sabato 6 ottobre 2018

Repubblica 6.10.18
È la legge del desiderio a farci amare la creatività

di Elio Franzini
Rettore dell’università Statale di Milano

Elogio di una pulsione che va ben al di là di fisiologia e psicologia
Pensare al problema del desiderio ha significato, per molti anni, aderire a una sorta di prospettiva che genericamente potremmo chiamare " postmoderna", che scioglieva il desiderare nell’inconscio, o in macchine desideranti, " indebolendola" nelle pulsioni dell’Es. Non si può infatti dimenticare che, per un autore come Lyotard, sin dagli anni Settanta del Novecento, il desiderio si pone sul piano di una decostruzione come strada per distruggere la metafisica occidentale, annullandone le categorie e riportandole a pulsioni originarie. Questa strada è stata variamente percorsa da molti autori, con volumi di grande successo ( si pensi a L’anti- Edipo di Deleuze e Guattari).
Strada lecita, senza dubbio, ma che forse non riesce a far comprendere non solo la ricca fenomenologia del desiderio, ma neppure l’ambiguità del suo ruolo multiforme nella formazione del soggetto e nella storia del pensiero stesso.
Romanae Disputationes,
l’ormai noto certamen filosofico che ogni anno raccoglie migliaia di studenti delle scuole superiori italiane, aiuterà certo ad ampliare questo concetto, rendendo possibili nuovi percorsi, che mostrino le possibilità formative del desiderio.
Il desiderio deve infatti essere guardato anche, se non soprattutto, al di fuori di uno schema psicologico, vedendolo connesso a un percorso di costruzione del senso. Il desiderio è creativo e, come dimostra la pratica dell’arte, ha una funzione formativa: è grazie al desiderio, a questo fondo oscuro, al suo lavoro nei processi costruttivi come in quelli ricettivi, che l’opera appare come una realtà " infinita", ovvero mai pacificata, che non possiamo ridurre a una sorta di ambigua sublimazione estetica. In altri termini, il desiderio, in sé indefinibile per la varietà di significati che assume nei suoi vari campi di azione, può venir visto come ciò che tiene viva, nel processo e nel progetto dell’arte, la forza formativa, un senso sensibile e, per così dire, " mitico" e originario.
Il desiderio non può allora essere " spiegato", definito, ridotto a una sequenza lineare, clinica, sintomale.
Ridurre questo percorso a economie libidinali non permette di comprendere che il desiderare è connesso a un piacere non riducibile alla fisiologia o alla psicologia. Il desiderio non è un impulso vuoto, meramente fantastico, ma si confronta sempre con la materia, con il costruire.
Tende a riempire di contenuti radicati nel mondo stesso la forza produttiva dell’immaginazione.
L’energia che circola nello psichico è senza dubbio un’azione desiderativa: ma le sue manifestazioni non possono rimanere isolate nel vuoto di una perdita, nell’impersonalità, nell’Es.
La costruzione artistica come emblema di un percorso formativo mostra invece il desiderio in un’opera concreta, che si confronta con il mondo, la società, la cultura, la storia.
Desiderio di costruire qualcosa che rimanga, e che generi nuovi processi desiderativi, in questo modo liberandosi da un soggettivismo relativistico e affidandosi a un dialogo costruttivo che comporta il gesto di un soggetto costruttore.
Il desiderio, per concludere, è lo sfondo, che mai potrà essere rinchiuso in una sola prospettiva, di una possibilità costruttiva e progettuale capace di cogliere, nel mondo che ci circonda, una serie di trame che sono già nelle cose e che il desiderio porta in luce, mostrando sempre di nuovo la profondità e l’intensità della vita.

"Un extrême désir (Cartesio, Discorso sul metodo) - Natura e possibilità del desiderio" è il titolo della VI edizione di Romanae Disputationes, concorso nazionale di filosofia per le scuole superiori. Il progetto, riconosciuto dal Miur, coinvolge 4mila studenti di tutta Italia accompagnati dai loro docenti e intende risvegliare l’interesse alla filosofia e riflettere su un tema di rilevanza culturale e sociale, col contributo di partner come il Museo nazionale del cinema di Torino e la Cineteca di Bologna. I team di studenti si sfideranno nelle categorie "scritto", "video" e "dibattiti filosofici". Appuntamento il prossimo 26 ottobre per la lectio di Massimo Recalcati sul tema del desiderio (Auditorium Testori, Milano). Per informazioni: www. romanaedisputationes. com
Repubblica 6.10.18
Perché Pasolini aveva ragione sui figli del ’68
Nella celebre lettera "Il Pci ai giovani!" il poeta si schierava dalla parte dei poliziotti
di Massimo Recalcati


Nella celebre lettera "Il Pci ai giovani!" il poeta si schierava dalla parte dei poliziotti. Ma, più che un messaggio reazionario, il suo fu un invito alle nuove generazioni perché riconoscessero il valore delle istituzioni e le facessero proprie
Siete in ritardo figli » , così si rivolgeva Pasolini, da padre, ai giovani contestatori del ’ 68 nella sua celebre lettera in forma di poesia titolata Il PCI ai giovani! Egli sceglie l’attrito e non la solidarietà compiacente. Non si mette tra quelli che " leccano il culo" ai giovani eroi, ma oppone loro una ferma critica: questi figli assomigliano troppo ai loro padri per innescare un autentico processo rivoluzionario. Lo stesso " occhio cattivo", la stessa " prepotenza" e la stessa spavalda " sicurezza".
Sappiamo bene, nella battaglia di Valle Giulia, con chi Pasolini decide di schierarsi; non con i figli della borghesia che inneggiano alla rivoluzione, ma con i poliziotti, con i " figli dei poveri". È stato questo un suo sintomo reazionario? In realtà, come mostra bene un recente e interessantissimo libro di Francesco Chianese ( « Mio padre si sta facendo un individuo problematico. Padri e figli nell’ultimo Pasolini » , 1966- 75, Mimesis), dedicato alla problematica del rapporto padri e figli negli scritti di Pasolini tra il 1966 e il 1975, questa lettera si inscrive in un percorso complesso di ripensamento del rapporto tra le generazioni che Pasolini mette a fuoco in diverse opere coeve al 1968, quali sono Edipo re, Affabulazione, Porcile e Teorema.
Quando Pasolini si rivolge ai giovani contestatori del ’ 68 è davvero solo per ammonirli, per ricordare loro la provenienza borghese come un peccato irredimibile, per invitarli alla rassegnazione o al disimpegno, o, peggio alla flagellazione autocritica? In un’epoca già post- edipica, dove i padri appaiono come figure prive di autorevolezza simbolica, figure di fallimento e di smarrimento ( Teorema), " canne vuote e marce" ( Affabulazione), egli invita lucidamente i figli ad abbandonare la contestazione impotente, anti- istituzionale, anarchica, " puritana", per ritornare al Pci, per sollecitarli a riprendersi con vigore le istituzioni. È questa la voce tuonante di Pasolini- padre che abbiamo forse dimenticato e che converrebbe invece proprio oggi ricordare: « Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni! Andate a invadere Cellule! Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe oscure! » .
Quale è, dunque, il fondo tematico da cui sorge questo invito perentorio? È un’idea tutt’altro che reazionaria che Pasolini matura sulla vita e l’importanza delle istituzioni.
È troppo lucida la sua visione del declino simbolico dell’autorità del padre di fronte al nichilismo del discorso del capitalista per non avvertire il pericolo di un dominio cinico del mondo da parte del mito ipermoderno del consumo. Fate attenzione, dice allora ai suoi figli " adottivi", a salvaguardare, a difendere l’amore per le istituzioni!
Perché solo se si ha cura delle istituzioni si può davvero provare a cambiare il mondo. Mettete, dunque, da parte il vostro abito da " anime belle" e affrontate con coraggio, senza indietreggiare, la prova politica delle istituzioni. Non c’è nessun " trasumanar" senza l’impegno militante dell’" organizzar", per usare il titolo di una celebre raccolta di poesie pubblicata sempre a ridosso del ’ 68. Non si può essere più chiari di così: « Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno/ i due fratelli Kennedy, se non/ per un’istituzione? E per cos’altro, se non per un’istituzione/ moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong?/ Poiché le istituzioni sono commoventi: e gli uomini/ in altro che in esse non sanno riconoscersi./ Sono esse che li rendono umilmente fratelli./ C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni/ - unica forma di vita e semplice modello per l’umanità -/ che il mistero di un singolo, in confronto, è nulla » .
Le istituzioni sono davvero " commoventi" e " misteriose" perché in esse la realtà umana si impegna a rendere possibile una vita insieme, una comunità fraterna. Non, dunque, la contestazione senza speranza dell’utopia, ma la forza di chi sa entrare nelle maglie del potere per usare il potere al fine di rendere più giusta e generativa la vita insieme. È
la tensione dialettica, mai risolta, che rapporta, appunto, il transumanar all’organizzar, la fede del desiderio alla vita militante dell’istituzione, la passione delle viscere alla storia.
È una tensione che attraversa tutto il ’ 68, ma che rischia di insterilirsi: se la passione rivoluzionaria è in sé anti- istituzionale, bisogna testimoniare, come fa in questo caso Pasolini, il carattere " commovente" e " misterioso" ( non solo, dunque repressivo, ideologico, disciplinare) dell’istituzione. In questo la sua voce risuona ancora oggi come assolutamente profetica. Si può morire e vivere per una istituzione; si può giocare tutto se stesso per un’istituzione. Le " anime belle del cazzo" sono coloro che non sanno cogliere il valore imprescindibile delle istituzioni e che nel nome astratto di ideali universali rivendicano contro il marcio delle istituzioni i loro diritti.
" Anime belle", le chiama con chiaroveggenza Pasolini.
Diversamente la sua esortazione sospinge i giovani ad entrare nelle istituzioni, ad entrare nel vecchio Pci, ad amare le istituzioni. Di Pasolini si ricorda sempre la pars destruens, ma mai la pars costruens. Si ricorda la critica ai giovani figli della borghesia del movimento del ’ 68, ma non si ricorda l’appello ai giovani ad entrare e a trasformare le istituzioni. La sua non è una semplice critica puritana del potere, ma l’indicazione politica delle necessità di avere il potere per cambiare le istituzioni del potere. Se il Nome del padre non è più incarnato nei padri " rimasti ancora figli", esso dimora nella vita (" commovente" e " misteriosa") delle istituzioni.
Repubblica 6.10.18
L’identikit del gruppo
Rabbia e colori da Rothko a de Kooning
di Chiara Gatti

La fotografia di Nina Leen, apparsa nel gennaio del 1951 fra le pagine di Life, è uno dei ritratti di gruppo più famosi del Novecento. Nina scattò la foto a New York davanti a una piramide di quindici artisti dall’aria cupa. "Gli irascibili" titolava l’articolo sul magazine, che replicava a caratteri cubitali la definizione già coniata dall’Herald Tribune pochi giorni prima, quando la stessa pattuglia di autori dichiarò guerra al Metropolitan Museum per non averli inseriti nel progetto di una mostra sulla pittura contemporanea americana.
Esclusi, rifiutati. "Refusés", come gli impressionisti a Parigi un secolo prima. Fioccarono lettere stizzite ai media. Incompresi dall’establishment, da critica e pubblico, fecero squadra per difendere la vocazione comune per un’arte astratta, sorgiva, informale, inconscia. Scorrendo l’immagine, si riconoscono i volti di Pollock al centro, di Newman che aveva insistito affinché tutti si vestissero professionalmente, "da banchieri", oltre a Rothko, Motherwell e de Kooning. In alto domina Hedda Sterne, l’unica donna. Fu la gallerista Betty Parsons a caldeggiare una quota rosa, anche se Hedda, in una intervista degli anni Ottanta, spiegò come la sua presenza li avesse fatti infuriare: «perché il loro maschilismo li portava a credere che una donna togliesse serietà all’impresa».
All’avanguardia, dunque, ma fino a un certo punto.
Fatto sta che l’operazione ne decretò il riconoscimento e rafforzò il senso comune di appartenenza a un movimento che era già stato definito, in modo generico (e meno pittoresco...), "Scuola di New York", ma che ora vedeva riunirsi gli artisti negli studi del Greenwich Village, decisi a riflettere sulle varie declinazioni dell’espressionismo astratto. Jackson Pollock, frontman del gruppo, gonfiava i numeri: «ci sono cinquecento miei coetanei a New York che fanno un lavoro importante». Cinquecento forse no. Ma era tanti quelli che già dall’inizio degli anni Quaranta, incoraggiati da Peggy Guggenheim, inseguivano gesti puri, pulsioni intime, la trascendenza del sensibile in una dimensione psichica. E addio al concetto di forma universalmente riconosciuto!
Accanto allo slancio muscolare e spasmodico di Jackson, esplosero i segni neri e spessi di Franz Kline simili a ideogrammi orientali dilatati nello spazio, la materia strizzata dal tubetto di James Brooks, i simboli di matrice ancora surrealista (e politica) di Motherwell. Un contributo intenso e sofferto venne dalla generazione di artisti nati in Europa e approdati in una New York cosmopolita.
L’olandese de Kooning non aveva rinunciato ad elementi figurativi, ma impastava parvenze di corpi con colori urticanti. Era arrivato negli Stati Uniti nel 1926, subito dopo Mark Rothko, nato in Lettonia ma cresciuto in Oregon, che piegò l’astrazione verso esiti mistici nelle sue icone dalla sacralità commovente. Vicino a un capofila della scuola, l’armeno Arshile Gorky, che era scampato al genocidio e riversò nella sua pittura lirica il dramma di un’esistenza sfibrata, spiccano nomi meno noti alle cronache. Come Helen Frankenthaler che dipingeva srotolando la tela sul pavimento, William Baziotes con le sue creature filiformi, o Philip Guston: frequentò la high school di Los Angeles insieme a Jackson e fu espulso con lui per i violenti picchettaggi contro il sistema scolastico.

POLLOCK e la Scuola di New York, dal 10 ottobre al 24 febbraio 2019, Roma, Complesso del Vittoriano – Ala Brasini prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con The Whitney Museum of America Art, New York e curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice Orario apertura: dal lunedì al giovedì 9.30 - 19.30; venerdì e sabato 9.30 - 22. Domenica 9.30 - 20.30 (la biglietteria chiude un’ora prima) Biglietti Intero € 15 (audioguida inclusa); ridotto € 13 (audioguida inclusa). Informazioni e prenotazioni gruppi T. + 39 06 8715111 www.ilvittoriano.com
La Stampa 6.10.18
Gianni Pacinotti “Gipi”
“Il fumetto è una magia solitariama il cinema mi fa stare benecome se fossi in gita scolastica”
di Gianmaria Tammaro


Ieri mattina, nella piazza della Cattedrale di Ferrara, un signore è salito su un palchetto, s’è armato di fogli e leggio, e ha cominciato a leggere. 34361 nomi. Le persone che, dal ’93 ad oggi, hanno perso la vita cercando di raggiungere l’Europa. Quel signore si chiama Gianni Pacinotti; in molti lo conoscono come Gipi. Fa il fumettista e il regista, è un artista delle parole e delle immagini. Ha girato un film, l’anno scorso. Si intitola Il ragazzo più felice del mondo, prodotto dalla Fandango, arriva in sala a novembre.
All’inizio doveva essere un documentario. Poi è cambiato. Perché?
«Mentre lavoravo, ho capito che il documentario non era l’idea migliore. Volevo più libertà. E il film mi si è trasformato tra le mani. A un certo punto ho scritto una specie di script dove per la prima volta comparivano anche gli altri protagonisti, e tutto ha preso questo taglio quasi comico».
Era insoddisfatto di quello che aveva girato?
«Ricordo che avevamo un premontato. E guardandolo mi dissi: è molto carino. Ma se a 54 anni faccio una roba di cui mi accontento di dire che è solo carina mi sparo. Decisi di darmi tempo fino alle sette di sera per trovare qualcos’altro, altrimenti avrei buttato via tutto. Mi misi a cercare tra le altre cose che avevo girato e ne trovai alcune con Chiara, mia moglie. Secondo me, una storia deve sempre parlare a una persona. E io avevo voglia di parlare a lei».
Perché non adatta le sue opere per il grande schermo?
«Prima de L’ultimo terrestre, Domenico Procacci si aspettava, come mi disse dopo, che mettessi in scena La mia vita disegnata male. Quello che non sapeva lui, e all’epoca non sapevo neanch’io, era che quando finisco un lavoro non mi interessa più. Lo so, sembrerebbe naturale tradurre un mio libro in cinema; ma è una questione di desiderio».
In che senso?
«I due linguaggi sono diversi. Il fumetto è magico e la realtà è brutta. E se non sei un grosso regista, con molti soldi, non puoi modificarla. Nel fumetto, tutto dipende da te. Nel cinema, per quel poco che ne so, il tempo è danaro. Nel fumetto sei solo come un cane, e dopo un po’ comincia a pesarti. Il cinema, invece, è come una gita scolastica: fa star bene».
Ogni giorno, sui social network e con i cortometraggi per Propaganda Live, dice quello che pensa e spesso si ritrova a discutere con sconosciuti. Non le pesa?
«Oggi non mi interessa più. So che queste persone fanno parte del conto. Le cose che ti dicono, quando ti insultano, se sei lucido capisci subito che sono aria fritta. Se faccio tutto questo casino, è perché sono incazzato. Penso che siamo in un momento storico spaventoso per questa nazione. Io voglio che un giorno, quando tutta questa merda sarà passata, potrò dire che stavo da tutt’altra parte».
Lei ed altri fumettisti siete diventati un punto di riferimento. I nuovi intellettuali.
«Stiamo messi proprio male, allora. Mi dà la misura di quanto tutto sia scalato verso il peggio. Da una parte la classe politica, dall’altra, appunto, quella intellettuale».
Cosa dovrebbe fare un intellettuale, secondo lei?
«Seguo e leggo persone che hanno un cervello più grosso del mio. Mi mostrano direzioni e ragionamenti che prima non avevo preso in considerazione. È questo, secondo me, quello che dovrebbero fare gli intellettuali».
Intervistato aLe invasioni barbarichedopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, spiegò semplicemente cosa vuol dire satira.
«Quando feci l’intervista dalla Bignardi mi sembrava di dire delle banalità incredibili, ma se quelle banalità hanno bisogno di essere sottolineate e se a sottolinearle devo essere io lo farò».
Perché una certa politica, oggi, ha così successo?
«C’è un bisogno di vicinanza. Quello che le persone vogliono è che i politici diventino loro amici. È quello che fanno Salvini e chi segue la sua comunicazione, se ci pensa: mostrarsi come uno di noi».
E invece?
«Io non voglio qualcuno come me a prendere le decisioni per il Paese. Io voglio qualcuno migliore di me».
Chi èIl ragazzo più felice del mondodel suo film?
«A vederlo dopo, posso dire che sono io quando ho una storia tra le mani, io e i miei amici quando riusciamo a portare a termine qualcosa, quando quel qualcosa diventa un ricordo bello. Noi eravamo molto contenti quando abbiamo fatto questo film, e spero che almeno un pochino, questa nostra amicizia, si senta».
Repubblica 6.10.18
Al Complesso del Vittoriano di Roma
Così Pollock guidò l’America alla conquista dell’Europa
di Fabrizio D’Amico


11 agosto 1956: Jackson Pollock, guidando in preda all’alcol, si schianta contro un albero. Finisce così, a Long Island, la breve vita (era nato nel ’12, nel Wyoming; aveva appena 44 anni) del pittore che più d’ogni altro aveva giustificato il battesimo di action painting attribuito da Harold Rosenberg alla nuova pittura americana, quell’espressionismo astratto dal cui alveo era nata la cosiddetta scuola di New York (assieme a Pollock, tra gli altri, Willem de Kooning e Franz Kline): quel modo, cioè, di dipingere cieco e urgente, veemente e affidato ad un gesto non preventivato, che ora viene raccontato dalla mostra Pollock e la Scuola di New York al complesso del Vittoriano di Roma (realizzata in collaborazione con il Whitney Museum e curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice, dal 10 ottobre al 24 febbraio 2019). Quella pittura si diffuse presto ovunque nel vecchio continente. E anche in Italia, dove l’action painting fu reinterpretata soprattutto da Toti
Scialoja, che subito annotò sul suo
Giornale della pittura: «Serata soffocante in un caffè sul marciapiede di viale Parioli.
...Colla dice ad un tratto, carezzando la sua cagna cieca: "Povero Pollock". "Perché povero", domando. "Non lo sapevi, è morto". Tutti preghiamo ardentemente che si tratti di una falsa notizia, di un momento di mistificazione o di stravaganza fantastica di Colla. Ma, mentre lo interroghiamo, sentiamo salire dentro di noi, irrimediabile, l’oscura densità di questa morte».
Ne era discesa, in Scialoja, una ferma "volontà di tirare subito delle conclusioni". Ma non solo in lui: quel modo di dipingere avrebbe di lì a poco invaso l’Europa, spostando il centro dell’arte mondiale da Parigi a New York. Prima di divenire "il pittore più potente oggi in America, l’unico che promette di divenire un grande", come scrive nel 1947 Clement Greenberg, Pollock fa un po’ di tutto: gira l’America, fa il boscaiolo, scopre le tracce delle antiche culture pellerossa, si interna volontariamente in ospedale e si impegna in faticose terapie per tentare di disintossicarsi dall’alcol, pratica la scultura, segue gli insegnamenti – improntati al realismo – di Thomas Hart Benton, si impegna politicamente, insegue i dipinti murali di Siqueiros e di Orozco, partecipa al progetto governativo di sostegno agli artisti – il Federal Art Project – da cui è presto espulso per troppe assenze.
Poi, nel ’42, Peggy Guggenheim rientra a New York dall’Europa, e apre in città la sua galleria, Art of this Century. Peggy visita lo studio di Pollock, e non ne rimane all’inizio particolarmente colpita; ma poi, seguendo l’indicazione di Duchamp, e un giudizio lusinghiero di Mondrian sul giovane, si convince a offrirgli la possibilità di esporre. Così Pollock – a trent’anni, quando sta per aprirsi la sua stagione matura – tiene la sua prima mostra personale presso la galleria della Guggenheim, e soprattutto s’è conquistato l’appoggio della più influente donna di New York.
All’inizio del loro durevole e fecondo rapporto, Pollock è ancora attratto dall’icona di una misteriosa figura, a mezzo fra selvaticamente carnale e totemica, che s’accampa al cuore e domina i suoi dipinti; poi, presto, frantuma l’integrità e la plausibilità di quella "figura" in un ritmo sincopato e convulso.
Infine, lo ritroviamo disperso e disseminato ovunque, e ad esempio in Number 27 ( 1950) – qui esposto –, celebre esempio del suo dripping maturo, del modo cioè di far colare con apparente casualità il colore (per lo più uno smalto), liquido e brillante, sulla tela che egli voleva scesa dal cavalletto, spesso di grandi dimensioni, e sempre stesa a terra, per poterla percorrere "da dentro", assalendola con un’affannosa gestualità, condotta dal pennello usato "come un bastone", dalla spatola, o dal colore direttamente spremuto dal tubetto. Un modo che durò almeno sino al termine degli anni Quaranta; fino a quando, prossimo alla fine e ormai solo raramente operoso, egli non mise le premesse per quel misterioso ritorno ad un’immagine turbata che occuperà i suoi ultimi anni.
Il legame fra Pollock e la Guggenheim, fondamentale per la immensa fortuna del pittore, sembrò per un attimo allentarsi quando Peggy decise di tornare in Europa, e chiuse la galleria newyorchese, dove il giovane pittore, fra ’43 e ’47, aveva tenuto quattro personali. In realtà quel legame restò a lungo strettissimo, tanto che la prima personale europea fu proprio Peggy a volerla e a organizzarla, al museo Correr di Venezia. Ma già due anni prima, il 1948, nella prima e cruciale Biennale veneziana del dopoguerra, la Guggenheim – ormai radicata e autorevole in laguna – era riuscita a presentare la propria collezione, nella quale era tra l’altro La donna luna di Pollock, un quadro con il quale il pittore mostrò a tutti d’essere il capofila della sua generazione.
Prima di lui, avevano posto le basi della nuova pittura Arshile Gorky e Hans Hofmann, entrambi d’origine europea. Aprirono una strada che proseguirà altissima fino a Mark Rothko (anch’egli di nascita europea), con cui idealmente si chiude la mostra di oggi, dedicata agli "irascibili", quel manipolo di artisti che si battezzò così, a New York, nel 1950, rubando questo termine soprattutto alla foga di Pollock.
La Stampa 6.10.18
Un’altra meraviglia a Pompei: sotto la lava e i lapilli un giardino incantato
di Emanuela Minucci


