sabato 28 agosto 2010

Corriere della Sera 28.8.10
Bersani e il rilancio dell’Ulivo
«Ritroveremo il nostro popolo»

Il leader pd a sorpresa al meeting di Cl: «Sono sempre venuto qui»

«Più sì del previsto alla mia proposta, già avviati i contatti con le altre forze»

RIMINI — «Occorre costruire un’altra Italia lasciandoci alle spalle Berlusconi e per costruire il nuovo Ulivo non ci vuole un Prodi del terzo millennio ma un popolo, e lo troviamo, state tranquilli». Un pezzo di questo popolo sta qui, tra la gente che frequenta a fiumi gli stand, le mostre e i dibattiti del Meeting di Comunione e liberazione. Sarà anche per questo che il leader del Pd Pier Luigi Bersani a sorpresa è arrivato a Rimini — «in visita personale», ha subito precisato — ma tanto basta per scombussolare la meticolosa agenda degli organizzatori, che non lo avevano invitato per simmetria con la mancanza di Berlusconi. Varca la porta della Fiera alle 16.30 atteso dal presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, avvisata poche ore prima, e viene subito portato nei salottini degli ospiti vip. Un breve colloquio con il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e due chiacchiere con il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, avversario politico ma anche vecchio amico col quale condivide l’appartenenza all’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà.
E poi via a una visita della fiera ciellina che alla fine durerà circa due ore. Bersani per una decina d’anni è stato ospite fisso del Meeting, testimone del bisogno della «contaminazione» teorizzata dal fondatore Don Giussani. Nel 2008 è arrivato a presentare a Rimini l’ultimo libro dello scomparso leader di Cl, «Uomini senza patria». Si sente, in qualche modo, uno di loro, e appena giunto scherza con i cronisti per allontanare ogni dietrologia: «Io son sempre venuto qua, che volete cacciarmi via ora?». Ci pensa il sottosegretario Paolo Bonaiuti a lanciargli a distanza una stilettata politica: «Bersani scende direttamente dalla luna per proporre un’ammucchiata di vecchia politica senza Berlusconi».
Stretto da un corteo di curiosi, organizzatori e giornalisti, Bersani si avvia verso un lungo giro negli immensi padiglioni, dispensando battute e considerazioni politiche. «Fini? Non mi aspetto particolari risposte da lui ma ha un’idea più europea della destra e con lui si può discutere di assetti costituzionali e di legge elettorale perché queste sono le regole del gioco». Chiude subito a chi gli prospetta inciuci . «L’ex fascista sta di là e l’ex comunista sta di qua, ma tutti e due abitiamo nello stesso Paese». Commenta anche le reazioni alla sua lettera scritta due giorni fa a la Repubblica per lanciare il progetto del nuovo Ulivo aperto a tutti i progressisti anche per partecipare a un governo di transizione: «Non ho sentito dei no». (...)

Repubblica 28.8.10
Dal sito dei Democratici a Facebook migliaia i commenti alle proposte del capo dei democratici
"Finalmente Pierluigi", "Facce vecchie" la lettera del segretario "buca" il web
di Mauro Favale

ROMA - Su Facebook "piace" a più di 200 persone. Un click facile facile che nel lessico del social network rappresenta il livello base dell´apprezzamento. Poi si passa ai commenti: anche lì, oltre 200, sotto quel link che campeggia da due giorni («Ho scritto una lettera a Repubblica») nelle due pagine ufficiali aperte dal segretario del Pd Pierluigi Bersani. Sentimenti contrastanti: entusiasmo, scetticismo e critica feroce. Un ventaglio di posizioni che si ripete anche negli oltre 500 messaggi lasciati sul sito di Repubblica. Più a senso unico, invece, quelli sul sito web di Bersani. Lì, l´attaccamento e la condivisione delle idee è più netto.
Altrove, come appunto su Facebook, si va da chi, come Walter Gardelli dice «Condivido ma bisogna farlo con convinzione» a chi come Michele Maccari afferma «Nuovo Ulivo? E con chi? Tutti gli ulivisti sono stati mandati a casa...». C´è anche chi si lancia in un´analisi: «Finalmente Bersani - scrive Calogero Burgio - prende l´iniziativa. L´Ulivo allargato, specialmente ora che Rutelli è con Casini e Fini a ricostituire il terzo polo di centro, toglierà voti a Berlusconi». La sensazione è che molti in quest´agosto tutto politico stessero aspettando una mossa del segretario Pd. «Finalmente il Pierluigi - scrive sul sito di Repubblica l´utente 3biswave - si è scosso dal letargo e ha scritto questo manifesto elettorale condivisibile al 100% da tutti coloro che si riconoscono nel centrosinistra. Forse è la volta buona».
Le categorie di commentatori variano: c´è il nostalgico («Se volevate rimanere coesi dovevate rimanere nel PCI di Berlinguer, l´unica cosa di sinistra coesa che io ricordi», firmato mlando25), il propositivo («Va bene un´alleanza democratica ma bisogna: risolvere il conflitto di interessi, cambiare la legge elettorale, trovare facce nuove», spiritolibero3), il confuso («Caro Pierluigi, ho dovuto rileggere la lettera due volte: ma perché non la traduci in un linguaggio più semplice per i tuoi militanti?», firmato personanormale) e il deluso («Già due volte mi avete fregato con il vostro Ulivo. Per due volte ho votato Prodi e me lo avete rimandato a casa alla prima occasione. Chiedo scusa, ma alle vostre solite vecchie facce di bronzo non riesco proprio più a credere», dice plutastro).
Sul sito del segretario, invece, approvano in tanti la proposta di Bersani. Dario Cabai scrive: «È venuto il momento di fare finalmente le scelte giuste e coraggiose, impostando un programma chiaro dicendo agli italiani cosa si vuole fare o non fare su tutti gli argomenti salienti e spinosi». E sono in molti a scrivere: «Ci siamo, è giunta l´ora».

il Fatto 28.8.10
Primarie e veleni
Bersani è il leader per statuto, ma Chiamparino e Veltroni
si fanno avanti, così come Vendola e De Magistris
di Luca Telese

il Riformista 28.8.10 p6
Se ho capito, bravo Bersani
Hai trovato la Terza Via
di Franco Monaco

il Riformista 28.8.10 p6
Non è con le Primarie che si riforma il Porcellum

Corriere della Sera 28.8.10
Ignazio Marino: «Coalizione Fini-Vendola poco credibile E la priorità adesso è la legge elettorale»

ROMA — «Le priorità sono legge elettorale e conflitto d’interesse». Ignazio Marino ha una sua posizione sulla strategia del Pd. È d’accordo con Bersani? «Credo che dovrebbe prendere subito l’iniziativa in Parlamento per chiamare i partiti che sono favorevoli a restituire democrazia al Paese attraverso una legge elettorale che restituisca ai cittadini il diritto di scegliersi i rappresentanti». Il nuovo Ulivo la convince? «Riproporre ora l’Ulivo, un quinto di secolo dopo, e riverniciarlo di fresco, non è un progetto di vera innovazione. Serve una classe dirigente nuova. E non è credibile una coalizione contro Berlusconi che mette insieme Vendola, Binetti, Casini, Bersani, Fini, Granata». E quindi? «Si cominci a lavorare subito su una nuova legge elettorale. Molti partiti sono d’accordo per cambiarla». Ma ognuno a modo proprio. «È vero, ci sono idee diverse: io sono per il collegio uninominale e il sistema maggioritario. Ma si può trovare un denominatore comune. La legge dovrebbe contenere anche una norma che limiti lo strapotere mediatico di Berlusconi». Quindi una legge sul conflitto d’interesse? «Esatto, quella che la sinistra purtroppo non ha fatto. Una norma che faccia in modo che il premier non decida le scalette dei tg e quando ci devono essere dibattiti in tv». E in vista delle urne? La vocazione maggioritaria veltroniana? «Il Pd deve ritrovare l’ambizione per essere guida del Paese. Con una legge diversa, potrebbe essere il catalizzatore di una coalizione di sinistra con una nuova narrazione su scuola, lavoro e sanità». Si presenterebbe alle primarie di coalizione? «In tanti durante questi mesi mi hanno sollecitato. Ma è necessario fare un passo alla volta».

Corriere della Sera 28.8.10
Legge elettorale
Uninominale. Un appello trasversale

Da Marco Pannella a Emma Bonino, a Pietro Ichino, Angelo Panebianco, Michele Salvati, Gianfranco Pasquino, Giorgio Tonini: sono tra i firmatari di un «Appello per l’uninominale» che ha raccolto l’adesione di opinionisti, docenti universitari ed esponenti politici di aree diverse. Per ottenere finalmente anche nel nostro Paese quella stabilità e certezza delle leggi elettorali che gli standard democratici internazionali raccomandano e in qualche misura esigono, per approdare a una riforma elettorale effettiva, durevole e orientata nel senso del collegio uninominale indicato in modo nettissimo dagli italiani a grande maggioranza nel referendum del 1993, poi in larga parte disatteso dal legislatore, per adottare finalmente anche in Italia un sistema elettorale ispirato ai modelli sperimentati ormai da secoli in regimi civili — quali quelli anglosassoni — che si sono rivelati tra i più fecondi sul piano della democrazia, della sicurezza e del benessere dei propri cittadini, per dare agli elettori la piena libertà, l’effettivo pieno potere e la piena responsabilità di scegliere il governo e gli eletti, assicurando un rapporto personale efficace dell’eletto con chi lo elegge, per promuovere in questo modo, al tempo stesso, l’autonomia della società civile e la laicità dello Stato, intesa come metodo indispensabile di cooperazione per il bene comune tra persone di fedi o ideologie diverse, per ridurre il costo delle campagne elettorali e tagliare il costo — divenuto insostenibile — delle rendite che gli apparati dei partiti si assegnano quando si consente loro di assumere la funzione di tramite tra i cittadini e i parlamentari, ti invitiamo ad aderire al Comitato per l’Uninominale (www.uninominale.it)
Pietro Ichino, giuslavorista nell’Università di Milano, senatore Pd; Mario Baldassarri, economista, senatore Fli; Alfredo Biondi, avvocato, già vicepresidente della Camera; Antonio Bonfiglio, sottosegretario di Stato alle Politiche agricole e forestali, Pdl; Emma Bonino, vicepresidente del Senato; Marco Cappato, segretario dell’Associazione Luca Coscioni; Stefano Ceccanti, costituzionalista nell’Università «La Sapienza» di Roma, senatore Pd; Umberto Croppi, assessore alla Cultura del Comune di Roma; Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino; Franco Debenedetti, economista, opinionista; Benedetto Della Vedova, deputato Fli; Stefano De Luca, segretario del Partito Liberale Italiano; Michele De Lucia, tesoriere di Radicali italiani; Giuseppe Di Federico, processualista nell’Università di Bologna; Salvo Fleres, senatore Pdl; Jas Gawronski, giornalista, parlamentare europeo Ppe; Roberto Giachetti, deputato Pd; Maria Ida Germontani, senatrice Fli; Domenico Gramazio, senatore Pdl; Giovanni Guzzetta, professore di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Tor Vergata, Roma; Ignazio Marino, chirurgo, senatore Pd; Antonio Martino, economista, deputato Pdl; Enrico Morando, senatore Pd; Magda Negri, senatrice Pd; Francesco Nucara, segretario del Partito Repubblicano Italiano, deputato Gruppo Misto; Federico Orlando, politico e giornalista, condirettore di Europa; Tullio Padovani, penalista, Scuola Superiore di Studi Universitari «Sant’Anna» di Pisa; Angelo Panebianco, politologo nell’Università di Bologna, saggista e opinionista; Marco Pannella, Partito radicale transnazionale; Gianfranco Pasquino, politologo nell’Università di Bologna; Mario Patrono, professore di diritto pubblico e comunitario nell’Università «La Sapienza» di Roma; Mario Pepe, deputato Pdl; Stefano Rolando, economista nell’Università Iulm di Milano; Nicola Rossi, economista nell’Università di Tor Vergata - Roma, senatore Pd; Michele Salvati, economista nell’Università di Milano, opinionista; Carlo Scognamiglio, economista, già presidente del Senato; Mario Staderini, segretario di Radicali italiani; Sergio Stanzani, già senatore, presidente del Partito radicale transnazionale; Marco Taradash, consigliere regionale della Toscana, Pdl; Giorgio Tonini, senatore Pd; Silvio Viale, medico, direzione Associazione Luca Coscioni; Valerio Zanone, già segretario del Partito liberale italiano

l'Unità 28.8.10
Sciopero della fame Dalla Sicilia a Roma per un sit-in a Montecitorio e al ministero dell’Istruzione
Ritirare la riforma Pd e sindacati contro la Gelmini: «Questo il Paese reale che il governo ignora»
Scuola, per i precari in piazza
la maggioranza ha solo insulti
di Felice Diotallevi

