venerdì 19 maggio 2006

Liberazione 19.5.06
Riflessioni dopo gli attacchi dei vescovi e il nuovo discorso del papa
Le ingerenze dì Bertìnottì e l'idea cristiana dì "Stato etico"
Di Piero Sansonetti


Una volta si denunciavano le Ingerenze della Chiesa negli affari dello Stato italiano. Oggi avviene il contrario: le ingerenze della Chiesa sono considerate giuste e quasi doverose, quelle che vanno condannate sono le ingerenze degli uomini politici italiani. Può il Presidente della Camera, eletto prima dal popolo e poi dai deputati, esprimere garbatamente il suo pensiero sulle unioni gay, ad esempio? Certo che non può: è un'ingerenza. Sulle unioni gay è bene che si pronuncino il papa ed eventualmente i vescovi. Cosa c'entra un deputato, o addirittura un presidente dei deputati?
Guardate che non è mica uno scherzo. E' cosi. Fausto Bertinotti è stato attaccato duramente dal giornale dei vescovi, dall'agenzia di stampa dei vescovi, e da vari esponenti del centrodestra, esattamente con queste argomentazioni. Gli è stato detto che lui - siccome ha una carica istituzionale, e dunque rappresenta tutto il popolo non può impicciarsi di politica, e che comunque, specialmente sulle questioni etiche, deve lasciare la parola a chi ne sa di più, e cioè al Vaticano.
Sul fatto che il presidente di una Camera abbia il dovere di rappresentare in ogni occasione l'opinione del paese intero avremmo qualche piccolo dubbio, basato sul ricordo del recentissimo passato. Non fu proprio il presidente del Senato a scrivere, e firmare, e rendere pubblico, il manifesto politico della nuova destra italiana, basato sulla affermazione della superiorità dell' Occidente e dell' esigenza di usare le armi e la guerra per schiacciare i nemici?
Lasciamo stare le polemiche troppo facili. Cerchiamo di capire quaì è l'idea che ha la Chiesa cattolica di oggi - quella che papa Ratzinger sta forgiando - del rapporto tra religione e politica e Stato. Ieri lo ha spiegato direttamente il papa, entrando in polemica diretta - ci è parso di capire, e se è così è un fatto del tutto inedito - con Bertinotti e con chi lo aveva difeso. Citiamo testualmente quel che ha detto il papa: «Non commettiamo alcuna violazione della laicità dello Stato nel difendere la grande eredità cristiana dell'Europa» (...). «Una sana laicità dello Stato comporta senza dubbio che le realtà temporali si reggano secondo norme loro proprie, alle quali appartengono però anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo e pertanto rinviano in ultima analisi al Creatore» (...). «Nelle circostanze attuali, richiamando il valore che hanno per la vita, non solo privata ma anche pubblica, alcuni fondamentali principi etici, radicati nella grande eredità cristiana dell'Europa e in particolare dell'Italia, non commettiamo dunque alcuna violazione della laicità dello Stato, ma contribuiamo piuttosto a garantire e promuovere la dignità della persona e il bene comune della società».
Cosa colpisce di queste frasi pronunciate dal pontefice? Due cose, credo. Innanzitutto l'idea che la legge degli uomini - degli Stati - debba discendere, in ultima analisi, dalle istanze etiche che fanno riferimento al creatore. Il che vuoi dire, in sostanza, propugnare la creazione di uno Stato etico di matrice cattolica. La fonte ultima del diritto non è più il popolo: è Dio. E questo spiega anche il giudizio sul non-diritto di Bertinotti a parlare e a contestare il papa. Bertinotti rappresenta il popolo, cioè i sudditi di Dio, il papa rappresenta Dio e dunque il suo pensiero non è discutibile e fa giurisprudenza. E' molto più di una modifica: è un completo ribaltamento, sul piano teorico, delle idee del Concilio Vaticano 11. La seconda cosa che colpisce nel discorso di Ratzinger è il fatto che il papa pone sul piano etico la disciplina delle relazioni tra uomini, e la regolamentazione dei costumi e dei dritti e delle libertà sessuali (infatti, l'argomento del quale si sta discutendo sono le Unioni gay, che il papa, in precedenza, aveva definito "amore debole"). Ora io chiedo: cosa c'entra tutto questo con l'etica? Credo che c'entri pochissimo e niente. Sicuramente c'entra con l'etica, ad esempio, la questione dell'aborto o dell'eutanasia. La chiesa, in quei campi, affermai suoi principi etici, i valori in cui crede, e a questi si contrappongono altri principi etici e valori (laici e non cristiani), e nessuno può dire quali siano quelli giusti. Ma nel caso dei rapporti tra gay non entrano in campo principi, o valori il dissenso riguarda una semplice questione di comportamento. Il principio etico è L’amore" e la reciprocità dell'amore: questo riguarda l'etica. Ma come questo amore si realizza non ha più nulla a che fare coi valori: è un problema relativo ai desideri, ai comportamenti e alle regole. Naturalmente nessuno vuole giudicare la Chiesa o impedirle di immiserire il proprio insegnamento, parlando sempre meno di valori - l'amore, la solidarietà, la pace, la carità, l'uguaglianza degli uomini, la tolleranza, il diritto alla vita, la lotta alla prepotenza, eccetera - e concentrando la propria attività in una propaganda dei propri modelli di comportamento. E' una sua scelta legittimissima. Però è giusto dire come stanno le cose, e di conseguenza contestare il valore morale ed etico di questa attività. Se mettiamo insieme l'idea di Stato etico che sorregge le parole del papa, e questa enfatizzazione della attività di propaganda dei "comportamenti", otteniamo un risultato molto preoccupante: è nettissima la sensazione che il Vaticano si stia avvicinando a posizioni di vero e proprio fondamentalismo cristiano.

Corriere della Sera 19.5.06
RIVALITÀ
Si apre oggi a Roma una grande mostra dedicata al maestro di Urbino
Raffaello contro Michelangelo, la sfida dei corpi