«La prima cosa che abbiamo scoperto è stato un frammento di rosso pompeiano su cui s’inerpicava, sinuosa, una pianta: colori così brillanti e intatti che sembravano essere stati dipinti la sera prima». È ancora emozionato Massimo Osanna, il direttore del Parco archeologico di Pompei. La sua équipe ha appena concluso uno scavo che ha portato alla luce una sontuosa edicola per il culto dei Lari (la più grande finora ritrovata), una sorta di giardino incantato di quattro metri per cinque pieno di creature benauguranti. «È una stanza enigmatica e meravigliosa che dovremo studiare a lungo» aggiunge il direttore. Il giardino immaginario - rimasto sepolto per duemila anni accanto a un giardino vero - si è conservato intatto sotto la coltre del materiale eruttivo del Vesuvio.
«È un intervento che fa parte del Grande Progetto Pompei», spiega Osanna, «volto alla riconfigurazione del fronte di scavo nella Regio V e alla mitigazione del rischio geologico. L’area non scavata incombe su quella riportata alla luce con una massa di 5 metri di materiale piroclastico e terra di riporto: è questo che ha causato i recenti crolli».
Nel grande altare custodito da una benevola coppia di serpenti - gli «agatodemoni», demoni buoni - si vede un pavone solitario che spunta nel verde, e fiere dorate che lottano con un cinghiale nero metafora del male. Poi il cielo solcato da leggiadri uccellini, un pozzo, una grande vasca colorata, il ritratto di un uomo con la testa di cane.
«È una scoperta meravigliosa proprio per il perfetto stato di conservazione. Lo ammetto, quando insieme con il mio staff abbiamo capito che si trattava di uno dei più eleganti larari conservati a Pompei ci siamo commossi». Osanna lo dice mentre gli archeologi e i restauratori sono ancora al lavoro, fra i tubi innocenti che sostengono le murature millenarie. Qualche mese fa, a pochi metri di distanza, all’incrocio tra il Vicolo delle Nozze d’Argento e il Vicolo dei Balconi, era stato riportato alla luce lo scheletro di un uomo di circa trent’anni. E ora si continuerà a scavare per liberare altre due stanze adiacenti al giardino, un’area che si prevede riserverà molte sorprese.
Il larario appena scoperto si trova in una domus già in parte scavata agli inizi del Novecento, con accesso dal vicolo di Lucrezio Frontone. Al centro di un paesaggio idilliaco e lussureggiante spicca l’edicola sacra sorvegliata dalle figure dei Lari protettori della casa, con la lucerna di bronzo, la piccola ara di terracotta poggiata vicino all’aiuola, il coperchio del pozzo che sembra essere stato appena schiuso.
«La prima impressione», dice Osanna, «è che tutto sia magicamente rimasto al suo posto, come se i padroni di casa fossero appena usciti». Ma restano misteriosi gli abitanti della meravigliosa magione che si trova a pochi metri da un’altra ricca abitazione, quella di Marco Lucio Frontone. «Forse un ricco commerciante», spiega il direttore, «certo una personalità raffinata e colta». Certamente un uomo in grado di pagare le migliori maestranze e di commissionare dipinti tra i più belli finora ritrovati a Pompei. Questo paesaggio quieto, quasi salotto familiare, contiene altrettanto nitida la memoria della tragedia. È una piccola finestra, chiusa da una grata divenuta tutt’uno con la lava. Nel magma pietrificato si distinguono ancora frammenti di legno. «Per noi è struggente», dice Osanna, «con tutta probabilità si tratta proprio degli infissi di questa finestra, divorati dalla lava rovente».
Il Bene e il Male convivono ancora una volta in pochi metri in questo nuovo frammento di Pompei che ha ritrovato la luce. C’è il giardinetto, il verde smeraldo delle piante, l’oro delle rifiniture e una cornice gialla diventata rossa. Ma non è il tradizionale rosso pompeiano, è rosso perché è stato cotto dall’inferno della lava.
Corriere 6.10.18
No ai domiciliari per Verdiglione «Fatemi tornare a scrivere libri»
Milano, il filosofo ha perso 24 chili in un mese
di Elisabetta Andreis


MILANO Armando Verdiglione, 73 anni mal portati, parla con un filo di voce dalla sedia a rotelle, ormai magrissimo. Nel suo primo mese di detenzione per la condanna definitiva su reati commessi dal 2003 al 2010 — da Opera è stato da trasferito al reparto penitenziario dell’Ospedale San Paolo — ha perso 24 chili. Il perito di parte che l’ha visitato ieri ha scritto nero su bianco che la sua condizione psicofisica «non è compatibile con l’ambiente carcerario». E gli avvocati (Lucio Lucia, Andrea Orabona e Stefano Pillitteri) rilanciano ancora la richiesta di detenzione domiciliare per età avanzata e salute precaria, già rigettata tre volte. Ma lui non sopporta l’idea di essere dipinto come un anziano debole, tantomeno intende «fare quello che muove a compassione». Con lo sguardo battagliero ben noto all’ambiente della cultura (e della magistratura), pure in un sussurro scandisce bene le parole: «Chiedo mi vengano concessi i domiciliari perché da casa posso continuare a scrivere i miei libri, incontrare intellettuali. Posso ancora dare un contributo alla cultura. E inoltre vorrei stare vicino a mia moglie che è malata di tumore».
Poi, sapiente, il professore allarga il discorso, da sé agli altri: «Nel nostro Paese le misure alternative al carcere sono utilizzate troppo poco. In queste settimane, mentre la manovra di bilancio faceva tanto clamore, passava sotto silenzio il via definitivo del Consiglio dei ministri ai decreti di riforma del sistema penitenziario. In pratica si affossa la legge delega che provava a estendere quelle misure. Non si doveva fare, e lo dico a prescindere dal mio caso, dalla mia età, dal mio stato di salute, perché quello che i miei avvocati chiedono è già previsto dalla legge attuale».
Psicanalista orgoglioso, Verdiglione è filosofo riconosciuto a livello internazionale, ma anche imprenditore discusso per le accuse di ordine finanziario che gli sono state mosse una prima volta negli anni 80. A suo carico, allora, erano le ipotesi di truffa, tentata estorsione e circonvenzione di incapace (che gli costarono 4 anni e due mesi). Poi di nuovo fu accusato dieci anni fa (frode fiscale e truffa alle banche: gli furono comminati nove anni, con tanto di confisca di beni per 110 milioni. Un mese fa la condanna — ridimensionata a 5 anni — è diventata esecutiva). «Avevo intorno pensatori di fama internazionale, da Alberto Moravia a Emmanuel Lévinas e Jorge Luis Borges», dice il professore, lasciandosi prendere solo un attimo dalla nostalgia. Nel 1987 l’«affaire Verdiglione» provocò la levata di scudi di studiosi del calibro di Bernard-Henri Lévy e Eugène Ionesco, che comprarono una pagina su Le Monde e lanciarono un appello al presidente della Repubblica e alla magistratura italiana per mettere fine a quello che bollavano come «clima da caccia alle streghe con prigionieri politici». Quando il professore tornò in cella a scontare la pena si mosse un gruppo guidato da Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora. E anche ora, al secondo processo, sono venuti a testimoniare in aula per lui da tutto il mondo intellettuali del calibro di Marek Halter. Venendo all’oggi: a settembre diventa definitiva la condanna a lui e alla moglie Cristina De Angeli Frua (ma a lei, in ragione dell’età e del tumore, i domiciliari sono stati concessi). Quello che resta della loro vita di un tempo non c’è più. La villa San Carlo Borromeo di Senago, che veniva affittata per matrimoni ma soprattutto utilizzata per convegni («a scopo intellettuale e non speculativo», dice lui), risultata esposta per 73 milioni, è andata all’asta. Così la villa Medolago di Limbiate. Quanto all’udienza di merito sulla richiesta dei domiciliari, è fissata per il 10 dicembre. Verdiglione scende dalla sedia a rotelle, si corica sul letto del San Paolo e prima di addormentarsi sussurra: «Magari il giudice di sorveglianza anticipa la decisione e mi fa tornare a casa, e ai miei libri».
Il Fatto 6.10.18
Scuola, i sindacati: poche risorse per gli insegnanti


Polemiche per gli stipendi della Pubblica amministrazione (con tanto di appello al ministro Giulia Bongiorno) e anche per quelli degli insegnanti: ieri i sindacati, Flc Cgil in testa, hanno criticato la nota al Def per la scarsa programmazione economica sulla scuola. “Il contratto Istruzione e Ricerca firmato pochi mesi fa per il triennio 2016-2018 è già scaduto e ora occorre rinnovarlo per il triennio 2019-2021. A tal fine è necessario che la legge di Bilancio per il 2019, che sta per essere varata dal governo, contenga le risorse necessarie. Però da quanto emerge leggendo il Def, ovvero il Documento di Economia e Finanza, sembrerebbe che non vi sia alcuno stanziamento per rinnovare i contratti dei lavoratori pubblici e questo nonostante si preveda una manovra economica di oltre 21 miliardi. Non solo non vi è alcuno stanziamento per avvicinare almeno in parte gli stipendi italiani a quelli dei colleghi europei, ma non vi sono neanche le risorse per garantire il potere d’acquisto delle retribuzioni rispetto all’inflazione per il triennio 2019-2021. Anzi, nel Def è scritto chiaramente che i redditi da lavoro dipendente della Pubblica amministrazione si ridurranno dello 0,4% in media nel biennio 2020-2021.
Repubblica 6.10.18
Gli ultimimarxisti-leninisti d’Europa
In Portogallo la notizia della morte del Partito comunista è quantomeno esagerata: il Pcp resta fedele alla linea
Stiamo per compiere 98 anni e non abbiamo mai rinunciato ai nostri ideali poilitici
Bisogna adottare le armi migliori in base alla propria realtà
di Javier Martin Del Barrio


La caduta del muro di Berlino e la scomparsa dei referenti internazionali non hanno intaccato il marchio del comunismo lusitano. Marxista, leninista, patriottico e internazionalista, il Partito comunista del Portogallo vive la sua epoca più gloriosa. Il suo gruppo parlamentare ( assieme a quello del Blocco di sinistra) tiene in piedi il Governo socialista, nonostante faccia una «politica di destra » . Per alcuni il Pcp è un’anomalia del XXI secolo; per altri fa parte dell’identità del Paese. Sia come sia, né il corso della storia né la comparsa di nuovi partiti a sinistra sono riusciti a rimuoverlo dalla scena.
Decine di migliaia di persone agitavano le loro bandiere, in maggioranza rosse con la falce e martello, alla chiusura dell’ultima festa del Pcp. Tuonava Jerónimo de Sousa: «È il capitalismo e la sua natura sfruttatrice, oppressiva, predatoria e aggressiva che sono all’origine dei gravissimi problemi che affliggono l’umanità » . Il segretario generale, esattamente come 98 anni fa, quando fu fondato il Pcp, conosce la causa di tutti i mali: «È dal capitalismo che nascono le crisi economiche, i conflitti, le guerre e le atrocità che pesano sul pianeta».
Non bisogna far altro che leggere la maggior parte dei saggi pubblicati per sapere che la filosofia di Marx, Lenin e de Sousa è più viva che mai. La realtà della mappa geopolitica, tuttavia, si ostina a contraddire questa visione. Se nel 1964 Krusciov promosse una conferenza mondiale con i 26 Paesi comunisti del mondo, oggi si potrebbe convocare la stessa riunione in una Smart e rimarrebbe spazio per stendere le gambe. Con i partiti comunisti di Cina, Vietnam, Laos e Cuba che riconoscono la proprietà privata e il libero scambio, rimane la Corea del Nord a custodire i fondamentali dell’ideologia.
Sull’onda di questa deriva storica, i partiti comunisti si sono progressivamente distaccati dall’ideologia originaria o hanno rinnegato il loro stesso nome. Non è andata così in Portogallo. « Stiamo per compiere 98 anni e non abbiamo mai rinunciato al marxismo-leninismo » , chiarisce Manuel Rodrigues, direttore dell’Avante!, organo ufficiale dei comunisti. I loro compagni francesi, italiani e spagnoli negli anni 70 abbracciarono l’eurocomunismo; nel 1991 il collega angolano del Pcp, l’Mpla, passò all’Internazionale socialista di Soares e González. «Ogni partito fratello deve adottare le armi migliori per confrontarsi con le realtà del suo Paese», afferma Rodrigues.
L’Avante! arriva tutte le settimane nelle edicole con una tiratura media di 14.000 esemplari, una cifra invidiabile per la maggior parte delle pubblicazioni portoghesi. Dal 1931, l’anno in cui fu fondato, è sempre stato pubblicato e nonostante i 40 anni di dittatura è sempre stato stampato nel Paese, caso unico al mondo. « Ora veniamo da quattro decenni di politiche di destra e siamo dominati ancora una volta da gruppi monopolistici imperialisti » , avverte il direttore, nonostante il suo partito appoggi il Governo socialista.
Il Pcp ebbe il suo momento migliore nel 1975, alle prime elezioni libere dopo la Rivoluzione dei Garofani, quando conquistò il 12,4% dei voti. La recente festa del partito, su terreni di sua proprietà, acquisiti tramite una colletta popolare, certifica che anche ora non se la passa male. Oggi il Pcp ha quattro punti in meno ( 8,25 per cento) rispetto a 43 anni fa. I suoi 15 seggi nell’Assemblea della Repubblica sono gli stessi che nel 1991. Alle ultime Europee ha avuto più voti ( il 12,6%) che in quelle del 1987. Alle comunali sfiora il 10%, sette punti in meno che nel 1976, e può contare su 24 sindaci contro i 37 di 40 anni fa. Se i tempi stanno cambiando, per il Pcp si può dire che cambiano poco. « È un caso peculiare, come quelli di Cipro, Grecia e Finlandia » , spiega José Pacheco Pereira, storico, ex deputato e saggista.
Come sono riusciti i comunisti portoghesi a restare in sella? La forza del Pcp si concentra nella cintura industriale di Lisbona e nel mondo rurale dell’Alentejo, la vasta regione nel centro-sud. «Álvaro Cunhal — segretario generale dal 1961 al 1992 — capì che se avesse seguito la strada degli altri avrebbe perso il predominio in quei settori senza guadagnare nulla nei nuovi, in particolare servizi, banche o giovani. Con il sindacato Cgtp è riuscito a ritardare i cambiamenti nell’industria e con il controllo dell’impiego rurale è riuscito a trincerarsi nell’Alentejo », dice Pacheco Pereira.
Non che in questi anni non ci abbia provato nessuno a prendersi lo spazio del Pcp. Nel 1999 la nascita del Blocco di sinistra, che metteva insieme ex comunisti e gruppuscoli marxisti, spinse a preconizzare, una volta di più, la morte del Pcp. Contribuiva ad avvalorare la previsione il fatto che il Blocco disponesse di volti più giovani, un marketing migliore e un discorso maggiormente in linea con i tempi, più femminista e più urbano. I comunisti rivendicarono i fondamentali ideologici e la tradizione. A differenza dei bloquistas, il Pcp è a favore degli spettacoli taurini, contro l’utero in affitto e contro l’eutanasia. In Europa, ha votato assieme alla destra più destra contro le sanzioni all’Ungheria di Orbán, perché non gli piacciono le ingerenze dell’Unione europea in un Paese sovrano ( i comunisti portoghesi non hanno mai condannato l’invasione sovietica della Cecoslovacchia).
Questo orientamento non fa breccia nell’elettorato comunista. Dopo due decenni che si contendono la stessa fetta di torta, il Blocco ha due punti in più alle politiche, ma il Pcp è avanti alle Europee ( di otto punti) e alle comunali ( di sei). « Al Blocco mancano due cose del Pcp», afferma Pacheco Pereira. «La base locale e i sindacati. Vent’anni dopo la sua nascita continua a non averli e alla fine riesce a grattare via voti più ai socialisti che ai comunisti. In ogni caso, l’incontestabile processo di decadenza del Pcp passa per l’invecchiamento del suo elettorato rurale e per la perdita di forza dei suoi sindacati». Però la morte annunciata è stata già posticipata varie volte.
Repubblica 6.10.18
A sinistra vive un finto Keynes
di Marco Ruffolo


C’è una ragione più profonda dell’anti-piddismo che ha convinto una parte della sinistra a disertare domenica scorsa la pur riuscita manifestazione del Partito democratico a Roma, la prima contro l’esecutivo pentaleghista. Ed è che in realtà la manovra annunciata dal governo non dispiace affatto a quella sinistra, che anzi vi scorge il primo successo di una sfida venuta da lontano, la Guerra Santa ai governi dell’austerità. Quel guanto di sfida del 2,4% lanciato in faccia ai tecnocrati di Bruxelles non può infatti non rievocare il coraggio della rivoluzione keynesiana contro l’ortodossia neoclassica. Dietro l’ostinazione del governo ad alzare l’asticella del disavanzo, si staglia proprio il mito di Keynes. Del resto, già da tempo i folti baffoni di Lord John Maynard hanno sostituito la barba ribelle di Karl Marx nell’immaginario di una certa sinistra. Eppure c’è da scommettere che né l’uno né l’altro avrebbero apprezzato un amore così virulento da diventare idolatria. E si sa che in tutte le idolatrie il pensiero originario finisce esposto nella cristalleria degli stereotipi, dove l’intelligenza cede spazio alla banalità, l’apertura mentale al catechismo. Keynes, in particolare, non avrebbe mai sopportato di diventare prigioniero della propria caricatura. Le sue erano tutt’altro che regole automatiche. L’economista britannico era ben attento alla composizione di quella spesa pubblica in deficit che suggeriva in via temporanea ai Paesi in situazione di scarsa domanda. Era ben consapevole che i " moltiplicatori" con cui la spesa crea più reddito sono condizionati da elementi strutturali per nulla trascurabili. E poi la sua analisi non doveva fare i conti con debiti pubblici colossali come quello italiano.
Intendiamoci, il paradigma dominante contro cui Keynes combatteva – quello secondo cui il mercato è in grado di autoregolarsi e lo Stato deve astenersi dall’intervenire – è tuttora vivo e vegeto sia pure in modalità diverse. Da quella fede liberista continuano a scaturire idee sbagliate come " l’austerità espansiva" che in nome del pareggio di bilancio, in anni di crisi, invece di ridurre il debito ha massacrato il Pil. Un’idea che avrebbe contrariato non poco il grande economista britannico, così come lo avrebbe indignato una politica fiscale Ue ridotta a un pugno di parametri matematici. Ma di fronte a questa gabbia ideologica, la sinistra radicale, subito imitata dal movimento grillino, risponde costruendo una seconda gabbia altrettanto ideologica dove comprime, deformandoli, gli insegnamenti di Keynes, pensando che basti fare un bel po’ di deficit in più per rimettere in moto l’Italia. In questa semplificazione, un identico giudizio negativo chiama in causa sia chi sostiene le regole più stringenti dell’ortodossia Ue, sia chi cerca di strappare a quell’ortodossia qualche margine di flessibilità, sapendo che se supera un certo livello di deficit, il rischio non sarà tanto la bocciatura da parte di Bruxelles ma quella dei mercati, che alzeranno i tassi a danno dei più deboli. Tra gli uni e gli altri non c’è differenza per i sacerdoti del catechismo keynesiano: sono tutti accomunati dall’etichetta infamante del neoliberismo, che li rende servi delle lobby finanziarie e dei burocrati di Bruxelles. Anche chi obietta che per fare più investimenti occorrono amministrazioni funzionanti diventa subito un nemico dello Stato. Eccoci al punto centrale: gli investimenti pubblici. Cosa penserebbe Keynes se, tornando dall’al di là dopo settantadue anni, arrivasse in Italia e si accorgesse che Stato, Regioni e Comuni non sono in grado di investire, e non perché manchino le risorse ma perché non c’è capacità progettuale, perché la sovrapposizione di competenze e la burocrazia rallentano in misura abnorme la loro esecuzione? È molto probabile che condizionerebbe la sua ricetta a una profonda riforma dello Stato. Senza la quale il " moltiplicatore degli investimenti" si trasformerebbe nel suo opposto. Quando viene stanziata una somma per costruire un’opera pubblica, e passano tre anni per il relativo bando e poi altri quattro ( se va bene) per l’apertura del cantiere, è evidente che invece di moltiplicare il reddito, quello stanziamento in deficit creerà solo debito. Se poi l’economista britannico si accorgesse che nella manovra italiana quasi tutto il nuovo deficit non è destinato agli investimenti ( meno di un decimo) ma a maggiori spese correnti (dal reddito di cittadinanza allo stop della Fornero), a moltiplicarsi sarebbe solo il suo scetticismo.
Volgendo lo sguardo oltre l’Atlantico, basterebbe poco a Keynes per concludere che il Paese più keynesiano del mondo è l’America. Sì, proprio gli Stati Uniti, considerati la patria del liberismo più spinto, ma che di fronte all’ultima grande crisi hanno impresso un’accelerazione alla spesa pubblica molto più forte e duratura di quella dell’Eurozona. Lo ha reso possibile un governo federale che funziona, con dirigenti valutati secondo il merito, che agiscono come manager privati ma nell’interesse pubblico, con obiettivi chiari, con poche sovrapposizioni di competenze, con politiche controllate sistematicamente dal Congresso. Tutto il contrario di quanto succede da noi.
Ma questa disamina di come e a quali condizioni uno Stato riesce ad accelerare la crescita, non interessa affatto alla schiera dei " neokeynesiani adoranti": per loro basta solo azionare qualche leva. Qualunque cosa ostacoli questo meccanismo ultrasemplificato in cui hanno trasformato il pensiero di Keynes, finisce appiattito sullo sfondo del liberismo da combattere: le regole di bilancio, le riforme, la stessa moneta comune. E proprio nella insofferenza verso l’euro si crea un terreno di incontro ancora più ampio: quello tra il radicalismo di sinistra e grillino e il sovranismo della destra leghista. Visto da sinistra, l’euro diventa la testa d’ariete del neoliberismo dominante; visto da destra è la spada che recide ogni anelito di sovranità nazionale. Le analisi sono diverse, il nemico è lo stesso. Una convergenza inedita tra quelli che Keynes chiamava da una parte «i duri-a-morire dell’estrema destra » e dall’altra « il partito della catastrofe della sinistra laburista, che odia e disprezza le istituzioni esistenti, convinto che il solo rovesciarle sia la premessa necessaria a qualcosa di buono » .
il manifesto 6.10.30
Camusso spingerà Landini: Cgil pop per allargare la base
Corsa al vertice, lunedì l’investitura
Camusso spingerà Landini: Cgil pop per allargare la base
di Salvatore Cannavò


