venerdì 16 febbraio 2007

Repubblica 16.2.07
Qual è il destino della coppia
L'offensiva della Chiesa e le ragioni dei laici
Dalle nozze legali alle unioni di fatto. Così cambia un rapporto
Analisi della struttura della famiglia tra storia e natura
di René Girard


È sempre esistito il matrimonio? E in quali forme? Io non conosco esempi, prima della nostra epoca, di una possibilità di definire il matrimonio in modo diverso che come unione tra i due sessi. Ma penso che non ce ne siano proprio perché in ogni tempo e luogo si è considerato come assolutamente acquisito il fatto che il matrimonio leghi l´uomo e la donna. Il problema non si è mai posto fino ad oggi. Secondo una tradizione universalmente accettata, il matrimonio è un legame che produce figli, e che si stabilisce quindi tra individui di sesso opposto. Il resto è guardato come "non naturale", proprio nel senso filosofico del termine: contrario alla natura. Dal punto di vista della Chiesa cattolica, da quello del suo pensiero e della sua filosofia, nati da San Tommaso d´Aquino e dal tomismo, il matrimonio è riservato alla forma della coppia considerata "naturale". E´ ovvio, in tal senso, che i cattolici siano ostili a qualsiasi misura che possa condurre al matrimonio tra omosessuali.
La Chiesa sostiene che lo Stato non dovrebbe giustificare questo percorso. La soluzione proposta dai Pacs, o da quelli che gli italiani chiamano i Dico, consiste nel concedere alle coppie di fatto, omosessuali inclusi, una serie di vantaggi giuridici, ma senza usare ancora la parola "matrimonio". E´ proprio questo, invece, che in Francia, dove i Pacs sono in vigore, reclamano gli omosessuali, non soddisfatti di poter disporre soltanto dei Pacs. La richiesta arriva dagli omosessuali radicali, che vorrebbero essere considerati normali, sopprimendo la nozione di "norma" nel diritto. La Chiesa cattolica rifiuta tutto questo, reputando necessarie le abitudini giuridiche, fondate dai cristiani nell´ambito del diritto. In un paese come l´Italia, dove i cattolici sono particolarmente numerosi, e dove finora non ci sono stati neppure i Pacs, la Chiesa si oppone a tutti gli stadi dell´itinerario, dai Pacs in avanti.
Oggi l´omosessualità è entrata più o meno nella normalità, come all´epoca del declino dell´Impero Romano. Però adesso c´è un elemento in più: gli omosessuali vorrebbero dare alla loro unione uno stato di legalità. E´ questo l´aspetto completamente nuovo. In epoche in cui l´omosessualità diveniva socialmente molto rilevante, come alla fine dell´Impero Romano, furono adottate misure legali a favore degli omosessuali? Da parte loro ci furono mai richieste in tal senso? Il fatto che il matrimonio sia un vincolo stabilito per unire persone di sesso diverso si è forse modificato perché in quel periodo storico gli omosessuali erano numerosi? A me non risulta.
Non sto a chiedermi se il fatto che oggi si discuta su questo punto sia sintomo di una superiorità o di un´inferiorità morale. Mi limito a parlare della situazione storica, senza dare giudizi, perché bisogna interrogarsi sul piano storico per provare a definire ciò di cui si parla. E per quanto io sappia, quello che si sta verificando ora non ha alcun precedente né termine di confronto, o perché la volontà di unione legale tra persone dello stesso sesso non è mai esistita, o perché non è mai stata registrata. Sappiamo che ci sono state società arcaiche tolleranti verso l´omosessualità. Ma non era altro che questo: tolleranza. Non progetto di legalizzazione del vincolo.
Oggi da una parte c´è la Chiesa cattolica che vuole mantenere sia la forma che la sostanza vigenti in passato. Dall´altra c´è chi si oppone e chi no. In Francia, per esempio, non sono solo i cristiani a essere contrari al matrimonio omosessuale, ma anche alcuni politici moderati, che non parlano in nome del cristianesimo, e che vorrebbero modificare il meno possibile il diritto tradizionale in materia, riconoscendo che la nozione di sesso esiste, che nel matrimonio è irrinunciabile e che tutto questo è sempre stato vero. Intanto negli Stati Uniti una forte maggioranza preme contro il cambiamento della definizione di matrimonio, e quest´opposizione già contribuì alla sconfitta dei democratici all´epoca dell´elezione di Bush. D´altra parte in molti stati moderni si assiste a una presa di posizione a favore dei Pacs.
A volte mi chiedo se invece non sia proprio il cristianesimo, o meglio una prospettiva cristiana molto radicale, a rifiutare certe vecchie definizioni. Oggi un elemento supplementare nella discussione arriva dal fatto che ci sono teologi favorevoli all´omosessualità, i quali si oppongono alla condanna di Paolo nell´Epistola ai Romani, dove gli omosessuali vengono collocati tra i fornicatori. Naturalmente la Chiesa non accetta il punto di vista di quei teologi. E´ stato Paolo a offrire per primo un punto di vista cristiano nei confronti dell´omosessualità, senza considerare affatto gli omosessuali come peccatori eccezionali. Li ha semplicemente posti tra i portatori di disordine, come gli adulteri. Fornicatori come altri.
Ma il centro del discorso sono i figli. A partire dal momento in cui si dà agli omosessuali il diritto di avere bambini, diventa impossibile rifiutare loro i diritti dei genitori, perché si farebbe un torto ai figli. Giuridicamente non si può negare ai bambini, che non sono responsabili di nulla, di avere genitori uguali a quelli degli altri. E se si danno agli omosessuali i diritti delle persone sposate, è impossibile escluderli giuridicamente dal matrimonio. La nostra civiltà sembra avere imboccato tale direzione. Considerando l´evoluzione dei costumi, si può supporre che si proseguirà su questa strada fino alla fine, a meno che non si verifichi una vera e propria rivoluzione nella politica e nei costumi della nostra società.
(Testo raccolto da Leonetta Bentivoglio)

Repubblica 16.2.07
IL PUNTO DI VISTA DELL'ANTROPOLOGIA SUI LEGAMI DI PARENTELA
COME LA FAMIGLIA CAMBIA NELLA STORIA
Passato. Nelle società tradizionali di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità
di Franco La Cecla


Cos´è il matrimonio? Cos´è la famiglia? Matrimonio e famiglia sono forme sociale naturali, universali? A queste domande si può rispondere appellandosi a dei principi, appoggiandosi a delle ideologie, oppure rifacendosi ai fatti empirici, a quello che fino ad oggi conosciamo delle società umane (ed è molto).
L´antropologia, fin dalle sue origini, che affondano in una curiosità comparativa, fondata su una paziente ricerca in luoghi e culture vicine e lontane, ha indagato sulla natura dei legami primari. La parentela, l´apparentarsi è una costante che si rintraccia in tutti i gruppi umani, ma le sue forme sono le più diverse. In culture diverse dalla nostra spesso la filiazione è separata dalla parentela, cioè i genitori biologici non sono coloro che allevano i propri figli. In molte culture sono gli zii, cioè i fratelli della madre a prendersi questo compito – anche da noi esisteva questa istituzione ed ogni tanto riemerge, come notava Lévi-Strauss in occasione della morte di Lady Diana. In quel caso, al funerale, il fratello di lei si era presentato come l´unico possibile tutore di figli. Ci sono culture nel sud della Cina dove la coppia convivente è costituita da fratello e sorella, che hanno "fugaci" visite notturne a persone dell´altro sesso con cui possono generare una prole che viene però allevata da fratello e sorella. Insomma il nucleo familiare, come "casa" non è una forma universale, ci sono società dove non esistono coppie fisse, ci sono famiglie poligamiche nel fondo dell´Amazzonia o in Senegal e ci sono ovviamente famiglie allargate. Siamo noi l´eccezione: la famiglia mononucleare – la solitudine di marito e moglie e dei loro figli - è una invenzione recente. C´è voluto l´avvento del capitalismo e del lavoro salariato che ha distrutto la famiglia allargata che era anche un´entità economica – gli antropologi parlano di "maison" o di "household"- e che ha creato la coppia come la conosciamo oggi. Lo spiegava in un magnifico e introvabile libro, Genere e Sesso, Ivan Illich. Quello che è nuovo è l´idea di un nucleo isolato che dovrebbe farsi carico della formazione della prole. Nelle società tradizionali europee e nelle società "indigene" di altre culture la coppia è inserita in un sistema complesso di reti di reciprocità , in un mondo in cui uomini e donne costituiscono due sfere spesso indipendenti, con lingua, maniere e obblighi differenti. La prole è affidata al gruppo più ampio. Questo consente un´elasticità maggiore della nostra, nella costituzione e nel dissolvimento della coppia stessa. Una società aristocratica e complessa come quella Tuareg ancor oggi consente una frequenza estrema di divorzi – che vengono festeggiati come se fossero matrimoni, cioè nuovi inizi – proprio perché la prole non rimane affidata mai alla singola coppia. Illich diceva che la coppia mononucleare è un mostro di cui nella storia non si era mai sentito parlare prima.
Al fondo di tutta questa materia giace una domanda importante: cos´è che lega le società, cosa fa sì che non si sfaldino? La nostra povera risposta oggi è: la coppia.
La risposta di altre società è sempre stata: un legame che consente il passaggio di sostanze, siano esse liquidi, latte, acqua, lagrime, nutrimento, emozioni, parole, esperienze, visioni, eredità nel senso più ampio e nel senso più specifico. La sostanza che una generazione passa all´altra è simile e diversa dalla sostanza che uomini e donne incontrandosi si scambiano. Si tratta di affetto, di amore, beni, ma soprattutto di "kinship" cioè di un legame di parentela che è una invenzione culturale che cambia da luogo a luogo, ma che è importantissimo. Noi siamo una strana società che privilegia l´amore-passione rispetto al legame di parentela. In moltissime società, anche moderne, come l´India, come il Giappone il matrimonio non corrisponde all´amore-passione, anche se può prevederlo. I matrimoni sono combinati perché il legame sia stabile e non fluttui con i cambiamenti delle emozioni. In India dicono che il loro tipo di matrimonio è come mettere il fuoco sotto una pentola di acqua fredda, mentre il nostro occidentale sarebbe come spegnere il fuoco sotto una pentola di acqua calda. Ed è vero che la nostra società, nonostante i richiami delle Chiese e dei nuovi fondamentalismi fa una fatica enorme a non sfaldarsi continuamente. Oggi la parola coppia è svuotata di gran parte del significato che anche da noi poteva avere fino a vent´anni fa. I Pacs e i Dico e anche i matrimoni tra persone dello stesso sesso affrontano un problema giuridico, legato alla eredità e alla comunanza di beni, ma non affrontano la sostanza impoverita della coppia. Perché in qualunque società il legame tra due persone è qualcosa che crea una circolazione di sostanze da passare ad altre generazioni (altrimenti non ci si "sposa", e nella culture primitive e tradizionali l´amore passione esiste quanto e spesso più che da noi). Se ci si "sposa" è per costituire una "kinship", un legame che consenta il passaggio di sostanze. Una delle sostanze principali in tutte le culture è il genere. Non è un caso che di dica "generare", cioè installare la prole nel genere, in un genere maschile o femminile – ci sono casi di terzo sesso, ma non di terzo genere, sono per lo più casi di uomini considerati culturalmente donne e viceversa. La questione di che tipo di sostanza di genere passano genitori di uno stesso sesso alla propria prole esiste. E´ una domanda imbarazzante per chi si batte oggi per i Pacs o per i Dico, ma occorre rispondervi.
Non basta avocare la creatività di un transgender o di un queer- gender per evitarla. Michel Foucault, che era un omosessuale convinto e praticante, litigava ferocemente con chi pensava che inventare un nuovo genere fosse come fare un happening. Per lui gli omosessuali erano uomini con gusti sessuali differenti.
In Francia è all´interno stesso del dibattito femminista che si è posta la questione. E´ stata Marcela Iacub, una antropologa argentina del diritto, a far notare che non si può parlare tanto di rispetto delle differenze sessuali e poi ignorare l´importanza in una cosa così seria come la generazione della prole. Il fatto è che qui, intorno alla famiglia, si gioca il destino della nostra società, non nel senso che essa sia oggi "degenerata" come vorrebbero alcuni, ma nel senso più specifico che qui non si tratta di diritto individuale, ma di trasformare il diritto perché sia capace di proteggere davvero i legami che le persone producono durante la loro vita. Sappiamo ormai di essere monogami nel presente e poligami nel tempo (il tasso altissimo di separazioni lo dimostra). Perché non accettare di essere una società dai tanti amori che però assicura e protegge i passaggi di sostanza che questi amori producono, figli, parenti acquisiti, amici, beni? E´ possibile, basta fare un passo più avanti della pura politica.

