sabato 3 ottobre 2015

Corriere 3.10.15
Finkielkraut sfida il totem Memoria : impedisce di vedere il mondo com’è
di Stefano Montefiori


PARIGI Il sacro totem della Memoria come pigrizia intellettuale. I rituali moniti «contro l’oblio» e «il ritorno degli anni Trenta» come una giacca blu sdrucita, ma confortevole e buona per tutte le occasioni, specie se non si ha nient’altro da indossare.
Alain Finkielkraut torna con un nuovo libro, e tra tutte le idee che un tempo si sarebbero dette controcorrente — sulle nozze gay, il femminismo, l’immigrazione, la società multiculturale, la scuola, pure il film Django Unchained di Tarantino, che non gli è piaciuto — quella sul dovere della memoria che sfocia in paralisi del pensiero è forse la più stimolante. Specie se si considera che il filosofo francese è nato a Parigi nel 1949 da un padre ebreo sopravvissuto ad Auschwitz e una madre ebrea a cui i nazisti sterminarono tutta la famiglia in Polonia.
La seule exactitude si intitola il libro appena uscito in Francia per le edizioni Stock, che si basa sugli interventi tenuti da Finkielkraut dal 2013 al 2015 su Rcj (Radio della comunità ebraica), sul mensil e «Causeur» e sul «Figaro». Il titolo è una citazione di Charles Péguy: «Essere in anticipo, essere in ritardo, che inesattezza. Essere puntuali è la sola esattezza possibile».
Finkielkraut si mette alla prova del presente, convinto che molti suoi contemporanei abbiano perso la capacità di vedere le cose come stanno. Interpretano il mondo o con la griglia della memoria, del «passato-che-minaccia-di-ritornare», o con quella del futuro, inteso come realizzazione ineluttabile e progressista: «Su qualsiasi tema tutti dicono “La Francia è in ritardo”, “siamo in ritardo”. Ma ritardo rispetto a chi, a che cosa?».
Proprio in questi giorni, alla vigilia dell’uscita del libro, Finkielkraut è stato accusato assieme ad altri intellettuali — Michel Onfray, Éric Zemmour, Michel Houellebecq tra gli altri — di «fare il gioco del Front national», di essere un «lepenista oggettivo», con le sue idee antimoderne e «reazionarie». Lui sostiene di non condividere affatto la visione di Marine Le Pen, però protesta perché la si combatte non sul terreno delle idee, ma su quello ideologico e sclerotizzato della «lotta antifascista».
Marine Le Pen ha litigato con il padre, ne ha preso le distanze, lo ha espulso dal partito da lui fondato nel lontano 1972 dopo l’ennesimo scivolone negazionista. «L’odio antisemita — scrive Finkielkraut nel suo libro — quindi non si trasmette più in famiglia. Questa disattivazione del virus, che dovrebbe rallegrare gli antifascisti, li getta al contrario nel furore e nello spavento. Scandiscono, con nuova determinazione, “il fascismo non passerà!” ma è “il fascismo non trapasserà, non morirà!” che bisogna intendere. Se questo pericolo supremo venisse a mancare, sarebbero come dei bambini perduti, vagherebbero senza punti di riferimento in un mondo indecifrabile. A terrorizzarli, più che il fascismo, è l’eventualità della sua scomparsa. Si dicono progressisti, ma sono dei devoti dell’immutabile: odiano il nuovo e credono con tenacia di ferro nell’eterno ritorno delle ore-più-oscure-della-nostra storia». Ecco perché, secondo Finkielkraut, Marine Le Pen continua ad avanzare: le questioni che lei pone vengono ignorate, e ci si concentra sulla lotta antifascista in assenza di fascismo.
Come gli altri pensatori che anni fa venivano definiti politicamente scorretti, e che ormai in Francia hanno conquistato una nuova egemonia culturale, Finkielkraut è diventato l’ospite più ambito di radio e tv, che se lo contendono sicuri di fare ottimi ascolti. Ieri mattina il filosofo presentava il suo libro alla radio France Inter, dove è intervenuto a favore di Nadine Morano: esponente della destra, nota per gli scivoloni poco diplomatici, l’eurodeputata giorni fa ha contrapposto ai fautori dell’immigrazione la Francia come Paese in maggioranza «giudaico-cristiano, come diceva il generale de Gaulle, di razza bianca», ed è stata sepolta dalle critiche. La formula «razza bianca», pur attribuita a De Gaulle, non le viene perdonata.
Con l’aggravarsi della crisi dei migranti, dice Finkielkraut, «c’è un razzista da denunciare ogni settimana, l’antirazzismo è sempre alla caccia di una nuova preda. È assurdo». L’evidenza non si può riconoscere, secondo Finkielkraut: la Memoria impedisce di vedere il mondo così com’è.
Corriere 3.10.15
Il colonialismo italiano e le sue ultime pagine
risponde Sergio Romano


Vivo in Canada e ho un coinquilino somalo, emigrato nel Nuovo Mondo nel 1994, quando era bambino. Gli ho chiesto la sua opinione riguardo all’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia tra il 1950 e il 1960, e lui m’ha spiegato che, in base ai suoi ricordi personali e a quanto gli dicevano i suoi parenti, gli italiani si sono comportati «abbastanza bene» durante gli anni di questo protettorato. Ha aggiunto che fecero meglio gli italiani dei britannici, e che i problemi seri iniziarono quando gli europei lasciarono la Somalia al suo destino. È d’accordo con queste parole? Che cosa fu di preciso l’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia?
Davide Chicco

Caro Chicco,
L’ amministrazione fiduciaria della Somalia fu il premio di consolazione che l’Italia ricevette per una battaglia perduta. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando cominciarono i negoziati per il Trattato di pace, De Gasperi e il suo ministro degli Esteri, Carlo Sforza, si batterono con gli Alleati per evitare che l’Italia fosse privata di tutte le sue colonie. Sapevano che l’Etiopia era irrimediabilmente perduta, ma speravano che la conservazione delle altre (Eritrea, Libia e Somalia) fosse ancora possibile.
Usarono tutti i classici argomenti del colonialismo italiano. L’Italia era una nazione proletaria, priva di materie prime, ma ricca di braccia e affamata di terra per i suoi figli. In Libia aveva reso coltivabili larghe zone che non avevano mai conosciuto l’aratro, creato città e borghi, costruito una grande strada, la Balbia, che si estendeva lungo l’intera costa. Se il Paese fosse stato privato delle sue colonie, la piaga della disoccupazione avrebbe frenato il processo di ricostruzione e creato una pericolosa instabilità sociale.
La realtà, fortunatamente, sarebbe stata alquanto diversa, ma quello ero lo stato d’animo diffuso allora nel Paese e quelli erano gli argomenti di cui i diplomatici italiani si servivano al tavolo delle trattative. Vi fu una schiarita quando Roma e Londra sembrarono prossime a un accordo sulla creazione in Libia di due zone d’influenza: la Tripolitania all’Italia, la Cirenaica alla Gran Bretagna. Ma l’Unione Sovietica si oppose e la Libia, qualche anno dopo, divenne un regno sotto l’ala protettrice degli inglesi.
Terminata male la battaglia per la conservazione delle colonie, l’Italia cercò di conquistare almeno un posto nel processo di decolonizzazione e riuscì a diventare il tutore e custode della Somalia nella fase che avrebbe preceduto l’indipendenza. Per evitare parole come «protettorato» e «mandato», fu coniata l’espressione «amministrazione fiduciaria»; e per impedire che il provvisorio diventasse permanente fu deciso che la missione italiana sarebbe durata dieci anni, dal 1950 al 1960. Palazzo Chigi, dove era allora il ministero degli Esteri, prese la cosa molto seriamente e si servi dei funzionari dell’Africa italiana ancora in servizio per creare le strutture amministrative del nuovo Stato. Una parte del personale fu formata in Italia. Gli allievi del corpo di polizia frequentarono i corsi della scuola allievi carabinieri e qualche aspirante diplomatico fece un tirocinio in ambasciate o consolati italiani.
Quando giunse il momento di consegnare la Somalia ai somali, fu inviato a Mogadiscio un ministro della Repubblica. Era Giuseppe Medici, un notabile modenese di vecchio stile con il mento ornato da una piccola barba, molto elegante. Vi fu una cerimonia durante la quale la bandiera italiana venne ammainata, scrupolosamente ripiegata e consegnata al ministro che l’avrebbe riportata in Italia. Qualche tempo dopo Medici mi disse che non era riuscito a trattenere le lacrime. Così finì, caro Chicco, il colonialismo italiano.
La Stampa TuttoLibri 3.10.15
Nel cuore di Primo Levi per sempre deportato
Fra il dovere della testimonianza dopo il lager e la vocazione precedente: quella di scrittore
di Andrea Cortellessa


Se ne sono conservate poche, di foto segnaletiche degli internati ad Auschwitz; all’arrivo dell’Armata Rossa, le SS le bruciarono quasi tutte. Di fronte e di profilo, s’intitola il ritratto di Primo Levi del suo maggior studioso, Marco Belpoliti (un libro imponente, da ora in poi strumento indispensabile per chi appunto studia Levi, ma anche lettura appassionante per ogni suo lettore): come per tradizione, appunto, le foto segnaletiche. Come dire che «Levi resta sempre un deportato», anche dopo la liberazione (lo dice l’incubo su cui si chiude La tregua): sino alla sua tragica fine.
All’indomani della morte, scrisse Pietro Chiodi di Beppe Fenoglio che «forse per vivere bisogna dimenticare, ma certamente per capire bisogna ricordare». E davvero Levi mai ha smesso di cercare di capire – senza dunque mai cessare di ricordare: a se stesso e a tutti gli altri. Prigioniero di quella testimonianza cui, per più della sua metà, dovette sacrificare l’esistenza; ma alla quale, secondo alcuni, egli in quanto «salvato» la doveva. Quel dovere «gigantesco», più grande di lui come di chiunque altro, confliggeva però con una sua vocazione preesistente al Lager: quella di scrittore.
A lungo le identità di testimone e di scrittore le avvertì lui per primo come incompatibili. Com’è noto si definiva un «centauro»: italiano ma ebreo, chimico ma letterato. La sua vera ambivalenza era però proprio questa, testimone ma scrittore. Perché (spiega Belpoliti, e aveva indicato un paio d’anni fa Mario Barenghi) necessariamente «lo scrittore manipola la realtà per scrivere, la adatta facendo uso della finzione»: la quale però per Levi era eticamente assimilabile alla menzogna (non a caso la sua unica polemica «letteraria» fu con Giorgio Manganelli, suo antipode speculare). L’esigenza psichica, prima che il dovere etico, della chiarezza si spiega perché «l’oscurità lo insegue continuamente». Levi era ben consapevole che Se questo è un uomo non è affatto un mero documento; anche noi lo capiamo meglio confrontandolo con le sue testimonianze vere e proprie (raccolte da Fabio Levi e Domenico Scarpa, all’inizio di quest’anno, in Così fu Auschwitz). In un suo capitolo-chiave, Belpoliti analizza un brano del Sistema periodico, Vanadio, confrontandolo con le vere lettere che nel 1967 Levi si scambiò col collega chimico della I.G. Farben, la casa produttrice del gas Zyklon B, incontrato ad Auschwitz (e che alla fine della contesa – come Franz Stangl dopo quella con Gitta Sereny, In quelle tenebre – di quella fatica muore).
Un concetto-chiave di quello che è insieme il testamento e il capolavoro di Levi, I sommersi e i salvati, è la «zona grigia»: che separa e insieme congiunge i carnefici e le vittime. Anche lui, in quanto «salvato», temeva di farne parte? In copertina al suo libro Belpoliti ha voluto uno degli inquietanti fotoritratti realizzati da Mario Monge l’anno prima del suicidio, nei quali Levi cela il proprio volto dietro maschere di animali da lui stesso realizzate con fili di rame, scarti di fabbrica che possono ricordare i fili spinati. I suoi testi fantastici, che imbarazzavano lui per primo (al punto che nel ’66 pubblica Storie naturali sotto pseudonimo), avevano a loro volta nel Lager la propria chiave segreta. Una chiave a stella, per dirla con un suo titolo: la stella di Davide cucita sulla giacca. Davvero come dice Belpoliti, e a dispetto delle apparenze, «nulla è semplice in un racconto di Levi».
Di sicuro la sua opera ci mostra una zona grigia, un’ambiguità che percorre ogni testo fondato sul «vero» (e l’ambiguità finì per riconoscerla come un valore, Levi). Il Centauro non fu considerato un «vero» scrittore, a pieno titolo, sino all’inizio degli anni Ottanta; oggi invece nessuno scrittore italiano, forse, è letto quanto lui nel mondo. Oggi, che la non-fiction è divenuta letterariamente egemone, capiamo che non fu un grande scrittore malgrado la sua testimonianza, ma per la sua testimonianza. E lui stesso capì che non era stato un testimone essenziale malgrado il suo talento di scrittore: proprio
per quel talento, in effetti, noi oggi lo leggiamo – e gli crediamo – mentre tanti altri li abbiamo dimenticati. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», aveva scritto. Lo stesso si può dire della letteratura. Fallace, senz’altro; e davvero meravigliosa.
La Stampa TuttoLibri 3.10.15
La carneficina che creò gli Usa
Per capire l’America di oggi bisogna tornare sui campi dove si scontrarono a morte «yankees» e «Johnny Reb»
di Gianni Riotta