“Al punto in cui è arrivata non può più tornare indietro”, dice un dirigente Cgil che segue da vicinissimo il dossier. A meno di colpi di scena, quindi, lunedì sera alla segreteria del più grande sindacato italiano Susanna Camusso proporrà alla propria successione Maurizio Landini, ex segretario Fiom, il sindacalista forse più conosciuto a livello di massa. Non sarà una scelta facile, perché la Cgil non ama dividersi. E scontenterà l’altro candidato di fatto alla corsa per la leadership, Vincenzo Colla, la cui intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa è stata letta da tutti come un’autocandidatura. Landini finora ha scelto un profilo basso, senza dichiarazioni ufficiali, cogliendo tutte le opportunità di ricucire con colei che, fino a ieri, era un suo avversario interno. Si ricorda ancora, infatti, l’inserzione a pagamento sull’Unità con cui l’allora segretario della Cgil lombarda, Nino Baseotto, attaccava Landini per l’eccessivo uso di tv e giornali. Oggi Baseotto, responsabile organizzativo della Cgil, è uno dei suoi principali sponsor.
Cosa è successo nel frattempo? La Cgil ha attraversato gli anni della segreteria Camusso cercando di fronteggiare un terremoto politico e sociale. La più grave crisi economica, iniziata nel 2008, due anni prima dell’elezione dell’attuale segreteria, un attacco furibondo al sindacato, “portato non dai nemici ma da quelli che si pensava fossero gli amici” commentano nell’entourage di Camusso, lo scompaginamento del quadro politico con l’emersione di forme di anti-politica e anti-sindacato. Il culmine della trasformazione è stato lo scontro con Matteo Renzi su Jobs Act e Referendum costituzionale, con la Cgil nettamente schierata da una parte e con una spaccatura interna, non esplicitata, da parte di coloro che non volevano recidere li rapporto con il Pd. Ma lo schema del sindacato fiancheggiatore del partito salta in quella fase e Camusso rivede l’intera strategia. Al sindacato, così, si presentano due ipotesi: “Ricostruire un riformismo dall’alto, dice chi ascolta le analisi di Camusso, basato sulla vecchia concertazione oppure un riformismo dal basso che guarda al rapporto con il precariato e i nuovi lavori”. E che faccia i conti anche con la nuova politica. Maurizio Landini sembra poter assicurare questa prospettiva.
L’idea iniziale di Camusso, in realtà, era un’altra e puntava sul ricambio generazionale. La sua candidata, fino a qualche settimana fa, era la segretaria della Funzione pubblica, la quarantenne Serena Sorrentino. Ma, a opporsi con nettezza a questa scelta è stato il sindacato dei Pensionati, diretto da Ivan Pedretti, principale sponsor di Vincenzo Colla. Il quale interpreta quello che nella ricostruzione precedente è “il riformismo dall’alto”, un’impostazione più tradizionale che guarda al rapporto con gli industriali e alle evoluzioni del Pd partito a cui, comunque, Colla non è iscritto. Un’idea di “consociativismo” tosco-emiliano che, nell’analisi che fa Camusso, è ormai superato, non esiste più. Per questo ha più forza l’ipotesi Landini. Anche se con Colla sembrano essere schierati i Pensionati, gran parte di Chimici, Edili, Trasporti e altri settori, Landini sembra poter offrire una prospettiva più solida alla Cgil e comunque, dice chi lo sostiene in questa corsa, “dubito che l’Emilia sia compatta su Vincenzo Colla, basti guardare a Bologna, Reggio Emilia, Rimini o Imola”.
Qualora la segreteria decidesse l’endorsement per Landini non sarà all’unanimità. Colla non si ritirerà sapendo che la decisione finale spetta all’Assemblea nazionale che sarà eletta dal congresso di gennaio. Quindi da una votazione del gruppo dirigente più ristretto.
Lo scontro si manifesta anche in altri particolari: a Camusso si contesta il diritto di dare indicazioni sul successore richiamandosi al precedente di Bruno Trentin, dimissionario nel 1993 che rifiutò di scegliere la successione. “Ma Trentin si dimise, non arrivò a scadenza naturale”, dicono gli altri, “chi avrebbe mai contestato a Luciano Lama di indicare Antonio Pizzinato?”.
Sullo sfondo resta la politica che stavolta ha un ruolo secondario anche se dietro Colla si schierano quelli che guardano al Pd. Landini, invece, nel rapporto con la politica promette “conflitto e contrattazione” e quindi può confrontarsi anche con il M5S o fronteggiare la Lega: “Sa quante litigate in spiaggia ho fatto la scorsa estate con chi va dietro a Salvini?”, diceva l’interessato al cronista alla festa del Fatto. Il problema degli iscritti che votano 5Stelle o Lega al nord è ormai rilevante e Landini, con la sua forza mediatica, può riallacciare i fili strappati pur essendo tutto interno alla sinistra. Non è un caso se viene consultato frequentemente da chi nel Pd, come Andrea Orlando, sta lavorando alla segreteria Zingaretti.
il manifesto 6.10.30
Nadia e Denis: il Nobel contro la guerra sui corpi delle donne
Pace. Il premio alla vittima yazida Murad e al ginecologo congolese Mukwege. Da anni impegnati contro la violenza sessuale e l’uso dello stupro nei conflitti: lui ha curato 50mila vittime, lei si batte per la tutela del popolo yazidi
di Chiara Cruciati


Una vittima e un medico, due persone che da anni si battono contro la violenza sessuale e lo stupro come arma di guerra: sono i due vincitori del premio Nobel per la pace, Nadia Murad e Denis Mukwege.
La prima, 25 anni, la seconda più giovane premiata dal comitato norvegese dopo Malala, è dal 2015 il volto del genocidio del popolo yazidi in Iraq; il secondo, ginecologo di 63 anni, ne ha trascorsi quasi 20 a curare le ferite di almeno 50mila vittime di stupri in Congo, nell’ospedale Panzi a Bukavu.
Due luoghi distanti, Iraq e Repubblica democratica del Congo, ma universali come la battaglia che i due vincitori portano avanti e che coinvolge l’intero pianeta: «Hanno messo la loro sicurezza personale a rischio per combattere con coraggio crimini di guerra e garantire giustizia alle vittime», scrive il comitato del Nobel. «Hanno aiutato a dare enorme visibilità alla violenza sessuale in tempo di guerra, così che i responsabili possano essere giudicati per le loro azioni».
L’impegno di Mukwege è di lungo corso: da anni lavora nell’ospedale che ha fondato al confine con Burundi e Ruanda, 10 operazioni al giorno, 3.500 pazienti l’anno in una terra devastata dai conflitti armati tra milizie. È qui che «dottor Miracolo» ha aiutato 50mila donne a superare le cicatrici fisiche e psicologiche degli abusi subiti tramite ricostruzione chirurgica, supporto socio-economico e sostegno legale.
Il medico congolese Denis Mukwege (Foto Afp)
Quello di Nadia è iniziato il giorno della sua liberazione: catturata ad agosto 2014 dai miliziani dello Stato Islamico nel villaggio di Kocho, a Sinjar, nell’ovest dell’Iraq, con altre 6mila donne yazidi, è passata di mano in mano, venduta al mercato degli schiavi e sottoposta a stupri continui, pestaggi, abusi.
È riuscita a fuggire il novembre successivo, per ritrovarsi da sola: i suoi fratelli e i suoi genitori sono stati uccisi nell’attacco dall’Isis a Sinjar, otto delle oltre 5mila vittime del genocidio. Da allora gira il mondo per chiedere giustizia e protezione per il popolo yazidi: è stata accolta dall’Europarlamento che le ha assegnato il premio Sakharov per la libertà di espressione, dall’Onu di cui è diventata ambasciatrice, in Vaticano.
Entrambi, Nadia e Denis, sono portatori di una denuncia più ampia: l’uso dello stupro come arma di guerra e frammentazione delle comunità. Perché, come spiega Mukwege, le violenze in Congo avvengono spesso in pubblico contro giovani donne: una precisa strategia di sfaldamento dei legami sociali che nella yazidi Sinjar si è tradotta nella violazione di donne e bambini e la loro riduzione in schiavitù con l’obiettivo di impedire la ricostruzione comunitaria.
La decisione del comitato norvegese è stata apprezzata ovunque. Al plauso delle organizzazioni per i diritti umani, da Human Rights Watch al Norwegian Refugee Council, si è aggiunto quello di numerosi governi e dell’Onu che ha salutato con entusiasmo i due vincitori nelle dichiarazioni ufficiali del segretario generale Guterres e della neo commissaria ai diritti umani Bachelet.
Si congratulano anche Kinshasa e Baghdad, nonostante le critiche mosse dai due neolaureati ai rispettivi governi. Con quello congolese Mukwege non ha avuto vita facile per aver accusato l’esercito di perpetrare la cultura della violenza sessuale.
La giovane yazida Nadia Murad (Foto Afp)
Con quello iracheno Murad non ha avuto rapporti: dopo la liberazione dal giogo islamista nel novembre 2015 da parte di peshmerga e unità curdo-siriane legate al Pkk, Baghdad ne ha riassunto il controllo solo un anno fa.
Ma nulla è stato fatto: la maggior parte degli yazidi sfollati vive ancora nei campi nel Kurdistan iracheno e chi è tornato non ha trovato che macerie e fosse comuni. Nessuna ricostruzione né protezione internazionale, quella che Nadia chiede a gran voce da anni.
Lo fece anche due anni fa di fronte al parlamento europeo insieme a Lamiya Bashar, altra giovane yazida con cui ha condiviso identica sorte. In abiti tradizionali, con la voce ferma ma lo sguardo spento dal dolore, Nadia puntò il dito contro gli scranni che le stavano applaudendo: «Chi di noi si è liberata lo ha fatto da sola, senza alcun aiuto. Dopo due anni non è stato ancora messo in piedi un effettivo sostegno internazionale. Promettete che farete giustizia. Promettete che non accadrà più». Un grido rimasto chiuso a Strasburgo.
Il Fatto 6.10.30
Il ritiro dei soldati? Fatti, non annunci
Difesa - Il ministro Trenta replica al “Fatto” (che risponde) sulle missioni all’estero
di Elisabetta Trenta

ministro della Difesa

Gentile Direttore, ho letto giovedì, con rammarico, l’articolo di un suo giornalista, Toni De Marchi, circa l’entità delle riduzioni che il governo attuerà nei confronti dei nostri contingenti all’estero, nell’ambito del decreto missioni. Non ho alcuna intenzione di sollevare polemiche, né di giudicare l’opinione del giornalista quando confronta l’operato della mia amministrazione con gli annunci di chi mi ha preceduto. È legittima e per questo la rispetto, d’altronde chiunque è libero di confondere le parole, con i fatti. Ma mi permetta, questo sì, di segnalarle le informazioni inesatte contenute nell’articolo, che ahimè certificano la scarsa conoscenza della materia da parte del redattore. Ce ne sono diverse, per le sue valutazioni.
Mi si accusa che “la sostanza assomiglia a una fake news”, mentre la sostanza corrisponde invece a verità, perché è un fatto che 100 nostri soldati rientreranno realmente dall’ Afghanistan e 50 dall’Iraq. Per quanto riguarda l’Afghanistan, il giornalista afferma che in sede di approvazione del decreto missioni per il 2018 il precedente Governo aveva annunciato il ritiro di 250 uomini tra Kabul ed Herat. Al mio insediamento, le assicuro che non era stata effettuata alcuna riduzione. Per quanto attiene la missione in Iraq, stesso discorso.
Gli annunci (di chi mi ha preceduto) e i fatti. Non solo ho disposto nel prossimo decreto missioni la riduzione di 50 militari da Mosul, ma ho previsto e comunicato il ritiro completo del contingente nazionale schierato presso la diga entro il primo trimestre del 2019.
Infine il Niger: si fa riferimento a un mio presunto viaggio che, evidentemente, deve essermi sfuggito. Posso certo dirle che mi farebbe piacere visitare il Paese ma, ad oggi, non ho ancora avuto occasione di farlo. Dimenticavo: viene citato un mio post su Facebook in cui avrei annunciato il dispiegamento di 470 uomini ma, può constatarlo personalmente, nel post non cito alcun numero. Mi permetto di puntualizzarle anche che la consistenza media dei nostri militari operanti all’interno della missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger, per il 2018 non supererà le 70 unità. E di sottolineare che una missione bilaterale si sviluppa per l’accordo stabilito tra il Governo italiano e quello nigerino e non per supportare, come riportato nell’articolo, operazioni statunitensi o francesi.
È un fatto, sostiene il ministro, che nel prossimo decreto ci saranno riduzioni dei contingenti italiani all’estero. Ma, al momento, non è un fatto: il decreto che avrebbe già dovuto essere alle Camere, ancora non c’è. Il ministro aggiunge: “Al mio insediamento, le assicuro che non era stata effettuata alcuna riduzione”. Chi sostiene il contrario? La riduzione doveva ovviamente avvenire dopo il 30 settembre, alla scadenza del decreto missioni in vigore. Per quanto riguarda il Niger: su Facebook non ha dato numeri, ma ha detto “abbiamo sbloccato la missione”. La missione è di 470 militari: è scontato fossero quelli, altrimenti avrebbe dovuto informarne le Camere. È un fatto che M5S votò contro la missione nigerina che oggi lei rivendica: Di Maio la criticò il 6 febbraio alla Link Campus e aggiunse che era necessario il ritiro completo dall’Afghanistan.
Repubblica 6.5.18
L’analisi
Se Verona diventa città anti aborto
di Michela Marzano


Verona è una "città a favore della vita", recita la mozione della Lega votata ieri notte in consiglio comunale anche dalla capogruppo del Pd, e sostiene le attività delle associazioni Pro-Life. Un attacco frontale alla legge 194 del 1978 che legalizzò l’aborto. Come se tutti coloro che per anni si sono battuti affinché anche in Italia fosse riconosciuta alla donna la possibilità di interrompere una gravidanza nelle strutture pubbliche e gratuitamente fossero dei ferventi sostenitori di una "cultura della morte". E fosse meglio tornare alla clandestinità, quando erano numerose le donne che morivano sotto i ferri delle "mammane". Viene da chiedersi se dietro questa decisione ci sia ignoranza o malafede, oppure entrambe le cose. Visto che ormai sappiamo da tempo che in molte regioni italiane, dato l’alto numero di medici obiettori, è complicato, talvolta impossibile, accedere all’interruzione volontaria di gravidanza, e che dietro le iniziative portate avanti dai movimenti Pro-Life si nasconde spesso, dietro la difesa del "valore della vita", un’intolleranza profonda nei confronti della fragilità della condizione umana. Tutti vorremmo un mondo in cui, quando si desidera un figlio, ci si ritrova poi immediatamente incinta o, quando non si è pronti ad accoglierlo, la gravidanza non arriva. La realtà, però, è molto più complessa e drammatica: c’è chi aspetta per anni quel bambino che non arriverà mai e chi, invece, vive la gravidanza come una condanna, e quindi non può, non vuole o non ce la fa a diventare madre – ma chi siamo noi per giudicare un’altra persona? Che ne sappiamo di quello che ha potuto vivere, o vive, una donna che decide di abortire? Il problema di alcune associazioni cattoliche è voler imporre a tutti la propria visione del mondo, come fosse sempre evidente sapere cosa è "bene" e cosa è "male", quello che si deve fare e quello che si deve evitare. E allora non esitano a schierarsi contro la fecondazione eterologa, nonostante siano a favore della vita, oppure contro l’aborto, nonostante il rischio di chi abortisce nell’illegalità sia proprio quello di morire. Questa idea secondo cui le cose sarebbero semplici – la famiglia naturale l’unica famiglia possibile, l’eterosessualità la norma e la vita sempre e solo una benedizione – si scontra tuttavia contro la realtà dell’esistenza. E rischia solo di generare dolore supplementare. Ma se fino ad ora i Pro-Life non se ne sono resi conto, forse è davvero impossibile convincerli. Quello che stupisce in questa vicenda non è tanto la mozione della Lega – in perfetta linea con le posizioni di Lorenzo Fontana, attuale ministro della Famiglia ed ex vicesindaco di Verona – quanto la posizione della capogruppo del Pd che, invece di difendere l’autonomia femminile e battersi contro l’inevitabile discriminazione di tutte coloro che già oggi sono costrette a spostarsi da una regione all’altra per abortire, approva di fatto un passo indietro del nostro Paese in termini di diritti. Forse ha dimenticato quanto scrisse Simone de Beauvoir, nel 1949, parlando appunto dell’interruzione di gravidanza: «Gli uomini si contraddicono con uno stolido cinismo; ma la donna sperimenta queste contraddizioni nella sua carne ferita […] pur considerandosi vittima di un’ingiustizia, si sente contaminata, umiliata; è lei che incarna sotto forma concreta e immediata, in sé, la colpa dell’uomo».
La Stampa 6.10.30
Legge 194
Quarant’anni fa veniva legalizzato l’aborto in Italia
di Flavia Amabile

Era il 22 maggio 1978 quando , dopo anni di aspre battaglie fu approvata la legge 194 che riconosce alle donne il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza. Prima l’aborto era considerato un reato, le donne che avevano necessità di non portare avanti una gravidanza dovevano rivolgersi a strutture clandestine, con seri rischi per la propria vita.
Quarant’anni dopo la legge ha raggiunto alcuni dei suoi obiettivi. Le interruzioni volontarie di gravidanza, sono più che dimezzate. Ma è aumentata la pressione dei movimenti antiabortisti, il numero di medici obiettori che ha raggiunto la cifra record del 70% rendendo del tutto impossibile in alcune regioni esercitare il diritto di effettuare un aborto. La legge 194 si presenta quindi sempre meno applicata e sta di nuovo aumentando la richiesta di aborti clandestini.
Il Fatto 6.10.30
Soldi agli anti-abortisti. A Verona c’è un sì del Pd
Approvata la mozione del Carroccio, a favore anche la capogruppo democratica
di Andrea Tornago


Soldi ad associazioni cattoliche anti-aborto, sostegno del parto in anonimato negli ospedali, proclamazione di Verona “città a favore della vita”. La città di Giulietta si schiera ufficialmente contro la legge 194 con la mozione del leghista Alberto Zelger, approvata dal consiglio comunale di Verona nella serata di giovedì tra polemiche e proteste. E il voto apre uno squarcio nel Partito democratico. Perché tra i 21 favorevoli (sei invece i voti contrari) c’è anche la capogruppo veronese del Pd, Carla Padovani, lasciata sola però dagli altri consiglieri Dem presenti che hanno votato contro e dai vertici del partito.
“Così non va. Non si procede con colpi di mano ideologici su temi così delicati – commenta il presidente della Regione Lazio e candidato alla segreteria del Pd, Nicola Zingaretti –. Non si rispetta la vita se non si rispettano le scelte delle donne, soprattutto quando sono difficili come lo è quella di interrompere una gravidanza”.
Il caso assume proporzioni nazionali e interviene anche il segretario dem Maurizio Martina: “La 194 non si tocca, la difenderemo sempre”.
La mozione, riesumata dagli ultimi punti all’ordine del giorno, finisce ai voti grazie e un blitz della maggioranza e prevede di destinare nel prossimo assestamento di bilancio un “congruo finanziamento” ad associazioni e progetti contro l’aborto. Come il progetto “Gemma” del Movimento per la vita, che prevede l’adozione a distanza (con 2880 euro) di donne intenzionate a interrompere la gravidanza, o il progetto “Chiara” del Centro diocesano aiuto vita. Oltre a imporre di tappezzare Verona di manifesti pubblicitari sul progetto regionale “Culla segreta”, che tutela il parto in anonimato negli ospedali con conseguente adozione immediata del bambino.
A colpire più di tutto però sono le motivazioni contenute nel testo della delibera. Secondo il leghista Zelger, per colpa della legge 194 oggi in Italia “manca all’appello una popolazione di 6 milioni di bambini che avrebbero impedito il sorgere dell’attuale crisi demografica”. Mentre la diffusione della pillola abortiva RU486 avrebbe causato una “crescita degli aborti” e diffuso una “cultura dello scarto”.
La mozione era già stata presentata a Palazzo Barbieri lo scorso 27 luglio, ma la seduta si era interrotta prima della discussione in seguito al parapiglia causato dal gesto di un consigliere della lista Battiti (quella del sindaco Federico Sboarina), Andrea Bacciga. Alle attiviste di “Non una di meno”, arrivate in aula per protestare vestite come le “incubatrici viventi” della serie tv The Handmaid’s Tale, Bacciga aveva rivolto il saluto romano. È finito indagato dalla Procura di Verona per l’articolo 5 della legge Scelba, che punisce chi “partecipando a pubbliche riunioni compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista”.
Non passa invece la mozione collegata, sempre a firma Zelger, che prevedeva la sepoltura automatica dei feti: oltre a stabilire la celebrazione della “Giornata internazionale dei bambini mai nati” per il 15 ottobre, avrebbe dovuto dedicare alla sepoltura dei feti un’area del cimitero comunale vicino a un monumento già esistente dedicato proprio ai “non nati”.
Non è stato inserito nell’ordine del giorno per paura di defezioni nella maggioranza, dove crescevano i mal di pancia. Dura la reazione di M5S, Sinistra in Comune e Cgil: “Verona torna al Medioevo”.
Corriere 6.10.18
Centrosinistra, tra parrocchie e associazioni nasce Demos
di D. Mart.