Repubblica 16.2.07
L'ISTITUTO MATRIMONIALE E IL PENSIERO OCCIDENTALE
QUANDO I VALORI DIVENTANO FATTI
di ROBERTO ESPOSITO


Coppia unita da un legame religioso. Unione di due persone finalizzata alla procreazione. Relazione istituzionale regolata da determinati vincoli giuridici e accordi economici: il matrimonio è tutto ciò ed altro ancora. E´ per questa sua collocazione ambivalente tra pubblico e privato, diritto ed economia, sentimento e ragione che esso costituisce oggi uno degli oggetti più problematici del dibattito politico, culturale, religioso. Non solo, ma anche il luogo su cui si scarica una crescente pressione da parte del ceto politico e della società civile, dei media e della Chiesa.
Considerato da molti il nucleo primario della vita di relazione, esso, tuttavia, è inteso diversamente dalle attuali culture contemporanee: come qualcosa di stabile nel corso del tempo, perché strettamente incardinato nella cornice tradizionale del sacramento religioso, oppure come un contenitore sociale temporaneo, all´interno della quale possono transitare situazioni diverse, in ragione dei mutamenti del costume e della diverse opzioni sentimentali e sessuali dei partners. In ognuno di questi casi, tuttavia, il matrimonio resta alla base di quella istituzione più ampia e fornita di rilevanza ancora maggiore che è la famiglia. E´ anzi proprio in rapporto ad essa – alla dimensione verticale costituita dalla presenza dei figli – che il matrimonio, naturalmente situato in una dimensione privata, va assumendo una portata sempre più intensamente politica e anzi, come oggi si dice, decisamente biopolitica.
Intendiamoci: fin dalla sua origine la riflessione politica occidentale ha assegnato un posto di rilievo alla famiglia. Marginalizzata, se non abolita, nel modello della repubblica platonica, a favore di una pubblicizzazione integrale della sfera politica, essa già con Aristotele rientra nella linea genetica che porta dalla dimensione naturale a quella del governo. Riconosciuta anche nel mondo romano come cellula primaria della convivenza, essa allarga progressivamente il proprio ambito di significato, cominciando a rappresentare, oltre che il gruppo ristretto della coppia genitoriale e dei figli, anche l´insieme delle persone che dipendono da una casa – famulus è il servo adibito ai rapporti domestici all´interno della sfera dell´oikos.
Questa integrazione di carattere comunitario, tipica dell´ordine premoderno, si spezza a partire dal XVII secolo, allorché il mondo delle passioni e degli affetti inizia sempre di più a specializzarsi rispetto all´ambito più vasto della ragione economica. Da allora la famiglia, intesa nel senso stretto che ancora adesso conferiamo all´espressione, tende a fuoriuscire dal discorso pubblico per collocarsi in uno spazio strettamente privato. Mentre ancora Hegel riprende, sia pure modificato, il modello aristotelico, individuando nella famiglia il primo elemento di una dialettica che porta alla società civile e poi allo Stato, la tradizione liberale, interessata ad una dimensione essenzialmente individualistica, la ascrive decisamente nell´ambito privato. Se il liberalismo dissolve la struttura familiare nella pluralità discreta degli individui, il marxismo la integra nella composizione di classe – fino a farne, con la scuola di Francoforte, la matrice di una possibile mentalità autoritaria.
Da allora, a partire dagli anni sessanta e settanta, l´istituto del matrimonio diventa l´obiettivo polemico dei movimenti di liberazione, a partire da quello femminista fino a quello omosessuale. In questo modo la famiglia, sia pure per una via molto diversa rispetto a quella classica, torna ad insediarsi all´interno dell´arena politica, finendo per precipitare al centro di aspri scontri ideologici. Prima la battaglia per il divorzio e poi quella per l´aborto segnano, in particolare nel nostro paese dove il radicamento della tradizione cattolica è particolarmente forte, i primi, cospicui, sintomi di una profonda trasformazione culturale, sociale, antropologica. Ma la piena politicizzazione della questione esplode in anni ancora più recenti, quando l´intera estensione del bios viene assunta prepotentemente dentro gli obiettivi e i linguaggi della politica.
Un drammatico annuncio di questo passaggio epocale è già ravvisabile nell´organizzazione degli Stati totalitari – in particolare di quello nazista e fascista – allorché non soltanto la questione della razza, ma anche, più in generale, dei corpi viventi, della loro riproduzione controllata e del loro uso economico-militare, entra a pieno nelle strategie politiche dei governi. L´attenzione ossessiva all´aumento del tasso di popolazione riporta la questione del matrimonio al centro delle preoccupazioni del potere. Mai come in quel caso ogni forma di congiunzione irregolare, o tra individui etnicamente eterogenei, viene scoraggiata, se non punita con la morte, perché non funzionale o contraria alla politica razziale.
Poco o nulla assimila la situazione delle nostre democrazie liberali alla folle eugenetica di quei regimi. Ciò non toglie, tuttavia, che la compenetrazione tra pubblico e privato si fa sempre più stringente. Nel momento in cui la vita biologica – la nascita, la morte, la malattia, la modificazione genetica – diventa il luogo su cui si misurano non solo prospettive culturali alternative, ma anche i rapporti di forza tra gli schieramenti politici, sarebbe impensabile che il matrimonio resti fuori dal conflitto. Sia la sua struttura monogamica, sia il suo assoluto primato rispetto ad altre forme, meno tradizionali, di convivenza, costituiscono il luogo arroventato di uno scontro frontale tra laici e cattolici o, più precisamente tra due diverse interpretazioni del laicismo e del cattolicesimo. Ciò che in tale scontro è in gioco è la sua medesima definizione. Cosa può essere il matrimonio in una società ampiamente secolarizzata, ma ancora bisognosa di saldi legami? Dove, in quale orizzonte di senso, esso può radicarsi in un mondo di individui sempre più soli, ma proprio per questo timorosi di ulteriore disgregazione? Come può rispondere alle sfide aggressive di altre culture politiche e religiose senza perdere i propri valori fondanti, ma senza smarrire i contatti con una società che cambia? Chiunque immagini di fornire risposte semplici, o piattamente rassicuranti, a simili domande è destinato a una cocente delusione nei confronti di una realtà che non si fa ingabbiare in blocchi di senso predefiniti.

Repubblica 16.2.07
La sinistra e la zona grigia
di MARIO PIRANI


Si afferma con tranquilla sicurezza: i nuovi brigatisti sono pochi, isolati, psicotici, «quattro sciaguratelli», come se la racconta Ingrao. Per Bertinotti, poi, si tratta, tutt´al più, di una variante delle «esplosioni di violenza che attraversano la società... chi stermina la famiglia, chi ammazza un poliziotto in uno stadio... un fenomeno circoscritto senza forza di propagazione politica». Una volta ancora, come trent´anni orsono, la prima reazione scaramantica di molti guru di sinistra consiste nel negare la gravità dei fatti e il loro senso. Eppure già i primi episodi di solidarietà con gli arrestati, i manifesti diffusi davanti alle sedi sindacali («Terrorista è chi ci affama e fa le guerre non chi lotta a fianco dei popoli»), il tam-tam via internet di alcuni centri sociali («È una provocazione politica della magistratura alla vigilia della manifestazione di Vicenza»), quel manifesto di un candidato sindaco di una lista «resistenza per il comunismo» a Garbagnate nell´hinterland milanese («Sono solidale al 100% con i compagni arrestati di cui chiedo l´immediata liberazione») ci dicono tutt´altro. Quella zona grigia, genericamente simpatizzante, anche se quasi mai esplicitamente complice, che avvolgeva come una nebulosa protettiva i nuclei armati degli anni di piombo, si sta ricreando, anzi ha già una sua consistenza. In essa sono germinate le prime cellule di un possibile terrorismo, anche quelle sgominate prima che passassero all´azione.
Per questo non può bastare, anzi rischia di trasformarsi in un alibi, l´invito generico alla non violenza che viene da autorevoli capi sindacali, l´impegno a non criminalizzare gli avversari, l´adesione ad una specie di galateo linguistico, bastevole a stemperare gli insulti contro lo Ichino di turno. Ed anche il solito e scontato sciopero contro il terrorismo. È vero che andare a fondo sconta scelte dolorose e difficili. Lo sapevano sia Luciano Lama, quando sfidò gli estremisti all´Università, sia Guido Rossa, che fu lasciato solo fino al giorno della morte e trovò assai poca solidarietà quando era vivo.
Certo, l´analisi non può ripercorrere vecchi tracciati diagnostici, anche se vi è una costante temporale significativa: la minaccia terroristica, sia su scala ridotta, come oggi, sia su scala ben più ampia, come negli anni Settanta, si fa sentire ogni qualvolta la sinistra si avvicina a responsabilità di governo o, addirittura, se ne assume il carico. La coincidenza si ferma qui perché le prime br si rifacevano nelle loro fumisterie ideologiche alla Resistenza «tradita» e alla azione armata quale ripresa della lotta conclusasi nel 1945, mentre i nuclei appena individuati cercano le loro radici nel sovversivismo latente, coltivato dalle aree cosiddette antagoniste della società italiana (centri sociali, comitati unitari di base, frange no global, black bloc, ecc.). L´ideologia genericamente espressa da queste aree si articola attorno a due tematiche, fortemente mitizzate fino ad assumere la valenza di icone negative contro cui scagliarsi: I) gli Usa, come «impero del male» da combattere senza se e senza ma, in nome di un antiamericanismo assoluto e totalizzante; II) il precariato come condizione generale del mondo del lavoro (ben al di là delle 700.000 persone che vi sono oggi coinvolte), alienazione che segna il destino comune, determinata dalla globalizzazione fonte di tutte le ingiustizie. Di qui l´aspirazione palingenetica ad un mondo «diverso», l´inaccettabilità di qualsivoglia riformismo, di ogni indispensabile distinzione di giudizio, sia sul piano internazionale che nazionale (Bush o Obama son tutti e due a stelle e strisce, e così qualsiasi riforma del lavoro, si chiami Treu, Biagi o Ichino, è una ignobile trappola padronale, meritevole magari di una pallottola, come accadde con Gino Giugni per lo Statuto dei lavoratori) .
Se non si capisce che il problema politico nasce dalla condiscendenza e dalla voluta contiguità con le aree che esprimono tutto ciò, le condanne contro la minaccia terroristica o le ipocrite dissociazioni da chi, marciando assieme, grida «10, 100, 1000 Nassiriya» o la solidarietà compunta verso il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, quando viene vilipeso non servono a nulla. Nel momento che si organizzano, come da tempo pratica la Fiom, manifestazioni e azioni di lotta comuni con i sostenitori di simili farneticazioni ideologiche, nel momento in cui, come sabato prossimo a Vicenza, la Cgil veneta si presenta con gli Scalzone e i «disubbidienti» di Casarini (mentre i dirigenti Cisl e Uil del Veneto sono sotto scorta) non ci si meravigli se giovani delegati sindacali finiscano per confondere le sigle e magari qualcuno si presti a subire il fascino di un´azione armata che si presenta come logica conseguenza di certi slogan. Questo non vuol dire – sia ben chiaro – che i gruppi cosiddetti antagonistici perseguano il terrorismo ma che sulla base della loro predicazione irrealistica e della contrapposizione schematica amico-nemico germoglia la suggestione che ha probabilmente convertito quegli otto militanti della Fiom, finiti in prigione, fortunatamente prima di poter colpire.
Cogliendo con acutezza la pericolosità della piattaforma del «partito comunista politico-militare», rivelata in seguito agli arresti, Loris Campetti sul «Manifesto» di ieri ha scritto: «È realistico pensare che chi operava nel sindacato e insieme progettava azioni terroristiche, ritenesse necessaria ma insufficiente la prima battaglia (quella sindacale, ndr) e dunque che si dovesse procedere anche lungo un altro sentiero. Ma non avevano detto che le due strade non si incontrano, anzi l´una cancella l´altra? Certo, ma forse non nella mente delirante di chi avrebbe fatto tale scelta».
Un interrogativo che dovrebbero porsi in primo luogo i dirigenti della Fiom ma anche quelli della Cgil, se non vogliono ridurre Lama e Rossa a due santini davanti ai quali genuflettersi una tantum. Una riflessione cui sollecitare anche Fausto Bertinotti, il quale ha avuto sì il grande e coraggioso merito di fare della non violenza la propria bandiera, scontrandosi con il 40% del suo partito, ma che altresì, nell´abbracciare con speranza ecumenica i movimenti alternativi, sia pure per guidarli verso approdi riformistici più avanzati, ha probabilmente allargato troppo le braccia. Col pericolo di aver aperto la porta di una pericolosa convivenza non solo al berciante Caruso ma anche a qualche più silenzioso militante «a doppia faccia».

l’Unità 16.2.07
Per due giorni a meditare con i monaci
Il presidente della Camera sul Monte Athos


Non potrà andare a Vicenza, come vorrebbe fare se non fosse presidente della Camera, ma almeno tra i monaci del Monte Athos sì. Fausto Bertinotti, fresco reduce da un lungo tour sudamericano, ha deciso di concedersi un’esperienza ascetica: un weekend di meditazione e riflessione, forse anche di preghiera, tra incensi, canti e litanie, con i monaci del Monte Athos, la comunità monastica nel Nord-est della Grecia che ha oltre mille anni di vita e che dipende amministrativamente dallo Stato greco, ma spiritualmente dal Patriarcato ecumenico ortodosso di Istanbul. Tra il 23 ed il 24 febbraio il presidente della Camera, con un seguito «molto ristretto», trascorrerà due giorni tra i monaci di questa repubblica teocratica greco-ortodossa esclusivamente maschile. Visiterà tre dei 20 antichi monasteri della zona: Meghisti Lavra, Vatopedi e Simonos Petra. E per due giorni parteciperà alla vita comunitaria dei monaci: comprese le preghiere, le meditazioni, i pasti frugali. E una notte la trascorrerà in una delle celle piccole e scomode che caratterizzano questi monasteri. L’Athos è meta di molte personalità politiche che regolarmente vi si recano in visita o in pellegrinaggio privato, come il principe Carlo d’Inghilterra, il presidente russo Vladimir Putin.
La scelta del luogo, per Bertinotti, non è casuale. Da quando si è insediato alla presidenza di Montecitorio è stato protagonista di un percorso di attenzione ai temi religiosi in chiave ecumenica. Proprio nelle prime settimane del suo mandato, l’ex segretario di Rc aveva proposto la creazione alla Camera di uno spazio interconfessionale per la preghiera e la meditazione religiosa, in aggiunta alla cappella di San Gregorio Nazianzieno, dove ogni mattina viene celebrata la Messa. A Vicolo Valdina, Bertinotti ha promosso un incontro interreligioso, a cui ha partecipato con il rabbino capo di Roma Di Segni, l’Arcivescovo Rino Fisichella, Gaetano Sottile delle Chiese riformate, ed Abdellah Redouane, segretario generale del Centro culturale islamico. Proprio in quell’occasione aveva proposto la creazione di uno spazio interconfessionale, auspicando l’approvazione di una legge sulla libertà religiosa.

l'Unità 16.2.07
Riviste. «Marxismo oggi»
Rileggere insieme Marx e Freud


A un secolo e mezzo dalla nascita di Siegmund Freud, Marxismo oggi, rivista quadrimestrale di cultura politica, dedica un ampio dossier (che verrà presentato domani, sabato, a Milano, dalle ore 9.30, presso l’associazione Punto rosso in via Guglielmo Pepe) al rapporto tra il padre della psicoanalisi e Marx, dossier introdotto da una presentazione di Mario Vegetti, che sottolinea più che la distanza (terreno di confronto negli ultimi decenni, indicando le differenze tanto fra ambiti epistemologi quanto fra pratiche sociali) i «punti comuni»: «la criticità propria sia dell’approccio marxista sia di quello psicoanalitico al mondo, la comune consapevolezza della complessità dei dispositivi sociali e di potere che governano la formazione e la conformazione del soggetto umano, il carattere di teorie e pratiche di emancipazione che avvicina marxismo e psicoanalisi...».
Il numero «freudiano» di Marxismo oggi contiene scritti di Adriano Voltolin (che lo ha «organizzato») a proposito della lettura di Marx da parte di Freud, di Sergio Marsicano (le due antropologie a confronto), Mario Cirlà (bisogni materiali e spirituali nella società della tecnica), Alessandro Studer (da Marx a Freud, alle letture «cinematografiche» della società, tra Bunuel e Matrix), Franco Romanò (la soggettività alienata) ed Enzo Morpurgo («un’ipotesi sessantottesca del Sessantotto»).

l'Unità 16.2.07
Il servizio d’ordine della Cgil e il caso Vicenza


Egregio direttore,
sull'Unità del 15 febbraio viene riferita, in un riquadro in terza pagina dal titolo «Il retroscena - La richiesta alla Cgil: serve il vostro servizio d'ordine», una notizia destituita di ogni fondamento. Non è vero, infatti, che il ministro dell'Interno Giuliano Amato abbia avuto nei giorni scorsi «diversi colloqui telefonici» con il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani che, dunque, in nessun modo gli ha fornito «ampie assicurazioni sulla presenza in strada del servizio d'ordine del sindacato di Corso d'Italia».
Cordiali saluti,
Carmen Carlucci

Portavoce del Segretario generale della Cgil

Prendo atto delle parole della portavoce del segretario generale della Cgil. Tuttavia lo stesso ministro dell’Interno Giuliano Amato, come riferito anche dall’agenzia Ansa, ieri ha spiegato che a Vicenza «non ci sarebbe un servizio d’ordine di 1.500 persone della Cgil se le mie preoccupazioni non fossero anche le loro».
ma.so.