di Arturo Carlo Quintavalle


Non basta, per capire la mostra di Raffaello alla Borghese, considerare la serie importante di dipinti e dei disegni. Si deve andare alla Stanza della Segnatura in Vaticano e riflettere su quel dialogo tra Raffaello e Michelangelo che ha cambiato la storia del nostro pensare l’arte in Occidente, da allora, per almeno quattro secoli. Raffaello, quando arriva a Roma subito dopo avere dipinto per il San Francesco a Perugia la Deposizione per Atalanta Baglioni, oggi conservata alla Galleria Borghese, ha ormai elaborato un insieme di modelli che lo rendono diverso dai grandi attori sulla scena della pittura fiorentina, Leonardo e Michelangelo. Se, dunque, la complessa composizione del trasporto di Cristo alla tomba nasce anche dalla conoscenza delle ricerche dei due protagonisti della scena fiorentina, essa segna anche, rispetto ad essi, un’enorme distanza. Raffaello a Firenze riflette sull’Adorazione dei Magi di Leonardo, dunque conosce la dimensione cosmica del racconto che Leonardo propone, la continuità fra le varie forme del naturale che rappresenta il credo neoplatonico dell’artista; Raffaello ritrova anche, nella grande tavola incompiuta, i diapason delle espressioni e la messa in scena di un antico teatro. Eppure a Raffaello questo modo di rappresentare il cosmo, come nella Battaglia di Anghiari per Palazzo Vecchio, non basta.
Nel caso di Michelangelo il discorso è diverso; mentre Leonardo sovrappone tenui strati di colore creando una pittura morbidamente sfumata e quindi in perenne trasformazione come la materia nel cosmo, Michelangelo usa grafie diverse scavando il marmo, «gradinandolo», «polendolo» e scegliendo, fin dal Bacco e dopo, una strada diversa, quella del dialogo con l’antico che resterà un tema chiave anche per Raffaello. Mentre Leonardo muove dalla Teologia Platonica di Marsilio Ficino, Michelangelo sceglie una luce immobile, zenitale, assoluta, che è evidente nel Tondo Doni ma che doveva esserlo anche nella grande battaglia progettata da lui per Palazzo Vecchio, quella di Cascina, dove lo spazio è una roccia scoscesa, tamburo di una cupola, con tante figure intente a bagnarsi e sorprese dai nemici. L’idea di Michelangelo di una immagine assoluta, fuori dal tempo storico, non viene accolta da Raffaello che proprio nel dipinto della Borghese mostra di avere altri modelli.
Dopo la lunga riflessione sulla composizione piramidale leonardesca delle varie Madonne con Bambino e San Giovannino , le Sacre Famiglie degli anni subito precedenti il dipinto della Borghese, la riflessione del pittore si trasforma attraverso un nuovo dialogo con l’antico. Nel 1506, a Roma, viene ritrovato il Laocoonte, ritenuto un originale greco, che subito viene posto al centro del dibattito sull’arte e il suo rapporto con il teatro, secondo il modello della Poetica di Aristotele.
Raffaello muove da questa scultura, come del resto Michelangelo, ma nel dipinto Borghese sceglie la drammatizzazione delle espressioni, sceglie il racconto e lo collega al tessuto della storia. Michelangelo, invece, individua nei soli corpi, nei gesti, nello spazio costruito da essi, nel colore «affocato» e netto, il senso della pittura come assoluto. Le strade quindi si dividono: Michelangelo nel 1508 inizia la volta della Sistina e Raffaello la Stanza della Segnatura. E qui, nella invenzione dello spettatore collocato al centro della grande architettura bramantesca del San Pietro allora in costruzione, qui nell’organizzazione di un grandioso sistema simbolico, si fa esplicita la funzione della filosofia e Raffaello mostra di avere trovata una nuova strada. Certo, vede in corso d’opera la volta michelangiolesca della Sistina e cita alcune delle sue forme nella Stanza della Segnatura e ancora dopo, ma la vera sua invenzione è quella delle Vite Parallele .
Come Plutarco esaltava i romani al confronto dei greci così lui, Raffaello, esalta i contemporanei nei corpi degli antichi. Vite Parallele , dunque, e quindi spazio per la storia, per il tempo. Il vuoto dei paesaggi di Michelangelo, le trasformazioni del naturale di Leonardo sono ormai lontani. Raffaello è il pittore della storia: così nel Trasporto alla tomba della Borghese riprende l’invenzione ellenistica e poi mantegnesca del trasporto del corpo di Meleagro. Come a dire che gli antichi, grazie a lui, a Raffaello, sono «figura» dei moderni.

giovedì 18 maggio 2006

Liberazione 18.5.06
Unioni di fatto, i vescovi contro Bertinotti
Il Presidente della Camera a Porta a Porta aveva criticato la chiusura del Papa sui Pacs,ieri la nota dell’agenzia Cei
di Stefano Bocconetti


Napolitano? Sufficiente, e anche qualcosina di più. Bertinotti no, invece. Va rimandato a settembre. E per valutarlo la Cei, la Conferenza Episcopale, usa uno strano parametro: la sinistra, il suo ancoraggio ai valori della sinistra. E in questa materia lo boccia. Si parte dal grottesco, insomma, per raccontare un’inedita ingerenza delle alte sfere del Vaticano nella vita pubblica italiana.
No, non nella sfera della politica che c’è sempre stata e che anzi molti dicono ci sia stata anche l’altra sera, quando s’è trattato di stringere sulla formazione del governo. In questo caso, però, l’ingerenza avviene direttamente nella sfera istituzionale. Vaticano - anche se, va detto, non ha parlato in prima persona ma attraverso la sua agenzia di stampa la Sir, un po’ come faceva la Russia con la Tass -, Vaticano comunque contro la Presidenza della Camera. Contro la terza carica istituzionale del paese. Su cosa? Occorre fare un piccolo passo indietro, all’altra sera. Quando Fausto Bertinotti è tornato, la prima volta dopo la sua elezione allo scranno più alto di Montecitorio, alla trasmissione di Bruno Vespa. Tanti giornalisti, tanti ospiti, tante domande. Una, naturalmente, sui Pacs, con la quale probabilmente l’interlocutore pensava di mettere in difficoltà Bertinotti. Che però non ha avuto difficoltà a ricordare quello che ha sempre sostenuto. Ricordando che comunque «onestamente, i Pacs non ci sono nel programma dell’Unione ». Dove si è arrivati ad un compromesso: che non prende in considerazione i diritti delle coppie di fatti ma i singoli che quelle coppie formano. «E mi dispiace - ha aggiunto - per questo che considero un arretramento».
E’a questo punto che uno degli ospiti del salotto di Vespa, gli fa notare che Papa Ratzinger, appena cinque giorni fa, aveva chiesto, richiesto, di privilegiare il matrimonio fra uomo e donna, invitando il legislatore a «non fare confusione con forme di unione più deboli ».
Il Presidente della Camera, tranquillo ha contro replicato: «Non sono d’accordo ». Perché quella del Papa è sembrata una pura reazione di conservazione. Forse perché Benedetto XVI non si accorge, dirà ancora Bertinotti, che «le unioni di fatto sono un arricchimento di quei valori che il Papa teme che la modernizzazione possa distruggere. Dovrebbe essere invece attento a questi valori».
Il tutto dentro parole di profondo rispetto per l’autorità che esprime il capo della Chiesa: «Se il Papa ripete un argomento, io cerco di capire. E io credo che il Papa sia spaventato per quel processo che lui chiama modernizzazione - e io, invece, globalizzazione - perché teme possa aggredire le radici di questa società».
Ma anche così, il giudizio non cambia: «Ed io continuo ad essere convinto che i valori delle unioni civili sono un arricchimento proprio di quei valori che il Pontefice vuole difendere».
Fin qui, Bertinotti. Poi, ieri mattina – preceduta dalle grida delle destre, anche se non dai loro leader ma da improbabili responsabili del settore famiglia An o da altrettanto improbabili responsabili dei «rapporti col mondo cattolico» di Forza Italia -, ecco che arriva la nota della Sir. Il Servizio d'informazione religiosa promossa dalla Cei, la voce dei Vescovi, insomma. Che esordisce mettendo i voti alle istituzioni, agli uomini delle istituzioni. Benino, Giorgio Napolitano, si diceva. Pacato, sereno, disponibile al confronto. E che oltretutto – passaggio che non è sfuggito alla Cei – s’è rivelato pronto a richiamarsi, nel suo discorso d’insediamento, ai valori della famiglia.
Anzi, pronto a richiamarsi ad un familismo che è a molti è suonato stonato in un personaggio dalla storia di Giorgio Napolitano.
Ma forse l’elogio del neo Presidente della Repubblica è servito alla Cei solo per condannare Bertinotti. Colpisce, dice l’agenzia, che il Presidente della Camera «finisca con l'oscurare proprio la famiglia, che in Italia, come ha sottolineato con forza lo stesso Napolitano, è una delle istituzioni più care, anche al popolo di sinistra». E proprio questo sarà il refrain di tutta la nota - un po’ commento, un po’ pagella - suggerita dalla conferenza episcopale. La sinistra, insomma, diventa il metro per valutare le parole di Bertinotti. «Colpisce che un esponente di punta della sinistra, approdato a un alto incarico istituzionale, non usi la tribuna televisiva per dire qualcosa di sinistra, come forse si attendono i suoi elettori». Invece, secondo la Sir, Bertinotti l’avrebbe utilizzata per attaccare la famiglia, considerata «troppo antiquata: Bertinotti vuole modernizzarla ed introdurre altre forme di unione». Anche la sinistra insomma si sarebbe piegata all’ideologia della «modernizzazione », rinnegando se stessa. Ovviamente, Bertinotti non ha ribattuto nulla. Come probabilmente avrebbe fatto anche se fosse stato ancora segretario di Rifondazione comunista. Anche perché, probabilmente, il tema del contendere non è ciò che pensa il presidente della Camera sulle unioni civili. Cosa nota e conosciuta. Cosa nota in un leader che non ha mia negato di essere «un uomo di parte». Un uomo di parte che ora però «vuole garantire tutti nel suo nuovo incarico». L’obiettivo probabilmente è un altro. Lo si ricava mettendo insieme una semplice sequenza di fatti. Benedetto XIV ripete la solita, stantìa lezione sul primato della famiglia eterosessuale, poi si elegge la Presidenza del Senato e dopo quella della Repubblica. E comincia così la stretta finale nella trattativa per il governo. Dove all’improvviso spunta fuori, proprio all’ultimo, il ministero della Famiglia. Senza portafogli, senza deleghe, senza soldi. Solo simbolico. Non solo, ma dove, rischiando di far saltare tutto all’ultimo, la Margherita - e chi altri sennò? - attraverso le forti parole di Marini chiede per sé il ministero della Scuola. Destinato a Giuseppe Fioroni, l’uomo che non molti mesi fa si schierò contro il riconoscimento delle coppie di fatto. Questa la sequenza. Che racconta come nella trattativa decisiva per il governo in qualche modo le autorità vaticane sono entrate. E a gamba tesa.

