseguenze entrarci. Quanto coraggio ci vuole a strapparsi via di dosso la persona alla quale hai dato tutta la tua intimità, i giorni, il corpo? Eppure dobbiamo riuscirci, se noi abbiamo prodotto questa serialità sentimentale, e fare in modo che quella disperazione non generi mostri, fantasmi. Un uomo che uccide una donna — la donna con cui un tempo faceva l’amore, figli, sogni — deve averla cancellata, non ricordare più neanche più il suo nome. Deve aver fatto di lei un simbolo, una sagoma di cartone sulla quale sparare per sfogarsi. Contro questa follia, il 25 novembre è stata proclamata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E per tutta la settimana che segue ci saranno incontri, piazze, spettacoli, grazie alla devozione e la fatica di Snoq (Se non ora quando).
“Ferite a morte” è il titolo dello spettacolo scritto da Serena Dandini, dove le storie di cronaca verranno raccontate da intellettuali e attrici: Paola Cortellesi, Anna Bonaiuto, Concita de Gregorio... E sarà inoltre l’occasione per lanciare un’altra giornata, quella del 14 febbraio 2013. One billion rising: in piedi, e balliamo. L’ha immaginata Eve Ensler, l’autrice dei Monologhi della Vagina, e sarà una festa in tutto il mondo. Un giorno speciale nel quale le donne, e gli uomini, manifesteranno per lo sforzo di capirsi, di mettere da parte paure e reciproche diffidenze, e immaginare un riconoscimento del diritto ad amarsi e lasciarsi, ad essere felici e infelici. E dove tutto questo è ancora lontano a venire, semplicemente a poter essere femmina senza l’incubo dello stupro, la violenza, l’impossibilità di lavorare, camminare per strada da sola, vivere. Molte persone, famose e non, hanno già aderito, e balleranno. Di tutto quanto potrà essere fatto, questo ballo mondiale mi sembra che risponda con più precisione a quell’idea di libertà del corpo, a quella necessità di tornare a guardarsi come persone e non come fantasmi di un’ossessione. Racconta la mitologia che Tiresia, l’indovino, un giorno passeggiando vide due serpenti intrecciati in un amplesso. Ne uccise uno, per sfregio. La femmina. Per punizione fu tramutato all’istante in una donna. Da donna visse e amò per sette anni. Fin quando, incontrando di nuovo due serpenti avvinti in un identico accoppiamento, ne uccise di nuovo uno. Il maschio, stavolta. E per questo tornò a essere un uomo. Qualche tempo dopo Zeus ed Era lo interpellarono, non riuscendo a risolvere una disputa che li divideva: sono gli uomini o le donne a provare più piacere sessuale? Tiresia rispose che se il piacere potesse essere diviso in dieci parti, una sarebbe quella dell’uomo e nove quelle della donna. Era, furibonda, lo accecò: certi segreti non si rivelano. Zeus, per consolarlo, gli donò la facoltà di prevedere il futuro. Qualunque sia la verità, più o meno è questo il campo di battaglia. Quello che non sappiamo le une degli altri, un mistero che talvolta ci sembra sublime, e fa scattare il nostro desiderio, altre orrorifico. Un male dal quale non c’è scampo, se non attraverso la distruzione. Ma seppure il corpo è la contesa, il corpo, ovviamente, è anche il confine invalicabile. Scriveva Walt Whitman “If anything is sacred/the human body is sacred”.

l’Unità 23.11.12
Violenza squadrista
Roma, raid ultras contro «gli ebrei»
Supporter del Tottenham (club della comunità ebraica di Londra) attaccati da 30 persone con spranghe e coltelli
Un ferito grave. Due tifosi romanisti in manette
di Angela Camuso


ROMA Un’orda di barbari. Ultras, laziali e romanisti insieme. Armati di coltelli, bombolette di gas urticante, mazze e tirapugni. Secondi i testimoni urlavano «Via, voi ed ebrei», mentre si scagliavano contro le vittime designate: una decina di tifosi del Tottenham, squadra londinese ospite all’Olimpico.
Era l’una e trenta della notte tra mercoledì e giovedì e i supporter anglosassoni, notoriamente abitanti in una zona limitrofa al quartiere ebraico londinese, bevevano drink e calici di birra nel rinomato locale sempre pieno di turisti stranieri «Drunken Ship», al civico 21 di piazza Campo de’ Fiori, cuore della movida romana e teatro da anni di violenze ed eccessi che nessuna ordinanza comunale e nessun presidio delle forze dell’ordine sono riusciti ancora a debellare. Dieci minuti di guerriglia sono bastati a devastare il locale e spedire in ospedale sette inglesi, uno dei quali in codice rosso anche se non più in pericolo di vita dopo essere stato ferito con un coltello in corrispondenza di una vena tra il gluteo e la gamba.
I proprietari del pub, fondato 15 anni fa da un americana e ora gestito da due fratelli, Marco e Raffaele Manzi insieme al socio Gabriele Cannella, parlano di 20mila euro di danni. I picchiatori, coi volti coperti da sciarpe e caschi, avrebbero prima urlato: «È tutto uno scherzo...», per poi lanciare sgabelli contro le vetrate e sfondare l’ingresso secondario del pub, su vicolo del Gallo. Giù botte da orbi, a quel punto, contro i tifosi inglesi, che non avevano neppure indosso la maglietta della loro squadra e gridavano «You bastard!», cercando di fuggire a quell’inferno. Poteva finire in tragedia, perché i più violenti a un certo punto hanno afferrato sampietrini e oggetti di ferro che si trovavano sui banchi vuoti del mercato che ogni mattina si svolge sulla piazza e li hanno scagliati, alla cieca, contro i malcapitati.
La questura di Roma, già nell’occhio del ciclone per gli scontri al corteo dello scorsa settimana, ne esce piuttosto male dalla vicenda, anche se in fretta la Digos diretta da Lamberto Giannini è riuscita ad identificare almeno quindici partecipanti al raid, due dei quali (tifosi della Roma) nella serata di ieri erano finiti agli arresti.
Testimoni, infatti, hanno raccontato ai cronisti che in mezzo a quell’inferno c’erano all’inizio solo due, tre poliziotti. I residenti, affacciati alle finestre, imploravano invano: «Basta, fermatevi». E i dati forniti dalla questura, sulla base delle registrazioni delle chiamate al 113, sembrano confermare la circostanza: la prima chiamata di richiesta di intervento è avvenuta all’1.07 e all’1.14 è arrivata sul posto una prima volante. Solo una ventina di minuti dopo sono però arrivati i rinforzi, con cinque auto, comprese quelle dei carabinieri. Ma a quel punto il raid era pressoché compiuto, coi risultati voluti da chi lo aveva organizzato.
La matrice antisemita dell’agguato, nonostante gli insulti contro gli ebrei riferite ai cronisti dai testimoni, è solo una delle ipotesi alle quali stanno lavorando gli investigatori. L’attività della polizia, che ha fatto scattare una serie di perquisizioni, è andata avanti per tutta la serata e la nottata di ieri e oggi potrebbero esserci novità.
Di sicuro, c’è che i partecipanti al raid finora identificati sono sia tifosi giallorossi che laziali, il che per gli esperti non è un gran sorpresa, in quanto già in altre occasioni l’alleanza ha prodotto i medesimi effetti, quando ad esempio sono stati attaccati da laziali e romanisti insieme gli ultras del Napoli e contemporaneamente organizzate azioni violente contro gli agenti in servizio di ordine pubblico.
Ma tali episodi sono sempre avvenuti immediatamente prima o dopo le partite di calcio, nei pressi dello stadio o in luoghi solitamente presidiati durante i match considerati a rischio. Evidentemente, l’intelligence non aveva previsto un raid in piena notte all’interno di un pub nel centro storico di Roma.
Le manette, intanto, sono scattate per l’ultrà romanista Francesco Ianari, 26 anni, ambulante del famoso mercato dell’usato di via Sannio, già colpito da Daspo e con un precedente per guida in stato ebrezza e per Mauro Pinnelli, 27 anni, operaio in un’impresa edile e incensurato.
Sono stati incastrati dalle telecamere e da un sms che si sono scambiati durante l’agguato ed entrambi sono accusati di lesioni pluriaggravate. In più, a Ianari, è contestata anche la detenzione di marijuana e di oggetti atti ad offendere visto che nel suo appartamento sono stati trovati tirapugni, spranghe e altro materiale.

l’Unità 23.11.12
Quell’alleanza tra curve rivali nel nome dell’antisemitismo
L’estrema destra romana si è impossessata del tifo di Lazio e Roma
Divisi dai colori ma uniti dall’odio razziale e da un nemico comune: la polizia
Nel 2008 una retata di laziali e romanisti tutti di destra. Per loro ci fu l’aggravante di terrorismo
di Simone Di Stefano


Camerati del calcio, estrema destra e ultras. Un’ascesa che negli ultimi 15 anni ha riportato svastiche, coltelli e violenza dentro e fuori lo stadio. Era dagli ‘90 (con l’avvento di Meridiano Zero e Movimento Politico) che non si assisteva a una tale escalation dell’estrema destra nelle curve. La tessera del tifoso ha solo attenuato gli scontri, ma le minoranze restano. Roma è la capitale del tifo nero, una sottocultura da contestualizzare, tra le curve di Lazio e Roma e i nuovi gruppi di estrema destra. L’elemento in comune, che al fischio finale riesce a cancellare la fede calcistica.
Si tratta di giovani dai 16-17 anni ai 35-40, fascisti per scelta o per moda, fanno uso di droga, e quel che più colpisce è la grande affluenza di ragazzine, spesso fermate in possesso di armi bianche. Alcuni di loro durante la settimana consegnano volantini di Forza Nuova o affiggono manifesti di Casa Pound, la domenica sono lì che tifano o credono di farlo. La Curva Nord uscita da anni di monopolio Eagles-Irriducibili, la Sud più anarchica, fino a poco tempo fa dominata da Boys, Fedayn e Opposta Fazione, ora frammentata con Ultras Romani e Ultras Primavalle su tutti.
Il primo distinguo va fatto sulla tipologia del tifoso: da una parte chi va in curva perché ama il calcio e il calore della parte più chiassosa dello stadio, dall’altra chi lo fa perché attratto dal gruppo organizzato e dai suoi capi carismatici: ne accetta ideologia, cliché, stile di vita e concetti, modo di parlare. L’organizzazione è gerarchica, tentacolare, chi sgarra viene allontanato.
Negli ultimi tempi gli ultras si sono evoluti con il merchandising e la comunicazione. Facebook, i forum, i commenti, ma anche il ritorno dopo anni di oblio nelle radio e nelle tv sportive romane. L’esponente degli Irriducibili, Fabrizio “Diabolik” Piscitelli su quelle laziali, Guido Zappavigna, ex leader dei Boys (e candidato alle ultime regionali nella lista Polverini) in quelle romaniste. Il derby si gioca soprattutto tra frange ostili delle tifoserie. L’ultima stracittadina è stata segnata da un’escalation di tensioni nate dalla gara d’andata di Europa League della Lazio ad Atene, dove i tifosi del Panathinaikos e alcuni esponenti romanisti, in nome del loro gemellaggio, hanno mosso agguato ai laziali in trasferta. Nella gara di ritorno cento greci sono stati scortati dalle forze dell’ordine a braccetto con alcuni romanisti, gli scontri sono stati inevitabili.
Ma se il movente è politico, o mosso dall’odio verso le forze dell’ordine, non c’è derby che tenga. Durante la marcia degli ultras contro la tessera del tifoso nel 2009, erano ultras da tutta Italia, stesso coro: «Gabriele uno di noi». Dalla morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, avvenuta nel 2007, quell’episodio accomuna qualsiasi frangia di ultras. In Nord fino al marzo 2011 c’erano gli Irriducibili eredi degli Eagles, ora di quel gruppo resta solo lo striscione, ma la imbologia nazista continua ad imperare nella curva e durante le partite della Lazio è facile sentire l’odioso coro «giallorosso ebreo», incubo dei tifosi veri, la maggioranza. Gli ispettori federali sono lì e appuntano. La Lazio paga. Nell’ultimo bilancio la società ha dichiarato di aver pagato 390mila euro per ammende e multe, e altri 110 mila euro per danni subiti dallo stadio, per un totale di 500mila euro, quasi quanto guadagna il tecnico Vladimir Petkovic.
Negli anni ’90 il razzismo sembrava superato, ma di pari passo con l’ascesa delle forze di estrema destra, a cavallo del 2000 è tornato prepotentemente in gioco. «Razzista e antisemita», così la stampa estera ormai definisce la Curva Nord laziale. Nel derby dell’ottobre 2011 fece il giro del mondo lo striscione «Klose mit uns», scritto con le “s” runiche che richiamava quelle delle SS naziste. Neanche un’idea geniale, visto che i primi a utilizzarlo furono i romanisti in un tristemente noto Roma-Livorno del 2006: «Gott mit uns», ma anche svastiche, celtiche, foto del Duce, questa fu l’accoglienza riservata agli ultras livornesi di estrema sinistra.
Il ritorno al razzismo per la Lazio sembra avere una data, il 10 ottobre 2001, quando all’esterno del Centro Sportivo di Formello apparvero alcune scritte contro l’allora biancoceleste Fabio Liverani: «Liverani negro», «Liverani raus». Prima di allora l’ultima vittima fu Aaron Winter negli anni ’90. Ma per capire il substrato criminale in cui opera il fenomeno ultras romano, basta tornare al febbraio 2008. Una maxi-operazione della Polizia che portò all’arresto di 20 ultras tra laziali (alcuni legati al gruppo «In basso a destra») e romanisti. Per molti di loro scattò l’aggravante del terrorismo per gli assalti al concerto della Banda Bassotti a Villa Ada e alle caserme della Polizia dopo la morte di Sandri.