Corriere della Sera 16.2.07
Rifondazione agli alleati «Ci volete nell'angolo»
«Un progetto politico per fermarci» Giordano teme per l'asse con Prodi
di Maria Teresa Meli


ROMA — E se... E se qualcuno nell'Unione puntasse a drammatizzare la situazione per rompere l'asse tra Romano Prodi e Rifondazione comunista? E se qualcuno nell'Unione puntasse a far saltare il governo mettendo nell'angolo il Prc? Le precisazioni «postume» di Francesco Rutelli e Giuliano Amato non fugano i dubbi dei leader della sinistra radicale.
Per questa ragione i dirigenti di Rifondazione stanno cercando in tutti i modi di evitare che Vicenza si trasformi nella loro Caporetto. Le telefonate tra i vertici del partito e i vertici della polizia, la decisione di non fare il servizio d'ordine alla manifestazione, l'apprensione per il non trascurabile dettaglio che il corteo sfilerà davanti alla Questura di Vicenza, sono tutti elementi che la dicono lunga sull'attenzione con cui il Prc sta preparando questo appuntamento. Ma c'è l'imponderabile. Tanto per dirne una: sarà il sindacato a occuparsi di togliere gli striscioni che inneggiano alla violenza, perché se questo compito venisse affidato alla polizia la possibilità di arrivare agli scontri aumenterebbe. Però anche una rissa tra Fiom e centri sociali costituirebbe un problema di non poco conto.
Perciò si incrociano le dita, si cerca di non acuire le tensioni che già ci sono e di non esasperare i toni nei confronti di chi — Amato e Rutelli, per esempio — sembra voler dar già la croce addosso a Rifondazione.
La situazione è assai delicata. Franco Giordano con i suoi è stato chiarissimo: «Dobbiamo contrastare — ha spiegato ai compagni di partito — il tentativo di costruire dei progetti politici che tendono ad alimentare gli allarmismi. È chiaro che una parte della coalizione, i poteri forti e la stampa hanno tutto l'interesse per amplificare eventuali incidenti. Così, infatti, proverebbero a metterci nell'angolo. Ma io penso che quella di Vicenza sarà una grande manifestazione pacifica che smentirà chi lancia l'allarme». Giordano si dice convinto che in quel di Vicenza non accadrà niente. Ma l'apprensione dentro il Prc è forte. I vertici di Rifondazione comunista sono convinti che la manifestazione possa venir utilizzata in una partita politica, tutta interna al centrosinistra, che nulla ha a che fare con le basi americane e con l'Afghanistan.
«Io penso — spiegava ieri il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena — che alcuni settori dell'Ulivo siano in grande difficoltà. Hanno paura perché ritengono che noi possiamo incidere sulle scelte politiche di questo governo e temono che questo tagli il ramo su cui sono seduti». Ossia? «Per essere più espliciti — osservava ancora il presidente del gruppo di Rifondazione a Palazzo Madama — quest'isterismo dei vari Rutelli è dovuto al fatto che temono di non poter fare la politica che sta bene ai loro referenti economico-sociali. Sono deboli e per questo digrignano i denti, sperando di poter cambiare i rapporti di forza all'interno della maggioranza, e Vicenza per loro sarebbe l'ideale per mettere in atto questo progetto. Ma non si rendono conto che proprio noi cerchiamo di colmare il distacco che separa una parte dell'elettorato di centrosinistra da questo governo».
Non se ne rendono conto? Oppure — e questa è la versione più dietrologica e sussurrata a mezza bocca dentro il Prc — mirano proprio a questo? Cioè a minare le basi del governo? Ieri in Transatlantico c'era chi, come il deputato di Rifondazione comunista Antonello Falomi, faceva il nome di Giuliano Amato come il candidato più accreditato alla successione a Prodi, nel caso in cui l'esecutivo salti. Certo, la dietrologia abbonda nella sinistra e dintorni. Ma ieri mattina nessuno riusciva a dare una risposta non dietrologica all'interrogativo che il sottosegretario all'Economia, Paolo Cento, andava ponendo a qualche collega: «Per quale ragione — osservava l'esponente verde — in una situazione così delicata, dove sui muri appaiono scritte e manifesti di solidarietà ai brigatisti arrestati, invece di cercare di comprendere qual è il modo migliore per far fronte a quel che sta avvenendo, invece di evitare che arrivi il peggio, si va invece allegramente allo scontro?».

Corriere della Sera 16.2.07
GIORGIO CREMASCHI
«Non una, cento Vicenza. E il Prc fuori dal governo non sia tabù»
di Aldo Cazzullo


ROMA — «Se il ministro dell'Interno lancia un allarme alla vigilia di un corteo che secondo me sarà pacifico, un po' mi fa arrabbiare, ma un po' sta facendo il suo mestiere. Però il vicepremier che annuncia una dura repressione mi indigna profondamente. Come mi irrita il presidente del Consiglio, che invita il sindacato a "vigilare di più". Cosa intende Prodi? Si esprima con chiarezza. Non dica le cose a metà. Le dica per intero, o taccia».
Giorgio Cremaschi, segretario dei metalmeccanici della Fiom e leader della corrente di sinistra della Cgil, denuncia «un attacco strumentale al sindacato». E lo vede arrivare «più dal centrosinistra che dalla destra. Considero le parole di Amato pericolose e preoccupanti; ma peggiori sono quelle di Prodi e di Rutelli. Non riguardano il merito della questione; rappresentano una strumentalizzazione politica. Vi sento un'eco della costruzione del partito democratico, come a dire: noi siamo altro, alzeremo una barriera tra i riformisti e la marmaglia, la violenza eversiva sarà il crinale che separerà il grano dal loglio, i buoni dai cattivi. Questo è uno schema falso e inaccettabile. Sarebbe grave escludere i centri sociali, negarne la costituzionalizzazione; perché i centri sociali accolgono emarginati, giovani, migranti. Parlano un linguaggio a volta inaccettabile, peraltro non peggiore di quello dei talk-show politici, ma non hanno nulla a che vedere con il terrorismo. Dovremmo badare a non ricacciarli in un'area eversiva. Invece si sta creando un clima da caccia alle streghe. Una sorta di catena di sant'Antonio in cui uno accusa un altro di essere cattivo, in un progressivo sillogismo che non ostacola ma fa il gioco dei terroristi».
L'analisi di Cremaschi va oltre il tema di questi giorni: il ritorno delle Brigate rosse, il loro proselitismo nel mondo antagonista e nel sindacato, l'allarme alla vigilia della manifestazione di Vicenza. «Il paragone con gli Anni Settanta è del tutto privo di fondamento. Io sono sempre stato comunista, quindi allora ero di "destra", e me le ricordo le assemblee degli studenti a Bologna e poi quelle degli operai a Brescia. La violenza era considerata inevitabile e giusta, i brigatisti potevano contare su vaste simpatie. Ora è diverso. I movimenti che partecipano del fenomeno mondiale definito no global rifiutano esplicitamente il terrorismo». A ricordargli che alcuni dei nuovi brigatisti avevano la tessera della Cgil, Cremaschi dice che il sindacato «reagirà con una campagna che stronchi sul nascere qualsiasi tentazione: il terrorismo è il cancro del sindacato, e fu decisivo nella sconfitta operaia alla fine degli Anni 70. Bene ha fatto la Cgil a espellere Sisi non appena si è dichiarato prigioniero politico. Però altri tra gli arrestati hanno reagito in modo diverso, negando le accuse. Soprattutto, la tentazione del terrorismo non arriva in fabbrica dai movimenti; nasce dall'isolamento degli operai. Ci ripetono di continuo: non contiamo nulla. La loro sfiducia nella politica è tale che ci chiedono di andare in tv ad alzare la voce, di fare gesti clamorosi. È la logica di chi sale sulla gru e minaccia di gettarsi. Altro che criminalizzare i movimenti; il centrosinistra dovrebbe ascoltarli di più, dopo averli così clamorosamente delusi. Contro Berlusconi si erano mossi i girotondini, i pacifisti, i lavoratori. L'Unione li ha ingannati tutti: le leggi di Berlusconi sono sempre lì, le truppe sono ancora in Afghanistan, e si è tentato di rabbonire i lavoratori con frasi tipo "vedrete la busta paga di gennaio!". Purtroppo l'hanno vista».
La critica di Cremaschi non è rivolta solo ai riformisti, ma anche a Bertinotti, con cui è critico da tempo. «Lo dico da semplice iscritto: Rifondazione non ha alcun ruolo di cerniera tra governo e movimenti. Non contribuisce a colmare il vuoto tra rappresentanti e rappresentati. Lo si vede nelle fabbriche, nei cortei, tra gli operai con cui parlo: non credo vengano tutti da me solo perché ho fama di cattivo. Forse siamo troppo piccoli, e in fondo neppure Berlinguer nel '77 riuscì a evitare la frattura tra sinistra e movimenti. Oggi i partiti nella società non esistono più, il sindacato è solo ed è debole, anche se talora ostenta una forza che non ha. Giordano e Diliberto verranno a Vicenza? Non credo che ai manifestanti importi molto. A loro importerebbe che il governo cambiasse una decisione sbagliata. Bertinotti non verrà? Non voglio fare polemiche personali. Ma è tempo che l'uscita di Rifondazione dal governo non sia considerata un tabù. L'unica soluzione è che crescano le proteste dal basso, che le forme di autorganizzazione si moltiplichino: non una ma cento Vicenza. Prima o poi, però, la partecipazione politica e la mediazione andranno ricostruite. Più che a Vicenza, Bertinotti e tutti gli altri politici farebbero bene a prendere anche solo una volta al mese la linea B della metropolitana di Roma, e ascoltare quel che dice la gente».
C'è anche un problema di linguaggio. Berlusconi lamenta un odio pluridecennale da parte della sinistra, Mastella è solidale con lui, Diliberto decisamente no. Cremaschi critica il segretario dei Comunisti italiani. «Io non direi mai di qualsiasi interlocutore che mi fa schifo. Il rispetto in politica è fondamentale. A Diliberto vorrei ricordare l'elegia funebre di Engels in morte di Marx: "Karl aveva moltissimi avversari, ma nessun nemico". Sono agli antipodi di Ichino, ma non lo chiamerei mai traditore; tanto più che non si vede cosa potrebbe aver tradito, visto che l'ha sempre pensata allo stesso modo. Ma anche qui il centrosinistra reagisce in modo strumentale, quando Fassino costruisce un collegamento tra il linguaggio e la violenza. Non è così, tanto più nelle condizioni di oggi». Epifani? «Vedo che finalmente, dopo la timida reazione iniziale si è arrabbiato un po'. Speriamo». Cofferati chiede di fermare le lotte violente. «E io non ho capito a cosa si riferisse. Anche lui, come Prodi, farebbe bene a dire le cose per intero, o a stare zitto».
Sanguineti invece crede ancora alla lotta e pure all'odio di classe. «Sanguineti ha detto male una cosa giusta: la lotta di classe non è finita; ma la combattono solo i padroni, che infatti vincono. I lavoratori sono ormai assuefatti all'ingiustizia: Valletta guadagnava 30 volte più di un operaio; oggi i manager, anche se l'azienda va male, guadagnano 400 volte più dei loro salariati». Lei sarà a Vicenza: come finirà? «La mia sensazione è che non accadrà nulla. Se qualcuno tenterà provocazioni, faremo in modo di allontanarlo». Ci sarà il servizio d'ordine del sindacato? «Sì, ma non facciamone un mito. Non ho nostalgia né del terrorismo degli Anni 70, né dei servizi d'ordine militarizzati».
Giorgio Cremaschi è segretario nazionale della Fiom-Cgil

Corriere della Sera 16.2.07
La fede, le leggi e i peccatori
di Emanuele Severino


Esistono forze — si crede — capaci di trasformare il mondo. Ognuna tende a rafforzare se stessa e indebolire le altre. Il cristianesimo è una di esse; e la Chiesa cattolica è la forma attuale più imponente del cristianesimo. La lotta della Chiesa contro aborto, divorzio, fecondazione artificiale e, ora, contro le misure del governo sui Dico si sviluppa appunto all'interno di quello scontro di forze.
La Chiesa sta dicendo che quelle misure indeboliscono la «famiglia naturale» voluta da Dio. Si tratta allora di rafforzare la «famiglia naturale» e quindi di indebolire ogni convivenza «innaturale».
La Chiesa distingue l'individuo umano dal modo in cui egli pensa. Ma per la Chiesa i diversi contenuti della fede cristiana — uno dei quali è appunto la «famiglia naturale» — sono rafforzati da un'abbondante presenza di cristiani, così come il fuoco è rafforzato da un'abbondante presenza di legna. Si tratta quindi di rendere più abbondante la presenza dei cristiani e sempre più esigua quella dei non cristiani. Un compito arduo (al quale tuttavia essa non può rinunciare) in un tempo in cui, la Chiesa sa bene, i cristiani sono sempre di meno.
Poiché la Chiesa distingue l'individuo dal modo in cui egli pensa, la volontà di ridurre i non cristiani non si esprime più come volontà di annientarli come individui, ma come volontà di annientare i loro errori. Si odia e si combatte il peccato, non il peccatore.
Va detto però che come l'esistenza del cristiano rafforza, per la Chiesa, la fede cristiana, così l'esistenza del peccatore — cioè di quell'individuo che è il peccatore — rafforza il peccato. Non riconoscerlo è incoerenza o malafede. Pertanto, per rafforzare la fede e i cristiani, si dovranno sì annientare i peccati, ma si dovranno anche indebolire i peccatori, la cui esistenza rafforza l'esistenza del peccato come coloro che mettono acqua sulla legna spengono il fuoco e fanno fumo. Difficile, però, stabilire il limite oltre il quale, indebolendo il peccato, si manda all'altro mondo anche il peccatore.
I rapporti tra Chiesa e democrazie moderne sono difficili, perché altra strada, per indebolire il peccatore di cui la Chiesa intende per altro rispettare la vita, la Chiesa non ha se non quella di rendergli la vita difficile: impedendogli di diffondere il proprio modo di pensare e realizzare istituzioni in cui esso si rifletta (si pensi alla scuola pubblica in quanto «laica», e agli interventi medici condannati dalla dottrina cattolica); e impedendogli di avere peso politico e di disporre di finanziamenti che rendano possibile tutto questo. Se la Chiesa non lo facesse sarebbe incoerente. Si tratta, appunto, di indebolire il più possibile il peccato e il peccatore. Che a loro volta non intendono farsi togliere di mezzo e reagiscono.
La democrazia moderna è anch'essa contenuto di una fede, che però rende possibili, senza renderle obbligatorie, leggi che in determinati ambiti, rispettando la Costituzione, consentono a ciascuno di vivere come vuole. La Chiesa, invece, sollecita leggi che, in quegli ambiti, impongano a tutti di vivere secondo i dettami della fede cristiana. È una fola che la Chiesa non debba ingerirsi nella vita dello Stato, ed è democratico l'atteggiamento di parlamentari che votano in un certo modo perché vogliono obbedire alla Chiesa, e che se hanno la maggioranza fanno diventare legge dello Stato le loro convinzioni. Rimane però la differenza, la maggiore democraticità della fede democratica, rispetto alla fede cristiana. (Lo si dice spesso, ma è un discorso che ha forza solo dopo che si sia riconosciuta la legittimità di leggi volute da una maggioranza cattolica). La democrazia non chiude infatti la porta a leggi che, non contrarie alla Costituzione, in certi campi lascino ognuno libero di vivere come vuole: non chiude loro la porta, senza tuttavia imporle, perché non la chiude nemmeno a leggi che, come quelle cattoliche, impongono invece anche ai non credenti, in quei campi, di vivere come essa crede sia giusto vivere

giovedì 15 febbraio 2007

Repubblica 15.2.07
L'INTERVISTA
Ingrao: "I terroristi sono dei giovani vecchi". "Non vedo il collegamento con la manifestazione"
"Quei Br sono quattro sciagurati e non tiriamo in ballo Vicenza
di Goffredo De Marchis