Durante la guerra civile americana, 1861-1865, che oppone gli stati del nord industriale a quelli del sud agricolo e schiavista, cadono più vittime che non in tutte le altre guerre Usa, dall’Indipendenza all’Iraq. Il dollaro «nazionale» si afferma con i National Banking Acts del 1863-1864, embrione che poi darà vita alla Federal Reserve. Il dollaro divenne sola valuta, eliminando i dollari spagnoli spesso usati. Dal sangue sui campi di battaglia di Bull Run I e II, Cold Harbor, Gettysburg, Vicksburg nasce un nuovo paese e senza comprendere gli Stati Uniti prima e dopo che «yankees» in giacca blu e «Johnny Reb» in mal colorate divise grigie si battessero a morte, non si comprendono gli Usa oggi.
Bruce Levine, storico dell’università dell’Illinois, ha pubblicato due anni fa una storia sociale del conflitto, ora tradotta da Einaudi come La guerra civile americana. Mentre il vecchio Shelby Foote ci aveva dato il quadro pittoresco di quei giorni, McPherson il panorama completo degli eventi, il marxista Foner lo studio della Ricostruzione che segue la guerra e l’inglese Keegan l’analisi militare, Levine sceglie la schiavitù come chiave di interpretazione della Guerra di secessione. Quando il generale sudista Beauregard apre il fuoco sulla piazzaforte federale di Fort Sumner, cominciando le ostilità, l’ultimo censimento, datato 1860, conta 31.443.321 americani. Di questi solo 60.000 possedevano almeno 20 schiavi, tremila latifondisti ne avevano un centinaio, un aristocratico della Georgia si vantava di avere sui campi di cotone 1500 infelici. Tranne quattro presidenti, Lincoln incluso, alla Casa Bianca avevano regnato sempre proprietari di schiavi. Non si tratta – Levine lo chiarisce bene solo di un diverso sistema economico, fabbriche del Nord contro piantagioni del Sud. Era due diverse società, il Nord guardava all’Europa, all’illuminismo, il Sud all’America Latina, a una concezione feudale del mondo. Gli yankee credevano in democrazia, mercato, commerci, i ribelli Confederati del Dixieland preferivano protezionismo e sfruttamento del latifondo.
Abraham Lincoln, che dalle pagine di Levine il contemporaneo Karl Marx ancora accusa di «eccessiva prudenza», non vuole dapprima abolire la schiavitù, ma salvare l’Unione secondo l’umore dei democratici e dei moderati del suo partito repubblicano. Ma – come intuisce il geniale politico afroamericano Frederick Douglass, che schiavo era stato una volta scatenati dalla secessione, gli eventi non si fermano e portano all’Emancipazione degli schiavi, firmata da Lincoln che genera gli Usa contemporanei.
I bianchi poveri del Sud, che non avevano schiavi e si spaccavano la schiena per competere invano con i latifondisti, non avevano interesse alla vittoria Confederata. Pure si batterono con un valore che lascia stupiti, fino all’ultimo, contro i connazionali, per patriottismo, senso del dovere, un entusiasmo commovente per una causa sbagliata. I combattenti della battaglia di Cold Harbor, certi di cadere, scrivevano il proprio nome sul fazzoletto e se lo cucivano sulla giacca, per far riconoscere il cadavere il giorno dopo.
Quando il Sud scompare, cadono la schiavitù sessuale (perfino Malcolm X, profeta della rivolta nera anni ’60 aveva i capelli rossi, testimonianza genetica dello stupro di un antenato bianco), l’idea razzista che i bianchi avessero diritto divino a dominare, che l’orgoglio marziale del Sud avrebbe umiliato i commercianti pavidi del Nord. Presto i bianchi trasformano al Sud la schiavitù in servitù della gleba, terrorizzando i neri con il codice razzista Jim Crow, e ci vorranno un altro secolo il reverendo King e il presidente Johnson perché i diritti civili emancipino l’Ole South. Simbolicamente la guerra non è mai finita, se un giovane killer uccide in una chiesa afroamericana usando la bandiera della Confederazione a pretesto e solo allora si decide di ammainare la bandiera di guerra sudista dagli edifici pubblici ma la direzione che ha imposto non è mai mutata. Firmando la resa davanti al nordista generale Grant, il generale sudista Lee si stupisce nel vedere allo Stato Maggiore unionista un tenente colonnello dalla pelle scura, Ely Parker, indiano della tribú Seneca. «Mi fa piacere di vedere qui un vero americano dice cortese Lee, ma è la replica di Parker a cogliere il vento della Storia Generale -, da ora in avanti siamo tutti americani».
La Stampa TuttoLibri3.10.15
Uno spettro (di Marx) si aggira nella globalizzazione
di Umberto Eco


Non si può sostenere che alcune belle pagine possano da sole cambiare il mondo. L’intera opera di Dante non è servita a restituire un Sacro Romano Imperatore ai comuni italiani. Tuttavia, nel ricordare quel testo che fu il Manifesto del Partito Comunista del 1848, e che certamente ha largamente influito sulle vicende di due secoli, credo occorra rileggerlo dal punto di vista della sua qualità letteraria o almeno – anche a non leggerlo in tedesco – della sua straordinaria struttura retorico-argomentativa.
Nel 1971 era apparso il libretto di un autore venezuelano, Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, poi tradotto da Bompiani nel 1973. Credo sia ormai introvabile e varrebbe la pena di ristamparlo. Rifacendo anche la storia della formazione letteraria di Marx (pochi sanno che aveva scritto anche delle poesie ancorché, a detta di chi le ha lette, bruttissime), Silva andava ad analizzare minutamente tutta l’opera marxiana. Curiosamente dedicava solo poche righe al Manifesto, forse perché non era opera strettamente personale. È un peccato: si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e (se proprio la società capitalistica intende vendicarsi dei fastidi che queste non molte pagine le hanno procurato) dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari.
Inizia con un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven: «Uno spettro si aggira per l’Europa» (e non dimentichiamo che siamo ancora vicini al fiorire preromantico e romantico del romanzo gotico, e gli spettri sono entità da prendere sul serio). Segue subito dopo una storia a volo d’aquila sulle lotte sociali dalla Roma antica alla nascita e sviluppo della borghesia, e le pagine dedicate alle conquiste di questa nuova classe «rivoluzionaria» ne costituiscono il poema fondatore – ancora buono oggi, per i sostenitori del liberismo. Si vede (voglio proprio dire «si vede», in modo quasi cinematografico) questa nuova inarrestabile forza che, spinta dal bisogno di nuovi sbocchi per le proprie merci, percorre tutto l’orbe terraqueo (e secondo me qui il Marx ebreo e messianico sta pensando all’inizio del Genesi), sconvolge e trasforma paesi remoti perché i bassi prezzi dei suoi prodotti sono l’artiglieria pesante con la quale abbatte ogni muraglia cinese e fa capitolare i barbari più induriti nell’odio per lo straniero, instaura e sviluppa le città come segno e fondamento del proprio potere, si multinazionalizza, si globalizza, inventa persino una letteratura non più nazionale bensì mondiale. È impressionante come il Manifesto avesse visto nascere, con un anticipo di centocinquant’anni, l’era della globalizzazione, e le forze alternative che essa avrebbe scatenato. Come a suggerirci che la globalizzazione non è un incidente avvenuto durante il percorso dell’espansione capitalistica (solo perché è caduto il muro ed è arrivato internet) ma il disegno fatale che la nuova classe emergente non poteva evitare di tracciare, anche se allora, per l’espansione dei mercati, la via più comoda (anche se più sanguinosa) si chiamava colonizzazione. È anche da rimeditare (e va consigliato non ai borghesi ma alle tute di ogni colore), l’avvertimento che ogni forza alternativa alla marcia della globalizzazione, all’inizio, si presenta divisa e confusa, tende al puro luddismo, e può venire usata dall’avversario per combattere i propri nemici.
Alla fine di questo elogio (che conquista in quanto è sinceramente ammirato), ecco il capovolgimento drammatico: lo stregone si trova impotente a dominare le potenze sotterranee che ha evocato, il vincitore è soffocato dalla propria sovraproduzione, è obbligato a generare dal proprio seno, a far sbocciare dalle proprie viscere i suoi propri becchini, i proletari.
Entra ora in scena questa nuova forza che, dapprima divisa e confusa, si stempera nella distruzione delle macchine, viene usata dalla borghesia come massa d’urto costretta a combattere i nemici del proprio nemico (le monarchie assolute, la proprietà fondiaria, i piccoli borghesi), via via assorbe parte dei propri avversari che la grande borghesia proletarizza, come gli artigiani, i negozianti, i contadini proprietari, la sommossa diventa lotta organizzata, gli operai entrano in contatto reciproco a causa di un altro potere che i borghesi hanno sviluppato per il proprio tornaconto, le comunicazioni. E qui il Manifesto cita le vie ferrate, ma pensa anche alle nuove comunicazioni di massa (e non dimentichiamoci che Marx ed Engels nella Sacra famiglia avevano saputo usare la televisione dell’epoca, e cioè il romanzo di appendice, come modello dell’immaginario collettivo, e ne criticavano l’ideologia usando linguaggio e situazioni che esso aveva reso popolari).
A questo punto entrano in scena i comunisti. Prima di dire in modo programmatico che cosa essi sono e che cosa vogliono, il Manifesto (con mossa retorica superba) si pone dal punto di vista del borghese che li teme, e avanza alcune terrorizzate domande: ma voi volete abolire la proprietà? Volete la comunanza delle donne? Volete distruggere la religione, la patria, la famiglia?
Qui il gioco si fa sottile, perché il Manifesto a tutte queste domande sembra rispondere in modo rassicurante, come per blandire l’avversario – poi, con una mossa improvvisa, lo colpisce sotto il plesso solare, e ottiene l’applauso del pubblico proletario... Vogliamo abolire la proprietà? Ma no, i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetto di trasformazioni, la Rivoluzione francese non ha forse abolito la proprietà feudale in favore di quella borghese? Vogliamo abolire la proprietà privata? Ma che sciocchezza, non esiste, perché è la proprietà di un decimo della popolazione a sfavore dei nove decimi. Ci rimproverate allora di volere abolire la «vostra» proprietà? Eh sì, è esattamente quello che vogliamo fare.
La comunanza delle donne? Ma suvvia, noi vogliamo piuttosto togliere alla donna il carattere di strumento di produzione. Ma ci vedete mettere in comune le donne? La comunanza delle donne l’avete inventata voi, che oltre a usare le vostre mogli approfittate di quelle degli operai e come massimo spasso praticate l’arte di sedurre quelle dei vostri pari. Distruggere la patria? Ma come si può togliere agli operai quello che non hanno? Noi vogliamo anzi che trionfando si costituiscano in nazione...
E così via, sino a quel capolavoro di reticenza che è la risposta sulla religione. Si intuisce che la risposta è «vogliamo distruggere questa religione», ma il testo non lo dice: mentre abborda un argomento così delicato sorvola, lascia capire che tutte le trasformazioni hanno un prezzo, ma insomma, non apriamo subito capitoli troppo scottanti.
Segue poi la parte più dottrinale, il programma del movimento, la critica dei vari socialismi, ma a questo punto il lettore è già sedotto dalle pagine precedenti. E se poi la parte programmatica fosse troppo difficile, ecco un colpo di coda finale, due slogan da levare il fiato, facili, memorizzabili, destinati (mi pare) a una fortuna strepitosa: «I proletari non hanno da perdere che le loro catene» e «Proletari di tutto il mondo unitevi».
A parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica (e non solo) e dovrebbe essere studiato a scuola insieme alle Catilinarie e al discorso shakespeariano di Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Anche perché, data la buona cultura classica di Marx, non è da escludere che proprio questi testi egli avesse presenti.
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Corriere 3.10.15
Lenin aveva un cuore (in segreto)
Il popolo lo vide piangere al funerale di Inessa , l’amante nascosta. Una passione negata dall’Urss
di Pierluigi Battista


