Qual è il destino della coppia
L'offensiva della Chiesa e le ragioni dei laici
Dalle nozze legali alle unioni di fatto. Così cambia un rapporto
Analisi della struttura della famiglia tra storia e natura
di René Girard
È sempre esistito il matrimonio? E in quali forme? Io non conosco esempi, prima della nostra epoca, di una possibilità di definire il matrimonio in modo diverso che come unione tra i due sessi. Ma penso che non ce ne siano proprio perché in ogni tempo e luogo si è considerato come assolutamente acquisito il fatto che il matrimonio leghi l´uomo e la donna. Il problema non si è mai posto fino ad oggi. Secondo una tradizione universalmente accettata, il matrimonio è un legame che produce figli, e che si stabilisce quindi tra individui di sesso opposto. Il resto è guardato come "non naturale", proprio nel senso filosofico del termine: contrario alla natura. Dal punto di vista della Chiesa cattolica, da quello del suo pensiero e della sua filosofia, nati da San Tommaso d´Aquino e dal tomismo, il matrimonio è riservato alla forma della coppia considerata "naturale". E´ ovvio, in tal senso, che i cattolici siano ostili a qualsiasi misura che possa condurre al matrimonio tra omosessuali.
La Chiesa sostiene che lo Stato non dovrebbe giustificare questo percorso. La soluzione proposta dai Pacs, o da quelli che gli italiani chiamano i Dico, consiste nel concedere alle coppie di fatto, omosessuali inclusi, una serie di vantaggi giuridici, ma senza usare ancora la parola "matrimonio". E´ proprio questo, invece, che in Francia, dove i Pacs sono in vigore, reclamano gli omosessuali, non soddisfatti di poter disporre soltanto dei Pacs. La richiesta arriva dagli omosessuali radicali, che vorrebbero essere considerati normali, sopprimendo la nozione di "norma" nel diritto. La Chiesa cattolica rifiuta tutto questo, reputando necessarie le abitudini giuridiche, fondate dai cristiani nell´ambito del diritto. In un paese come l´Italia, dove i cattolici sono particolarmente numerosi, e dove finora non ci sono stati neppure i Pacs, la Chiesa si oppone a tutti gli stadi dell´itinerario, dai Pacs in avanti.
Oggi l´omosessualità è entrata più o meno nella normalità, come all´epoca del declino dell´Impero Romano. Però adesso c´è un elemento in più: gli omosessuali vorrebbero dare alla loro unione uno stato di legalità. E´ questo l´aspetto completamente nuovo. In epoche in cui l´omosessualità diveniva socialmente molto rilevante, come alla fine dell´Impero Romano, furono adottate misure legali a favore degli omosessuali? Da parte loro ci furono mai richieste in tal senso? Il fatto che il matrimonio sia un vincolo stabilito per unire persone di sesso diverso si è forse modificato perché in quel periodo storico gli omosessuali erano numerosi? A me non risulta.
Non sto a chiedermi se il fatto che oggi si discuta su questo punto sia sintomo di una superiorità o di un´inferiorità morale. Mi limito a parlare della situazione storica, senza dare giudizi, perché bisogna interrogarsi sul piano storico per provare a definire ciò di cui si parla. E per quanto io sappia, quello che si sta verificando ora non ha alcun precedente né termine di confronto, o perché la volontà di unione legale tra persone dello stesso sesso non è mai esistita, o perché non è mai stata registrata. Sappiamo che ci sono state società arcaiche tolleranti verso l´omosessualità. Ma non era altro che questo: tolleranza. Non progetto di legalizzazione del vincolo.
Oggi da una parte c´è la Chiesa cattolica che vuole mantenere sia la forma che la sostanza vigenti in passato. Dall´altra c´è chi si oppone e chi no. In Francia, per esempio, non sono solo i cristiani a essere contrari al matrimonio omosessuale, ma anche alcuni politici moderati, che non parlano in nome del cristianesimo, e che vorrebbero modificare il meno possibile il diritto tradizionale in materia, riconoscendo che la nozione di sesso esiste, che nel matrimonio è irrinunciabile e che tutto questo è sempre stato vero. Intanto negli Stati Uniti una forte maggioranza preme contro il cambiamento della definizione di matrimonio, e quest´opposizione già contribuì alla sconfitta dei democratici all´epoca dell´elezione di Bush. D´altra parte in molti stati moderni si assiste a una presa di posizione a favore dei Pacs.
A volte mi chiedo se invece non sia proprio il cristianesimo, o meglio una prospettiva cristiana molto radicale, a rifiutare certe vecchie definizioni. Oggi un elemento supplementare nella discussione arriva dal fatto che ci sono teologi favorevoli all´omosessualità, i quali si oppongono alla condanna di Paolo nell´Epistola ai Romani, dove gli omosessuali vengono collocati tra i fornicatori. Naturalmente la Chiesa non accetta il punto di vista di quei teologi. E´ stato Paolo a offrire per primo un punto di vista cristiano nei confronti dell´omosessualità, senza considerare affatto gli omosessuali come peccatori eccezionali. Li ha semplicemente posti tra i portatori di disordine, come gli adulteri. Fornicatori come altri.
Ma il centro del discorso sono i figli. A partire dal momento in cui si dà agli omosessuali il diritto di avere bambini, diventa impossibile rifiutare loro i diritti dei genitori, perché si farebbe un torto ai figli. Giuridicamente non si può negare ai bambini, che non sono responsabili di nulla, di avere genitori uguali a quelli degli altri. E se si danno agli omosessuali i diritti delle persone sposate, è impossibile escluderli giuridicamente dal matrimonio. La nostra civiltà sembra avere imboccato tale direzione. Considerando l´evoluzione dei costumi, si può supporre che si proseguirà su questa strada fino alla fine, a meno che non si verifichi una vera e propria rivoluzione nella politica e nei costumi della nostra società.