Liberazione 18.5.06
Le parole di Ruini e i ruoli del Parlamento. Riaffermare la separazione tra Stato e Chiesa che non può consentire a nessuno dei due di ingerire nei fatti, nella vita e nella morale dell’altro
Nessuna crociata anticlericale, ma rispettare la Costituzione
di Claudio Grassi


Le frasi del cardinale che escono dalle sacre stanze vaticane si insinuano nella politica italiana, nella società e prescrivono la condotta che il Parlamento, i partiti e il governo devono e dovranno avere

La lingua affilata come uno stiletto, le parole pungenti come spine. Frasi del cardinale Ruini che escono dalle sacre stanze vaticane e si insinuano nella politica italiana, nella società e prescrivono la condotta che il Parlamento, i partiti e il governo devono e dovranno avere in materia di sacralità della famiglia e di esecrazione dei “pacs” e di tutto ciò che può indebolire l’istituto della famiglia, a cominciare dal concepimento per cui Ruini ritorna insistentemente all’attacco anche sull’aborto e sulla pratica omicida che ne deriverebbe.
Frasi, concetti, precetti e discipline che però vengono giù come pietre sulle pagine della Costituzione italiana, già così tanto logorata da una riforma che - se non fermata con il voto del prossimo 25 e 26 giugno - farebbe dell’Italia un paese privo di solidarietà sociale, tutto abbarbicato ai campanilismi del nostrano leghismo, faccia semiseria di paure economiche, pseudo-culturali e anche un po’ ancestrali nel ricamo delle simbologie. Paure, appunto. Tutto muove dai timori: Ruini, infatti, sostiene che “entrambi gli schieramenti politici” devono dare vita ad una dialettica rispettosa, costruendo così rapporti di comunione delle azioni parlamentari, magari cominciando proprio dalla vexata quaestio delle unioni civili. Lo spauracchio della Chiesa cattolica è l’erosione carsica della famiglia, una destrutturazione di ciò che ritiene essere il maggior collante odierno per non incorrere in quel relativismo di ratzingeriana memoria che svilisce i valori, che mette tutto su un unico piano di giudizio, che, insomma, distribuisce troppa eguaglianza tra le fedi, tra i matrimoni, tra le persone.
Il tentativo è quello di dare una sponda sociale ad una nuova rielaborazione di un fenomeno politico che si è dissolto da qui a quattordici anni: la vecchia balena bianca scudocrociata è dispersa in moltissimi rivoli, piccoli, medi e medio - grandi. C’è chi sta a destra, chi da solo, chi a sinistra e chi la scelta deve ancora farla e si mantiene in un limbo di ricordi e di nostalgie passate. Il relativismo anche in politica, dunque, non va bene: la ricerca della Chiesa di Ruini e di Ratzinger si inserisce nella spinta propulsiva alla creazione di un parallelismo sociale che sia legato al “palazzo”. Contrastare il progressismo laicista e, parimenti, addolcire le differenze tra centrodestra e centrosinistra per far scivolare al “centro” i reduci e i novizi del democristianesimo cattolico. Ecco che l’attacco ai diritti civili delle coppie sia etero che omosessuali diviene la bandiera da mettere in mano a tutti i cattolici presenti negli schieramenti, ed ecco che viene alla luce quello che l’ombra del freddo marmo vaticano vorrebbe tenere per sé, sotto un orpello di ipocrisia e di rinato conservatorismo: in nome della difesa della famiglia tradizionalmente concepita (o forse sarebbe meglio dire “tradizionalmente istituita” dal sistema capitalistico oltre due secoli fa) si condanna ciò che si ritiene “bastardo”, non puro e il Vaticano, ancora una volta, vìola il Concordato e si intromette barra a dritta e a tutta forza nelle vicende dello Stato italiano, ancor più subdolamente rispetto ai “benevoli” consigli di monsignor Ruini sulla condotta politico-morale delle forze che siedono sugli scranni di Camera e Senato. Ma per non apparire troppo demodé, e con un interessato sguardo ai sacri testi, Ruini precisa che la Chiesa condanna ogni discriminazione compiuta verso gli omosessuali. Chissà di chi parla? Ci piacerebbe poter pensare, con un pizzico di malizia, che il cardinale Ruini abbia scoperto che l’amore tra due persone dello stesso sesso non è contro Dio o contro la morale imperante. Che è affetto puro, che si trasmette da una persona ad un’altra e che questo solamente ha importanza. Solo una punitiva concezione del sesso e dei rapporti tra uomo e donna ha condotto la Chiesa a stringere sempre più il campo delle interpretazioni della sfera intima dell’essere umano, così da imporre la propria morale sulle altre senza alcuna via di uscita, privando il relativo del suo ruolo di fomentatore del dubbio e dell’alternativa allo status-quo.
Una nuova stagione politica si apre in queste settimane e può determinare un nuovo corso anche per i diritti del tutto laici e sociali che da troppo tempo aspettano di trovare una soluzione, anche per colmare una vacatio legis che permette al moralismo sacrale della Santa Sede di intrufolarsi negli affari dello Stato e deviarne il corso a beneficio del diritto canonico, non certo della Costituzione repubblicana. Una stagione politica interessante, che Ruini e Ratzinger percepiscono come la minaccia più esplicita ai loro disegni di nuovi contorni politici in una terra di mezzo tra il berlusconismo tramontante e il progressismo che può rinascere e ampliare la coscienza civile di noi tutti. Abbiamo un dovere ben preciso come comunisti, come Rifondazione Comunista: rappresentare insieme a tutte le forze della sinistra la parte che più deve spingere per l’applicazione del carattere esclusivamente laico della Repubblica, evitando crociate anticlericali e di uguale e contrapposta matrice dogmatica, ma stando bene attenti a che si ritorni allo spirito della Costituzione riaffermando quella necessaria e giusta separazione tra Stato e Chiesa che non può consentire a nessuno dei due di ingerire nei fatti, nella vita e nella morale dell’altro.

il manifesto 18.5.06
Il Sir contro Bertinotti: «Nessuna lezione al papa»
di Iaia Vantaggiato