ROMA - I brigatisti arrestati nei giorni scorsi li chiama «giovani vecchi». Non solo perché alcuni di loro hanno il capo imbiancato o stempiato, ma soprattutto perché gli sembrano scimmiottare una stagione che non c´è più. «Oggi ci sono problemi globali, mondiali. Questi qui sono chiusi in un recinto molto più piccolo», si stupisce Pietro Ingrao, storico leader del Partito comunista, oggi vicino a Rifondazione. Pacifista, se è possibile qualcosa di più, come paladino, anche durante la guerra fredda, del disarmo. Ma l'allarme su un ritorno del terrorismo non lo condivide del tutto. E non accetta alcun accostamento tra le inchieste sulle nuove Br e la manifestazione di dopodomani a Vicenza contro l'allargamento della base americana.
Ingrao, che idea si è fatto di questi nuovi nuclei rivoluzionari?
«Per il momento quello che vedo sono notizie un po' frammentarie, insufficienti per dare un giudizio completo. Non ho molto chiaro il fenomeno, ma non sono così sicuro che sia una cosa di forte rilievo».
Quindici persone arrestate, armi nascoste, intercettazioni chiarissime. Non è materiale sufficiente per giustificare almeno un'attenzione altissima?
«Non so dare una risposta precisa, voglio approfondire. Ma ciò che davvero mi sorprende è che qui abbiamo a che fare con quattro sciaguratelli quando la partita nel mondo si gioca su elementi ben diversi. Io mi sforzo di comprendere, di trovare un senso a tutto questo, ma non riesco davvero a dare molta importanza ai gruppi che vengono fuori attraverso l'inchiesta della magistratura. Sarà perché ne so veramente poco... Dove vogliono andare a parare, qual è il loro obiettivo più grande, a parte quello certamente mostruoso degli attentati che erano in preparazione? Per questo sono un po' restio a offrire un commento, a ragionare su quello che sta succedendo. I problemi che ci sono su scala mondiale hanno ben altra dimensione rispetto ai confini del piccolo mondo in cui le persone arrestate si stavano muovendo. Questi nuovi terroristi mi sembrano davvero poca cosa».
Il ministro dell'Interno Giuliano Amato, riferendo alla Camera sull'operazione che ha fermato i gruppi terroristici in Veneto, in Lombardia e in Piemonte, ha detto, riferendosi alla manifestazione di sabato a Vicenza: «Chiedo a tutto il Parlamento e alle forze politiche di essere solidali con le forze dell'ordine dimostrando questa solidarietà in un'occasione che altri vorrebbero fosse occasione per saldare spezzoni di ostilità contro la polizia». È giusto fare questo accostamento?
«Ma no, io non vedo il collegamento, tanto più che non riesco a considerare importante, significativo il fenomeno così come emerge in queste prime battute dell'inchiesta».
A Vicenza dunque non ci sono rischi di una degenerazione violenta del corteo?
«Naturalmente, io mi auguro che non sia così. Ma posso dire con certezza che non esiste alcuna correlazione tra il corteo e gli arresti di lunedì. Se dobbiamo avere paura di questi qui in vista di una manifestazione nazionale di quel genere e di quella portata, allora siamo proprio messi male!».
Se la manifestazione sarà pacifica, se non si corrono pericoli di una tempesta in grado di ripercuotersi sul governo, perché non possono andare anche i sottosegretari della sinistra radicale?
«Perché si è fatto un governo tutti insieme. La loro presenza non sarebbe normale. Anzi, sarebbe del tutto singolare, non deve accadere».
Ma allora chi si riconosce nell'Unione dovrebbe rispettare il governo che ha dato il via libera all'allargamento della base. Lei dunque è favorevole al raddoppio?
«Figuriamoci. Per me le basi militari non dovrebbero proprio esistere».

Repubblica 15.2.07
IL RETROSCENA
La richiesta alla Cgil: serve il vostro servizio d'ordine


Impedire ogni infiltrazione violenta nel corteo contro l'allargamento della base Usa di Vicenza. È questo il senso del lavoro che il ministro Amato sta conducendo in vista del corteo di sabato prossimo. Un lavoro che in questa fase è centrato soprattutto sulla prevenzione. La presenza delle forze dell'ordine, infatti, da sola potrebbe non bastare e allora il titolare del Viminale ha scelto la via della cooperazione con partiti, sindacati e associazioni che saranno in piazza il 17 febbraio. Nei giorni scorsi, infatti, Amato ha avuto diversi colloqui telefonici con il segretario della Cgil Guglielmo Epifani che gli ha fornito ampie rassicurazioni sulla presenza in strada del servizio d'ordine del sindacato di Corso Italia. Ma attenzione contro la possibili infiltrazioni dei violenti nel corteo Amato l'ha raccomandata anche ai segretari dei partiti dell'ala pacifista che hanno assicurato la propria presenza a Vicenza. Perché l'allarme a cui ha fatto riferimento ieri il ministro dell'Interno alla Camera è il frutto di alcune informative inviate al Viminale nelle ultime ore, specialmente dopo la tensione generata in alcuni ambienti dagli arresti dei 15 presunti brigatisti. Un allarme ancora più presente dopo l'atto di intimidazinoe subito dal capo della Digos di Padova Lucio Pifferi e dopo i quattro arresti di ieri per «istigazione a delinquere in relazione a fatti di terrorismo». Il pericolo, spiegano al Viminale, è che le ali più estreme del movimento, specialmente quelle orbitanti intorno ai centri sociali del nord est, possano approfittare dell'occasione per cercare lo scontro con le forze dell'ordine, come accaduto in Val di Susa per la mobilitazione No Tav. ma.so.

L’espresso
Terroristi senza futuro
Colloquio con Fausto Bertinotti
di Gigi Riva


Le nuove Br sono un fenomeno isolato. Lontano dalla cultura pacifista dei giovani. E la manifestazione di Vicenza lo dimostrerà. Parla il presidente della Camera. Colloquio con Fausto Bertinotti

Pericoloso, ma circoscritto. Fausto Bertinotti non sottovaluta la capacità omicida dell'ultima leva del terrorismo. Ma sottolinea le differenze sostanziali con gli anni Settanta. Oggi non ha, il fenomeno, una "capacità di propagazione socio-politica" come allora. Può al massimo avere "contiguità con altre forme di violenza". Quelle che si consumano in famiglia o negli stadi. Non è sorpreso di trovare, accanto a vecchi arnesi della lotta armata, le facce imberbi di alcuni ragazzini perché c'è sempre chi può essere attratto "dalla cultura politica disperante e disperata del terrorismo". Ma la generazione "di Seattle e di Genova" esprime piuttosto, nel suo insieme, una "cultura pacifista e non violenta". Cultura che sarà visibile, profetizza, anche il 17 febbraio a Vicenza con una grande manifestazione di massa.

Se non fosse presidente della Camera, ammette, sfilerebbe anche lui. Contro la nuova base americana. Il vestito istituzionale, come confessa in questa intervista con 'L'espresso', lo obbliga "a una modalità di linguaggio diversa dalla mia storia". La parola che maggiormente utilizza durante il lungo colloquio è "compromesso". A cui tutte le anime della maggioranza devono sottostare per evitare quella che considera una "catastrofe" per la sinistra italiana: la caduta di Prodi. Per "tenere" cinque anni bisogna ricorrere al "compromesso", anche quando non sembra facile. Così sull'Afghanistan, così sui Dico. L'urgenza della cronaca chiama a riflettere sulle cellule delle Br sgominate. Da lì si parte.

Presidente Bertinotti, nel 2007, trent'anni dopo, c'è ancora qualcuno che si proclama brigatista ed è in guerra contro lo Stato.
"Penso sia un fenomeno circoscritto. Può essere pericoloso, ma non ha una forza di propagazione socio-politica. Andrebbero invece indagati i possibili legami con esplosioni di violenza che attraversano la società contemporanea di natura diversa fra loro. Manifestazioni criminali che avvengono nella quotidianità. Chi stermina la famiglia, chi ammazza un poliziotto in uno stadio. È possibile una contiguità con queste altre forme di violenza".

Ma non è sorpreso dal fatto che nella rete sgominata al Nord ci fossero dei baby terroristi?
"No, non mi sorprende. C'è sempre qualcuno che può essere attirato dalla cultura disperata e disperante del terrorismo e che si isola dalla propria generazione. Per generazione non intendo l'elemento anagrafico. Ma per capirci, quella generazione, come possiamo chiamarla, di Seattle, di Genova? esprime al contrario una cultura pacifista".

Stando ai primi elementi dell'inchiesta, i nuovi brigatisti il problema del consenso e del proselitismo se lo sono posto. Qualcuno di loro si è mischiato, pare, alla battaglia contro la Tav in Val di Susa.
"Sentivo questi discorsi anche negli anni Settanta. Significa non aver capito nulla di questi movimenti. E allora o lo si dice per strumentalità politica, e non mi piace ma lo capisco, o c'è un elemento di incomprensione fondamentale. Chi mette in relazione le due cose non è mai stato in Val di Susa, non è mai stato in un presidio, non è mai stato in una casa di legno in montagna e non ha sentito le argomentazioni di chi ci abita".

Diversi degli arrestati erano iscritti alla Cgil.
"Tutta la solidarietà a Epifani. La Cgil sa benissimo quello che deve fare. Che è del resto quello che ha sempre fatto. E i brigatisti potevano finire lì come altrove. Noi avevamo Guido Rossa ucciso dai brigatisti, alcuni dei quali erano penetrati nella stessa organizzazione. Perché il terrorismo ha un suo progetto autonomo ed è capace di inquinamenti. Il problema vero è sapere che c'è una irriducibilità totale alla sua causa".

Il 17 febbraio ci sarà la manifestazione a Vicenza contro la base Usa. La vicinanza con Padova ha fatto scattare un allarme.
"Che significa la vicinanza? Chiunque abbia vissuto in ben altro quadro e con ben altra capacità di penetrazione del terrorismo, sa che non significa nulla. Avevamo grandi fabbriche infiltrate da terroristi dove ci sono state le manifestazioni più pacifiche che io conosca".

La manifestazione come può difendersi da eventuali tentativi di infiltrazione?
"Rinnovando la grande tradizione degli anni terribili della lotta al terrorismo. Compito principale delle grandi manifestazioni di massa era proprio quello di prosciugare l'acqua entro cui poteva nuotare il pesce del terrorismo. E quella fu parte decisiva della vittoria di popolo contro l'eversione. Non nego il contributo di magistrati e di forze dell'ordine, c'ero e l'ho visto direttamente. Ma il sindacato e i consigli di fabbrica sono stati decisivi. Tutta questa esperienza può essere ripresa e rinvigorita. Tantopiù perché il terrorismo attuale sta in un quadro che lo isola in partenza".

Lei non teme disordini e violenze a Vicenza?
"No. Sarà una grande manifestazione di massa, fortemente caratterizzata da elementi di partecipazione e di contrasto di qualunque tentazione di uscire dal terreno della battaglia condivisa. Tanto più grande sarà la partecipazione quanto più farà massa critica contro la violenza e contro espressioni di linguaggio incongrue e non compatibili con le parole d'ordine, le caratteristiche e l'ispirazione pacifista che ne costituisce l'elemento portante".

Lei dove sarà il 17 febbraio?
"Non andrò a Vicenza, se è questo che vuole sapere. Semplicemente perché ho troppo rispetto per la mia collocazione istituzionale".

Altrimenti...
"Altrimenti ci andrei, naturalmente".

Perché condivide in pieno quella lotta?
"Sì. E prendere questa posizione è del tutto compatibile col mio ruolo istituzionale. Anche il presidente del Senato, Franco Marini, si è schierato. La pensa molto diversamente da me, ritiene si debba rispettare un accordo internazionale. Io credo all'opposto che la base sia incompatibile coi problemi di assetto di quel territorio. C'è una specie di incompatibilità e vanno cercate altre soluzioni".

Anche l'attuale governo ha confermato l'impegno con gli americani. Pare difficile tornare indietro.
"Fu così anche a Scanzano (dove il governo Berlusconi aveva deciso di collocare il deposito unico di scorie nucleari, ndr) e il movimento vinse. Come può vincere a Vicenza. Non ci sono impegni presi da un governo che siano, perciò, irrevocabili".

E in che modo può vincere?
"Non si sapeva a Scanzano, prima. Non si sa a Vicenza, adesso. Per fortuna l'esito delle lotte è aperto".

Qualcuno ci dovrebbe rimettere la faccia.
"Non mi piace l'idea militare per la quale quando si determina un conflitto c'è solo una soluzione binaria, o vince l'uno o vince l'altro. È un'idea povera. In realtà in mezzo c'è il compromesso".

Lei cita Scanzano dove parte di chi si ribellava lo faceva contro un governo che sentiva ostile. In questo caso in molti ce l'hanno con un governo amico. E l'ulteriore complicazione per Prodi sta nella possibilità che marcino pure dei sottosegretari.
"Proporrei che si guardasse a Vicenza con un'ottica inedita. Siamo di fronte a una forma di mobilitazione nuova che potremmo chiamare, approssimativamente, comunitaria. Diventa tale quando trascende l'obiettivo specifico e chiama in causa il destino, il futuro di una comunità. Quando la lotta è comunitaria, è dotata di una propria autonomia, si costruisce delle casematte attorno alle quali si consolida, nascono nuove forme di leadership, diverse da quelle tradizionali. Coloro che pensano di metterci il cappello commettono un errore di presunzione di sé e di ignoranza dei movimenti. L'unica cosa da fare è accantonare ogni propensione di guida e mettersi a disposizione. Ecco, così bisogna guardare a Vicenza".

Oltre alla dimensione comunitaria ammetterà che c'è un altro elemento politico cruciale. Riguarda la nostra sovranità e i rapporti internazionali.
"Se ci inoltriamo in questa direzione bisogna fare un discorso più impegnativo. Ma eviterei di assolutizzare. La costruzione della sovranità nazionale avviene all'interno di una crescente autonomia dell'Europa perché si esca da quella condizione di mondo unipolare nella chiave voluta dall'amministrazione Bush. È un processo. Non è che oggi non hai sovranità e domani ce l'hai: si conquistano spazi progressivi. L'ha fatto il governatore Soru in Sardegna. La battaglia contro la base della Maddalena era una vecchia battaglia pacifista. Soru ha vinto quando ha introdotto l'argomento della restituzione al popolo sardo delle sue risorse".

Anche i vicentini usano l'argomento della difesa delle loro risorse. Sono stati offerti, in alternativa, altri luoghi. Perché allora gli americani si sono ostinati con l'aeroporto Dal Molin?
"A volte ci sono ragioni che risultano cattive consigliere".

In questo caso quali?
"Il mio ruolo mi impedisce di dire oltre".

A Vicenza è legata anche la diatriba della maggioranza sulla exit strategy dall'Afghanistan.
"Perché legata? In un caso di scuola si potrebbe benissimo uscire dall'Afghanistan e allargare la base o viceversa".