(Testo raccolto da Leonetta Bentivoglio)
Repubblica 16.2.07
IL PUNTO DI VISTA DELL'ANTROPOLOGIA SUI LEGAMI DI PARENTELA
COME LA FAMIGLIA CAMBIA NELLA STORIA
Passato. Nelle società tradizionali di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità
di Franco La Cecla
Cos´è il matrimonio? Cos´è la famiglia? Matrimonio e famiglia sono forme sociale naturali, universali? A queste domande si può rispondere appellandosi a dei principi, appoggiandosi a delle ideologie, oppure rifacendosi ai fatti empirici, a quello che fino ad oggi conosciamo delle società umane (ed è molto).
L´antropologia, fin dalle sue origini, che affondano in una curiosità comparativa, fondata su una paziente ricerca in luoghi e culture vicine e lontane, ha indagato sulla natura dei legami primari. La parentela, l´apparentarsi è una costante che si rintraccia in tutti i gruppi umani, ma le sue forme sono le più diverse. In culture diverse dalla nostra spesso la filiazione è separata dalla parentela, cioè i genitori biologici non sono coloro che allevano i propri figli. In molte culture sono gli zii, cioè i fratelli della madre a prendersi questo compito – anche da noi esisteva questa istituzione ed ogni tanto riemerge, come notava Lévi-Strauss in occasione della morte di Lady Diana. In quel caso, al funerale, il fratello di lei si era presentato come l´unico possibile tutore di figli. Ci sono culture nel sud della Cina dove la coppia convivente è costituita da fratello e sorella, che hanno "fugaci" visite notturne a persone dell´altro sesso con cui possono generare una prole che viene però allevata da fratello e sorella. Insomma il nucleo familiare, come "casa" non è una forma universale, ci sono società dove non esistono coppie fisse, ci sono famiglie poligamiche nel fondo dell´Amazzonia o in Senegal e ci sono ovviamente famiglie allargate. Siamo noi l´eccezione: la famiglia mononucleare – la solitudine di marito e moglie e dei loro figli - è una invenzione recente. C´è voluto l´avvento del capitalismo e del lavoro salariato che ha distrutto la famiglia allargata che era anche un´entità economica – gli antropologi parlano di "maison" o di "household"- e che ha creato la coppia come la conosciamo oggi. Lo spiegava in un magnifico e introvabile libro, Genere e Sesso, Ivan Illich. Quello che è nuovo è l´idea di un nucleo isolato che dovrebbe farsi carico della formazione della prole. Nelle società tradizionali europee e nelle società "indigene" di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità , in un mondo in cui uomini e donne costituiscono due sfere spesso indipendenti, con lingua, maniere e obblighi differenti. La prole è affidata al gruppo più ampio. Questo consente un´elasticità maggiore della nostra, nella costituzione e nel dissolvimento della coppia stessa. Una società aristocratica e complessa come quella Tuareg ancor oggi consente una frequenza estrema di divorzi – che vengono festeggiati come se fossero matrimoni, cioè nuovi inizi – proprio perché la prole non rimane affidata mai alla singola coppia. Illich diceva che la coppia mononucleare è un mostro di cui nella storia non si era mai sentito parlare prima.
Al fondo di tutta questa materia giace una domanda importante: cos´è che lega le società, cosa fa sì che non si sfaldino? La nostra povera risposta oggi è: la coppia.
La risposta di altre società è sempre stata: un legame che consente il passaggio di sostanze, siano esse liquidi, latte, acqua, lagrime, nutrimento, emozioni, parole, esperienze, visioni, eredità nel senso più ampio e nel senso più specifico. La sostanza che una generazione passa all´altra è simile e diversa dalla sostanza che uomini e donne incontrandosi si scambiano. Si tratta di affetto, di amore, beni, ma soprattutto di "kinship" cioè di un legame di parentela che è una invenzione culturale che cambia da luogo a luogo, ma che è importantissimo. Noi siamo una strana società che privilegia l´amore-passione rispetto al legame di parentela. In moltissime società, anche moderne, come l´India, come il Giappone il matrimonio non corrisponde all´amore-passione, anche se può prevederlo. I matrimoni sono combinati perché il legame sia stabile e non fluttui con i cambiamenti delle emozioni. In India dicono che il loro tipo di matrimonio è come mettere il fuoco sotto una pentola di acqua fredda, mentre il nostro occidentale sarebbe come spegnere il fuoco sotto una pentola di acqua calda. Ed è vero che la nostra società, nonostante i richiami delle Chiese e dei nuovi fondamentalismi fa una fatica enorme a non sfaldarsi continuamente. Oggi la parola coppia è svuotata di gran parte del significato che anche da noi poteva avere fino a vent´anni fa. I Pacs e i Dico e anche i matrimoni tra persone dello stesso sesso affrontano un problema giuridico, legato alla eredità e alla comunanza di beni, ma non affrontano la sostanza impoverita della coppia. Perché in qualunque società il legame tra due persone è qualcosa che crea una circolazione di sostanze da passare ad altre generazioni (altrimenti non ci si "sposa", e nella culture primitive e tradizionali l´amore passione esiste quanto e spesso più che da noi). Se ci si "sposa" è per costituire una "kinship", un legame che consenta il passaggio di sostanze. Una delle sostanze principali in tutte le culture è il genere. Non è un caso che di dica "generare", cioè installare la prole nel genere, in un genere maschile o femminile – ci sono casi di terzo sesso, ma non di terzo genere, sono per lo più casi di uomini considerati culturalmente donne e viceversa. La questione di che tipo di sostanza di genere passano genitori di uno stesso sesso alla propria prole esiste. E´ una domanda imbarazzante per chi si batte oggi per i Pacs o per i Dico, ma occorre rispondervi.