Roma. Di certo è stata la prima volta che al Vaticano sia riuscita sgradita una puntata di «Porta a porta» ma a vescovi e stampa cattolica le parole di Fausto Bertinotti proprio non sono andate giù. Dietro i pacs e le richieste di riconoscimento delle unioni di fatto, comprese quelle omosessuali, - aveva affermato serafico il presidente della camera, martedì sera, davanti alle telecamere di Bruno Vespa - ci sono gli stessi valori che la chiesa, per prima, difende: amore, solidarietà, riconoscimento dell'altro. E aveva aggiunto: «Il papa è angosciato dalla modernizzazione della società, una modernizzazione che neanche a me piace ma la restaurazione che il pontefice propone è comunque sbagliata».
Saette illuminano le stanze vaticane mentre tuona il Sir, il servizio d'informazione religioso promosso dalla Cei, che in una nota diffusa ieri risponde indignato all'uomo «che pretende di dar lezioni al papa»: «Proprio all'indomani dell'equilibrato discorso di insediamento del presidente della Repubblica, colpisce, in un esponente di punta della sinistra approdato ad un alto incarico istituzionale, il fatto che piuttosto che usare la tribuna televisiva per 'dire qualcosa di sinistra' come forse si attendono i suoi elettori, finisca con l'oscurare proprio una delle istituzioni più care all'Italia». Questa poi: la Cei che chiede all'ex segretario di Rifondazione comunista di «dire qualcosa di sinistra».
Ma i vescovi incalzano. Così che se da un lato Bertinotti cerca di convincere Benedetto XVI, loro cercano di convincere Bertinotti. E' proprio la famiglia, sostengono - rispondendo per le rime a chi ha osato dar loro lezione di cattolicesimo - «che si occupa di quei temi (giustizia, eguaglianza, educazione, assistenza, futuro, cura dei deboli, lavoro, casa) che tradizionalmente sono nelle corde della sinistra». Insomma, anche noi abbiamo qualcosa da insegnarti.
«Non è un bell'inizio» commenta l'Avvenire che al presidente della camera «già fuori dai binari» dedica un velenoso editoriale di prima: «Si potrebbe sorridere - scrive Marina Corradi - di questa lezione del nuovo presidente della camera che quasi non ancora seduto sulla poltrona inizia a spiegare al successore di Pietro, con garbo un po' capzioso, che la sua visione del mondo è errata e gliene suggerisce nuove interpretazioni».
Ma non era stata la Chiesa - vieppiù nei mesi scorsi - a sollecitare sempre maggiore dialogo tra le due sponde del Tevere, tra la politica e la religione? In fondo al cardinal Ruini, che successore di Pietro non è, nessuno ha negato il diritto di esprimersi indisturbato su elezioni e 194, unioni civili e fecondazione assistita. Non proprio materie di sua competenza.
Sulla spinosa questione, un attimo dopo essere stata nominata ministro per la Famiglia, interviene anche Rosi Bindi, e annuncia immediatamente il carattere di apertura che intende dare al suo dicastero: «Sui pacs più che vigilare occorre riflettere tutti insieme. Ci caratterizzeremo come un governo che tutela la famiglia che, come dice la Costituzione, è l'unione tra un uomo e una donna». Anche se, aggiunge però, «possiamo anche regolare civilmente i rapporti di diritti e di dovere di altre forme di convivenza».

mercoledì 17 maggio 2006

Liberazione 17.5.06
Bertinotti: «Mi piacerebbe ricevere Marcos. Anche con il passamontagna»
La prima volta da Vespa del presidente della Camera. I giornalisti lo aspettano al varco, lui non si sottrae: il Cile, Solgenitsin, la tessera del Prc, l'idea comunista, i Pacs, l'ipocrisia sulla questione di genere. Sul subcomandante: «Se le regole lo consentono».
di Marla R. Calderoni


E’ entrato da Presidente. E' uscito da Compagno presidente. Promosso sul campo da Bruno Vespa durante il "Porta a porta" di ieri. Lui un po' si è schermito, un po' si è commosso. Lampi di storia, il Cile, «Compagno Presidente, Allende. Il più anti-mitico dei protagonisti della sinistra, ma poi ho capito il valore profondo della sua lezione politica». Compagno presidente, allora, glielo lasciamo, consacra Vespa.
Il presidente Bertinotti, la sua prima volta sulla sedia istituzionale nel famoso studio blu di via Teulada. Sorpresa. Lo aspettavano al varco, vedere prego che effetto fa essere dall'«altra parte», dopo dieci anni di opposizione, vediamo da vicino il Fenomeno, la trasmutazione. Sarà mutato? E quanto mutato? Sarà come il gatto di Alice, lui è sparito, ma è rimasto il sorriso? Vespa è più compiaciuto del solito, pregusta la primizia,
la prima volta di Bertinotti da presidente della Camera, "chez moi" naturalmente; e si vede che non gli dispiacerebbe un bel colpetto di teatro. Maria Latella. qui nella sua nuova veste di direttrice di "Anna", ci spera; e anche Renato Farina, che è vice-direttore di "Libero", ci fa un pensierino. Tentando subito di trascinare il neo-presidente della Camera nel solito tranello, ma come fa una persona come lei, che sa di storia di politica e anche di Solgenitsin, a parlare ancora di comunismo?
Sorpresa. Bertinotti, che sa di storia di politica e di Solgenitsin, gli risponde più da comunista che da presidente della Camera (ci spiace per Farina, che ci rimane male): le grandi idee, le grandi rivoluzioni possono anche portare grandi tragedie, è sempre successo nella storia umana, ma le grandi idee restano grandi idee. «Cosa è stata l'idea comunista per un operaio della Fiat, un bracciante della Puglia, un contadino della Sicilia? Provi a pensarci, non solo utopia, ma forza di riscatto. Provi a pensare alle "Lettere dei condannati a morte della Resistenza"».
Il presidente c'è, Bertinotti c'è. Le domande lo insidiano, lui non si tira indietro, la sedia istituzionale mica è un letto di Procuste. Gli chiedono della sua tessera di Rifondazione, mi risulta che ce l'ha sempre in tasca, che fa, la tiene? «Sì, che me la tengo, non vedo perché no»; e il neo-presidente della Camera si concede un po' di ironia. «Dopo tutto, che sono iscritto a Rifondazione è cosa nota...».
L'amnistia? «Un enorme problema, ci vuole un sussulto di responsabilità. Come presidente della Camera sento II dovere di porre all'ordine del giorno la questione delle carceri»
Di già che c'è, sul tema, si permette - e con un certo vigore - di rettificare la carrellata biografica che su lui abbozza Aldo Cazzullo, la famiglia proletaria, le nuotate nel Naviglio, gli anni da sindacalista, la carica di presidente dedicata agli operai, l'approdo a Rifondazione comunista di un politico «che non è mai stato comunista:». «Ma come potete dire questo, perché non devo essere considerato comunista, che cosa dovrei fare di più?». Quasi si arrabbia.
Insistono. E se da presidente della Camera le chiedessero di incontrare Marcos, incluso passamontagna calato? Bertinotti risponde garbatamente: «Da presidente, se le regole me lo permettono, incontrerei Marcos, incluso passamontagna calato». Per conoscenza di Vespa (e un po' anche di Farina), garbatamente il presidente precisa: «Perché quel passamontagna non è un nascondimento, è un segno simbolico della comunità, del popolo che rappresenta».
Insidiano. «E metta che lei domani diventi premier e Rifondazione prenda il potere, lei che fa?». «Faccio un governo più di sinistra di questo che stiamo per formare».
No, Bertinotti non è sulla sedia che scotta. Insidiano. Sui Pacs, quelle sette righe del Programma tirate di qua e di là, cercano di farlo scivolare nella zizzania. Ma Bertinotti presidente risponde senza nascondersi dietro il famoso dito. Dice le parole "proibite" trans, lesbiche, omosessuali, «i Pacs sono un fatto di civiltà e di arricchimento umano e culturale, su cui sono totalmente d'accordo. Purtroppo, abbiamo dovuto subire una mediazione. Lo ammetto e me ne dispaccio: abbiamo dovuto accettare un arretramento sul piano giuridico, accontentarci dei diritti delle persone».
Così le dà ragione quando, sull'argomento cruciale della questione femminile, Maria Latella rimprovera l'ipocrisia imperante anche nella attuale classe politica: «Vero, ce n'è molta, anche nei nostri ranghi di sinistra».
Insidiano. La vignetta di "Liberazione"? «Ho già detto quello che penso, anche la satira deve essere rispettosa delle cultura e della religione altrui». L'amnistia? «Un enorme problema, ci vuole un sussulto di responsabilità. Come presidente della Camera sento il dovere di porre all'ordine del giorno la questione delle carceri».
Durissimo il suo giudizio sullo scandalo del calcio - «se il cancro è entrato anche nello sport, allora è vero, c'è proprio del marcio in Danimarca» -; e fa la proposta del giorno: «Cominciamo con l'abolire quelle tribune d'onore simbolo dei potenti che hanno corrotto il pallone»(oppure lasciamole, dice Giuseppe Vacca, «trasformiamole in tribune del disonore»). Compagno presidente, suona bene.

unimagazine.it 17.5.06
I Mestieri del cinema: incontro con Marco Bellocchio


Dopo l’uscita, nelle sale di tutta Italia, del film “Il regista di matrimoni”, si è tenuto, a Catania, presso l’Auditorium della Facoltà di Lettere e Filosofia, un incontro con il regista Marco Bellocchio. Il tema è stato: “Psiche,impegno,immagine”. Regista di film come “Buongiorno notte”e “l’Ora di religione”, Bellocchio possiede la virtù di non riproporre mai la stessa tipologia cinematografica. La sua è una voglia di ricerca continua, di mettersi sempre in gioco ed è per questo che riesce a sorprendere. Nei suoi film, però, ricorre sempre l’impegno per la politica ed il concetto dell’immagine.