l’Unità 23.11.12
È ora di fermare il rigurgito nero nella capitale e nel Paese
di Vittorio Emiliani


Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, la butta sul «tecnico», «teppismo da stadio trasferito nel centro storico». Non è così: il violentissimo, organizzato raid del pub «Drunken ship» sembra non avere granché a che fare col tifo laziale. La polizia propende per una matrice politica e razzista.
Tottenham è storicamente il quartiere della comunità ebraica e i bianchi, gli Spurs, ne sono calcisticamente il simbolo dalla fine dell’800. Il termine «ebrei» è risuonato distintamente fra le grida esagitate dei violenti che, spalleggiati da numerosi camerati rimasti fuori a bloccare il locale, hanno preso a mazzate i ragazzi inglesi seduti a bere e a cantare distruggendo il pub. Non a caso fra i primi fermati c’è un tifoso romanista. Quindi, la spedizione, chiaramente preparata e mirata, aveva una connotazione politica razzista, anti-ebraica. Altro che «teppismo da stadio».
La gara con Tottenham era stata pensata dalla società anche come occasione per festeggiare il ritorno a Roma di un campione inglese tanto geniale (e amato) quanto scervellato: Paul Gascoigne detto «Gazza» biancoazzurro per tre campionati.
Inoltre la Lazio punta a salire in alto in Europa dove si sta comportando molto bene. Non ha quindi nessun interesse ad arroventare la vigilia. È vero che in passato la tifoseria laziale più estrema aveva accolto a Roma con scritte antisemite un atleta esemplare, Aaron Winter, ebreo e nero. È vero che nella gara di andata a Londra i laziali avevano più volte fischiato due giocatori del Tottenham di origine israelita e lo stesso è avvenuto ieri sera con i cori razzisti urlati durante la partita. Ma il gravissimo episodio di Campo de’ Fiori ha connotazioni più prettamente «politiche». Lo dimostra anche il fatto che due degli arrestati per il raid al pub di mercoledì notte siano tifosi romanisti.
Da quando Gianni Alemanno ha salito la scala del Campidoglio salutato da una selva di saluti romani, la sottocultura della violenza politica, della compiacenza verso storia e attualità dello squadrismo è riemersa di continuo. A Casapound è stato lasciato fare, in pratica, di tutto, senza cercare di evitare il clima di scontro. La violenza in sé è stata minimizzata, nonostante aggressioni, ribalderie contro i «diversi», incursioni nelle scuole.
Comportamenti squadristici autorizzati dal lassismo (o nullismo) del Campidoglio. Del resto, quando questa giunta promuove ad incarichi significativi personaggi appartenuti al terrorismo «nero» (a Roma micidiale), essa dà un segnale preciso. Si è obiettato che avevano scontato le pene irrogate. Ma, a parte il fatto che non si trattava di dissociati (i Nar sono rimasti impermeabili alla dissociazione), promuoverli ad alti gradi, farne un pezzo di classe dirigente ha avuto un senso inequivocabile.
Come quando nel Comune di Affile (Roma) si è elevato al generale Rodolfo Graziani, colonialista spietato, firmatario dei famosi «bandi» di Salò, rastrellatore di partigiani, un sacrario con finanziamento della Regione Lazio. Come quando a Predappio si lasciano organizzare raduni «nostalgici» vergognosi lasciando sola l’amministrazione comunale di centrosinistra. Non è ancora giunta l’ora di fermare con decisione questo pericoloso rigurgito «nero», a Roma e nel Paese?

l’Unità 23.11.12
Diffamazione: lunedì 26 sciopero dei giornalisti
di Natalia Lombardo


ROMA La legge «Frankenstein» va avanti nel modo peggiore: Pdl e Lega hanno salvato i direttori dal carcere per diffamazione, mentre il giornalista può finire in galera. Una vera norma ad personam per salvare Sallusti, (norma che lui stesso disconosce) e contro la quale la Federazione della Stampa ha indetto uno sciopero per lunedì 26, quando il testo tornerà in aula al Senato. Un totale silenzio stampa che coinvolgerà tutti i media, per protestare contro quella che Siddi, segretario della Fnsi, definisce «un’aggressione a un’intera categoria professionale senza riparare eventuali lesioni della dignità e dell’onore delle persone per errori o orrori di stampa».
Una legge nata sull’onda del caso Sallusti per eliminare il carcere è diventata uno strumento repressivo, oltre che un mostro giuridico. Ieri l’ultimo blitz in Senato, dove è passato con 122 sì, 111 voti contrari e 6 astenuti l’emendamento del relatore del Pdl, Filippo Berselli, che esclude il carcere per i direttori ed i vice in caso di condanna per diffamazione (solo multe da 5000 a 50mila euro). Il governo, che aveva espresso parere contrario, è stato battuto in aula, a votare a favore Pdl e Lega, nettamente contrari il Pd, l’Udc e l’Idv, e anche l’Api di Rutelli.
Il Pd, che fa ostruzionismo da un mese, lo ha rafforzato e ha chiesto il voto segreto sull’articolo 1, che sarà votato lunedì, nella speranza di farlo saltare. Per la capogruppo in commissione Giustizia, Silvia Della Monica, del Pd, è un «testo con errori di carattere tecnico e con violazioni di carattere costituzionale». Un ddl diventato «ad personam, leggi di cui avevamo perso le tracce col governo tecnico e che vediamo risorgere in coda di legislatura». Se lunedì la legge passerà a Palazzo Madama potrebbe bloccarsi alla Camera, ed essere solo abolita la pena del carcere.
La Federazione della Stampa ha quindi indetto lo sciopero per giornali, tv, radio, agenzie, free lance e web. I giornalisti dei quotidiani si asterranno dal lavoro lunedì 26, quelli delle agenzie di stampa per 24 ore dalle 7 di lunedì alle 7 di martedì; lo stesso i giornalisti delle testate web e dei siti on-line (partendo dalle sei di mattina). Tutte le televisioni e le radio, sia Rai che private, si asterranno dal lavoro dalle 6 di lunedì alle 6 di martedì, anche senza il preavviso che i giornalisti della tv pubblica sono tenuti a dare. Solo notiziari ridotti all’osso.

il Fatto 23.11.12
Vini, regali e monasteri. La Margherita spendeva così
Alla scuola di Cacciari 720mila euro e 133mila in enoteca
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


“Aridaje”. Si apre così la lettera di Francesco Rutelli in risposta all’articolo di ieri del Fatto nel quale davamo conto dell’elenco dei bonifici e degli assegni pagati dalla Margherita nell’era Lusi. Quella lista, stilata dal consulente tecnico del pm di Roma Stefano Pesci, include al quinto posto per importo tra i beneficiari il Centro per il Futuro Sostenibile presieduto da Francesco Rutelli con 1 milione e 126 mila euro. Rutelli non contesta la cifra ma la novità del dato. E sul punto ha ragione, salvo però poi far discendere da questa constatazione un’autoassoluzione totale un po’ generosa: “La conclusione delle indagini - scrive Rutelli - sul caso Lusi sarebbe l'occasione, anche per Il Fatto per evidenziare un fatto molto raro in Italia: che un'indagine capillare e sistematica svolta per 10 mesi dalla Procura di Roma... su bilanci, bonifici, conti correnti, fornitori della Margherita ha evidenziato che neppure un euro del partito ha preso una destinazione illecita o per interesse privato”.
UN’AFFERMAZIONE un po’ forte se si pensa ai 3 milioni e 600 mila ricevuti con bonifico dalla moglie di Lusi e ai 13 milioni e mezzo della società riferibile al tesoriere, la TTT srl. Rutelli, se fosse un giornalista del Fatto non si curerebbe di simili quisquilie ma darebbe questa lettura della chiusura indagine su Lusi: “Sarebbe l'occasione per fare ammenda per aver pubblicato più volte come credibili asserzioni dell'ex-tesoriere ladro, che le indagini hanno invece dimostrato essere calunniose. Invece... Il Fatto mi ha dedicato ieri l'ennesimo titolo a tutta pagina, corredato dall'ennesima falsa informazione (che le risorse attribuite al CFS siano state "330mila euro in più di quanto si sapeva finora"). Non è vero: anche quelle cifre figuravano nei rendiconti, regolarmente approvati e pubblicati, e riportati dalla stampa. Per precisione: nell'arco di 11 anni, risultano euro 6.619.010 destinati dalla Margherita ad associazioni, fondazioni, attività di formazione; tra questi - altro che "spese folli del tesoriere" - i contributi da voi citati al Centro Futuro Sostenibile e all'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, come anche al CFP (scuola di formazione di giovani presieduta da Massimo Cacciari, destinataria di 720.497 euro) e a diversi altri soggetti. Sapete già che io non ho comperato una casa, né una casetta, né una cuccia per il cane, con i soldi della Margherita. Che non ho ricevuto un centesimo per il lavoro svolto per il CFS, cui ho anzi contribuito con donazioni personali”. Nessuno ha mai insinuato l’arricchimento personale del leader della Margherita e dell’Api ma sulla trasparenza dei conti e sul controllo dei fondi forse si poteva fare di più. Solo dopo lo scandalo Lusi e la pubblicazione di un articolo su L’espresso nel quale si svelava il flusso di bonifici per 860 mila euro da Margherita a Cfs - Rutelli aveva convocato una conferenza stampa nella quale era stata diffusa la cifra esatta e più alta di 1 milione e 126 mila euro, riportata allora dal Fatto e riproposta, senza ricordarlo, ieri. Resta però un passo ulteriore da fare sulla strada della trasparenza per Rutelli: rendicontare con esattezza su internet quello che ha fatto e quello che intende fare il Cfs con il milione e 126 mila euro di soldi pubblici ricevuti dalla Margherita e girati all’associazione ambientalista. E magari rendi-contare all’euro anche il destino dei 192 mila euro, annotati nella lista della procura di Roma, e passati dalla Margherita all’associazione Cento Città, vicina a Rutelli. Rutelli nella sua risposta aggiunge in compenso un dato interessante: la scuola di formazione politica presieduta da Massimo Cacciari, il CFP di Milano, ha incassato 720 mila euro. “A partire dal 2005”, spiega il direttore del CFP, Nicola Pasini, “siamo stati rimborsati dalla Margherita con 150 mila euro all’anno per i costi dei nostri corsi di formazione politica. Mi creda è tutto trasparente. Tutto on line. Anche la lezione di Luigi Lusi. Pensi che - conclude Pasini - il senatore venne a farci lezione sul finanziamento della politica. Era preparatissimo”.
CHISSÀ SE QUEL GIORNO Lusi agli alunni avrà spiegato il senso delle spese sostenute a carico del partito. Per esempio i 133 mila euro di soldi pubblici bonificati dalla Margherita alla Vino Vip che distribuisce vino e prodotti locali in tutta Italia. Lusi dal 2008 al 2010 spende circa 20 mi-la euro ogni anno agli inizi del mese di gennaio per saldare le fatture relative ai regali di natale. “Il senatore Lusi non ha mai comprato una bottiglia per se. Ordinava vini sempre di origine abruzzese che avrebbe dovuto regalare. Di solito, passavano a ritirare i pacchi regalo gli autisti di Lusi, spesso erano destinati ad esponenti del partito”. Passando al setaccio le spese dell’ex tesoriere della Margherita sorgono altri dubbi. A cosa servivano i 35 mila euro bonificati a favore della società Cantiere Navale, che si occupa di riparazioni di barche e yacht a Brindisi?
Lusi era comunque un uomo generoso, con i soldi pubblici, e forse un po’ preveggente. Il senatore cattolico dona 133 mila euro al monastero Visitazione S. Maria di Reggio Calabria e altri 50 mila euro all’Associazione di volontariato Liberi per liberare, che si occupa dei detenuti. Oggi il munifico tesoriere è agli arresti domiciliari in un monastero in Abruzzo.