Repubblica 28.8.10
La nostra vergogna
di Adriano Prosperi

La morte di un bambino di tre anni bruciato vivo in una baracca a due passi dal centro di Roma è una notizia sconvolgente.
È da tempo che accadono cose orrende. Ci furono i quattro bambini morti nell´agosto 2008 a Livorno, sotto un cavalcavia: Eva, 12 anni, Danchiu, 8 anni, Leonuca, 6 anni, e Mengi, di 4 anni. Eva morendo cercò di proteggere col suo corpo un fratellino. Questo fu il racconto dei loro corpi, simili ai calchi in gesso di Pompei. E il quattordicenne carbonizzato nel campo nomadi di Rivarolo nel marzo 2002. E l´altro quattordicenne, Marian Danilà, morto carbonizzato nell´area ex Falck di Milano nel settembre 2008. Allora don Massimo Capelli della Casa della Carità, disse: «Ci sono stati già quattro morti alla Falck, ma il Comune sa fare solo sgomberi».
Oggi i comuni continuano a fare e a minacciare sgomberi in Italia. Ma c´è un momento in cui dallo stillicidio delle cronache dell´orrore locale si passa alla corrente impetuosa di un grande problema collettivo che investe tutta la comunità internazionale, scuote le coscienze dei singoli, assume le dimensioni di un´urgenza assoluta davanti alla quale non ci si può più fingere disattenti né rimandare alle competenti autorità. Oggi forse quel momento è arrivato anche per la questione degli zingari: almeno lo speriamo. E´ un fatto che negli ultimi giorni la questione dei rom e dei sinti ha conosciuto un salto di qualità. Per merito non italiano ma francese. L´iniziativa di Sarkozy ha scosso e diviso l´opinione pubblica e ha portato a una ferma presa di posizione della Chiesa cattolica. L´appello del Papa ha richiamato la Francia al dovere di «saper accogliere le legittime diversità umane». E monsignor Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i migranti, dice: «Quando ci sono espulsioni, ci sono sofferenze... Si tratta di persone deboli e povere che sono perseguitate, che sono vittime anch´esse di un ‘olocausto´ e vivono sempre fuggendo da chi dà loro la caccia». Nella dichiarazione di Marchetto la parola olocausto è tra virgolette. Ma è la parola giusta: ci sono testimoni che hanno vissuto la tragedia di allora e si ritrovano oggi davanti alla stessa macchina di odio. Valga l´esempio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto alla deportazione di allora per trovarsi il 6 giugno 2008 nel campo rom di Rogoredo svegliato all´alba, messo in fila e schedato per l´operazione del censimento dei rom attuato dai superprefetti nominati dal governo.
Per questo salutiamo l´appello del Papa come il segno che le cose possono cambiare, che forse non è troppo tardi perché ci sia un ritorno alla ragione. Ma quel segno non basterà, dovrà essere ripetuto, dovrà risuonare non solo in francese. Dovrà riguardare lo scenario italiano e rispondere a quel ministro che agli italiani ha promesso che sarà più duro di Sarkozy. Dovrà dire con chiarezza ai politici italiani che su questo punto si giocheranno l´appoggio della Chiesa. Lo dovrà far capire a quel presidente del Comitato Sicurezza del Comune di Roma che, dopo la morte del piccolo rom, ha rilasciato questa incredibile dichiarazione: «È necessario continuare sul fronte delle espulsioni e dei rimpatri assistiti sull´esempio di quanto avviene in Francia».
Lo leggiamo con sensi di vergogna. Ci sentiamo corresponsabili di una offesa che «spezza il corpo e l´anima dei sommersi» e «risale come infamia sugli oppressori», come scrisse Primo Levi. Se un giorno il nostro paese sarà capace di ritrovare la via giusta, allora ci dovrà un luogo e un rito della memoria: e nel monumento della nostra vergogna, che immaginiamo come la discesa nel buio del monumento ai caduti americani del Vietnam, si dovranno leggere i nomi di tanti zingari, tanti bambini. Ma intanto, bisognerà cominciare a ripulire il linguaggio di quei sindaci che promettono di «bonificare» le città allontanando i nomadi: esseri umani come rifiuti da trasportare altrove perché non offendano la vista. Circola da tempo l´immagine del «troppo pieno»; per dire che nel paese non c´è posto per tutti. Metafora insensata in un paese che ha obbedito agli stimoli dissennati del premier e all´allentamento dei vincoli da parte di comuni coi bilanci in rosso e ha costruito un´infinità di case; case vuote, che nessuno compra. Ma quando prende piede la metafora dell´intolleranza spaziale siamo già entrati nell´antica rotaia maledetta del rapporto tra un popolo e il suo territorio. Il motto leghista «padroni a casa nostra» è il figlio smemorato dell´idea nazista dello «spazio vitale».

Repubblica 28.8.10
"Gli zingari vittime di un olocausto"
Il Vaticano attacca la Francia. L´Onu: "Basta espulsioni indiscriminate"
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - "Olocausto". Parola tragica che - al di là del significato letterario - evoca, in particolare, i 6 milioni di ebrei sterminati dai nazisti. Termine che, però - filtra dal Vaticano - , ricorda anche le persecuzioni contro le popolazioni rom di ieri e di oggi, come sta succedendo con le espulsioni di massa avviate in Francia dal governo Sarkozy per le quali ieri è intervenuto l´Onu con un fermo richiamo a Parigi a porre fine «ai rimpatri collettivi» degli zingari. Richiamo a cui ha seccamente risposto il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, sostenendo che «la Francia osserva scrupolosamente la legislazione europea» e «i suoi impegni internazionali per quanto riguarda i rom».
Un botta e risposta ai massimi livelli sul problema dei nomadi, in difesa dei quali ieri - sull´onda dell´emozione provocata dalla morte di un bambino in un campo rom di Roma - è sceso in campo anche l´arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio dei migranti, tra i più stretti collaboratori in materia di immigrazione di Benedetto XVI, che nell´Angelus di domenica scorsa aveva già ricordato alla Francia e all´Italia «l´obbligo per ogni cristiano» di «accogliere ed aiutare chi vive nel bisogno senza nessuna distinzione». Marchetto - alla agenzia francofona I.Media - ha rilanciato il monito ratzingeriano ricordando, tra l´altro, che le espulsioni dei rom colpiscono «persone deboli, povere e perseguitate, che sono state anch´esse vittime di un "Olocausto"» e che vivono sempre fuggendo da chi dà loro la caccia. E nessuno può rallegrarsi delle sofferenze di queste persone». «La Chiesa - per l´arcivescovo - quando difende i diritti umani e la dignità delle persone, in particolare di donne e bambini, non fa politica, ma pastorale umana, per cui non e´ né di destra, né di sinistra, e neanche di centro. La Chiesa presenta rispettosamente il suo punto di vista sulla sua dottrina sociale e la legge morale». Sul caso francese, Marchetto avverte che le espulsioni non possono essere ‘‘collettive´´ e che «non si può colpevolizzare un´intera popolazione per violazioni di legge commesse da alcuni».
Analoga richiesta arriva dal Comitato Onu per l´eliminazione della discriminazione razziale, che in una nota diffusa dalla sede di Ginevra chiede alla Francia di «evitare i rimpatri collettivi» di rom e di «adoperarsi per soluzioni durature». L´Onu esprime anche «preoccupazione» per l´aumento «di manifestazioni e di violenze a carattere razzista nei confronti dei Rom».
Martedì prossimo sulla questione rom ci sarà a Bruxelles un vertice tra la Ue e il governo francese, seguito mercoledì e giovedì da un seminario per una «analisi legale e politica delle misure presa da Parigi sui rom». Lo hanno deciso il primo ministro francese, Francois Fillon, e il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. Fillon avrebbe assicurato a Barroso che le decisioni attuate dalle autorità francesi sui rom «sono conformi al diritto comunitario».

Repubblica 28.8.10
Romania, il mesto rientro dei gitani "Troppo facile prendersela con noi"
"Se Sarkozy avesse cacciato gli arabi avrebbero dato fuoco al Paese"
"Prima le minacce, poi ci hanno distrutto il campo Non potevamo fare altro che partire"
Ad accoglierli ci sono solo agenti di polizia: a Bucarest la gente è del tutto indifferente
di Renato Caprile

BARBULESTI (ROMANIA) - Non ci sono né telecamere né giornalisti al vecchio aeroporto Banesa di Bucarest. L´arrivo degli ultimi 283 rom rimpatriati dalla Francia è evidentemente una non notizia per i media locali. Tanto ripartiranno, si dice. E comunque meglio fuori che qui. Ecco perché nel vecchio scalo ci sono solo poliziotti, quasi a rimarcare l´indifferenza dei romeni per una storia che sta invece indignando l´Europa.
I due charter della Blue Air, partiti da Lione e Parigi, atterrano alle 16 in punto. Una cinquantina di minuti dopo una folla, composta in prevalenza da donne e bambini, riprende mestamente la via di casa, che è una parola grossa per chi una casa non ce l´ha mai avuta. Più giusto dire la via del ritorno al misero borgo dal quale si sono mossi o fuggiti. Come Barbulesti, che è soltanto uno dei tanti villaggi a stragrande maggioranza gitana sulla strada che porta a Costanza e al mare del litorale romeno. A cinquantasette chilometri dalla capitale, a distanza di sicurezza cioè, alla periferia di una media città che si chiama Urziceni.
Mentre i rimpatriati caricano le loro borse su auto e pulmini di fortuna, parte qualche sfottò: «Non fate quelle facce, in fondo Sarkozy vi ha soltanto pagato le vacanze». E giù risate. Loro incassano, per stanchezza o abitudine, forse. Qualcuno come Marian vorrebbe invece reagire, ma l´imponente presenza di forze dell´ordine per fortuna lo fa desistere. «Sono stufo - sbotta - è sempre la stessa storia, Qui, in Italia o in Francia siamo di troppo, zavorra di cui liberarsi». Eppure Marian, 28 anni, 4 figli, a Montpellier un lavoro l´aveva. Raccoglieva ferraglia e altro materiale di scarto che poi rivendeva. Niente di che, ma sette- ottocento euro per mantenere la sua famiglia riusciva a metterli insieme ogni mese.
Adesso non sa come farà a sopravvivere con i settanta euro scarsi dell´assistenza sociale. «Che delusione la Francia - dice - e che delusione il presidente francese. Da uno come lui, che ha origini ungheresi, non me lo sarei mai aspettato. Se l´è presa con noi perché sapeva che non avremmo alzato barricate. Una mossa elettorale a costo zero. Se avesse tentato di buttare fuori gli arabi, tempo tre settimane gli avrebbero incendiato il paese. Con noi rom invece è bastata una mancia. Ma se pensa di aver risolto il problema si sbaglia. Molti ritorneranno, perché non hanno scelta, anche se i politici di qui se ne fregano di noi». Dice il vero, Marian. Non ci sono state levate scudi contro la Francia nei palazzi del potere di Bucarest. Anche Traian Basescu, il presidente che ha fama di uno che non le manda a dire, si è guardato bene dall´attaccare Sarkozy, gli ha soltanto ricordato che i romeni sono cittadini europei e come tali vanno rispettati. Il minimo sindacale, dunque. Il resto è il solito ritornello polticamente corretto, stancamente riproposto da intellettuali e ong varie: i rom sono un problema europeo che la Comunità nel suo insieme deve affrontare e risolvere.
La verità è che bisognerebbe farsi un giro in villaggi come Barbulesti, sette-ottomila abitanti, tutti rom ad eccezione di una decina di famiglie, per capire perché chi ci vive è portato a venirne via con ogni mezzo. Consultorio, ufficio di polizia e municipio sono all´ingresso del paese sull´unica strada asfaltata. Il resto è sterrato su cui si affacciano case di mattoni grezzi che nessuno ha pensato di intonacare. Senza fogne né acqua né luce. L´unico edificio degno di questo nome è la villona rossa del più ricco del paese, un usuraio, che in quel contesto degradato ha come l´aria di essere il palazzo reale. Lontano e inavvicinabile.
Crisantema Baicu, 34 anni, 4 figli, marito in galera, stava a Grenoble - «Sì mendicavo, cos´altro potevo fare?» - prima che fosse costretta ad accettare la proposta francese. «Ma non parlatemi di rimpatrio volontario, perché non sarò tanto brava con le parole, ma non sono scema. Prima, qualche mese fa hanno cominciato con le minacce: vi distruggeremo il campo se non ve ne andare. Che potevano fare? Ci siamo spostati: una, due, tre volte. Poi il campo ce l´hanno distrutto davvero, e quindi siamo stati costretti ad accettare i loro soldi e a partire. Ma ritorno, in qualche modo devo pur sfamarli», dice indicando i tre figli, il più piccolo dei quali ha appena due anni.
Per Nicolae, 47 anni, 12 figli, anche lui arrivato da Grenoble, il ritorno a Barbulesti ha il sapore della deportazione. Lui non ha preso nemmeno i soldi, è stato espulso senza tanti complimenti per un qualche reato di cui non gli va di parlare. Non sa leggere, non ha un lei (la moneta locale), ma dice che vuole rivolgersi a un tribunale per avere giustizia. Dragan Costica a sentire la parola giustizia sbotta in una fragorosa risata. «Ma quale giustizia? Per gli altri forse, ma per noi è una parola senza significato. Prendete me, sono un bravo artigiano del ferro, potrei fare anche il fabbro, a 54 anni ho perso ogni speranza di trovare un lavoro normale. Per cui non posso che vivere di espedienti».

Avvenire 27.8.10
«Io, ex terrorista lotto per la verità»
Maurice Bignami era il capo militare di Prima Linea «Ho capito che fare il bene senza giustizia è solo follia»
di Angelo Picariello



«Oggi ho capito che la vera rivo­luzione è Cristo». Fra i visita­tori del Meeting, ieri, per la pri­ma volta, c’è n’era uno che tanto ha soffer­to e tanto ha fatto soffrire in nome di un be­ne tanto perfetto da diventare ideologia e violenza. Maurice Bignami è stato il capo militare di Prima Linea, «e come tale - rac­conta - mi sono assunto la responsabilità di tutti gli omicidi commessi, e sono davvero tanti, purtroppo». I suoi anni giovanili li vis­suti fra la Francia e Bologna, travolto come in un’onda di piena da quella follia ideolo­gica, che si è portata via prima i suoi geni­tori, poi anche la sua prima compagna, scomparsa in un conflitto a fuoco. Poi, ini­zia la sua seconda vita, già in carcere. Nac­que un movimento per la dissociazione che vide in prima fila suor Teresilla (l’angelo del­le carceri, scomparsa poi in un incidente stradale), e uomini politici come Carlo Ca­sini, primo firmatario alla Camera della leg­ge Gozzini, che autorizzò misure alternati­ve alla pena detentiva.
Nell’arrivo di Maurice al Meeting c’entra un po’ anche il nostro giornale perché è una sua intervista di tre anni fa ad Avvenire che ha messo in moto i cuori, stando al titolo del­l’edizione di quest’anno: «Avevo parlato del­l’insopportabilità della presenza cattolica in università nel ’77, che in realtà metteva a nu­do l’inconsistenza della nostra proposta. Pa­ri pari come accade oggi, che la Chiesa è sop­portata solo se parla di altro, se non propo­ne Cristo e non fa ingerenza. Mimmino, un impiegato di Roviano, vicino Roma, mi ha scritto, ne è nata un’amicizia straordinaria ed eccomi qua».