“Quando penso ad un film non penso mai al contenuto, al concetto -dice Bellocchio -. Il film nasce da un’immagine che è, sempre, qualcosa a cui do un significato. Nei miei.film è sempre presente il connubio bellezza e significato dell’immagine. Il mio ultimo lavoro “Il regista di matrimoni” nasce, proprio, dall’immagine avuta mentre passeggiavo sulla spiaggia di Scilla dove ho incontrato due giovani sposi che seguivano,come automi, gli ordini del fotografo”.

Perché il tema della psiche? “Se si cerca di rappresentare gli uomini e i loro rapporti, devi interpretarli più che fotografarli -risponde Marco Bellocchio-. L’interpretazione è, proprio, il lavoro corretto dello psichiatra effettuato sul paziente”. “ Il protagonista del film “Il Regista di matrimoni”, interpretato da Sergio Castellitto, entra in un vicolo cieco -continua il regista-. Non ha più nessuna prospettiva artistica, abbandona la produzione, fugge da Roma, da una dimensione di cui non è cosciente e si ritrova nella spiaggia di Cefalù. Proprio lì capisce che deve riconquistare il senso della vita. La qualità della vita diventa fondamentale, è necessario arricchire la propria identità, il resto viene successivamente”.

Ha partecipato all’incontro, anche, la protagonista femminile del film, Donatella Finocchiaro. “Avevo scritto del personaggio della principessa -racconta il regista- seguendo la tradizione di una giovanissima(alla Angelica del Gattopardo), vedendo lei ho capito che, in realtà, avevo scritto un ruolo non per una diciottenne ma per una donna di trent’anni. Il suo volto, la sua personalità me lo hanno svelato”.

Tante, le patologie protagoniste. L’interesse di Bellocchio per la psicoanalisi è strettamente personale: è andato dallo psichiatra per curarsi! Il regista è, fermamente, convinto che, così come esiste la serenità mentale, esiste la malattia mentale. Esistono i cosiddetti “pazzi”, persone estremamente distruttive. Anche il personaggio Orazio Smamma incarna una patologia mentale. E’ afflitto da un’ossessione di riconoscimento che, in quanto artista, lo annienta ancor di più.Arriva a commettere un gesto esilarante, fingendosi morto, per ottenere il premio tanto agognato. Alla domanda sul significato della frase “In Italia comandano i morti”, Bellocchio risponde: “ devi morire per farti riconoscere dalla società. Da morto sei fermo,non puoi più dare fastidio;a questo punto ti si può riconoscere il premio”.

adnkronos 17.5.06
L'ex segretario del Prc: ''Il Pontefice sbaglia a condannare le unioni di fatto''
Vescovi contro Bertinotti: ''Oscura la famiglia''
Risposta immediata della Cei alle critiche rivolte ieri dal Presidente della Camera a Benedetto XVI: ''Non può pretendere di dare lezioni al Papa''


(Adnkronos) - Arriva subito la dura risposta della Chiesa alle parole di critica rivolte al Papa in merito ala questione delle unioni civili pronunciate ieri dal Presidente della Camera Fausto Bertinotti. Il Sir, il Servizio d'informazione religiosa promossa dalla Cei, ha infatti pubblicato oggi una nota relativa alla vicenda.

A finire sotto accusa sono le parole pronunciate da Bertinotti durante la trasmissione 'Porta a Porta'. ''Il Papa sbaglia a condannare le unioni di fatto. La sua è una presa di posizione restauratrice'' ha detto la terza carica dello Stato. ''Non vede - ha spiegato Bertinotti - che le unioni di fatto sono un arricchimento di quei valori che il Papa teme che la modernizzazione possa distruggere. Valori ai quali Benedetto XVI, invece, dovrebbe essere attento. Il Papa è preoccupato non per la famiglia ma per la modernizzazione che investe il mondo perché teme che possa aggredire le radici profonde di questa civiltà''.

L'atteggiamento dell'ex segretario di Rifondazione comunista non è piaciuto alla Cei che lo ha paragonato in negativo a quello più equilibrato e disposto al dialogo con la Chiesa del Presidente Giorgio Napolitano. ''Proprio all'indomani dell'equilibrato messaggio di insediamento del presidente della Repubblica ecco le dichiarazioni del presidente della Camera - si legge nel testo diffuso dalla Sir- Colpisce, in un esponente di punta della sinistra, approdato a un alto incarico istituzionale, il fatto che piuttosto che usare la tribuna televisiva per dire 'qualcosa di sinistra', come forse si attendono i suoi elettori, nel Parlamento e nel Paese, finisca con l'oscurare proprio la famiglia, che in Italia, come ha sottolineato con forza lo stesso Napolitano, è una delle istituzioni più care, anche al popolo di sinistra''. Quindi si afferma che è proprio la famiglia a occuparsi ''di quei temi (giustizia, eguaglianza, educazione, assistenza, futuro, cura dei deboli, lavoro, casa) che tradizionalmente da sempre sono nelle corde della sinistra''.

Poi l'affondo contro la visione di Bertinotti sulla famiglia tradizionale: ''Troppo antiquata la famiglia tradizionale - si legge nel testo - secondo Bertinotti: bisogna modernizzare ed introdurre altre forme di unione. E qui forse sta il punto: anche la sinistra più pura la sacrifica alla 'modernizzazione', alle ideologie radicali dei secoli scorsi, pretendendo di dare lezioni al Papa''.

''L'ideologia della modernizzazione - prosegue il Sir - come le altre in particolare del XX secolo è schermo fallace. Proprio guardando al futuro, alla modernità pienamente umanizzata, risalta al contrario il coerente appello di Benedetto XVI, che tantissimi non cattolici e non cristiani seguono ed apprezzano, a favore della famiglia, da tutelare e valorizzare nella sua unicita' ed identita' istituzionale''.

Infine ancora una volta l'agenzia dei vescovi mette in discussione ''i tentativi di dare un improprio e non necessario riconoscimento giuridico a forme di unione che sono radicalmente diverse dalla famiglia, oscurano il suo ruolo sociale e contribuiscono a destabilizzarla, con gravissimi costi sociali, oggi e in prospettiva futura. Un futuro da costruire non con le lenti dell'ideologia, ma con la speranza e la concretezza della vita realmente vissuta''.

Repubblica.it 17.5.06
Il presidente della Camera ieri in televisione ha dissentito
con il messaggio di Benedetto XVI. La Cei: "E' contro la sinistra"
Scontro Bertinotti-vescovi sui Pacs
Sir: "Non può dare lezioni al Papa"

ROMA - Rapida e piccata, come era prevedibile, la risposta della stampa cattolica a Fausto Bertinotti. Il presidente della Camera, durante la trasmissione televisiva Porta a Porta della quale è stato ospite ieri sera, ha parlato di Pacs e famiglia, dissentendo in particolare con il messaggio lanciato nei giorni scorsi dal Papa. Questa mattina i quotidiani cattolici hanno bacchettato Bertinotti e il Sir, agenzia dei settimanali cattolici promossa dalla Cei, ha pubblicato un duro comunicato contro le affermazioni di Bertinotti, nel quale gli rimprovera tra l'altro di voler dare lezioni al Papa e di dire cose che vanno contro le stesse opinioni della sinistra.

Alla Sir non è piaciuta in particolare la frase "il Papa non vede che la domanda di riconoscimento delle coppie di fatto è in difesa di quei valori che vede aggrediti dalla modernizzazione. Non vede che è un parlare di quei valori che lui difende". Bertinotti, durante 'Porta a Porta', ha inoltre affermato: "Il Papa è preoccupato della secolarizzazione che investe il mondo, è angosciato da un mondo in cui la modernizzazione gli fa paura perché mette in discussione certi valori. Questa modernizzazione a me non piace, ma la restaurazione del Papa è sbagliata".