La Stampa 23.11.12
«Eravamo con tipi «degni di attenzione psichiatrica»
D’Alema: io premier degli “squilibrati” Bellillo: scemenze
Nerio Nesi: si sentiva Napoleone...
di Jacopo Iacoboni


Dunque, D’Alema finalmente confessa tutto: governavo con una compagine «composta da squilibrati degni di attenzione psichiatrica che mi chiedevano di uscire dalla Nato e di dichiarare guerra agli Stati Uniti. Questo ci ha limitato molto». La frase, dalemismo puro, autorizza una domanda, qualche risposta e un paragone.
La domanda è semplice: con chi ce l’aveva l’ex premier nel colloquio col Mattino? Probabilmente coi comunisti italiani, che puntellarono il governo dopo la spaccatura di Rifondazione, e forse anche con i verdi. Un mondo pittoresco e poi sparito: c’era Oliviero Diliberto, Guardasigilli e capo del Pdci, oggi riapparso d’incanto a sostenere Vendola (premessa per il ritorno dei suoi in alleanza con Bersani). C’era Katia Bellillo, ministro degli affari regionali tra un match di kick boxing e l’altro con la Mussolini, oggi pensionata con due legislature (si occupa dell’orto e della mamma). C’era Laura Balbo, una professoressa verde cui vennero affidate le pari opportunità (oggi in cattedra a Padova, a Sociologia). C’era in maggioranza a guidare la commissione bilancio Nerio Nesi (oggi presidente della Fondazione Cavour). Cosa potranno rispondere? Diliberto fa filtrare: «A D’Alema ricordo che i problemi vennero dall’Udeur, non da noi», gli squilibrati. La Bellillo, pugilistica: «D’Alema torni a ragionare politicamente, se ne è capace, invece di fare lo scemetto. Il suo governo cadde per l’Udeur del suo amico Cossiga, non per noi pazzi». Anzi: «Quel poveretto di Cossutta faceva la spola per portare solidarietà al Kosovo sotto le bombe, che Diliberto gli fece bombardare, mentre Rifondazione ci dava dei traditori, bella gratitudine». Perciò Katiuscia (Nesi la chiamava così) si sente di consigliare: «D’Alema faccia come me, che è tempo, si ritiri e curi i suoi cari».
Laura Balbo - ricordate? viso triste, poche parole, capelli grigi viveva malissimo il fatto che a mesi dall’insediamento D’Alema ancora non le avesse mai neanche rivolto la parola: «Quella poverina di Laura - confida Bellillo - mi diceva “ma che gli ho fatto a st’ignorante che neanche mi saluta? ”». E gli aneddoti degli “squilibrati” potrebbero continuare. Il banchiere rosso Nerio Nesi narra che «i rapporti erano molto migliori con Cossutta che con D’Alema-Diliberto. D’Alema è sempre stato distaccato, e infine tradito da questa alterigia, si viveva come Napoleone... è stata la sua tragedia». Una volta Mattarella vide in aula sempre lei, la Bellillo, con l’ombelico di fuoriaccanto a Nerio e, appunto, al premier: «Le chiese di coprirsi, e lei lo sfotté: “Perché, non ti piace il mio ombelico? ”». Lo sventurato si ritirò, arrossendo.
C’è un paragone che viene in mente, con Cacciari, predecessore di D’Alema nel ramo, quandò vaticinò: «La sinistra? Un campo di capre pazze».

l’Unità 23.11.12
Bonino candidata a Roma? Spero passi dalle primarie
Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta risponde a Paolo Izzo

La buona notizia-speranza è che forse Emma Bonino sarà la candidata radicale alle elezioni per il nuovo sindaco di Roma e chissà mai che possa anche vincere, visto che alle scorse elezioni regionali c’è quasi riuscita. La cattiva notizia è che quasi non se ne dà e non se ne darà notizia. A meno che quegli «indignados» dei Radicali non digiunino a oltranza o non si incatenino alle porte del Campidoglio.
Paolo Izzo

Ho grande stima di Emma Bonino, ho votato (e lavorato) per lei nel 2010 e ho accolto con piacere la notizia della sua candidatura. In questa fase a me sembra importante però che questa candidatura sia vagliata all’interno di primarie in cui Emma si impegni confrontando le sue idee e i suoi programmi con quelli degli altri candidati. Avrebbe giovamento da questo confronto, che io spero sia aperto e tranquillo, su tutti i problemi di una città come Roma, anche il modo di porsi di un partito, come quello radicale, abituato a presentare le sue posizioni in modo, appunto, radicale, «o con me o contro di me», e a considerare con un certo fastidio l’idea per cui le decisioni, all’interno di una coalizione, vanno (andrebbero) prese tenendo conto delle opinioni di tutti. Diverso è, infatti, il governare dal proporsi come una persona o un insieme di persone libere da compromessi e fedeli solo alle cose di cui sono convinti fino in fondo: testimoniandone l’importanza con dichiarazioni e atti più o meno vistosi, dal digiuno alla dimostrazione pacifica. Benvenuta dunque la candidatura di una radicale storica come Emma Bonino che potrebbe con la forza delle sue idee confrontarsi nelle primarie, senza digiuni e senza incatenamenti, con gente che la stima e che lei può ugualmente stimare.

l’Unità 23.11.12
Khaled Meshaal
«Abbiamo resistito Israele non è riuscita a imporci le sue condizioni»
«Così è nata la tregua Non siamo più isolati»
di Umberto De Giovannangeli


Ha negoziato il cessate il fuoco di Gaza con il governo israeliano. È a capo dell’Ufficio politico di Hamas

Veste i panni del «generale» vincitore della «guerra di Gaza». Parla come se fosse lui, e non Abu Mazen, il vero presidente dei palestinesi. Di certo, piaccia o no, è l’uomo del giorno: il suo nome è Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico di Hamas. Nel 1997, ad Amman, sfuggì ad un attentato del Mossad ordinato da Benjamin Netanyahu, allora come oggi primo ministro d’Israele.
Dodici anni dopo, la diplomazia internazionale e Netanyahu hanno dovuto negoziare con lui una tregua. «E già questo rimarca Meshaal una vittoria di Hamas. Per anni hanno cercato in tutti i modi di annientarci: hanno assassinato il nostro fondatore (lo sceicco Ahmed Yassin, ndr) e molti dei nostri eroici combattenti; hanno provato con le odiose punizioni collettive inflitte ad una popolazione colpevole ai loro occhi di aver scelto Hamas nelle libere elezioni del 2006. Ci hanno provato in tutti i modi, ma hanno fallito. Perché Hamas è parte fondamentale del popolo palestinese e da questo trae la sua forza». Meshaal ha parole di elogio per il presidente egiziano, Mohamed Morsi: «Ha compreso le ragioni della resistenza palestinese e si è comportato da grande leader. A differenza di Mubarak, non ha sacrificato la causa palestinese per compiacere l’America e i sionisti».
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Ehud Barak, hanno affermato che Israele ha inferto colpi durissimi ad Hamas «Questa è propaganda, cattiva propaganda. La verità è che la tregua è una vittoria della resistenza palestinese, di cui Hamas è parte. È la vittoria di un popolo. Israele ha fallito tutti i suoi obiettivi».
Israele ha motivato le operazioni militari rivendicando il diritto all’autodifesa contro il lancio di missili palestinesi contro le città frontaliere.
«Per Israele tutto è “autodifesa”. Anche l’occupazione della Palestina, anche l’espropriazione delle terre palestinesi, anche la pulizia etnica condotta ad Al Quds (Gerusalemme, ndr). Annientare un popolo per loro è “autodifesa”. Per noi questa si chiama aggressione. Continua, martellante, criminale. Quella condotta in questi giorni dagli israeliani è stata un’aggressione a tradimento contro di noi a Gaza. Ci siamo difesi, e bene. Ed è stata la determinazione dei nostri combattenti a costringere Israele a trattare. Israele comprende solo il linguaggio della forza, e se tratta è solo perché non può fare altrimenti».
Lei ha ringraziato il presidente egiziano Mohamed Morsi per aver mediato il cessate-il-fuoco. Morsi viene dai Fratelli musulmani, di cui Hamas, alla sua nascita, ne è stata una costola...
«Un legame che ha resistito nel tempo e che oggi è ancora più forte. I palestinesi, e non solo Hamas, vedono nel presidente Morsi un sostenitore della causa palestinese, e lo stesso si può dire per i leader dei tanti Paesi arabi e musulmani che hanno sostenuto concretamente la nostra resistenza. E questa, a ben vedere, è l’altra grande sconfitta d’Israele: volevano isolarci, hanno ottenuto il risultato opposto». Tornando all’accordo sul cessate-il-fuoco. Quali sono i punti che Hamas ritiene espressione della sua “vittoria”?
«Lo stop agli omicidi mirati e all’invasione. L’apertura di tutti i valichi, e non solo di Rafah. Due condizioni volute da Hamas e che Israele ha dovuto accettare».
La tregua resta appesa a un filo...
«Le nostre armi taceranno se Israele farà altrettanto. Ma abbiamo dimostrato di saperci difendere e di avere acquisito i mezzi per farlo molto bene...».
Lei ha ringraziato l’Iran per il sostegno militare dato ad Hamas...
«È così, ma non è solo l’Iran ad averlo fatto. Una cosa è certa: se non ci sarà pace a Gaza, non ci sarà neanche a Tel Aviv».
Netanyahu non ha chiuso le porte ad uno Stato palestinese...
«Ma di quale Stato parla Netanyahu? La parola giusta è "bantustan". E come si può parlare di esempio di democrazia riferendosi a un Paese che ha segregato un altro popolo, lo ha depredato della sua terra, facendo carta straccia delle risoluzioni Onu, annettendosi Al Quds (Gerusalemme, ndr). Come si può chiedere, pregiudizialmente, che la vittima riconosca e legittimi il suo carnefice? In questa situazione, la resistenza resta la nostra unica alternativa».
Ma nel suo vocabolario politico, esiste un processo di pace. E se sì, quale? «Un "processo di pace" con i palestinesi non può fare neanche il primo minuscolo passo finché Israele non si ritirerà innanzitutto nei confini del 1967, smantellerà tutti gli insediamenti, rimuoverà tutti i soldati da Gaza e dalla West Bank, sconfesserà la sua annessione illegale di Gerusalemme, rilascerà tutti i prigionieri e metterà fine in modo permanente alla sua chiusura dei nostri confini internazionali, delle nostre coste, e del nostro spazio aereo. Questo fornirebbe il punto di partenza per negoziati giusti, e getterebbe le fondamenta per il ritorno di milioni di rifugiati. Dato quello che abbiamo perduto, è l’unica strada tramite la quale possiamo ricominciare a essere integri».
Lei parla di diritto di resistenza. Ma cosa c’entrano gli attacchi suicidi, gli attentati contro autobus come quello dell’altro ieri a Tel Aviv, con questo “diritto”? «Noi non abbiamo F16, artiglieria pesante, navi: la potenza di fuoco che Israele ha usato contro di noi e la nostra gente. Per resistere usiamo ciò che abbiamo, e in primo luogo il coraggio degli shahid (martiri) pronti a sacrificare la loro stessa vita in nome della Palestina».
Nei giorni scorsi, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas, ha affermato che è giunto il tempo della riconciliazione con Hamas.
«A chiedere l’unità è il popolo palestinese. L’unità che si realizza nella resistenza all’occupazione e nel prendere atto del fallimento di una strategia che ha agevolato le mire espansioniste del nemico. Israele concepisce la “pace” come una resa e ogni disponibilità al compromesso come una debolezza su cui fare leva per ottenere sempre di più. Con Hamas non ha funzionato».
(ha collaborato Osama Hamdan)