Arriva Carlo Casini. Con Bignami non si era­no mai conosciuti prima, ma fra i due scat­ta un abbraccio lungo un quarto di secolo, tanto tempo è passato da quella prima pos­sibilità offerta a chi gettava le armi e lascia­va la lotta armata. Maurice fatica a infilare le parole, la commozione è palpabile. 
Meeting, in fondo vuol dire incontro, no? 
Eh, già. Sono commosso perché è grazie a persone come Carlo Casini che ho potuto a­vere una nuova vita, e oggi ho una moglie, tre figli e una speranza su cui costruire. Fu un in­contro con una classe politica seria, che a­veva desiderio di capire, di chiudere un’e­sperienza infausta. Ci misero davvero il cuo­re. Vorrei ricordare anche Flaminio Piccoli, col quale andò a parlare mia moglie a nome di centinaia di ex-terroristi in carcere, e an­che Francesco Cossiga. Fu così che tutta Pri­ma linea, tre quarti delle Br e tutto l’arcipe­lago della contestazione violenta avviarono a metà anni ’80 la fine dalla lotta armata. 
Ma perché è qui, oggi? 
Non certo perché sono più buono, Dico an­zi per paradosso che, almeno nelle inten­zioni, ero più buono prima, come lo sono tutti i giovani. Anche se poi io ho finito per uccidere. Sono qui, invece, perché ho capi­to che l’idea di fare il bene prescindendo dal­la realtà, ossia dalla verità e in definitiva da Cristo, è una follia. Ma non c’è merito da par­te mia, se non quello di aver tenuto il cuore aperto agli scappellotti che mi hanno dato preti e suore, tanto non ne avevo conosciu­to uno prima, tanti ne ho incontrato da un certo punto in poi. Scappellotti prima per farmi cambiare strada, poi, ancor più forti, per farmi uscire da un passato che mi per­seguitava, ricordandomi che Cristo mi ama. 
Ma Dio ama anche quelli che hanno perso la vita, e i parenti delle vittime. 
Certamente. Ma per paradosso forse è stato più facile per noi, che eravamo disperati e a­vevamo fallito del tutto, aprire il cuore. Per loro, lo capisco, è più dura: c’è il rischio dram­matico di rimanere prigionieri del dolore, che è anche l’ultimo legame che resta con i loro cari. Ma la via d’uscita per tutti, anche per loro, è la speranza che diventa fede. 
Che cosa può fare per loro? 
Pregare. Perché la Grazia che ha toccato me liberi anche loro. Trovo che sia il gesto più realistico di amore, molto più di dibattiti e incontri. Si potrebbe giustamente dire 'da che pulpito viene la predica'. Ma io so di non essere nessuno, penso solo che i tanti nessuno che siamo solo in Cristo possono trovare pace. 
Sarà consapevole che non è fatta, ancora, che c’è da lottare. 
Altro che, più di prima. Sarebbe drammati­co se avessi vissuto la follia col fuoco dentro e ora, di fronte alla Grazia, mi abbando­nassi all’ignavia, in­crociando le braccia. Sarebbe terribile, sa­rebbe come una be­stemmia per uno come me che ha a­vuto tutto gratis. Sa­rebbe uno scivolo verso l’inferno. 
Don Giussani nell’ul­timo discorso al Mee­ting disse: 'Auguro a me e a voi di non sta­re mai tranquilli, mai più tranquilli'. 
Non lo sapevo, ma è proprio così. 
Com’è stato il suo impatto col Mee­ting? 
Ho visto tanti giova­ni impegnati. Im­pressionante. E pen­sare che la genera­zione impegnata e­ravamo noi…

Corriere della Sera 28.8.10
L’invenzione dell’altalena che salvò le ragazze di Atene
di Eva Cantarella

Pochi giochi ci hanno reso felici, nell’infanzia, come l’altalena: la sensazione di volare, di toccare il cielo, il vento tra i capelli… Un gioco semplice, universale. Vien fatto di pensare che sia sempre esistito. Ma i greci non la pensavano così. L’altalena, per loro, aveva un luogo e un momento di nascita ben precisi, e anche, quantomeno ad Atene, una importantissima funzione sociale. A raccontarci quale fosse questa funzione è, come sempre, un mito. Nella specie, un mito poco noto, ma legato a uno celeberrimo: quello degli Atridi raccontato da Eschilo nell’Orestea. La perfida Clitennestra, che d’accordo con il suo amante Egisto ha ucciso il marito Agamennone, viene uccisa dal figlio Oreste, che vuole — e nella mentalità dell’epoca deve — vendicare il padre. Ma, anche in quel mondo, il terribile mondo della vendetta, il matricidio è una colpa inespiabile. Perseguitato dal rimorso Oreste fugge, inseguito, oltre che dalle Erinni che vogliono fargli pagare il terribile gesto, anche dalla sorellastra Erigone, la figlia che Clitennestra ha avuto da Egisto. Ma quando giunge ad Atene Oreste viene assolto: «Il vero genitore — decreta la dea Atena, esprimendo quel che pensavano se non tutti, quantomeno molti greci — non è la madre, bensì il padre». A questo punto Erigone, disperata, si impicca. Senonché, quando la notizia si sparge, le vergini ateniesi, come se fossero state contagiate, prendono a impiccarsi in massa. La città rischia di estinguersi. Preoccupatissimi, gli ateniesi si precipitano a interpellare l’oracolo di Apollo, che suggerisce un rimedio: basta costruire delle altalene, così che le ragazze possano dondolarsi nell’aria, come quelle che si impiccano, ma senza perdere la vita. La città è salva, gli ateniesi sono felici, le ragazze ateniesi ancor più di loro, e l’altalena diventa il gioco preferito delle ragazze di tutti i tempi.

venerdì 27 agosto 2010

l’Unità 27.8.10
«Noi proporremmo un'alleanza democratica per una legislatura costituente, capace di sconfiggere il populismo»
Il segretario lancia la teoria «del doppio cerchio. Prima il Nuovo Ulivo, poi l’alleanza democratica»
Dalla festa di Ferrara si rivolge anche a Fini («che farà se rompe?»). E incassa il favore dell’Udc
A Idv e sinistra piace l’Ulivo
Bersani, prima l’Ulivo E dopo c’è Casini
di Simone Collini

Il leader Pd parla a Pontelagoscuro, alle porte di Ferrara, e rilancia l’idea di un «nuovo Ulivo» e «un’alleanza democratica» per mandare a casa Berlusconi, compresi l’Udc e Fini. E se si andasse subito alle urne...

«Se va avanti così rischia di portare la politica in una fogna», dice scuotendo la testa. Per Pier Luigi Bersani è la prima uscita pubblica dopo la pausa estiva. Il segretario del Pd prova anche a ironizzare sulle «acque miracolose» del Lago Maggiore, che hanno fatto mettere d’accordo Berlusconi e Bossi, ma aggiunge che dopo questo «agosto vergognoso» c’è di che essere molto preoccupati dei possibili «colpi di coda» del premier. «Dobbiamo mettere in moto la testa e le gambe», dice a militanti e simpatizzanti che incontra alla festa del partito di Pontelagoscuro, poco fuori Ferrara. La testa, ovvero la proposta politica che avanza nel giorno del suo rientro dalle vacanze: mettere in campo «un nuovo Ulivo» e «un’alleanza democratica» che consentano di chiudere definitivamente l’epoca del berlusconismo e di far approvare le riforme necessarie al paese, compre-
so un nuovo sistema elettorale.
FRONTE COMUNE, FINO A FINI
La chiama la teoria «del doppio cerchio», per semplificarla di fronte alle persone che affollano il prato della festa: le forze del centrosinistra devono lavorare per dar vita a un progetto omogeneo «di alternativa», ma poi è anche necessario che tutte le forze preoccupate della deriva democratica facciano fronte comune. Anche Casini e nel caso Montezemolo?, chiedono i giornalisti che lo avvicinano al campo sportivo di Pontelagoscuro prima che inizi il comizio. «Assolutamente». Anche Fini? «La proposta è rivolta a tutti quelli che...», risponde il leader del Pd. Bersani non fa mistero di pensare che «nell’emergenza», ovvero in caso di voto anticipato, questa alleanza democratica possa anche presentarsi alle elezioni. Per una questione di coerenza logica: «Se ci sarà un ritorno alle urne è perché avranno rotto su qualcosa, molto probabilmente sul processo breve. E a quel punto che potrebbero fare i finiani?». Rimane l’ipotesi di organizzare un terzo polo. Ma intanto, è il ragionamento, dividere il fronte ridurrebbe le possibilità di vittoria di chi vuole impedire la «deriva democratica». E poi Bersani ha registrato con soddisfazione il modo in cui Casini ha commentato la sua proposta, rilanciata con una lettera “programmatica” a Repubblica. Il leader dell’Udc ha definito «positiva» l’intenzione di Bersani di assumersi la responsabilità di riorganizzare «la sinistra democratica» e anche quella di arrivare a una modifica della legge elettorale, senza bocciare la proposta dell’“alleanza democratica”. I due si sono sentiti e torneranno a incontrarsi per discutere della situazione nei prossimi giorni.
BERLUSCONI E LE AMMUCCHIATE
Berlusconi da lontano parla di «ammucchiate fuori tempo», e quando la cosa viene riferita a Bersani, il leader del Pd fa un gesto con la mano, come a spazzar via qualcosa dal campo, e poi: «Adesso basta. La sua è un’ammucchiata, la mia è una proposta politica chiara e precisa. È lui che pretende di governare con una compagnia fatta di persone che si insultano di continuo, si manganellano, tirando in ballo anche le mogli. Ora siamo arrivati anche al bue che dice cornuto all’asino: quello che ha venti ville che va a speculare sulle ville degli altri. E mai che spendano una parola sui problemi del paese. Non si può continuare a vivacchiare. Con una Lega che dice “Roma ladrona” quando sono proprio i leghisti che stanno a Roma con quattro ladroni. Il Carroccio è come quello che sta attaccato al vecchio zio per prendergli l’eredità». Una pausa, e poi: «Se arrivano elezioni anticipate si deve sapere che hanno un padre e una madre, Berlusconi e la sua crisi». Per questo bisogna accelerare su una strada che pure Bersani aveva indicato candidandosi a segretario del Pd, quando disse che bisognava «riaprire il cantiere dell’Ulivo». Bersani pensa a un percorso che consenta di creare anche organismi ad hoc. Ne parlerà con gli altri leader politici nei prossimi giorni. E se qualcuno, come il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, dice che per percorrere questa strada occorre «rafforzare le proposte programmatiche», il segretario del Pd sta lavorando al discorso che farà per la chiusura della Festa nazionale, a Torino il 12, e che sarà incentrato proprio su «l’Italia che vogliamo». Bersani non teme divisioni interne al partito sulla sua proposta. Le molte reazioni positive registrate ieri lo lasciano soddisfatto. E se Walter Veltroni, soltanto 48 prima aveva bocciato le «sante alleanze» antiberlusconiane, Bersani lascia Pontelagoscuro rispondendo così a chi gli pone la questione: «Sulla mia proposta si può trovare tutto il Pd».

l’Unità 27.8.10
L’orgoglio del Pd: «Così siamo credibili»
Sì della minoranza Prodi soddisfatto
Prodi soddisfatto per il rilancio dell’Ulivo e di un’ampia alleanza. Asse nel Pd tra Bersani e la minoranza franceschiniana. Proposta apprezzata da lettiani e dalemiani. Rosy Bindi: «Alternativa forte e credibile».
di F. Fan.

Si torna a parlare di (Nuovo) Ulivo, di «federatore», di un’ampia Alleanza Democratica (eco delle remote Gad e Fed). Comprensibilmente, la proposta politica di Bersani è stata accolta con piacere dall’ex premier Romano Prodi, a tut-
t’oggi unico competitore vittorioso di Berlusconi. E tra i prodiani si sottolinea che, del resto, il leader in carica ha vinto il congresso con una mozione che seguiva il filo rosso dell’ulivismo.
La portavoce del Professore Sandra Zampa condivide «l’analisi dello Stato del Paese e della contingenza politica» fatta dal segretario del Pd e auspica che la «nuova stagione ulivista» possa recuperare i «tanti delusi lasciati per strada», aprendo la via a un progetto alternativo a quello del centrodestra. Anche Franco Monaco rilancia la politica delle alleanze «che era nel dna dell’Ulivo, e indica in Bersani la «carta vincente» in quanto «il più idoneo a fare la sintesi»: quel «federatore di un vasto campo di forze», ruolo che il Professore si ritagliò e portò avanti finché poté.
Contenti con qualche sottigliezza l’ex consigliere economico prodiano Angelo Rovati, che un po’ veltronianamente vorrebbe alleanze «per vincere e non per sconfiggere Berlusconi», e Mario Barbi che teme riedizioni della vecchia Unione. Mentre per Vincenzo Vita, sono parole condivisibili con un paio di «lacune»: più attenzione alle alleanze che ai contenuti e disinteresse per l’astensionismo nel campo del centrosinistra.
CONSENSO AMPIO
Ma per la strategia bersaniana - con tanto di metafora dal sapore hemingwayano sulle campane che il centrosinistra deve suonare, ed in aperta contrapposizione a Veltroni che aveva bocciato l’eventualità di «sante alleanze» è ampio all’interno del partito.
Al punto da saldare un asse con la minoranza interna Area Democratica che fa capo a Dario Franceschini, passando per il “pontiere” Piero Fassino. La presidente piddina Rosy Bindi approva una strada che «restituisce credibilità e forza alla nostra alternativa con lo stesso respiro dell'idea originaria dell'Ulivo». Serve, spiega l’ex ministro, «un’alleanza per la Costituzione che raccolga tutti coloro che hanno a cuore il futuro della nostra democrazia».
Proposta «forte» la definisce Fassino. «Ottima e condivisibile» per il dalemiano Matteo Orfini, la cui generazione «è nata con l’Ulivo». Una «rotta chiara» per il lettiano Francesco Boccia, idem per il governatore emiliano Vasco Errani che mette l’accento sulla fine di un ciclo politico a destra. Vannino Chiti condivide anche la necessità di un governo di transizione e di una legislatura costituente.
E dai franceschiniani la reazione è tutt’altro che fredda. Francesco Garofani, strettissimo collaboratore del capogruppo alla Camera, individua «piena coincidenza tra la proposta di Bersani e l'idea di un'alleanza costituzionale ipotizzata da Franceschini per costruire un'alternativa concreta al rischio di deriva autoritaria».