Al primo volo che partisse dal Dal Molin per Kabul le vicende si legherebbero eccome. Mettendo in difficoltà l'esecutivo. Sulla politica estera c'è una difficoltà oggettiva.
"La politica del governo vive di compromessi tra anime diverse. L'importante è che sia chiara la direzione di marcia. Non la invento io. E quella intrapresa col ritiro delle truppe dall'Iraq, con l'iniziativa in Libano, con l'attenzione verso l'America Latina e altre realtà geopolitiche del mondo. Non ho titolo perché adesso non faccio né il dirigente politico né il ministro, ma posso affermare con serenità che la ricerca del compromesso è la chiave per dare continuità e durata all'azione di governo. Quando viene meno si apre un elemento critico tra le culture pacifiste e il governo e questo toglie energia all'azione del governo stesso".

C'è chi sostiene che Vicenza e l'offensiva della Chiesa sui Dico siano due facce della stessa medaglia. In entrambi i casi è messa in discussione l'autonomia della decisione politica.
"La Chiesa da tempo manifesta una propensione all'intervento. Vorrei spiegarlo con grande compostezza perché non mi piacciono le urla contro l'ingerenza caso per caso. Siamo davanti a una posizione post-conciliare originata, più che da arroganza, da paura. La paura della Chiesa rispetto a questo mondo era stata compressa dal protagonismo di Giovanni Paolo II e dal suo ottimismo della volontà. Adesso torna fuori. E non è che la Chiesa pretenda di guidare la mano del legislatore, dice una cosa più complessa. Riconosce che il legislatore debba avere una sua autonomia, ma dentro un certo limite che è quello della compatibilità con dei principi generali che rispondano a una sorta di morale naturale. Il punto è che il custode di questa morale naturale torna a essere la Chiesa. Questa posizione va contrastata con la ricostruzione di un'autonomia della politica fondata su un proprio apparato culturale. Insomma, il modo di reagire non è difensivo, ma propositivo".

La paura della Chiesa deriva anche dal fatto che si sente minoranza?
"Sì, tanto è vero che per vincere queste battaglie non conta sulla costruzione del consenso, ma sulla rinuncia alla partecipazione. Vedi il caso del referendum sulla procreazione assistita".

Su Afghanistan e Dico potrebbe uscire in Parlamento una maggioranza diversa da quella che appoggia il governo.
"Il governo deve contare sulla sua maggioranza e penso che debba durare cinque anni, perché l'alternativa sarebbe distruttiva, una crisi sarebbe il massacro per la sinistra. La navigazione sarà difficile e i compromessi necessari. Necessari e non esaltanti come una parte del Paese legittimamente si aspetterebbe. Il Paese vorrebbe una grande riforma sociale, ma a questo problema non si risponde caricando sul governo un peso che per questo governo sarebbe insopportabile, bensì ricostruendo nella società un'iniziativa delle forze politiche e dei movimenti".


L’espresso
Dolce il sampietrino del maledetto 77
A sinistra c'è ancora chi flirta con gli irriducibili eredi di quel movimento che aggredì Luciano Lama all'università
di Giampaolo Pansa


Servono gli anniversari? Il trentennale del 1977 è servito a Lucia Annunziata per pubblicare da Einaudi un libro di memoria su quell'anno orrendo. S'intitola '1977. L'ultima foto di famiglia'. Quel che ho capito dall'anticipazione della 'Stampa', il giornale di Lucia, mi fa pensare che sia un lavoro senza reticenze, neppure sul conto dell'autrice. E sulla sua antica militanza in una sinistra che oggi non esiste più. Se non in un pulviscolo di piccoli gruppi, presenti un po' dovunque in Italia: cellule di esaltati, capaci di gesti prepotenti, per fortuna lontani mille miglia dalla geometrica potenza dei loro gemelli di un trentennio fa.

In quel tempo Lucia non era più una ragazzina. Aveva 27 anni e lavorava al 'manifesto'. Il 17 febbraio stava all'università di Roma, nella truppa che aggredì Luciano Lama, andato all'ateneo per un comizio e cacciato dagli autonomi armati di spranghe e di sampietrini, i blocchetti di pietra usati per selciare le strade della capitale. E pure Lucia scagliò il suo bravo sampietrino contro l'odiato Lama. Oggi scrive: "Nell'aria volava di tutto, lanciai il mio, che fece un percorso breve e andò ad atterrare chissà dove". Cacciato Lama, Lucia tornò al 'manifesto'. Nella borsa a tracolla nascondeva un altro blocchetto, ne accarezzava il lato liscio, se lo coccolava: "Ero molto orgogliosa di quella pietra. Aveva avuto il coraggio di volare contro quelli del Pci". Cominciò a mostrarlo ai compagni. Poi intervenne Rossana Rossanda che, infastidita, le sibilò: "Mettilo via!".

Mi ha colpito questo feticismo per il sampietrino. E da vecchio scettico mi sono detto: grazie al cielo, non era una rivoltella, la magica P38. Poi quel passo di Lucia e la sua conclusione ("A me, di Luciano Lama, non fregava assolutamente nulla"), mi hanno spinto a cercare fra le mie carte il racconto che, dieci anni dopo, mi offrì il leader della Cgil. Ripercorrendo con me il tempo delle pietre e delle pistole, in più di un colloquio e poi in un mio libro-intervista pubblicato da Laterza: l'altra faccia della luna rispetto al libro di Lucia.

"Non parlarmi del Settantasette!", mi ripeteva Lama, con una smorfia di disgusto che scheggiava la sua bella faccia da eterno ragazzo, impetuoso e sereno. "Quello fu un anno miserabile, coperto di sangue". Il giovedì 17 febbraio lui era andato all'università per una manifestazione sindacale sulla riforma degli atenei e la disoccupazione giovanile. E lì venne accolto nel modo barbaro che sappiamo. Ma di quella giornata balorda non s'era pentito. A differenza di qualcuno del vertice Pci.

"All'università c'ero andato di mia iniziativa", mi raccontò Lama. "Però nessuno dentro la Cgil e il Pci mi aveva sconsigliato. Anzi, Enrico Berlinguer mi aveva detto di farlo, perché era preoccupato quanto me del disordine e della violenza che dilagavano nelle aule della Sapienza. Poi, quando successe tutto, i miei compagni un po' mi mollarono. Qualcuno mi accusò di aver compiuto un passo falso. Giancarlo Pajetta mi spiegò che m'ero mostrato incauto e che la mossa era stata avventata. Ho avvertito del gelo e mi ha fatto male. Berlinguer mi chiese com'erano andate le cose, mi ascoltò in silenzio, poi replicò: 'Va bene' e nient'altro. Enrico era un tipo schivo, talvolta freddo. Ma quando ti dava una prova d'affetto si capiva che era sincera. Quel giorno non mi diede niente".

A proposito del terrorismo che devastava l'Italia in quell'anno, Lama aggiunse: "Troppi nella Cgil e nel Pci pensavano che il movimento del 77 fosse più o meno simile a quello del 68. Ma non era così. Stava emergendo un grumo di disperazione, d'impotenza, di violenza fine a se stessa". Non vedere e non capire: la sinistra di allora celava dentro di sé questo virus micidiale, capace di stroncare dieci partiti. Con la testa stava ancora negli anni Quaranta. E pensava al fascismo. Alla fine del 1977, nel convocare a Torino una manifestazione per la morte di Carlo Casalegno, ucciso dalle Brigate rosse, la Cgil, la Cisl e la Uil scrivevano sui volantini che s'era trattato di 'terrorismo di stampo fascista'.

Sono cambiate le sinistre di oggi? Certamente sì. Ma non tutte. E non nello stesso modo. Qualcuna nasconde sempre dentro di sé lo stesso virus violento di allora. I tempi sono mutati, l'Italia è molto diversa, una buona metà sta schierata con il centro-destra, emerge un'opinione pubblica moderata che non si fa zittire come avveniva sino a qualche anno fa. Ma sul versante opposto ci sono partiti neo-comunisti che flirtano con gli irriducibili eredi di un movimento scomparso. Debbo essere sincero sino in fondo? Pure nella base dei Ds vedo pulsioni intolleranti nei confronti di chi osa dire o scrivere fuori dalle sacre regole, dettate in un'epoca conclusa e che non tornerà più. Ecco il vero problema di un leader riformista come Piero Fassino. So che lui lo sa. E forse si sta domandando come fare affinché (cito un vecchio detto) il morto non abbia la meglio sul vivo.

mercoledì 14 febbraio 2007

l’Unità 14.2.07
La sottile linea rossa spezzata dalle spranghe
di Enrico Fierro


TRENT’ANNI FA l’aggressione a Luciano Lama durante un comizio all’Università di Roma. Quattro testimoni raccontano il 17 febbraio 1977 dalla parte di chi tirava le pietre e da quella di chi, invece, le pietre le prese in faccia

Quel giorno è un giorno di quelli che vorresti cancellare dai ricordi. Anche dopo trent’anni. Perché quel 17 febbraio 1977, in Piazza della Minerva, a San Lorenzo, cuore popolare e irrequieto di Roma, morì un’idea e nacque un mostro.
Ore 10 del mattino. Cielo gonfio. Area plumbea. Università occupata dai tetri «autonomi» e dagli irriverenti «indiani metropolitani». L’attacco al cuore dello Stato (che è «borghese» e come tale si abbatte ma non si cambia) e una irritante creatività: in mezzo una marea di giovani. Ragazzi e ragazze, molti fuorisede, moltissimi provenienti dal Sud. Soldi pochi, idee tante, furori e speranze giovanili. Il Pci non è più all’opposizione ma è ancora «un partito di lotta», che però sta al governo. Nel senso che sostiene l’esecutivo guidato da Giulio Andreotti ma non ha ministri.
Da giorni San Lorenzo è in fiamme. A via Dei Volsci si progetta la rivoluzione armata. Dentro l’Università okkupata (con la K, come Kossiga che è il ministro dell’Interno) non entra nessuno.
Le indiscrezioni dell’epoca, che diventano cronaca e poi inevitabilmente storia, ci dicono che fu il rettore Ruberti a chiedere l’intervento dei sindacati e del Partito comunista. Invito accolto. Ci furono riunioni, anche riservate, infine la decisione: entriamo all’Università. E con Luciano Lama, il grande leader del Sindacato. Uomo popolarissimo, tra i capi della Resistenza, leader vero in un tempo in cui i leader non li nominava la tv.
Il segretario della Cgil arriva scortato da un robusto servizio d’ordine di lavoratori. Nei cortili dell’Università - nei pressi dell’Istituto di Chimica - gli «indiani» hanno preparato un finto comizio con un pupazzo che raffigura Lama. Volano sberleffi. Si ride. Ancora per poco. Lama è in piedi su un «Dodge rosso», il mitico camion che ha accompagnato tutte le manifestazioni di Pci e Cgil da Porta San Paolo a San Giovanni. «Cari compagni e care compagne. Studenti...». Volano fischi. Palloncini pieni di vernice rossa. Sputi. Spintoni. Bulloni. Mani giovani impugnano chiavi inglesi. Mani ruvide di lavoratori aste di bandiere.
Testimonianza di un ragazzo che c’era, ed era dall’altra parte del «Dodge» a tirare pietre, conservata nello sterminato archivio del web: «Della giornata in cui Lama fu cacciato dall’università io ho un ricordo molto brutto. Mi é rimasta nella mente un’immagine: un compagno del movimento che durante il fuggi-fuggi del servizio d’ordine del Pci aveva in mano un martello e ha cominciato a rincorrere uno di quelli del servizio d’ordine del Pci, poi si è fermato, è tornato indietro, si è messo a piangere e si è abbracciato con dei compagni. È stato un momento di psicosi collettiva... ».
Testimonianza di chi invece le pietre le prese in faccia. Esterino Montino, oggi è senatore della Repubblica. «Quel 17 febbraio avevo 29 anni ed ero un giovane consigliere regionale del Pci. Allora la Federazione romana era diretta da Paolo Ciofi, Luigi Petroselli era il segretario regionale. Ho un ricordo terribile di quella giornata. Sì, fummo cacciati dall’università. Io che venivo dalle lotte operaie ero diventato la controparte, il nemico. Certo, fu giusto organizzare quella manifestazione con Lama, dovevamo riaffermare il diritto ad una università aperta a tutti. Ma non capimmo, nessuno di noi all’epoca capì che si era rotto qualcosa tra noi, il Pci, e una parte importante della gioventù italiana. Quelli che fischiavano in Piazza della Minerva non erano solo autonomi. Ma erano ragazzi che nel ’75 e nel ’76 ci avevano fatto vincere. Ci avevano dato una forza straordinaria e quel giorno ci isolavano. Più ci avvicinavamo ad un percorso istituzionale, più ci allontanavamo da loro. No, quel giorno a lanciare pietre e a scontrarsi con operai, impiegati, insegnanti, non c’erano solo autonomi già sulla sottile linea di confine col terrorismo, ma giovani, con le loro idee, le loro speranze, e soprattutto il loro malessere. La verità è che non capimmo...».
Non solo futuri brigatisti in piazza quel giorno, ma anche gruppi della sinistra estrema (extraparlamentare si diceva allora). Critici in modo duro verso il Pci, ma destinati «a fare da cuscinetto tra i sindacati e gli autonomi». Frase di Silvio Di Francia, oggi assessore alla Cultura nella giunta Veltroni, ieri dentro Lotta continua e i Collettivi universitari. «Quel 17 febbraio lo ricordo come il giorno dell’amarezza. In molti gestirono quell’evento con una mentalità militare. Rioccupare l’università, resistere, cacciare i comunisti. Questi erano i termini della questione. Fin dalla sera prima avevamo cercato di convincere il Pci e la Cgil a non fare quella manifestazione con Lama. Cercammo di evitare lo scontro ma fummo tutti travolti. La sera, poi, arrivarono i blindati di Cossiga e il Pci, dal canto suo, scatenò la caccia all’uomo. Senza capire che c’era una profonda differenza tra la parte creativa del movimento - sempre in polemica con quelli di autonomia - e l’ala militarista. Insomma, volevamo fare il nostro Sessantotto e finì male. Eravamo una generazione fragile. Il ’77 fu l’anno della modernità rotta, ci fu la lunga stagione del terrorismo, poi il riflusso, gli anni Ottanta e il craxismo, ma quell’anno nacque qualcosa a Roma che aprì una speranza. L’estate romana, il cinema a Massenzio...».
E i giornali? Come raccontarono quel giorno? «I giornali - ricorda Sergio Criscuoli, nel ’77 cronista de l’Unità, oggi caporedattore del Tg3 al servizio esteri -, soprattutto quelli di sinistra, si divisero». Sergio è quel signore dalla barba ben curata che per anni ha letto la rassegna stampa notturna al Tg3. Gli leggiamo due titoli di prima pagina. Repubblica: «La rabbia studentesca esplode all’Università», occhiello, «Il comizio di Lama scatena gravi incidenti tra gli autonomi e i comunisti». L’Unità (allora «organo»): «Ferma condanna dell’aggressione squadristica di Roma», occhiello, «L’ignobile attacco contro la manifestazione del sindacato e degli studenti».
«Guarda che riscriverei quel pezzo uguale. Perché quel giorno era un po’ tutto annunciato, il copione era già scritto, da una parte e dall’altra. Gli autonomi volevano attaccare Lama, il servizio d’ordine del Pci e del sindacato sapeva bene di affrontare una situazione pesante, ma non poteva fare diversamente. Si trattava di esercitare un diritto. La verità è che gli autonomi volevano creare una frattura tra studenti e mondo del lavoro. Come raccontai quella giornata? Adottando la tecnica dell’alberello...».
Prego? «Ma sì, mi misi dietro un albero per ripararmi e per poter osservare meglio la scena. Sapevo che sarebbe scoppiato l’inferno. E fu un pugno nello stomaco, la conferma della deriva militare ed extralegale di una parte del movimento. Lo scontro di piazza serviva come momento catalizzatore per quelle forze che si stavano organizzando per la lotta armata. Il linguaggio dei pezzi dell’Unità non era appropriato, ma per difetto, non certo per eccesso. Perché era difficile non sentire dietro le cose che vedevi (la gente armata e non solo di spranghe ma anche di pistole) il sapore dello squadrismo, che non era fascista, ma ne mutuava i metodi. Nel pomeriggio ero fuori dalla Sapienza con altri colleghi, gli autonomi erano dentro e sparavano, le pallottole ci fischiavano sulla testa. Ricordo le lunghe discussioni con Silvana Mazzocchi e con Carlo Rivolta. Ne abbiamo parlato per anni, ci siamo divisi, anche in modo doloroso. C’era chi, come noi, vedeva in quella giornata una prova generale di guerra civile, e chi credeva che il movimento potesse essere l’antidoto al dilagare della violenza terroristica. Ferite che si sono trascinate per anni...».
17 febbraio 1997, il giorno in cui due mondi non seppero parlarsi. Nella loro incomunicabilità si perse una generazione divorata dal mostro del terrorismo.

l’Unità 14.2.07
ARCHIVI Un articolo di Laura Ingrao che, quel giorno, era in piazza Minerva insieme agli studenti
Che rabbia vedere quei ragazzi contro i ragazzi
di Laura Ingrao


Questo resoconto «di prima mano» di Laura Ingrao uscì su Paese Sera, ed è stato ripubblicato da Chiara Ingrao nel suo libro Soltanto una vita (Baldini Castoldi Dalai).