Ed ecco la nota del Sir: "Proprio all'indomani dell'equilibrato messaggio di insediamento del presidente della Repubblica, - scrive l'agenzia - ecco le dichiarazioni del presidente della Camera. Colpisce, in un esponente di punta della sinistra, approdato ad un alto incarico istituzionale, il fatto che piuttosto che usare la tribuna televisiva per dire 'qualcosa di sinistra', come forse si attendono i suoi elettori, nel Parlamento e nel Paese, finisca con l'oscurare proprio la famiglia, che in Italia come ha sottolineato con forza lo stesso Napolitano - è una delle istituzioni più care, anche al popolo di sinistra".

E' la famiglia, rimarca il Sir, "che si occupa infatti di quei temi (giustizia, eguaglianza, educazione, assistenza, futuro, cura dei deboli, lavoro, casa) che tradizionalmente da sempre sono nelle corde della sinistra". "Troppo antiquata la famiglia tradizionale, secondo Bertinotti: bisogna modernizzare ed introdurre altre forme di unione. E qui forse sta il punto: anche la sinistra più pura - sottolinea il Sir - la sacrifica alla modernizzazione, alle ideologie radicali dei secoli scorsi, pretendendo di dare lezioni al Papa".

"L'ideologia della modernizzazione, come le altre in particolare del XX secolo è schermo fallace. Proprio guardando al futuro, alla modernità pienamente umanizzata, risalta - si legge nella nota - al contrario il coerente appello di Benedetto XVI, che tantissimi non cattolici e non cristiani seguono ed apprezzano, a favore della famiglia, da tutelare e valorizzare nella sua unicità ed identità istituzionale".

"I tentativi di dare un improprio e non necessario riconoscimento giuridico a forme di unione che sono radicalmente diverse dalla famiglia, - conclude l'agenzia - oscurano il suo ruolo sociale e contribuiscono a destabilizzarla, con gravissimi costi sociali, oggi e in prospettiva futura. Un futuro da costruire non con le lenti dell'ideologia, ma con la speranza e la concretezza della vita realmente vissuta".

Corriere della Sera 17.5.06
editoriale
La scelta dei nomi può sbilanciare l’esecutivo
PIU’ SINISTRA CHE CENTRO
di PIERO OSTELLINO


Nasce un governo sbilanciato a sinistra, persino rispetto alle aspettative di gran parte dei suoi stessi elettori e al naturale orientamento della coalizione, per non parlare delle previsioni dell'opposizione e delle preoccupazioni di chi non lo ha votato. Che il centrosinistra vincitore delle elezioni si muova lungo direttrici «di sinistra» e che il governo rifletta, nella personalità dei suoi ministri, tali direttrici è legittimo. In parole povere, che un governo di sinistra faccia una politica di sinistra è anche del tutto ovvio. Ma se la scelta degli uomini ne accentua lo spostamento, rischiando di sbilanciarne anche le politiche, allora, sorge il sospetto che ci sia qualche ragione in più che la spiega e che del tutto ovvia essa poi non sia. Gli osservatori delle cose dei Palazzi romani ne elencano tre. La prima ragione è che la sinistra radicale e tradizionalista è uscita meglio dalle urne di quella moderata e riformista e ora fa valere le sue ragioni. I numeri lo attestano, ma sono soprattutto le conseguenze politiche che sembrano farsi sentire. Ha vinto il centrosinistra ma, forse, al suo interno, ha perso la componente moderata e riformista. Se la diagnosi si rivelasse corretta, non sarebbe un buon viatico per il Paese. La seconda ragione è che, nella distribuzione degli incarichi ministeriali, è prevalsa l'esigenza di «ricompensare», con un numero forse eccessivo di ministeri, i Democratici di sinistra, usciti perdenti, come partito, dall'elezione dei due presidenti delle Camere. Fra i ministri ds, quelli tradizionalisti prevalgono, a quanto sembra di capire, su quelli modernizzatori. Se ciò si riflettesse nei loro comportamenti, non sarebbe anch’esso una buona cosa per il Paese. Infine, la terza ragione è che la necessità di accontentare tutti i partiti della coalizione ha finito col precludere la possibilità di scegliere personalità esterne di area moderata. Il solo ministero che registra una salutare continuità col 1996 - quando a presiederlo era andato Carlo Azeglio Ciampi - è quello dell'Economia, assegnato a Tommaso Padoa-Schioppa (al quale, peraltro, è affiancato, alle Finanze, un tradizionalista come Vincenzo Visco). E questo pare il solo buon viatico per il Paese.
Accanto alle ragioni elencate dagli osservatori delle cose dei Palazzi romani, a me pare ce ne siano almeno altre due che sarebbe sbagliato trascurare, non fosse altro come monito per il futuro. L'una di natura strutturale; l'altra di natura congiunturale. La prima ragione, di natura strutturale, è la forte polarizzazione del sistema politico - prodotta dalla mancata reciproca legittimazione dei due poli - e la conseguente e congiunturale radicalizzazione del confronto elettorale. La seconda ragione, appunto di natura congiunturale e conseguente alla prima, è che il centrosinistra, malgrado le 281 pagine del suo «programmone», non ha detto quale fosse la sua «idea dell’Italia», ma ha fissato come unica priorità a-politica della propria campagna quella di «liberarsi di Berlusconi». A tutti i costi.
L'esito delle elezioni - Berlusconi, pur sconfitto, è ancora al centro del confronto politico, la campagna elettorale continua sotto altra forma e minaccia di durare cinque anni - ha fatto lievitare i costi per la componente moderata e riformista della coalizione. A incassare è, così, solo quella radicale (tranne i radicali veri che sono usciti puniti) e tradizionalista. Speriamo che, a pagarli, non sia anche il Paese.

martedì 16 maggio 2006

Liberazione sabato 13.5.06
Venti anni fa veniva approvata dal parlamento la legge che portava il nome dello psichiatra veneziano
Il nuovo governo “ricominci” da Basaglia
di Luigi Attenasio*


Oggi Psichiatria Democratica e l’associazione dell’ex lavanderia del S. Maria della Pietà organizzano un incontro dibattito sulla attualità del pensiero di Franco Basaglia e sulla necessità di ricordare, difendere, rilanciare la legge che a lui si rifà. Il giorno scelto è significativo: l’anniversario, il ventottesimo, della approvazione in Parlamento della stessa. Nessun intento celebrativo, nemmeno ora che l’Italia dei furbetti ha lasciato il posto a quella della speranza che ci sia di nuovo una Politica (il maiuscolo è voluto) che dia corso a cambiamenti legislativi, sociali e culturali. Non abbassare la guardia dunque e, come sempre, ripartire da Basaglia. Non dobbiamo dimenticarci infatti che grazie alla scelta di inserire l’abolizione della 180 nel programma elettorale berlusconiano il fu ministro della salute Storace si alleò con la parte più conservatrice del mondo dell’associazionismo dei familiari e con qualche professionista, oppositore allergico alla 180, come il criminologo Francesco Bruno, validando di fatto le conclusioni della indagine conoscitiva della Commissione Sanità del Senato presieduta dalla leghista Boldi: strutture residenziali protette di medie dimensioni (40,50,80 letti…o più?) per la lungodegenza dei malati cronici (leggasi nuovi manicomi), trattamenti sanitari obbligatori, di fatto limitazioni della libertà di una persona, snelliti nelle procedure (fermo di polizia?) e per questo anticostituzionali, predisposizione di registri e linee guida per come legare al letto la gente solo perché sofferente e come risposta ai problemi della formazione degli operatori, il ripristino delle cattedre di criminologia e psicopatologia forense!!!