Repubblica 27.8.10
La proposta del segretario non convince tutta la minoranza
Gelidi i veltroniani gli ex Ppi attaccano: difficile unire Fini e Prc
Ma Franceschini Marini e Fassino dalla parte del leader. Chiamparino: "Buona la strada indicata"

ROMA - «Loro litigano, noi ci rimettiamo in movimento e con l´unità di tutto il Pd». Pier Luigi Bersani è soddisfatto delle reazioni che la sua proposta di Nuovo Ulivo e di un´Alleanza democratica per sconfiggere Berlusconi ha ricevuto nel partito. Sergio Chiamparino - il sindaco di Torino indicato come possibile competitor del segretario in future primarie, magari in ticket con Vendola - ha detto che è «una buona strada da percorrere: l´idea dell´Ulivo lanciata da Bersani è buona perché tende a escludere la santa alleanza di chiunque per battere Berlusconi e perché ripropone il progetto di una coalizione alternativa al centrodestra prescindendo dall´autosufficienza del Pd». Dalla parte di Bersani sta anche Dario Franceschini, il leader della minoranza di "Areadem" che di «alleanza costituzionale» aveva già parlato. Una parte di "Areadem" (oltre a Franceschini, Franco Marini e Piero Fassino) è ormai con il segretario. Di certo non Walter Veltroni.
Benché il veltroniano Walter Verini si limiti a ricordare con garbo a Bersani che ha perso solo tempo perché a un Ulivo rinnovato ci aveva pensato già Veltroni, in realtà la distanza è massima. Sta in quella "vocazione maggioritaria", ovvero di un Pd calamita e assopigliatutto che è l´antitesi della strategia di coalizione da Bersani (così come da D´Alema) ritenuta vincente. Per ora tuttavia si gioca di fioretto - come osservano nel partito - ma dietro c´è rumore di spade. «Bene la riaffermazione dell´Ulivo del ´96, il cui progetto veniva a compimento proprio con la nascita del Pd - commenta Verini - Se quel Pd avesse continuato il suo cammino, oggi l´alternativa sarebbe più credibile». Malumori inoltre tra alcuni ex Ppi. Beppe Fioroni è ipercritico: «Io personalmente ritengo che un´alleanza da Ferrero a Fini sia qualcosa di complesso, di poco comprensibile, di molto poco serio». Dubbi di Mario Barbi, Enrico Gasbarra e Vincenzo Vita. Dei punti principali dell´appello affidato a Repubblica, il segretario del Pd aveva parlato prima con Bindi, Letta, D´Alema, Franceschini, Fassino. Rosy Bindi, presidente del partito, sottolinea: «La proposta di Bersani indica con efficacia la nostra prospettiva, restituendo credibilità e forza alla nostra alternativa con lo stesso respiro dell´idea originaria dell´Ulivo».
Apprezza anche Fassino: «È una proposta forte che accelera la costruzione di un´alternativa e indica la via per realizzare una coalizione credibile e in sintonia con le domande del paese». Il lettiano Francesco Boccia, il dalemiano Ugo Sposetti, Vasco Errani e Vannino Chiti sono schierati in modo compatto con il segretario. Sposetti gli darebbe «un bell´otto e mezzo per il messaggio forte al partito e al paese». Boccia incalza: «Mai più gli errori del passato». A Errani piace «la via indicata per il cambiamento».
(g.c.)

Repubblica 27.8.10
Riforma elettorale, il Pd tenta il blitz
Bersani cerca i numeri per cambiare il "Porcellum". In pista il "Mattarellum"
di Giovanna Casadio

Bocchino: "Se salta il governo, non per colpa nostra, valuteremo anche la riforma"

ROMA - Il ragionamento è semplice: se c´è uno showdown del berlusconismo, anche la Lega potrebbe essere interessata al cambiamento della legge elettorale. Nella partita politica vera che tra poco riprenderà («Al chiacchiericcio d´agosto io ho voluto sottrarmi, altro che "rapito"...», scherza Bersani) il "pallino" sta qui. L´obiettivo di coalizzare una maggioranza solo sulla legge elettorale è forse meno remoto di quanto non si creda. Questo sarà il tentativo del Pd. Anche se per ora il segretario si mantiene sulle generali, però ha chiesto ai suoi approfondimenti e di studiare nuove ipotesi di riforma che presto metterà sul tappeto e sottoporrà a tutti. I messaggi e i colloqui di ieri - con il leader dell´Udc, Casini; con Tabacci dell´Api; con Di Pietro e soprattutto con Prodi - dopo la strategia democratica annunciata nella lettera a Repubblica vanno tutti in questa direzione. Per chiudere un´epoca, si deve cominciare riscrivendo le regole della rappresentanza.
Lo sa benissimo Fini. E Italo Bocchino infatti ammette: «Per noi c´è una maggioranza e un impegno di legislatura a favore del governo Berlusconi. Ma se qualcuno vuole far saltare la legislatura contro la nostra volontà, allora si potrebbe valutare una convergenza non di tipo politico ma mirata a realizzare regole condivise a partire dalla legge elettorale». Insomma, la "sveglia" suonata da Bersani con la proposta di alleanza larga per sconfiggere Berlusconi - «coinvolgendo anche forze contrarie al berlusconismo che in un contesto normale sarebbero collocate altrove» - ha il suo punto di caduta nel cambiamento della legge elettorale. Il leader Udc, Casini lo ha detto e ribadito ieri: «Bene Bersani sul cambiamento della legge elettorale». Luca Montezemolo, aprendo a un governo istituzionale, aveva insistito: «Niente urne adesso ma un governo di scopo che faccia prima la riforma elettorale». Anche Raffaele Lombardo, il "governatore" della Sicilia ieri torna sul tema: «Il sistema è ingessato auspico una vera riforma elettorale».
Il nodo è certo quello di mettersi d´accordo su come cambiare la "legge porcata", secondo la definizione sincera del suo ideatore, il leghista Roberto Calderoli. Bruno Tabacci, portavoce dell´Api, il movimento fondato con Rutelli, l´ha ribadito nella telefonata con Bersani: «Caro Pier Luigi le tue proposte mi sembrano serie e valide quanto più si allontanano da quell´idea dell´autosufficienza del Pd. Se a qualcuno piace questo sistema elettorale forzatamente bipolare, in cui non funziona niente, fonte di leaderismo esasperato, si accomodi... ma è come andare avanti con la testa rivolta all´indietro. Il "modello tedesco" è la via d´uscita. Sarebbe un patto di pacificazione, con uno sbarramento al 5%». Proporzionalista è Nichi Vendola. Il leader di "Sinistra ecologia e libertà", pronto alle primarie e a sparigliare nel centrosinistra, non gradisce di essere trascinato in «una disputa oziosa» e rileva soprattutto la rissosità del Pd sull´argomento. Walter Veltroni, si sa, ha lanciato l´allarme proprio sul rischio di abbandonare il bipolarismo. L´uscita ieri di Bersani su Repubblica sancisce il punto di massima distanza con Veltroni. Per tagliare la testa ai contrasti, Pierluigi Castagnetti ha ricordato che la soluzione c´è già ed è il ritorno al Mattarellum. E Di Pietro in un´intervista: «Se sono troppe le proposte di legge elettorale meglio tornare al Mattarellum. Se però c´è una convergenza sul sistema tedesco con sbarramento andiamo a vedere di cosa si tratta».

l’Unità 27.8.10
Duro discorso di Marchionne: «Basta conflitti tra operai e padroni. In Italia paura di cambiare»
Il manager Fiat a Rimini per il meeting Cl. «Epifani? lo incontrerei». Alla Fiom: «Difende i sabotatori»
Molto bastone e poca carota «Serve un nuovo patto sociale»
di Roberto Rossi

Davanti alla platea di Comunione e liberazione il numero uno della Fiat, Sergio Marchionne, ha lanciato «un nuovo patto sociale». Agli operai di Melfi dice: «sabotatori». Su Epifani: «Onesto, lo incontro volentieri».

Si è presentato alla gente di Comunione e liberazione con una polo blu scura. Ha citato Cesare Pavese, Machiavelli, Elliot, Hegel. Ha ricordato le sue umili origini, la sua famiglia emigrante, i suoi momenti difficili, la durezza di vivere in una terra straniera. Ha sottolineato tutti questi passaggi con immagini simbolo trasmesse nel grande schermo alle sue spalle: due impronte sulla sabbia quando parla del Canada, un aereo che decolla mentre racconta «quando ho assunto la guida della Fiat», il presidente Obama quando parla della Chrysler. Sergio Marchionne al pubblico di Comunione e liberazione, riunito a Rimini, ha mostrato il suo lato più umano, quello più profondo. Ma è stata un’illusione. Un attimo.
Perché il discorso pronunciato dall’amministratore delegato della Fiat è stato molto duro. Ma non solo. È stato anche furbo, perché ha solleticato la pancia della platea tutta famiglia e dio, e, per certi versi, sordo. Incapace di vedere anche altre ragioni
In mezzora, dunque, Marchionne ha voluto ribadire quello che aveva esternato in altre occasioni. E cioè che l’Italia deve rimanere stabilmente al «dopo Cristo». Cioè a quelle regole sociali ed economiche che lui ha fissato e che, parole sue, la globalizzazione impone. Regole che andrebbero riscritte con «un nuovo patto sociale». Lasciandosi alle spalle «vecchi schemi», la lotta tra «capitale e lavoro», «gli anni ‘60», la distinzione tra «padroni e operai», «le paure del cambiamento». Cose da secolo scorso. Che vanno superate con «impegni e sacrifici».
Con quali interlocutori? Secondo il manager «con la maggior parte delle persone che ha voglia di fare qualcosa di buono. Mi riferisco in particolare alla Cisl e alla Uil (che hanno aderito nel giro di qualche ora, ndr) e ai loro segretari generali, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti che ci stanno accompagnando in questo processo di rifondazione dell’industria dell’auto italiana».
E la Cgil? Davanti alla platea il sindacato non è stato nominato neanche una volta. Ma ai microfoni dei giornalisti appostati sotto il palco Marchionne un piccolo spazio lo ha trovato. «Sono aperto a parlare con Epifani. È una persona che rispetto e lo considero intellettualmente onesto» ha detto il manager.
Peggio, invece, è andata alla Fiom, trattata (tra gli applausi) alla stregua di un gruppo di luddisti dell’ottocento: «È inammissibile tollerare e difendere alcuni comportamenti», ha detto il manager, che vedono «la mancanza di rispetto delle regole e di illeciti arrivati in qualche caso al sabotaggio. Non è giusto per l’azienda né tanto meno per i lavoratori».
MELFI
Già, i lavoratori. Nel passaggio Marchionne si riferiva al caso Melfi, ai tre operai accusati dalla Fiat di aver interrotto il passaggio di un carrello durante una manifestazione interna, licenziati e poi reintegrati con sentenza del giudice, ma mai riammessi al lavoro. «La Fiat rispetta la legge ha sentenziato il manager scatenando ancora applausi ma dignità e diritti non possono essere un patrimonio esclusivo di tre persone: sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Per questo la società è «in attesa del secondo grado di giudizio», fissato per il 21 settembre, «sperando che sia meno condizionato dall’enfasi mediatica» con cui è stato seguito il primo.
Non è bastato neanche il richiamo del Capo dello Stato, che aveva invitato la Fiat a trovare una soluzione condivisa per Melfi. Anche per lui la risposta è arrivata fuori dal discorso. «Ho grandissimo rispetto per il presidente della Repubblica come persona e per il suo ruolo istituzionale» ha detto l’amministratore delegato, e «accetto quello che ha detto come un invito a trovare una soluzione». Ma quale? I tre, per ora, sono fuori.
«Un patto sociale ha replicato il segretario del Pd Pier Luigi Bersani lo vogliamo tutti. Non credo che si possa averlo partendo dal presupposto che c'è qualche milione di lavoratori che hanno la testa nell'800. Qui tutti in Italia hanno la testa nel 2000». Tanto avanti che il segretario del Pd vorrebbe «un rafforzamento dei meccanismi di partecipazione diretta dei lavoratori nelle aziende». Cheperoranonc’èenoncisaràa breve. Fiat non può permettersi aperture ai lavoratori in Europa. I conti non vanno come si voleva. Niente carota, dunque, solo bastone. Agitato in polo blu.

l’Unità 27.8.10
Aspra polemica sulle dichiarazioni del ministro che si corregge: «Mi riferivo alla burocrazia»
Ma per sindacati e opposizione il governo «ha gettato la maschera». E gli incidenti continuano
«Lavorare in sicurezza è un lusso»
Bufera sulle parole di Tremonti
di Felicia Masocco

La sicurezza sul lavoro? «Un lusso che non possiamo più permetterci». Parole pesanti quelle del ministro Tremonti, «corrette» solo dopo un’aspra polemica: «Mi riferivo alla burocrazia».