Ci saranno anche l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e l’ex ministro Andrea Riccardi al battesimo di Demos- Democrazia solidale, il movimento che compie i primi passi oggi al Seraphicum di Roma con l’obiettivo — «se le condizioni lo consentono» — di diventare soggetto politico in vista delle amministrative e delle europee del 2019. Parrocchie, esperienze civiche, ong, associazioni legate al mondo protestante e a quello ebraico, consiglieri regionali e comunali (Piemonte, Veneto, Lazio, Marche e Campania), l’Azione cattolica, la Cisl, Alleanza democratica: «È la rete delle periferie — spiega l’ex viceministro degli Esteri Mario Giro che si è fatto le ossa alla scuola della comunità di Sant’Egidio — che condivide i problemi delle persone ma è anche la rete delle periferie della società civile tenuta ai margini dai partiti». L’area è il centro sinistra ma Democrazia solidale ritiene che molti temi siano bipartisan: le case popolari, l’immigrazione, le famiglie con malati cronici e terminali in casa, l’abbandono scolastico, gli anziani e l’Alzheimer. Davanti a questo «vissuto quotidiano, aggiunge Giro, non abbiamo il tempo di attendere le elucubrazioni nella battaglia tra capi e capetti del Partito democratico». E il discorso che oggi Gentiloni terrà per Democrazia solidale? «Gentiloni ha lo sguardo lungo e largo e sa che il Pd ha bisogno di alleati».
Corriere 6.10.18
il sondaggio
Calo M5S, Lega vicina al 34%
di Nando Pagnoncelli


Cinque Stelle in calo, arrivano al 28,5 per cento. La Lega — secondo il sondaggio Ipsos — invece continua a rafforzarsi e ormai sfiora il 34%. Pd stabile al 17,1. Forza Italia al 7,8 per cento.
C ome avviene ogni mese, questa settimana ci occuperemo dell’andamento delle intenzioni di voto, della valutazione del governo, del premier e dei vicepremier. Se guardiamo alle intenzioni di voto, l’andamento dei dati segnala una sostanziale stabilità della Lega che, dalla ripresa autunnale, rimane su valori assai elevati, intorno al 34%; un affanno del M5S, oggi quotato al 28,5%, in flessione di 1,5 punti rispetto a un mese fa e di 3 punti rispetto a metà luglio; la conferma di Forza Italia nelle posizioni più basse registrate recentemente, intorno all’8%, in calo di poco meno di un punto rispetto all’ultimo dato pubblicato; la stabilità del Pd al 17%. Con riferimento a questo ultimo dato è utile sottolineare che in settembre abbiamo registrato un calo costante del partito, che una settimana fa si collocava al 15,5%. Evidentemente la manifestazione di domenica scorsa, l’impressione di relativa coesione tra i dirigenti, la visibilità mediatica, hanno contribuito a far crescere il consenso riportandolo alla media degli ultimi mesi.
La solida prevalenza della Lega si giustifica naturalmente con la preponderante presenza sui media del suo leader e con la capacità di centrare argomenti di vasto impatto: se il tema migranti è meno forte rispetto a quando si verificarono le vicende Aquarius e Diciotti (a ridosso del dato degli inizi di settembre) — anche se comunque vivo, basti pensare alla vicenda di Riace — a supporto del consenso leghista arriva il tema delle pensioni e di quota 100, molto sentito da una parte rilevante dell’elettorato, soprattutto tra i lavoratori del Nord, bacino principe del consenso leghista. L’affanno dei 5 Stelle è conseguenza di alcune difficoltà degli ultimi tempi, in particolare in relazione al decreto per la ricostruzione del ponte Morandi e alla nomina del commissario, conclusasi proprio in questi giorni, dopo un’attesa che ha creato malumori. Accanto a questo, contano anche alcune perplessità sul reddito di cittadinanza, che si amplificano nel Nord del Paese, dove la scelta viene vista come assistenzialistica.
Se analizziamo l’evoluzione della composizione degli elettorati dei due principali partiti, emerge che la crescita della Lega ha grande trasversalità, ma segnala alcuni punti di maggiore espansione: i titoli di studio medio/bassi, le età elevate, le casalinghe. È stato il processo di progressiva cannibalizzazione dell’elettorato classico di Forza Italia. Il M5S invece vede perdite più consistenti tra i ceti dirigenti e il lavoro autonomo, probabilmente proprio per il reddito di cittadinanza, e tra gli studenti, mentre mantiene e addirittura migliora di poco il proprio consenso tra ceti medi, operai, disoccupati.
Il gradimento del governo e del presidente del Consiglio si mantengono assai elevati, pur confermando il lieve arretramento registrato a luglio. Il governo ha un indice di 64 e galvanizza i propri elettori (indice di 92 tra gli elettori pentastellati, di 94 tra quelli leghisti), ma ottiene risultati lusinghieri anche tra chi vota FI (58). Solo gli elettori Pd sono decisamente critici (qui l’indice di approvazione scende al 14). Il premier Conte ha un indice ancora più elevato del governo (67), di nuovo plebiscitario tra gli elettori della maggioranza e più consistente rispetto all’esecutivo sia tra gli elettori di FI (62) sia tra quelli del Pd (22). Il segnale è quindi di un consolidarsi della luna di miele a oltre cento giorni dall’insediamento. Consolidamento che si fonda non solo sui provvedimenti, ma sul sentimento degli elettori, sul mutato clima del Paese.
Infine i due vicepremier, che confermano i valori di un mese fa: Salvini con un indice di 57 (identico a settembre); Di Maio con 52 (era 51 a settembre). Entrambi confermano il sostegno plebiscitario tra i propri elettori (97 l’indice di Salvini tra i leghisti, 93 quello di Di Maio tra i pentastellati). Il valore più elevato di Salvini è determinato dal consenso più ampio che conquista tra gli elettori di FI, dove riscuote un gradimento del 72, contro il 44 di Di Maio.
In sostanza, pochi cambiamenti, con l’eccezione della difficoltà per i 5 Stelle. È evidente che la distribuzione delle risorse nel Def sarà cruciale. Con un’avvertenza, come rileviamo da altri sondaggi. La tenuta dei conti rimane un tema rilevante per gli italiani, che si affidano al principio di precauzione
La Stampa TuttoLibri 6.10.18
Jelinek: “Odiare senza alcun motivo è un morbo che continua a infettarci”
“L’odio senza motivo è un morbo invincibile”
Esce “Gli esclusi”, un crudo e profetico ritratto di giovani senza valori che credono solo nella violenza “La nostra Europa è in pericolo, riemergono vecchie tentazioni fasciste come ai tempi di Mussolini e Dollfuss”
di Mirella Serri


È notte fonda. Un uomo attraversa frettoloso lo Stadtpark di Vienna. All’improvviso alcuni giovani lo aggrediscono e gli sottraggono il portafoglio che contiene pochi spiccioli. I protagonisti del pestaggio, che avviene alla fine degli anni Cinquanta, sono quattro giovani tra i 18 e i 20 anni: il colto Rainer Maria - chiamato così in omaggio al poeta Rilke -, la gemella Anna Witkowski che è quasi completamente muta e che per comunicare usa senza remore il sesso, l’algida e ricca Sophie Pachhofen e Hans Sepp, di famiglia operaia, il cui padre comunista è stato ucciso a Mauthausen. L’obiettivo degli under venti non è solo la rapina. I ragazzi picchiano in maniera eccessiva e gratuita, spaccano costole e artigliano gli occhi: sono Gli esclusi, i protagonisti del feroce e terribile racconto del premio Nobel per la letteratura Elfriede Jelinek.
Un romanzo in cui la crudeltà stilistica e narrativa della Jelinek si confronta con tematiche durissime, come il reinserimento degli ex fedeli di Hitler in Germania e in Austria. I due gemelli Anna e Rainer Maria, infatti, sono figli dell’ex SS Witkowski. L’uomo, che non ha subito nessuna condanna per i suoi trascorsi, in guerra ha perso una gamba ma non ha mai perso la sua ferocia. La esercita in privato, scattando foto artistiche, come chiama i ritratti delle parti intime della moglie che, prima dei porno clic, sottopone a trattamenti così sadici da metterne a repentaglio la vita. La figlia Anna infierisce a sua volta su se stessa con pratiche masochistiche e pure Rainer ama farsi del male.
Nonostante il libro sia stato scritto negli anni Ottanta, è oggi più che mai attuale. Narra impensabili sacche di violenza che si aprono e rigurgitano i loro veleni contro le donne in un mondo apparentemente pacificato e tranquillo, denuncia la permanenza della mentalità hitleriana nell’immediato periodo postbellico e allude ai limiti di un mondo fatto di «esclusi» che volta possono rialzare la testa e ribellarsi. «Quello che conta è picchiare. E non si deve picchiare per odio ma senza alcun motivo» è il motto dei magnifici quattro.
Anche tutta la vita dell’autrice de La pianista, de Le amanti e de La voglia è stata segnata da soprusi e prepotenze. La madre della narratrice, appartenente alla ricca borghesia cattolica viennese, è stata, secondo la stessa romanziera, una personalità «dispotica e paranoica». Il padre, ebreo di professione chimico, ha evitato le persecuzioni naziste grazie al suo impiego in un industria di armamenti ma è stato devastato dalla malattia psichica. Elfriede, bambina prodigio in campo musicale, viene mandata in una scuola molto autoritaria (e sulle orme di Thomas Bernhard, autore prediletto, scrive il polemico saggio Andare a scuola è come andare a morire): per la sua vivacità considerata eccessiva viene chiusa dalle suore educatrici in un reparto di neuropsichiatria infantile.
Come è nato questo libro?
«Gli esclusi era nato come un radiodramma. Poi ho deciso di trasporlo in un romanzo e, infine, è diventato un’opera cinematografica. Mi sono ispirata a un caso di omicidio realmente accaduto a Vienna poco prima del Natale del 1965, andavo a scuola e tutti ne parlavano. Si trattava di un assassinio compiuto da un solo protagonista e non da un gruppo come invece accade nel mio racconto (in tutti miei romanzi sono narrati delitti effettivamente verificatisi e a volte sono così ben mascherati che nemmeno i sopravvissuti, che pure vi hanno preso parte, li riconoscono). Dopo aver studiato gli atti processuali ho inventato la figura di Sophie, ragazza ricca e viziata. La sorpresa più grande è stata che l’omicida durante il dibattimento disse di aver avuto nel delitto una partner appartenente a una classe sociale superiore. Ma era solo un frutto della sua immaginazione, come venne appurato durante il processo. Dunque, questo personaggio lo abbiamo inventato entrambi. Per me Gli Esclusi è sempre stata una storia paradigmatica della società austriaca del dopoguerra che aveva assolto se stessa da tutte le atrocità naziste e negato la propria colpa, catapultandosi in uno stato di permanente innocenza. E questa menzogna storica è durata a lungo».
I soprusi del passato hanno contagiato le generazioni più giovani?
«Ho descritto l’orrore di cui sono stati protagonisti i genitori, mai espiato ma percepito dai giovani che si sono resi conto dell’ipocrisia e della falsità di una società senza storia. In questo libro, inoltre, c’era anche un altro obiettivo: raccontare il futuro. Anna, Sophie, Rainer Maria e Hans sono i precursori della Baader-Meinhof, gruppo terroristico fondato nel maggio 1970 da Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Horst Mahler. Baader era impegnato in imprese criminali che ha cercato di nobilitare con le sue teorie politiche di estrema sinistra. Gli “Esclusi” sono i figli degli ex nazisti che si orientano verso il crimine individuale».
Le responsabilità delle famiglie diventano anche dolore e sofferenza che si incide sul corpo dei personaggi impotenti, anaffettivi o erotomani come Anna, una dei giovani carnefici. La gemella di Rainer, con il suo autolesionismo anticipa Erika Kohut, protagonista deLa pianista, insegnante di pianoforte, frequentatrice di locali a luci rosse. E’ così?
«Gli esclusi precorrono molte tematiche de La pianista. Anna, così dotata e geniale, non può realizzarsi all’interno della famiglia caduta in miseria ed emarginata. La frustrazione interna la spinge all’aggressione esterna. Anna partecipa alle rapine e alle torture delle vittime perché è innamorata di Hans, il figlio dell’operaio di sinistra che a sua volta desidera solo Sophie la quale lo tratta come un suo trastullo e passatempo. E’ abituata a giocare con tutto e con tutti, addirittura con l’assassinio, e non ha nulla da temere, la sua famiglia riuscirà sempre a tirarla fuori da qualsiasi situazione. Per Hans, Anna è un palliativo, lui punta a Sophie, così diversa».
Lei ha denunciato le carenze dell’Europa e un orientamento politico sempre più restrittivo nei confronti di migranti e di rifugiati. Vale anche per le scelte dell’attuale cancelliere austriaco, nonché presidente di turno della Ue, Sebastian Kurz, deciso a limitare il flusso migratorio verso l’Europa?
«Questo “orientamento” finora è costato la vita a migliaia di persone. Mai avrei immaginato di dover assistere a quanto sta accadendo ora in Italia, dove non si permette l’attracco alle navi di soccorso e si sostiene che i soccorritori saranno perseguiti. Emergono nuovamente le vecchie alleanze fasciste, esattamente come tra Mussolini e il cancelliere Dollfuss, entrambi fascisti e clericali. Mi ha sorpreso anche la déblacle della sinistra europea, sempre più screditata e con sempre meno presa sul territorio. Purtroppo gli elettori votano spesso contro i loro stessi interessi. Invece di difendersi dalla loro progressiva emarginazione si adeguano alla propaganda dei politici di estrema destra che usano i rifugiati e i richiedenti asilo come capri espiatori e li additano quasi fossero la più grande minaccia del mondo. Gli elettori si stanno dando da soli la zappa sui piedi perché anche in Austria i diritti politici per i quali ci si è strenuamente battuti vengono progressivamente smantellati. Al contrario di quanto avviene in Germania dove si ha un diverso atteggiamento. Forse perché consapevoli del terribile passato. Ma la cancelliera Angela Merkel oggi viene continuamente screditata e la destra estrema sta guadagnando sempre più terreno. E tutto questo si verifica anche in Ungheria, che procede in modo molto rigido e determinato, ma anche più a est, nella Repubblica Ceca e in Polonia, tutti paesi che si reggono su strutture autoritarie. Nessuno sembra poter porre rimedio a tutto ciò, visto che i partiti che sostengono queste posizioni sono arrivati al potere vincendo le elezioni. E sono sempre più collegati in rete tra loro. Sono molto preoccupata per le sorti dell’Europa. Con la crisi economica e la messa al bando dal mondo del lavoro e dal contesto sociale di un numero sempre più alto di persone, emergono sempre più tendenze criminali. Gli esclusi di ieri sono insomma uguali ai nuovi emarginati di oggi. A volte sono così disperata che vorrei soltanto mettermi a urlare, come un cane abbandonato».
Lei ha dichiarato spesso che la vita e la scrittura sono inconciliabili. La pensa così ancora oggi?
«Purtroppo è vero. In particolare per quanto riguarda le autrici. Devono portare troppi fardelli per essere libere di scrivere. Io, per esempio, non avrei mai avuto la forza per i bambini e per la scrittura. Non so cosa ne pensino oggi le giovani scrittrici. Alcune, probabilmente più che in passato, avranno l’energia, altre, come me, non l’hanno avuta».
Repubblica 6.10.18
L’intervento
Che cosa va difeso
Il conflitto dentro il quale ci troviamo, non è politico, e neanche ideologico-culturale: è epocale
Sull’Europa si concentra l’attacco alla democrazia
Ecco perché dobbiamo resistere e lottare contro la dissolzione
di Alberto Asor Rosa


Il conflitto dentro il quale ci troviamo, senza sapere, almeno all’apparenza, come uscirne, non è politico, e neanche, tout court, ideologico-culturale: è epocale. E cioè prevede che due "sistemi", con la loro complessità più o meno evidente e dichiarata, si fronteggino, e che ognuno dei due non possa vincere e sopravvivere senza la totale sconfitta e il deperimento più o meno rapido e sostanziale dell’altro.
Questo, di cui parliamo qui, è un conflitto epocale, cioè "sistemico". Non sono possibili mediazioni fra i due – di natura politica, ovviamente – né una reciproca comprensione intellettuale, cioè ideologico-culturale. O sopravvive l’uno, o sopravvive l’altro. Insisto, torno a insistere, come ho già fatto altre volte. La materia del contendere, su uno dei due corni del dilemma, è in questa fase storica (tornerò su questa precisazione) la "democrazia rappresentativa". Per capirsi bisogna entrare un po’ di più nel merito. La "democrazia rappresentativa" non è, come in molti tentano di far credere, un governo isolato e arroccato nelle aule parlamentari.
È un sistema estremamente complesso, nel quale al privilegio delle aule parlamentari di promulgare leggi valide per tutti si affiancano in maniera strutturale la separazione dei poteri, l’autonomia organizzativa delle forze sociali e culturali, e l’intangibilità, se non con processi di mutamento assolutamente meditati e legali, degli apparati dello Stato. In un certo senso, ai nostri avversari preme di più combattere e distruggere tutto il resto che la contestazione della preminenza del voto nelle aule parlamentari. Dov’è che l’attacco al sistema democratico rappresentativo, così come noi lo intendiamo, attualmente più si concentra? Anche su questo non avrei dubbi: è l’Europa. Come mai? Ma perché l’Europa in questo momento è il luogo nel mondo in cui il sistema democratico rappresentativo, nonostante enormi difficoltà, resiste e si oppone alla propria dissoluzione. Altrove, pressoché ovunque, con qualche rara eccezione, il sistema democratico rappresentativo è in crisi da anni, quando non sia già sommerso dai flutti. La Russia di Putin è un caposaldo del non-democratico rappresentativo. Gli Stati Uniti, che hanno rappresentato dalle origini, insieme con l’Europa, l’altro caposaldo del sistema, sotto l’impulso prepotente di Donald Trump, spingono anche loro nell’altra direzione. Non è difficile arrivare a una conclusione, per quanto sommaria: difendere l’Europa e difendere la democrazia rappresentativa, così come l’abbiamo definita all’inizio, sono oggi la stessa cosa.
Naturalmente, nessuno può pensare che questo basti per impostare e vincere le battaglie politiche e ideologico- culturali, che devono necessariamente scaturire dalla battaglia epocale. Ma la battaglia epocale comporta parole d’ordine, alleanze, obiettivi, che possono prescindere magari provvisoriamente da parole d’ordine, alleanze, obiettivi, che sono o appaiono più specifici delle battaglie politiche e ideologico-culturali. Se non si vince, o magari, più semplicemente, non si decide di iniziare e combattere la battaglia epocale, non ci saranno più né battaglie politiche né battaglie ideologico-culturali. Ovviamente, a questo punto bisognerebbe cominciare a dire come si fa a difendere il sistema democratico rappresentativo dagli attacchi assassini interni ed esterni. Per ora penso si possa dire questo. "Sovranismo" e "populismo" rovesciano contro il sistema democratico rappresentativo la "massa" che il sistema democratico rappresentativo, negli ultimi decenni, non si è curato di allevare, educare,promuovere... e anche accontentare e soddisfare. Il sistema democratico rappresentativo si è invece rinchiuso, autoprotettivamente, nel cerchio delle sue certezze elementari – neoliberismo, autonomia estrema, anche rissosa e prepotente, del proprio ceto politico, chiusura elitaria nei confronti dei bisogni elementari della gente – e ha deciso in un certo senso, più che di essere sconfitto, di suicidarsi (del resto è sempre così che accade quando crolla un sistema, basti pensare appunto all’avvento del fascismo e del nazismo in Italia e in Germania).
Dal suicidio, com’è noto, è difficile tornare indietro. Ma altrimenti non c’è via d’uscita. O si cambia registro o siamo nella peste. Infatti, come ho già detto, con il "sovranismo" e il "populismo" non c’è mediazione: si può soltanto lavorare per spazzarli via, se non si vuole (o si cerca, anche questo, ahimé, è apparso possibile) essere spazzati via.
La Stampa 6.10.18
“Niente politica a scuola”
No al dibattito sulle leggi razziali
di Elisa Forte


Tutto inizia con il no alla sua partecipazione a un incontro con gli studenti del «Fiani-Leccisotti» di Torremaggiore, in provincia di Foggia. «A scuola non si fa politica»: con questa motivazione alcuni docenti del liceo pugliese avrebbero bocciato la proposta di una loro collega di Lettere che aveva invitato lo scrittore ebreo Roberto Matatia per parlare delle leggi razziali emanate 80 anni fa dal fascismo. Ma non era storia quella degli ebrei italiani messi in ginocchio dalle leggi razziali del 1938? Sarà. «Sono stato contattato da un’insegnante del liceo classico Fiani-Leccisotti di Torremaggiore, in provincia di Foggia – ha scritto lo scrittore sul sito ufficiale della comunità ebraica di Milano, Mosaico Bet Magazine - per andare a parlare, come faccio sempre, della mia famiglia e degli ebrei durante il fascismo. Ho accettato con entusiasmo. Non avendo più notizie, ho chiamato la docente che, con profondo imbarazzo, mi ha detto che l’iniziativa, che pure aveva ricevuto il plauso del preside, era stata rifiutata da altri docenti perché, a dir loro, invitare a relazionare un ebreo è una scelta politica e, a scuola, non si fa politica».
Le polemiche
Un no che ha scatenato polemiche e una bufera mediatica che inizia a spegnersi solo in serata con il tramonto del venerdì quando, per gli ebrei, inizia fino al sabato, il tempo dedicato al Signore. Dopo il comunicato del preside che rinnova l’invito a Matatia, lo scrittore dichiara «chiuso il caso» e i suoi estimatori – sollevati – su Facebook gli scrivono «Shalom Shabbat Roberto». Pace fatta. Il riposo e il tempo del Signore può iniziare per Matatia, imprenditore tessile di Faenza, scrittore dal 2014 da quando con «I vicini scomodi» (di Mussolini) ha raccontato in un libro la vita dei suoi familiari inghiottiti dall’Olocausto.
La versione della scuola
Il preside Giancarlo Lamedica spiega che «si è trattato di una incomprensione, nessuno voleva annullare l’incontro. Ma siamo ancora in fase di programmazione delle attività», dice. «Occorre opporre strenua resistenza, attraverso la cultura e la comprensione della storia, alla banalizzazione e alla dimenticanza» sottolinea la professoressa di Storia della filosofia dei diritti umani Francesca Romana Recchia Luciani che per conto dell’Università di Bari dal 10 ottobre inaugura la VII edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah. «È rivolto a studenti e docenti – spiega –parteciperanno Michele Sarfatti e Jadwiga Pinderska. Non mollo».
La Stampa 6.10.18
La storia siamo noi
di Mattia Feltri


Il ministero ha deciso di sopprimere il tema di storia dall’esame di maturità perché in dieci anni soltanto il tre per cento degli studenti ha deciso di affrontarlo. È un peccato che i ragazzi trascurino la materia più bella che c’è (parere personale) e che il ministero si adegui, facendone un soprammobile dell’istruzione. Forse è inevitabile se si pensa alla vicenda di Roberto Matatia raccontata ieri dal Foglio. Matatia è un imprenditore di Faenza che ha scritto un libro sulla sua famiglia sterminata ad Auschwitz, e per parlarne era stato invitato da una professoressa di un liceo classico del foggiano. Dopo qualche settimana, però, la professoressa si è scusata con Matatia: purtroppo non se ne fa nulla, altri insegnanti si sono opposti, a scuola niente politica, hanno detto. Ora l’incidente pare rientrato, a Matatia dovrebbe essere stato rinnovato l’invito, ma a questo punto che lo accetti o meno è secondario. Piuttosto risalta la bizzarria che insegnare ai ragazzi che cosa furono le leggi razziali (oggi, ottant’anni fa, il Gran consiglio del fascismo pubblicò la Dichiarazione sulla razza), e quali ne furono le conseguenze, sia derubricato a una bagatella politica. Specialmente nell’accezione infelice che si dà oggi al termine, desolante a ora tarda in birreria, figuriamoci in un liceo classico dove senz’altro sanno che politica deriva da Polis, le città in cui tutti erano chiamati a partecipare all’amministrazione della cosa pubblica e a soggiacere alla medesima legge. È nella Polis che nasce l’idea occidentale di democrazia. Ma se abbiamo questa considerazione della storia, non possiamo che avere questa politica.