l’Unità 23.11.12
Bene la tregua di Gaza ma da sola non basta
di Antonio Panzeri

Eurodeputato Pd

L’ACCORDO TROVATO PER LA TREGUA, DOPO OTTO GIORNI DI SCONTRI tra Israele e Hamas sulla striscia di Gaza, fa ben sperare: un obiettivo minimo, che è stato sollecitato anche dal Parlamento europeo con la risoluzione approvata a Strasburgo. Quello a cui abbiamo assistito in questa settimana é l'ennesimo, tragico capitolo di una guerra che non trova soluzione. Un conflitto che allarga il fossato tra arabi ed ebrei, religiosi e laici, nel quale rischia di prevalere la deriva integralista sia per Israele, dove si allarga il fronte di chi vuole il primato della legge ebraica sulle leggi dello Stato, sia per l'Islam politico.
Nel frattempo, però, il bilancio delle vittime, spesso bambini, si fa altissimo e questi due popoli si trovano a dover convivere quotidianamente con la precarietà dell'esistenza, senza alcuna certezza sul futuro, anche quello più immediato. Come ha dimostrato lo stesso attentato di Tel Aviv.
Tuttavia, bisogna essere consapevoli che oggi ci sono rilevanti novità rispetto al passato. Benché, infatti, il copione si ripeta identico da decenni, oggi più che mai il contesto geopolitico intorno è profondamente cambiato e porta con sè ulteriori preoccupazioni, che si aggiungono alle criticità già presenti. La primavera araba ha ridefinito l’assetto nell’area.
L’Egitto, in prima linea per la definizione di una soluzione pacifica del conflitto, vede al governo la Fratellanza musulmana, legata ad Hamas, che per questo cerca di mantenere un precario equilibrio tra il pericolo di uno scontro con Israele e la vicinanza ideologica con i Fratelli di Gaza. In Siria, devastata da una guerra civile che non ha trovato ancora una soluzione, continua a crescere la presenza di islamisti radicali. In tutto questo, l’Iran gioca un ruolo fondamentale sostenendo a distanza i fronti aperti nell’eterna «guerra fredda» con Israele. Scongiurato, almeno per il momento, lo scontro che avrebbe avuto maggiori ripercussioni per le forze internazionali (Israele versus Iran), di fatto le tensioni aumentano e questo contesto mutato non aiuta a decifrarne i possibili risvolti.
Dopo un primo momento di esitazione infatti gli attori internazionali, Usa in primis, hanno avviato tentativi diplomatici per contenere gli effetti devastanti che l’ennesima scintilla di questo conflitto avrebbe potuto e potrebbe provocare.
Mentre salutiamo positivamente l’intesa trovata, resta dunque, tuttavia, l’incognita del dopo. Questa triste parentesi del conflitto israelo-palestinese dimostra difatti quanto sia fuori controllo la situazione. Dopo la decisione degli Stati Uniti di «alleggerire» la presenza occidentale nel Grande Medio Oriente dopo undici anni di guerra al terrorismo e due problematiche campagne in Afghanistan e in Iraq ciò che è nato dopo la primavera araba necessita di essere accompagnato dal punto di vista politico ed economico, riconoscendo gli interlocutori, anche quelli sgraditi.
Oggi, più di prima, le forze internazionali (e fra queste l'Europa) devono assicurare la loro costante presenza per garantire che i conflitti in atto trovino una soluzione e per supportare i nuovi governi nell’avvio di processi democratici virtuosi.
È un lavoro lungo e faticoso ma necessario, che deve essere capace di compiere interventi nell’urgenza del momento e allo stesso tempo delineare le prospettive future.

Repubblica 23.11.12
Yossi Alpher, ex Mossad: “Il presidente dell’Anp delegittimato per la sua domanda di adesione all’Onu”
“Netanyahu ha emarginato l’Olp non vuole uno Stato palestinese”
di Alix Van Buren


«DUE elementi emergono con nitidezza all’indomani della tregua fra Israele e Hamas. Punto primo, Hamas risulta rafforzato con un ruolo da protagonista e una forma di riconoscimento. Punto secondo, il premier israeliano Netanyahu ha forse raggiunto uno dei suoi obiettivi: emarginare il presidente palestinese Abu Mazen e la sua richiesta di riconoscimento della Palestina all’Onu. Lo suggerisce il tempismo dell’operazione militare». Yossi Alpher, 12 anni al Mossad, ex consulente di Barak per i negoziati di pace israelo-palestinesi e direttore del Centro Jaffee di studi strategici, legge in controluce il quadro che va delineandosi.
Alpher, secondo lei Netanyahu è disposto a concedere, nientemeno, una parte di rilievo a Hamas?
«Perché tanta sorpresa? Uno degli effetti più evidenti dell’offensiva è la statura conquistata da Hamas, sia a Gaza che sulla scena internazionale. In questi giorni tutti erano a colloquio coi suoi leader: dal presidente egiziano Morsi al premier turco Erdogan agli inviati del Qatar. E nella stanza accanto c’era il Mossad. Questa è una forma di riconoscimento indiretto. A Gaza Hamas può presentarsi con gli allori di chi è sopravvissuto. Ha acquistato peso in tutto il Medio Oriente».
Questo a scapito dell’Olp e del presidente palestinese Abu Mazen? E cioè del primo interlocutore di pace d’Israele?
«Basta riflettere sulle azioni del governo israeliano nell’ultimo quadriennio per capire che Netanyahu non ha alcuna intenzione di trattare con Abu Mazen. Non lo interessa la soluzione dei due Stati, la restituzione del 95 per cento della Cisgiordania e di parte di Gerusalemme. Il suo desiderio è tutt’altro: appropriarsi della Cisgiordania e di Gerusalemme. Perciò preferisce Hamas come interlocutore al posto di Abu Mazen, tanto più che la sua richiesta di riconoscimento all’Onu era prevista entro pochi giorni».
Lei vede una coincidenza fra l’offensiva israeliana e la richiesta dell’Olp?
«Come non riconoscerla? Il 29 novembre Abu Mazen avrebbe depositato all’Onu la domanda di adesione della Palestina in qualità di Stato non membro. Questo preoccupa Israele: darebbe la possibilità all’Olp di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia, esponendo una serie di accuse e reclami contro Israele. È probabile che uno degli obiettivi di Netanyahu fosse di minimizzare l’evento, di distrarre l’attenzione internazionale».

Corriere 23.11.12
Il super cattolico Borg Commissario Ue,  la competenza che batte l'ideologia
di Danilo Taino


Qualche volta anche i piccoli cacciatori di streghe finiscono faccia a terra. Quando ad esempio la competenza vince sull'ideologia. Può stupire ma è successo al Parlamento europeo: la nomina a commissario Ue per la Sanità e la Protezione dei consumatori di Tonio Borg, politico ultraconservatore cattolico di Malta, è stata accettata dai deputati con una larga maggioranza - 386 voti a favore, 281 contro, 28 astenuti - nonostante la campagna di opposizione condotta da gruppi pro-aborto e di difesa dei diritti degli omosessuali; e nonostante l'ostilità di buona parte dei parlamentari socialisti.
Quella di Borg, 55 anni, era in partenza una nomina difficile per gli standard di Strasburgo. Iscritto al partito nazionalista maltese, è contrario a leggi che consentono l'aborto, si oppone al riconoscimento delle unioni di fatto, in passato ha votato contro il divorzio. È rigido anche sulle politiche dell'immigrazione. Davanti al Parlamento europeo, si è trovato in una situazione simile a quella che l'ex ministro italiano Rocco Buttiglione dovette affrontare nel 2004: giustificare le proprie opinioni — non le proprie intenzioni nel ruolo di commissario — davanti a numerosi deputati che non le ritenevano degne di un europeo. Opposizioni, dunque, non alle politiche ma alla legittimità ideologica. Buttiglione finì stritolato, non entrò mai nella Commissione Barroso. Forte anche dell'esperienza dell'italiano, Borg ha invece affrontato i deputati garantendo che rispetterà rigorosamente le leggi europee e nazionali (promessa che aveva fatto anche Buttiglione) e soprattutto ha mostrato alta competenza politica e tecnica nel rispondere alle domande.
Alla fine, il Parlamento — compresi alcuni deputati del Pd — non ha dato retta agli indignati e ha guardato più ai meriti della persona che alla sua ideologia e religiosità: è cioè stato più liberale e rispettoso delle idee altrui di quanto di solito non lo sia Borg stesso. Ora sta al futuro commissario, non importa quanto integralista, mantenere le promesse di laicità.