«Un lusso che l’Italia non può permettersi». Questo sarebbe per il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, la 626, la legge che detta le regole della sicurezza sul lavoro. Tremonti aveva espresso il suo pensiero mercoledì sera, alla Berghem Fest, festa della Lega ad Alzano Lombardo. In realtà qualcosa lo aveva detto qualche ora prima, al meeting di Rimini, ma lì era stato più generico, parlando di «diritti perfetti» che l’Italia non può più permettersi altrimenti le fabbriche vanno altrove. Il pensiero è andato alla Fiat e alla vicenda di questi giorni. Da Alzano è arrivata invece la precisazione-boomerang: il «lusso» era la sicurezza sul lavoro. Uno schiaffo, in un Paese in cui il lavoro uccide in media tre persone al giorno e ne ferisce -spesso invalidandoli gravementecentinaia di migliaia in un anno.
Contro le parole del ministro si è aperto un fuoco di fila, critiche che hanno costretto Tremonti ad intervenire nuovamente: «Una polemica eccessiva per cinque parole, cinque».
COSTRETTO A CORREGGERSI
Non sono parole per l’Anmil, l’associazione dei mutilati e degli invalidi per cause di lavoro. «La tutela della vita e della salute sono valori fondanti della nostra cultura e della nostra società e sarebbe assurdo metterli in discussione», dichiara il direttore Sandro Giovannelli. E intanto la cronaca registrava la notizia di due operai ustionati gravemente a Lucca, per l’esplosione di una cisterna piena di bitume, uno di loro è in prognosi riservata. Il giorno prima un operaio era morto a Barletta per le esalazioni tossiche di una cisterna, aveva 51 anni, lavorava a giornata «anche per pochi euro» raccontano i familiari. Certo lui di lussi non se ne poteva permettere. «Farebbe meglio a citare meno Berlinguer e a rispettare la 626», ha tagliato corto il leader pd Pierluigi Bersani. «Con l’affermazione di Tremonti, il governo getta la maschera e, francamente, il modello cinese dei diritti del lavoro che il ministro vorrebbe prendere a riferimento, non ci convince», afferma l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano. Per l'Idv parla il portavoce Leoluca Orlando: «Le dichiarazioni di Tremonti sulla 626 sono vergognose». Dichiarazioni «assurde e sorprendenti» anche per l’Ugl con Nazzareno Mollicone. Per Franco Lotito, presidente del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell'Inail, l'affermazione del ministro lascia «stupiti». Dure le critiche dei sindacati di base: se per l'Usb «la sincerità di Tremonti è abominevole». Questo e altre le prese di posizioni che, a fine giornata hanno portato Tremonti a più miti consigli. «La sicurezza sul lavoro è una irrinunciabile conquista della civiltà occidentale ha spiegato il ministro L’eccesso occhiuto di burocrazia è un derivato della stupidità». Questo soprattutto in Italia perché la nuova legge è pensata per la grande industria e quindi si adatta poco al tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese. Smentita doverosa, «ma non basta -chiosa Fammoni, segretario confederale Cgil Servono le scuse formali ai tanti che vengono colpiti da un lavoro insicuro. Ma d’altronde perché stupirsi con un governo che non tutela la dignità dei lavoratori, che vuole smantellare lo Statuto dei diritti e abrogare l'art.41 della Costituzione. Con il lavoro inteso solo ed unicamente come costo, mai come valore sociale».

l’Unità 27.8.10
Sono le aziende a scatenare questa lotta di classe
Il sociologo Sono le azioni di Marchionne a riportarci molto indietro nel tempo. Le imprese fanno pagare crisi e riorganizzazione al lavoro
di Luigina Venturelli

La lotta di classe si fa sempre in due. Sul caso di Melfi non è il caso di discutere chi dei due abbia cominciato, se l’azienda o il sindacato. Mi limito solo ad osservare che, nella sua lunga storia, la Fiat non è mai stata ferma a prendere colpi». Aris Accornero, professore emerito di Sociologia industriale all’Università La Sapienza di Roma, lo può affermare a ragion veduta. Negli anni Cinquanta fu uno dei tanti licenziati per rappresaglia dalla casa automobilistica. Professor Accornero, niente di nuovo, dunque? Siamo alla vecchia lotta di classe?
«Le vicende Fiat degli ultimi mesi ci hanno riportato molto indietro. Marchionne ha fatto una brusca sferzata rispetto ai primi anni della sua amministrazione, quelli della grande ripresa dell’azienda, dovuta anche al tenore decisamente più civile delle relazioni industriali».
Eppure il manager ha invitato i sindacati ad archiviare l’epoca dei conflitti tra operai e padrone. «Se c’è una spinta verso la lotta di classe, in questa fase storica, è proprio quella delle aziende, che stanno facendo scontare ai lavoratori il peso delle ristrutturazioni conseguenti alla crisi. Il lavoro è nei guai rispetto al secolo scorso, la globalizzazione non gli ha fatto bene. L’impresa impone e poi dice ai dipendenti: se così non vi piace, me ne vado da un’altra parte. Di questo passo tra una decina d’anni saremo alle stesse condizioni di lavoro della Cina o di qualche paese africano». Quali sono le alternative?
«Forse sarà la lotta di classe degli operai cinesi a salvarci: le battaglie dei lavoratori si stanno diffondendo anche lì, e diverse conquiste sono già state ottenute, a cominciare da alcune ondate di aumenti salariali».
Marchionne ha proposto un nuovo patto sociale. Si parla molto di partecipazione dei lavoratori alle imprese.
«Appunto. Se ne parla molto, da diversi anni ormai, ma nessuno alza mai un dito. E la colpa non è nemmeno delle aziende o dei sindacati, perchè senza una forte iniziativa politica non si può fare nulla». Quale nuovo sistema di relazioni industriali servirebbe all’Italia?
«Un sistema più articolato, visto che la gran parte della manodopera si è spostata dalla grande alla piccola impresa. Oggi solo il 28% dei lavoratori sta in un’azienda con più di 500 dipendenti, trent’anni fa era il 46%. Per questo non possiamo abbandonare il contratto nazionale, quel che importa è la tutela degli ultimi. Chi dice che il contratto nazionale è morto, crede di vivere in un altro paese, manco fossimo la Germania delle grandi industrie».
Infatti è la grande industria Fiat a chiedere di derogare al contratto nazionale. «Se si vuole implementare l’industria in Italia, si possono anche chiedere sacrifici. Ma le deroghe e le riforme non si fanno con i dicktat, come è successo a Pomigliano. Del resto, che cosa c’entra l’ingiunzione con la partecipazione?».

il Fatto 27.8.10
Tutta colpa degli operai
Marchionne insiste: se la fabbrica non cambia come dico io la Fiat non investe. E per Tremonti cambiamento è: meno sicurezza sul lavoro
di Furio Colombo

Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, deve avere visto le immagini televisive dei tre operai Fiat, Barozzino, Lamorte, Pignatelli che fanno passare le ore sul piazzale assolato e vuoto della fabbrica proibita, ci ha pensato, e ha detto: “C’è da augurarsi che la politica italiana non lasci solo il capo del Lingotto”. Evidentemente Capezzone era scosso dalla risposta immediata e chiara del capo dello Stato sul reclamo di dignità dei tre operai che non possono rientrare in fabbrica nonostante una sentenza. Era turbato dalla ferma solidarietà dei vescovi, che non dovrebbero immischiarsi in beghe sindacali. Certo, un po’ lo avranno consolato le parole di Emma Marcegaglia che, con Cesare Geronzi al suo fianco (dunque il meglio del meglio dell’Italia) ha detto ai fervidi ragazzi di Comunione e Liberazione di Rimini: “Oggi bastano due persone per fermare un’intera produzione. Serve un cambiamento forte o sarà il declino”. Gli autori del declino erano sempre là, a Melfi, con le magliette blu dell’uniforme. Tre uomini spinti fuori, sotto il sole, per otto ore al giorno. La preghiera di Capezzone però non è restata inascoltata. Si è fatta avanti Mariastella Gelmini e ha detto “Marchionne è il più bravo di tutti”.
Probabile che Marchionne comparirà, vita e opere, nelle tracce dei temi di maturità del prossimo anno. Dopo un po’ di esitazione si è fatta avanti la sinistra. Prima Chiamparino che, da sindaco di Torino e da candidato del centrodestra del Pd – fa il tifo per Marchionne (strano, però; lo fa, quando la Fiat va in Serbia e lo fa mentre gli operai torinesi sono rimasti cauti, zitti e umiliati a Mirafiori). Poi Pietro Ichino, per spiegare che Napolitano, in realtà, è dalla parte di Marchionne, non dei tre operai in maglietta blu, soli sul piazzale vuoto. Sentite: “Prendere posizione sulla questione del piano Fiat è ciò che il messaggio del capo dello Stato sottolinea: rispetto degli standard dell’occidente industrializzato”. Gli risponde sullo stesso giornale, lo stesso giorno (Il Corriere della Sera, 26 agosto) il vice direttore Massimo Mucchetti: “I lavoratori tedeschi partecipano alle decisioni strategiche; negli Usa i sindacati sono entrati nel Board per tutelare le azioni ricevute”. Ma “per fortuna Marchionne c’è”. A Rimini, fra ciellini giovani e festanti, dice queste frasi nette e incoerenti: “Accetto l’invito di Napolitano. Non si possono difendere atti di sabotaggio. La dignità non è esclusiva di tre persone”. Non sarà esclusiva, ma i tre in maglietta blu restano ad aspettare nel piazzale vuoto di Melfi. Il saggio ministro Tremonti offre loro il pensiero del giorno: “Se tutti vogliono diritti perfetti nella fabbrica ideale, si rischia che la fabbrica ideale va da un’altra parte”. Giusto. Il mondo è pieno di schiavi.

l’Unità 27.8.10
Fioroni plaude a Berlusconi
Nel Pd tutti zitti
di Maurizio Mori

Il 5 agosto il ministro Sacconi & Co. presentava l’Agenda Bioetica del governo per imbonire il Vaticano. Il 15 rincarava la dose proponendola come tema di verifica di governo con giustizia, fisco, federalismo ecc., per spiazzare i dissidenti finiani di «Futuro e libertà».
E subito Beppe Fioroni e altri tre parlamentari del Pd (Corriere, 17 agosto) approvavano l’Agenda e rilanciavano la «libertà di coscienza» del parlamentare sui temi bioetici.
L’uscita di Fioroni e il successivo silenzio totale del Pd è un atto politico grave che sconcerta gli elettori. In un momento in cui il ddl Calabrò potrebbe diventare la Caporetto di Berlusconi, invece di rafforzare le critiche di un pessimo testo rifiutato dai medici e da moltissimi cattolici, Fioroni & Co. dichiarano che l’Agenda è condivisibile! E gli altri zitti...
Forse, Fioroni non ha neanche letto l’Agenda, che prevede come «principio irrinunciabile e fondamentale» che «per tutti, credenti e non credenti, la vita sia il bene più prezioso».
So che l’Agenda non è un trattato di bioetica, ma queste parole sono tanto superficiali e sbagliate che chiunque abbia un minimo di competenza dovrebbe rifiutarle. Neanche i cattolici sostengono che la «vita sia il bene più prezioso», perché elogiano i martiri pronti a rinunciare alla vita per proclamare che la fede è ben più preziosa. Per i laici, invece, più preziosa è la libertà di decidere, come ci hanno insegnato Welby e altri. L’Agenda è solo un’ennesima prova dell’incompetenza del governo Berlusconi: altro che richiamo ai valori!
Che dire, poi, delle interpretazioni restrittive date della 194/78 e del «Piano federale per la vita» che è un ulteriore attacco all’eguaglianza di tutte le italiane e un espediente per finanziare il volontariato cattolico? O continuiamo a far finta di non vedere l’attacco frontale agli attuali servizi offerti dalla 194?
Ancora più preoccupante è che Fioroni plauda alla proposta di Sacconi del «principio di sussidiarietà» per dare un’ulteriore spallata allo Stato sociale, affermando che in seguito alla lunga crisi oggi «non c’è nessuna eccedenza da dividere» (Avvenire, 18 agosto).
Invece, di profitti ce ne sono e tanti, ma vanno ad ingrassare i pochi, i quali sono abili nel ribattezzare «principio di sussidiarietà» il rilancio della corruzione dilagante e del liberismo più sfrenato.
Domando: ma un Partito che si propone di governare ha una linea programmatica sui temi di bioetica, famiglia, sussidiarietà e quant’altro, o sui «temi etici» si affida agli umori di coscienza di parlamentari come Fioroni & Co.?