Non basta avocare la creatività di un transgender o di un queer- gender per evitarla. Michel Foucault, che era un omosessuale convinto e praticante, litigava ferocemente con chi pensava che inventare un nuovo genere fosse come fare un happening. Per lui gli omosessuali erano uomini con gusti sessuali differenti.
In Francia è all´interno stesso del dibattito femminista che si è posta la questione. E´ stata Marcela Iacub, una antropologa argentina del diritto, a far notare che non si può parlare tanto di rispetto delle differenze sessuali e poi ignorare l´importanza in una cosa così seria come la generazione della prole. Il fatto è che qui, intorno alla famiglia, si gioca il destino della nostra società, non nel senso che essa sia oggi "degenerata" come vorrebbero alcuni, ma nel senso più specifico che qui non si tratta di diritto individuale, ma di trasformare il diritto perché sia capace di proteggere davvero i legami che le persone producono durante la loro vita. Sappiamo ormai di essere monogami nel presente e poligami nel tempo (il tasso altissimo di separazioni lo dimostra). Perché non accettare di essere una società dai tanti amori che però assicura e protegge i passaggi di sostanza che questi amori producono, figli, parenti acquisiti, amici, beni? E´ possibile, basta fare un passo più avanti della pura politica.
Repubblica 16.2.07
L'ISTITUTO MATRIMONIALE E IL PENSIERO OCCIDENTALE
QUANDO I VALORI DIVENTANO FATTI
di ROBERTO ESPOSITO
Coppia unita da un legame religioso. Unione di due persone finalizzata alla procreazione. Relazione istituzionale regolata da determinati vincoli giuridici e accordi economici: il matrimonio è tutto ciò ed altro ancora. E´ per questa sua collocazione ambivalente tra pubblico e privato, diritto ed economia, sentimento e ragione che esso costituisce oggi uno degli oggetti più problematici del dibattito politico, culturale, religioso. Non solo, ma anche il luogo su cui si scarica una crescente pressione da parte del ceto politico e della società civile, dei media e della Chiesa.
Considerato da molti il nucleo primario della vita di relazione, esso, tuttavia, è inteso diversamente dalle attuali culture contemporanee: come qualcosa di stabile nel corso del tempo, perché strettamente incardinato nella cornice tradizionale del sacramento religioso, oppure come un contenitore sociale temporaneo, all´interno della quale possono transitare situazioni diverse, in ragione dei mutamenti del costume e della diverse opzioni sentimentali e sessuali dei partners. In ognuno di questi casi, tuttavia, il matrimonio resta alla base di quella istituzione più ampia e fornita di rilevanza ancora maggiore che è la famiglia. E´ anzi proprio in rapporto ad essa – alla dimensione verticale costituita dalla presenza dei figli – che il matrimonio, naturalmente situato in una dimensione privata, va assumendo una portata sempre più intensamente politica e anzi, come oggi si dice, decisamente biopolitica.
Intendiamoci: fin dalla sua origine la riflessione politica occidentale ha assegnato un posto di rilievo alla famiglia. Marginalizzata, se non abolita, nel modello della repubblica platonica, a favore di una pubblicizzazione integrale della sfera politica, essa già con Aristotele rientra nella linea genetica che porta dalla dimensione naturale a quella del governo. Riconosciuta anche nel mondo romano come cellula primaria della convivenza, essa allarga progressivamente il proprio ambito di significato, cominciando a rappresentare, oltre che il gruppo ristretto della coppia genitoriale e dei figli, anche l´insieme delle persone che dipendono da una casa – famulus è il servo adibito ai rapporti domestici all´interno della sfera dell´oikos.
Questa integrazione di carattere comunitario, tipica dell´ordine premoderno, si spezza a partire dal XVII secolo, allorché il mondo delle passioni e degli affetti inizia sempre di più a specializzarsi rispetto all´ambito più vasto della ragione economica. Da allora la famiglia, intesa nel senso stretto che ancora adesso conferiamo all´espressione, tende a fuoriuscire dal discorso pubblico per collocarsi in uno spazio strettamente privato. Mentre ancora Hegel riprende, sia pure modificato, il modello aristotelico, individuando nella famiglia il primo elemento di una dialettica che porta alla società civile e poi allo Stato, la tradizione liberale, interessata ad una dimensione essenzialmente individualistica, la ascrive decisamente nell´ambito privato. Se il liberalismo dissolve la struttura familiare nella pluralità discreta degli individui, il marxismo la integra nella composizione di classe – fino a farne, con la scuola di Francoforte, la matrice di una possibile mentalità autoritaria.
Da allora, a partire dagli anni sessanta e settanta, l´istituto del matrimonio diventa l´obiettivo polemico dei movimenti di liberazione, a partire da quello femminista fino a quello omosessuale. In questo modo la famiglia, sia pure per una via molto diversa rispetto a quella classica, torna ad insediarsi all´interno dell´arena politica, finendo per precipitare al centro di aspri scontri ideologici. Prima la battaglia per il divorzio e poi quella per l´aborto segnano, in particolare nel nostro paese dove il radicamento della tradizione cattolica è particolarmente forte, i primi, cospicui, sintomi di una profonda trasformazione culturale, sociale, antropologica. Ma la piena politicizzazione della questione esplode in anni ancora più recenti, quando l´intera estensione del bios viene assunta prepotentemente dentro gli obiettivi e i linguaggi della politica.
Un drammatico annuncio di questo passaggio epocale è già ravvisabile nell´organizzazione degli Stati totalitari – in particolare di quello nazista e fascista – allorché non soltanto la questione della razza, ma anche, più in generale, dei corpi viventi, della loro riproduzione controllata e del loro uso economico-militare, entra a pieno nelle strategie politiche dei governi. L´attenzione ossessiva all´aumento del tasso di popolazione riporta la questione del matrimonio al centro delle preoccupazioni del potere. Mai come in quel caso ogni forma di congiunzione irregolare, o tra individui etnicamente eterogenei, viene scoraggiata, se non punita con la morte, perché non funzionale o contraria alla politica razziale.