La Stampa 23.11.12
Il diario cinese dell’ex ct Lippi:
io, i comunisti e il traffico di Canton
di Andrea Malaguti

qui

La Stampa 23.11.12
Parata e spettacoli alla presenza delle autorità politiche
In 250 mila per lo show del Cavallino Ferrari festeggia così 20 anni in Cina
di Barbara D’Amico


Le celebrazioni di Maranello a Canton per il salone dell’auto
Le Ferrari sfilano nello showroom di Guangzhou, in Cina

Celebrazioni in grande stile per i vent’anni di presenza Ferrari sul mercato cinese. La casa automobilistica di Maranello ha scelto la ex Canton, dove si è svolto il Salone dell’Auto locale, per far sfilare 130 Ferrari provenienti da tutta la Cina, guidate dai loro proprietari lungo la città meridionale cinese. Una parata in attesa dei festeggiamenti notturni culminati con la Canton Tower - il monumento più famoso della città - illuminato di rosso. Ad accogliere il presidente dellaFerrari, Luca Montezemolo, anche il segretario del partito comunista di Guanzghou che ha seguito la parata con altre 250 mila le persone (cui si aggiungono le 18 mila che hanno riempito lo stadio cittadino per lo spettacolo finale). Un successo confermato anche dagli oltre 300 mila cinesi che hanno visitato la mostra «Mito Ferrari» aperta meno di sei mesi fa a Shanghai. «Sono molto impressionato», ha detto Montezemolo definendo la risposta ai festeggiamenti la «dimostrazione di quello che la Ferrari è per la Cina e viceversa, un mondo di passioni e di entusiasmo». Montezemolo ha anche ricordato che il marchio sta per chiudere «un anno positivo nel paese. Abbiamo già 25 dealer in Cina e l’obiettivo è quello di arrivare almeno a una trentina nei prossimi mesi». Il piano ora è far diventare la Cina il secondo mercato mondiale della Ferrari dopo quello statunitense.

Repubblica 23.11.12
Obama alla guerra delle tasse
Il secondo mandato del presidente apre la stagione della “caccia ai ricchi”.
È una forte svolta a sinistra, per archiviare l’ideologia reaganiana. E rilanciare l’American Dream
Chi ha un reddito sopra i 200 mila dollari dovrà pagare di più
di Federico Rampini


NEW YORK Ma si tratta di una misurazione molto imprecisa. Anzitutto perché queste sono le statistiche derivate dall’imposta sul reddito delle persone fisiche: che in America sono inaffidabili quanto in Italia, anche se per ragioni completamente diverse. In Italia è a causa dell’evasione, in America perché i redditi sono un aspetto quasi marginale nelle diseguaglianze. Infatti lì dentro finiscono categorie sociali separate a loro volta da distanze abissali.
Poco sopra la soglia dei 200.000 lordi annui ci sono medici ospedalieri e ingegneri informatici, il capo dei pompieri di New York e quello della polizia, piloti aerei che fanno turni di lavoro sempre più massacranti. È gente che a fine mese, una volta detratte le tasse federali, quelle statali, quelle cittadine, la retta scolastica dei figli, l’assicurazione sanitaria, la rata del mutuo, possono far fatica a mettere da parte qualcosa per la pensione. È anche tra loro che si trovano tanti baby-boomer convinti a lavorare fino a 70 anni per “allungare” un fondo previdenziale troppo magro. Sono esponenti del ceto medioalto, certo, e anche benestanti. Ma ricchi?
Poi c’è un altro mondo. È quello dei chief executive che guadagnano 600 volte il loro dipendente medio, e quando vengono licenziati per scarso rendimento incassano il “paracadute d’oro” di decine di milioni di buonuscita negoziato ex ante dai loro potenti avvocati (Carly Fiorina di Hewlett-Packard, per esempio). Ci sono le fortune miliardarie dei Warren Buffett e Bill Gates, beneficiate dalla tassazione più agevolata di tutto l’Occidente sulle plusvalenze finanziarie. Sono il Gotha che compone lo 0,1% della società americana. Sono loro che fanno esplodere i prezzi delle case di lusso, fino ai 98 milioni per un appartamento sul nuovo grattacielo in costruzione fra la 57esima Strada e la Settima Avenue di Manhattan. In mezzo, fra il 2% e lo 0,1% c’è gente come Barack Obama, che grazie alle royalties sui suoi libri (più corpose dello stipendio da presidente) per diversi anni ha toccato o superato il milione di reddito: e non perde occasione per citare se stesso fra coloro che dovranno pagare di più al fisco. Per trent’anni furono venerati ai limiti dell’idolatria, grazie all’ideologia reaganiana che li identificava con i «creatori di ricchezza collettiva», e usava la celebre immagine della crescita come un’alta marea («innalza lo yacht del miliardario e la barchetta del pescatore, beneficiando tutti»). Oggi quelle leggende sono frantumate dalla realtà, e la caccia ai ricchi ha solide basi economiche. Dal 2000 al 2010 una famiglia tipica del ceto medio americano ha perso 3.837 dollari di reddito annuo. Nello stesso periodo, l’un per cento della popolazione più agiata si è accaparrata il 17,42% del reddito nazionale cioè il doppio rispetto agli albori dell’era reaganiana (1980). Una società dove crescono in questo modo le diseguaglianze non è solo eticamente ingiusta: è inefficiente e si condanna al declino. Lo afferma autorevolmente il Fondo monetario internazionale, non certo un’organizzazione della sinistra radicale. Tra le ragioni per cui le diseguaglianze uccidono il dinamismo ne basta una: l’indebolimento della meritocrazia. Perfino il sistema universitario americano,il migliore del mondo, subisce la deriva oligarchica. Nella selezione per entrare a Harvard, Yale, Princeton o Stanford, se tuo padre è un miliardario che ha donato fondi alla ricerca, verrai ammesso anche se non sei un ottimo studente. La cancrena delle diseguaglianze può uccidere l’American Dream. Perciò Obama fa delle politiche redistributive un cantiere del suo secondo mandato.Ma riuscirà anon penalizzare il piccolo imprenditore da 200.000 dollari annui mettendolo sulla stessa graticola di Larry Ellison, il chief executive di Oracle (e vincitore della “America’s Cup”) che ai 15 milioni annui di salario aggiunge 65 milioni di stock option? È giusto mettere sullo stesso piano il neurochirurgo che salva vite umane e il trader di uno hedge fund che vive di speculazione, e guadagna molto di più di chi sta in sala operatoria?
A lanciare una sfida a Obama Due è Daniel Altman, economista della Stern School of Business alla New York University. «Per ridurre le ineguaglianze tassiamo la ricchezza, non il reddito», propone Altman. «Il vero potere economico non si misura dal reddito ma dal patrimonio, è sul fronte delle ricchezze accumulate che si scavano le diseguaglianze più profonde». La prova: nel 1992 il 10% della popolazione più ricca in America controllava 20 volte più ricchezza del 50% dei ceti medio-bassi.
Oggi la sproporzione è salita a 65 volte. E questa diseguaglianza è tanto più anomala, in quanto non è la conseguenza “ineluttabile” di fenomeni come la globalizzazione (concorrenza dei salari cinesi per i colletti blu americani) o l’automazione tecnologica (che sostituisce macchine alla manodopera meno qualificata). No, sul fronte patrimoniale le diseguaglianze sono “fabbricate” proprio dalla politica fiscale. Sui patrimoni la tassazione è regressiva: toglie ai poveri per dare ai ricchi. Solo i Paperoni, infatti, hanno una quota predominante del loro reddito che proviene da dividendi e capital-gain (plusvalenze finanziarie). Oggi questi redditi sono colpiti dal prelievo del 15%, meno della metà dell’aliquota marginale sul reddito dei dipendenti medio-alti (35% più imposte locali). Un’analisi compiuta dal Tax Policy Center dimostra che i “veri” ricchi dello 0,1%, hanno risparmiato in media 356.000 dollari di tasse a testa, nell’anno fiscale 2011.
Ecco la proposta “rivoluzionaria” che Altman lancia a Obama:«Il patrimonio totale degli americani valeva oltre 58.000 miliardi di dollari a fine 2010. Una patrimoniale secca dell’1,5% sulle proprietà finanziarie ed altri beni (imprese, case, automobili) produrrebbe un gettito superiore a tutte le attuali imposte sul reddito, inclusa perfino l’imposta di successione». Per non colpire modesti risparmi familiari, Altman immagina che l’aliquota sia zero fino a mezzo milione di ricchezza, 1% dai 500.000 dollari al milione, e 2% sopra il milione di patrimonio. Per la maggior parte degli americani, lavoratori dipendenti e ceto medio, il risparmio fiscale sarebbe consistente. La patrimoniale sui “veri ricchi” consentirebbe di rilanciare altre politiche in favore di un’eguaglianza delle opportunità: investimenti nella scuola pubblica, nella riqualificazione professionale dei lavoratori licenziati.
Bisogna aspettarsi una controffensiva dello 0,1%. Snobbati da Obama che non li invita più alla Casa Bianca, i banchieri di Wall Street hanno altre difese in serbo. I loro potenti studi legali già preparano le scappatoie più sofisticate per sfruttare ogni cavillo giuridico e mettere al riparo in paradisi offshore i patrimoni minacciati. La caccia al ricco è appena iniziata, i colpi di scena non mancheranno.

Repubblica 23.11.12
L’economista James Galbraith: “Il banco di prova è sul ruolo dello Stato”
“Ma la lobby dei banchieri non rinuncerà al suo potere”
di Eugenio Occorsio


«Punire l’establishment finanziario e i ricchi? Non ci sono ancora le prove che Obama voglia intervenire con tanta fermezza. Io vedo un presidente ancora soggiogato da Wall Street». Ad esprimere quest’opinione controcorrente è uno degli economisti di più provata fede democratica, con un cognome che è una garanzia: James Galbraith, 60 anni, docente all’università del Texas, figlio di quel gigante del novecento che era John Kenneth, consigliere economico di John Kennedy e riferimento del partito dell’asinello per decenni. «Intendiamoci – chiarisce subito – io ho votato Obama con grandissima convinzione. Aveva di fronte un personaggio che prometteva mirabolanti performance finanziarie all’America in cambio della rinuncia a buona parte del welfare e dell’intervento pubblico. Per fortuna la gente non gli ha creduto».
Non a caso la finanza ha appoggiato Romney. E allora, professore?
«Gli sarebbe andata ancora meglio, forse. Ma anche con Obama non hanno nulla da temere né da perdere. Lo chieda ai magistrati di New York, quali acrobazie devono fare ogni volta che vogliono incastrare qualche delinquente finanziario e chiedono la collaborazione del governo federale. Sabotaggio alle inchieste, questa è la parola giusta».
Ma allora perché Obama ha convocato tutte le parti sociali tranne i banchieri?
«Ma cosa c’entra? Ha convocato chi era interessato direttamente alle questioni in discussione. Quando verrà il loro momento li convocherà, i banchieri, ne sia sicuro. Senta, il Dodd-Frank Act, quello che doveva essere la grande riforma regolatoria del mercato, è del 2010. Ma in massima parte è rimasto inattuato perché l’amministrazione non collabora. Voglio essere clemente: forse Obama personalmente sarebbe anche più incisivo, ma il ministero del Tesoro e tutto l’apparato di controllo che ruota intorno ad esso, è espressione diretta del mondo della finanza. Quindi, anche ammettendo che ne abbia la volontà, il presidente non può far nulla. Comandano loro».
In effetti Tim Geithner viene dalla Fed. Ora però ha annunciato le dimissioni: con il successore la musica cambierà?
«No, ne sono sicuro. Sceglieranno un altro uomo, o donna, proveniente dall’ambiente bancario. Vorrei sbagliarmi, ma so che sarà così. Lo chieda a Sheila Bair, che da presidente della Federal Deposit Insurance Corporation ha dovuto combattere epiche battaglie contro chi? Contro gli uomini del presidente, della Fed e del Tesoro. Finché si è dimessa nel 2011. Perfino nella sanità, giusto punto d’orgoglio di Obama, si infiltra il gruppo di potere che vuole compromettere l’intervento pubblico, a partire dai programmi sanitari Medicare e Medicaid, magari con la scusa del fiscal cliff. Il vero banco di prova per Obama sarà la riaffermazione della necessità e dell’opportunità di uno Stato ben presente nella vita della popolazione».
Anche il fiscal cliff è un falso problema?
«Ma certo. Sembra che il mondo precipiti se non si interviene entro fine anno. Invece non c’è nessuna fretta, né modifiche sostanziali del quadro politico con il nuovo Congresso che giustifichino l’urgenza. C’è tutto il tempo per riflettere e ponderare con attenzione le misure da prendere. E il tempo dobbiamo usarlo al meglio per valutare le decisioni più equilibrate. Nessuna emergenza».
Infine, i ricchi. Non le sembra basso il livello di 250mila dollari, insomma un segno che Obama vuole allargare la base imponibile in modo saggiamente progressivo?
«Macché. Arriviamo al 2% della popolazione. Tutto qui. E anche se ora finiranno gli incentivi di Bush, la tassazione tornerà ai livelli di Clinton. Questa sarebbe la grande riforma?»