La Stampa 6.10.18
La storia siamo noi
di Mattia Feltri


Il ministero ha deciso di sopprimere il tema di storia dall’esame di maturità perché in dieci anni soltanto il tre per cento degli studenti ha deciso di affrontarlo. È un peccato che i ragazzi trascurino la materia più bella che c’è (parere personale) e che il ministero si adegui, facendone un soprammobile dell’istruzione. Forse è inevitabile se si pensa alla vicenda di Roberto Matatia raccontata ieri dal Foglio. Matatia è un imprenditore di Faenza che ha scritto un libro sulla sua famiglia sterminata ad Auschwitz, e per parlarne era stato invitato da una professoressa di un liceo classico del foggiano. Dopo qualche settimana, però, la professoressa si è scusata con Matatia: purtroppo non se ne fa nulla, altri insegnanti si sono opposti, a scuola niente politica, hanno detto. Ora l’incidente pare rientrato, a Matatia dovrebbe essere stato rinnovato l’invito, ma a questo punto che lo accetti o meno è secondario. Piuttosto risalta la bizzarria che insegnare ai ragazzi che cosa furono le leggi razziali (oggi, ottant’anni fa, il Gran consiglio del fascismo pubblicò la Dichiarazione sulla razza), e quali ne furono le conseguenze, sia derubricato a una bagatella politica. Specialmente nell’accezione infelice che si dà oggi al termine, desolante a ora tarda in birreria, figuriamoci in un liceo classico dove senz’altro sanno che politica deriva da Polis, le città in cui tutti erano chiamati a partecipare all’amministrazione della cosa pubblica e a soggiacere alla medesima legge. È nella Polis che nasce l’idea occidentale di democrazia. Ma se abbiamo questa considerazione della storia, non possiamo che avere questa politica.

La Stampa 6.10.18
“Niente politica a scuola”
No al dibattito sulle leggi razziali
di Elisa Forte


Tutto inizia con il no alla sua partecipazione a un incontro con gli studenti del «Fiani-Leccisotti» di Torremaggiore, in provincia di Foggia. «A scuola non si fa politica»: con questa motivazione alcuni docenti del liceo pugliese avrebbero bocciato la proposta di una loro collega di Lettere che aveva invitato lo scrittore ebreo Roberto Matatia per parlare delle leggi razziali emanate 80 anni fa dal fascismo. Ma non era storia quella degli ebrei italiani messi in ginocchio dalle leggi razziali del 1938? Sarà. «Sono stato contattato da un’insegnante del liceo classico Fiani-Leccisotti di Torremaggiore, in provincia di Foggia – ha scritto lo scrittore sul sito ufficiale della comunità ebraica di Milano, Mosaico Bet Magazine - per andare a parlare, come faccio sempre, della mia famiglia e degli ebrei durante il fascismo. Ho accettato con entusiasmo. Non avendo più notizie, ho chiamato la docente che, con profondo imbarazzo, mi ha detto che l’iniziativa, che pure aveva ricevuto il plauso del preside, era stata rifiutata da altri docenti perché, a dir loro, invitare a relazionare un ebreo è una scelta politica e, a scuola, non si fa politica».
Le polemiche
Un no che ha scatenato polemiche e una bufera mediatica che inizia a spegnersi solo in serata con il tramonto del venerdì quando, per gli ebrei, inizia fino al sabato, il tempo dedicato al Signore. Dopo il comunicato del preside che rinnova l’invito a Matatia, lo scrittore dichiara «chiuso il caso» e i suoi estimatori – sollevati – su Facebook gli scrivono «Shalom Shabbat Roberto». Pace fatta. Il riposo e il tempo del Signore può iniziare per Matatia, imprenditore tessile di Faenza, scrittore dal 2014 da quando con «I vicini scomodi» (di Mussolini) ha raccontato in un libro la vita dei suoi familiari inghiottiti dall’Olocausto.
La versione della scuola
Il preside Giancarlo Lamedica spiega che «si è trattato di una incomprensione, nessuno voleva annullare l’incontro. Ma siamo ancora in fase di programmazione delle attività», dice. «Occorre opporre strenua resistenza, attraverso la cultura e la comprensione della storia, alla banalizzazione e alla dimenticanza» sottolinea la professoressa di Storia della filosofia dei diritti umani Francesca Romana Recchia Luciani che per conto dell’Università di Bari dal 10 ottobre inaugura la VII edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah. «È rivolto a studenti e docenti – spiega –parteciperanno Michele Sarfatti e Jadwiga Pinderska. Non mollo».

Repubblica 6.10.18
L’intervento
Che cosa va difeso
Il conflitto dentro il quale ci troviamo, non è politico, e neanche ideologico-culturale: è epocale
Sull’Europa si concentra l’attacco alla democrazia
Ecco perché dobbiamo resistere e lottare contro la dissolzione
di Alberto Asor Rosa


Il conflitto dentro il quale ci troviamo, senza sapere, almeno all’apparenza, come uscirne, non è politico, e neanche, tout court, ideologico-culturale: è epocale. E cioè prevede che due "sistemi", con la loro complessità più o meno evidente e dichiarata, si fronteggino, e che ognuno dei due non possa vincere e sopravvivere senza la totale sconfitta e il deperimento più o meno rapido e sostanziale dell’altro.
Questo, di cui parliamo qui, è un conflitto epocale, cioè "sistemico". Non sono possibili mediazioni fra i due – di natura politica, ovviamente – né una reciproca comprensione intellettuale, cioè ideologico-culturale. O sopravvive l’uno, o sopravvive l’altro. Insisto, torno a insistere, come ho già fatto altre volte. La materia del contendere, su uno dei due corni del dilemma, è in questa fase storica (tornerò su questa precisazione) la "democrazia rappresentativa". Per capirsi bisogna entrare un po’ di più nel merito. La "democrazia rappresentativa" non è, come in molti tentano di far credere, un governo isolato e arroccato nelle aule parlamentari.
È un sistema estremamente complesso, nel quale al privilegio delle aule parlamentari di promulgare leggi valide per tutti si affiancano in maniera strutturale la separazione dei poteri, l’autonomia organizzativa delle forze sociali e culturali, e l’intangibilità, se non con processi di mutamento assolutamente meditati e legali, degli apparati dello Stato. In un certo senso, ai nostri avversari preme di più combattere e distruggere tutto il resto che la contestazione della preminenza del voto nelle aule parlamentari. Dov’è che l’attacco al sistema democratico rappresentativo, così come noi lo intendiamo, attualmente più si concentra? Anche su questo non avrei dubbi: è l’Europa. Come mai? Ma perché l’Europa in questo momento è il luogo nel mondo in cui il sistema democratico rappresentativo, nonostante enormi difficoltà, resiste e si oppone alla propria dissoluzione. Altrove, pressoché ovunque, con qualche rara eccezione, il sistema democratico rappresentativo è in crisi da anni, quando non sia già sommerso dai flutti. La Russia di Putin è un caposaldo del non-democratico rappresentativo. Gli Stati Uniti, che hanno rappresentato dalle origini, insieme con l’Europa, l’altro caposaldo del sistema, sotto l’impulso prepotente di Donald Trump, spingono anche loro nell’altra direzione. Non è difficile arrivare a una conclusione, per quanto sommaria: difendere l’Europa e difendere la democrazia rappresentativa, così come l’abbiamo definita all’inizio, sono oggi la stessa cosa.
Naturalmente, nessuno può pensare che questo basti per impostare e vincere le battaglie politiche e ideologico- culturali, che devono necessariamente scaturire dalla battaglia epocale. Ma la battaglia epocale comporta parole d’ordine, alleanze, obiettivi, che possono prescindere magari provvisoriamente da parole d’ordine, alleanze, obiettivi, che sono o appaiono più specifici delle battaglie politiche e ideologico-culturali. Se non si vince, o magari, più semplicemente, non si decide di iniziare e combattere la battaglia epocale, non ci saranno più né battaglie politiche né battaglie ideologico-culturali. Ovviamente, a questo punto bisognerebbe cominciare a dire come si fa a difendere il sistema democratico rappresentativo dagli attacchi assassini interni ed esterni. Per ora penso si possa dire questo. "Sovranismo" e "populismo" rovesciano contro il sistema democratico rappresentativo la "massa" che il sistema democratico rappresentativo, negli ultimi decenni, non si è curato di allevare, educare,promuovere... e anche accontentare e soddisfare. Il sistema democratico rappresentativo si è invece rinchiuso, autoprotettivamente, nel cerchio delle sue certezze elementari – neoliberismo, autonomia estrema, anche rissosa e prepotente, del proprio ceto politico, chiusura elitaria nei confronti dei bisogni elementari della gente – e ha deciso in un certo senso, più che di essere sconfitto, di suicidarsi (del resto è sempre così che accade quando crolla un sistema, basti pensare appunto all’avvento del fascismo e del nazismo in Italia e in Germania).
Dal suicidio, com’è noto, è difficile tornare indietro. Ma altrimenti non c’è via d’uscita. O si cambia registro o siamo nella peste. Infatti, come ho già detto, con il "sovranismo" e il "populismo" non c’è mediazione: si può soltanto lavorare per spazzarli via, se non si vuole (o si cerca, anche questo, ahimé, è apparso possibile) essere spazzati via.

La Stampa TuttoLibri 6.10.18
Jelinek: “Odiare senza alcun motivo è un morbo che continua a infettarci”
“L’odio senza motivo è un morbo invincibile”
Esce “Gli esclusi”, un crudo e profetico ritratto di giovani senza valori che credono solo nella violenza “La nostra Europa è in pericolo, riemergono vecchie tentazioni fasciste come ai tempi di Mussolini e Dollfuss”
di Mirella Serri


È notte fonda. Un uomo attraversa frettoloso lo Stadtpark di Vienna. All’improvviso alcuni giovani lo aggrediscono e gli sottraggono il portafoglio che contiene pochi spiccioli. I protagonisti del pestaggio, che avviene alla fine degli anni Cinquanta, sono quattro giovani tra i 18 e i 20 anni: il colto Rainer Maria - chiamato così in omaggio al poeta Rilke -, la gemella Anna Witkowski che è quasi completamente muta e che per comunicare usa senza remore il sesso, l’algida e ricca Sophie Pachhofen e Hans Sepp, di famiglia operaia, il cui padre comunista è stato ucciso a Mauthausen. L’obiettivo degli under venti non è solo la rapina. I ragazzi picchiano in maniera eccessiva e gratuita, spaccano costole e artigliano gli occhi: sono Gli esclusi, i protagonisti del feroce e terribile racconto del premio Nobel per la letteratura Elfriede Jelinek.
Un romanzo in cui la crudeltà stilistica e narrativa della Jelinek si confronta con tematiche durissime, come il reinserimento degli ex fedeli di Hitler in Germania e in Austria. I due gemelli Anna e Rainer Maria, infatti, sono figli dell’ex SS Witkowski. L’uomo, che non ha subito nessuna condanna per i suoi trascorsi, in guerra ha perso una gamba ma non ha mai perso la sua ferocia. La esercita in privato, scattando foto artistiche, come chiama i ritratti delle parti intime della moglie che, prima dei porno clic, sottopone a trattamenti così sadici da metterne a repentaglio la vita. La figlia Anna infierisce a sua volta su se stessa con pratiche masochistiche e pure Rainer ama farsi del male.
Nonostante il libro sia stato scritto negli anni Ottanta, è oggi più che mai attuale. Narra impensabili sacche di violenza che si aprono e rigurgitano i loro veleni contro le donne in un mondo apparentemente pacificato e tranquillo, denuncia la permanenza della mentalità hitleriana nell’immediato periodo postbellico e allude ai limiti di un mondo fatto di «esclusi» che volta possono rialzare la testa e ribellarsi. «Quello che conta è picchiare. E non si deve picchiare per odio ma senza alcun motivo» è il motto dei magnifici quattro.
Anche tutta la vita dell’autrice de La pianista, de Le amanti e de La voglia è stata segnata da soprusi e prepotenze. La madre della narratrice, appartenente alla ricca borghesia cattolica viennese, è stata, secondo la stessa romanziera, una personalità «dispotica e paranoica». Il padre, ebreo di professione chimico, ha evitato le persecuzioni naziste grazie al suo impiego in un industria di armamenti ma è stato devastato dalla malattia psichica. Elfriede, bambina prodigio in campo musicale, viene mandata in una scuola molto autoritaria (e sulle orme di Thomas Bernhard, autore prediletto, scrive il polemico saggio Andare a scuola è come andare a morire): per la sua vivacità considerata eccessiva viene chiusa dalle suore educatrici in un reparto di neuropsichiatria infantile.
Come è nato questo libro?
«Gli esclusi era nato come un radiodramma. Poi ho deciso di trasporlo in un romanzo e, infine, è diventato un’opera cinematografica. Mi sono ispirata a un caso di omicidio realmente accaduto a Vienna poco prima del Natale del 1965, andavo a scuola e tutti ne parlavano. Si trattava di un assassinio compiuto da un solo protagonista e non da un gruppo come invece accade nel mio racconto (in tutti miei romanzi sono narrati delitti effettivamente verificatisi e a volte sono così ben mascherati che nemmeno i sopravvissuti, che pure vi hanno preso parte, li riconoscono). Dopo aver studiato gli atti processuali ho inventato la figura di Sophie, ragazza ricca e viziata. La sorpresa più grande è stata che l’omicida durante il dibattimento disse di aver avuto nel delitto una partner appartenente a una classe sociale superiore. Ma era solo un frutto della sua immaginazione, come venne appurato durante il processo. Dunque, questo personaggio lo abbiamo inventato entrambi. Per me Gli Esclusi è sempre stata una storia paradigmatica della società austriaca del dopoguerra che aveva assolto se stessa da tutte le atrocità naziste e negato la propria colpa, catapultandosi in uno stato di permanente innocenza. E questa menzogna storica è durata a lungo».
I soprusi del passato hanno contagiato le generazioni più giovani?
«Ho descritto l’orrore di cui sono stati protagonisti i genitori, mai espiato ma percepito dai giovani che si sono resi conto dell’ipocrisia e della falsità di una società senza storia. In questo libro, inoltre, c’era anche un altro obiettivo: raccontare il futuro. Anna, Sophie, Rainer Maria e Hans sono i precursori della Baader-Meinhof, gruppo terroristico fondato nel maggio 1970 da Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Horst Mahler. Baader era impegnato in imprese criminali che ha cercato di nobilitare con le sue teorie politiche di estrema sinistra. Gli “Esclusi” sono i figli degli ex nazisti che si orientano verso il crimine individuale».
Le responsabilità delle famiglie diventano anche dolore e sofferenza che si incide sul corpo dei personaggi impotenti, anaffettivi o erotomani come Anna, una dei giovani carnefici. La gemella di Rainer, con il suo autolesionismo anticipa Erika Kohut, protagonista deLa pianista, insegnante di pianoforte, frequentatrice di locali a luci rosse. E’ così?
«Gli esclusi precorrono molte tematiche de La pianista. Anna, così dotata e geniale, non può realizzarsi all’interno della famiglia caduta in miseria ed emarginata. La frustrazione interna la spinge all’aggressione esterna. Anna partecipa alle rapine e alle torture delle vittime perché è innamorata di Hans, il figlio dell’operaio di sinistra che a sua volta desidera solo Sophie la quale lo tratta come un suo trastullo e passatempo. E’ abituata a giocare con tutto e con tutti, addirittura con l’assassinio, e non ha nulla da temere, la sua famiglia riuscirà sempre a tirarla fuori da qualsiasi situazione. Per Hans, Anna è un palliativo, lui punta a Sophie, così diversa».
Lei ha denunciato le carenze dell’Europa e un orientamento politico sempre più restrittivo nei confronti di migranti e di rifugiati. Vale anche per le scelte dell’attuale cancelliere austriaco, nonché presidente di turno della Ue, Sebastian Kurz, deciso a limitare il flusso migratorio verso l’Europa?
«Questo “orientamento” finora è costato la vita a migliaia di persone. Mai avrei immaginato di dover assistere a quanto sta accadendo ora in Italia, dove non si permette l’attracco alle navi di soccorso e si sostiene che i soccorritori saranno perseguiti. Emergono nuovamente le vecchie alleanze fasciste, esattamente come tra Mussolini e il cancelliere Dollfuss, entrambi fascisti e clericali. Mi ha sorpreso anche la déblacle della sinistra europea, sempre più screditata e con sempre meno presa sul territorio. Purtroppo gli elettori votano spesso contro i loro stessi interessi. Invece di difendersi dalla loro progressiva emarginazione si adeguano alla propaganda dei politici di estrema destra che usano i rifugiati e i richiedenti asilo come capri espiatori e li additano quasi fossero la più grande minaccia del mondo. Gli elettori si stanno dando da soli la zappa sui piedi perché anche in Austria i diritti politici per i quali ci si è strenuamente battuti vengono progressivamente smantellati. Al contrario di quanto avviene in Germania dove si ha un diverso atteggiamento. Forse perché consapevoli del terribile passato. Ma la cancelliera Angela Merkel oggi viene continuamente screditata e la destra estrema sta guadagnando sempre più terreno. E tutto questo si verifica anche in Ungheria, che procede in modo molto rigido e determinato, ma anche più a est, nella Repubblica Ceca e in Polonia, tutti paesi che si reggono su strutture autoritarie. Nessuno sembra poter porre rimedio a tutto ciò, visto che i partiti che sostengono queste posizioni sono arrivati al potere vincendo le elezioni. E sono sempre più collegati in rete tra loro. Sono molto preoccupata per le sorti dell’Europa. Con la crisi economica e la messa al bando dal mondo del lavoro e dal contesto sociale di un numero sempre più alto di persone, emergono sempre più tendenze criminali. Gli esclusi di ieri sono insomma uguali ai nuovi emarginati di oggi. A volte sono così disperata che vorrei soltanto mettermi a urlare, come un cane abbandonato».
Lei ha dichiarato spesso che la vita e la scrittura sono inconciliabili. La pensa così ancora oggi?
«Purtroppo è vero. In particolare per quanto riguarda le autrici. Devono portare troppi fardelli per essere libere di scrivere. Io, per esempio, non avrei mai avuto la forza per i bambini e per la scrittura. Non so cosa ne pensino oggi le giovani scrittrici. Alcune, probabilmente più che in passato, avranno l’energia, altre, come me, non l’hanno avuta».

Corriere 6.10.18
il sondaggio
Calo M5S, Lega vicina al 34%
di Nando Pagnoncelli


Cinque Stelle in calo, arrivano al 28,5 per cento. La Lega — secondo il sondaggio Ipsos — invece continua a rafforzarsi e ormai sfiora il 34%. Pd stabile al 17,1. Forza Italia al 7,8 per cento.
C ome avviene ogni mese, questa settimana ci occuperemo dell’andamento delle intenzioni di voto, della valutazione del governo, del premier e dei vicepremier. Se guardiamo alle intenzioni di voto, l’andamento dei dati segnala una sostanziale stabilità della Lega che, dalla ripresa autunnale, rimane su valori assai elevati, intorno al 34%; un affanno del M5S, oggi quotato al 28,5%, in flessione di 1,5 punti rispetto a un mese fa e di 3 punti rispetto a metà luglio; la conferma di Forza Italia nelle posizioni più basse registrate recentemente, intorno all’8%, in calo di poco meno di un punto rispetto all’ultimo dato pubblicato; la stabilità del Pd al 17%. Con riferimento a questo ultimo dato è utile sottolineare che in settembre abbiamo registrato un calo costante del partito, che una settimana fa si collocava al 15,5%. Evidentemente la manifestazione di domenica scorsa, l’impressione di relativa coesione tra i dirigenti, la visibilità mediatica, hanno contribuito a far crescere il consenso riportandolo alla media degli ultimi mesi.
La solida prevalenza della Lega si giustifica naturalmente con la preponderante presenza sui media del suo leader e con la capacità di centrare argomenti di vasto impatto: se il tema migranti è meno forte rispetto a quando si verificarono le vicende Aquarius e Diciotti (a ridosso del dato degli inizi di settembre) — anche se comunque vivo, basti pensare alla vicenda di Riace — a supporto del consenso leghista arriva il tema delle pensioni e di quota 100, molto sentito da una parte rilevante dell’elettorato, soprattutto tra i lavoratori del Nord, bacino principe del consenso leghista. L’affanno dei 5 Stelle è conseguenza di alcune difficoltà degli ultimi tempi, in particolare in relazione al decreto per la ricostruzione del ponte Morandi e alla nomina del commissario, conclusasi proprio in questi giorni, dopo un’attesa che ha creato malumori. Accanto a questo, contano anche alcune perplessità sul reddito di cittadinanza, che si amplificano nel Nord del Paese, dove la scelta viene vista come assistenzialistica.
Se analizziamo l’evoluzione della composizione degli elettorati dei due principali partiti, emerge che la crescita della Lega ha grande trasversalità, ma segnala alcuni punti di maggiore espansione: i titoli di studio medio/bassi, le età elevate, le casalinghe. È stato il processo di progressiva cannibalizzazione dell’elettorato classico di Forza Italia. Il M5S invece vede perdite più consistenti tra i ceti dirigenti e il lavoro autonomo, probabilmente proprio per il reddito di cittadinanza, e tra gli studenti, mentre mantiene e addirittura migliora di poco il proprio consenso tra ceti medi, operai, disoccupati.
Il gradimento del governo e del presidente del Consiglio si mantengono assai elevati, pur confermando il lieve arretramento registrato a luglio. Il governo ha un indice di 64 e galvanizza i propri elettori (indice di 92 tra gli elettori pentastellati, di 94 tra quelli leghisti), ma ottiene risultati lusinghieri anche tra chi vota FI (58). Solo gli elettori Pd sono decisamente critici (qui l’indice di approvazione scende al 14). Il premier Conte ha un indice ancora più elevato del governo (67), di nuovo plebiscitario tra gli elettori della maggioranza e più consistente rispetto all’esecutivo sia tra gli elettori di FI (62) sia tra quelli del Pd (22). Il segnale è quindi di un consolidarsi della luna di miele a oltre cento giorni dall’insediamento. Consolidamento che si fonda non solo sui provvedimenti, ma sul sentimento degli elettori, sul mutato clima del Paese.
Infine i due vicepremier, che confermano i valori di un mese fa: Salvini con un indice di 57 (identico a settembre); Di Maio con 52 (era 51 a settembre). Entrambi confermano il sostegno plebiscitario tra i propri elettori (97 l’indice di Salvini tra i leghisti, 93 quello di Di Maio tra i pentastellati). Il valore più elevato di Salvini è determinato dal consenso più ampio che conquista tra gli elettori di FI, dove riscuote un gradimento del 72, contro il 44 di Di Maio.
In sostanza, pochi cambiamenti, con l’eccezione della difficoltà per i 5 Stelle. È evidente che la distribuzione delle risorse nel Def sarà cruciale. Con un’avvertenza, come rileviamo da altri sondaggi. La tenuta dei conti rimane un tema rilevante per gli italiani, che si affidano al principio di precauzione .
Corriere 6.10.18
Centrosinistra, tra parrocchie e associazioni nasce Demos
di D. Mart.