Le donne sovietiche non credevano ai loro occhi, nella fredda mattinata del 1920. «Quello è Lenin!», esclamavano incredule nella folla di Mosca, curiosando sull’imponente corteo funebre che dalla stazione ferroviaria alla Casa dei sindacati accompagnava il feretro della dirigente bolscevica Inessa Armand, trasportato «su un’auto nera piena di fiori». Sì, era proprio lui, il Compagno Presidente Lenin. L’uomo che barcollava e non riusciva a trattenere le lacrime, «lo sguardo affondato nel cappotto», stravolto dal dolore, straziato per la morte della donna che amava ma che non era sua moglie Nadia Krupskaja, era proprio il Capo, l’uomo della rivoluzione, colui che incarnava il destino stesso della nuova Russia nata nell’Ottobre.
Era scesa nella tomba il grande amore che doveva restare segreto e su cui il potere sovietico aveva steso e stenderà sempre di più lungo i decenni una cappa di segretezza e di indicibilità fino a quando la bandiera rossa non è stata ammainata al Cremlino. Era la passione segreta e divorante che Ritanna Armeni racconta, con precisione documentaria e passione narrativa, nel libro Di questo amore non si deve sapere , pubblicato da Ponte alle Grazie.
Dove è narrata la storia di Inessa. La storia di Lenin. La storia di Inessa e Lenin insieme. E di Lenin che aspetta il treno che trasporta la bara di Inessa, morta di una misteriosa malattia nel Caucaso incendiato dalla guerra civile, camminando su e giù, preso da inconsolabile disperazione nemmeno nascosta secondo i dettami della ragion di Stato, per la banchina della stazione. Originariamente, lo racconta lei stessa nella postfazione, Ritanna Armeni voleva scrivere «un saggio sugli “amori a sinistra”, una storia del modo di amare di chi ha pensato di voler cambiare il mondo». Ma nel suo percorso ha incontrato la storia di Inessa Armand e di Lenin e ne è rimasta stregata. E ne resta stregato anche il lettore.
Così come Lenin fu stregato da quella donna bella e affascinante, incontrata a Parigi in un caffè fumoso dove si riunivano i russi dell’immigrazione. Una donna francese irrequieta che, ancora bambina, fu strappata ai genitori, trasferita in Russia dove si sposerà e avrà quattro figli da un uomo che poi tradirà con suo fratello. Ma il marito messo da parte continuerà ad amarla per sempre, e a perdonarla, e a prendersene cura quando il fratello morirà e quando Inessa inizierà il suo percorso di rivoluzionaria a tempo pieno, con lunghi soggiorni in carcere e in Siberia, mentre nell’esilio incontrerà Lenin in un storia d’amore travolgente e duratura che sfiderà il moralismo, le convenienze, l’inflessibilità dei rivoluzionari, la pazienza fedele e il dolore silenzioso della Krupskaja, coniuge ufficiale del Capo e che tale avrebbe dovuto restare per non creare scandalo e sconcerto.
Il libro della Armeni può essere letto in due modi, a proposito della figura di Lenin. Il primo è dettato dalla sorpresa. Chi avrebbe immaginato l’intransigente Lenin, lo spietato Lenin, il rivoluzionario di professione, il fanatico e dogmatico che consacra tutto se stesso alla Causa santa della rivoluzione, l’uomo che teorizzava la crudele necessità del Terrore rosso e diede le direttive per la costruzione della feroce Gpu, un uomo così con il cuore gonfio d’amore, travolto da una passione incontenibile, prigioniero del traboccare di sentimenti accesi dalla compagna Inessa? Un Lenin doppio, scisso. Il Lenin che confidava di non poter ascoltare la musica «perché tocca i nervi, fa venir voglia di dire cose insignificanti, graziose e di accarezzare la testa di chi ha saputo creare cose così belle pur vivendo in un orribile inferno» era proprio la stessa persona che si abbandonava al fluire dei sentimenti quando chiedeva a Inessa, che abitava nella casa accanto a quella dove il suo amante viveva con la Krupskaja, di suonare al pianoforte la Patetica di Beethoven? Il Lenin intenerito delle lunghe passeggiate con Inessa sui «monti della passione», quello che le scrive lettere di amore fiammeggiante non è l’antitesi del Lenin storico che conosciamo, del rivoluzionario che subordina sentimenti e passioni al conseguimento dei suoi titanici obiettivi politici?
Sotto la scorza del rivoluzionario di professione, la Armeni ci svela un cuore ardente. E questa è la prima lettura. Ma poi ce n’è una seconda che si dipana nelle pagine di questo libro. C’è il Lenin che a un certo punto, constatando l’insostenibilità di una relazione sempre più malvista dai rivoluzionari in esilio, liquida brutalmente Inessa, chiedendole addirittura la restituzione delle lettere per non lasciare traccia di una storia che si voleva cancellare. Il Lenin che, dopo la momentanea rottura, dispoticamente affida a Inessa, con spirito vendicativo, compiti massacranti e missioni pericolose che lei non può non adempiere in omaggio alla disciplina cospirativa. Il Lenin che si scaglia con violenza verbale contro le battaglie per la liberazione della donna di cui Inessa era protagonista.
Qui sembra non esserci frattura possibile tra i due Lenin. Anche se poi la relazione riprenderà fiato. Mentre i bolscevichi al potere mugugnavano per la sconvenienza per quella relazione clandestina. E quando Inessa muore nel 1920, Lenin verrà preso da un senso di prostrazione profonda. E alla morte di Lenin la storia tra i due amanti della rivoluzione verrà cancellata, sepolta nella menzogna, nascosta per non compromettere l’immagine integra del Capo cui non si potevano addebitare simili debolezze del cuore.
La grande ipocrisia durerà per decenni. Poi gli archivi si sono spalancati. E Ritanna Armeni ci regala il ritratto di una storia che finalmente può essere conosciuta nei dettagli.
Repubblica 3.10.15
Cosa hanno in comune il Papa e Xi jinping
di Moises Naim


È DIFFICILE immaginare due capi di Stato più diversi: uno è il leader spirituale di un miliardo e duecento milioni di cattolici (il 40 per cento dei quali vive in America Latina), l’altro governa un miliardo e quattrocento milioni di cinesi. Papa Francesco è un leader religioso e Xi Jinping è un leader politico.
Ma le differenze non sono così nette. Quando papa Francesco visita Cuba e ignora i dissidenti che si oppongono al regime dei fratelli Castro, sta prendendo una decisione politica. E quando commuove il Congresso degli Stati Uniti con le sue giuste esortazioni a cambiare atteggiamento nei confronti degli immigrati, della disuguaglianza e dei cambiamenti climatici, agisce come un leader politico. A sua volta, quando Xi Jinping esorta il suo popolo a lottare per «il sogno cinese » o a comportarsi conformemente ai «valori cinesi», è altrettanto evidente che sta cercando di infondere un po’ di spiritualità nelle sue politiche e nella sua leadership.
Tutti e due dirigono organizzazioni enormi plasmate da culture millenarie e scosse dalle trasformazioni che sta vivendo il mondo. Il Vaticano e il Partito comunista cinese – e la Cina – devono cambiare per essere più in sintonia con le nuove realtà. Per questo, nonostante le enormi differenze, il papa e il presidente cinese possono essere definiti due leader riformisti alle prese con sfide molto simili.
1. Sconfiggere i tradizionalisti e trasformare la burocrazia In Cina si chiama Partito comunista e in Vaticano si chiama Curia. Sono potenti burocrazie che Xi Jinping e papa Francesco vogliono cambiare, e questo inevitabilmente li mette in rotta di collisione con individui e gruppi che per attaccamento alla tradizione, perché vogliono conservare potere o difendere interessi, oppongono resistenza alle riforme. Il Papa, oltre a compiere azioni dirompenti come quella di incontrare una coppia gay, ha criticato in modo sferzante la Curia. Ha messo in guardia i membri della burocrazia vaticana dal rischio di sentirsi «immortali, intoccabili e indispensabili», o di cadere in una «fossilizzazione mentale e spirituale », un «Alzheimer spirituale», una «schizofrenia esistenziale», di dedicarsi al pettegolezzo e alla calunnia, blandire i superiori e pensare solo a se stessi. Xi Jinping non è da meno nelle sue denunce della burocrazia cinese e del fatto che leader e funzionari pubblici pensano più ad arricchirsi che a servire il Paese.
2. Lottare contro la corruzione e il materialismo La cosa sorprendente è che entrambi i leader hanno scelto la lotta contro la corruzione fra le loro prime iniziative più visibili. Il Papa ha “ripulito” la corrotta banca del Vaticano, lo Ior, ha mandato un segnale forte di disapprovazione sospendendo un arcivescovo tedesco conosciuto per il suo stile di vita dispendioso e continua ad affrontare con determinazione gli scandali di abusi sessuali. Fra le “malattie” che minacciano la Curia, Francesco include «l’accumulo di beni materiali, la ricerca di benefici terreni e l’esibizionismo».
Xi Jinping è stato più brutale: 414.000 funzionari pubblici sono stati sottoposti a misure disciplinari per corruzione, e altri 201.600 sono stati mandati a processo. Parecchi sono stati giustiziati e Pechino si dà da fare per ottenere l’estradizione di centinaia di imputati fuggiti in altri Paesi.
3. Mantenere l’unità e la coesione.
Sia il Vaticano che il Governo cinese devono far fronte a forti pressioni e divisioni interne, originate dallo scontro fra visioni e interessi contrapposti. E anche dalle esigenze imposte dal progresso tecnologico e dalle profonde convulsioni economiche e politiche del mondo attuale. Anche la rivoluzione delle aspettative e delle aspirazioni di società sempre più informate, che hanno sempre più potere e sono sempre più attive politicamente è una sfida. In America Latina, il numero dei cattolici si è ridotto del 21 per cento dal 2000 a oggi, e negli Stati Uniti per ogni persona che abbraccia la fede ce ne sono sei che abbandonano la Chiesa. Molti aderiscono a Chiese evangeliche, episcopali e pentecostali. La concorrenza mondiale per attirare fedeli è spietata.
In Cina, nonostante possa contare su uno Stato di polizia inflessibile ed efficiente, il governo deve fare i conti con frequenti proteste di piazza e appelli sempre più numerosi a una “revisione del modello”. Difendere il modello era facile quando l’economia cresceva a pieno ritmo, facendo aumentare il reddito dei lavoratori e sottraendo alla povertà milioni di persone. Ma quando questa crescita cessa di essere una realtà certa – come accade ora – il patto sociale che ha consentito al Partito comunista di governare senza opposizione è destinato a erodersi.
Questi sono solo tre dei paralleli fra il pontefice e il leader cinese. Ce ne sono anche altri, ma vanno tutti nello stesso senso: due colossali società millenarie devono adattarsi ai cambiamenti senza perdere la loro essenza, senza frammentarsi e soprattutto senza perdere la legittimità che è alla base del potere che i rispettivi leader esercitano su miliardi di persone. Chi riuscirà a navigare meglio in queste acque turbo-lente, il Governo cinese o il Vaticano? Ancora non possiamo saperlo. Ma la cosa certa è che sono due organizzazioni grandi, gerarchiche, centralizzate e lente. E sono obbligate a svilupparsi in un mondo dove velocità e agilità sono requisiti indispensabili per riuscire. Trasformare queste gerarchie rigide è una delle sfide più difficili per papa Francesco e Xi Jinping. E gli effetti delle loro azioni si faranno sentire non solo per i cinesi o i cattolici.
Repubblica 3.10.15
L’amaca
di Michele Serra


Sento alla radio un dato impressionante, così impressionante che cerco conferma e la trovo nella rivista online “Il Post Internazionale”. Il dato è questo: la metà dei privati armati del pianeta Terra abita negli Stati Uniti d’America, a fronte di una popolazione complessiva pari al 4 per cento di tutti gli umani. Che le stragi per arma da fuoco (ormai quotidiane, e i morti sono migliaia) siano una specialità di quel grande Paese, è una inevitabile conseguenza statistica della maggiore concentrazione mai vista al mondo di armi da fuoco nelle case, nelle automobili, nelle mani di chiunque. Non per infierire, ma di questa vera e propria passione per gli spari e per il piombo che trapassa le carni degli altri c’è abbondante, anzi esondante prova in una produzione iconografica ormai sterminata. Il rapporto tra le armi che ho effettivamente visto nella vita reale (pochissime) e quelle che ho visto nei film e nei telefilm americani è, forse, di uno a un milione. Dall’infanzia in qua, dai primi western con Gary Cooper fino a Tarantino, la mia retina è crivellata da miliardi di spari, nella quasi totalità made in Usa. Non per moralismo ma per saturazione, diciamo per overdose da piombo, confesso di desiderare, nel prosieguo della mia vita da spettatore, il disarmo integrale. Mi sento come quei cani che a Capodanno, al primo sparo, si nascondono sotto il tavolo.
La Stampa 3.10.15
L’America delle stragi quotidiane
Mille volte più letali del terrorismo
Dal 2004 oltre 300 mila vittime in sparatorie di massa contro 300 in attentati E dall’eccidio nella elementare Sandy Hook ci sono stati altri 142 attacchi a scuole
di Paolo Mastrolilli


Se ne riparlerà alle elezioni del 2016. Perché anche se la contabilità delle stragi provocate dalle armi da fuoco negli Usa è schiacciante, Obama non ha i voti in Congresso per inasprire le leggi sul controllo delle vendite.

La battaglia è politica, con la lobby dei produttori Nra che osteggia qualunque limite, ma anche culturale, con i gruppi opposti che si combattono a colpi di numeri.
Secondo i dati del Pew Center, negli Stati Uniti vivono 318 milioni di persone, e ci sono in circolazione fra 270 e 310 milioni di armi varie. Nel 2013 queste armi hanno fatto 33.169 vittime, fra 11.203 omicidi, 21.175 suicidi, 505 incidenti e 281 decessi ancora non classificati. Durante l’intera guerra del Vietnam, per capirsi, morirono circa 58.000 soldati americani. Dagli attentati dell’11 settembre 2001 in poi, la lotta al terrorismo ha dominato il dibattito strategico negli Stati Uniti, eppure le vittime sono molto inferiori. Dal 2004 al 2013, in base alle statistiche dei Centers for Disease Control and Prevention, 316.545 americani hanno perso la vita sul suolo nazionale a causa delle armi da fuoco, contro i 313 uccisi dai terroristi all’estero e in patria. E’ vero che l’11 settembre morirono in un solo giorno quasi 3.000 persone, ma nel lungo periodo non c’è paragone fra la pericolosità di al Qaeda, e quella di fucili, pistole e mitra, venduti legalmente o illegalmente negli Usa.
l problema è che si stanno moltiplicando soprattutto i «mass shooting», cioè le stragi in cui almeno quattro persone perdono la vita. Dall’inizio del 2015 allo scorso agosto ne sono avvenute più di una al giorno, al punto che ormai gli Stati Uniti hanno il 5% della popolazione mondiale e il 31% dei «mass shooting» globali.
Scuole nel mirino
L’emergenza diventa ancora più grave se si considerano i dati degli attacchi alle scuole e alle università, obiettivi privilegiati perché sono poco protetti, e spesso attirano le vendette degli ex alunni usciti di testa. Il primo assalto documentato, secondo la cronologia stilata dalla Eastern Kentucky University, avvenne il 26 luglio del 1764. Quattro indiani della tribù Lenape entrarono nella scuola di Greencastle, in Pennsylvania, uccidendo il preside e una decina di alunni. Il ritmo però è incredibilmente aumentato dagli Anni Novanta in poi, con la strage simbolo della nuova epoca nella Columbine High School, vicino a Denver. Secondo la Eastern Kentucky University, dal 1992 ad oggi sono avvenute 387 sparatorie tra scuole e università, con il 59% delle vittime comprese fra 10 e 19 anni d’età. L’80% di queste stragi è stato fatto usando armi trovate a casa, oppure prese a parenti e amici.
Quella che ha scosso di più l’America è stata senza dubbio la tragedia di Sandy Hook, nel Connecticut, dove nel dicembre del 2012 furono uccisi 20 bambini delle elementari. Eppure nulla è cambiato. Infatti da allora ad oggi, secondo le statistiche del sito Everytown, ci sono state almeno 142 sparatorie nelle scuole e nelle università americane, intese in generale come episodi di violenza in cui è stata usata un’arma da fuoco, indipendentemente dal numero e dal tipo delle vittime. La prima avvenne poco dopo, l’8 gennaio del 2013, a Fort Myers in Florida, mentre l’ultima è stata quella di giovedì a Roseburg, Oregon.
Il potere della lobby
Sembrano dati schiaccianti, eppure non bastano. La lobby dei produttori risponde che l’attenzione dei media per queste stragi è sproporzionata. Il sito «Guns Save Lives» nota che è più facile morire per un incidente in bicicletta o una caduta di vario genere, piuttosto che per un proiettile. Lo fa usando un rapporto dell’Fbi, secondo cui dal 2000 al 2013 in America sono morte solo 418 persone in «active shooter situations», contro le 800 morte in bici o le 26.631 uccise da cadute di vario genere.
Sul piano politico, poi, la National Rifle Association sostiene che ci vorrebbero più armi, per ridurre il numero delle vittime delle armi. Ad esempio, se una guardia o un professore armato avesse incontrato Chris Mercer, avrebbe potuto ammazzarlo prima che facesse una strage. La lobby sfrutta il Secondo emendamento della Costituzione, scritto all’epoca dell’indipendenza per consentire di armare il popolo se gli inglesi fossero tornati, per difendere il diritto dei cittadini ad avere armi, e dice che le leggi per controllare le vendite ci sono, ma chi fa strage non le rispetta. In parte ha ragione: oltre a limitare le vendite, bisognerebbe proprio sequestrare i 300 milioni di armi già in circolazione, ma questa è un’impresa impossibile. Obama non ha neppure i voti per frenare il commercio dei fucili da guerra, anche perché diversi democratici sono nella tasca della Nra. L’unica possibilità resta appellarsi agli elettori, affinché nel 2016 eleggano parlamentari più sensati e indipendenti.
Il Sole 3.10.15
Il Muro abbattuto 25 anni fa, ma non è un compleanno felice
di Alessandro Merli