Poco o nulla assimila la situazione delle nostre democrazie liberali alla folle eugenetica di quei regimi. Ciò non toglie, tuttavia, che la compenetrazione tra pubblico e privato si fa sempre più stringente. Nel momento in cui la vita biologica – la nascita, la morte, la malattia, la modificazione genetica – diventa il luogo su cui si misurano non solo prospettive culturali alternative, ma anche i rapporti di forza tra gli schieramenti politici, sarebbe impensabile che il matrimonio resti fuori dal conflitto. Sia la sua struttura monogamica, sia il suo assoluto primato rispetto ad altre forme, meno tradizionali, di convivenza, costituiscono il luogo arroventato di uno scontro frontale tra laici e cattolici o, più precisamente tra due diverse interpretazioni del laicismo e del cattolicesimo. Ciò che in tale scontro è in gioco è la sua medesima definizione. Cosa può essere il matrimonio in una società ampiamente secolarizzata, ma ancora bisognosa di saldi legami? Dove, in quale orizzonte di senso, esso può radicarsi in un mondo di individui sempre più soli, ma proprio per questo timorosi di ulteriore disgregazione? Come può rispondere alle sfide aggressive di altre culture politiche e religiose senza perdere i propri valori fondanti, ma senza smarrire i contatti con una società che cambia? Chiunque immagini di fornire risposte semplici, o piattamente rassicuranti, a simili domande è destinato a una cocente delusione nei confronti di una realtà che non si fa ingabbiare in blocchi di senso predefiniti.
Repubblica 16.2.07
La sinistra e la zona grigia
di MARIO PIRANI
Si afferma con tranquilla sicurezza: i nuovi brigatisti sono pochi, isolati, psicotici, «quattro sciaguratelli», come se la racconta Ingrao. Per Bertinotti, poi, si tratta, tutt´al più, di una variante delle «esplosioni di violenza che attraversano la società... chi stermina la famiglia, chi ammazza un poliziotto in uno stadio... un fenomeno circoscritto senza forza di propagazione politica». Una volta ancora, come trent´anni orsono, la prima reazione scaramantica di molti guru di sinistra consiste nel negare la gravità dei fatti e il loro senso. Eppure già i primi episodi di solidarietà con gli arrestati, i manifesti diffusi davanti alle sedi sindacali («Terrorista è chi ci affama e fa le guerre non chi lotta a fianco dei popoli»), il tam-tam via internet di alcuni centri sociali («È una provocazione politica della magistratura alla vigilia della manifestazione di Vicenza»), quel manifesto di un candidato sindaco di una lista «resistenza per il comunismo» a Garbagnate nell´hinterland milanese («Sono solidale al 100% con i compagni arrestati di cui chiedo l´immediata liberazione») ci dicono tutt´altro. Quella zona grigia, genericamente simpatizzante, anche se quasi mai esplicitamente complice, che avvolgeva come una nebulosa protettiva i nuclei armati degli anni di piombo, si sta ricreando, anzi ha già una sua consistenza. In essa sono germinate le prime cellule di un possibile terrorismo, anche quelle sgominate prima che passassero all´azione.
Per questo non può bastare, anzi rischia di trasformarsi in un alibi, l´invito generico alla non violenza che viene da autorevoli capi sindacali, l´impegno a non criminalizzare gli avversari, l´adesione ad una specie di galateo linguistico, bastevole a stemperare gli insulti contro lo Ichino di turno. Ed anche il solito e scontato sciopero contro il terrorismo. È vero che andare a fondo sconta scelte dolorose e difficili. Lo sapevano sia Luciano Lama, quando sfidò gli estremisti all´Università, sia Guido Rossa, che fu lasciato solo fino al giorno della morte e trovò assai poca solidarietà quando era vivo.
Certo, l´analisi non può ripercorrere vecchi tracciati diagnostici, anche se vi è una costante temporale significativa: la minaccia terroristica, sia su scala ridotta, come oggi, sia su scala ben più ampia, come negli anni Settanta, si fa sentire ogni qualvolta la sinistra si avvicina a responsabilità di governo o, addirittura, se ne assume il carico. La coincidenza si ferma qui perché le prime br si rifacevano nelle loro fumisterie ideologiche alla Resistenza «tradita» e alla azione armata quale ripresa della lotta conclusasi nel 1945, mentre i nuclei appena individuati cercano le loro radici nel sovversivismo latente, coltivato dalle aree cosiddette antagoniste della società italiana (centri sociali, comitati unitari di base, frange no global, black bloc, ecc.). L´ideologia genericamente espressa da queste aree si articola attorno a due tematiche, fortemente mitizzate fino ad assumere la valenza di icone negative contro cui scagliarsi: I) gli Usa, come «impero del male» da combattere senza se e senza ma, in nome di un antiamericanismo assoluto e totalizzante; II) il precariato come condizione generale del mondo del lavoro (ben al di là delle 700.000 persone che vi sono oggi coinvolte), alienazione che segna il destino comune, determinata dalla globalizzazione fonte di tutte le ingiustizie. Di qui l´aspirazione palingenetica ad un mondo «diverso», l´inaccettabilità di qualsivoglia riformismo, di ogni indispensabile distinzione di giudizio, sia sul piano internazionale che nazionale (Bush o Obama son tutti e due a stelle e strisce, e così qualsiasi riforma del lavoro, si chiami Treu, Biagi o Ichino, è una ignobile trappola padronale, meritevole magari di una pallottola, come accadde con Gino Giugni per lo Statuto dei lavoratori) .