Ci saranno anche l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e l’ex ministro Andrea Riccardi al battesimo di Demos- Democrazia solidale, il movimento che compie i primi passi oggi al Seraphicum di Roma con l’obiettivo — «se le condizioni lo consentono» — di diventare soggetto politico in vista delle amministrative e delle europee del 2019. Parrocchie, esperienze civiche, ong, associazioni legate al mondo protestante e a quello ebraico, consiglieri regionali e comunali (Piemonte, Veneto, Lazio, Marche e Campania), l’Azione cattolica, la Cisl, Alleanza democratica: «È la rete delle periferie — spiega l’ex viceministro degli Esteri Mario Giro che si è fatto le ossa alla scuola della comunità di Sant’Egidio — che condivide i problemi delle persone ma è anche la rete delle periferie della società civile tenuta ai margini dai partiti». L’area è il centro sinistra ma Democrazia solidale ritiene che molti temi siano bipartisan: le case popolari, l’immigrazione, le famiglie con malati cronici e terminali in casa, l’abbandono scolastico, gli anziani e l’Alzheimer. Davanti a questo «vissuto quotidiano, aggiunge Giro, non abbiamo il tempo di attendere le elucubrazioni nella battaglia tra capi e capetti del Partito democratico». E il discorso che oggi Gentiloni terrà per Democrazia solidale? «Gentiloni ha lo sguardo lungo e largo e sa che il Pd ha bisogno di alleati».

Il Fatto 6.10.30
Soldi agli anti-abortisti. A Verona c’è un sì del Pd
Approvata la mozione del Carroccio, a favore anche la capogruppo democratica
di Andrea Tornago


Soldi ad associazioni cattoliche anti-aborto, sostegno del parto in anonimato negli ospedali, proclamazione di Verona “città a favore della vita”. La città di Giulietta si schiera ufficialmente contro la legge 194 con la mozione del leghista Alberto Zelger, approvata dal consiglio comunale di Verona nella serata di giovedì tra polemiche e proteste. E il voto apre uno squarcio nel Partito democratico. Perché tra i 21 favorevoli (sei invece i voti contrari) c’è anche la capogruppo veronese del Pd, Carla Padovani, lasciata sola però dagli altri consiglieri Dem presenti che hanno votato contro e dai vertici del partito.
“Così non va. Non si procede con colpi di mano ideologici su temi così delicati – commenta il presidente della Regione Lazio e candidato alla segreteria del Pd, Nicola Zingaretti –. Non si rispetta la vita se non si rispettano le scelte delle donne, soprattutto quando sono difficili come lo è quella di interrompere una gravidanza”.
Il caso assume proporzioni nazionali e interviene anche il segretario dem Maurizio Martina: “La 194 non si tocca, la difenderemo sempre”.
La mozione, riesumata dagli ultimi punti all’ordine del giorno, finisce ai voti grazie e un blitz della maggioranza e prevede di destinare nel prossimo assestamento di bilancio un “congruo finanziamento” ad associazioni e progetti contro l’aborto. Come il progetto “Gemma” del Movimento per la vita, che prevede l’adozione a distanza (con 2880 euro) di donne intenzionate a interrompere la gravidanza, o il progetto “Chiara” del Centro diocesano aiuto vita. Oltre a imporre di tappezzare Verona di manifesti pubblicitari sul progetto regionale “Culla segreta”, che tutela il parto in anonimato negli ospedali con conseguente adozione immediata del bambino.
A colpire più di tutto però sono le motivazioni contenute nel testo della delibera. Secondo il leghista Zelger, per colpa della legge 194 oggi in Italia “manca all’appello una popolazione di 6 milioni di bambini che avrebbero impedito il sorgere dell’attuale crisi demografica”. Mentre la diffusione della pillola abortiva RU486 avrebbe causato una “crescita degli aborti” e diffuso una “cultura dello scarto”.
La mozione era già stata presentata a Palazzo Barbieri lo scorso 27 luglio, ma la seduta si era interrotta prima della discussione in seguito al parapiglia causato dal gesto di un consigliere della lista Battiti (quella del sindaco Federico Sboarina), Andrea Bacciga. Alle attiviste di “Non una di meno”, arrivate in aula per protestare vestite come le “incubatrici viventi” della serie tv The Handmaid’s Tale, Bacciga aveva rivolto il saluto romano. È finito indagato dalla Procura di Verona per l’articolo 5 della legge Scelba, che punisce chi “partecipando a pubbliche riunioni compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista”.
Non passa invece la mozione collegata, sempre a firma Zelger, che prevedeva la sepoltura automatica dei feti: oltre a stabilire la celebrazione della “Giornata internazionale dei bambini mai nati” per il 15 ottobre, avrebbe dovuto dedicare alla sepoltura dei feti un’area del cimitero comunale vicino a un monumento già esistente dedicato proprio ai “non nati”.
Non è stato inserito nell’ordine del giorno per paura di defezioni nella maggioranza, dove crescevano i mal di pancia. Dura la reazione di M5S, Sinistra in Comune e Cgil: “Verona torna al Medioevo”.

La Stampa 6.10.30
Legge 194
Quarant’anni fa veniva legalizzato l’aborto in Italia
di Flavia Amabile

Era il 22 maggio 1978 quando , dopo anni di aspre battaglie fu approvata la legge 194 che riconosce alle donne il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza. Prima l’aborto era considerato un reato, le donne che avevano necessità di non portare avanti una gravidanza dovevano rivolgersi a strutture clandestine, con seri rischi per la propria vita.
Quarant’anni dopo la legge ha raggiunto alcuni dei suoi obiettivi. Le interruzioni volontarie di gravidanza, sono più che dimezzate. Ma è aumentata la pressione dei movimenti antiabortisti, il numero di medici obiettori che ha raggiunto la cifra record del 70% rendendo del tutto impossibile in alcune regioni esercitare il diritto di effettuare un aborto. La legge 194 si presenta quindi sempre meno applicata e sta di nuovo aumentando la richiesta di aborti clandestini.

Repubblica 6.5.18
L’analisi
Se Verona diventa città anti aborto
di Michela Marzano


Verona è una "città a favore della vita", recita la mozione della Lega votata ieri notte in consiglio comunale anche dalla capogruppo del Pd, e sostiene le attività delle associazioni Pro-Life. Un attacco frontale alla legge 194 del 1978 che legalizzò l’aborto. Come se tutti coloro che per anni si sono battuti affinché anche in Italia fosse riconosciuta alla donna la possibilità di interrompere una gravidanza nelle strutture pubbliche e gratuitamente fossero dei ferventi sostenitori di una "cultura della morte". E fosse meglio tornare alla clandestinità, quando erano numerose le donne che morivano sotto i ferri delle "mammane". Viene da chiedersi se dietro questa decisione ci sia ignoranza o malafede, oppure entrambe le cose. Visto che ormai sappiamo da tempo che in molte regioni italiane, dato l’alto numero di medici obiettori, è complicato, talvolta impossibile, accedere all’interruzione volontaria di gravidanza, e che dietro le iniziative portate avanti dai movimenti Pro-Life si nasconde spesso, dietro la difesa del "valore della vita", un’intolleranza profonda nei confronti della fragilità della condizione umana. Tutti vorremmo un mondo in cui, quando si desidera un figlio, ci si ritrova poi immediatamente incinta o, quando non si è pronti ad accoglierlo, la gravidanza non arriva. La realtà, però, è molto più complessa e drammatica: c’è chi aspetta per anni quel bambino che non arriverà mai e chi, invece, vive la gravidanza come una condanna, e quindi non può, non vuole o non ce la fa a diventare madre – ma chi siamo noi per giudicare un’altra persona? Che ne sappiamo di quello che ha potuto vivere, o vive, una donna che decide di abortire? Il problema di alcune associazioni cattoliche è voler imporre a tutti la propria visione del mondo, come fosse sempre evidente sapere cosa è "bene" e cosa è "male", quello che si deve fare e quello che si deve evitare. E allora non esitano a schierarsi contro la fecondazione eterologa, nonostante siano a favore della vita, oppure contro l’aborto, nonostante il rischio di chi abortisce nell’illegalità sia proprio quello di morire. Questa idea secondo cui le cose sarebbero semplici – la famiglia naturale l’unica famiglia possibile, l’eterosessualità la norma e la vita sempre e solo una benedizione – si scontra tuttavia contro la realtà dell’esistenza. E rischia solo di generare dolore supplementare. Ma se fino ad ora i Pro-Life non se ne sono resi conto, forse è davvero impossibile convincerli. Quello che stupisce in questa vicenda non è tanto la mozione della Lega – in perfetta linea con le posizioni di Lorenzo Fontana, attuale ministro della Famiglia ed ex vicesindaco di Verona – quanto la posizione della capogruppo del Pd che, invece di difendere l’autonomia femminile e battersi contro l’inevitabile discriminazione di tutte coloro che già oggi sono costrette a spostarsi da una regione all’altra per abortire, approva di fatto un passo indietro del nostro Paese in termini di diritti. Forse ha dimenticato quanto scrisse Simone de Beauvoir, nel 1949, parlando appunto dell’interruzione di gravidanza: «Gli uomini si contraddicono con uno stolido cinismo; ma la donna sperimenta queste contraddizioni nella sua carne ferita […] pur considerandosi vittima di un’ingiustizia, si sente contaminata, umiliata; è lei che incarna sotto forma concreta e immediata, in sé, la colpa dell’uomo».

Il Fatto 6.10.30
Il ritiro dei soldati? Fatti, non annunci
Difesa - Il ministro Trenta replica al “Fatto” (che risponde) sulle missioni all’estero
di Elisabetta Trenta

ministro della Difesa

Gentile Direttore, ho letto giovedì, con rammarico, l’articolo di un suo giornalista, Toni De Marchi, circa l’entità delle riduzioni che il governo attuerà nei confronti dei nostri contingenti all’estero, nell’ambito del decreto missioni. Non ho alcuna intenzione di sollevare polemiche, né di giudicare l’opinione del giornalista quando confronta l’operato della mia amministrazione con gli annunci di chi mi ha preceduto. È legittima e per questo la rispetto, d’altronde chiunque è libero di confondere le parole, con i fatti. Ma mi permetta, questo sì, di segnalarle le informazioni inesatte contenute nell’articolo, che ahimè certificano la scarsa conoscenza della materia da parte del redattore. Ce ne sono diverse, per le sue valutazioni.
Mi si accusa che “la sostanza assomiglia a una fake news”, mentre la sostanza corrisponde invece a verità, perché è un fatto che 100 nostri soldati rientreranno realmente dall’ Afghanistan e 50 dall’Iraq. Per quanto riguarda l’Afghanistan, il giornalista afferma che in sede di approvazione del decreto missioni per il 2018 il precedente Governo aveva annunciato il ritiro di 250 uomini tra Kabul ed Herat. Al mio insediamento, le assicuro che non era stata effettuata alcuna riduzione. Per quanto attiene la missione in Iraq, stesso discorso.
Gli annunci (di chi mi ha preceduto) e i fatti. Non solo ho disposto nel prossimo decreto missioni la riduzione di 50 militari da Mosul, ma ho previsto e comunicato il ritiro completo del contingente nazionale schierato presso la diga entro il primo trimestre del 2019.
Infine il Niger: si fa riferimento a un mio presunto viaggio che, evidentemente, deve essermi sfuggito. Posso certo dirle che mi farebbe piacere visitare il Paese ma, ad oggi, non ho ancora avuto occasione di farlo. Dimenticavo: viene citato un mio post su Facebook in cui avrei annunciato il dispiegamento di 470 uomini ma, può constatarlo personalmente, nel post non cito alcun numero. Mi permetto di puntualizzarle anche che la consistenza media dei nostri militari operanti all’interno della missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger, per il 2018 non supererà le 70 unità. E di sottolineare che una missione bilaterale si sviluppa per l’accordo stabilito tra il Governo italiano e quello nigerino e non per supportare, come riportato nell’articolo, operazioni statunitensi o francesi.
È un fatto, sostiene il ministro, che nel prossimo decreto ci saranno riduzioni dei contingenti italiani all’estero. Ma, al momento, non è un fatto: il decreto che avrebbe già dovuto essere alle Camere, ancora non c’è. Il ministro aggiunge: “Al mio insediamento, le assicuro che non era stata effettuata alcuna riduzione”. Chi sostiene il contrario? La riduzione doveva ovviamente avvenire dopo il 30 settembre, alla scadenza del decreto missioni in vigore. Per quanto riguarda il Niger: su Facebook non ha dato numeri, ma ha detto “abbiamo sbloccato la missione”. La missione è di 470 militari: è scontato fossero quelli, altrimenti avrebbe dovuto informarne le Camere. È un fatto che M5S votò contro la missione nigerina che oggi lei rivendica: Di Maio la criticò il 6 febbraio alla Link Campus e aggiunse che era necessario il ritiro completo dall’Afghanistan.

il manifesto 6.10.30
Nadia e Denis: il Nobel contro la guerra sui corpi delle donne
Pace. Il premio alla vittima yazida Murad e al ginecologo congolese Mukwege. Da anni impegnati contro la violenza sessuale e l’uso dello stupro nei conflitti: lui ha curato 50mila vittime, lei si batte per la tutela del popolo yazidi
di Chiara Cruciati


Una vittima e un medico, due persone che da anni si battono contro la violenza sessuale e lo stupro come arma di guerra: sono i due vincitori del premio Nobel per la pace, Nadia Murad e Denis Mukwege.
La prima, 25 anni, la seconda più giovane premiata dal comitato norvegese dopo Malala, è dal 2015 il volto del genocidio del popolo yazidi in Iraq; il secondo, ginecologo di 63 anni, ne ha trascorsi quasi 20 a curare le ferite di almeno 50mila vittime di stupri in Congo, nell’ospedale Panzi a Bukavu.
Due luoghi distanti, Iraq e Repubblica democratica del Congo, ma universali come la battaglia che i due vincitori portano avanti e che coinvolge l’intero pianeta: «Hanno messo la loro sicurezza personale a rischio per combattere con coraggio crimini di guerra e garantire giustizia alle vittime», scrive il comitato del Nobel. «Hanno aiutato a dare enorme visibilità alla violenza sessuale in tempo di guerra, così che i responsabili possano essere giudicati per le loro azioni».
L’impegno di Mukwege è di lungo corso: da anni lavora nell’ospedale che ha fondato al confine con Burundi e Ruanda, 10 operazioni al giorno, 3.500 pazienti l’anno in una terra devastata dai conflitti armati tra milizie. È qui che «dottor Miracolo» ha aiutato 50mila donne a superare le cicatrici fisiche e psicologiche degli abusi subiti tramite ricostruzione chirurgica, supporto socio-economico e sostegno legale.
Il medico congolese Denis Mukwege (Foto Afp)
Quello di Nadia è iniziato il giorno della sua liberazione: catturata ad agosto 2014 dai miliziani dello Stato Islamico nel villaggio di Kocho, a Sinjar, nell’ovest dell’Iraq, con altre 6mila donne yazidi, è passata di mano in mano, venduta al mercato degli schiavi e sottoposta a stupri continui, pestaggi, abusi.
È riuscita a fuggire il novembre successivo, per ritrovarsi da sola: i suoi fratelli e i suoi genitori sono stati uccisi nell’attacco dall’Isis a Sinjar, otto delle oltre 5mila vittime del genocidio. Da allora gira il mondo per chiedere giustizia e protezione per il popolo yazidi: è stata accolta dall’Europarlamento che le ha assegnato il premio Sakharov per la libertà di espressione, dall’Onu di cui è diventata ambasciatrice, in Vaticano.
Entrambi, Nadia e Denis, sono portatori di una denuncia più ampia: l’uso dello stupro come arma di guerra e frammentazione delle comunità. Perché, come spiega Mukwege, le violenze in Congo avvengono spesso in pubblico contro giovani donne: una precisa strategia di sfaldamento dei legami sociali che nella yazidi Sinjar si è tradotta nella violazione di donne e bambini e la loro riduzione in schiavitù con l’obiettivo di impedire la ricostruzione comunitaria.
La decisione del comitato norvegese è stata apprezzata ovunque. Al plauso delle organizzazioni per i diritti umani, da Human Rights Watch al Norwegian Refugee Council, si è aggiunto quello di numerosi governi e dell’Onu che ha salutato con entusiasmo i due vincitori nelle dichiarazioni ufficiali del segretario generale Guterres e della neo commissaria ai diritti umani Bachelet.
Si congratulano anche Kinshasa e Baghdad, nonostante le critiche mosse dai due neolaureati ai rispettivi governi. Con quello congolese Mukwege non ha avuto vita facile per aver accusato l’esercito di perpetrare la cultura della violenza sessuale.
La giovane yazida Nadia Murad (Foto Afp)
Con quello iracheno Murad non ha avuto rapporti: dopo la liberazione dal giogo islamista nel novembre 2015 da parte di peshmerga e unità curdo-siriane legate al Pkk, Baghdad ne ha riassunto il controllo solo un anno fa.
Ma nulla è stato fatto: la maggior parte degli yazidi sfollati vive ancora nei campi nel Kurdistan iracheno e chi è tornato non ha trovato che macerie e fosse comuni. Nessuna ricostruzione né protezione internazionale, quella che Nadia chiede a gran voce da anni.
Lo fece anche due anni fa di fronte al parlamento europeo insieme a Lamiya Bashar, altra giovane yazida con cui ha condiviso identica sorte. In abiti tradizionali, con la voce ferma ma lo sguardo spento dal dolore, Nadia puntò il dito contro gli scranni che le stavano applaudendo: «Chi di noi si è liberata lo ha fatto da sola, senza alcun aiuto. Dopo due anni non è stato ancora messo in piedi un effettivo sostegno internazionale. Promettete che farete giustizia. Promettete che non accadrà più». Un grido rimasto chiuso a Strasburgo.

il manifesto 6.10.30
Camusso spingerà Landini: Cgil pop per allargare la base
Corsa al vertice, lunedì l’investitura
Camusso spingerà Landini: Cgil pop per allargare la base
di Salvatore Cannavò


“Al punto in cui è arrivata non può più tornare indietro”, dice un dirigente Cgil che segue da vicinissimo il dossier. A meno di colpi di scena, quindi, lunedì sera alla segreteria del più grande sindacato italiano Susanna Camusso proporrà alla propria successione Maurizio Landini, ex segretario Fiom, il sindacalista forse più conosciuto a livello di massa. Non sarà una scelta facile, perché la Cgil non ama dividersi. E scontenterà l’altro candidato di fatto alla corsa per la leadership, Vincenzo Colla, la cui intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa è stata letta da tutti come un’autocandidatura. Landini finora ha scelto un profilo basso, senza dichiarazioni ufficiali, cogliendo tutte le opportunità di ricucire con colei che, fino a ieri, era un suo avversario interno. Si ricorda ancora, infatti, l’inserzione a pagamento sull’Unità con cui l’allora segretario della Cgil lombarda, Nino Baseotto, attaccava Landini per l’eccessivo uso di tv e giornali. Oggi Baseotto, responsabile organizzativo della Cgil, è uno dei suoi principali sponsor.
Cosa è successo nel frattempo? La Cgil ha attraversato gli anni della segreteria Camusso cercando di fronteggiare un terremoto politico e sociale. La più grave crisi economica, iniziata nel 2008, due anni prima dell’elezione dell’attuale segreteria, un attacco furibondo al sindacato, “portato non dai nemici ma da quelli che si pensava fossero gli amici” commentano nell’entourage di Camusso, lo scompaginamento del quadro politico con l’emersione di forme di anti-politica e anti-sindacato. Il culmine della trasformazione è stato lo scontro con Matteo Renzi su Jobs Act e Referendum costituzionale, con la Cgil nettamente schierata da una parte e con una spaccatura interna, non esplicitata, da parte di coloro che non volevano recidere li rapporto con il Pd. Ma lo schema del sindacato fiancheggiatore del partito salta in quella fase e Camusso rivede l’intera strategia. Al sindacato, così, si presentano due ipotesi: “Ricostruire un riformismo dall’alto, dice chi ascolta le analisi di Camusso, basato sulla vecchia concertazione oppure un riformismo dal basso che guarda al rapporto con il precariato e i nuovi lavori”. E che faccia i conti anche con la nuova politica. Maurizio Landini sembra poter assicurare questa prospettiva.
L’idea iniziale di Camusso, in realtà, era un’altra e puntava sul ricambio generazionale. La sua candidata, fino a qualche settimana fa, era la segretaria della Funzione pubblica, la quarantenne Serena Sorrentino. Ma, a opporsi con nettezza a questa scelta è stato il sindacato dei Pensionati, diretto da Ivan Pedretti, principale sponsor di Vincenzo Colla. Il quale interpreta quello che nella ricostruzione precedente è “il riformismo dall’alto”, un’impostazione più tradizionale che guarda al rapporto con gli industriali e alle evoluzioni del Pd partito a cui, comunque, Colla non è iscritto. Un’idea di “consociativismo” tosco-emiliano che, nell’analisi che fa Camusso, è ormai superato, non esiste più. Per questo ha più forza l’ipotesi Landini. Anche se con Colla sembrano essere schierati i Pensionati, gran parte di Chimici, Edili, Trasporti e altri settori, Landini sembra poter offrire una prospettiva più solida alla Cgil e comunque, dice chi lo sostiene in questa corsa, “dubito che l’Emilia sia compatta su Vincenzo Colla, basti guardare a Bologna, Reggio Emilia, Rimini o Imola”.
Qualora la segreteria decidesse l’endorsement per Landini non sarà all’unanimità. Colla non si ritirerà sapendo che la decisione finale spetta all’Assemblea nazionale che sarà eletta dal congresso di gennaio. Quindi da una votazione del gruppo dirigente più ristretto.
Lo scontro si manifesta anche in altri particolari: a Camusso si contesta il diritto di dare indicazioni sul successore richiamandosi al precedente di Bruno Trentin, dimissionario nel 1993 che rifiutò di scegliere la successione. “Ma Trentin si dimise, non arrivò a scadenza naturale”, dicono gli altri, “chi avrebbe mai contestato a Luciano Lama di indicare Antonio Pizzinato?”.
Sullo sfondo resta la politica che stavolta ha un ruolo secondario anche se dietro Colla si schierano quelli che guardano al Pd. Landini, invece, nel rapporto con la politica promette “conflitto e contrattazione” e quindi può confrontarsi anche con il M5S o fronteggiare la Lega: “Sa quante litigate in spiaggia ho fatto la scorsa estate con chi va dietro a Salvini?”, diceva l’interessato al cronista alla festa del Fatto. Il problema degli iscritti che votano 5Stelle o Lega al nord è ormai rilevante e Landini, con la sua forza mediatica, può riallacciare i fili strappati pur essendo tutto interno alla sinistra. Non è un caso se viene consultato frequentemente da chi nel Pd, come Andrea Orlando, sta lavorando alla segreteria Zingaretti.