Ci saranno gli atti solenni alla Paulskirche, la sede del primo Parlamento tedesco. Il servizio religioso in cattedrale. I discorsi di Angela Merkel e di Joachim Gauck, guarda caso due Ossie, cresciuti nella Repubblica democratica, alla Alte Oper. Le rockstar ormai sbiadite degli anni 80 canteranno in piazza. E tutto si trasformerà, come piace ai tedeschi, in una festa di paese. Ma non sarà un compleanno felice, quello di oggi, per la Germania, a venticinque anni dalla riunificazione.
Un miracolo, lo ha definito il ministro delle Finanze Wolfgang Schaueble, che allora era il braccio destro di Helmut Kohl, il cancelliere della Germania unita. Un miracolo nel quale quasi nessuno sperava più, dopo 45 anni di separazione. A 25 anni, la Germania riunificata è alle prese con la sua più grave crisi di identità, e senza avere risolto del tutto le conseguenze della lunghissima spaccatura in due del Paese.
La riunificazione è costata 1.900 miliardi di euro di trasferimenti, secondo le stime della cassa pubblica Kfw. I tedeschi dell’est hanno visto raddoppiare il proprio reddito rispetto al 1989, ma restano di un terzo più poveri di quelli dell’ovest. La disoccupazione è il doppio nei Laender della vecchia Repubblica democratica. È a est che fioriscono i movimenti più xenofobi e i neonazisti. L’economia fu spazzata via dal cambio del marco orientale uno-a-uno con il Deutsche mark e liquidata senza complimenti dalla Treuhandanstalt. Non una sola impresa dell’est di qualche dimensione è sopravvissuta. C'è una certa ironia nel fatto che sia toccato a Jens Weidmann, l'attuale presidente della Bundesbank, inaugurare questa settimana una mostra, al municipio di Francoforte su quell'unione monetaria che il suo predecessore, Karl Otto Poehl, osteggiò fino alle dimissioni. Lo stesso Poehl ammetterà poi che la scelta, priva di logica economica, era politicamente inevitabile, a fronte dell’esodo biblico da est a ovest dopo la caduta del muro di Berlino. E ne traeva un esempio da non imitare in Europa. Ma più della faglia fra est e ovest, la Germania è oggi preoccupata del suo ruolo in Europa e nel mondo. La parte di “egemone riluttante”, che così a lungo l'ha messa a disagio, la recita oggi in modo forse meno riluttante, o forse la nuova veste le è stata semplicemente imposta dalla forza delle cose. Sulla crisi dell’eurozona, soprattutto sul caso Grecia, e su quella dei rifugiati, Berlino ha esercitato finalmente una leadership che ora le viene rinfacciata dal resto d’Europa. Un cambiamento non senza conseguenze anche sull’opinione pubblica: la popolarità della signora Merkel ha perso 9 punti, ed è scesa al 54%, dopo le sue aperture sul tema dei rifugiati. Il 51% dei tedeschi ha paura di una “invasione” che molti ritengono sia da attribuire al cancelliere. La Germania è confusa, divisa fra gli xenofobi di Pegida e dell’Afd e i cittadini che vanno ad accogliere i profughi. In mezzo, una popolazione sorpresa dal fenomeno, ma anche dall’inettitudine della risposta governativa. Su queste vicende, si è innestato lo scandalo Volkswagen, un’altra brutta storia che mette in crisi le certezze che i tedeschi hanno su se stessi e che spesso, in modo non del tutto giustificato, gli altri hanno su di loro. Lasciamo stare il colpo inferto al feticcio nazionale dell’auto. Pesa sulla coscienza della gente il tradimento del mito dell’industria, dell’efficienza, dell'innovazione, della competitività nel rispetto delle regole. Le conversazioni anche con esponenti dell’establishment economico registrano reazioni esterrefatte. Non è un bel momento, nonostante l’economia stia bene e la disoccupazione sia ai minimi, appunto, dalla riunificazione. A 25 anni, la Germania è cresciuta, come scrive Cees Nootebloom, lo scrittore olandese cantore di Berlino e della caduta del muro, ma non sa cosa vuol fare da grande con il potere di cui dispone in Europa.
La Stampa 3.10.15
In Israele uno Stato binazionale
di Abraham B. Yeoshua


All’incirca un mese fa l’università di Bar Ilan ha organizzato un convegno in cui si è cercato di fare un consuntivo sui dieci anni trascorsi dalla smobilitazione dalla Striscia di Gaza.
Al convegno hanno preso parte alcuni dei promotori del progetto, alcuni ex residenti della Striscia, nonché dei rabbini che ne avevano seguito l’evacuazione fin dalle prime fasi. Il folto pubblico presente in sala era per lo più formato da falchi ostili allo sgombero e osservanti nazionalisti.
Anch’io sono stato invitato a tenere un intervento durante una delle sessioni di lavoro ed ero l’oratore che più si identificava con la sinistra politica. Ho esordito con queste parole: «Il ministro della difesa Ayalon ha detto qualche tempo fa che non c’è alcuna possibilità che durante la sua vita si arrivi a un accordo di pace o di qualunque altro tipo con i palestinesi. E io mi permetto di replicare che se Israele continuerà a seguire questa linea politica può essere certo che nemmeno i suoi figli e i suoi nipoti vedranno la pace».
Non appena ho pronunciate queste parole si è diffuso tra una parte del pubblico un mormorio di rabbia e io mi sono chiesto: Perché? In fondo la maggior parte dei presenti è a favore di un ampliamento degli insediamenti e si oppone a un ritiro dalla Giudea e dalla Samaria. È convinta che Israele non abbia un partner per un negoziato di pace e nemmeno abbia bisogno di un simile partner. Perché quindi queste persone si sentono deluse quando un sostenitore della pace si unisce al loro scetticismo? Riflettendo, però, ho capito che la loro rabbia scaturiva proprio dal fatto che un sostenitore «storico» della sinistra come me avesse rinunciato alla speranza della pace e tradito così la sua missione. Come se il compito dello «schieramento per la pace» israeliano fosse quello di tenere viva questa speranza mentre quello dello «schieramento nazionalista» fosse quello di negarne quasi del tutto la possibilità.
In un certo senso anche fra le file della sinistra esistono sentimenti paralleli e contrari. C’è la volontà di credere nella pace, nella disponibilità dei palestinesi ad accettare l’idea di due Stati ma, d’altro canto, di lasciare alla destra il compito di spiegare e rispiegare quanto sarà difficile e quasi impossibile evacuare insediamenti, dividere Gerusalemme, e quanto grande è il timore che, come dopo il ritiro da Gaza, si rinnovi l’aggressività di Hamas. E nel caso fosse già esistito uno Stato palestinese e centinaia di migliaia di profughi siriani e iracheni vi avessero cercato rifugio, cosa sarebbe successo?
Quindi, per uscire dalla trappola che vanifica e paralizza ogni fruttuosa e concreta discussione fra le fazioni è importante tentare un approccio diverso, anche solo a titolo di esercizio intellettuale, e prendere in considerazione una soluzione bi-nazionale che potrebbe generare nuove idee di tipo federativo (con la Giordania o senza) o cantonale (sull’esempio della Svizzera) per riportare una speranza di pace concreta ma anche per definirne chiaramente il prezzo.
L’idea di un unico Stato che conceda la cittadinanza israeliana ai palestinesi che vorranno farne richiesta (così come proposto a grandi linee dal presidente israeliano Reuven Rivlin) potrebbe rivelarsi un interessante esercizio mentale, scuotere cliché fossilizzati che hanno ormai fatto il loro tempo e stimolare proposte nuove e creative. Infatti, quando la destra parla della creazione di due Stati senza però rinunciare a un ampliamento degli insediamenti e a uno stretto controllo sui territori occupati, la sinistra traccia mappe irrealizzabili di una Gerusalemme divisa, conservando stanziamenti ebraici con sempre nuove diramazioni e i palestinesi, dal canto loro, mantengono un atteggiamento di offesa passività e vittimismo, il processo di pace si va sempre più impantanando.
Lo Stato di Israele all’interno della linea verde è già, in un certo senso, uno stato bi-nazionale e va detto che sia ebrei sia arabi israeliani hanno affrontato con grande bravura le ardue prove a cui questa convivenza li ha sottoposti. L’idea di una bi-nazionalità non è estranea ad ampi settori del sionismo socialista storico o della destra liberale ed è profondamente radicata nella coscienza di gran parte dei palestinesi.
È vero che dalla fine della Guerra dei sei giorni (ovvero da più di 48 anni) io sono dell’opinione che dovremmo proporre ai palestinesi un loro Stato, ma fa male pensare che questa opinione, giusta da un punto di vista politico ed etico, fa sì che l’occupazione della Cisgiordania continuerà ancora per molti anni a venire, il terrorismo non verrà debellato e la pace non farà capolino all’orizzonte ma sarà velata da una gialla foschia siriana.
il manifesto 3.10.15
Roma, il successo dello sciopero Usb nei trasporti innervosisce Esposito
«Adesioni al 90%», «No, solo il 30%». Nuove polemiche in un giorno difficile per Roma. La denuncia del sindacato di base: «Dall’assessore intimidazioni»
di Ro. Ci.