Se non si capisce che il problema politico nasce dalla condiscendenza e dalla voluta contiguità con le aree che esprimono tutto ciò, le condanne contro la minaccia terroristica o le ipocrite dissociazioni da chi, marciando assieme, grida «10, 100, 1000 Nassiriya» o la solidarietà compunta verso il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, quando viene vilipeso non servono a nulla. Nel momento che si organizzano, come da tempo pratica la Fiom, manifestazioni e azioni di lotta comuni con i sostenitori di simili farneticazioni ideologiche, nel momento in cui, come sabato prossimo a Vicenza, la Cgil veneta si presenta con gli Scalzone e i «disubbidienti» di Casarini (mentre i dirigenti Cisl e Uil del Veneto sono sotto scorta) non ci si meravigli se giovani delegati sindacali finiscano per confondere le sigle e magari qualcuno si presti a subire il fascino di un´azione armata che si presenta come logica conseguenza di certi slogan. Questo non vuol dire – sia ben chiaro – che i gruppi cosiddetti antagonistici perseguano il terrorismo ma che sulla base della loro predicazione irrealistica e della contrapposizione schematica amico-nemico germoglia la suggestione che ha probabilmente convertito quegli otto militanti della Fiom, finiti in prigione, fortunatamente prima di poter colpire.
Cogliendo con acutezza la pericolosità della piattaforma del «partito comunista politico-militare», rivelata in seguito agli arresti, Loris Campetti sul «Manifesto» di ieri ha scritto: «È realistico pensare che chi operava nel sindacato e insieme progettava azioni terroristiche, ritenesse necessaria ma insufficiente la prima battaglia (quella sindacale, ndr) e dunque che si dovesse procedere anche lungo un altro sentiero. Ma non avevano detto che le due strade non si incontrano, anzi l´una cancella l´altra? Certo, ma forse non nella mente delirante di chi avrebbe fatto tale scelta».
Un interrogativo che dovrebbero porsi in primo luogo i dirigenti della Fiom ma anche quelli della Cgil, se non vogliono ridurre Lama e Rossa a due santini davanti ai quali genuflettersi una tantum. Una riflessione cui sollecitare anche Fausto Bertinotti, il quale ha avuto sì il grande e coraggioso merito di fare della non violenza la propria bandiera, scontrandosi con il 40% del suo partito, ma che altresì, nell´abbracciare con speranza ecumenica i movimenti alternativi, sia pure per guidarli verso approdi riformistici più avanzati, ha probabilmente allargato troppo le braccia. Col pericolo di aver aperto la porta di una pericolosa convivenza non solo al berciante Caruso ma anche a qualche più silenzioso militante «a doppia faccia».
l’Unità 16.2.07
Per due giorni a meditare con i monaci
Il presidente della Camera sul Monte Athos
Non potrà andare a Vicenza, come vorrebbe fare se non fosse presidente della Camera, ma almeno tra i monaci del Monte Athos sì. Fausto Bertinotti, fresco reduce da un lungo tour sudamericano, ha deciso di concedersi un’esperienza ascetica: un weekend di meditazione e riflessione, forse anche di preghiera, tra incensi, canti e litanie, con i monaci del Monte Athos, la comunità monastica nel Nord-est della Grecia che ha oltre mille anni di vita e che dipende amministrativamente dallo Stato greco, ma spiritualmente dal Patriarcato ecumenico ortodosso di Istanbul. Tra il 23 ed il 24 febbraio il presidente della Camera, con un seguito «molto ristretto», trascorrerà due giorni tra i monaci di questa repubblica teocratica greco-ortodossa esclusivamente maschile. Visiterà tre dei 20 antichi monasteri della zona: Meghisti Lavra, Vatopedi e Simonos Petra. E per due giorni parteciperà alla vita comunitaria dei monaci: comprese le preghiere, le meditazioni, i pasti frugali. E una notte la trascorrerà in una delle celle piccole e scomode che caratterizzano questi monasteri. L’Athos è meta di molte personalità politiche che regolarmente vi si recano in visita o in pellegrinaggio privato, come il principe Carlo d’Inghilterra, il presidente russo Vladimir Putin.
La scelta del luogo, per Bertinotti, non è casuale. Da quando si è insediato alla presidenza di Montecitorio è stato protagonista di un percorso di attenzione ai temi religiosi in chiave ecumenica. Proprio nelle prime settimane del suo mandato, l’ex segretario di Rc aveva proposto la creazione alla Camera di uno spazio interconfessionale per la preghiera e la meditazione religiosa, in aggiunta alla cappella di San Gregorio Nazianzieno, dove ogni mattina viene celebrata la Messa. A Vicolo Valdina, Bertinotti ha promosso un incontro interreligioso, a cui ha partecipato con il rabbino capo di Roma Di Segni, l’Arcivescovo Rino Fisichella, Gaetano Sottile delle Chiese riformate, ed Abdellah Redouane, segretario generale del Centro culturale islamico. Proprio in quell’occasione aveva proposto la creazione di uno spazio interconfessionale, auspicando l’approvazione di una legge sulla libertà religiosa.
l'Unità 16.2.07
Riviste. «Marxismo oggi»
Rileggere insieme Marx e Freud
A un secolo e mezzo dalla nascita di Siegmund Freud, Marxismo oggi, rivista quadrimestrale di cultura politica, dedica un ampio dossier (che verrà presentato domani, sabato, a Milano, dalle ore 9.30, presso l’associazione Punto rosso in via Guglielmo Pepe) al rapporto tra il padre della psicoanalisi e Marx, dossier introdotto da una presentazione di Mario Vegetti, che sottolinea più che la distanza (terreno di confronto negli ultimi decenni, indicando le differenze tanto fra ambiti epistemologi quanto fra pratiche sociali) i «punti comuni»: «la criticità propria sia dell’approccio marxista sia di quello psicoanalitico al mondo, la comune consapevolezza della complessità dei dispositivi sociali e di potere che governano la formazione e la conformazione del soggetto umano, il carattere di teorie e pratiche di emancipazione che avvicina marxismo e psicoanalisi...».