Anche questo era un segnale di quanto spregiudicata (ricordiamoci tutta la vicenda sulle tasse che la sinistra appena arrivata al potere avrebbe fatto pagare in maniera indiscriminata a poveri e ricchi) fosse la destra per il suo ammiccare e strumentalizzare i sentimenti e le spinte emotive più oscurantiste dei familiari dei malati facendo leva sulla loro ansia e paura del “che succederà dopo di noi? ”. Parola d’ordine di Storace: annullare la 180 per dare sicurezza alle famiglie!!!. Tale relazione tra l’altro votata solo dai rappresentanti della destra in modo monco e frettoloso, e dunque irregolare, l’ultimo giorno prima dello scioglimento delle Camere, è una eredità su cui non vorremmo pagare (mi si passi la metafora) tasse di successione. Sarebbe quanto mai rasserenante e chiaro segnale di aver ormai trasformato una risicata vittoria numerica in una limpida vittoria politica, che il nuovo governo, riprendendo quanto scritto nel programma dell’Unione, cioè la 180 non si tocca, adoperasse i suoi poteri per annullare quelle risoluzioni e rilanciasse i progetti obiettivo che fissano le linee di intervento nel campo della salute mentale. Si metterebbe così finalmente un termine alla vecchia storia, ormai diventata leggenda, della 180 realizzata a macchia di leopardo e mai pienamente in tutto il paese e da ora in poi potrebbe esistere una assistenza in salute mentale degna della storia del nostro movimento antiistituzionale.

L’incontro di oggi non ha solo valenza di richiamo politico ma allarga il suo orizzonte anche ad ambiti altri, culturali in senso lato. La discussione tra i vari interlocutori verterà anche su antropologia, urbanistica, filosofia, etica… tutte aree di casa nel recinto della 180, legge di spessore democratico, civico, scientifico e umano, che allude a fenomeni e problemi di marginalità solo apparente perché è attraverso di loro che si ha una veduta dell’apparato sociale nel suo insieme, per produrre verità sul sistema di cui occupano i margini.

Il S. Maria della Pietà è stato il manicomio di Roma, cimitero dei cervelli, ultima dimora dei corpi e delle menti. Dimora nel senso di “demorari”, indugiare, indugio/mora, tra-tenere, trattenersi senza fine, ma anche con-fine, fine della vita sociale, blocco.

“Distruggere il manicomio è l’essenza della questione psichiatrica, per affrontare la sofferenza umana noi dovevamo necessariamente superare l’istituzione che la conteneva” diceva Franco Basaglia. Risultato di questa lotta è che il S. Maria, al pari degli altri in Italia, è ora ex manicomio e ha un grande valore architettonico e ambientale ma soprattutto da simbolo di esclusione è diventato simbolo di riscatto sociale. Identità resuscitate, relazioni riallacciate, storie riscritte, tramiti con il mondo riconnessi: chi lo abitava riebbe dignità anche minime del vivere, un mangiare più umano, un diverso vestire, avere del denaro. A cancelli aperti riapparve la speranza. La vita istituzionale, ridotta a nuda vita puramente animale (zoè), riaprì i suoi orizzonti alla vita nel senso civile del termine (biòs), una vita degna di essere vissuta.

Qualunque discorso sull’uso di questo luogo, dovrebbe dapprima rispettarne questa memoria, di archivio polveroso di dolore.

“Una vita senza memoria non sarebbe una vita. La nostra memoria è una cosa coerente, è la nostra ragione, i nostri sentimenti. Senza, noi non siamo niente. (Luis Bunuel).

E Roma, capitale senza manicomio, nuova città, come la fantàsia l’architetto Giovanni Michelucci, variabile, effimera e ludica, dovrebbe «fare propri alcuni aspetti intimamente connessi ai comportamenti dei “folli” per arricchirsi di una voce che pur apparendo all’inizio dissonante, darebbe un significato diverso, più profondo, a ciò che è stato definito lo spazio della ragione».

A maggior ragione dovremmo farlo tutti noi, i conti con la nostra follia, dico, quella follia che è diversità e paura della diversità, la nostra. Quella di cui abbiamo più paura, e che riconosciamo più “facilmente”, o così almeno ci sembra, negli altri. Così è più semplice neutralizzarla rinchiudendola da qualche parte. Ma ogni volta che facciamo questo, lo è in modo “perverso” e vizioso, la paura della follia/diversità aumenta, la riallontaniamo e così neghiamo un pezzo importante della nostra soggettività. Il meccanismo, anche questo Franco Basaglia ci ha insegnato, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti non essendoci più alibi istituzionali, presente invece l’occasione per una nuova socialità dove si possa convivere con qualcosa, la follia, non più catturata dal manicomio, ma riconosciuta come parte di noi, della vita, dell’esistenza collettiva. “Prima di far diventare la follia qualcosa da distruggere in quanto sofferenza, credo sia lecito e anche importante domandarci se la follia sia qualcosa d’altro, che ci riguarda tutti, che ha a che fare con la nostra esperienza di ogni giorno. Non solo qualcosa da cui nessuno si può dichiarare immune, ma anche qualcosa che ci può servire per evitare le gabbie in cui inesorabilmente ognuno di noi tende a rinchiudersi credendo di essere il più normale tra i normali” dice il filosofo Pier Aldo Rovatti. La malinconia per Leopardi è esperienza umana dolorosa e disperata ma anche sorgente di ogni poesia radicale. Follia (di cui non si sta facendo l’elogio, sia chiaro) dunque come stato d’animo, Stimmung e non solo come malattia.

Non riconoscendo questo valore alla follia si rischia di perdere quelle parti della vita che si declinano come poli e sono interpretabili solo nel loro interagire: sonno/veglia, sogno/realtà, pensiero/poesia, razionale/irrazionale, sensibilità/intelligenza, reale/fantasia… Il sogno come la follia non è solo oggetto di conoscenza ma mezzo di conoscenza ed è a pieno titolo una forma di esperienza che non si lascia ridurre all’analisi psicologica e diventa psicologia solo secondariamente all’interno di una teoria della conoscenza. Follia e ragione sono un binomio indissolubile, costitutive della persona nella sua interezza. Nello scontro con la ragione la follia rimane muta e non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire.

Tornando al destino del S. Maria della Pietà “quello che mi sembra tuttora incredibile è che non ci si renda conto della necessità di legare l’edificio alla città… l’edificio è un elemento della città e non soltanto la soddisfazione di un interesse privato” ricorda Giovanni Michelucci.

Ben 9.000 sono stati a firmare una delibera di iniziativa popolare con uno scambio di beni da destinare alla salute mentale per un uso dell’ex manicomio che non può che essere sociale, culturale, pubblico e aperto. “Questo sogno basagliano è stato perseguito negli anni da un vasto movimento associativo che ha elaborato progetti, promosso iniziative, combattuto contro i processi speculativi e contro il tentativo di rendere concrete le proposte di abbattimento della 180, anche riportando i pazienti al suo interno” afferma Massimiliano Taggi, portavoce dell’Associazione Ex Lavanderia. Si devono riprendere in mano il progetto degli Ostelli della Gioventù finanziati per il Giubileo e rendere legale l’esperienza dell’occupazione dell’ex lavanderia.

L’urbanista Enzo Scandurra qualche tempo fa ricordava su questo giornale la confusione nella quale si realizzarono le residenze pubbliche che a partire dagli anni ‘50 hanno dato vita alle grandi periferie urbane delle principali metropoli europee con pesanti ripercussioni sulle condizioni di vita nelle città e nelle periferie. Mi riferisco all’attualissimo tema della convivenza e di come lo stare insieme sia stato chiamato a correo per le rivolte urbane delle banlieue. Se la strategia degli spazi è strategia dei poteri in quale migliore luogo se non quello dove vi è stata una democratica “bonifica” degli stessi restituendo voce e dunque potere a quelli che ne erano esclusi per definizione, gli internati, i matti, si può discutere dei progetti di convivenza impensabili e irrealizzabili se si separano “l’aspetto quantitativo ed estetico da quello del vivente umano”?. In fondo il manicomio, esso stesso periferia della normalità, è stato la tragica caricatura di quanto si verificava nella città dove normalità era centro e luogo pubblico privilegiato con tutte le caratteristiche del bello e invece nelle periferie si concentravano gli esclusi, quelli dalle vite di scarto.

In conclusione, il S. Maria da luogo periferico della ragione a quel particolare tipo di spazio, come lo definisce Massimo Canevacci, “appassionato, spazio sconfinato, cioè che sconfina, che attraversa ogni confine e che si dichiara contro i confini in quanto tali, uno spazio scorniciato, che fuoriesce dalle cornici e si discolloca disordinatamente lungo ogni lato delle pareti. O fuori di esse. Contro le ristrettezze mediche, le patologie architettoniche, le fobie antropologiche…».