Repubblica 6.10.18
A sinistra vive un finto Keynes
di Marco Ruffolo


C’è una ragione più profonda dell’anti-piddismo che ha convinto una parte della sinistra a disertare domenica scorsa la pur riuscita manifestazione del Partito democratico a Roma, la prima contro l’esecutivo pentaleghista. Ed è che in realtà la manovra annunciata dal governo non dispiace affatto a quella sinistra, che anzi vi scorge il primo successo di una sfida venuta da lontano, la Guerra Santa ai governi dell’austerità. Quel guanto di sfida del 2,4% lanciato in faccia ai tecnocrati di Bruxelles non può infatti non rievocare il coraggio della rivoluzione keynesiana contro l’ortodossia neoclassica. Dietro l’ostinazione del governo ad alzare l’asticella del disavanzo, si staglia proprio il mito di Keynes. Del resto, già da tempo i folti baffoni di Lord John Maynard hanno sostituito la barba ribelle di Karl Marx nell’immaginario di una certa sinistra. Eppure c’è da scommettere che né l’uno né l’altro avrebbero apprezzato un amore così virulento da diventare idolatria. E si sa che in tutte le idolatrie il pensiero originario finisce esposto nella cristalleria degli stereotipi, dove l’intelligenza cede spazio alla banalità, l’apertura mentale al catechismo. Keynes, in particolare, non avrebbe mai sopportato di diventare prigioniero della propria caricatura. Le sue erano tutt’altro che regole automatiche. L’economista britannico era ben attento alla composizione di quella spesa pubblica in deficit che suggeriva in via temporanea ai Paesi in situazione di scarsa domanda. Era ben consapevole che i " moltiplicatori" con cui la spesa crea più reddito sono condizionati da elementi strutturali per nulla trascurabili. E poi la sua analisi non doveva fare i conti con debiti pubblici colossali come quello italiano.
Intendiamoci, il paradigma dominante contro cui Keynes combatteva – quello secondo cui il mercato è in grado di autoregolarsi e lo Stato deve astenersi dall’intervenire – è tuttora vivo e vegeto sia pure in modalità diverse. Da quella fede liberista continuano a scaturire idee sbagliate come " l’austerità espansiva" che in nome del pareggio di bilancio, in anni di crisi, invece di ridurre il debito ha massacrato il Pil. Un’idea che avrebbe contrariato non poco il grande economista britannico, così come lo avrebbe indignato una politica fiscale Ue ridotta a un pugno di parametri matematici. Ma di fronte a questa gabbia ideologica, la sinistra radicale, subito imitata dal movimento grillino, risponde costruendo una seconda gabbia altrettanto ideologica dove comprime, deformandoli, gli insegnamenti di Keynes, pensando che basti fare un bel po’ di deficit in più per rimettere in moto l’Italia. In questa semplificazione, un identico giudizio negativo chiama in causa sia chi sostiene le regole più stringenti dell’ortodossia Ue, sia chi cerca di strappare a quell’ortodossia qualche margine di flessibilità, sapendo che se supera un certo livello di deficit, il rischio non sarà tanto la bocciatura da parte di Bruxelles ma quella dei mercati, che alzeranno i tassi a danno dei più deboli. Tra gli uni e gli altri non c’è differenza per i sacerdoti del catechismo keynesiano: sono tutti accomunati dall’etichetta infamante del neoliberismo, che li rende servi delle lobby finanziarie e dei burocrati di Bruxelles. Anche chi obietta che per fare più investimenti occorrono amministrazioni funzionanti diventa subito un nemico dello Stato. Eccoci al punto centrale: gli investimenti pubblici. Cosa penserebbe Keynes se, tornando dall’al di là dopo settantadue anni, arrivasse in Italia e si accorgesse che Stato, Regioni e Comuni non sono in grado di investire, e non perché manchino le risorse ma perché non c’è capacità progettuale, perché la sovrapposizione di competenze e la burocrazia rallentano in misura abnorme la loro esecuzione? È molto probabile che condizionerebbe la sua ricetta a una profonda riforma dello Stato. Senza la quale il " moltiplicatore degli investimenti" si trasformerebbe nel suo opposto. Quando viene stanziata una somma per costruire un’opera pubblica, e passano tre anni per il relativo bando e poi altri quattro ( se va bene) per l’apertura del cantiere, è evidente che invece di moltiplicare il reddito, quello stanziamento in deficit creerà solo debito. Se poi l’economista britannico si accorgesse che nella manovra italiana quasi tutto il nuovo deficit non è destinato agli investimenti ( meno di un decimo) ma a maggiori spese correnti (dal reddito di cittadinanza allo stop della Fornero), a moltiplicarsi sarebbe solo il suo scetticismo.
Volgendo lo sguardo oltre l’Atlantico, basterebbe poco a Keynes per concludere che il Paese più keynesiano del mondo è l’America. Sì, proprio gli Stati Uniti, considerati la patria del liberismo più spinto, ma che di fronte all’ultima grande crisi hanno impresso un’accelerazione alla spesa pubblica molto più forte e duratura di quella dell’Eurozona. Lo ha reso possibile un governo federale che funziona, con dirigenti valutati secondo il merito, che agiscono come manager privati ma nell’interesse pubblico, con obiettivi chiari, con poche sovrapposizioni di competenze, con politiche controllate sistematicamente dal Congresso. Tutto il contrario di quanto succede da noi.
Ma questa disamina di come e a quali condizioni uno Stato riesce ad accelerare la crescita, non interessa affatto alla schiera dei " neokeynesiani adoranti": per loro basta solo azionare qualche leva. Qualunque cosa ostacoli questo meccanismo ultrasemplificato in cui hanno trasformato il pensiero di Keynes, finisce appiattito sullo sfondo del liberismo da combattere: le regole di bilancio, le riforme, la stessa moneta comune. E proprio nella insofferenza verso l’euro si crea un terreno di incontro ancora più ampio: quello tra il radicalismo di sinistra e grillino e il sovranismo della destra leghista. Visto da sinistra, l’euro diventa la testa d’ariete del neoliberismo dominante; visto da destra è la spada che recide ogni anelito di sovranità nazionale. Le analisi sono diverse, il nemico è lo stesso. Una convergenza inedita tra quelli che Keynes chiamava da una parte «i duri-a-morire dell’estrema destra » e dall’altra « il partito della catastrofe della sinistra laburista, che odia e disprezza le istituzioni esistenti, convinto che il solo rovesciarle sia la premessa necessaria a qualcosa di buono » .

Repubblica 6.10.18
Gli ultimimarxisti-leninisti d’Europa
In Portogallo la notizia della morte del Partito comunista è quantomeno esagerata: il Pcp resta fedele alla linea
Stiamo per compiere 98 anni e non abbiamo mai rinunciato ai nostri ideali poilitici
Bisogna adottare le armi migliori in base alla propria realtà
di Javier Martin Del Barrio


La caduta del muro di Berlino e la scomparsa dei referenti internazionali non hanno intaccato il marchio del comunismo lusitano. Marxista, leninista, patriottico e internazionalista, il Partito comunista del Portogallo vive la sua epoca più gloriosa. Il suo gruppo parlamentare ( assieme a quello del Blocco di sinistra) tiene in piedi il Governo socialista, nonostante faccia una «politica di destra » . Per alcuni il Pcp è un’anomalia del XXI secolo; per altri fa parte dell’identità del Paese. Sia come sia, né il corso della storia né la comparsa di nuovi partiti a sinistra sono riusciti a rimuoverlo dalla scena.
Decine di migliaia di persone agitavano le loro bandiere, in maggioranza rosse con la falce e martello, alla chiusura dell’ultima festa del Pcp. Tuonava Jerónimo de Sousa: «È il capitalismo e la sua natura sfruttatrice, oppressiva, predatoria e aggressiva che sono all’origine dei gravissimi problemi che affliggono l’umanità » . Il segretario generale, esattamente come 98 anni fa, quando fu fondato il Pcp, conosce la causa di tutti i mali: «È dal capitalismo che nascono le crisi economiche, i conflitti, le guerre e le atrocità che pesano sul pianeta».
Non bisogna far altro che leggere la maggior parte dei saggi pubblicati per sapere che la filosofia di Marx, Lenin e de Sousa è più viva che mai. La realtà della mappa geopolitica, tuttavia, si ostina a contraddire questa visione. Se nel 1964 Krusciov promosse una conferenza mondiale con i 26 Paesi comunisti del mondo, oggi si potrebbe convocare la stessa riunione in una Smart e rimarrebbe spazio per stendere le gambe. Con i partiti comunisti di Cina, Vietnam, Laos e Cuba che riconoscono la proprietà privata e il libero scambio, rimane la Corea del Nord a custodire i fondamentali dell’ideologia.
Sull’onda di questa deriva storica, i partiti comunisti si sono progressivamente distaccati dall’ideologia originaria o hanno rinnegato il loro stesso nome. Non è andata così in Portogallo. « Stiamo per compiere 98 anni e non abbiamo mai rinunciato al marxismo-leninismo » , chiarisce Manuel Rodrigues, direttore dell’Avante!, organo ufficiale dei comunisti. I loro compagni francesi, italiani e spagnoli negli anni 70 abbracciarono l’eurocomunismo; nel 1991 il collega angolano del Pcp, l’Mpla, passò all’Internazionale socialista di Soares e González. «Ogni partito fratello deve adottare le armi migliori per confrontarsi con le realtà del suo Paese», afferma Rodrigues.
L’Avante! arriva tutte le settimane nelle edicole con una tiratura media di 14.000 esemplari, una cifra invidiabile per la maggior parte delle pubblicazioni portoghesi. Dal 1931, l’anno in cui fu fondato, è sempre stato pubblicato e nonostante i 40 anni di dittatura è sempre stato stampato nel Paese, caso unico al mondo. « Ora veniamo da quattro decenni di politiche di destra e siamo dominati ancora una volta da gruppi monopolistici imperialisti » , avverte il direttore, nonostante il suo partito appoggi il Governo socialista.
Il Pcp ebbe il suo momento migliore nel 1975, alle prime elezioni libere dopo la Rivoluzione dei Garofani, quando conquistò il 12,4% dei voti. La recente festa del partito, su terreni di sua proprietà, acquisiti tramite una colletta popolare, certifica che anche ora non se la passa male. Oggi il Pcp ha quattro punti in meno ( 8,25 per cento) rispetto a 43 anni fa. I suoi 15 seggi nell’Assemblea della Repubblica sono gli stessi che nel 1991. Alle ultime Europee ha avuto più voti ( il 12,6%) che in quelle del 1987. Alle comunali sfiora il 10%, sette punti in meno che nel 1976, e può contare su 24 sindaci contro i 37 di 40 anni fa. Se i tempi stanno cambiando, per il Pcp si può dire che cambiano poco. « È un caso peculiare, come quelli di Cipro, Grecia e Finlandia » , spiega José Pacheco Pereira, storico, ex deputato e saggista.
Come sono riusciti i comunisti portoghesi a restare in sella? La forza del Pcp si concentra nella cintura industriale di Lisbona e nel mondo rurale dell’Alentejo, la vasta regione nel centro-sud. «Álvaro Cunhal — segretario generale dal 1961 al 1992 — capì che se avesse seguito la strada degli altri avrebbe perso il predominio in quei settori senza guadagnare nulla nei nuovi, in particolare servizi, banche o giovani. Con il sindacato Cgtp è riuscito a ritardare i cambiamenti nell’industria e con il controllo dell’impiego rurale è riuscito a trincerarsi nell’Alentejo », dice Pacheco Pereira.
Non che in questi anni non ci abbia provato nessuno a prendersi lo spazio del Pcp. Nel 1999 la nascita del Blocco di sinistra, che metteva insieme ex comunisti e gruppuscoli marxisti, spinse a preconizzare, una volta di più, la morte del Pcp. Contribuiva ad avvalorare la previsione il fatto che il Blocco disponesse di volti più giovani, un marketing migliore e un discorso maggiormente in linea con i tempi, più femminista e più urbano. I comunisti rivendicarono i fondamentali ideologici e la tradizione. A differenza dei bloquistas, il Pcp è a favore degli spettacoli taurini, contro l’utero in affitto e contro l’eutanasia. In Europa, ha votato assieme alla destra più destra contro le sanzioni all’Ungheria di Orbán, perché non gli piacciono le ingerenze dell’Unione europea in un Paese sovrano ( i comunisti portoghesi non hanno mai condannato l’invasione sovietica della Cecoslovacchia).
Questo orientamento non fa breccia nell’elettorato comunista. Dopo due decenni che si contendono la stessa fetta di torta, il Blocco ha due punti in più alle politiche, ma il Pcp è avanti alle Europee ( di otto punti) e alle comunali ( di sei). « Al Blocco mancano due cose del Pcp», afferma Pacheco Pereira. «La base locale e i sindacati. Vent’anni dopo la sua nascita continua a non averli e alla fine riesce a grattare via voti più ai socialisti che ai comunisti. In ogni caso, l’incontestabile processo di decadenza del Pcp passa per l’invecchiamento del suo elettorato rurale e per la perdita di forza dei suoi sindacati». Però la morte annunciata è stata già posticipata varie volte.


Il Fatto 6.10.18
Scuola, i sindacati: poche risorse per gli insegnanti


Polemiche per gli stipendi della Pubblica amministrazione (con tanto di appello al ministro Giulia Bongiorno) e anche per quelli degli insegnanti: ieri i sindacati, Flc Cgil in testa, hanno criticato la nota al Def per la scarsa programmazione economica sulla scuola. “Il contratto Istruzione e Ricerca firmato pochi mesi fa per il triennio 2016-2018 è già scaduto e ora occorre rinnovarlo per il triennio 2019-2021. A tal fine è necessario che la legge di Bilancio per il 2019, che sta per essere varata dal governo, contenga le risorse necessarie. Però da quanto emerge leggendo il Def, ovvero il Documento di Economia e Finanza, sembrerebbe che non vi sia alcuno stanziamento per rinnovare i contratti dei lavoratori pubblici e questo nonostante si preveda una manovra economica di oltre 21 miliardi. Non solo non vi è alcuno stanziamento per avvicinare almeno in parte gli stipendi italiani a quelli dei colleghi europei, ma non vi sono neanche le risorse per garantire il potere d’acquisto delle retribuzioni rispetto all’inflazione per il triennio 2019-2021. Anzi, nel Def è scritto chiaramente che i redditi da lavoro dipendente della Pubblica amministrazione si ridurranno dello 0,4% in media nel biennio 2020-2021.

Corriere 6.10.18
No ai domiciliari per Verdiglione «Fatemi tornare a scrivere libri»
Milano, il filosofo ha perso 24 chili in un mese
di Elisabetta Andreis


MILANO Armando Verdiglione, 73 anni mal portati, parla con un filo di voce dalla sedia a rotelle, ormai magrissimo. Nel suo primo mese di detenzione per la condanna definitiva su reati commessi dal 2003 al 2010 — da Opera è stato da trasferito al reparto penitenziario dell’Ospedale San Paolo — ha perso 24 chili. Il perito di parte che l’ha visitato ieri ha scritto nero su bianco che la sua condizione psicofisica «non è compatibile con l’ambiente carcerario». E gli avvocati (Lucio Lucia, Andrea Orabona e Stefano Pillitteri) rilanciano ancora la richiesta di detenzione domiciliare per età avanzata e salute precaria, già rigettata tre volte. Ma lui non sopporta l’idea di essere dipinto come un anziano debole, tantomeno intende «fare quello che muove a compassione». Con lo sguardo battagliero ben noto all’ambiente della cultura (e della magistratura), pure in un sussurro scandisce bene le parole: «Chiedo mi vengano concessi i domiciliari perché da casa posso continuare a scrivere i miei libri, incontrare intellettuali. Posso ancora dare un contributo alla cultura. E inoltre vorrei stare vicino a mia moglie che è malata di tumore».
Poi, sapiente, il professore allarga il discorso, da sé agli altri: «Nel nostro Paese le misure alternative al carcere sono utilizzate troppo poco. In queste settimane, mentre la manovra di bilancio faceva tanto clamore, passava sotto silenzio il via definitivo del Consiglio dei ministri ai decreti di riforma del sistema penitenziario. In pratica si affossa la legge delega che provava a estendere quelle misure. Non si doveva fare, e lo dico a prescindere dal mio caso, dalla mia età, dal mio stato di salute, perché quello che i miei avvocati chiedono è già previsto dalla legge attuale».
Psicanalista orgoglioso, Verdiglione è filosofo riconosciuto a livello internazionale, ma anche imprenditore discusso per le accuse di ordine finanziario che gli sono state mosse una prima volta negli anni 80. A suo carico, allora, erano le ipotesi di truffa, tentata estorsione e circonvenzione di incapace (che gli costarono 4 anni e due mesi). Poi di nuovo fu accusato dieci anni fa (frode fiscale e truffa alle banche: gli furono comminati nove anni, con tanto di confisca di beni per 110 milioni. Un mese fa la condanna — ridimensionata a 5 anni — è diventata esecutiva). «Avevo intorno pensatori di fama internazionale, da Alberto Moravia a Emmanuel Lévinas e Jorge Luis Borges», dice il professore, lasciandosi prendere solo un attimo dalla nostalgia. Nel 1987 l’«affaire Verdiglione» provocò la levata di scudi di studiosi del calibro di Bernard-Henri Lévy e Eugène Ionesco, che comprarono una pagina su Le Monde e lanciarono un appello al presidente della Repubblica e alla magistratura italiana per mettere fine a quello che bollavano come «clima da caccia alle streghe con prigionieri politici». Quando il professore tornò in cella a scontare la pena si mosse un gruppo guidato da Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora. E anche ora, al secondo processo, sono venuti a testimoniare in aula per lui da tutto il mondo intellettuali del calibro di Marek Halter. Venendo all’oggi: a settembre diventa definitiva la condanna a lui e alla moglie Cristina De Angeli Frua (ma a lei, in ragione dell’età e del tumore, i domiciliari sono stati concessi). Quello che resta della loro vita di un tempo non c’è più. La villa San Carlo Borromeo di Senago, che veniva affittata per matrimoni ma soprattutto utilizzata per convegni («a scopo intellettuale e non speculativo», dice lui), risultata esposta per 73 milioni, è andata all’asta. Così la villa Medolago di Limbiate. Quanto all’udienza di merito sulla richiesta dei domiciliari, è fissata per il 10 dicembre. Verdiglione scende dalla sedia a rotelle, si corica sul letto del San Paolo e prima di addormentarsi sussurra: «Magari il giudice di sorveglianza anticipa la decisione e mi fa tornare a casa, e ai miei libri».

La Stampa 6.10.18
Un’altra meraviglia a Pompei: sotto la lava e i lapilli un giardino incantato
di Emanuela Minucci


«La prima cosa che abbiamo scoperto è stato un frammento di rosso pompeiano su cui s’inerpicava, sinuosa, una pianta: colori così brillanti e intatti che sembravano essere stati dipinti la sera prima». È ancora emozionato Massimo Osanna, il direttore del Parco archeologico di Pompei. La sua équipe ha appena concluso uno scavo che ha portato alla luce una sontuosa edicola per il culto dei Lari (la più grande finora ritrovata), una sorta di giardino incantato di quattro metri per cinque pieno di creature benauguranti. «È una stanza enigmatica e meravigliosa che dovremo studiare a lungo» aggiunge il direttore. Il giardino immaginario - rimasto sepolto per duemila anni accanto a un giardino vero - si è conservato intatto sotto la coltre del materiale eruttivo del Vesuvio.
«È un intervento che fa parte del Grande Progetto Pompei», spiega Osanna, «volto alla riconfigurazione del fronte di scavo nella Regio V e alla mitigazione del rischio geologico. L’area non scavata incombe su quella riportata alla luce con una massa di 5 metri di materiale piroclastico e terra di riporto: è questo che ha causato i recenti crolli».
Nel grande altare custodito da una benevola coppia di serpenti - gli «agatodemoni», demoni buoni - si vede un pavone solitario che spunta nel verde, e fiere dorate che lottano con un cinghiale nero metafora del male. Poi il cielo solcato da leggiadri uccellini, un pozzo, una grande vasca colorata, il ritratto di un uomo con la testa di cane.
«È una scoperta meravigliosa proprio per il perfetto stato di conservazione. Lo ammetto, quando insieme con il mio staff abbiamo capito che si trattava di uno dei più eleganti larari conservati a Pompei ci siamo commossi». Osanna lo dice mentre gli archeologi e i restauratori sono ancora al lavoro, fra i tubi innocenti che sostengono le murature millenarie. Qualche mese fa, a pochi metri di distanza, all’incrocio tra il Vicolo delle Nozze d’Argento e il Vicolo dei Balconi, era stato riportato alla luce lo scheletro di un uomo di circa trent’anni. E ora si continuerà a scavare per liberare altre due stanze adiacenti al giardino, un’area che si prevede riserverà molte sorprese.
Il larario appena scoperto si trova in una domus già in parte scavata agli inizi del Novecento, con accesso dal vicolo di Lucrezio Frontone. Al centro di un paesaggio idilliaco e lussureggiante spicca l’edicola sacra sorvegliata dalle figure dei Lari protettori della casa, con la lucerna di bronzo, la piccola ara di terracotta poggiata vicino all’aiuola, il coperchio del pozzo che sembra essere stato appena schiuso.
«La prima impressione», dice Osanna, «è che tutto sia magicamente rimasto al suo posto, come se i padroni di casa fossero appena usciti». Ma restano misteriosi gli abitanti della meravigliosa magione che si trova a pochi metri da un’altra ricca abitazione, quella di Marco Lucio Frontone. «Forse un ricco commerciante», spiega il direttore, «certo una personalità raffinata e colta». Certamente un uomo in grado di pagare le migliori maestranze e di commissionare dipinti tra i più belli finora ritrovati a Pompei. Questo paesaggio quieto, quasi salotto familiare, contiene altrettanto nitida la memoria della tragedia. È una piccola finestra, chiusa da una grata divenuta tutt’uno con la lava. Nel magma pietrificato si distinguono ancora frammenti di legno. «Per noi è struggente», dice Osanna, «con tutta probabilità si tratta proprio degli infissi di questa finestra, divorati dalla lava rovente».
Il Bene e il Male convivono ancora una volta in pochi metri in questo nuovo frammento di Pompei che ha ritrovato la luce. C’è il giardinetto, il verde smeraldo delle piante, l’oro delle rifiniture e una cornice gialla diventata rossa. Ma non è il tradizionale rosso pompeiano, è rosso perché è stato cotto dall’inferno della lava.