La Stampa 23.11.12
Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo
“Non basta a tranquillizzarci che sia una convenzione”
Il punto cruciale: se si rinuncia ad affermare che tutto è interpretazione si può discutere la realtà
La replica di De Caro alla recensione di Bentornata realtà
di Mario De Caro


«Bruto è uomo d’onore» declama ripetutamente il Marcantonio di Shakespeare, nel suo discorso al rumoreggiante popolo romano, attonito per l’uccisione di Cesare e ancora indeciso sul da farsi. Ma in realtà, si sa, con la sua grande prova di eloquenza Marcantonio sta demolendo tutto quanto Bruto ha detto. Le sue lodi sono solo una captatio benevolentiae per i suoi uditori.
Mi dispiace dunque rischiare di apparire un tardo emulatore di Marcantonio se dico che ho sempre ammirato Gianni Vattimo per la chiarezza e la profondità delle sue idee (il suo libro su Heidegger, per esempio, mi è sempre sembrato quanto di meglio mai scritto sul criptico autore di Essere e tempo ). Data dunque la mia alta opinione che ho di lui, ho trovato francamente sorprendente l’intervento di Vattimo sulla Stampa di ieri, in cui menzionava la raccolta di saggi Bentornata realtà, che ho appena curato con Maurizio Ferraris per Einaudi.
In primo luogo mi è parso bizzarro che nel merito dell’antologia Vattimo si limiti a dire che essa contiene «scritti di vari autori». Tra questi «vari autori» figurano alcuni dei maggiori filosofi contemporanei (da Putnam a Eco, da Searle a Marconi), che forse avrebbero meritato una qualche menzione – al pari almeno di Arbasino, del quale Vattimo riporta il giudizio «Signora mia non c’è più religione», evidentemente ineludibile per comprendere la discussione contemporanea sul realismo filosofico.
In realtà, l’impressione è che Vattimo non abbia nemmeno aperto Bentornata realtà – o se l’ha fatto, ha tenuto il segreto ben chiuso in sé. Ed è un peccato, perché in quel volume ci sono discussioni e argomentazioni che potrebbero interessarlo. Nel suo ellittico pezzo Vattimo per esempio ha scritto: «Davvero dovremmo non fidarci delle misure di lunghezza né della longitudine e latitudine solo perché sono fondate su basi convenzionali? ». Da Wittgenstein a Quine, da Habermas a Kripke, sono decenni che nel mondo filosofico si discute dello statuto epistemologico delle convenzioni. Non avevo mai letto prima però che, siccome la convenzionalità del riferimento al metro di Sèvres è inoffensiva, allora non dovremmo preoccuparci del fatto che tutto è convenzionale. Cosa esattamente ciò significhi non mi è chiaro: è una sorta di argomento induttivo? Oppure vuole suggerire che il convenzionalismo in altri campi, per esempio in morale, è tanto poco pericoloso quanto quello rispetto alle unità di lunghezza? (Come se uno dicesse: «Io, a differenza di te, uso le yards invece dei metri e credo nella liceità dell’uxoricidio, tanto è solo questione di convenzioni»).
Vattimo scrive poi: «Abbiamo davvero bisogno di riferirci al diritto naturale, all’essenza dell’uomo, per non attraversare con il rosso? Certo che no». Magari mi sono perso qualcosa, ma non capisco bene chi nell’immensa discussione internazionale sul realismo abbia mai sostenuto la tesi che Vattimo critica. Tra i realisti contemporanei, Hilary Putnam è forse quello che ha indagato più in profondità lo statuto epistemologico delle convenzioni. E non solo rispetto ai semafori (che forse non sono il caso teoreticamente più urgente), ma in etica, in economia, in scienza. E a Putnam mai è passato per la mente di sostenere che siccome sostiene posizioni realiste in alcuni ambiti, allora dovrebbe negare il ruolo delle convenzioni in tutti gli ambiti.
C’è poi un punto cruciale che Vattimo trascura: la discussione contemporanea sul realismo non è una questione del tipo tutto-o-niente, come invece sembra essere l’antirealismo radicale che egli professa. Ciò che è interessante è proprio che, se si rinuncia a facili formule tipo «tutto è interpretazione», si può finalmente tornare a discutere con serenità di questioni come la realtà delle valutazioni morali, delle teorie scientifiche, dei giudizi politici. E ciò vuol dire che in alcuni casi si potrà prendere una posizione realista, in altri una posizione antirealista.
Nel suo articolo Vattimo si chiede infine con una qualche angoscia: «perché si insiste tanto a volermi far dire che se prendo aerei e treni devo credere che la scienza dice la verità, cioè rispecchia la “realtà” così com’è? ». Ecco, anche su questo Vattimo potrebbe utilmente leggere l’articolo di Putnam in Bentornata realtà (così non lascia nemmeno la copia intonsa). Scoprirà che, sebbene abbiamo ottime ragioni per ritenere che le nostre teorie subatomiche descrivano la realtà fisica, ciò non vuol dire affatto che le teorie scientifiche descrivano, e meno ancora che spieghino, tutta la realtà. Magari sarà contenta anche la signora di Arbasino.

Sette del Corriere della Sera 23.11.12
Olga, l’altra fragile metà del cielo di Pablo Picasso
di Francesca Pini

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La Stampa 23.11.12
“Per Losey l’esilio nel maccartismo diventò un bonus”
La vedova: le difficoltà lo resero più creativo
di Fulvia Caprara


Esiliato Joseph Losey, il grande regista statunitense bandito da Hollywood ai tempi del maccartismo, che si reinventò a Londra firmando capolavori come Il servo oMessaggero d’amore, è il protagonista della retrospettiva del 30° Tff.
È Joseph Losey, il grande regista statunitense bandito da Hollywood ai tempi del maccartismo, che si reinventò a Londra firmando capolavori come Il servo oMessaggero d’amore, il protagonista della retrospettiva del 30° Tff. A presentare la raccolta completa dei suoi film sarà a Torino la vedova Patricia Mohan Losey, che ha lavorato a lungo con lui.
Nel cinema di Losey le donne sono spesso presenze destabilizzanti. Che ci può dire di questa prospettiva?
«Non ricordo di aver mai avuto una conversazione con Losey, in termini generali, sulle donne. Così, qualunque cosa io dicessi adesso su questo tema, potrebbe essere arbitraria. Losey era un uomo della sua generazione e la sua educazione era avvenuta all’interno di un sistema maschile, compresi gli anni alla facoltà di medicina di Darthmouth dove non credo proprio che all’epoca, ci fossero donne. Immagino che fosse in qualche modo sconcertato, confuso, dalle donne, ma, siccome non smetteva mai di imparare e sperimentare, la sua visione del mondo femminile si sarà modificata con il passare degli anni».
Quanto ha influito il trauma dell’abbandono obbligato degli Usa nel maccartismo sul suo percorso artistico?
«Certo il suo sviluppo creativo fu immensamente influenzato dall’esilio forzato. Il contatto con la cultura europea e l’esperienza della regia lo portarono a ripensare il suo modo di lavorare. Diceva spesso che a Hollywood non avrebbe mai girato certi film. Ha sempre considerato il suo esilio come un bonus».
A quale dei suoi film era più legato?
«A questa domanda lui rispondeva, invariabilmente, “il prossimo”. Era molto legato a Eva per ragioni e emotive e perchè era stato brutalmente tagliato. Sentiva di essersi particolarmente esposto, ed era determinato a non lasciare che una cosa del genere si ripetesse».
Messaggero d’amore è tra le sue opere più celebri, come lo ricordava?
«Losey non era tipo da guardare troppo al passato. Certo Messaggero d’amore gli aveva procurato un grande piacere. Ho ritrovato tra i miei appunti un’annotazione che mi ha fatto sorridere. In un’intervista al settimanale belga Pourquoi pas, avrebbe detto “Grazie McCarthy” e il motivo per cui lo ringraziava era proprio quello di cui dicevo prima. E cioè che, se non avesse dovuto lasciare gli Stati Uniti agli inizi degli Anni 50, avrebbe guadagnato molto di più, ma non avrebbe mai girato “il genere di film che mi sono trovato a fare in Inghilterra”».
Come vi siete incontrati?
«Vivevo a Roma, stavo lavorando per Hugo Butler, lo scrittore messo all’indice dalle liste nere di MacCarthy, facevo ricerche per il film che lui stava scrivendo per Robert Aldrich. Hugo stava anche lavorando alla sceneggiatura di Eva e Joe venne a pranzo con noi».
Lei dice, a proposito di Steaming, che la vostra collaborazione era «all’insegna del conflitto». Su cosa litigavate?
«Le controversie su Steaming avevano soprattutto a che fare con le convinzioni degli uomini sulle donne. Produttore e regista, tutti e due maschi, pensavano che le loro idee sulle fantasie e sulle conversazioni delle donne sugli uomini fossero più valide di quelle di Nell Dunn, autrice del testo, e delle mie».
In Italia Losey girò il Don Giovanni. Conserva qualche ricordo particolare di quell’esperienza?
«Tanti... Nel mio libro che sarà pubblicato a marzo da L’Harmattan: Collezione Le Parti Pris du Cinema, titolo provvisorio My years with Joseph Losey, rievoco alcuni momenti. Per esempio la mattina in cui andammo alla Rotonda del Palladio, invisibile a causa della nebbia, fino all’attimo in cui non ce la trovammo improvvisamente davanti: c’erano incredibili ghirigori di nebbia davanti a ognuna delle quattro entrate. Era una vista bellissima. Salimmo sull’altra collina per vedere la villa Valmarana con i delicati affreschi del Tiepolo. Tornando indietro, il sole aveva spezzato la cortina di nebbia e la Rotonda ci apparve in tutta la sua luminosa gloria... E poi la prima notte di riprese nella Basilica di Piazza dei Signori a Vicenza. Fu necessario bloccare tutto perchè, un attimo prima del ciak, venne giù un temporale formidabile.. Tutti scoppiarono a ridere perchè sul set era stata preparata l’attrezzatura per la pioggia artificiale e i tecnici continuavano a scrollare le spalle dicendo “mah”. Tutti gli italiani sul set continuavano a ripetere che unapioggia così forte nella prima notte di riprese era un incredibile colpo di fortuna, che tutta quell’acqua avrebbe portato bene... E poi ricordo bene la festa per la fine delle riprese. C’era un po’ di malinconia, poi la troupe italiana, tecnici, elettricisti, regalarono a Joe una targa d’argento con il titolo Don Giovanni e la data. Ne fu così toccato che gli si inumidirono gli occhi, disse che per lui era più importante del premio ricevuto a Cannes. Come musica di sottofondo c’erano i Pink Floyd, poi cedettero il posto a Ruggero Raimondi che cantava Fin che c’han del vino e in quel momento partì un magnifico spettacolo di fuochi d’artificio. Restammo tutti lì in piedi ad ascoltare “Viva la libertà” per l’ultima volta insieme, come un vero gruppo».
C’è qualche erede di Losey oggi ?
«Non so. Il nipote di Losey, Marek, è a Torino con The Hide. Il film mi piace. Ci sono ovviamente tanti altri registi, ma io, è naturale, nutro speranze per lui».