Il numero «freudiano» di Marxismo oggi contiene scritti di Adriano Voltolin (che lo ha «organizzato») a proposito della lettura di Marx da parte di Freud, di Sergio Marsicano (le due antropologie a confronto), Mario Cirlà (bisogni materiali e spirituali nella società della tecnica), Alessandro Studer (da Marx a Freud, alle letture «cinematografiche» della società, tra Bunuel e Matrix), Franco Romanò (la soggettività alienata) ed Enzo Morpurgo («un’ipotesi sessantottesca del Sessantotto»).
l'Unità 16.2.07
Il servizio d’ordine della Cgil e il caso Vicenza
Egregio direttore,
sull'Unità del 15 febbraio viene riferita, in un riquadro in terza pagina dal titolo «Il retroscena - La richiesta alla Cgil: serve il vostro servizio d'ordine», una notizia destituita di ogni fondamento. Non è vero, infatti, che il ministro dell'Interno Giuliano Amato abbia avuto nei giorni scorsi «diversi colloqui telefonici» con il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani che, dunque, in nessun modo gli ha fornito «ampie assicurazioni sulla presenza in strada del servizio d'ordine del sindacato di Corso d'Italia».
Cordiali saluti,
Carmen Carlucci
Carmen Carlucci
Portavoce del Segretario generale della Cgil
Prendo atto delle parole della portavoce del segretario generale della Cgil. Tuttavia lo stesso ministro dell’Interno Giuliano Amato, come riferito anche dall’agenzia Ansa, ieri ha spiegato che a Vicenza «non ci sarebbe un servizio d’ordine di 1.500 persone della Cgil se le mie preoccupazioni non fossero anche le loro».
ma.so.
Corriere della Sera 16.2.07
Rifondazione agli alleati «Ci volete nell'angolo»
«Un progetto politico per fermarci» Giordano teme per l'asse con Prodi
di Maria Teresa Meli
ROMA — E se... E se qualcuno nell'Unione puntasse a drammatizzare la situazione per rompere l'asse tra Romano Prodi e Rifondazione comunista? E se qualcuno nell'Unione puntasse a far saltare il governo mettendo nell'angolo il Prc? Le precisazioni «postume» di Francesco Rutelli e Giuliano Amato non fugano i dubbi dei leader della sinistra radicale.
Per questa ragione i dirigenti di Rifondazione stanno cercando in tutti i modi di evitare che Vicenza si trasformi nella loro Caporetto. Le telefonate tra i vertici del partito e i vertici della polizia, la decisione di non fare il servizio d'ordine alla manifestazione, l'apprensione per il non trascurabile dettaglio che il corteo sfilerà davanti alla Questura di Vicenza, sono tutti elementi che la dicono lunga sull'attenzione con cui il Prc sta preparando questo appuntamento. Ma c'è l'imponderabile. Tanto per dirne una: sarà il sindacato a occuparsi di togliere gli striscioni che inneggiano alla violenza, perché se questo compito venisse affidato alla polizia la possibilità di arrivare agli scontri aumenterebbe. Però anche una rissa tra Fiom e centri sociali costituirebbe un problema di non poco conto.
Perciò si incrociano le dita, si cerca di non acuire le tensioni che già ci sono e di non esasperare i toni nei confronti di chi — Amato e Rutelli, per esempio — sembra voler dar già la croce addosso a Rifondazione.
La situazione è assai delicata. Franco Giordano con i suoi è stato chiarissimo: «Dobbiamo contrastare — ha spiegato ai compagni di partito — il tentativo di costruire dei progetti politici che tendono ad alimentare gli allarmismi. È chiaro che una parte della coalizione, i poteri forti e la stampa hanno tutto l'interesse per amplificare eventuali incidenti. Così, infatti, proverebbero a metterci nell'angolo. Ma io penso che quella di Vicenza sarà una grande manifestazione pacifica che smentirà chi lancia l'allarme». Giordano si dice convinto che in quel di Vicenza non accadrà niente. Ma l'apprensione dentro il Prc è forte. I vertici di Rifondazione comunista sono convinti che la manifestazione possa venir utilizzata in una partita politica, tutta interna al centrosinistra, che nulla ha a che fare con le basi americane e con l'Afghanistan.
«Io penso — spiegava ieri il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena — che alcuni settori dell'Ulivo siano in grande difficoltà. Hanno paura perché ritengono che noi possiamo incidere sulle scelte politiche di questo governo e temono che questo tagli il ramo su cui sono seduti». Ossia? «Per essere più espliciti — osservava ancora il presidente del gruppo di Rifondazione a Palazzo Madama — quest'isterismo dei vari Rutelli è dovuto al fatto che temono di non poter fare la politica che sta bene ai loro referenti economico-sociali. Sono deboli e per questo digrignano i denti, sperando di poter cambiare i rapporti di forza all'interno della maggioranza, e Vicenza per loro sarebbe l'ideale per mettere in atto questo progetto. Ma non si rendono conto che proprio noi cerchiamo di colmare il distacco che separa una parte dell'elettorato di centrosinistra da questo governo».
Non se ne rendono conto? Oppure — e questa è la versione più dietrologica e sussurrata a mezza bocca dentro il Prc — mirano proprio a questo? Cioè a minare le basi del governo? Ieri in Transatlantico c'era chi, come il deputato di Rifondazione comunista Antonello Falomi, faceva il nome di Giuliano Amato come il candidato più accreditato alla successione a Prodi, nel caso in cui l'esecutivo salti. Certo, la dietrologia abbonda nella sinistra e dintorni. Ma ieri mattina nessuno riusciva a dare una risposta non dietrologica all'interrogativo che il sottosegretario all'Economia, Paolo Cento, andava ponendo a qualche collega: «Per quale ragione — osservava l'esponente verde — in una situazione così delicata, dove sui muri appaiono scritte e manifesti di solidarietà ai brigatisti arrestati, invece di cercare di comprendere qual è il modo migliore per far fronte a quel che sta avvenendo, invece di evitare che arrivi il peggio, si va invece allegramente allo scontro?».