ROMA Poteva essere il giorno dell’esplosione della Capitale. Fino al 30 settembre era stato indetto un doppio sciopero di 24 ore nei mezzi pubblici dell’Atac (convocato dall’Usb) e sulle linee periferiche «Roma Tpl» da parte di Faisa-Cisal, Filt Cgil, Fit Cisl, Sul e Uil Trasport. Dopo un incontro in prefettura a Roma questi ultimi hanno ascoltato le promesse del Prefetto Gabrielli, commissario del Giubileo, e del neo-assessore ai trasporti, il «Si-tav» Stefano Esposito su una vertenza dei dipendenti di una società del trasporto pubblico, la Roma TPL scarl: questioni di ritardi nel versamento dei contributi e di stipendi non versati da agosto. L’Unione Sindacale di Base ha invece mantenuto lo sciopero dei trasporti romani e l’impatto sulla città e sulla politica è stato massiccio dopo un’estate tesissima anche sul fronte del trasporto pubblico. Metro A e B chiuse, mentre la linea C ha continuato a funzionare solo perché ha il sistema di guida senza pilota.
Per Usb l’adesione dei lavoratori è stata «plebiscitaria», un termine riapparso da poco per indicare la diffusione di una protesta in tutte aziende del Consorzio Roma Tpl: il 90 per cento. Per il sindacato ha superato il 70 per cento nell’Atac. Poi è scattata la normale guerra di cifre: Per Gabrielli l’adesione ieri è stata del 30%. Non hanno lavorato 45 macchinisti della linea B della metropolitana e 24 della linea A e gli autobus hanno circolato regolarmente mentre la metropolitana. Alle 17 di ieri avrebbe aderito allo sciopero il 30% del personale. Precisazione di Usb: «Questi sono basati sul conteggio di tutto il settore non operativo: il dato reale fra autisti, macchinisti, addetti di stazione, verificatori, ausiliari del traffico è di oltre il 70%».Comunque sia andata, ieri lo sciopero Usb è stato un successo, il segnale al Campidoglio è stato inviato dopo che la crisi ha definitivamente travolto una delle più grandi aziende di trasporto pubblico d’Europa. Mercoledì scorso dall’Atac si sono dimessi, in un colpo, il direttore generale Francesco Micheli e l’ad Danilo Broggi.
Il motivo è l’assenza di strategie del Campidoglio, la prepotenza delle lobby. Il sindaco Ignazio Marino? Una brava persona, è stata la risposta di rito di Micheli considerato suo «uomo di fiducia». E allora, perché le dimissioni? Mancano i soldi per assumere i lavoratori, fare la manutenzione alle vetture vecchie e nuove che arriveranno. Zero probabilità di fare investimenti.
Su questo sfondo di crisi politica si sono innestate le rivendicazioni dei lavoratori che vivono sulla strada l’abbandono di una azienda senza più testa e di fatto congelata in una città commissariata non da Gabrielli, ma dal piano di rientro dal debito miliardario che Renzi ha fatto inghiottire a Marino in cambio della sua sopravvivenza al Campidoglio. «Noi stiamo scioperando perché i controsoffitti della Metro A cadono sulla testa degli utenti e dei lavoratori, così come ieri lo sportello di un bus si è staccato schiacciando una cittadina che ora rischia di perdere un braccio — ha detto Guido Lutrario (Usb) Basta con le fandonie e la campagna di odio contro i lavoratori i disagi che soffrono i cittadini tutti i giorni sono dovuti agli scarsi investimenti anche nella sicurezza» Il conflitto con il torinese a Roma, l’esuberante assessore Esposito, è duro. Dopo una serie di attacchi e «intimidazioni», così le definisce Usb, ieri Esposito è arrivato a chiedere al garante degli scioperi Roberto Alesse e a Gabrielli di trovare un modo per «impedire scioperi politici». Usb ha precisato di avere dato mandato ai suoi legali «per valutare la gravità della sua condotta in virtù del ruolo ricoperto da Esposito, un assessore allo sbando». Lo schema di Esposito sarebbe quello di mettere i lavoratori contro i cittadini in un clima già esplosivo. E anche sindacati contro sindacati. Usb ricorda le ragioni di fondo dello sciopero di ieri: le annunciate privatizzazioni, la destinazione del «tesoretto» da 700 milioni di euro dei biglietti falsi di Atac che hanno provocato «buchi che si trasformano in tagli dei servizi essenziali, rialzo del costo del biglietto e aumento delle tasse». Ieri l’assemblea capitolina ha approvato la prima tranche della ricapitalizzazione di Atac da 40 mln di euro per il finanziamento del contratto di servizio. Il ministro dei trasporti Graziano Delrio ha cercato di raffreddare gli animi: «Torniamo ad essere più normali, dove gli accordi si fanno, si firmano — ha detto — nella giusta considerazione dei costi delle aziende, ma anche dei disagi che si creano ai cittadini»
Quello di ieri è stato il sedicesimo sciopero del 2015 nel trasporto pubblico romano. Insieme alla raccolta dei rifiuti, la mobilità è il tema che catalizza la conflittualità sociale e le contro-risposte securitarie o ispirate all’«ideologia del decoro».
Il Fatto 3.10.15
L’Unità festeggia, ma si scorda Denis

Festa grande all’Unità. I primi “trionfi” a Palazzo Madama sono stati salutati dal giornale del renzismo militante con un entusiasmo incontenibile. A cominciare dal titolo in prima, intriso di malinconica ironia: “Addio vecchio Senato”. Addio. La rassegna da stadio della mirabolante impresa parlamentare prosegue nelle pagine interne. Titolo didascalico, rotondo, assertivo: “Senato, primo sì a larga maggioranza”. Nel catenaccio, i palpitanti particolari della partita di Palazzo Madama: “Occhi puntati sulle trappole della Lega. Grasso riduce i voti segreti. Zanda: ‘Sconfitto il partito degli algoritmi’”. Macché  sconfitto. Di più: spianato, annichilito, distrutto. Infine, l’ultima iniezione di ottimismo: il sondaggio anti gufi. I numeri sono di Swg. Il dato è inequivocabile: il Pd domina. Guadagna 0,2 punti percentuali nella settimana della riforma. Si attesta al 36 per cento, mentre “l’area di governo” – così viene definita – raggiunge il 39,5, solidamente al comando. Però. C’è un però: gli alleati vengono specificati in questo modo: Nuovo Centrodestra (comprensivo di Udc e Ppi) e “Altri area di governo”. Chi saranno questi misteriosi “altri” ai quali non si preferisce dare un nome? Non sarà mica un po’ di imbarazzo, perché dentro gli “altri” c’è Denis Verdini?
Corriere 3.10.15
La tela di Lotti con Bersani. E quelle occhiate a Denis
Il sottosegretario e l’incarico di trovare i consensi in Aula Ma più che i fuoriusciti da FI è la sinistra il suo obiettivo
di Maria Teresa Meli


ROMA Se avesse avuto una ventina di anni di più, il capello meno refrattario al pettine e un impeccabile doppio petto, i giornali lo avrebbero battezzato il Gianni Letta di Matteo Renzi e lo definirebbero sempre in questo modo. Non è avvenuto. Luca Lotti infatti è giovane, molto giovane, e giacca e cravatta sono adeguate alla sua età. Eppure è proprio lui il vero Gianni Letta del premier. Anzi è anche qualcosa di più.
Chi non lo conosce bene e lo vede in questi giorni sempre presente al Senato, dove si sta discutendo la riforma costituzionale, è indotto a pensare che il sottosegretario sia lì per strappare qualche voto in più al ddl Boschi. Sbagliato. Lotti è un pianificatore. L’amico Matteo gli ha chiesto di trovargli i consensi necessari e lui ha già provveduto. Si è installato in pianta semistabile a Palazzo Madama solo per verificare che tutti i pezzi del puzzle che ha costruito si incastrino per benino.
I suoi conversari (riservati fino a un certo punto) con Denis Verdini sono sempre sulla bocca di tutti. I senatori del Partito democratico, ma anche quelli delle opposizioni hanno notato gli sguardi di intesa che si scambiano il braccio destro e sinistro del premier e l’ex luogotenente di Silvio Berlusconi.
E a Palazzo Madama non si fa che parlare di questo «feeling» tra i due. Peccato che il vero compito di Lotti non fosse quello di convincere un Verdini più che convinto a votare la riforma costituzionale. Il leader dell’Ala non aveva bisogno di nessuna spintarella in questa direzione. E più di un senatore lo ha sentito dire, scherzando, ovviamente: «A brigante, brigante e mezzo». Era un modo per spiegare che lui non si sente in colpa per aver lasciato l’ex Cavaliere in nome del ddl Boschi.
Dunque non era Verdini l’obiettivo di Lotti. Il suo compito era quello di portare a casa il disegno di legge con i voti della maggior parte del gruppo parlamentare del Pd. Di dimostrare, insomma, che i voti di Verdini non erano indispensabili. Per farla breve, mentre tutti, o quasi, pensano che il sottosegretario abbia passato il suo tempo a parlare con i transfughi di FI, quello, invece, dialogava con la minoranza interna, Bersani in testa.
Ed è riuscito nell’impresa, trattando a sfavore di telecamere, come è solito fare perché non è un tipo che ama apparire più del necessario. Già, di interviste ne concede poche ed è allergico alle tv. Ha la scusa pronta con i tg per non offendere i giornalisti che gli si avvicinano: il capello perennemente fuori posto è poco telegenico. Comunque, le tv lo hanno ripreso eccome in questi giorni, mentre rideva con la ministra Maria Elena Boschi, mentre con un guizzo dell’occhio si scambiava un segnale con Verdini...
Presente, ma mai invadente. Anzi, è lui a essere inseguito per i meandri di Palazzo Madama (è successo anche ieri), ma pure per quelli di Montecitorio, quando c’è bisogno di lui alla Camera dei deputati.
I parlamentari del Pd lo pressano per chiedergli questo o quello, o anche solo per avere lumi sulle intenzioni del presidente del Consiglio. Sì, perché Lotti è l’unico a vivere in simbiosi con Renzi e chi non riesce ad avere udienza dal premier va da lui, perché sa che parlare con il sottosegretario è come parlare con il leader pd.
Il presidente del Consiglio si fida molto di Lotti. Gli ha affidato la «pratica» della riforma costituzionale lasciando che fosse lui a pianificare l’operazione. E l’operazione sta andando a buon fine, perché il premier è riuscito a dimostrare quello che voleva: cioè che la sua maggioranza al Senato veleggia tra i 160 (quando manca qualcuno all’appello) e i 170 e, perciò, i verdiniani non fanno la differenza.
Insomma, ci aveva visto bene, dal suo punto di vista, Renzi, quando, allora presidente della provincia di Firenze, incontrò Lotti e poco tempo dopo scrisse questo sms a chi glielo aveva fatto conoscere: «Quel Luca che mi hai presentato, ha mica voglia di fare esperienza in provincia? Se ha le p... come mi hai detto, in poco tempo te lo formo a dovere».
La Stampa 3.10.15
Il premier alla presa del palazzo
Il governo ha vinto e le opposizioni sono finite ko
di Marcello Sorgi


No, non è solo la sofferta approvazione in terza lettura della riforma del Senato la cui fine ingloriosa avviene, tra lazzi, insulti e gestacci irripetibili -, ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni. È qualcosa di più e di diverso, come sta emergendo: si tratta, in altre parole, della presa del Palazzo da parte di Renzi e degli infaticabili scudieri del suo governo.
Quel Palazzo, è bene ricordarlo, in cui lo stesso Renzi era entrato nel pomeriggio del 24 febbraio 2014, precisando subito di non avere l’età per esservi eletto, e annunciando bruscamente lo sfratto ai senatori, a cui il governo si presentava per l’ultima volta a chiedere la fiducia.
Venti mesi dopo il percorso è finito, e Renzi si prepara già a twittare uno dei messaggi che contrassegnano i risultati del suo lavoro. Ed anche se c’è sempre il rischio che la riforma possa saltare nella votazione finale segreta -, il bilancio politico di queste settimane lascia pensare che difficilmente l’ultimo pezzo di strada prima del traguardo potrà rivelarsi più accidentato di quello attraversato in questi giorni.
Basta guardarsi attorno: la destra s’è squagliata e Berlusconi, per evitare che nel segreto dell’urna si schierassero a favore della riforma o allungassero la fila dei transfughi, ha dovuto ordinare ai suoi parlamentari di uscire dall’aula. La minoranza bersaniana del Pd alla fine ha dovuto accordarsi, per non votare contro la riforma insieme a Lega e a M5s. Salvini, tenendosi a distanza dal campo di battaglia, ha lasciato fare a Calderoli la sceneggiata degli 85 milioni di emendamenti, rivelatasi un boomerang per il suo stesso autore. E Grillo ha fatto più o meno lo stesso, al netto di qualche iperbolico attacco dal suo blog, senza entrare nel merito della riforma.
L’attenzione di tutti gli osservatori si è così concentrata sul nuovo gruppo di Verdini, l’ex-coordinatore che ha guidato la nuova scissione da Forza Italia, portando a Renzi da dieci a quindici voti nei passaggi decisivi e rendendo quasi del tutto inoffensivo il dissenso interno del Pd. Adesso tutti si aspettano che il premier debba ricompensare l’aiuto ricevuto con un allargamento della maggioranza e un eventuale ingresso al governo o nel sottogoverno di qualche verdiniano di complemento. Ma si può già scommettere che questo non accadrà, perché a Renzi lo dicono i sondaggi non converrebbe da un punto di vista elettorale, e perché Verdini fa un calcolo diverso. Infatti l’uomo-chiave del fu patto del Nazareno (che a inizio d’anno, quando l’intesa con Berlusconi era ancora in piedi, entrava e usciva da Palazzo Chigi), si accontenta, per ora, di stuzzicare gli oppositori interni al Pd e farli apparire ininfluenti, aspettando il momento in cui una nuova rottura, come quella che stava profilandosi all’inizio della trattativa sulla riforma tra la maggioranza e la minoranza del partito del premier, renda i suoi voti indispensabili per evitare una crisi che porterebbe alla fine della legislatura. Lavorano a suo favore il tempo e il desiderio di durare il più possibile degli ultimi senatori in carica, prima dell’avvento del Senato dei consiglieri regionali e dei sindaci. E le occasioni per contare non mancheranno, se solo si considera che i bersaniani si preparano a una nuova offensiva sulla legge di stabilità, che dev’essere approvata entro fine anno. Il fatto che uno “brutto, sporco e cattivo” come lui stesso ama ironicamente definirsi, possa diventare decisivo, manda in sollucchero Verdini, consapevole che nella partita delle riforme, e non solo, c’è sempre un secondo tempo da giocare.
Ma con la presa del Palazzo, l’Italia diventerà renziana? È ancora presto per dirlo, ma non si può affatto escludere. Sembrava fatta, per il giovane premier, dopo la cavalcata trionfale delle elezioni europee del 2014 che portarono il Pd al 40,8 per cento, mentre quelle amministrative di quest’anno, pur positive in termini di conquista delle regioni, quanto a consensi sono state più deludenti. Renzi punta a rifarsi nel voto per i sindaci delle grandi città del 2016, scommette sulla ripresa economica, invero ancora timida, prepara una manovra economica di fine anno incentrata sul taglio delle tasse sulla casa, che pesano sull’85 per cento dei contribuenti italiani. Infine, lavora sulla percezione e sull’immagine di se stesso, per far capire che è sempre lo stesso Renzi, e insieme che è maturato. Non a caso, l’uomo che era entrato in scena da rivoluzionario, rottamando la vecchia politica e promettendo di usare il lanciafiamme contro le resistenze e i ritardi della burocrazia, alla fine ha conquistato il Palazzo grazie ai consigli di un esperto funzionario del Senato, che ha regalato la celebrità al famigerato Cociancich e s’è inventato l’emendamento “super canguro”: grazie al quale la riforma è entrata in dirittura d’arrivo, il governo ha vinto e le opposizioni sono finite ko.
Repubblica 3.10.15
La ricerca
Meno nozze in chiesa e ore di religione Bergoglio non frena l’ascesa della laicità
Diminuiscono anche i battesimi e l’otto per mille alla Cei
Un processo iniziato nel 2011 e rafforzato dalla crescente presenza di immigrati
Nei dati di Critica liberale l’avanzata della secolarizzazione in Italia
di Michele Smargiassi