Tutto è stato raccontato; più o meno è sotto come lo avete raccontato. Ma quando ci si ritrova in mezzo, tutto sembra ancora più incredibile, assurdo, ha le dimensioni di uno strano giocare in cui ci può scappare il morto e il morto puoi essere anche tu. Tutti quei lunghi bastoni, mattoni, pezzi di marmo che volavano letteralmente, diretti all’impazzata contro un raggruppamento vasto e cordiale di ragazzi e ragazze, di sindacalisti, di giovani e meno giovani, appariva come qualche cosa di così totalmente assurdo che stravolgeva ogni tuo concetto, formatosi attraverso anni di esperienza tue e degli altri, di «scontro di piazza». Era d’altronde evidente che i due o trecento «armati» costituivano un gruppo con una tecnica non improvvisata, carica di un compito prestabilito di «scontro fisico», diretto in modo preciso a offendere, ferire, possibilmente mortificare una qualsiasi espressione di democrazia organizzata, a scompigliare perciò, una «manifestazione», sentita in sé e per sé come qualcosa di odioso, qualcosa da distruggere nel suo scarno rituale, fatto di un palco, di un microfono, di un discorso, di gente che ascolta. I ragazzi (solo studenti?) che con spranghe, coltelli, sampietrini, legni usati come dardi e vernici aggredivano la forte e composta presenza intorno, a Lama e ai sindacati, recitavano, in forma quasi allucinante, una loro «battaglia di strada»: strana battaglia tra inermi convenuti per «non battersi» e squadre impegnate in scorribande feroci. Faceva rabbia ritirarsi, ma faceva anche rabbia pensare di poter essere colpiti da quegli assurdi «nemici». Nemici di chi? Nemici di tutto evidentemente.(...)
Forse di ognuno di quei ragazzi come gli altri, giubbotti, sciarpe, capelli corti o lunghi, berretti di lana colorata e jeans, in quei ragazzi che obiettivamente si muovevano come se davanti a loro non ci fossero studenti e operai ma «nemici da distruggere», forse in ciascuno di quei ragazzi di cui Pasolini parlava con profetica angoscia, si nasconde una disperazione, una esperienza già maturata di esclusione da «tutto»?.
Forse. Ma sono egualmente figli della soffocante periferia romana, pendolari del Sud, studenti, lavoratori sottocosto o candidati disoccupati anche quegli altri che non hanno cercato lo scontro fisico e più tardi vedo stravolti, furibondi, le ragazze che piangono umiliate, le ragazze e i ragazzi che, disciplinatamente, non hanno portato con sé neppure una chiave inglese in saccoccia, che sono lì, davanti ai giornali e alla vicina Federazione comunista, a discutere, a riflettere, a pensare al domani.
Scrivo nel pomeriggio di questo orrendo giovedì grasso, in cui, tra l’altro, gli occupanti avevano giorni fa programmato di fare «una festa». So che a questa festa dovevano andare studenti e studentesse anche delle medie a cantare canzoni e a beffare tutti, a chiudersi per qualche ora in quella «coperta di Linus» che è per tanti lo stare insieme in uno spazio tutto loro (o che immaginano tutto loro). Ma a quest’ora l’università di Roma è già stata sgomberata e il telegiornale ne porta le immagini tristissime di ogni operazione del genere, insieme alle ambigue mezze verità della ricostruzione dei fatti. Quel che ho visto questa mattina mi fa pensare con amarezza estrema ai colleghi insegnanti ammazzati a Piazza della Loggia, durante una assemblea sindacale; ed è tristissimo. Sono insegnante da molti anni: se sono stata stamattina all’Università; se a 50 anni suonati ho «fatto» il 68, è perché, in qualche modo, come si dice, «sono tutti miei figli». Ho cercato di capirli, ma soprattutto di fare la strada con loro, imparare da loro: da quelli che hanno le famiglie repressive e noiose, da quelli che cambiano pelle e la fanno cambiare. Mi è molto difficile oggi, per non dire impossibile, capire dal di dentro quel che è successo.

l’Unità 14.2.07
Vaticano. Storiche Ingerenze
di Vittorio Emiliani


Siamo un Paese a laicità limitata? In effetti, la presenza del papa a Roma ha sempre condizionato in modo assai più stringente che altrove la politica interna, anche più che nella (una volta) cattolicissima Spagna. Nei giorni scorsi si sono spesso rievocati il «Non possumus» e il «Non expedit» (1874) papali che tanto a lungo hanno tenuto lontani i cattolici dall'impegno democratico.
E li hanno tenuti lontani proprio nei decenni di costruzione dello Stato unitario. Oppure si è rievocata la continua commistione fra fede e politica praticata da papa Pacelli dopo la nascita della Repubblica italiana. Per concludere che non c'è molto di nuovo in tal senso sotto il sole di Roma.
Certo, erano anni che non sentivamo così pressante, quotidiano, martellante l'intervento vaticano nelle vicende di casa nostra. Troppo facile rispondere a questo allarme che la Chiesa cattolica ha sempre agito così, andando, anche in tempi recenti, ben al di là della riconosciuta libertà di richiamare i fedeli ai principii fondamentali della fede. Fu così, certamente, durante il papato di Pio XII che, ossessionato, fin dagli anni del primo dopoguerra in cui era stato Nunzio in Germania, dall'incombente pericoloso «rosso», concorse potentemente ad alzare con tutte le forze del collateralismo cattolico la «diga al comunismo». Facilitato in ciò anche dalla sciagurata scelta (più di Nenni che di Togliatti, in verità) del Fronte Popolare con un'unica lista. Il papa divenne quindi uno dei protagonisti del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, assieme alle parrocchie (ragazzino, ricordo bene i cappellani e i parroci direttamente impegnati in campagna elettorale), ai Comitati civici, all'Azione cattolica, alla Fuci, alla Coldiretti e alla Dc naturalmente. La quale tuttavia era nata come «partito dei cattolici» (e non cattolico), quindi con un impianto laico, e svolse anche allora, con Alcide De Gasperi, un ruolo fondamentale, oggi ampiamente riconosciuto, di mediazione politica a tutto campo. Quando infatti, nel 1952, il Vaticano pretese, purtroppo con un don Luigi Sturzo invecchiato e lontano dalle impostazioni originarie, di piegare la Dc ad un listone con la destra neofascista alle comunali di Roma, la risposta del partito fu negativa e la diede lo stesso De Gasperi. Il quale, del resto, già nel '48, pur avendo la maggioranza assoluta dei seggi in uno dei due rami del Parlamento, volle dare vita a governi di coalizione coi tre partiti laici, Psdi, Pri e Pli.
Gli anni '50 furono anni difficili per il laicismo in Italia, la presenza della Chiesa era capillare e spesso arcaica, la censura cinematografica e teatrale era occhiuta, a volte asfissiante, socialisti e comunisti risultavano ancora scomunicati, nell'agosto del 1956 il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, bollò in una lettera pubblica al parroco due fedeli uniti soltanto civilmente come «pubblici peccatori e concubini» escludendoli dai riti e dai sacramenti. Fu uno scandalo clamoroso. Ma ve ne fu un altro all'incontrario allorché su querela dello sposo, Mauro Bellandi, il vescovo pratese venne condannato, sia pure ad una ammenda di 40.000 lire, e vi fu chi ne prese le difese, fra cui il Corriere della Sera. Eppure la Dc coltivava da qualche anno un dialogo coi socialisti preparando la cosiddetta «apertura a sinistra». Al Congresso del Psi di Venezia del 1957 si verificò un fatto del tutto insolito e inatteso: il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Roncalli, rivolse infatti ai congressisti un manifesto di saluto che stupì. Poco tempo prima egli aveva duramente condannato una possibile intesa veneta fra Dc e Psi provocando la fine del giornale democristiano che l'aveva sostenuta, Il Popolo del Veneto. Era un primo segnale di apertura al dialogo quel manifesto? Lo era. Tant'è che Roma intervenne subito perché il patriarca ritrattasse. Come avvenne.
Del resto, ancora nel 1959, il gesuita padre Antonio Messineo sosteneva su Civiltà cattolica che l'apertura a sinistra «urta contro un preciso e insuperabile divieto della morale», ammissibile soltanto come «scelta del male minore per evitare il male maggiore». Da escludersi però in caso di accordo col Psi, partito di tradizione, oltre tutto, orgogliosamente laica. Come ben sottolinea Giuseppe Tamburrano nel suo volume su Cronaca e storia del centrosinistra (BUR, 1990), il coro della stampa cattolica - oltre che di quella confindustriale - contro possibili intese fra Dc e Psi era presso che unanime e lo stesso papa Giovanni XXIII, almeno prima del 1960, nei primi due anni di pontificato, «ruppe con l'indirizzo pacelliano (...) con molta prudenza e direi lentezza». Mentre le gerarchie si mantenevano del tutto allineate alle vecchie posizioni, a cominciare dallo stesso «amletico cardinale Montini» (la definizione, privata, è dello stesso Roncalli) il quale, in materia, fu molto reciso nel ribadire la sua conformità «ai ripetuti avvertimenti della sede apostolica». La strategia di Giovanni XXIII mutò in modo netto con l'enciclica «Mater et Magistra» in cui ai cattolici venne riconosciuta una concreta autonomia in politica e con la susseguente «Pacem in terris», enciclica sociale, economica, definita «keynesiana» dagli osservatori anglosassoni. L'apertura del Concilio Vaticano II esigeva, del resto, la rivalutazione del ruolo pastorale della Chiesa e dei suoi vescovi. E tuttavia la parte più conservatrice delle gerarchie si espresse in modo pesante (il cardinale Ottaviani parlò di «vergognoso baratto») quando la Dc decise l'alleanza coi socialisti. Ma al timone c'era Aldo Moro il quale poteva assicurare all'interno e all'esterno che «l'autonomia è la nostra assunzione di responsabilità (...) morale e politica».
Il cammino di quel primo centrosinistra sarebbe stato fecondo e insieme assai travagliato, col drammatico luglio 1964, dove peraltro la Chiesa non ebbe ruolo primario, lo ebbero le forze economiche tese ad indebolire (come accadde) il riformismo del centrosinistra, in materia di politica economica e di urbanistica. Con un sindacato, la Cgil, che, dal lato opposto, all'epoca respingeva la proposta del ministro socialista Antonio Giolitti di «moderare» al 12 per cento le rivendicazioni salariali. Certo, la Chiesa non poteva vedere con favore la riforma sanitaria che potenziava e modernizzava strutture pubbliche subalterne da secoli alla rete privata e quindi anche religiosa. Analogo discorso valeva per la scuola pubblica rispetto a quella confessionale. Fu tuttavia il finanziamento statale, preteso dalle forze cattoliche per le scuole materne, per lo più religiose, a creare «l'incidente» sul quale si ebbe la tormentata e decisiva crisi di governo del 1964.
Durante il pontificato di Paolo VI, papa problematico, inquieto, colto, le occasioni di grave frizione furono date soprattutto dalla legislazione sulla famiglia e in particolare dalla legge sul divorzio proposta da un liberale, Antonio Baslini, e da un socialista, Loris Fortuna, quest'ultimo anche con tessera radicale, sospinti più dalla pubblica opinione che dai partiti (radicali a parte). Essa passò in Parlamento nel dicembre del 1970 fra polemiche molto accese. La Democrazia Cristiana pensò a lungo di poterla modificare agitando lo spauracchio del referendum abrogativo e anzi gettandolo più volte sul tavolo delle trattative sia per il governo che per la presidenza della Repubblica. Il Pci temeva il referendum, allarmato da una irreversibile rottura dei rapporto coi cattolici. Poi, quando Amintore Fanfani, sospinto dalle gerarchie ecclesiastiche (con più di una crepa, era contrario, ad esempio, il cardinale Pellegrino, arcivescovo di Torino), si gettò nella mischia, la sinistra fu unita, insieme alle forze laiche, radicali, dello stesso dichiarato e coraggioso dissenso cattolico, nel sostenere le ragioni del NO. Che ebbero dagli italiani un sostegno inaspettatamente forte e deciso. In età avanzata Fanfani, col quale ebbi occasione di numerosi incontri privati, manifestò scetticismo e anche ironia su quella sua scelta di campo referendaria.
L'altro momento di ingerenza diretta del papato nella vita politica italiana fu certamente quello del voto parlamentare e poi del referendum sulla legge per l'interruzione di maternità. Giovanni Paolo II, di cui si tendono a sfumare certi aspetti sessuofobi e misogini (quasi che Benedetto XVI sia piovuto da altri mondi), apparve con la solennità delle grandi occasioni, impugnando il pastorale, dalla loggia centrale di San Pietro per invocare una pronuncia popolare contro la legislazione sull'aborto. Invano anche stavolta, perché italiane e italiani convalidarono a grande maggioranza quella civile, sofferta legislazione.
Quindi, gli atteggiamenti di questi giorni di papa Ratzinger, dei cardinali, dei vescovi non rappresentano una grande novità, purtroppo, sotto il sole di Roma. Rappresentano il segno di una continuità in comportamenti lontani dall'evolversi della società e in conseguenti, palesi ingerenze nella vita politica italiana. Nella cui scena manca, purtroppo, il «partito dei cattolici», con la sua natura laica, con la sua cultura della autonomia nella responsabilità, mentre gli altri partiti sono presenze indebolite, o caricature di partiti come Forza Italia il cui leader, divorziato e risposato, «difende i valori della famiglia» in senso cattolico. Probabilmente al plurale.
E Casini guarda soltanto all'immediato, alla possibilità di far cadere sui Dico il governo Prodi, senza la vista lunga di Moro e di altri. Tutto si gioca nel contingente, nel brevissimo periodo, mentre la Chiesa si arrocca a difesa della unicità dei matrimonii religiosi che quest'anno nella stessa Roma, di cui è vicario il pontefice, sono calati del 20 per cento. Pensare di frenare o, addirittura, di fermare questa crisi profonda e lontana entrando, o rientrando, pesantemente in politica non sembra per niente saggio. È possibile che crei, per reazione, una ripresa di consapevolezza dei valori laici dello Stato democratico moderno. Non se ne può più di vivere in uno Stato a laicità, e quindi a sovranità, limitata.