Corriere della Sera 16.2.07
GIORGIO CREMASCHI
«Non una, cento Vicenza. E il Prc fuori dal governo non sia tabù»
di Aldo Cazzullo
ROMA — «Se il ministro dell'Interno lancia un allarme alla vigilia di un corteo che secondo me sarà pacifico, un po' mi fa arrabbiare, ma un po' sta facendo il suo mestiere. Però il vicepremier che annuncia una dura repressione mi indigna profondamente. Come mi irrita il presidente del Consiglio, che invita il sindacato a "vigilare di più". Cosa intende Prodi? Si esprima con chiarezza. Non dica le cose a metà. Le dica per intero, o taccia».
Giorgio Cremaschi, segretario dei metalmeccanici della Fiom e leader della corrente di sinistra della Cgil, denuncia «un attacco strumentale al sindacato». E lo vede arrivare «più dal centrosinistra che dalla destra. Considero le parole di Amato pericolose e preoccupanti; ma peggiori sono quelle di Prodi e di Rutelli. Non riguardano il merito della questione; rappresentano una strumentalizzazione politica. Vi sento un'eco della costruzione del partito democratico, come a dire: noi siamo altro, alzeremo una barriera tra i riformisti e la marmaglia, la violenza eversiva sarà il crinale che separerà il grano dal loglio, i buoni dai cattivi. Questo è uno schema falso e inaccettabile. Sarebbe grave escludere i centri sociali, negarne la costituzionalizzazione; perché i centri sociali accolgono emarginati, giovani, migranti. Parlano un linguaggio a volta inaccettabile, peraltro non peggiore di quello dei talk-show politici, ma non hanno nulla a che vedere con il terrorismo. Dovremmo badare a non ricacciarli in un'area eversiva. Invece si sta creando un clima da caccia alle streghe. Una sorta di catena di sant'Antonio in cui uno accusa un altro di essere cattivo, in un progressivo sillogismo che non ostacola ma fa il gioco dei terroristi».
L'analisi di Cremaschi va oltre il tema di questi giorni: il ritorno delle Brigate rosse, il loro proselitismo nel mondo antagonista e nel sindacato, l'allarme alla vigilia della manifestazione di Vicenza. «Il paragone con gli Anni Settanta è del tutto privo di fondamento. Io sono sempre stato comunista, quindi allora ero di "destra", e me le ricordo le assemblee degli studenti a Bologna e poi quelle degli operai a Brescia. La violenza era considerata inevitabile e giusta, i brigatisti potevano contare su vaste simpatie. Ora è diverso. I movimenti che partecipano del fenomeno mondiale definito no global rifiutano esplicitamente il terrorismo». A ricordargli che alcuni dei nuovi brigatisti avevano la tessera della Cgil, Cremaschi dice che il sindacato «reagirà con una campagna che stronchi sul nascere qualsiasi tentazione: il terrorismo è il cancro del sindacato, e fu decisivo nella sconfitta operaia alla fine degli Anni 70. Bene ha fatto la Cgil a espellere Sisi non appena si è dichiarato prigioniero politico. Però altri tra gli arrestati hanno reagito in modo diverso, negando le accuse. Soprattutto, la tentazione del terrorismo non arriva in fabbrica dai movimenti; nasce dall'isolamento degli operai. Ci ripetono di continuo: non contiamo nulla. La loro sfiducia nella politica è tale che ci chiedono di andare in tv ad alzare la voce, di fare gesti clamorosi. È la logica di chi sale sulla gru e minaccia di gettarsi. Altro che criminalizzare i movimenti; il centrosinistra dovrebbe ascoltarli di più, dopo averli così clamorosamente delusi. Contro Berlusconi si erano mossi i girotondini, i pacifisti, i lavoratori. L'Unione li ha ingannati tutti: le leggi di Berlusconi sono sempre lì, le truppe sono ancora in Afghanistan, e si è tentato di rabbonire i lavoratori con frasi tipo "vedrete la busta paga di gennaio!". Purtroppo l'hanno vista».
La critica di Cremaschi non è rivolta solo ai riformisti, ma anche a Bertinotti, con cui è critico da tempo. «Lo dico da semplice iscritto: Rifondazione non ha alcun ruolo di cerniera tra governo e movimenti. Non contribuisce a colmare il vuoto tra rappresentanti e rappresentati. Lo si vede nelle fabbriche, nei cortei, tra gli operai con cui parlo: non credo vengano tutti da me solo perché ho fama di cattivo. Forse siamo troppo piccoli, e in fondo neppure Berlinguer nel '77 riuscì a evitare la frattura tra sinistra e movimenti. Oggi i partiti nella società non esistono più, il sindacato è solo ed è debole, anche se talora ostenta una forza che non ha. Giordano e Diliberto verranno a Vicenza? Non credo che ai manifestanti importi molto. A loro importerebbe che il governo cambiasse una decisione sbagliata. Bertinotti non verrà? Non voglio fare polemiche personali. Ma è tempo che l'uscita di Rifondazione dal governo non sia considerata un tabù. L'unica soluzione è che crescano le proteste dal basso, che le forme di autorganizzazione si moltiplichino: non una ma cento Vicenza. Prima o poi, però, la partecipazione politica e la mediazione andranno ricostruite. Più che a Vicenza, Bertinotti e tutti gli altri politici farebbero bene a prendere anche solo una volta al mese la linea B della metropolitana di Roma, e ascoltare quel che dice la gente».