A piccoli passi l’Italia continua ad allontanarsi dalla Chiesa, anche quella di papa Francesco. Calcolato ogni anno dalla Fondazione Critica Liberale assieme alla Cgil Nuovi Diritti, l’”Indice di secolarizzazione” prende per la prima volta in considerazione i dati dell’era Bergoglio, ma l’effetto Francesco non c’è: la lancetta risale di un lieve ma inequivocabile 5,9%. Si conferma insomma quel ritmo di leggera costante ascesa della laicità nazionale che dura ormai dal 2011, cioè dagli ultimi anni del diversissimo pontificato Ratzinger. Nel ventennio precedente la tendenza degli italiani a seguire meno precetti, indicazioni e riti del cattolicesimo era stata in effetti più impetuosa. Ma anche se il ritmo da qualche tempo rallenta, almeno nel suo primo anno il nuovo pontificato non sembra aver invertito la tendenza.
Calano dunque, sotto Francesco, i battesimi, anche se solo di qualche centinaio di unità su circa 400 mila (erano 490 mila l’anno nel ’94); calano le cresime (di qualche migliaio), crescono invece le prime comunioni, tornando ai livelli di dieci anni fa; calano viceversa assai seccamente i matrimoni in chiesa, di circa undicimila l’anno, su 120 mila, ma anche in proporzione al totale dei matrimoni, dal 59 al 57,5%, con la linea del sorpasso fra civili e concordatari che scende dal nord al centro Italia. In leggero declino le vocazioni (quasi un migliaio di ordinazioni di sacerdoti in meno). Continua a crescere la disaffezione delle famiglie per l’ora di religione (88,5% gli studenti che “si avvalgono”, in declino di circa mezzo punto all’anno), mentre tendono alla stabilità le iscrizioni alle scuole cattoliche. Stabile pure il ricorso agli anticoncezionali.
Rispetto al lungo periodo (i battesimi in vent’anni sono diminuiti di 82 mila unità su 490 mila; i matrimoni religiosi di un terzo) la disaffezione dei fedeli negli ultimi tempi si misura su scarti molto ridotti. I dati a volte si fanno oscillanti: ed anche questo è forse il segno che l’Italia tende ad avvicinarsi a un certo livello di equilibrio “secolare”. Singolare l’andamento dei versamenti dell’otto per mille alla Chiesa cattolica, dato da sempre in controtendenza rispetto alla secolarizzazione generale, cioè in vertiginosa crescita, dai 303 milioni di euro erogati nel ’93 ai 1.119 nel 2011: da quell’anno però in calo del 9,5%: ma vale solo per l’importo, perché il numero delle singole opzioni invece cresce , «frutto di una campagna pubblicitaria martellante », sostiene il direttore di Critica Liberale Enzo Marzo. L’apparente contraddizione si spiega forse con la crisi economica, che fa calare gli imponibili.
Gli italiani hanno ormai preso le misure stabili del loro rapporto con il cattolicesimo? Può essere, ma la Chiesa non sembra rassegnata. La presenza di istituzioni cattoliche nel sociale non arretra, anzi: crescono gli istituti di assistenza (6299, una sessantina in più nell’era Bergoglio), gli ospedali, le case di cura (oggi 1654), i consultori, i nidi d’infanzia. E c’è un fattore nascosto che potrebbe spiegare diversamente le cose. L’arrivo in Italia di grandi masse di immigrati. Difficile separare, nei dati che il Rapporto ha raccolto, la componente immigrata da quella stanziale. Ma in qualche caso si può, e i dati allora sono significativi. Il calo dell’interruzione volontaria di gravidanza, ad esempio, sarebbe forse più deciso se non fosse compensato dalla maggiore tendenza delle donne immigrate ad abortire (ormai un terzo del totale delle ivg). E questo ha ridato fiato ai Centri di assistenza alla vita, in aumento anche negli ultimi anni (dieci in più solo nel 2014), la cui utenza italiana, però, rimane stabile, mentre è aumentata grandemente l’affluenza di donne straniere, che oggi sono i quattro quinti delle frequentatrici dei centri, spesso unico punto di riferimento per le immigrate nel vuoto di accoglienza dello Stato.
Allo stesso modo, altri dati in controtendenza potrebbero nascondere l’influenza della mutata composizione demografica nazionale: i battesimi tardivi, ad esempio (in crescita annua del 2,71% quelli oltre il settimo anno di età) possono venire da famiglie immigrate faticosamente ricongiunte; così come il rapporto sacerdoti/popolazione, rimasto più o meno stabile dopo la forte crisi dei decenni scorsi, può essere stato nutrito da preti “importati”.
Un’Italia sempre più multiculturale, del resto, ci dovrà abituare a questi riassestamenti continui delle abitudini, delle scelte sociali e delle opzioni religiose.

venerdì 2 ottobre 2015

Repubblica 2.10.15
Al via il festival di Internazionale a Ferrara ospiti da tutto il mondo


FERRARA Prende il via oggi a Ferrara il festival di giornalismo organizzato dal settimanale Internazionale . L’appuntamento, giunto alla nona edizione, prevede tre giorni di incontri e dibattiti(fino a domenica)con ospiti da tutto il mondo ed è dedicato quest’anno al tema delle nuove frontiere, intese sia in senso geografico (il Mediterraneo, ad esempio, o il confine tra Messico e Stati Uniti)che sul piano dei diritti. Sono frontiere infatti anche i confini che separano a livello globale le libertà collettive e individuali. Tra gli appuntamenti: Van Reybrouck, autore di Congo , verrà intervistato da Nicola Lagioia, mentre Serena Dandini dialogherà con l’economista Andrea Baranes. Ci saranno nomi del giornalismo internazionale, tra cui Serge Michel ( Le Monde ) e Howard Waring French ( New York Times ) e il premio Pulitzer Jared Diamond. Si parlerà di scuola con Lizanne Foster e Tullio De Mauro e di cibo con Martin Caparros e David Rieff. Chiuderà il festival l’incontro tra Adriano Sofri e Zerocalcare.
Repubblica 2.10.15
Il mio Actor’s Studio è un sogno junghiano
Toni Servillo racconta la sua filosofia: “No a formalismi e virtuosismi recitare vuol dire empatia e frantumazione del proprio Io”
di Toni Servillo


Comincio da un interrogativo: l’interprete cos’è? È un mero esecutore di una partitura e, come dire, la “riproduce”? Non è mai così, naturalmente. Credo che un interprete, nel suo lavoro di scavo, interroghi in maniera profonda, continua, ossessiva, i valori che emergono dalla tessitura drammaturgica. Quindi è un processo lento; credo che l’interpretazione sia uno scandaglio gettato in un mare fecondo che è un grande testo, e rispetto a quello che è stato già detto tu abbia qualche cosa in più da dire, che si aggiunge
ma che nasce da quella ricchezza. Posso ricordare qui un atteggiamento cui fa riferimento Louis Jouvet a proposito delle relazioni con il personaggio, quando dice: «Io ho sempre pensato che il personaggio è più grande di me e la mia complessità deve mettersi in relazione con un personaggio che è un Amleto, un Tartufo, una creatura poetica talmente più grande di me che in una prima fase di approccio mi intimidisce, poi lentamente trovo una forma di relazione, poi forse riesco ad aggiungere qualche cosa a quello che ha già detto l’autore attraverso quel personaggio».
Insomma, questa è la mia formazione: non è una formazione di natura iconoclasta, pur avendo adorato alcuni artisti iconoclasti. Io sono molto più interessato al concetto di persona in quanto dramatis personae anche nel senso junghiano del termine. La persona mi interessa da questo punto di vista: le quantità di maschere che noi siamo capaci di portare. Diciamo quindi che tutto l’aspetto “formale” mi interessa negli anni sempre di meno o per così dire mi risulta come un accessorio rispetto a quello che riguarda invece il valore fondamentale di una proposta teatrale che è per me il contenuto. Ma per me il contenuto implica il valore essenziale della comunicazione: è quello che accade. Da questo punto di vista sono molto più interessato al “noi”. Sì, insomma credo che il teatro sia quella straordinaria occasione in cui l’Io si polverizza, evapora, è come se si sciogliesse nell’aria. Insomma scopro nella pratica quotidiana del teatro che uno dei valori più straordinari di questo mestiere è il valore legato al concetto di empatia. Più vai avanti e più ti accorgi che, con pochissimi mezzi, questo mestiere ti offre la possibilità straordinaria di un’”emozione empatica”, che significa riconoscere se stesso negli altri.
Questa “spersonalizzazione”, chiamiamola così, questa polverizzazione, e di conseguenza questa empatia, hanno a che fare semplicemente con la pratica del palcoscenico. Ora, si tratta di un fatto materiale, biologico. Noi non sappiamo ancora cosa sono i sogni, non lo sappiamo. Al di là di ciò che diceva Jung o Freud, ci sono poi alcuni neurologi che sostengono sia un fatto meramente legato alla corteccia cerebrale che mette in moto qualcosa. Io quello che so è che ogni volta che torno in albergo, in anni di frequente solitudine (che poi la vita di un attore è fatta di moltissima solitudine), torno e vedo a un certo punto come una moltiplicazione di facce, di esperienze, di incontri, di energie anonime. Senti che hai messo in moto qualcosa, e che questo è bello perché è involontario.
Accade cioè nella sua involontarietà e ha a che fare con la natura del teatro che è la natura della vita, cioè che passa, che è caduca. Per cui a un certo punto capisci che, di quel poco che hai fatto, la cosa più bella – e che non è generalizzabile – è quella e la fai grazie alle “zattere” che in questo mare di involontarietà, si chiamano Alceste, Orgone, si chiamano i fratelli Saporito; sono “zattere” a cui mi aggrappo e che hanno il potere di sottolineare a un certo punto, in maniera concreta, il fluttuare di un destino.
In tale processo la qualità del pubblico, le differenze dei pubblici, aggiungono sempre qualche cosa. Questa è la ragione per cui un simile processo toglie al teatro ogni forma di narcisismo e lo polverizza; ciò lo mette a riparo da sciocchezze del tipo: “Io sono Amleto, Amleto stava aspettando solo me!” ecc. Amleto è uno, e l’ha scritto Shakespeare, solo chi lo aggancia in maniera esatta ha la dignità di essere Amleto. Questo è l’atteggiamento interpretativo per me “sano”.
Questa è, anche nella vita di tutti i giorni da spettatore, la ragione per cui io trovo poco interessante il talento portato alle sue massime conseguenze, e qui intendo rifarmi a quegli attori che sanno far tutto, talmente bravi “che fanno schifo”. Così come m’interessa molto poco il non-attore portato nella dimensione della recitazione: il “disabile”, il “diverso”, lo “strano”, perché secondo me è “in mezzo” che ci sta qualcosa di più interessante.
Non so se toccando vari punti io sia riuscito a dare una mia idea teatrale. Certo è che un mio teatro non esiste, un mio teatro non c’è. Di altri, di pochi, si può dire ci sia un teatro: il teatro di Leo de Berardinis ecc. Persone che hanno potuto mettere il proprio nome accanto al teatro che facevano. Io sono un interprete e ho cercato di raccontare brevemente gli aspetti che dell’interpretazione mi affascinano, aspetti legati a un percorso. Un percorso legato alla pratica, inesorabilmente, alla pratica quotidiana.
Mi viene in mente però un regista di cinema come Ozu. In una conversazione che ebbi con Theo Angelopoulos, sul set di un film rimasto incompiuto a causa della sua scomparsa improvvisa, lui mi raccontava di essere andato in pellegrinaggio, durante una rassegna di suoi film in Giappone, sulla tomba di Ozu e di essere rimasto affascinato dal fatto che l’ideogramma inciso sulla sua tomba significasse NULLA. Quello che è straordinario è che quando vedi le inquadrature fisse dal basso di Ozu, e in particolare nello straordinario film Viaggio a Tokyo , vedi che quel nulla coincide con una grande quantità di vita che c’è dentro, così com’è (si apre una porta, si esce, arriva il padre, preparano il tè). È una riflessione nutriente per cercare di andare in profondità su questa questione, su quest’aspetto dell’involontarietà, dell’acciuffare la vita che spesso coincide con il nulla stesso.
IL LIBRO Toni Servillo Oltre l’attore, a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti (Donzelli, pagg. 277, euro 25).
Corriere 2.10.15
Il rebus
Ignazio Silone, il passato di uno scrittore
risponde Sergio Romano