Repubblica 6.10.18
Al Complesso del Vittoriano di Roma
Così Pollock guidò l’America alla conquista dell’Europa
di Fabrizio D’Amico


11 agosto 1956: Jackson Pollock, guidando in preda all’alcol, si schianta contro un albero. Finisce così, a Long Island, la breve vita (era nato nel ’12, nel Wyoming; aveva appena 44 anni) del pittore che più d’ogni altro aveva giustificato il battesimo di action painting attribuito da Harold Rosenberg alla nuova pittura americana, quell’espressionismo astratto dal cui alveo era nata la cosiddetta scuola di New York (assieme a Pollock, tra gli altri, Willem de Kooning e Franz Kline): quel modo, cioè, di dipingere cieco e urgente, veemente e affidato ad un gesto non preventivato, che ora viene raccontato dalla mostra Pollock e la Scuola di New York al complesso del Vittoriano di Roma (realizzata in collaborazione con il Whitney Museum e curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice, dal 10 ottobre al 24 febbraio 2019). Quella pittura si diffuse presto ovunque nel vecchio continente. E anche in Italia, dove l’action painting fu reinterpretata soprattutto da Toti
Scialoja, che subito annotò sul suo
Giornale della pittura: «Serata soffocante in un caffè sul marciapiede di viale Parioli.
...Colla dice ad un tratto, carezzando la sua cagna cieca: "Povero Pollock". "Perché povero", domando. "Non lo sapevi, è morto". Tutti preghiamo ardentemente che si tratti di una falsa notizia, di un momento di mistificazione o di stravaganza fantastica di Colla. Ma, mentre lo interroghiamo, sentiamo salire dentro di noi, irrimediabile, l’oscura densità di questa morte».
Ne era discesa, in Scialoja, una ferma "volontà di tirare subito delle conclusioni". Ma non solo in lui: quel modo di dipingere avrebbe di lì a poco invaso l’Europa, spostando il centro dell’arte mondiale da Parigi a New York. Prima di divenire "il pittore più potente oggi in America, l’unico che promette di divenire un grande", come scrive nel 1947 Clement Greenberg, Pollock fa un po’ di tutto: gira l’America, fa il boscaiolo, scopre le tracce delle antiche culture pellerossa, si interna volontariamente in ospedale e si impegna in faticose terapie per tentare di disintossicarsi dall’alcol, pratica la scultura, segue gli insegnamenti – improntati al realismo – di Thomas Hart Benton, si impegna politicamente, insegue i dipinti murali di Siqueiros e di Orozco, partecipa al progetto governativo di sostegno agli artisti – il Federal Art Project – da cui è presto espulso per troppe assenze.
Poi, nel ’42, Peggy Guggenheim rientra a New York dall’Europa, e apre in città la sua galleria, Art of this Century. Peggy visita lo studio di Pollock, e non ne rimane all’inizio particolarmente colpita; ma poi, seguendo l’indicazione di Duchamp, e un giudizio lusinghiero di Mondrian sul giovane, si convince a offrirgli la possibilità di esporre. Così Pollock – a trent’anni, quando sta per aprirsi la sua stagione matura – tiene la sua prima mostra personale presso la galleria della Guggenheim, e soprattutto s’è conquistato l’appoggio della più influente donna di New York.
All’inizio del loro durevole e fecondo rapporto, Pollock è ancora attratto dall’icona di una misteriosa figura, a mezzo fra selvaticamente carnale e totemica, che s’accampa al cuore e domina i suoi dipinti; poi, presto, frantuma l’integrità e la plausibilità di quella "figura" in un ritmo sincopato e convulso.
Infine, lo ritroviamo disperso e disseminato ovunque, e ad esempio in Number 27 ( 1950) – qui esposto –, celebre esempio del suo dripping maturo, del modo cioè di far colare con apparente casualità il colore (per lo più uno smalto), liquido e brillante, sulla tela che egli voleva scesa dal cavalletto, spesso di grandi dimensioni, e sempre stesa a terra, per poterla percorrere "da dentro", assalendola con un’affannosa gestualità, condotta dal pennello usato "come un bastone", dalla spatola, o dal colore direttamente spremuto dal tubetto. Un modo che durò almeno sino al termine degli anni Quaranta; fino a quando, prossimo alla fine e ormai solo raramente operoso, egli non mise le premesse per quel misterioso ritorno ad un’immagine turbata che occuperà i suoi ultimi anni.
Il legame fra Pollock e la Guggenheim, fondamentale per la immensa fortuna del pittore, sembrò per un attimo allentarsi quando Peggy decise di tornare in Europa, e chiuse la galleria newyorchese, dove il giovane pittore, fra ’43 e ’47, aveva tenuto quattro personali. In realtà quel legame restò a lungo strettissimo, tanto che la prima personale europea fu proprio Peggy a volerla e a organizzarla, al museo Correr di Venezia. Ma già due anni prima, il 1948, nella prima e cruciale Biennale veneziana del dopoguerra, la Guggenheim – ormai radicata e autorevole in laguna – era riuscita a presentare la propria collezione, nella quale era tra l’altro La donna luna di Pollock, un quadro con il quale il pittore mostrò a tutti d’essere il capofila della sua generazione.
Prima di lui, avevano posto le basi della nuova pittura Arshile Gorky e Hans Hofmann, entrambi d’origine europea. Aprirono una strada che proseguirà altissima fino a Mark Rothko (anch’egli di nascita europea), con cui idealmente si chiude la mostra di oggi, dedicata agli "irascibili", quel manipolo di artisti che si battezzò così, a New York, nel 1950, rubando questo termine soprattutto alla foga di Pollock.

La Stampa 6.10.18
Gianni Pacinotti “Gipi”
“Il fumetto è una magia solitariama il cinema mi fa stare benecome se fossi in gita scolastica”
di Gianmaria Tammaro


Ieri mattina, nella piazza della Cattedrale di Ferrara, un signore è salito su un palchetto, s’è armato di fogli e leggio, e ha cominciato a leggere. 34361 nomi. Le persone che, dal ’93 ad oggi, hanno perso la vita cercando di raggiungere l’Europa. Quel signore si chiama Gianni Pacinotti; in molti lo conoscono come Gipi. Fa il fumettista e il regista, è un artista delle parole e delle immagini. Ha girato un film, l’anno scorso. Si intitola Il ragazzo più felice del mondo, prodotto dalla Fandango, arriva in sala a novembre.
All’inizio doveva essere un documentario. Poi è cambiato. Perché?
«Mentre lavoravo, ho capito che il documentario non era l’idea migliore. Volevo più libertà. E il film mi si è trasformato tra le mani. A un certo punto ho scritto una specie di script dove per la prima volta comparivano anche gli altri protagonisti, e tutto ha preso questo taglio quasi comico».
Era insoddisfatto di quello che aveva girato?
«Ricordo che avevamo un premontato. E guardandolo mi dissi: è molto carino. Ma se a 54 anni faccio una roba di cui mi accontento di dire che è solo carina mi sparo. Decisi di darmi tempo fino alle sette di sera per trovare qualcos’altro, altrimenti avrei buttato via tutto. Mi misi a cercare tra le altre cose che avevo girato e ne trovai alcune con Chiara, mia moglie. Secondo me, una storia deve sempre parlare a una persona. E io avevo voglia di parlare a lei».
Perché non adatta le sue opere per il grande schermo?
«Prima de L’ultimo terrestre, Domenico Procacci si aspettava, come mi disse dopo, che mettessi in scena La mia vita disegnata male. Quello che non sapeva lui, e all’epoca non sapevo neanch’io, era che quando finisco un lavoro non mi interessa più. Lo so, sembrerebbe naturale tradurre un mio libro in cinema; ma è una questione di desiderio».
In che senso?
«I due linguaggi sono diversi. Il fumetto è magico e la realtà è brutta. E se non sei un grosso regista, con molti soldi, non puoi modificarla. Nel fumetto, tutto dipende da te. Nel cinema, per quel poco che ne so, il tempo è danaro. Nel fumetto sei solo come un cane, e dopo un po’ comincia a pesarti. Il cinema, invece, è come una gita scolastica: fa star bene».
Ogni giorno, sui social network e con i cortometraggi per Propaganda Live, dice quello che pensa e spesso si ritrova a discutere con sconosciuti. Non le pesa?
«Oggi non mi interessa più. So che queste persone fanno parte del conto. Le cose che ti dicono, quando ti insultano, se sei lucido capisci subito che sono aria fritta. Se faccio tutto questo casino, è perché sono incazzato. Penso che siamo in un momento storico spaventoso per questa nazione. Io voglio che un giorno, quando tutta questa merda sarà passata, potrò dire che stavo da tutt’altra parte».
Lei ed altri fumettisti siete diventati un punto di riferimento. I nuovi intellettuali.
«Stiamo messi proprio male, allora. Mi dà la misura di quanto tutto sia scalato verso il peggio. Da una parte la classe politica, dall’altra, appunto, quella intellettuale».
Cosa dovrebbe fare un intellettuale, secondo lei?
«Seguo e leggo persone che hanno un cervello più grosso del mio. Mi mostrano direzioni e ragionamenti che prima non avevo preso in considerazione. È questo, secondo me, quello che dovrebbero fare gli intellettuali».
Intervistato aLe invasioni barbarichedopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, spiegò semplicemente cosa vuol dire satira.
«Quando feci l’intervista dalla Bignardi mi sembrava di dire delle banalità incredibili, ma se quelle banalità hanno bisogno di essere sottolineate e se a sottolinearle devo essere io lo farò».
Perché una certa politica, oggi, ha così successo?
«C’è un bisogno di vicinanza. Quello che le persone vogliono è che i politici diventino loro amici. È quello che fanno Salvini e chi segue la sua comunicazione, se ci pensa: mostrarsi come uno di noi».
E invece?
«Io non voglio qualcuno come me a prendere le decisioni per il Paese. Io voglio qualcuno migliore di me».
Chi èIl ragazzo più felice del mondodel suo film?
«A vederlo dopo, posso dire che sono io quando ho una storia tra le mani, io e i miei amici quando riusciamo a portare a termine qualcosa, quando quel qualcosa diventa un ricordo bello. Noi eravamo molto contenti quando abbiamo fatto questo film, e spero che almeno un pochino, questa nostra amicizia, si senta».

Repubblica 6.10.18
L’identikit del gruppo
Rabbia e colori da Rothko a de Kooning
di Chiara Gatti

La fotografia di Nina Leen, apparsa nel gennaio del 1951 fra le pagine di Life, è uno dei ritratti di gruppo più famosi del Novecento. Nina scattò la foto a New York davanti a una piramide di quindici artisti dall’aria cupa. "Gli irascibili" titolava l’articolo sul magazine, che replicava a caratteri cubitali la definizione già coniata dall’Herald Tribune pochi giorni prima, quando la stessa pattuglia di autori dichiarò guerra al Metropolitan Museum per non averli inseriti nel progetto di una mostra sulla pittura contemporanea americana.
Esclusi, rifiutati. "Refusés", come gli impressionisti a Parigi un secolo prima. Fioccarono lettere stizzite ai media. Incompresi dall’establishment, da critica e pubblico, fecero squadra per difendere la vocazione comune per un’arte astratta, sorgiva, informale, inconscia. Scorrendo l’immagine, si riconoscono i volti di Pollock al centro, di Newman che aveva insistito affinché tutti si vestissero professionalmente, "da banchieri", oltre a Rothko, Motherwell e de Kooning. In alto domina Hedda Sterne, l’unica donna. Fu la gallerista Betty Parsons a caldeggiare una quota rosa, anche se Hedda, in una intervista degli anni Ottanta, spiegò come la sua presenza li avesse fatti infuriare: «perché il loro maschilismo li portava a credere che una donna togliesse serietà all’impresa».
All’avanguardia, dunque, ma fino a un certo punto.
Fatto sta che l’operazione ne decretò il riconoscimento e rafforzò il senso comune di appartenenza a un movimento che era già stato definito, in modo generico (e meno pittoresco...), "Scuola di New York", ma che ora vedeva riunirsi gli artisti negli studi del Greenwich Village, decisi a riflettere sulle varie declinazioni dell’espressionismo astratto. Jackson Pollock, frontman del gruppo, gonfiava i numeri: «ci sono cinquecento miei coetanei a New York che fanno un lavoro importante». Cinquecento forse no. Ma era tanti quelli che già dall’inizio degli anni Quaranta, incoraggiati da Peggy Guggenheim, inseguivano gesti puri, pulsioni intime, la trascendenza del sensibile in una dimensione psichica. E addio al concetto di forma universalmente riconosciuto!
Accanto allo slancio muscolare e spasmodico di Jackson, esplosero i segni neri e spessi di Franz Kline simili a ideogrammi orientali dilatati nello spazio, la materia strizzata dal tubetto di James Brooks, i simboli di matrice ancora surrealista (e politica) di Motherwell. Un contributo intenso e sofferto venne dalla generazione di artisti nati in Europa e approdati in una New York cosmopolita.
L’olandese de Kooning non aveva rinunciato ad elementi figurativi, ma impastava parvenze di corpi con colori urticanti. Era arrivato negli Stati Uniti nel 1926, subito dopo Mark Rothko, nato in Lettonia ma cresciuto in Oregon, che piegò l’astrazione verso esiti mistici nelle sue icone dalla sacralità commovente. Vicino a un capofila della scuola, l’armeno Arshile Gorky, che era scampato al genocidio e riversò nella sua pittura lirica il dramma di un’esistenza sfibrata, spiccano nomi meno noti alle cronache. Come Helen Frankenthaler che dipingeva srotolando la tela sul pavimento, William Baziotes con le sue creature filiformi, o Philip Guston: frequentò la high school di Los Angeles insieme a Jackson e fu espulso con lui per i violenti picchettaggi contro il sistema scolastico.

POLLOCK e la Scuola di New York, dal 10 ottobre al 24 febbraio 2019, Roma, Complesso del Vittoriano – Ala Brasini prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con The Whitney Museum of America Art, New York e curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice Orario apertura: dal lunedì al giovedì 9.30 - 19.30; venerdì e sabato 9.30 - 22. Domenica 9.30 - 20.30 (la biglietteria chiude un’ora prima) Biglietti Intero € 15 (audioguida inclusa); ridotto € 13 (audioguida inclusa). Informazioni e prenotazioni gruppi T. + 39 06 8715111 www.ilvittoriano.com

Repubblica 6.10.18
Perché Pasolini aveva ragione sui figli del ’68
Nella celebre lettera "Il Pci ai giovani!" il poeta si schierava dalla parte dei poliziotti
di Massimo Recalcati


Nella celebre lettera "Il Pci ai giovani!" il poeta si schierava dalla parte dei poliziotti. Ma, più che un messaggio reazionario, il suo fu un invito alle nuove generazioni perché riconoscessero il valore delle istituzioni e le facessero proprie
Siete in ritardo figli » , così si rivolgeva Pasolini, da padre, ai giovani contestatori del ’ 68 nella sua celebre lettera in forma di poesia titolata Il PCI ai giovani! Egli sceglie l’attrito e non la solidarietà compiacente. Non si mette tra quelli che " leccano il culo" ai giovani eroi, ma oppone loro una ferma critica: questi figli assomigliano troppo ai loro padri per innescare un autentico processo rivoluzionario. Lo stesso " occhio cattivo", la stessa " prepotenza" e la stessa spavalda " sicurezza".
Sappiamo bene, nella battaglia di Valle Giulia, con chi Pasolini decide di schierarsi; non con i figli della borghesia che inneggiano alla rivoluzione, ma con i poliziotti, con i " figli dei poveri". È stato questo un suo sintomo reazionario? In realtà, come mostra bene un recente e interessantissimo libro di Francesco Chianese ( « Mio padre si sta facendo un individuo problematico. Padri e figli nell’ultimo Pasolini » , 1966- 75, Mimesis), dedicato alla problematica del rapporto padri e figli negli scritti di Pasolini tra il 1966 e il 1975, questa lettera si inscrive in un percorso complesso di ripensamento del rapporto tra le generazioni che Pasolini mette a fuoco in diverse opere coeve al 1968, quali sono Edipo re, Affabulazione, Porcile e Teorema.
Quando Pasolini si rivolge ai giovani contestatori del ’ 68 è davvero solo per ammonirli, per ricordare loro la provenienza borghese come un peccato irredimibile, per invitarli alla rassegnazione o al disimpegno, o, peggio alla flagellazione autocritica? In un’epoca già post- edipica, dove i padri appaiono come figure prive di autorevolezza simbolica, figure di fallimento e di smarrimento ( Teorema), " canne vuote e marce" ( Affabulazione), egli invita lucidamente i figli ad abbandonare la contestazione impotente, anti- istituzionale, anarchica, " puritana", per ritornare al Pci, per sollecitarli a riprendersi con vigore le istituzioni. È questa la voce tuonante di Pasolini- padre che abbiamo forse dimenticato e che converrebbe invece proprio oggi ricordare: « Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni! Andate a invadere Cellule! Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe oscure! » .
Quale è, dunque, il fondo tematico da cui sorge questo invito perentorio? È un’idea tutt’altro che reazionaria che Pasolini matura sulla vita e l’importanza delle istituzioni.
È troppo lucida la sua visione del declino simbolico dell’autorità del padre di fronte al nichilismo del discorso del capitalista per non avvertire il pericolo di un dominio cinico del mondo da parte del mito ipermoderno del consumo. Fate attenzione, dice allora ai suoi figli " adottivi", a salvaguardare, a difendere l’amore per le istituzioni!
Perché solo se si ha cura delle istituzioni si può davvero provare a cambiare il mondo. Mettete, dunque, da parte il vostro abito da " anime belle" e affrontate con coraggio, senza indietreggiare, la prova politica delle istituzioni. Non c’è nessun " trasumanar" senza l’impegno militante dell’" organizzar", per usare il titolo di una celebre raccolta di poesie pubblicata sempre a ridosso del ’ 68. Non si può essere più chiari di così: « Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno/ i due fratelli Kennedy, se non/ per un’istituzione? E per cos’altro, se non per un’istituzione/ moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong?/ Poiché le istituzioni sono commoventi: e gli uomini/ in altro che in esse non sanno riconoscersi./ Sono esse che li rendono umilmente fratelli./ C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni/ - unica forma di vita e semplice modello per l’umanità -/ che il mistero di un singolo, in confronto, è nulla » .
Le istituzioni sono davvero " commoventi" e " misteriose" perché in esse la realtà umana si impegna a rendere possibile una vita insieme, una comunità fraterna. Non, dunque, la contestazione senza speranza dell’utopia, ma la forza di chi sa entrare nelle maglie del potere per usare il potere al fine di rendere più giusta e generativa la vita insieme. È
la tensione dialettica, mai risolta, che rapporta, appunto, il transumanar all’organizzar, la fede del desiderio alla vita militante dell’istituzione, la passione delle viscere alla storia.
È una tensione che attraversa tutto il ’ 68, ma che rischia di insterilirsi: se la passione rivoluzionaria è in sé anti- istituzionale, bisogna testimoniare, come fa in questo caso Pasolini, il carattere " commovente" e " misterioso" ( non solo, dunque repressivo, ideologico, disciplinare) dell’istituzione. In questo la sua voce risuona ancora oggi come assolutamente profetica. Si può morire e vivere per una istituzione; si può giocare tutto se stesso per un’istituzione. Le " anime belle del cazzo" sono coloro che non sanno cogliere il valore imprescindibile delle istituzioni e che nel nome astratto di ideali universali rivendicano contro il marcio delle istituzioni i loro diritti.
" Anime belle", le chiama con chiaroveggenza Pasolini.
Diversamente la sua esortazione sospinge i giovani ad entrare nelle istituzioni, ad entrare nel vecchio Pci, ad amare le istituzioni. Di Pasolini si ricorda sempre la pars destruens, ma mai la pars costruens. Si ricorda la critica ai giovani figli della borghesia del movimento del ’ 68, ma non si ricorda l’appello ai giovani ad entrare e a trasformare le istituzioni. La sua non è una semplice critica puritana del potere, ma l’indicazione politica delle necessità di avere il potere per cambiare le istituzioni del potere. Se il Nome del padre non è più incarnato nei padri " rimasti ancora figli", esso dimora nella vita (" commovente" e " misteriosa") delle istituzioni.

Repubblica 6.10.18
È la legge del desiderio a farci amare la creatività

di Elio Franzini
Rettore dell’università Statale di Milano

Elogio di una pulsione che va ben al di là di fisiologia e psicologia
Pensare al problema del desiderio ha significato, per molti anni, aderire a una sorta di prospettiva che genericamente potremmo chiamare " postmoderna", che scioglieva il desiderare nell’inconscio, o in macchine desideranti, " indebolendola" nelle pulsioni dell’Es. Non si può infatti dimenticare che, per un autore come Lyotard, sin dagli anni Settanta del Novecento, il desiderio si pone sul piano di una decostruzione come strada per distruggere la metafisica occidentale, annullandone le categorie e riportandole a pulsioni originarie. Questa strada è stata variamente percorsa da molti autori, con volumi di grande successo ( si pensi a L’anti- Edipo di Deleuze e Guattari).
Strada lecita, senza dubbio, ma che forse non riesce a far comprendere non solo la ricca fenomenologia del desiderio, ma neppure l’ambiguità del suo ruolo multiforme nella formazione del soggetto e nella storia del pensiero stesso.
Romanae Disputationes,
l’ormai noto certamen filosofico che ogni anno raccoglie migliaia di studenti delle scuole superiori italiane, aiuterà certo ad ampliare questo concetto, rendendo possibili nuovi percorsi, che mostrino le possibilità formative del desiderio.
Il desiderio deve infatti essere guardato anche, se non soprattutto, al di fuori di uno schema psicologico, vedendolo connesso a un percorso di costruzione del senso. Il desiderio è creativo e, come dimostra la pratica dell’arte, ha una funzione formativa: è grazie al desiderio, a questo fondo oscuro, al suo lavoro nei processi costruttivi come in quelli ricettivi, che l’opera appare come una realtà " infinita", ovvero mai pacificata, che non possiamo ridurre a una sorta di ambigua sublimazione estetica. In altri termini, il desiderio, in sé indefinibile per la varietà di significati che assume nei suoi vari campi di azione, può venir visto come ciò che tiene viva, nel processo e nel progetto dell’arte, la forza formativa, un senso sensibile e, per così dire, " mitico" e originario.
Il desiderio non può allora essere " spiegato", definito, ridotto a una sequenza lineare, clinica, sintomale.
Ridurre questo percorso a economie libidinali non permette di comprendere che il desiderare è connesso a un piacere non riducibile alla fisiologia o alla psicologia. Il desiderio non è un impulso vuoto, meramente fantastico, ma si confronta sempre con la materia, con il costruire.
Tende a riempire di contenuti radicati nel mondo stesso la forza produttiva dell’immaginazione.
L’energia che circola nello psichico è senza dubbio un’azione desiderativa: ma le sue manifestazioni non possono rimanere isolate nel vuoto di una perdita, nell’impersonalità, nell’Es.
La costruzione artistica come emblema di un percorso formativo mostra invece il desiderio in un’opera concreta, che si confronta con il mondo, la società, la cultura, la storia.
Desiderio di costruire qualcosa che rimanga, e che generi nuovi processi desiderativi, in questo modo liberandosi da un soggettivismo relativistico e affidandosi a un dialogo costruttivo che comporta il gesto di un soggetto costruttore.
Il desiderio, per concludere, è lo sfondo, che mai potrà essere rinchiuso in una sola prospettiva, di una possibilità costruttiva e progettuale capace di cogliere, nel mondo che ci circonda, una serie di trame che sono già nelle cose e che il desiderio porta in luce, mostrando sempre di nuovo la profondità e l’intensità della vita.

"Un extrême désir (Cartesio, Discorso sul metodo) - Natura e possibilità del desiderio" è il titolo della VI edizione di Romanae Disputationes, concorso nazionale di filosofia per le scuole superiori. Il progetto, riconosciuto dal Miur, coinvolge 4mila studenti di tutta Italia accompagnati dai loro docenti e intende risvegliare l’interesse alla filosofia e riflettere su un tema di rilevanza culturale e sociale, col contributo di partner come il Museo nazionale del cinema di Torino e la Cineteca di Bologna. I team di studenti si sfideranno nelle categorie "scritto", "video" e "dibattiti filosofici". Appuntamento il prossimo 26 ottobre per la lectio di Massimo Recalcati sul tema del desiderio (Auditorium Testori, Milano). Per informazioni: www. romanaedisputationes. com