Repubblica 27.8.10
La politica della diceria
di Nadia Urbinati

Nella società dell´audience, le dicerie si sono conquistate un loro pubblico, molto corteggiato e alimentato. Se nelle monarchie assolute era sufficiente far circolare fra i pochi cortigiani una diceria contro un nemico designato, nella società mediatica le dicerie devono estendere il loro raggio d´azione per poter colpire nel segno. Benché l´effetto "sasso nello stagno" sia lo stesso, il fenomeno è oggi molto più pervasivo a causa del processo di auto-alimentazione della tecnologia informatica. Sembra che una delle ragioni che muove gli Internet addicted sia proprio il desiderio di sapere qualcosa in più degli altri per poter aggiungere qualcosa in più alla chiacchiera con gli amici. In questa atmosfera di bulimia della novità, diventa più difficile distinguere con chiarezza la chiacchiera, il gossip, dalla calunnia; e su questa oggettiva difficoltà i quotidiani italiani di questi giorni fanno le loro prime pagine, soprattutto il giornale che fa capo al presidente del Consiglio (è un fatto sorprendente in un paese democratico che il capo della maggioranza possieda, come famiglia, un quotidiano nazionale).
Ha scritto Cass Sunstein in On Rumors, recentemente tradotto da Feltrinelli col titolo Voci, gossip e false dicerie, che uno dei processi attraverso i quali le dicerie si diffondono è per "cascata": se la maggior parte delle persone che conosciamo crede in una diceria, tendiamo a crederci anche noi perché «in mancanza di informazioni di prima mano accettiamo le opinioni degli altri»; se poi "gli altri" hanno le nostre stesse idee, allora questa diceria è naturalmente accreditata ai nostri occhi. Ci crediamo. Più siamo pregiudizialmente identificati con un´idea o un gruppo più siamo facili a credere a ciò che più conviene a quell´idea o a quel gruppo. Questo significa che in un paese politicamente polarizzato come l´Italia le dicerie hanno grande corso. È a questo presupposto che la fortuna politica di leader e candidati fa affidamento.
Anche per una ragione semplice: perché, benché la rete ci dia l´illusione di avere il mondo tra le dita, è un fatto che le notizie non le produciamo noi direttamente ma le riceviamo già digerite, se così si può dire, confezionate in modo da conquistare la nostra fiducia (ma meglio sarebbe dire credulità) o, più semplicemente, approfittare della nostra propensione a credere in ciò che non possiamo provare. «Una cascata ha luogo quando capiscuola, leader, promuovono certe affermazioni e comportamenti, e altre persone li seguono. In economia le dicerie possono alimentare una bolla speculativa»; in politica possono far nascere emozioni di repulsione o innamoramento per un leader, oppure la paura per un fenomeno (per esempio l´immigrazione). Quel che è peggio, possono alimentare discredito per la politica e lo Stato (il detto "sono tutti ladri"). L´effetto "cascata" è così forte – e chi lo alimenta sa che è forte e scommette su questo – da far sì che l´esito di una diceria che si afferma in questo modo finisce per rendere inefficace ogni informazione che possa correggerla o negarla.
Il problema è che la diceria vive della stessa aria di cui vive la democrazia: la libertà di parola. Una democrazia non può esistere se i suoi cittadini non godono della libertà di dire quello che pensano, anche quando quello che pensano non è corretto. Il codice non si occupa delle dicerie, ma consente la denuncia per colpire una diceria che si fa affermazione falsa fatta con malevolenza (questa è la calunnia), ovvero per danneggiare la reputazione di qualcuno o qualche cosa. Nel nostro codice il delitto di calunnia è stato collocato tra i delitti contro l´amministrazione della giustizia perché considerato reato in grado di offendere non solo la rispettabilità del soggetto calunniato ma anche il regolare svolgimento dell´amministrazione della giustizia da parte dello Stato.
Ma la diceria non è né può essere reato, non è né può essere trattato come la calunnia. Nel caso della diceria, quindi, occorre fare affidamento sul civismo e la responsabilità degli operatori dell´informazione. Non è un caso che per i cattolici l´affermazione diffamante sia un peccato anche quando non violi alcuna legge civile. I credenti sopperiscono con il timore della punizione divina al silenzio della legge civile. Chi si rifà a un´etica laica usa argomenti come il senso del rispetto per gli altri - scriveva Cicerone che il rispetto e la sincerità sono la condizione senza la quale non si dà amicizia, aggiungendo che in una repubblica la cittadinanza è una forma di amicizia. Comunque sia, dove non c´è dolo e proprio perché la libertà di parola è sacra in un governo libero, occorre saper trovare ragioni di autocontrollo negli individui. La questione morale implicata nella diceria è delicata anche perché, pur supponendo che la persona che ne è vittima riesca a provare che quella voce non corrisponde al vero, il suo nome può tuttavia restare associato a quella diceria per molto tempo nella memoria della gente. Aggiungiamo che quando la persona ricopre incarichi istituzionali, ad essere compromessa è anche, anzi soprattutto, l´istituzione. Il persistente richiamo del presidente della Repubblica a tenere fuori le istituzioni dal "gioco al massacro" che si sta consumando in questi giorni, è ispirato da questa consapevolezza.
Parlare di cultura morale significa spostare l´attenzione dal fatto all´intenzione. Ora, che ruolo ha l´intenzione del perpetrante in questo gioco al massacro che è la diceria? Molta, poiché, spiega ancora Sunstein, le dicerie si diffondono e si propagano perché chi le mette in circolo conosce molto bene i meccanismi di diffusione e gli effetti. Per questa ragione la responsabilità morale di chi opera nell´informazione - di chi confeziona le notizie dalle quali nascono le credenze - è grande anche, anzi soprattutto, quando non ci siano risvolti penali. Che i cittadini debbano essere esposti a notizie veritiere, ci ammonisce costantemente Gustavo Zagrebelsky, che le informazioni che riceviamo (naturalmente insieme a giudizi e quindi tinte di opinioni e preferenze) siano equilibrate, che si sappia e si voglia fare distinzione tra mezzi di informazione e mezzi di propaganda: tutto questo si appoggia su null´altro che il senso di una responsabile libertà democratica, che non è una libertà da stato di natura, né è fatta per danneggiare gli altri e le istituzioni.

Repubblica 27.8.10
Robert Horovitz
“Quando la cellula spiega la filosofia della nostra vita"
di Piergiorgio Odifreddi

È un biologo e ha vinto il Nobel per la medicina. Grazie ai suoi studi sulla "morte programmata" sono stati svelati alcuni dei segreti dell´evoluzione degli organismi
"L´esistenza dipende in larga parte dal fatto che molti tessuti scompaiono"
"L´eliminazione di tante parti è necessaria per garantire lo sviluppo"
"Un teologo rimase assai colpito dalle nostre teorie: io però non ho una mia religione"

La morte costituisce una delle tematiche preferite di letterati, teologi e filosofi, che per millenni ne hanno potuto parlare impunemente. Fino a quando, cioè, della morte nessuno sapeva niente, a parte il fatto che esiste, e chiunque poteva dunque dirne qualunque cosa. Anche in questo campo, però, la scienza sta scompaginando le carte. In particolare, nel 2002 il premio Nobel per la medicina è stato assegnato a Sydney Brenner, Robert Horvitz e John Sulston «per le loro scoperte sulla regolazione genetica dello sviluppo degli organi e della morte cellulare programmata».
Abbiamo chiesto a Horvitz di aiutarci a capire come queste scoperte rivoluzionino la nostra visione della morte, e ce la presentino in una maniera meno banale e più affascinante di quanto abbia saputo o potuto fare qualunque romanzo, libro sacro o manuale teoretico.
Cos´ha scoperto la biologia, a proposito della morte?
«Una cosa per niente intuitiva. Che il processo di formazione degli organismi, per divisioni successive a partire da un´unica cellula-uovo fertilizzata, si basa sulla morte di un gran numero di cellule. L´intero processo è diffuso e fondamentale: ad esempio, muoiono l´85 per cento delle nostre cellule cerebrali, e il 15 per cento di quelle immunitarie. E in molti casi queste cellule muoiono prima di aver potuto fare qualunque cosa».
Nascono per morire?
«Letteralmente. Ma la loro morte ha un´importanza vitale: ad esempio, un topo in cui la morte cellulare viene bloccata, si sviluppa in maniera fortemente anormale e non sopravvive a lungo».
La morte cellulare è un processo casuale?
«Per niente. Infatti la si chiama "programmata", ed è una parte fondamentale del programma genetico dello sviluppo. E, più in generale, della vita animale».
Qual è lo scopo di questa programmazione?
«Bisogna stare attenti a non farsi fuorviare dalla parola: la morte cellulare è programmata per le cellule, ma non è stata programmata da nessuno! Nella Natura niente è stato programmato: tutto si è semplicemente evoluto, senza alcuno scopo».
Diciamo meglio, allora: qual è il vantaggio evolutivo della morte programmata?
«Il fatto che permette di "scolpire" e raffinare l´organismo in maniera sofisticata e potente, eliminando alcune cellule che sono già state generate. Quali cellule eliminare, e come, cambia a seconda dell´organismo. E l´intero meccanismo non è ancora stato completamente compreso».
La morte programmata interessa solo le cellule di organismi complessi, o anche quelle individuali?
«Anche quelle individuali, ma con un meccanismo diverso da quello di cui stiamo parlando. E´ stato scoperto da Elizabeth Blackburn, Carol Greider e Jack Szostak, che hanno per questo ottenuto il premio Nobel per la medicina nel 2009».
Come funziona?
«Quando una cellula si divide, il suo Dna viene duplicato, ma non completamente. A ogni duplicazione si perde per strada qualcuno dei telomeri, che costituiscono una specie di appendice ai suoi cromosomi. E quando tutti i telomeri si sono persi, la cellula non può più duplicarsi. Dunque, tutte le cellule devono morire, e nessuna può vivere all´infinito».
Prima ha parlato di "scultura" di un organismo. Può fare un esempio?
«Alcune specie di uccelli hanno i piedi palmati, altre no. Questo fa una gran differenza, ad esempio per quanto riguarda l´abilità nel nuotare. E dipende appunto dalla morte cellulare programmata: se questa avviene, le dita si separano, altrimenti no. Tra l´altro, anche i bambini, nell´utero, hanno le mani e i piedi palmati. Queste cellule sono poi rimosse, a meno di un difetto genetico del programma di morte cellulare, che si traduce in due o più dita attaccate fra loro. La cosa ha poca importanza per gli umani, ma può fare la differenza tra la vita e la morte per gli uccelli».
Cosa può fare la differenza, invece, per noi?
«La prima malattia che viene in mente, legata a un funzionamento anomalo della morte cellulare, è il cancro. Ma il collegamento non è banale, del tipo "morte cellulare - morte dell´individuo". Al contrario, il problema è che le cellule cancerogene si dividono all´impazzata, e rifiutano di morire».
La morte dell´organismo può essere causata da un eccesso di vita delle sue componenti?
«Esatto. In generale, il numero di cellule in un tessuto è determinato da un equilibrio tra due processi opposti: la divisione cellulare, che aggiunge cellule, e la morte cellulare, che le sottrae. Una crescita eccessiva può dunque essere provocata da due fattori contrapposti: un eccesso di vita delle cellule, o un loro difetto di morte».
L´eccesso di vita e il difetto di morte non sono, però, solo due facce di una stessa medaglia?
«Lo sono, ma bisogna vedere quale dei due causa l´altro. Nel cancro ci sono esempi di entrambe le cause. Ma nella maggioranza dei tipi di cancro è presente una disfunzione o una disattivazione del programma di morte. E molte terapie, come la chemio o la radio, costringono appunto le cellule tumorali ad attivarlo: non le ammazzano, come si potrebbe pensare, ma le fanno suicidare».
Quindi è il suicidio cellulare a essere benefico e necessario.
«Direi, anzitutto, che benefico e necessario è l´equilibrio tra vita e morte. Perché se è vero che nel cancro, ma anche nelle infezioni virali e nelle malattie autoimmuni, il problema è un difetto di morte cellulare, in altre malattie, quali l´Alzheimer o l´Aids, il problema è l´opposto, cioè un suo eccesso. E poi, non è che una cellula abbia solo la scelta tra vivere o suicidarsi. Le cose sono complicate, e l´attivazione o l´inibizione del meccanismo di suicidio possono essere raggiunte in vari modi. Ad esempio, una cellula può suicidarsi direttamente, perché viene attivato questo meccanismo. Oppure può suicidarsi indirettamente, perché viene inibito un altro meccanismo che inibisce il meccanismo di suicidio, e così via. Sappiamo molto di questi vari meccanismi, ma poco di come sono integrati fra loro».
Cosa si deduce da tutti questi discorsi, se si paragonano le cellule individuali agli individui e l´organismo a una società?
«Una volta l´Università di Berna mi ha dato un premio. Nel comitato per l´assegnazione c´era un teologo, che mi disse di essere rimasto molto colpito dal fatto che il suicidio giocasse un ruolo così grande nella biologia. L´idea che la morte di una parte fosse non solo la manifestazione di un processo naturale, ma anche qualcosa di utile per l´intero organismo, l´aveva costretto a rivedere il suo pensiero teologico».
Ma lei, cosa pensa al proposito?
«Io sono un biologo, e il mio compito è di scoprire i fatti. Preferisco lasciare ai teologi e ai filosofi il compito di tirare le conclusioni che ne derivano: non ho una religione personale, che mi spinga a generalizzare dalla biologia alla sociologia».

Repubblica 27.8.10
Il Paese visto dall’inviato Giorgio Bocca
di Miriam Mafai

"Italia anno uno" con "Repubblica" o "L´espresso"
Il suo percorso per scoprire la fine del mito operaio, la trasformazione della campagna

Chi tra venti o cinquant´anni vorrà sapere com´era l´Italia dei suoi nonni, quali ne fossero i vizi, le passioni, le speranze, i comportamenti avrà a disposizione intere biblioteche e saggi che indagano sul tormentato periodo che noi stiamo vivendo e che, per loro, sarà soltanto un lontano passato.
Noi da questo lontano passato, che è il nostro presente, vorremmo dar loro un consiglio: si facciano prendere per mano da Giorgio Bocca - di cui da domani è disponibile con Repubblica o L´espresso il reportage Italia anno uno. Le campagne senza contadini. Le città senza operai: un viaggio nel nostro Paese che racconta il volto delle nuove fabbriche e lo svuotamento delle campagne, decifrando le caratteristiche della società postindustriale - si facciano accompagnare da lui, attraverso l´inferno e il purgatorio dei nostri tempi, per conoscere le nostre speranze, i nostri peccati, le nostre scarse virtù. Si facciano prendere per mano per arrampicarsi, con lui, sulle montagne della Resistenza, per entrare a Roma nell´ufficio di Palmiro Togliatti segretario del più grande Partito Comunista dell´Occidente e a Milano, nei salotti della buona borghesia milanese, per seguire nell´aula gelida del tribunale di Torino il processo alle Brigate Rosse o per conoscere un giovane Berlusconi all´inizio dell´avventura televisiva e seguirne le successive trasformazioni.
«Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operi venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una»: così Giorgio Bocca annunciava, per primo, con un articolo sul Giorno, quel fenomeno straordinario e spietato che poi avremmo chiamato «il miracolo italiano».
E venti anni dopo, chiusa la stagione feroce del terrorismo di cui era stato lucidissimo cronista, riprendeva il suo viaggio per l´Italia per scoprire, attorno alla cosiddetta «Milano da bere» la fine del mito operaio, la rivoluzione degli ingegneri, la trasformazione della nostra campagna in una «fabbrica verde che ha usure, veleni e manipolazioni non prevedibili». Come dire, insomma, che Giorgio Bocca, che compie domani novant´anni, non ha mancato nessun appuntamento nella storia del nostro paese, e ci ha raccontato con la stessa lucidità la ferocia della mafia e la violenza del terrorismo, il «miracolo» e la crisi economica, la sconfitta operaia e il successo della Lega, «tangentopoli» e l´arroganza di Berlusconi.
Ci ha raccontato la nostra storia da cronista, restituendoci le nostre smozzicate parole, i nostri incerti umori, le nostre ingenue speranze e poi le nostre delusioni. Giorgio Bocca è, in qualche modo, uno di noi che da anni non ci stanchiamo di leggere. Ci rispecchiamo nelle sue amarezze e nella sua rabbia, come lui si rispecchia nella nostra. E per questo ci piacerebbe che lo leggessero, un giorno, anche i nostri nipoti e pronipoti perché sapessero «come eravamo» , com´era quest´Italia nella quale abbiamo vissuto.

l’Unità 27.8.10
Intervista a Guido Barbujani
«Se Hitler era ebreo io sono un Apache» Parola di scienziato
Il genetista autore di studi sul razzismo parla dello studio sul dna del Führer. «È divertente Ma sul piano biologico le razze non esistono»
di Marina Mastroluca