Repubblica 14.2.07
Se la Chiesa sfida la Costituzione
di Stefano Rodotà


È ormai evidente che le gerarchie ecclesiastiche hanno deciso di collocare i loro interventi e le loro iniziative in una dimensione che va ben al di là del legittimo esercizio della libertà d´espressione e dell´altrettanto legittimo esercizio del loro magistero. Giudicano i nostri tempi con una drammaticità che fa loro concludere che solo una presenza diretta, non tanto nella società, ma nella sfera propriamente politica, può rendere possibile il raggiungimento dei loro obiettivi. E così espongono anche i loro comportamenti ad un giudizio analogo a quello che dev´essere pronunciato sull´azione di qualsiasi soggetto politico.
Benedetto XVI ha affermato in modo perentorio che «nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale». Ed ha aggiunto che non si possono ignorare «norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore o dal consenso degli Stati, ma precedono la legge umana e per questo non ammettono deroghe da parte di nessuno». Di rincalzo, il Presidente della Commissione Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, da almeno dieci anni protagonista indiscusso del corso politico della Chiesa, ha annunciato una nota ufficiale con la quale verrà indicato il modo in cui i cattolici, e i parlamentari in primo luogo, dovranno comportarsi di fronte al disegno di legge sui "diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi", i cosiddetti "Dico". Così, in un colpo solo, viene aperto un conflitto con il Governo, affermata la sovranità limitata del Parlamento, azzerata la Costituzione.
Le parole sono chiare. Se nessuna legge può sovvertire la norma indicata dal Creatore per la famiglia, la legittima approvazione del disegno di legge sui Dico diviene un atto "sovversivo" del Governo. Se i parlamentari cattolici devono votare secondo le indicazioni della Chiesa, viene cancellata la norma costituzionale che prevede la loro libertà da ogni "vincolo di mandato" e l´autonomia e la sovranità del Parlamento devono cedere di fronte ad istruzioni provenienti da autorità esterne. Se non sono ammesse leggi che non corrispondono al diritto naturale, la tavola dei valori non è più quella che si ritrova nella Costituzione, ma quella indicata da una legge naturale i cui contenuti sono definiti esclusivamente dalla Chiesa.
Il crescendo dei toni e delle iniziative, nell´ultimo periodo soprattutto, rendevano prevedibile questa conclusione, peraltro annunciata dal "Non possumus" proclamato qualche giorno fa. Viene così clamorosamente confermata l´analisi che aveva colto nella linea della Chiesa l´intento di realizzare molto di più di un provvisorio allineamento della politica su una particolare posizione definita dalle gerarchie ecclesiastiche, di cui i parlamentari cattolici divenivano il braccio secolare. L´obiettivo era ed è assai più ambizioso: una vera "revisione costituzionale", volta a sostituire il patto tra i cittadini fondato sulla Costituzione repubblicana con un vincolo derivante dalla gerarchia di valori fissata una volta per tutte dalla Chiesa attraverso una sua versione autoritaria del diritto naturale (non dimentichiamo, infatti, che il diritto naturale conosce anche molte altre versioni, comprese quelle che non prevedono proprio la famiglia tra le istituzioni discendenti da tale diritto). Viene così travolto anche l´articolo 7 della Costituzione che, disciplinando i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, stabilisce che questi due enti sono, "ciascuno nel proprio ordine", "indipendenti e sovrani". Nel momento in cui la Chiesa proclama che vi sono "norme inderogabili e cogenti" che non possono essere affidate alla volontà del legislatore, nega in queste materie l´autonomia e l´indipendenza dello Stato e sostituisce la propria sovranità a quella delle istituzioni pubbliche. Il patto costituzionale tra Chiesa e Stato viene infranto, quasi denunciato unilateralmente.
Questo è il quadro istituzionale e politico disegnato con assoluta nettezza dai molti interventi vaticani. Un quadro di rotture e di conflitti, davvero sovversivo delle regole costituzionali, con una delegittimazione a tutto campo delle iniziative di Governo e Parlamento che trasgrediscano ciò che la Chiesa, unilateralmente, stabilisce come "inderogabile e cogente". Sapranno le istituzioni dello Stato rendersi conto di quel che sta accadendo? Non devono ritrovare solo l´orgoglio della propria funzione, ma il senso profondo della loro missione, la stessa loro ragion d´essere, che ne fa il luogo di tutti i cittadini, credenti e non credenti, comunque liberi e degni d´essere rispettati in ogni loro convinzione, e in ogni caso fedeli, come devono essere, alla Costituzione e ai suoi valori.

Repubblica 14.2.07
Bertinotti difende il sindacato "Unità di popolo contro le Br"
di Silvio Buzzanca


ROMA - Il sindacato è stato determinate nella lotta per sconfiggere il terrorismo degli Anni 70. E oggi, come allora, serva l´unità di tutte le forze per battere le rinate Brigate Rosse. Fausto Bertinotti, all´ora di cena e dagli schermi del Tg1, spezza una lancia a favore della Cgil, bersagliata per tutta la giornata dalla Cdl con l´accusa più o meno esplicita di connivenza con i terroristi. Accusa accompagnata con quella a Rifondazione e ai partiti della sinistra radicale di creare con le loro lotte un clima adatto all´attività dei brigatisti. A cominciare dalla prossima manifestazione di Vicenza.
Parole gravi, tanto che il presidente della Camera sente il bisogno di ricordare come negli Anni di Piombo «il sindacato ha avuto forse il compito più difficile nella lotta al terrorismo, quello di prosciugare l´acqua in cui nuotavano i terroristi. Lo ha fatto con grande coraggio e grande determinazione». Un ragionamento che il presidente della Camera conclude con un invito alla «mobilitazione delle coscienze contro il terrorismo e per bandire la violenza» e a ricreare la stessa «unità di popolo che fu decisiva per sconfiggere il terrorismo».
Parole che sembrano un tentativo di ricondurre a ragione un dibattito molto aspro. Soprattutto a destra. Nonostante Franco Giordano, segretario di Rifondazione, assicuri: «La nostra condanna del terrorismo è netta. Considero assolutamente indebito ogni collegamento tra gli arresti e la manifestazione di Vicenza, che sarà grande, libera e democratica». Ma la polemica non si placa. Per il momento si salva Prodi che dall´India si limita a congratularsi con magistrati e investigatori, dice che è stato dato «un colpo duro, spero anzi letale » alle Br. E alla domanda sul link fra gli arresti e Vicenza, risponde: «Questi gruppi sono stati presi; quindi basta. Questa è una grande soddisfazione».
In Italia invece la Cdl attacca. Prima La Loggia e la Bertolini lamentano che dall´Unione non è arrivata la solidarietà al "bersaglio" Berlusconi. Quando arriva da parte di Veltroni, Lusetti e altri, il tiro si sposta sulla criminalizzazione del Cavaliere come fattore scatenante del possibile attentato. Lainati rievoca un discorso di Angius che replica piccato. Po tocca al coordinatore Bondi che dice: «La sinistra estrema parla ancora il linguaggio della lotta totale a vari livelli con un´intensità per cui la violazione della legge e l´assassinio politico possono diventare l´atto più coerente e definitivo».
Nel tritacarne entra la Cgil. «La novità rispetto al passato è che le nuove Br oggi hanno solidi riferimenti nella Cgil ed in alcuni partiti della sinistra», azzarda Ronconi, Udc. Nel migliore dei casi si gira intorno al tema. «Non vorremmo che si sottovalutasse il grado di infiltrazione nella Cgil», dice il segretario del Pri Nucara. Nel peggiore, Gasparri, dice che «la sinistra esalta i cattivi maestri e arma nuovi alunni». E alla fine si arriva a Vietti, Udc, che spiega: «Chi soffia sul fuoco del conflitto sociale deve porsi responsabilmente anche il problema degli effetti destabilizzanti che ne possono derivare». Ma l´Unione respinge al mittente sia l´attacco alla Cgil, sia la criminalizzazione del dissenso. «I tentativi di strumentalizzazione messi in atto da alcuni rappresentanti della Cdl sono davvero incredibili e squallidi», dice Alfonso Pecoraro Scanio. Anna Finocchiaro replica alla Cdl che «la storia ha già sconfitto da molto tempo l´equazione secondo cui la sinistra sia produttrice delle Br». E Dario Franceschini aggiunge: «Non facciamo confusione, non si può fare nessun collegamento anche con le frange più estremiste del panorama politico italiano».

Repubblica 14.2.07
"C´è solo il disprezzo assoluto"
Foa: rivivo stagioni del passato, odio i brigatisti di ieri e di oggi
Ma per il padre nobile della sinistra, ex leader Fiom, il disagio sociale non va criminalizzato
di Goffredo De Marchis


ROMA - Vittorio Foa è nella sua casa di Formia. Ha 97 anni, ne ha vissuti otto nelle carceri fasciste, altri in Parlamento, altri ancora dietro una cattedra universitaria. È il padre nobile della sinistra al quale si rivolgono i leader per raccontare ai ragazzi la storia con una presenza, una faccia che ha attraversato tutto il secolo scorso. E infatti esordisce: «Sono troppo vecchio per l´attualità». Ma ha ascoltato i telegiornali, attraverso i resoconti dei giornali ha potuto ricostruire la mappa di queste nuove Brigate rosse: ex terroristi, sindacalisti, operai. Anche giovani, incredibilmente attratti da un mostro ormai vecchio di trent´anni. «Davvero non so da dove cominciare - sospira, ma sempre con quel tono vigoroso, da ex leader del sindacato - . Odiavo i brigatisti di allora e odio quelli di oggi». È stato nella Fiom nell´immediato dopoguerra, nel ‘55 ne è diventato segretario nazionale. Oggi la sigla dei metalmeccanici della Cgil è in prima pagina perché molti degli arrestati vengono da lì, da quel gruppo. È vero che lui ha sempre cercato di focalizzare anche «il disagio sociale, un disagio che non va criminalizzato». Ma la recrudescenza che emerge dagli atti dell´inchiesta davvero fatica a incasellarla in una categoria di analisi. «Guardi, non credo ci sia molto da ragionare su questo fenomeno. Non ha senso. Per le persone coinvolte posso avere solamente parole di dis-prez-zo. Disprezzo assoluto», scandisce al telefono.
Odiare chi odia. Disprezzare chi è pronto ad accendere la violenza nel nome di «una periferia sociale e culturale» che certo esiste. Già otto anni fa, dopo l´omicidio di Massimo D´Antona, non aveva fatto sconti. «Forse anche nel sindacato - disse Foa, che nello stesso sindacato aveva trascorso una parte della sua lunga vita - occorrerebbero maggiore chiarezza e maggiore durezza». E poi la scoperta di tanti volti giovanissimi: 23 anni, 27 anni... Allora il suo appello aveva come obiettivo proprio le nuove generazioni: «Occupiamoci meno dei vecchi e più dei giovani. Sono in pericolo, dobbiamo metterli in guardia». Certo, oggi sono gruppi sparuti mentre «negli anni ‘70 - è il ricordo del padre nobile della sinistra - il linguaggio della follia era generalizzato». Il che non significa che la follia non si avverta nelle intercettazioni della nuova ondata brigatista. «È un´eco», ammette Foa.
Quando l´ex Prima linea Sergio Segio aveva lanciato l´allarme sulle infiltrazioni terroristiche nel movimento e nel sindacalismo di base, Foa aveva respinto l´accusa, difeso la maturità della sinistra. «Le ambiguità rimangono, ma questa no - disse nel 2003 - . Quello che vedo è una destra pronta a strumentalizzare le lotte sindacali. Mi sembra però una reazione fisiologica». Oggi confermerebbe quel giudizio? Non c´è tempo per chiederglielo. Perché il blitz di lunedì lo ha colto di sorpresa: pedinamenti, prove di fuoco, armi nascoste nell´orto, una lista di bersagli. Non pensava che avrebbe rivisto questo film tragico. «È un effetto perverso della vecchiaia: rivivere stagioni che sembravano superate - spiega dalla casa di Formia -. Adesso voglio saperne di più, ma non credo che ci sia molto da capire. Ripeto: non ha senso. E per chi ha messo in piedi tutto questo io provo solo disprezzo».

Repubblica 14.2.07
Intervista con Giovanni Reale
Così Ratzinger è più uomo che teologo
Non si ama solo un corpo ma la bellezza della sua anima
di Luciana Sica


Papa Ratzinger ha smesso i panni dell´intellettuale astratto, del teologo sofisticato, per proporsi come uomo, interamente calato nell´essenza dell´uomo che è la sua capacità d´amare e di essere amato. Questa è l´opinione di Giovanni Reale, professore di Storia della filosofia antica al San Raffaele, autore di molti saggi importanti, tra cui il celebre manuale con Dario Antiseri, Storia della filosofia occidentale, best seller tradotto in varie lingue, anche in russo: tra i vari riconoscimenti, Reale è piuttosto orgoglioso di vantare anche quello di professor honoris causa a Mosca.
Le va bene la definizione di "cattolico liberale"?
«Sono un cristiano aperto, molto aperto, liberale certamente...».
Come giudica il messaggio del Papa in cui si parla di un atteggiamento erotico di Dio verso l´uomo?
«Il Papa ha voluto ricordare che la religione non è filosofia, non è astrazione, toccando il problema di fondo dell´uomo che è l´amore. Sa cosa diceva Agostino? "Se tu non ami, sei niente". Puoi avere tutto, ma quel tutto che hai è niente, perché è l´amore a consentirti di essere quello che sei, tu sei quel che ami».
Ma nella nozione di eros, è implicita la sensualità, qualcosa di molto corporeo, lei non crede?
«Eros è senz´altro passione d´amore, è una forza acquisitiva che agisce per prendere e far proprio, che nasce dalla mancanza di qualcosa di cui abbiamo bisogno e che ci porta, mediante la bellezza, a salire più in alto... L´aspetto corporeo è solo il punto di partenza: è piccola cosa, ci dice Platone nel Simposio e nel Fedro, perché quando ami il corpo di un altro, ami sempre il bello che c´è in quel corpo».
Non è detto, non è sempre detto.
«Quando ami davvero il corpo di un altro, ami sempre la bellezza della sua anima, questa è la cosa stupefacente. E l´amore "sale" ancora di più quando si amano le opere dell´anima, la conoscenza filosofica che raggiunge l´unione mistica se riesce a cogliere il bello in sé: l´assoluto».
Dunque non è sorprendente che il Papa parli di un eros di Dio nei confronti dell´uomo...
«Dice Ratzinger che l´eros di Dio per l´uomo è insieme totalmente agape, amore cioè puramente donativo: eros e agape si congiungono. La trovo un´affermazione di grandissima importanza, mostra - prima ancora che un intellettuale - un uomo che ha capito profondamente l´amore in tutte le sue sfaccettature, come un´unica realtà che ha diverse dimensioni da non contrapporre».
Il Papa ha parlato anche di un´impossibile autosufficienza dell´uomo, sedotto dalle menzogne del Maligno... Lei trova convincente questo linguaggio?
«Sì, pensi quanto l´uomo è danneggiato dalle promesse illusorie della scienza e della tecnica che dovrebbero risolvere tutti i problemi dell´uomo. È chiaro che non è così, e che certi problemi possono essere risolti solo attraverso l´amore».