Le polemiche sollevate all’indirizzo di Pitigrilli, rievocate da un lettore, mi hanno richiamato alla memoria quelle nei confronti di Ignazio Silone. Credevo che la sua compromissione con il fascismo, dovuta all’intento di proteggere il fratello, fosse assodata. Silone era stato socialista e poi comunista ma finì per fare la spia a favore dei fascisti dando informazioni sui fuorusciti per ottenere un trattamento umano per il fratello gravemente ammalato ricoverato nell’infermeria del penitenziario di Procida. Contro il parere di accreditati storici colpevolisti si espresse Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Come si concluse il dibattito?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Sui rapporti che Secondino Tranquilli (meglio noto come Ignazio Silone) ebbe con la polizia dello Stato italiano nei primi anni del regime fascista, non credo vi siano ormai molte incertezze. Fra il 1927 e il 1930, nascosto sotto il nome di Silvestri, Silone inviò rapporti soprattutto a Guido Bellomo, un ispettore abruzzese che aveva conosciuto negli anni dell’adolescenza. Dava notizie sulla linea politica del Partito comunista d’Italia e, in particolare, sulle indagini disposte dal suo apparato per accertare la lealtà di membri che erano sospettati, spesso con ragione, di avere stretto rapporti fiduciari con la polizia.
È stato spesso spiegato che la collaborazione di Silone con Bellomo aveva uno scopo umanitario. Serviva a ottenere migliori condizioni per il fratello Romolo, membro del partito, accusato di complicità in un sanguinoso attentato milanese, arrestato e trattato con durezza durante gli interrogatori di polizia. La preoccupazione per la sorte del fratello era reale e giustificata. Ma vi erano probabilmente altre ragioni che appartengono al dominio della psicologia piuttosto che a quello dell’analisi politica. Silone era un uomo complicato, turbato da dubbi, esami di coscienza, analisi introspettive, sensi di colpa: doti e virtù che avrebbero fatto di lui un grande scrittore, piuttosto che un leader politico. Nel suo libro su I tentacoli dell’Ovra , Mimmo Franzinelli cita un passaggio della lettera che Silone inviò a Bellomo il 13 aprile 1930 per annunciargli l’intenzione di abbandonare la politica militante. Voleva eliminare dalla sua vita «tutto ciò che è falsità, doppiezza, equivoco, mistero» e «cominciare una nuova vita, su una nuova base, per riparare il male che ho fatto, per redimermi, per fare del bene agli operai, ai contadini (ai quali sono legato per tutte le fibre del mio essere) e alla mia patria».
Dopo la pubblicazione della lettera su Pitigrilli, caro Fadda, molti lettori mi hanno chiesto quale sia il significato dall’acronimo Ovra con cui viene abitualmente chiamata quella branca della polizia di Stato che venne usata per la repressione dell’antifascismo. Devo rispondere che, nonostante i numerosi tentativi di sciogliere il rebus, la parola non sarebbe un acronimo. L’avrebbe coniata Mussolini per ragioni esclusivamente fonetiche. Era convinto che l’assonanza con «piovra» l’avrebbe resa immediatamente popolare.
Corriere 2.10.15
L’ambigua anima russa torna sempre all’ordine
di Luigi Ippolito


Il rapporto fra la Russia e le avanguardie artistiche che essa stessa ha prodotto nel corso della sua storia è sempre stato ambivalente, quando non denso di travagli. La stessa parabola di Malevic è esemplare, col suo evolvere dal futurismo al suprematismo fino al ritorno a una sua forma figurativa coincidente col ritorno all’ordine nella sfera politica. Un movimento e contromovimento che ha trovato la sua replica nei decenni contemporanei. Il periodo seguito al crollo del comunismo e dell’Unione Sovietica ha visto una fioritura artistica diversificata e creativa, che ben accompagnava i caotici anni Novanta, dominati sì dal disordine politico ed economico ma, al tempo stesso, caratterizzati da ampia libertà espressiva. Ma di pari passo alla restaurazione politica attuata da Vladimir Putin a partire dal Duemila, e accentuatasi in questo suo ultimo mandato, ha preso corpo una restaurazione culturale imperniata sul richiamo ai valori tradizionali contrapposti alla decadenza dell’Occidente. È qui che le forme più radicali di espressione artistica hanno assunto i connotati di rivolta aperta contro il potere: è il caso del collettivo anarchico situazionista Voina (Guerra), da cui sono poi scaturite le celebri Pussy Riot, protagoniste di performance come il disegno di un enorme pene sul ponte levatoio davanti alla sede del Kgb di San Pietroburgo o la celebrazione di un’orgia (vera) in un museo statale. Fino alla preghiera punk nella cattedrale del Salvatore, costata alle Pussy Riot anni di galera. La reazione si è fatta sempre più violenta. È di questi ultimi mesi il caso di mostre di arte contemporanea a Mosca attaccate e vandalizzate da autoproclamati difensori della tradizione, che sentono di avere l’appoggio tacito di chi governa. Rivoluzione e restaurazione continuano a disputarsi l’anima russa.
Corriere 2.10.15
Quel grado zero delle forme che rivive in Rothko e Flavin
Cento anni fa Il manifesto, scritto con Majakovskij, che mostrava il «cadavere dell’arte pittorica»
di Francesca Bonazzoli


«Per suprematismo io intendo la pura sensibilità nell’arte. Dal punto di vista dei suprematisti, le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale (...). L’oggetto in sé non significa nulla per il suprematista. La sensibilità è la sola cosa che conti, ed è per questa via che l’arte perviene con il suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione».
Era il 1915 e con queste parole, scritte assieme al poeta Majakovskij, Malevic dava alle stampe il manifesto del Suprematismo seguito, nel 1920, dal saggio Il suprematismo, ovvero il mondo della non rappresentazione . Contemporaneamente Malevic esponeva i suoi primi quadri suprematisti, fra il quali il Quadrato nero su fondo bianco (retrodatato dall’artista al 1913) che diverrà un’icona del Novecento, punto di partenza teorico di tanta arte astratta del XX secolo, anche se il suprematismo stesso fu legato essenzialmente alla figura carismatica di Malevic.
«Ora il cadavere dell’arte pittorica, l’arte della pittura spennellata dagli imbianchini, è stato messo in una bara, sigillata con il Quadrato nero del suprematismo», scriveva il pittore Ivan Kljunkov, echeggiando i toni utopistici e messianici con cui Malevic annunciava la «fine della pittura». Gli elementi ancora utilizzati sono il quadrato, il rettangolo, il cerchio, il trapezio: forme semplici «da confrontarsi ai segni primitivi dell’uomo primordiale, poiché non rappresentano nella loro composizione un ornamento, ma solo il senso del ritmo».
Dopo il «Quadrato nero», definito da Malevic come il «grado zero», «lo zero delle forme», l’elemento base del mondo e dell’esistenza, seguirono i quadrati rossi e quelli bianchi fino alla tela bianca vuota esposta nel 1919-20 e poi nel 1923, che non avevano nulla a che fare con le provocazioni futuriste o i gesti dei nicevoki , i nichilisti del dadaismo russo, ma rappresentavano l’estremo approdo filosofico suprematista, lo specchio del Nulla e del Tutto: «Questo quadrato che avevo esposto non era un quadrato vuoto, ma la sensibilità dell’assenza dell’oggetto», dichiarò Malevic. «Nel suprematismo non si può nemmeno parlare di pittura», scriveva ancora nel 1920. «La pittura è stata eliminata da tempo e la figura del pittore è un pregiudizio del passato».
Con il suo rigore estremista, Malevic voleva fondare una sensibilità superiore a quella fisica, che attingesse a una dimensione d’infinito. Così, sebbene fosse avanguardista e novecentesca, l’aspirazione di Malevic non faceva che ricongiungersi, in un percorso che arrivava a chiudere un cerchio, alla tradizione bizantina dove le icone sacre ripetono sempre lo stesso modello divino e dove il sacerdote pittore non crea, né interpreta, ma esegue l’immagine esattamente come si ripete la formula di una preghiera, perché l’immagine non è creata dall’uomo, ma rivelata direttamente dalla divinità.
Tolta di mezzo anche la divinità per appellarsi direttamente all’assoluto, Malevic non poteva che arrivare a un punto zero e dunque prima smise di firmare e datare le opere, poi anche di dipingere per dedicarsi all’insegnamento e alla teorizzazione di utopiche abitazioni-grattacielo di un nuovo mondo. Quasi profeticamente annunciato, il destino delle sue opere fu quello di scomparire prima a causa della condanna sovietica e poi di quella nazista. Ma la loro rinascita è beffardamente avvenuta proprio nell’era dell’esplosione delle immagini, nel secondo Novecento, quando il Quadrato bianco e il Quadrato nero hanno dato vita a una eterogenea figliolanza del radicalismo suprematista: dai neon di Dan Flavin alle camminate nel paesaggio di Hamish Fulton, dalle stanze di luce di James Turrell alle campiture vibranti di colore di Mark Rothko, tutti artisti di movimenti che hanno investito di una componente suprema il grado zero delle forme.
Corriere 2.10.15
Malevic, l’Assoluto
L’ambizione alla purezza totale poi il recupero della materia il destino di un rivoluzionario
di Roberta Scorranese


Settanta capolavori e un progetto che unisce la città
Fino al 17 gennaio 2016, alla GAMeC — Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo, la mostra Malevic , a cura di Eugenia Petrova (vice direttore del Museo di Stato russo di San Pietroburgo), e Giacinto Di Pietrantonio (direttore della GAMeC). La retrospettiva (70 opere, incluse quelle di molti artisti russi coevi) è coprodotta dalla GAMeC e da GAmm — Giunti arte mostre musei, in collaborazione con il Museo di Stato russo di San Pietroburgo . catalogo GAmm Giunti. Info su www.mostramalevic.it . In parallelo, un circuito di iniziative unite sotto il titolo Tutti pazzi per Malevic promosso dai Servizi educativi della GAMeC: dall’Accademia Carrara al Teatro Donizetti, numerose istituzioni organizzano incontri (per grandi e per piccoli) sui temi legati al grande artista di origini ucraine. Saranno inoltre coinvolti nel progetto alcuni istituti superiori di città e provincia. Tutti gli eventi saranno raccolti e documentati all’interno del sito www.tuttipazzipermalevic.it .

Anche in Italia arriva la «Vittoria sul sole» opera d’arte totale
In occasione della mostra alla GAMeC, per la prima volta in Italia, una grande sala accoglierà la riedizione de la «Vittoria sul sole», prima opera totale di musica, arte, poesia e teatro, creata da Malevic con Michail Matjusin e Aleksej Krucenych ( nella foto, un bozzetto ). L’iniziativa si tiene a cento anni dalla nascita del Suprematismo, la più radicale tra le avanguardie storiche del Novecento di cui Malevic è stato fondatore, leader, e maggiore interprete. Dopo la mostra alla Tate di Londra del 2014 ( in cui sono state esposte alcune delle opere visibili anche alla GAMeC) a ottobre il museo bergamasco celebra quest’importante ricorrenza, in coincidenza con l’appuntamento della Fondazione Beyeler
di Basilea che proporrà la ricostruzione della sala suprematista del 1915.

Strano il destino toccato in sorte a Kazimir Malevic: ha trascorso una parte della sua vita a «uscire dal cerchio delle cose», a scarnificare la materia fino a raggiungerne lo spirito (un quadrato bianco su fondo bianco: il nulla e il tutto al tempo stesso) e un’altra parte a recuperare consistenza, con la consapevolezza (dolorosa) che la materia è parte di noi, che ci piaccia o meno. «Dio non può essere vinto», scriverà.
E la mostra che si apre alla GAMeC di Bergamo, curata da Eugenia Petrova e Giacinto Di Pietrantonio, può essere letta come una biografia ragionata del pittore nato a Kiev nel 1878 e morto a San Pietroburgo (allora si chiamava Leningrado) esattamente 80 anni fa, nel 1935.
Settanta opere, un corpus di lavori di altri russi vicini alle avanguardie a cavallo tra Otto e Novecento (Repin, Goncharova...) per ricostruire il terreno sul quale, un secolo fa, germogliò la corrente del Suprematismo, incarnata in Malevic.
Guardiamolo nel bizzarro Autoritratto con fiocco rosso . Era il 1907; due anni prima Kazimir era salito sulle barricate, nella rivolta di Krasnaja Presnja, preludio all’Ottobre del 1917. Era un rivoluzionario, un artista coltissimo, spaziava dalla poesia alla pittura all’architettura. Deciso a scardinare i limiti della forma, a «ripulire» lo spirito dei cascami della materia. La sequenza di questo progressivo annientamento scorre sulle pareti della Galleria bergamasca: Mucca e violino e Ritratto perfetto di Ivan Kljun del 1913. Poi il Quadrato Nero , una corsa infinita verso la purezza assoluta, fino al grado zero: nel 1919 Malevic smette di dipingere.
Comincia però a scrivere.
Poesie, lettere, riflessioni analitiche nel solco della tradizione speculativa russa (da Dostoevskij a Kandinskij, la poetica è inscindibile dalla filosofia). Tutto bene: la Rivoluzione dà corpo alle sue idee, diventa uno dei teorici della «nuova Russia in mano al popolo».
Finché la materia non torna, vendicandosi: nessuno è sublimabile, tutti siamo vittime delle nostre fragilità, tutto può ribaltarsi da un momento all’altro (più o meno negli stessi anni Pirandello lo aveva colto): le sentinelle rosse della cultura non capiscono che cosa sia questo Suprematismo. È una forma di grave individualismo? Nel mirino, additato come covo di sovversivi , finisce l’Istituto di Stato per la cultura artistica, da lui diretto.
Un colpo. Malevic recupera il rapporto con la forma, freneticamente. E gioca con il tempo: cambia le date ai dipinti, bara sul suo compleanno, camuffa la realtà come disperato tentativo di uscire dal «cerchio delle cose». Come annota Di Pietrantonio: «Un’arte antinaturalista, assoluta e senza gravità». Va a Varsavia, poi a Berlino. Siamo nel 1927: un telegramma gli intima di tornare in patria. Lascia in Germania quadri e scritti, sa che in Unione Sovietica sono a rischio (così come pure, peraltro, in Germania, ma azzarda). Il suo curatore, Hugo Hoering, li darà al Museo di Amsterdam.
Malevic verrà arrestato poco dopo, nel 1930, accusato di amicizie pericolose. Due mesi di carcere, poi il dolore. Lancinante, quello della consapevolezza: la purezza assoluta, intransigente, è pericolosamente vicina a quel mondo conservatore per combattere il quale ha rischiato la vita, ai primi del secolo. Ecco che tornano allora i suoi contadini, gli amatissimi custodi del silenzio (in mostra c’è una bella Testa di contadino ). Retrodata le sue opere, ai primi degli anni Dieci e solo in seguito si scoprirà che risalgono agli anni Trenta.
Si riavvicina alle icone sacre della tradizione, faro luminoso per tutti gli artisti russi in crisi. L’interesse per il Cubismo e il Futurismo (apprezzava sinceramente Marinetti) lasciano spazio a un recupero delle figure rinascimentali e si fa un autoritratto in cui veste come Cristoforo Colombo (1933). Sì, aveva scoperto un altro mondo e non si dava pace, senza sapere che altro doveva ancora arrivare. Dopo la sua morte, gran parte delle opere che si trovavano in casa Malevic furono sequestrate e finirono nei sotterranei del Museo russo di San Pietroburgo. Riemergeranno 65 anni dopo.
Oggi di lui ci resta la certezza che l’arte può e deve trovare una sua dimensione autonoma dal «cerchio delle cose». Eppure, guardate il bellissimo La casa rossa (1932), in mostra. Viene in mente quello che, più di un secolo prima, aveva scritto Hölderlin: «E tuttavia, poeticamente abita l’uomo su questa terra» .
Che tipo era Heidegger?
Corriere 2.10.15
Anfetamine per Elsa e balere sul Tevere
Ginevra Bompiani : «Andai a un seminario di Heidegger. Non sapevo il tedesco ma mi diede ragione: il mio trionfo»
intervista di Paolo Di Stefano