Se c’è chi mette in guardia la Germania contro il rischio di istupidirsi a forza di diluire la popolazione originaria nel mare dell’immigrazione e islamica per di più proprio in questi giorni salta fuori la «prova scientifica» che persino Hitler non poteva vantare quella purezza ariana che andava cercando. Nel suo Dna, testato grazie alla collaborazione di 39 suoi discendenti, si sarebbe trovato il cromosoma Aplogruppo Eib 1b1, molto raro tra gli occidentali ma comune tra ebrei ashkenaziti e sefarditi e tra i nordafricani. Dunque proprio lui, l’ideato-
re della «soluzione finale», aveva origine ebraiche. La ricerca, partita da un giornalista e uno storico belgi e avallata secondo fonti di stampa dall’Università cattolica di Lovanio, suona come un contrappasso dantesco. Ma è così? «Non conosco lo studio ma affermazioni di questo tipo sono spesso sonore sciocchezze». A pensarla così è il genetista Guido Barbujani, autore con Pietro Cheli di «Sono razzista, ma sto cercando di smettere» (Editori Laterza), un saggio che prova a smantellare l’idea radicata che l’umanità sia classificabile in razze, più o meno dotate e che il razzismo abbia una qualche legittimità scientifica.
Dunque, sembrerebbe che Hitler avesse almeno un po’ di sangue ebreo. «È difficile giudicare il valore scientifico di studi di questa natura. E vero che ci sono varianti del dna che sono più comuni in certi gruppi di popolazione piuttosto che in altri. Ma da qui a tirare delle conclusioni ce ne passa. Le faccio un esempio. Io ho il sangue di gruppo O. Questa caratteristica è molto comune tra gli indiani Apaches».
Allora lei è un indiano? Ma potrei esserlo anch’io.
«Appunto. È esattamente il tipo di conclusioni alle quali non possiamo saltare. Qualche volta possiamo dire che un pezzetto di dna ha le stesse caratteristiche di quello che si ritrova più frequentemente nella popolazione ebraica. Ma potrebbe risalire anche a 30 generazioni prima, come dire mille anni».
O ad Adamo ed Eva... «Se vuole. Quanto poi alla popolazione ebraica, ha davvero un’”accozzaglia” di dna, quindi... Studi come quelli su Hitler sono divertenti, incuriosiscono. Ma è tutto qui». Però si tratta di uno studio in cui la genetica viene usata per spuntare le armi del razzismo.
«La ricerca seria dimostra che è vero che non siamo tutti uguali. Le differenze sono tante, le caratteristiche variano. Ma non possiamo continuare ad usare gli schemi ottocenteschi della razza, superati dalla storia e dalla scienza». Quindi da un punto di vista genetico non si può parlare di razze? «Le razze dal punto di vista biologico non esistono. Se ne parla tanto ma per altre ragioni che hanno a che vedere con valutazioni soggettive e sociali, ma nessuna base scientifica. Prendiamo il caso di Obama: madre bianca, padre nero. Ma è stato definito il primo presidente nero della storia, anche se per molti neri non è abbastanza nero. È qualcosa che ha più a che vedere con i pregiudizi e con fattori culturali che con la genetica».
C’è stato qualche precedente simile a quello di Hitler-ebreo? «Mi viene in mente James Watson, che con Crick scoprì la struttura del Dna. Qualche anno fa fece scandalo dicendo che i neri sono meno intelligenti dei bianchi. Quando poi esaminò il proprio dna scoprì di avere un quarto del patrimonio genetico identico a quello delle popolazioni africane».

il Fatto 27.8.10
Il professor Gentile risponde a Chiaberge: dal premier oggi nessun progetto totalitario, piuttosto il totalitario disordine di uno Stato in disfacimento
Niente paragoni con il Fascismo
di Emilio Gentile

Riccardo Chiaberge è turbato dall’incubo di un paragone storico inquietante fra la situazione italiana di oggi e la situazione italiana alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1924, che aprirono la strada al regime fascista illiberale e totalitario, come lo definirono alcuni amanti della libertà, che nessuno ascoltò. Nel suo blog dell’11 agosto, Chiaberge ha chiesto agli italiani di liberarlo dall’incubo, convincendolo che ha torto oppure dimostrandogli, soprattutto, che hanno imparato la lezione della storia e non ricadranno di nuovo nella trappola del 1924.
La lezione inesistente
UN GRANDE storico disse due secoli fa che la storia dimostra che dalla storia gli uomini non imparano nulla. Un grande sociologo del secolo scorso scrisse che gli uomini fanno la storia ma non sanno che storia fanno. Nessuno ha finora dimostrato che gli italiani siano esseri umani speciali, perché sanno imparare la lezione della storia. Invece, è dimostrabile che in moltissimi italiani la capacità di oblio del passato è pari solo alla loro convinzione di essere sempre vittime di una storia fatta da istrioni ingannatori e da politicanti corrotti, piovuti da chissà quale pianeta maligno per traviare il Bel Paese. Dubito pertanto che Chiaberge possa avere dagli italiani la confortante promessa che non ripeteranno quello che, in maggioranza, i loro antenati fecero nelle elezioni del 1924.
Vorrei però tentare di liberare Chiaberge dall’incubo del suo inquietante paragone storico provando a convin-
cerlo che ha torto, perché il paragone della situazione odierna con la vigilia delle elezioni dell’aprile 1924 non regge. Non regge neppure – e in questo Chiaberge ha ragione – il paragone che molti fanno fra la situazione attuale del governo in carica e quella del regime fascista alla vigilia del 25 luglio 1943. Come non regge, a mio modestissimo parere, nessun paragone fra la situazione italiana di oggi e il fascismo.
Prima di tutto, osservo che la riforma elettorale del 1924 non fu il suicidio del parlamento italiano: il suicidio, il Parlamento lo aveva già fatto nel novembre 1922 quando votò la fiducia ad un governo presieduto dal capo di un partito armato, nato appena tre anni prima (il partito armato, intendo), che si era aperto la via verso il potere con la violenza, dichiarando apertamente di voler creare uno Stato senza libertà per i suoi avversari, fortemente unitario e accentratore, fanaticamente nazionalista. E fu quello che il fascismo fece quando instaurò il regime a partito unico e impose agli italiani il primato assoluto dello Stato nazionale, trasfigurato in una divinità alla quale tutti dovevano dedizione totale, obbedendo ciecamente al Duce, adorato come un dio terreno in un culto collettivo. Inoltre, il regime fascista praticò un’etica spartana e bellicosa, esigendo da ogni uomo e donna di dedicare la sua vita alla patria, di sacrificare la ricerca della felicità, e persino la più modesta ricerca di un benessere personale, alla potenza dello Stato e alla conquista di un impero.
Oggi non vedo in Italia un partito armato, non vedo un fanatismo nazionalista, e non vedo neppure il progetto di uno Stato accentratore deificato. E non vedo neppure un culto del capo, che faccia rassomigliare l’attuale presidente del consiglio al Duce del fascismo. Anzi, sarà probabilmente il Duce del fascismo, nella nuova versione diaristica, che somiglierà all’immagine che l’attuale presidente del Consiglio vuole dare di sé. Infine, chi governa oggi in Italia non sogna, neppure nei più esaltati sogni di grandezza, di militarizzare gli italiani per trasformarli in asceti e guerrieri, dedicati per la vita e per la morte alla potenza della nazione e dello Stato. Sogna, invece, di renderli tutti consumatori felici di un benessere senza limiti.
Come un ghiacciaio che si scioglie
DUNQUE , Chiaberge si rassereni. Da eventuali elezioni politiche con il porcellum, con la maggioranza degli italiani cloroformizzati dall’apatia, dalla rassegnazione, dal disgusto per la politica o dalla presunzione di farla sempre franca coll’arte di arrangiarsi e col miracolo dello Stellone, non nascerà certamente uno regime totalitario. E’ più probabile invece che avremo il totalitario disordine di uno Stato nazionale in disfacimento, che sopravvivrà ancora per qualche tempo come espressione istituzionale, e poi, forse, se ne andrà alla deriva disgregandosi, come un ghiacciaio che si scioglie in mare.
Un’ultima osservazione, per tranquillizzare Chiaberge. Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
(*) docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma

Il Fatto 27.8.10
Br, la giustizia senza odio
La lettera della Faranda, l’astio anti-terroristi: ma contro di loro
lo Stato vinse una battaglia senza tribunali speciali e nel rispetto dei diritti democratici. Sui quali loro invece sparavano
di Gian Carlo Caselli

Ma quale odio? È la domanda che suscita il commento di Luca Telese alla lettera di Adriana Faranda (Il Fatto Quotidiano di mercoledì). Non entro nel merito del “dibattito” su Francesco Cossiga perché quel che penso l’ho scritto quand’era in vita. E nessuna delle agiografie “post mortem” mi ha fatto cambiare opinione. Vorrei invece intervenire sulle parole di Telese: “Se qualche brigatista è riuscito a superare la dimensione dell’odio, che aveva portato un pezzo di generazione a combattere lo Stato, forse possiamo farlo pure noi”. Ripeto: ma quale odio? Quale superamento? Siamo stati protagonisti di una guerra che qualcuno – unilateralmente – aveva deciso di dichiarare, stabilendo dal mondo parallelo e cupo della clandestinità quali “nemici” meritassero di morire ammazzati e quali di vivere storpiati da “gambizzazioni”.
Una vittoria italiana
UNA GUERRA che abbiamo saputo vincere senza odiare. Perché in Italia – a differenza di altri Paesi europei – la criminalità terroristica è stata fronteggiata senza tribunali speciali e nel rispetto fondamentale delle regole democratiche (anche quando si sono adottate leggi mirate sulle specificità dei fenomeni da contrastare mai vi è stata lesione di diritti costituzionalmente protetti, come più volte ha sentenziato la Consulta). I processi si sono svolti con piena osservanza dei diritti e della stessa identità politica degli imputati, ai quali è stato consentito di “controinterrogare” le vittime dei loro atti criminali (ovviamente quelle rimaste vive). E ciò nonostante la concentrazione sui processi di un volume di fuoco spaventoso, con l’uccisione di magistrati, avvocati e poliziotti, fino alla rappresaglia di stampo nazista sul fratello di Peci, sequestrato e ucciso sol perché fratello del primo brigatista “pentito”. Fu proprio il rispetto delle regole (senza concessioni alla dimensione dell’odio) a vanificare l’assunto brigatista che “la lotta armata non si processa”, se non rinunziando all’ipocrisia della democrazia per far emergere la presunta realtà reazionaria dello Stato. E fu un passo decisivo nel percorso di sbrecciamento e sconfitta di Br e Pl, percorso che si realizzò anche grazie alla intuizione che il terrorismo andava sconfitto non solo sul piano investigativo-giudiziario ma anche sul piano politico. Bisognava isolarlo, andando nei quartieri, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi di partito e del sindacato, nelle parrocchie e nelle fabbriche per confrontarsi con la gente. Per renderla consapevole che il terrorismo era una minaccia non solo per le possibili vittime, ma per tutti, in quanto fattore di imbarbarimento della vita civile e di progressiva involuzione in senso reazionario del sistema. Bisognava spazzare via le incertezze e ambiguità (anticamera di contiguità) che si erano manifestate con slogan tipo “compagni che sbagliano”, “né con lo Stato né con le Br”. Il mezzo principale con cui si conseguirono questi risultati furono le assemblee, che avevano a che fare con la dimensione della democrazia, non certo dell’odio. E questa scelta, di contrastare l’eversione coinvolgendo la società e praticando il dialogo, pagò in termini di isolamento politico del terrorismo. I brigatisti si accorsero di non essere l’avanguardia di nessuno e sentendosi sempre più isolati entrarono in una crisi irreversibile.
Il prezzo di lutti insensati
MA LA DIMENSIONE dell’odio (quand’anche vi sia stata) risulta obiettivamente incompatibile con la legge sulla “dissociazione”, cioè con la scelta di offrire ai terroristi – e sono stati una slavina ad avvalersene – una via conveniente di sostanziale risoluzione dei loro problemi giudiziari e carcerari, praticabile semplicemente scrivendo un paio di righe di ripudio della lotta armata, senza dover aggiungere nient’altro. Di fatto una generosa amnistia, una mano tesa per voltare pagina. La ricerca di una giustizia capace di non accanirsi sul colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare. L’esatto contrario dell’odio. Infine, e senza retorica, la categoria dell’odio non è mai appartenuta a coloro che pure avrebbero potuto cedere alla tentazione. Mi riferisco ovviamente alle vittime degli attentati terroristici. Ci sono feriti che a trent’anni di distanza camminano a fatica e ricorrono a periodiche cure mediche, se non all’ennesima operazione chirurgica. Ci sono soprattutto famiglie che ancora oggi pagano il prezzo di lutti insensati. Ci sono figli cresciuti senza genitori che soltanto in età adulta hanno saputo e potuto elaborare l’enormità di quanto accaduto. E lo hanno fatto, coraggiosamente, sulla loro pelle, lottando con l’oblio e l’imbarazzo di un Paese che per molti anni ha dato l’impressione di voler rimuovere ciò che è stato.