Repubblica 23.11.12
In nome delle leggi
Perché la libertà dipende dai diritti
Esce un nuovo saggio di Stefano Rodotà sull’importanza politica e civile delle norme per tutelare le persone
di Roberto Esposito


Che succede al diritto in un mondo senza terra? Orfano di territori circoscritti in cui affondare le proprie radici e di tutela da parte di sovranità nazionali capaci di imporlo? Cosa ne è di esso, quando si interrompono le grandi narrazioni che per secoli ne hanno costituito lo sfondo? Sono queste le domande cruciali che Stefano Rodotà pone in un libro – Il diritto di avere diritti, appena edito da Laterza – in cui sembrano convergere, componendosi in un affresco di rara suggestione, le grandi questioni che egli ha sollevato in questi anni con coerenza e passione. Prima ancora che un vasto ripensamento del diritto nell’età della globalizzazione, sono in gioco i rapporti tra spazio e tempo, vita e tecnica, potere ed esistenza in una trama discorsiva che intreccia continuità e discontinuità senza assolutizzare né l’una né l’altra. Ciò che conferisce all’analisi forza e respiro è la consapevolezza che anche le più clamorose rotture sono percepibili solo in rapporto ai tempi lunghi entro cui si ritagliano. L’autore sa bene che passato e presente, origine e contemporaneità, si illuminano a vicenda e che anzi è proprio la loro tensione a rendere visibile l’effettivo movimento delle cose.
Rispetto alla radicale dislocazione che rimette in gioco l’intero ius publicum europaeum, in cui quella che è stata chiamata (da Bobbio) “età dei diritti” pare perdere terreno di fronte alle sfide della tecnica e dell’economia, Rodotà rifiuta entrambe le vie più facili – sia quella, regressiva, dell’arroccamento nei vecchi confini sovrani, sia quella, utopica, di un’immersione totale nel mare indistinto della rete. Certo la metafora della “navigazione” negli spazi infiniti di Internet, a dispetto delle guardie confinarie dei vecchi Leviatani, è suggestiva. Ma le parole con cui, qualche anno fa, John Perry Barlow apriva la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio testimoniano come una straordinaria promessa possa rovesciarsi in una sottile minaccia: «Governi del mondo industriale, stanchi giganti di sangue e di acciaio, io vengo dal cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità suoi luoghi dove c’incontriamo». Contro gli occhiuti fantasmi del passato e le fughe in avanti in un futuro per nulla rassicurante, Rodotà coniuga al meglio attenzione al nuovo e consapevolezza delle sue ambivalenze, realismo e speranza.
La sua tesi centrale è che solo l’elaborazione di un rinnovato diritto possa riempire le faglie aperte dalle scosse telluriche in corso, ricostituendo quell’equilibrio tra politica, economia e tecnica che le dinamiche globali hanno forzato fino a sgretolarlo. Alle fine delle grandi narrazioni, l’unica che appare resistere – capace di rassicurare gli individui e mobilitare i popoli – è soltanto il progetto di estendere ad ogni essere umano i diritti faticosamente conquistati in una lotta che ha attraversato l’intera storia moderna. E ciò nonostante i limiti, le contraddizioni, le disillusioni che di volta in volta hanno dato una sensazione di insufficienza, di arretramento e perfino di tradimento delle conquiste precedenti. Il ragionamento di Rodotà si sviluppa per passaggi consecutivi che, nel momento stesso in cui profilano con nettezza la sua posizione, tengono però già conto, incorporandole, delle possibili obiezioni. Certo, il diritto non è in grado di coprire l’intera gamma dei nostri bisogni – e del resto una giuridicizzazione integrale dell’esistenza assomiglierebbe più a una gabbia che a un libero spazio di convivenza. Eppure solo esso è in grado di contenere la pressione sempre più invadente dell’economia e della tecnica. La prima attraverso uno scioglimento del mercato da qualsiasi vincolo sociale che rischia di spezzare il nesso moderno tra dignità e lavoro. La seconda attraverso un controllo pervasivo della vita da parte di apparati solo apparentemente neutrali, in realtà custoditi in poche mani, come accade per Facebook e Google. Che sarebbe di un mondo affidato a una lex mercatoria senza limiti o di una vita interamente esposta all’occhio di invisibili terminali elettronici che ne spiano ogni minimo movimento?
Naturalmente, perché il diritto possa esercitare una funzione non solo legislativa, ma compiutamente giurisprudenziale, deve passare dal piano di una legge imposta dall’alto a quello, immanente, di una norma che risponda ai bisogni materiali delle persone – proteggendo i loro diritti civili, politici, sociali e adesso anche informatici. Ma perché ciò assuma senso è necessario strappare la vecchia maschera della persona giuridica, incarnandola nel corpo dell’individuo vivente. Quanto ciò sia complicato è ben noto a chi conosce il ruolo discriminante, ed anche escludente, che il dispositivo romano della persona ha esercitato per secoli nei confronti di coloro che sono stati dichiarati di volta in volta nonpersone, persone parziali, semipersone o anche anti-persone. Ma l’uso della categoria assunto dalle Costituzioni e dalle Dichiarazioni postbelliche sembra voler aprire una nuova storia, che ha portato alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore col Trattato di Lisbona del 2009. A questo insieme di processi sociali, giuridici, semantici – che pongono al centro del diritto il corpo di donne e uomini liberi ormai anche dal vincolo di cittadinanza, perché cittadini del mondo – Rodotà dà il nome di costituzionalizzazione, collocandolo al cuore del libro. Proprio su di essa io credo si possa, e si debba, lavorare, spingendola sempre più avanti nella direzione di una connessione profonda tra diritto e vita. Che, naturalmente, non può fare a meno della politica, come ben riconosce l’autore. A tale proposito avanzerei due ulteriori osservazioni. La prima riguarda appunto il rapporto tra diritto e politica. Rodotà vede nel primo soprattutto una salvaguardia per la seconda, il cerchio di garanzia all’interno del quale il politico può svilupparsi legittimamente. Bene. Ma se quella sui diritti, come egli scrive, è una lotta – lotta per e sui diritti, il diritto non è a sua volta interno alla dinamica politica? Voglio dire che la stessa opzione per l’universalismo dei diritti passa necessariamente per un conflitto con coloro che lo negano – e dunque non può non assumere un profilo di per sé politico. Il “politico”, insomma, non è un ambito come gli altri, che il diritto possa limitarsi a garantire dall’esterno, ma è il grado di intensità della lotta che li percorre tutti, compreso quello del diritto. La seconda osservazione riguarda l’Unione Europea, cui Rodotà dedica la massima attenzione. Egli scrive che se l’Europa saprà pienamente riconoscersi nella Carta «troverà pure una via d’uscita da una sua minorità, dal suo continuare ad essere “nano politico”». Ho il timore che, per ridare un profilo politico all’Europa, ciò possa non bastare – se insieme non si mette in moto un processo costituente che restituisca, almeno nella fase di avvio, piena sovranità politica ai popoli europei in una forma non del tutto coincidente con una pura giuridicizzazione. C’è sempre un momento iniziale in cui il politico oltrepassa il giuridico o almeno lo forza in una direzione imprevista. Ovviamente domande del genere, che rivolgo all’autore, nascono dall’impianto stesso di una ricerca che per ricchezza, competenza e intelligenza, ha pochi uguali nel dibattuto giuridico contemporaneo.

Il saggio “Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà è pubblicato dalla casa editrice Laterza (pagg. 448, euro 20)

Repubblica 23.11.12
Il brano tratto da un’intervista inedita fatta nel 1992 al celebre artista
Una breve storia della Sinistra secondo Gaber
L’utopia del signor G
di Laura Franza