Ciò che colpisce subito di Ginevra Bompiani è il sorriso dolce e ironico. Poi il coraggio. Se non lo fosse non avrebbe creato, nel 2002, la casa editrice nottetempo, insieme con l’amica Roberta Einaudi: la figlia di Valentino con la nipote di Giulio. Ha vissuto a Parigi e a Londra, ha scritto romanzi e racconti, ha tradotto soprattutto dal francese e come saggista si è occupata molto di letteratura inglese, insegnando per anni all’Università di Siena. Nella campagna senese passa la sua estate, quando non si occupa, a Roma, dei libri degli altri.
Che influsso ha avuto papà Valentino nella sua idea di editoria?
«Ho lavorato con lui per due anni. Alla fine del liceo e poi quando ho finito l’università. Quel poco che so l’ho imparato da lui. Mi trattava come l’ultima ruota del carro, facendomi passare da un ufficio all’altro, e già questo fu molto utile. Poi, negli anni Sessanta, ho creato “Il Pesanervi”, una collana di letteratura fantastica quando su quel tipo di narrativa c’era il veto della sinistra. Toccava a me, con il mio compagno e poi marito Giorgio Agamben, fare tutto, proprio tutto… ».
Che cosa ha imparato?
«Primo, che l’editoria è un servizio. Proprio agli inizi, mio padre aveva ideato una collana che si chiamava “Libri scelti per servire al panorama del nostro tempo”. Seconda cosa: l’editore è protagonista, cioè deve seguire il proprio gusto e il proprio carattere. Terzo: bisogna avere curiosità per il proprio tempo, cioè fare dei libri per capire qualcosa del presente».
E il rapporto con gli autori?
«Tutti gli autori di mio padre sono stati i grandi amici della sua vita».
Tranne Moravia, con cui non ha mai avuto una vera amicizia.
«Già, ma è stata un’eccezione di cui mio padre era molto dispiaciuto. In genere se un autore passava a un altro editore, com’è successo con Vittorini, era una ferita personale».
Lei ha conosciuto Vittorini?
«Sì, quando ormai lavorava per Einaudi: da anni sentivo parlare mio padre del suo dolore per essere stato abbandonato… Ne rimasi affascinata. Io ero giovane e lui era un uomo molto bello, pieno di grazia, di gentilezza e di disponibilità».
Da giovane già pensava di seguire le orme di suo padre?
«No, mai pensato. Eravamo due caratteri forti ed era uno scontro continuo. E poi mio padre aveva la fissazione del nepotismo al contrario. I figli e i parenti che lavoravano con lui, come mia sorella, e i nipoti Fabio e Silvana Mauri, dovevano essere messi sempre un po’ più in difficoltà rispetto agli altri».
Com’è cambiata l’editoria da allora?
«C’è stata una frattura enorme. Me ne accorsi appena nata Nottetempo, nel 2002: alla Fiera di Londra capii subito che gli editori erano irrilevanti dal punto di vista dei diritti esteri. Al secondo piano si apriva un mare di tavolini: erano gli agenti, che avevano preso il potere».
Che significato aveva quel passaggio?
«Significava che c’era un mediatore che si infilava tra l’autore e l’editore per gestire i contratti. Senza dimenticare che c’era un’altra figura, quella dell’ editor , che si infilava tra l’autore e il lettore».
Anche Vittorini, Pavese e Natalia Ginzburg avevano fatto quel mestiere.
«È vero, ma lo facevano per migliorare i libri nel loro genere. Mio padre chiese a Zavattini di riscrivere i suoi libri, non lo fece lui… Oggi il problema è che le revisioni vengano pensate in funzione del successo».
Toccherebbe allo scrittore dire la parola definitiva…
«Lo scrittore ormai consegna il libro in forma provvisoria, perché sa che l’ editor può aggiustarlo. Secondo me, l’ editor può anche fare un buon lavoro, ma quel che si perde è la ricerca della forma che spetta allo scrittore».
Nottetempo non fa editing?
«Lo fa con molto rispetto, lasciando che sia l’autore a metterci mano. Preferisco la stravaganza dello scrittore alla perizia dell’ editor ».
Ma lo stile è una preoccupazione ancora viva?
«Non mi pare. C’è un appiattimento che va attribuito prima che agli editor agli autori stessi. Si arriva a costruire romanzi quasi totalmente riscritti e aggiustati sperando che diventino bestseller. E così gli autori, più che scrittori, sono sceneggiatori».
Lei ha conosciuto Pasolini, Moravia, Caproni, Morante… Qual è il cambiamento più rilevante che vede nel mondo letterario?
«Userei una parola semplice: la grandezza. E l’unicità. Gli scrittori che ho avuto la fortuna di conoscere erano persone uniche, e per questo potevano creare una società letteraria. Non erano solo grandi scrittori, ognuno di loro era un universo, aveva una statura e una pienezza riconosciute, e anche disponibilità verso gli altri».
C’erano anche crudeltà e odi feroci.
«Vero, però con un riconoscimento reciproco. Calvino era l’opposto della Morante, ma ciascuno leggeva l’altro, magari criticandosi aspramente. Ricordo che Pasolini fece una stroncatura della Storia pur essendo amico strettissimo di Elsa. Fu un enorme dolore per lei: non si trattava di dispettucci o gomitatine, ma di lacrime e sangue. Riconoscere e rispettare uno scrittore diverso da sé era un tratto di serietà che è venuto meno».
Che cosa intende per serietà?
«Intendo la volontà di mettersi in gioco totalmente, che è l’unità di misura della grandezza. Oggi nel fare letteratura non ci si prende più tanto sul serio. In questo ha ragione Saviano…».
A che proposito?
«In un’intervista diceva una cosa giusta: si scrive per perdere… Oggi si scrive per guadagnare, non necessariamente denaro. Un carattere dilagante nella letteratura è il narcisismo endemico. Una specie di malattia sociale… Il fatto che ci siano più scrittori che lettori è il segno di questo narcisismo diffuso».
Come avvenne il suo incontro con Heidegger?
«Nel 1966, un giovane poeta, amico mio e di Agamben, apprese che Heidegger aveva deciso di andare a trovare il grande poeta francese René Char, durante l’estate, in Provenza, con tre suoi discepoli: avrebbe abitato in una pensioncina e condotto dei seminari. Informò Agamben, che partì: a sentire le lezioni erano in cinque. Io mi unii a loro gli ultimi tre giorni, quell’anno e l’anno dopo».
Che cosa ricorda?
«Ero l’unica donna, non ho mai saputo il tedesco ma cercavo di farmi tradurre come potevo. Stavamo nello stesso alberghetto in una situazione molto familiare, tutto il giorno insieme, colazione pranzo e cena. Facevamo grandi passeggiate in montagna e quando si arrivava sulla cima, dove c’era una tavola con delle panche intorno, cominciava il seminario. Non capivo niente e tiravo la giacca di Giorgio per chiedergli che cosa aveva detto».
E che cosa diceva?
«L’ultimo giorno fu il mio piccolo trionfo. Heidegger diceva che era deluso da come erano andate le cose, perché non gli avevano fatto le domande giuste, non questa domanda, non questa, non questa… Chiesi sottovoce a Giorgio come si diceva in tedesco ma . Giorgio mi disse aber . Dunque quando Heidegger finì di fare il suo elenco in negativo, gli dissi: “ Aber …”. E lui: “Ecco, la signorina finalmente ha fatto la domanda giusta…”».
Che tipo era Heidegger?
«Comunicavamo passandoci la marmellata al mattino… Finito il seminario andava a giocare alla pétanque , il gioco delle bocce provenzale, con i vecchi contadini della zona: indossava il loro stesso berretto, sembrava anche lui un contadino, finché teneva bassi gli occhi sul campo, ma appena li alzava, ti trafiggeva con il suo sguardo acutissimo, pungente, uno di quegli sguardi che ti attraversano e ti trapassano… A me faceva un po’ paura, quello sguardo, che poteva trafiggerti».
Era severo?
«Ricordo che una volta disse che quelli che erano stati intorno a lui erano ciechi. Qualcuno gli chiese: anche Hannah Arendt? E lui rispose: lei aveva un occhio…».
Che cosa pensa del suo coinvolgimento nel nazismo?
«Penso che si è trattato di quella forma di stupidità che spesso colpisce gli uomini molto intelligenti quando si occupano di politica. Una specie di sbrodolamento dell’intelligenza che trabocca dal bicchiere».
L’amicizia con Elsa Morante?
«Più che un’amicizia era una frequentazione intensa in compagnia di Patrizia Cavalli, Carlo Cecchi, Cesare Garboli e pochi altri. La prima volta la vidi a Roma con Moravia: avevo 17 anni, seguivo mio cugino Fabio, che aveva sposato Adriana Asti, e insieme si usciva con Elsa, Moravia, Pasolini, Volponi… Si andava in balera sul Tevere a ballare. Per diventare amici di Elsa, ci voleva una grande devozione».
Lei non era devota?
«Avevo una notevole soggezione e amavo molto i suoi libri. Con gli amici poteva essere anche crudele e io non sopporto la crudeltà».
Crudele?
«Sì, anche per via delle anfetamine che non addolciscono certo il carattere. Con lei, se eri un poverino eri avvantaggiato».
Per una sorta di populismo?
«Direi una visione creaturale, da presepe».
La vedevate spesso?
«Quasi tutti i giorni, da Rosati o alla Campana, oppure in piazza Navona, in quello che lei chiamava il Bar Sciagura, un caffè per disgraziati con la valigia. Oggi è un locale coi fiocchi».
E a pranzo?
«Se lavorava, la si andava a prendere a casa sua, in via dell’Oca, a mezzogiorno in punto, guai a sgarrare di un minuto. Mangiava molto, perché faceva un unico pasto e verso la fine prendeva l’anfetamina, credo si chiamasse metedrina: riusciva a trovarla con molte difficoltà perché era vietata».
Perché prendeva l’anfetamina?
«Aveva la pressione molto bassa e non avrebbe potuto scrivere. Restava con noi finché la pastiglia cominciava a fare effetto, incattivendosi sempre più, noi dovevamo aspettare un po’ che l’effetto fosse maturo, per accompagnarla a casa, dove lavorava fino alla sera tardi. In quei momenti era temibile».
E di solito?
«Quando non scriveva era un’altra persona, solare, incantevole. Abbiamo trascorso a Ponza bellissime vacanze insieme».
Che tipo di casa editrice è Nottetempo?
«Un editore indipendente, vintage , che ha raccolto l’eredità dei grandi editori del passato».
La fusione di due tradizioni illustri come quelle di Bompiani e di Einaudi…
«Roberta Einaudi e io siamo amiche da quando avevamo due anni. Fondando nottetempo a tutto pensavamo tranne che al matrimonio Bompiani-Einaudi. Ce l’hanno fatto notare i giornalisti e abbiamo detto: toh, è proprio vero!».
C’è una continuità tra i grandi editori storici e i piccoli di oggi?
«Oggi lavorare per un gruppo editoriale e lavorare per un’editoria indipendente sono due mestieri diversi. Da una parte c’è l’esigenza (e la necessità) di costruire dei bestseller, dall’altra il desiderio di inventare, di sperimentare, magari nella tenace illusione di star dentro una tradizione. L’editoria va reinventata giorno per giorno creando un proprio stile, un po’ come dovrebbe fare uno scrittore».
Cosa pensa della fusione Rizzoli-Mondadori?
«Tutto il male possibile. E sono ancor più indignata perché nel pacchetto c’è la Bompiani».
Poi c’è la battaglia dei premi letterari…
«Non nego che i premi siano utili e importanti, o almeno che potrebbero esserlo. Non rimane altro, visto che la critica letteraria ha perso efficacia e che la gente non è più interessata a scegliere sulla base delle recensioni. La gente sceglie quel che ha nell’orecchio e i premi hanno proprio questo compito: mettere un titolo nell’orecchio del lettore».
Il rimprovero allo Strega è di premiare non il libro ma l’editore…
«Se un riconoscimento finisce per promuovere quel che già si trova in classifica non serve a niente. Le librerie di catena favoriscono gli editori che pagano gli spazi e propongono grandi sconti, così si mettono in mostra cataste di libri scontati: il titolo più visibile e dunque più importante è il libro più scontato. Un premio dovrebbe rompere questo circolo vizioso…».
È per questo che ha promosso un nuovo premio, Sinbad?
«Un premio aperto solo agli editori indipendenti, che sono quelli penalizzati dai grandi premi. Con scelte il più possibile trasparenti».
E speriamo che a vincere siano davvero i libri migliori.
«Speriamo».