Corriere della Sera 27.8.10
La Piazza Rossa e il mistero delle dodici stazioni del metrò
Ispirate alla carta di un alchimista, non sono mai potute diventare 13
di Armando Torno

In passato sulla Piazza Rossa di Mosca i signori del Cremlino radunavano la folla. Dopo la Rivoluzione del 1917 i vertici del Partito Comunista organizzavano parate militari. L’esercito dell’Urss durante la Guerra fredda vi esponeva, quale monito all’Occidente, i missili intercontinentali. I 23.100 metri quadrati diventarono un luogo mitico nel Novecento, ma al tempo degli zar conobbero sortilegi e misteriose storie. Alcune di esse, ogni tanto, riaffiorano. Altre, chissà perché, desiderano far perdere le loro tracce. La piazza ebbe un nome per la prima volta nel 1434: si dedicò al Commercio. Dopo il devastante incendio del 1493 fu chiamata «del Fuoco»; nel XVI secolo si consacrò alla Trinità (così anche la chiesa che si trovava ove ora sorge San Basilio) e nel 1660 diventò Krasnaya (da Krasnyj, bello, importante), che nel russo moderno è semplicemente «Rossa». Quando ha inizio la sua magia? Con lo zar Ivan IV, noto come il Terribile ( Groznyj però equivale all’espressione del Requiem latino rex tremendae maiestatis, il «re di tremenda maestà»). Nel 1553 ordinò di erigere una nuova chiesa per celebrare la presa di Kazan, che solo in un secondo momento verrà dedicata a San Basilio, in onore dell’omonimo «folle per Cristo» che trascorreva i giorni nelle strade di Mosca seminudo e scalzo in ogni stagione, per il quale lo zar provava rispetto e stima. L’edificio, nel lato Sud della Piazza Rossa, fu completato nel 1560. Allora lo si definì grottesco, a causa dei colori accesi e per la mancanza di simmetria; Ivan IV però lo gradì, tant’è che una leggenda racconta del suo ordine di accecare gli architetti, affinché non potessero più costruire qualcosa di altrettanto magnifico. San Basilio è un’unione di nove chiese (dall’alto ha forma di una stella a otto punte) e la scelta cromatica segue le indicazioni relative alla Città Celeste del quarto capitolo dell’Apocalisse. Il primo prodigio avvenne al momento della consacrazione. Il Cronista di Piskarëv, alla data 1560 riferisce: «Lo zar giunse con la zarina Anastasia e il padre metropolita Macario e portò l’icona di San Nicola giunta da Vjatka. Ci fu una preghiera e si recò acqua benedetta. Quando lo zar ebbe toccata la base con le sue mani, i costruttori videro che un altro santuario era apparso...». Insomma, un miracolo che Ivan IV «ordinò di dedicare a San Nicola» (una traduzione in russo moderno si trova in www.krotov.info/acts). Di più: negli anni Ottanta del ’600 si costruirono le arcate avvolgenti il piano terreno, che unirono anche visivamente i diversi spazi in un unico edificio. I rituali liturgici, inoltre, donarono a San Basilio anche il ruolo biblico di Tempio di Gerusalemme. Per Erlesund, meglio noto come Peter Petreius, diplomatico svedese che nel 1615 scrisse una Storia del Gran Ducato di Mosca (pubblicata a Lipsia nel 1620) ricorda un’antica cerimonia e la similitudine: «La città capitale Mosca... ha una chiesa bellissima, tutta rivestita con gemme luccicanti, detta Gerusalemme. È la meta della processione della Domenica delle Palme, quando il Grande Principe conduce un asino che trasporta il Patriarca dalla chiesa della Vergine Maria a quella di Gerusalemme, posta vicino alle mura della cittadella». Una liturgia sospesa a metà del XIX secolo, con i primi attentati agli zar.
Ma San Basilio è solo un frammento della Piazza Rossa, luogo nel quale mai avvennero esecuzioni (escluso il massacro degli Streletz, esercito ancora medievale che si ribellò a Pietro il Grande). Gli scavi in corso nei sotterranei del Cremlino, per esempio, hanno un obbiettivo segreto: individuare la mitica biblioteca di Ivan il Terribile. Si sussurra che Napoleone riuscì a trovarne una parte e, come sempre, la rubò (è sicuro soltanto che «furò» a man salva i libri giunti a Firenze); altri garantiscono che i circa 900 volumi che la formavano sono ancora inviolati e fra essi ci sono anche preziosi tomi appartenuti a Costantino XI Paleologo, ultimo imperatore bizantino, morto nell’estrema difesa di Costantinopoli. All’Archivio di Stato è conservata (e segretata) una documentazione in cui si elencano i tentativi fatti per ritrovarla. Tra i tanti si scopre che il cardinale Federico Borromeo pagò emissari e spie per averne notizie (una sua lettera fu fatta trascrivere da Stalin). Ma la magia qui volteggia nell’aria e vive nei dettagli. Ecco il basamento sul quale venivano letti un tempo i proclami, posto in un luogo dall’acustica mirabile: la voce dell’araldo poteva essere udita in ogni punto della piazza; ecco le urne con la terra raccolta in diverse città dell’Urss sulle tombe di combattenti della seconda guerra mondiale, poste accanto all’ingresso Nord, sotto le mura del Cremlino; ecco il Mausoleo di Lenin, sacrario del comunismo, dietro il quale c’è una porticina che consentiva a Stalin di raggiungere la tribuna sconvolgendo il protocollo (ed eventuali attentatori), realizzata sull’antico asse centrale, seguendo elaborati calcoli geometrici.
C’è infine un’ultima storia che merita di essere accennata. È quella di Jacob Daniel Bruce (1669-1735), erede di una casata britannica che riparò in Russia per sfuggire ai boia di Cromwell. Ingegnere di Pietro il Grande, è creduto alchimista dal popolo; e non soltanto. All’Archivio di Stato, dove si conserva l’elenco dei suoi libri (circa mille cinquecento, soprattutto di argomento scientifico), lo considerano il Nostradamus di Mosca, parlano del suo anello magico; soprattutto un funzionario — implorando l’anonimato — ci ha mostrato la richiesta di Stalin per avere la carta astrologica di Bruce. Anzi, questo topo d’archivio ha aggiunto che essa è servita per ideare la metropolitana di Mosca, costruita seguendo un modello solare. Non a caso le stazioni sul raccordo circolare intorno al centro sono 12, come i segni zodiacali (e gli apostoli di Gesù). La tredicesima non si è mai riuscita a costruire, nonostante diversi progetti.
Che dire? Il misterioso Bruce frequentava la Piazza Rossa, giacché dove ora sorge il Museo di Storia (accanto all’ingresso Nord) c’era una farmacia. In essa si ritrovavano alcuni alchimisti e ai loro convegni non mancava il nobile ingegnere. Del quale, ogni tanto, taluni segnalano la presenza del fantasma. Che si sofferma o aleggia su uno di quei 23.100 metri quadrati.

L’Osservatore Romano
Agostino e il vescovo di Milano
L'ex nemico di Ambrogio
di Inos Biffi

Nel novembre del 386 presso la villa di Cassiciacum Agostino ripensa al suo itinerario spirituale, e lo paragona a un viaggio per mare. Era partito con la giovanile lettura dell'Hortensius, dall'"amore per la filosofia" e dal proposito di dedicarsi a essa, ma il cammino si era poi snodato in una navigazione inquieta e piena di peripezie: "Non mancarono nebbie - scrive nel De vita beata - per cui il mio navigare fu senza meta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano (labentis in oceanum astra) e che mi inducevano nell'errore". Prima l'errore, seducente e deludente, del manicheismo, col rinnegamento della fede cattolica, poi quello degli scettici, che "tennero a lungo il mio timone tra i marosi in lotta con tutti i venti", per arrivare infine a conoscere "la stella polare", a cui affidarsi (septentrionem cui me crederem) Ambrogio. La definizione è suggestiva e illuminante.
Ascoltando i discorsi del vescovo di Milano incominciò ad apparire ad Agostino la dimensione dello spirito, una nuova idea di Dio e la possibilità di un'esegesi "spirituale" della Scrittura contro le aberrazioni manichee. 
Ma soprattutto l'incontro con Ambrogio significò per il travagliato retore di corte la conversione, quando, abbandonato tutto, poté, finalmente - sono le sue parole - "ricondurre la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete (optatae tranquillitati)" (De vita beata, 1, 4). 
Da Roma, era approdato a Milano nel 384. Nell'intenzione di Simmaco, il prefetto di Roma, parente e avversario di Ambrogio, l'invio del retore Agostino manicheo e ostile al cristianesimo aveva lo scopo di ostacolare l'opera dell'autorevole vescovo della città imperale. Il disegno provvidenziale era però tutt'altro. Agostino stesso, una decina d'anni dopo, nelle Confessiones rievoca quel soggiorno e quell'incontro. 
"Quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l'offerta anche del viaggio con mezzi di trasporto pubblici, proprio io brigai e proprio per il tramite di quegli ubriachi da favole manichee, da cui la partenza mi avrebbe liberato a nostra insaputa, perché, dopo avermi saggiato in una prova di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m'inviasse a Milano. Qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore. In quel tempo la sua eloquenza dispensava strenuamente al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino (salmo 44, 8). A lui ero guidato inconsapevole da te, per essere da lui guidato consapevole a te" (v, 13, 23). 
Ambrogio e Agostino erano due personalità diversissime per ceto sociale, per indole, per formazione e stile di vita. Ambrogio - figlio di un eminente funzionario della prefettura di Treviri - era un alto e colto aristocratico, di famiglia cristiana enormemente ricca e dalla raffinata formazione latina e greca, come conveniva a chi apparteneva al ceto senatorio, cioè alla gens dei Valerii e degli Ambrosii, che aveva dietro di sé una tradizione di magistratura e consolati. 
Era un clarissimus, diventato improvvisamente, sui quarant'anni, nel 374, vescovo della "meravigliosa" (Ausonio) Milano. Lo aveva richiesto a succedere all'ariano Aussenzio la volontà popolare: "Il mio popolo ha chiesto a tuo padre - scriverà a Valentiniano ii - di aver me come vescovo" (Epistulae, 75, 7). Era stato, infatti, nominato col beneplacito dell'imperatore - che probabilmente si illudeva sulla sua docilità alla corte - ma, in ogni caso, contro la volontà del consularis della Liguria e dell'Aemilia, che non era neppure battezzato: "Quanto ho resistito - egli dirà - perché non fossi ordinato vescovo!" (Epistulae, 14, 65). 
Quella nomina, a cui non riuscì a sottrarsi nonostante tutti i suoi espedienti aveva indotto Ambrogio a una completa conversione. Sulla sua condotta precedente non abbiamo "confessioni": forse vi è un sobrio accenno nel De paenitentia, là dove, in un'ardente preghiera, accenna d'essersi dato al mondo: "Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto, nonostante le mie ripulse. Io sapevo infatti che non ero degno di essere eletto vescovo, poiché mi ero dato a questo mondo" (ii, 8). 
Con l'elezione incominciava una vita radicalmente nuova, resa visibile dalla rinuncia, a favore della Chiesa milanese, dei suoi cospicui averi e delle proprietà che possedeva fin in Africa e in Sicilia. E con la vita nuova iniziava il ministero, e anzitutto quella formazione teologica che gli era mancata e che frettolosamente attingeva soprattutto alle fonti largamente disponibili dei dottori greci, Origene, Basilio, Didimo e Filone. 
Dichiarava ai suoi presbiteri: "Strappato dai tribunali e dalle insegne delle magistrature e fatto vescovo, cominciai a insegnarvi ciò che nemmeno io avevo imparato" (De officiis, i, 1, 4).
Ma se così appariva Ambrogio ad Agostino, questi, più giovane di vent'anni, per il vescovo di Milano - che per le discussioni dialettiche non aveva alcun gusto (De fide, i, 42, 84) - non era che un oscuro maestro di retorica inviatogli da Roma per creargli disagi: neppure Ambrogio poteva immaginare che quell'oscuro provinciale sarebbe diventato, a sua volta, uno dei più luminosi Dottori e Padri della Chiesa, dalla cui memoria e dalla cui affezione Ambrogio non si sarebbe più cancellato. 
"Mi accolse come un padre - continua Agostino nelle Confessiones - e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa, bensì come persona che mi mostrava benevolenza. Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione: volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m'interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo. La soavità della sua parola m'incantava" (v, 13, 23). E, pure, lentamente e insensibilmente, la conversione si avvicinava. 
Con Agostino dimorava a Milano anche la madre Monica, assidua frequentatrice della chiesa, dove "pendeva dalle labbra di Ambrogio". Quanto ad Ambrogio "amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa. Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l'elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre. Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell'impossibilità di trovare la via della vita" (ibidem 2, 2). 
Probabilmente Ambrogio non ignorava i tormenti spirituali, le passioni e la condotta disordinata di quel figlio, che tuttavia non riusciva, come avrebbe desiderato, a parlarne al vescovo: "Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell'angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l'alimento indispensabile, o l'anima con la lettura". 
Ed ecco il grande rammarico di Agostino: "Certo è che non mi era assolutamente possibile interrogare quel tuo santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, bensì soltanto su cose presto ascoltate. Invece le tempeste della mia anima esigevano di trovarlo disponibile a lungo, per riversarsi su di lui, ma invano. Ogni domenica lo ascoltavo mentre spiegava rettamente la parola della verità in mezzo al popolo, confermandomi sempre più nell'idea che tutti i nodi stretti dalle astute calunnie dei miei seduttori a danno dei libri divini potevano sciogliersi" (ibidem 3, 4). 
Non mancava però "il lavorio della mano delicatissima e pazientissima" (vi, 5, 7) grazie alla quale il suo "cuore lentamente prendeva forma". 
La lettura "delle opere dei filosofi platonici" in cui vedeva "per molti modi insinuarsi l'idea di Dio e del suo Verbo" (viii, 2, 3); la "visita a Simpliciano", anziano presbitero e neoplatonico cristiano, ricco di "grande esperienza e grande sapienza", "padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre" l'incontro con intimi amici, una lesione polmonare e soprattutto il lavorio della grazia, fecero maturare in lui la conversione: "Al termine delle vacanze vendemmiali avvertii i milanesi di provvedersi un altro spacciatore di parole per i loro studenti, poiché io avevo scelto di passare al tuo servizio". Trascorso, quindi l'operoso riposo in Dio "dopo la bufera del secolo" nella villa di Verecondo a Cassiciacum (ix, 3, 5) ecco il ritorno a Milano per ricevere il Battesimo. 
Qui Agostino incontra una Chiesa ardente e viva. Ricorda in particolare nella Settimana Santa del 386 la resistenza di Ambrogio e dei suoi fedeli alle pretese ariane di Giustina, con la veglia prolungata a difesa della chiesa e l'uso del canto antifonato; e nel giugno successivo il ritrovamento e solenne deposizione dei martiri Protasio e Gervasio (ibidem, 7, 16). Agostino celebrerà un giorno anche nella sua Chiesa la loro memoria (Sermones, 286). 
Ricevuto il Battesimo, era giunto per Agostino il tempo di tornare in patria. Lascia Milano nell'estate-autunno del 387. Agostino è ormai un altro: il soggiorno a Milano, l'incontro con Ambrogio, la conversione lo hanno radicalmente trasformato.