“Qualcuno era comunista”. Partiamo da questa tua celebre canzone, diciamo canzone ma…
«È un monologo in realtà, non c’è la musica è solo un commento, un ambiente. Il testo non nasce da un’analisi vera e propria, nel senso che il più delle volte, anzi quasi sempre direi, il nostro lavoro (e dico nostro per tutte le cose firmate Gaber e Luporini) parte da una sensazione fisica, e non tanto da un’osservazione razionale. Vedevamo finire un periodo, una serie di sfaceli in giro per il mondo cominciati tanto tempo prima, non certo solo quelli degli ultimi due anni, un periodo in cui effettivamente c’è stato una specie di crollo generale. Ed ecco la sensazione fisica, un interrogarsi anche su noi stessi, su come hai vissuto, su come ti sei comportato, su come hai creduto, su come ti sei mosso insomma, e senti che la domanda nasce da un disagio, un malessere che riguarda sì in generale la perestrojka, ma anche prima, arriviamo alle Brigate rosse, e anche più indietro».
Quindi hai usato il termine comunista, ma per intendere tanto di più…
«Sì. La parola comunista in qualche modo andava intesa e spiegata. Il malessere di cui parlavo era dovuto se vuoi al Muro che cadeva, alla miseria nell’Unione Sovietica, alla sinistra in balìa da una parte di sensi di colpa… come dire: “Abbiamo sbagliato”, forse. Dall’altra parte con mancanze quasi propriamente fisiche, c’è gente che gli è mancata la mamma, è mancata la sicurezza».
… e con la scissione tra Pci e Rifondazione questa insicurezza è diventata più evidente…
«Sì, e a quel punto ecco, il malessere generale cui accennavo malamente, io l’ho provato. Con la sensazione che tutto quello che era accaduto in fondo doveva succedere, non ci sono rimpianti, non si può dire: “Era meglio che tutto rimanesse uguale”. Comunque penso che questo cambiamento così rapido lo pagheremo nei prossimi vent’anni, non è una cosa che ci lascerà indenni. È chiaro che una frattura del mondo nei due grandi blocchi, dove in uno si vive in un certo modo, nell’altro si vive in un altro non poteva durare, per carità. È chiaro che ci dovesse essere un cambiamento, anche perché le distanze si sono accorciate, i paesi sono più vicini, ci sono i satelliti, e tanti fattori che non potevano conservare questa sorta di “invulnerabilità”, di “intoccabilità” delle due parti, niente da obiettare. Però la sensazione era comunque sgradevole... Allora, mi sono un po’ interrogato, partendo da questo malessere, e mi è venuta fuori l’indispensabilità di chiarire non tanto il presente quanto il passato, perché in fondo il malessere ha radici nel passato e quindi andava visto lì, e ho avuto la netta sensazione che sulla parola “comunista” si siano creati negli anni grandissimi fraintendimenti. Non credo all’inizio, dove semmai i fraintendimenti erano probabilmente legati a una non conoscenza, ma comunque a posizioni molto legate al sovietismo in genere e alla Russia, alla dittatura del proletariato, a Lenin… In seguito nel dopoguerra, io non c’ero ma lo immagino, credo che il mito della Russia fosse molto presente. Poi negli anni in cui sono diventato un po’ più grande, quindi parliamo già dopo il ’56, questo “voto” a sinistra, questa adesione alla sinistra, che anch’io ho dato negli anni Sessanta, cominciava a diventare un voto “in più”, imprecisato, un voto di opposizione, un voto che teneva conto di alcune spinte ideali del comunismo, ma che si allontanava sempre più non dico dalla teoria marxista, ma da quella leninista. L’analisi di Marx sulla società, sul condizionamento dell’individuo alla produzione e gli altri concetti, forse essendo idee teoriche e lontane, in qualche modo venivano considerate filosofia, mentre l’applicazione naturalmente andava nella direzione di Lenin e del centralismo democratico russo. Ecco, questo tipo di posizione andava via via, secondo me, trasformandosi fino a raggiungere negli anni ’68-69 una diciamo “adesione” alla sinistra, di massa in questo caso, completamente diversa, molto confusa, molto più allargata».
Come se ognuno se la facesse su misura?
«Sì, diciamo che era come se ognuno in qualche modo ci mettesse le sue spinte ideali dietro le bandiere rosse, che a quel punto già si cominciavano a distinguere, perché c’erano quelle cinesi, quelle russe e quelle italiane, e Berlinguer che diceva, “al di là di Jalta” e “meglio al di qua”, cioè cominciava a fare dei distinguo sull’essere comunisti…». (...)
Allora potremmo chiederci come mai non si è creato un tessuto culturale di sinistra, tale da unire le varie posizioni, un nuovo progetto di sinistra. C’è stata ignoranza, scarsa sensibilità?
«Direi che essendo in atto un desiderio positivo molto forte, a nessuno conveniva creare dei distinguo sul modo di essere comunista, perché comunque sia era gente “contro”. Lo stesso Partito comunista, tanto per dirne una, allora era molto prudente sul ripudiare Stalin (poi l’ha fatto), come anche ad esempio sull’aderire alle istanze giovanili del periodo (che ha ripreso poi molto più tardi). (...) Fuori dal partito invece c’era una grossissima… chiamiamola “aggregazione comunista”, che passava attraverso le donne, l’autocoscienza, il personale è politico, tutta una serie di stimoli che allora il partito ignorava, perché aveva paura. Questo va avanti con grandi entusiasmi e fermenti, quindi grandi movimenti, fino alle Brigate rosse, quando vengono riproposti, in comunicati secondo me deliranti, concetti assolutamente legati alla vecchia logica della dittatura del proletariato, del partito che comanda le masse, la classe operaia… tutti discorsi che noi ormai, ovvero quella sinistra di cui stavamo parlando prima, un po’ vaga, un po’ come si dice tra virgolette “creativa”, aveva assolutamente abbandonato. Però la riproposizione a questo punto di una linea politica assolutamente tradizionale di comunismo appare molto più evidente, molto più forte, molto più espansiva, e provoca la fine del movimento. È chiaro che quando cominci a sparare gli altri sono completamente spiazzati. Il movimento, che si chiamava allora Movimento di sinistra, quindi era comunista con le bandiere rosse, ma non assolutamente soltanto legato al Partito comunista, era molto più allargato. Quell’area lì in qualche modo è ambiguo definirla con la parola comunismo. Devo dire la verità, è il periodo, e per poco tempo anche, in cui io mi sono sentito più vicino a quest’area, in quanto sentivo al suo interno, nella sua vaghezza, una serie di stimoli interessantissimi, che oggi sono ancora rimasticati e riportati fino al disgusto, sono cose dette e ridette, fatte, provate».
Ma non tradotte in azione politica.
«No, non tradotte in azione politica. E anzi direi che per quanto originali e interessanti nell’enunciazione, sono stimoli che sono stati logorati soprattutto da un uso spesso ideologico…
… «dai grigi compagni del Pci»…
«… non solo loro in particolare, sono discorsi che si facevano già allora. Il femminismo ha un momento di inaridimento, oppure di radicalizzazione inaccettabile, il discorso della psicoanalisi, che nasce in quel periodo, diventa un fatto da rotocalco, i discorsi sul corpo, tutte cose che alla fine uno dice: basta, per carità… non se ne può più! E diventano insopportabili proprio perché vengono sputtanate da tutti, a cominciare dai mass-media, che se ne sono appropriati. Ecco, secondo me quel tipo di tensione morale di sinistra così allargata, primo non è vero che si identificava con la militanza, secondo, conteneva dei segnali che sono anarcoidi, non anarchici, anarcoidi nel senso di “contro”, in maniera un po’ imprecisa, non con un progetto politico preciso, buoni comunque a riempire i sogni della gente per andare alle manifestazioni... Nel ’77 io sento che il movimento, che già comincia a rimasticare stimoli degli anni precedenti, va avanti per inerzia e faccio uno spettacolo che si chiama Polli di allevamento in cui ho anche rischiato e sono stato trattato malissimo perché dico: ragazzi, è finita, quella roba lì è finita… Ora, di quel periodo di vaghezza, ma comunque di slancio reale dentro, io sento la mancanza, perché in realtà quella cosa c’era... Di fronte alla sensazione che fra cinque anni tutto quello che abbiamo vissuto passerà come sciocchezze, come banalità, come insulsaggine, ho voluto riaffermare questa mia sensazione, questa mia certezza, che non era così e che dietro a quella parola, in quegli anni, c’erano stimoli, desideri, voglie, tensioni “morali” che ora non esistono più. E oggi è questo il vuoto che abbiamo, la mancanza della parola significa la mancanza dell’utopia…».

Corriere 23.11.12
Intervista - La ministra per la Cultura di Parigi, di origine italiana
«La mia Francia sfida Google e Amazon»
Aurélie Filippetti: senza un accordo con gli editori, obbligheremo i siti a pagare

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Repubblica 23.11.12
I requisiti del prof di religione
risponde Corrado Augias


Caro Augias, insegno da 15 anni in una scuola primaria. Ora, entrata in ruolo dopo un concorso, non posso più insegnare religione se non in possesso di apposita idoneità rilasciata periodicamente dalla diocesi di appartenenza. È il Concordato, bellezza, direbbe Bogart. Così ho deciso di frequentare un apposito corso. Subito ci sono state illustrate le novità contenute ne “L’intesa per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche” firmata il 18 giugno 2012 dal cardinal Bagnasco e dal ministro Profumo. Ero contenta perché avevo tutti requisiti, poi è arrivata la sorpresa. Dopo l’annuncio di un esame (!?) finale ci viene detto che avremmo dovuto consegnare un attestato del parroco dove si dice che siamo “persone coerenti con la fede professata nella piena comunione ecclesiale”. Qualcuno ha obiettato, ma ci è stato risposto che il diritto canonico non transige sul punto. Trovo questa “patente di buon cattolico” un insulto alla Fede e al Concilio Vaticano II, oltre che illogica. Chi come me non va a messa e per di più convive non potrà averla; al suo posto verrà nominata una persona scelta dalla diocesi.
Barbara Castellari

La prof Castellari definisce il provvedimento illogico. In realtà è peggio: è anticostituzionale. L’articolo 33 della Carta stabilisce perentoriamente che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Vero peraltro che questa solenne dichiarazione è indebolita da un altro articolo della Carta, il discusso articolo 7, fonte di molte polemiche. L’articolo sembra aprire bene: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Cavour sarebbe stato contento di leggerlo. Poi però arriva il secondo comma: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi” e questo mette in conflitto l’articolo 7 con l’articolo 33. Quale dei due vale di più? Una possibilità sembrerebbero darla le parole finali dell’articolo: “Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Con questa chiusa la questione da costituzionale diventa banalmente politica. Mettetevi d’accordo e cambiate, dice il costituente. Ma perché entri in azione la politica bisogna che ci sia la volontà, appunto “politica”, di farlo. Come accadde con Craxi presidente del Consiglio nel 1984 quando il Concordato venne rivisto lasciando cadere, tra l’altro, la nozione del cattolicesimo come “religione di Stato”. Non sembra questo il momento se si pensa che il ministro Profumo che ha co-siglato l’intesa con il capo dei vescovi è lo stesso che in settembre aveva dichiarato: “L’ora di religione così come viene insegnata non ha più senso”. Apriti cielo! S’è talmente aperto che siamo alla lettera della prof Castellari.

Repubblica 23.11.12
Comunicato dei Cdr del gruppo Espresso


IL COORDINAMENTO dei Cdr Espresso, Repubblica, Finegil e Elemedia esprime forte preoccupazione per le ulteriori riduzioni giornalistiche nel Gruppo. È stato dichiarato lo stato di crisi anche al settimanale L'Espresso, testata storica e marchio editoriale, che si aggiunge a quello appena attuato per l'Agl. Oggi l'Espresso non sarà in edicola in segno di protesta contro il pesante programma di tagli annunciato dall'azienda in assenza di un piano editoriale. Con questa azione i redattori dell'Espresso intendono tutelare il patrimonio di una testata che in questi anni ha continuato a distinguersi per le sue battaglie civili, le sue inchieste e la sua indipendenza da qualsiasi centro di potere. I tagli all'organico, nonostante un bilancio di gruppo in utile anche per il 2012, mettono a rischio il livello dell'informazione fino ad oggi garantito con autorevolezza sin dal suo primo numero, il 2 ottobre del 1955. Siamo di fronte all'ennesimo sacrificio richiesto alle redazioni dopo i ridimensionamenti a Radio Capital, al Piccolo di Trieste (che ha proclamato una nuova giornata di sciopero per il primo dicembre e dove è stato presentato anche un piano per la riduzione delle pagine e l'ampliamento dell'offerta su internet) a Bolzano-Trento, al Messaggero Veneto, nei Quotidiani veneti e confermato anche dalla cessazione dei contratti a termine alla Provincia Pavese, dalla chiusura della testata Velvet e, infine, dall'incertezza delle relazioni sindacali a La Nuova Sardegna. Ai colleghi va la solidarietà di tutti i Cdr del Coordinamento, che ribadiscono la necessità e l'urgenza di un piano di sviluppo editoriale non prescindendo dalla valorizzazione del primo patrimonio aziendale: i giornalisti. Per questa ragione si rinnova la richiesta di un incontro urgente dei Cdr del Coordinamento Gruppo Espresso e della Fnsi con i vertici aziendali che possa rilanciare il dialogo e abbia come primo obiettivo il consolidamento delle testate e la definizione di un progetto strategico con regole condivise sulla multimedialità. Il Coordinamento dei Cdr chiede altresì al Governo di non avallare stati di crisi in gruppi editoriali in attivo intervenendo in questo senso sul decreto Sacconi dell'8 ottobre 2009.
Il Coordinamento dei Cdr Espresso Repubblica-Finegil-Elemedia