C'è anche un problema di linguaggio. Berlusconi lamenta un odio pluridecennale da parte della sinistra, Mastella è solidale con lui, Diliberto decisamente no. Cremaschi critica il segretario dei Comunisti italiani. «Io non direi mai di qualsiasi interlocutore che mi fa schifo. Il rispetto in politica è fondamentale. A Diliberto vorrei ricordare l'elegia funebre di Engels in morte di Marx: "Karl aveva moltissimi avversari, ma nessun nemico". Sono agli antipodi di Ichino, ma non lo chiamerei mai traditore; tanto più che non si vede cosa potrebbe aver tradito, visto che l'ha sempre pensata allo stesso modo. Ma anche qui il centrosinistra reagisce in modo strumentale, quando Fassino costruisce un collegamento tra il linguaggio e la violenza. Non è così, tanto più nelle condizioni di oggi». Epifani? «Vedo che finalmente, dopo la timida reazione iniziale si è arrabbiato un po'. Speriamo». Cofferati chiede di fermare le lotte violente. «E io non ho capito a cosa si riferisse. Anche lui, come Prodi, farebbe bene a dire le cose per intero, o a stare zitto».
Sanguineti invece crede ancora alla lotta e pure all'odio di classe. «Sanguineti ha detto male una cosa giusta: la lotta di classe non è finita; ma la combattono solo i padroni, che infatti vincono. I lavoratori sono ormai assuefatti all'ingiustizia: Valletta guadagnava 30 volte più di un operaio; oggi i manager, anche se l'azienda va male, guadagnano 400 volte più dei loro salariati». Lei sarà a Vicenza: come finirà? «La mia sensazione è che non accadrà nulla. Se qualcuno tenterà provocazioni, faremo in modo di allontanarlo». Ci sarà il servizio d'ordine del sindacato? «Sì, ma non facciamone un mito. Non ho nostalgia né del terrorismo degli Anni 70, né dei servizi d'ordine militarizzati».
Giorgio Cremaschi è segretario nazionale della Fiom-Cgil
Corriere della Sera 16.2.07
La fede, le leggi e i peccatori
di Emanuele Severino
Esistono forze — si crede — capaci di trasformare il mondo. Ognuna tende a rafforzare se stessa e indebolire le altre. Il cristianesimo è una di esse; e la Chiesa cattolica è la forma attuale più imponente del cristianesimo. La lotta della Chiesa contro aborto, divorzio, fecondazione artificiale e, ora, contro le misure del governo sui Dico si sviluppa appunto all'interno di quello scontro di forze.
La Chiesa sta dicendo che quelle misure indeboliscono la «famiglia naturale» voluta da Dio. Si tratta allora di rafforzare la «famiglia naturale» e quindi di indebolire ogni convivenza «innaturale».
La Chiesa distingue l'individuo umano dal modo in cui egli pensa. Ma per la Chiesa i diversi contenuti della fede cristiana — uno dei quali è appunto la «famiglia naturale» — sono rafforzati da un'abbondante presenza di cristiani, così come il fuoco è rafforzato da un'abbondante presenza di legna. Si tratta quindi di rendere più abbondante la presenza dei cristiani e sempre più esigua quella dei non cristiani. Un compito arduo (al quale tuttavia essa non può rinunciare) in un tempo in cui, la Chiesa sa bene, i cristiani sono sempre di meno.
Poiché la Chiesa distingue l'individuo dal modo in cui egli pensa, la volontà di ridurre i non cristiani non si esprime più come volontà di annientarli come individui, ma come volontà di annientare i loro errori. Si odia e si combatte il peccato, non il peccatore.
Va detto però che come l'esistenza del cristiano rafforza, per la Chiesa, la fede cristiana, così l'esistenza del peccatore — cioè di quell'individuo che è il peccatore — rafforza il peccato. Non riconoscerlo è incoerenza o malafede. Pertanto, per rafforzare la fede e i cristiani, si dovranno sì annientare i peccati, ma si dovranno anche indebolire i peccatori, la cui esistenza rafforza l'esistenza del peccato come coloro che mettono acqua sulla legna spengono il fuoco e fanno fumo. Difficile, però, stabilire il limite oltre il quale, indebolendo il peccato, si manda all'altro mondo anche il peccatore.
I rapporti tra Chiesa e democrazie moderne sono difficili, perché altra strada, per indebolire il peccatore di cui la Chiesa intende per altro rispettare la vita, la Chiesa non ha se non quella di rendergli la vita difficile: impedendogli di diffondere il proprio modo di pensare e realizzare istituzioni in cui esso si rifletta (si pensi alla scuola pubblica in quanto «laica», e agli interventi medici condannati dalla dottrina cattolica); e impedendogli di avere peso politico e di disporre di finanziamenti che rendano possibile tutto questo. Se la Chiesa non lo facesse sarebbe incoerente. Si tratta, appunto, di indebolire il più possibile il peccato e il peccatore. Che a loro volta non intendono farsi togliere di mezzo e reagiscono.
La democrazia moderna è anch'essa contenuto di una fede, che però rende possibili, senza renderle obbligatorie, leggi che in determinati ambiti, rispettando la Costituzione, consentono a ciascuno di vivere come vuole. La Chiesa, invece, sollecita leggi che, in quegli ambiti, impongano a tutti di vivere secondo i dettami della fede cristiana. È una fola che la Chiesa non debba ingerirsi nella vita dello Stato, ed è democratico l'atteggiamento di parlamentari che votano in un certo modo perché vogliono obbedire alla Chiesa, e che se hanno la maggioranza fanno diventare legge dello Stato le loro convinzioni. Rimane però la differenza, la maggiore democraticità della fede democratica, rispetto alla fede cristiana. (Lo si dice spesso, ma è un discorso che ha forza solo dopo che si sia riconosciuta la legittimità di leggi volute da una maggioranza cattolica). La democrazia non chiude infatti la porta a leggi che, non contrarie alla Costituzione, in certi campi lascino ognuno libero di vivere come vuole: non chiude loro la porta, senza tuttavia imporle, perché non la chiude nemmeno a leggi che, come quelle cattoliche, impongono invece anche ai non credenti, in quei campi, di vivere come essa crede sia giusto vivere