Repubblica 14.2.07
DIO CHE INCONTRA L'EROS
Una frase del pontefice scritta nel Messaggio per la Quaresima
Nell'amore divino non c'è solo "agape" cioè ricerca del bene dell'altro ma anche passione
"L'Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo"
Due termini della cultura greca già al centro della prima enciclica


CITTA DEL VATICANO. «Dio - disse papa Luciani - è anche Madre». Dio, ha scritto papa Ratzinger nella sua prima enciclica, è Amore. Adesso il papa teologo fa un salto più in là. Dio, afferma nel suo messaggio quaresimale, è anche Eros. Perché «l´Eros fa parte del cuore stesso di Dio». E´ un´immagine audace, che rivela quanto Joseph Ratzinger sia attratto e affascinato dal mistero dell´amore divino e quanto lo incanti quel cuore pulsante della Divinità, cui da teologo tenta di avvicinarsi.
«L´amore di Dio è anche Eros: nell´Antico Testamento - sostiene Benedetto XVI - il Creatore mostra verso il popolo che si è scelto una predilezione che trascende ogni umana motivazione». Agape ed Eros, due termini della cultura greca, erano al centro della sua prima enciclica Deus Caritas Est. Scriveva il papa-teologo che l´esistenza umana ruota intorno all´amore (eros) che cerca la felicita «nell´altro» e all´amore (agape) che si esprime nella cura amorevole «per l´altro». Con questo Ratzinger intendeva chiarire che la fede non disprezza l´eros né la sessualità che prorompe nella ricerca del partner che nel proprio intimo si vuole possedere, ma al tempo stesso il pontefice tedesco voleva far emergere l´esigenza che l´amore trovasse il suo compimento nella donazione reciproca degli sposi. E in questo processo si sarebbe compiuta la parabola luminosa dall´eros-ebrezza che unisce due persone fino alla preoccupazione amorevole nei confronti di tutta la comunità. Dalla coppia alla società.
Questa volta Benedetto XVI afferra il filo di Arianna e lo mette in verticale. E´ il rapporto Uomo-Dio che lo interessa. O meglio l´atteggiamento di Dio verso l´Uomo. Sapevano i mistici che l´uomo può essere afferrato da un amore bruciante per Dio fino a perdersi in esso. E sapevano anche che l´amore di Dio può bruciare e sconvolgere la creatura umana, come testimoniano le grandi mistiche nei loro deliqui segnati da stimmate quasi erotiche.
Però Ratzinger nel suo messaggio è ansioso di sottolineare che l´amore divino non si esaurisce nell´amore paterno, protettivo, ma è proprio un sentimento che si manifesta in una autentica «passione amorosa». Spingendosi così in là, Benedetto XVI ritorna alle fonti della tradizione biblica che ha sempre voluto descrivere i rapporti tra Dio e Israele nei termini di una relazione tra Sposo e Sposa.
Agape, scrive il Papa nel messaggio quaresimale, è «l´amore oblativo di chi ricerca esclusivamente il bene dell´altro». E questo certamente è l´atteggiamento di Dio sin dalla Creazione. Ma, aggiunge il pontefice, l´Eros «denota invece l´amore di chi desidera possedere ciò che gli manca e anela all´unione dell´amato». Ed è questo Dio che anela al rapporto con l´Uomo, che viene evocato potentemente da Ratzinger. Dio non è felice se non entra anche in comunicazione con l´Uomo, sembra dire il pontefice.
Anzi lo afferma a chiare lettere: «L´amore con cui Dio ci circonda è senz´altro agape... ma c´è anche una passione divina». E questo impulso passionale la Bibbia lo «descrive con immagini audaci come quella dell´amore dell´uomo per la donna adultera».
E´ vero, l´Antico Testamento racconta il rapporto tra Dio e il Popolo eletto in tutta la fisicità, la carnalità, la rabbia e il desiderio di una relazione tra Amante e Amata. Ratzinger scandisce: «I testi biblici indicano che l´eros fa parte del cuore stesso di Dio: l´Onnipotente attende il sì delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa». Vengono qui in mente - e certamente sono state presenti al pontefice mentre scriveva il suo messaggio - le immagini trascinanti del Cantico dei Cantici, che la tradizione ebraica e poi cristiana ha sempre visto in una dimensione verticale: il rapporto tra Dio-Amante-Sposo e Israele-Amata-Sposa.
Dice lo Sposo in uno scenario quasi mozartiano: «Di buon mattino andremo nelle vigne, là ti darò le mie carezze». Risponde la Sposa: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, perché forte come la morte è l´amore, tenace come gli inferi è la passione».
Può succedere, però, che i credenti (Israele) non sappiano corrispondere all´amore di Dio. Allora Dio diventa furioso contro la sua Sposa adultera e sono scene violente da Cavalleria rusticana: «Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni - scandisce Dio per bocca del profeta Osea - altrimenti la spoglierò tutta nuda... scoprirò le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti... la ridurrò a una sterpaglia».
Per gli ebrei il grande peccato che interrompeva il rapporto Uomo- Dio è l´idolatria. Per Ratzinger è l´egoismo radicale, l´egocentrismo filosofico. «Purtroppo - osserva il Papa - fin dalle sue origini l´umanità, sedotta dal Maligno, si è chiusa all´amore di Dio, nell´illusione di una impossibile autosufficienza». Ma Dio, lo proclamava già Osea, attende con ansia il momento della riappacificazione con la sua Sposa: «La attirerò a me e parlerò al suo cuore».
Per ristabilire il patto, dichiara Ratzinger entrando nel cammino cristiano, Dio ha pagato il prezzo di versare il sangue del Figlio - Cristo: «Nella Croce si manifesta l´eros di Dio per noi. Eros è, infatti, quella forza che non permette all´amante di rimanere se stesso, ma lo spinge a unirsi all´amato». Conclude poeticamente Ratzinger: «Quale più folle eros di quello che ha portato il Figlio di Dio a unirsi a noi fino al punto di soffrire come proprie le conseguenze dei nostri delitti?».
Nella croce il cerchio si chiude. Con amore.

il Riformista 14.2.07
Quando ai cristiani non piaceva il matrimonio
di Luca Mastrantonio


San Valentino è il Babbo Natale degli innamorati. Fenomeno consumistico, feticcio di una religione positiva, presepe in versione cartolina prevertiana. Un Babbo Natale al contrario, però, perché si inizia a crederci quando non si è più tanto bambini, e si inizia a diventare adulti. Scoperto che l'amore non è eterno, si esorcizza questa caducità in diamanti che sono «per sempre», come dice la pubblicità di De Beers, che ha sottratto i preziosi all'usura da baratto dopo la crisi Usa del '29. Ci si vota così a un santo che, in realtà, non esiste più, e forse non è mai realmente esistito, ma è con lui che sono nati gli sms ante-litteram, quei bigliettini d'amore cartacei (le famose “valentine”, bigliettini con versi baciati ABAB e firmati “tuo Valentino”) e forse anche le chat, essendo il nume tutelare degli amori rivelati, in cui perfetti sconosciuti possono conoscere la loro anima gemella. San Valentino ricorda e si confonde, tra l'altro, con il primo divo cinematografico, Valentino Rodolfo, e anche con un famoso stilista italiano, ma meglio non esagerare.
In San Valentino di Francesco Pacifico si racconta di come il marketing - che è l'anima del commercio - e la poesia - che è il marketing dell'anima - abbiano inventato San Valentino. Sulla scorta di quanto Nicola Lagioia ha fatto con il Babbo Natale re-inventato dalla Coca Cola (sempre meglio dell'aranciata dei nazisti). Entrambi volumi usciti nella fortunata collana Memi, curata per Fazi editore da Gabriele Pedullà e Francesco Benigno. Una collana che sta decostruendo - ovvero sottoponendo a indagine storico-letteraria - i miti della fanciullezza, dal Babbo Natale di Lagioia agli alieni di Tommaso Pincio. Permettendo, così, di poter godere ancora della loro aura, per un attimo frainteso. Solo, in maniera più consapevole (alla fine il libro di Pacifico esce in concomitanza con San Valentino, per chi vuole festeggiarlo in stile Derrida) se non addirittura sotto copertura. L'unico modo per poter dire «ti amo» e dire «come dicono i poeti, ti amo». Anche se, a rigor di logica, con San Valentino bisognerebbe dire «ti amo, come vogliono i preti».
Pacifico, che è «scrittore d'amore» - come testimonia, in versione adolescenzial-politica, il suo Caso Vittorio uscito da Minimumfax - è partito alla ricerca delle radici di questo mito, radici che poi si sono rivelate molto aeree, nella tipica invenzione del passato. Ne risulta un libro d'amore anti-romantico, o meglio un libro che decostruisce il romanticismo formato supermarket, offrendo spunti di riflessione sull'attualità, dominata oggi dai Dico, Pacs, matrimoni e derivati. Dall'indagine di Pacifico - ricca di documenti - San Valentino ne esce come una figura più leggendaria che storica, incubata dalla sovrapposizione tra i lupercalia latini - dove si celebrava il mito della fertilità - e un vescovo ternano che tra il II e il III secolo dopo Cristo avrebbe unito i giovani in matrimonio - attività bandita dall'imperatore - e per questo sarebbe stato messo a morte. Niente di più falso, secondo Pacifico, il Santo degli innamorati non è il Santo di Terni. A togliere credibilità storica e sociale al legame tra quel martire e il moderno San Valentino, tra l'altro, Pacifico ricorda al lettore la concezione che i primi cristiani avevano del matrimonio. Molto scettica, se non contraria, come neanche un sostenitore delle unioni di fatto oggi sarebbe: per Sant'Agostino era meglio non sposarsi, mentre San Girolamo, parlando del cielo, sosteneva che «ogni dono di perfezione da lassù discende: dal non esserci nozze». Per i cristiani dell'epoca, ricorda Pacifico, era «un'ossessione pagana l'idea di riprodursi e mettere su famiglia». Insomma, il matrimonio e la famiglia come lari pagani. I primi cristiani, che predicavano castità e astinenza, per guadagnare il regno dei cieli preferivano essere single. Poi tutto cambiò con il medioevo.
San Valentino, comunque, per come lo conosciamo - o disconosciamo - oggi, è, di fatto, un'invenzione inglese dell'era vittoriana. Un feticcio, un santino del focolare in una vasta opera di moralizzazione delle famiglie inglesi la cui vita moderna, nell'ottocento, era logorata dalla rivoluzione industriale. Quindi, ci racconta Pacifico, ogni volta che acquistiamo - per chi lo acquista - un cioccolatino, fosse anche un bacio Perugina - dove il bigliettino riproduce proprio una “valentina” - è un pezzettino di epoca vittoriana. Il suo vero inventore poetico, comunque, fu Chaucher, l'autore inglese dei Canterbury Tales, della seconda metà del 1300, che aveva bisogno di datare una poesia su un raduno di uccellini al cospetto di Afrodite.
Ma San Valentino ebbe il suo boom economico, sociale e morale quando emigrò nel Nuovo mondo, in quell'America puritana dove i legami erano improntati alla serietà più che al romanticismo. E poi l'America era a corto di Santi e di festività in generale: esclusi San Nicola, San Patrizio, e poi il giorno del ringraziamento, il 4 luglio, Halloween e la finale del Superbowl. Attorno alla metà dell'800 inizia a comparire il Valentine day. Fino a ibridarsi, cinematograficamente e consumisticamente con Rodolfo Valentino. L'uomo effeminato (muscoloso ma depilato) amato dalle donne e imitato dagli uomini.
In Italia la festa (consumistica) di San Valentino fu introdotta negli anni '60 del Novecento e, non a caso, la Chiesa cancellò proprio nel '69 San Valentino dal calendario, sostituendolo con i santi Cirillo e Metodio. Nel romanzo Gli sfiorati di Sandro Veronesi, lui sceglie di sposarsi, romanticamente, il giorno di San Valentino e poi, dopo inviti, partecipazioni e tutto, scopre che quel giorno non esiste.

Repubblica 14.2.07
Il cervello "vede" per schemi legati alle zone di luci e ombre
Gli studiosi del Mit: non hanno importanza nasi o bocche ma luci e ombre
Una ricerca scopre nel nostro cervello il segreto del "riconoscimento"
di Claudia Di Giorgio


ROMA - Per gli esseri umani, una delle specie più sociali mai apparse sulla Terra, riconoscere un volto è così importante che c'è una parte del nostro cervello che si è evoluta apposta per individuare esclusivamente le facce: un onore che non ha avuto nessun'altra parte del corpo né alcun altro oggetto.
Ma che cos'è che distingue un volto da qualunque altra cosa, tanto da permetterci di identificarlo anche nelle immagini più sfocate? E come mai, invece, può capitare di vedere una faccia anche dove non c'è?

A queste domande sta dando una sorprendente risposta un gruppo di ricerche, su cui riferiva ieri anche il New York Times, da cui emerge che a far scattare l'attività dei neuroni giro fisiforme (il nome della circonvoluzione cerebrale che riconosce i volti) bastano pochissimi elementi, purché siano disposti nel modo giusto. Questi elementi non sono "due occhi, un naso e una bocca", che sono strutture tutto sommato complesse e ricche di dettagli, ma più semplicemente dei rapporti tra zone in luce e zone in ombra: come il fatto che la bocca si trova nel terzo inferiore del viso, ed è sempre più scura delle guance che le sono accanto, mentre gli occhi sono nel terzo più in alto, e sono più scuri della fronte che sta sopra. Pawan Sinha, direttore del laboratorio di ricognizione visiva del Massachusetts Institute of Technology, ha individuato dodici di questi rapporti, che costituiscono in totale una sorta di modello universale di faccia.

Un banale gioco di macchie, insomma, ma che al nostro cervello (e secondo alcuni studi, anche a quello delle scimmie) è più che sufficiente per vedere una faccia anche in una foto da cui è stato cancellato ogni altro dettaglio. E per vedere facce anche dove facce non ce ne sono affatto, come dimostrano esempi quali la famosa "faccia su Marte", individuata nella regione Cydonia del Pianeta Rosso da vari ufologi; oppure il toast al formaggio con l'immagine della Madonna che una signora della Florida è riuscita a vendere su Internet per la bella cifra di 28.000 dollari; oppure ancora addirittura il volto del diavolo intravisto da alcuni nel fumo che circondava le Torri Gemelle l'11 settembre 2001.

Il bello, infatti, è che la capacità del nostro cervello di ricostruire l'immagine di un volto disponendo solo di pochi tratti cruciali lo rende anche molto più suscettibile agli inganni. Ma secondo Pawan Sinha, che a gennaio è stato premiato dalla National Academy of Sciences proprio per queste ricerche, è un rischio che vale la pena di correre. Le informazioni trasmesse dai volti sono così preziose, dice, che è meglio vederne uno dove non c'è che non riconoscerlo quando c'è davvero.

(14 febbraio 2007)