*Presidente di Psichiatria Democratica Lazio
Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL C di Roma
e candidato per il Prc alle prossime amministrative di Roma

Corriere della Sera Roma 14 maggio 2006
Calatrava e i mille segni architettonici di Roma
L'intervista di Giuseppe Pullara


Santiago Calatrava e Roma. Il giudizio di un architetto tra i più importanti della scena mondiale: «È la straordinaria testimonianza dello scorrere del tempo, con i segni architettonici del passato di varie epoche e quelli del presente. Un continuo contrasto tra sacro e profano». Calatrava: «Si può costruire anche nella Roma millenaria» L'architetto spagnolo: una straordinaria convivenza di segni. Parla correntemente italiano (oltre che tedesco, inglese, francese e, naturalmente, spagnolo) perchè trent'anni fa conobbe all'università una ragazza veneta, Robertina, che poi gli ha dato quattro figli. Fa citazioni in greco e latino, parla di amore per gli esseri umani, di rispetto per la natura. Santiago Calatrava è architetto ma anche ingegnere, pittore e scultore e a 54 anni è uno dei progettisti più conosciuti al mondo. Ha realizzato 40 ponti e otto stazioni ferroviarie oltre che edifici di ogni genere. E' una archistar che non veste di nero, come tanti suoi colleghi. Anzi, a vederlo, si direbbe un bel caballero spagnolo elegante, sorridente e gioviale. Unico particolare trendy, un braccialettino di cotone, di quelli brasiliani, al polso destro. Conosce molto bene Roma, che visita spesso e dove ha passato l'ultimo Capodanno con la famiglia. Giorni fa, in una lectio magistralis nell'aula magna di Valle Giulia, ha strappato applausi a scena aperta quando ha disegnato - con riproduzione sullo schermo - quei corpi umani che spesso gli danno ispirazione per i suoi progetti. E una colonna vertebrale diventa magicamente un grattacielo, a Malmo in Svezia, ritorto su se stesso. Entro l' anno sarà finalmente inaugurato il suo ponte sul Canal Grande e altri ponti sono in cantiere a Reggio Emilia e a Cosenza. Cosa la colpisce dell' architettura romana ? «Quando visito Venezia resto impressionato dalla sua grande intensità ottica, a Roma invece sono colpito dai colori dei palazzi, delle case nel centro storico. Ma c' è un' altra cosa che la rende unica....». Dica, architetto. «È la straordinaria testimonianza dello scorrere del tempo, con i segni architettonici del passato di varie epoche e quelli del presente. Ci sono dei percorsi urbani di grande eleganza. E nella vita quotidiana c' è un continuo contrasto tra sacro e profano, così come sul piano umano c'è una tradizione di grande universale accoglienza». Si può costruire oggi nel contesto storico? «Qui come altrove si è sempre costruito sulle spoglie del passato. Nel Teatro di Marcello in tempi medievali hanno edificato case abitate fino ad oggi. Gli stili si affiancano continuamente, sul Campidoglio ce ne sono tanti tutti insieme: classico, romanico, rinascimentale, anticipazioni di barocco. Sì, si può costruire con linguaggio contemporaneo, ma facendo molta attenzione all' uso dei materiali e alla qualità. Borromini fece cose "rivoluzionarie": Sant'Ivo è un delirio di rigore, di inventiva, ma i materiali usati erano coerenti. Roma può avere la legittima ambizione di rinnovarsi. E il XXI secolo dovrà pure lasciare tracce architettoniche anche nella parte più antica della città». Pensa che il suo linguaggio di architetto, così particolare, possa innestarsi nel centro di Roma? «Pier Luigi Nervi ha costruito in cemento la sua Sala sotto la cupola di Michelangelo. Un'opera perfettamente integrata nel contesto. Sì, penso che anch' io potrei provarci». Un giudizio sull'Ara Pacis di Meier. «Non conosco il progetto se non in foto. Non posso dire nulla». Proprio nulla? «Ogni epoca ha il suo linguaggio stilistico. Di trasgressioni architettoniche se ne vedono ovunque. Bisogna guardare all' architettura con grande generosità perchè la sua storia è piena di grandi contrasti risolti poi dal tempo. Ma devo aggiungere che non è con un confronto tra stili diversi che si può giudicare la validità di un'opera». Un politico di destra ha promesso: se divento sindaco faccio spostare l' edificio di Meier in periferia. Che ne dice? «Deve essere senz'altro una provocazione di carattere elettorale, nulla di serio». A vedere il suo progetto per Tor Vergata vengono in mente gli spazi di Villa Adriana a Tivoli. Accetta l'accostamento? «Sì, entrambe presentano qualcosa di archetipico: grandi spazi in cui si succedono tante cose. C'è tanto verde, non ci si sente oppressi. La natura viene restaurata artificialmente, ma resta protagonista del progetto». Che cosa pensa del Pantheon? «Tra tutte le cupole del mondo, ha quella in cui si coglie di più il senso del cosmico, con la sua apertura che si apre sul cielo. Il resto è perfetto». Ha un architetto preferito? Passato, presente: faccia lei. «Sono molto incuriosito da tanti autori, sono disponibile ai vari linguaggi. Meier, ad esempio, ha fatto case stupende. Ma amo anche Gehry, Carlo Scarpa, Nervi. Renzo Piano mi piace anche come persona, è il vostro architetto più internazionale». Secondo alcuni Calatrava è oggi il numero Uno. «No, no. Ho solo 24 anni di esperienza, non sono ancora nella mia maturità artistica. Devo imparare ancora tante cose». Quale è la responsabilità dell'architetto? «La nostra vita è immersa nell'architettura, dalle case ai monumenti, alle chiese, agli edifici pubblici. Le nostre emozioni vivono nell'architettura. L' architetto deve quindi rispettare l' uomo, amarlo. Come? Mettendo tutto se stesso, tutto il suo sapere, le sue qualità nell' opera che costruisce». Come ha trovato il suo linguaggio espressivo? «Dalla pittura, dalla scultura, dall'ingegneria, dal continuo progettare. Da un esercizio tendente ad esprimere il profondo me stesso». Si sente più un intellettuale o un artista? «L'architettura è artificio, un impegno del pensiero la cui radice sta nell'arte». Quale delle sue opere è più riuscita? «In ogni lavoro impegno tutto me stesso, anche in quelle minori». Ha mai pensato a progetti irrealizzabili? «Credo molto nell'utopia come leva per la creatività. La vita, diceva Calderòn, è sogno. Ma per me la realtà è più bella della finzione. È forse per questo che curo il progetto fin nei dettagli della sua esecutività». Lei ha brevettato certi suoi progetti. Perchè? «È stato uno snobismo della mia gioventù: volevo sottolineare che era la prima volta che si faceva in un certo modo. Ma il brevetto non era legato al guadagno». Architetto, quando una città cerca un risanamento delle sue parti più degradate, deve puntare su grandi interventi di architettura o su un piano urbanistico? «Deve usare l' architettura per creare edifici generatori di città, per aggiungere nuovi nodi urbani. E così si passa all' urbanistica». L'uomo che immagina i ponti Santiago Calatrava è nato a Valencia il 28 luglio 1951. Architetto e ingegnere, Calatrava è anche scultore e pittore. È un progettista spagnolo dal segno inconfondibile: strutture in acciaio e cemento flessuose, raffinate, leggere, che spesso evocano - pur essendo stazioni ferroviarie - forme di animali immaginari per la loro dualità simmetrica, proprio come gli esseri viventi. Calatrava ha fatto molti edifici - sta per costruire l' edificio più alto degli Stati Uniti, 700 metri, a Chicago - ma è specialista di ponti: ne ha costruiti, tra grandi e piccoli, quaranta. A Valencia ha realizzato la Città delle Arti e delle Scienze e ora si misura con la Città dello Sport di Roma, in realtà la futura Città universitaria di Tor Vergata.

Corriere della Sera Roma lunedì 15 maggio 2006
«L'architettura? Una geometria fluida»
Ben van Berkel: «Le idee possono venire leggendo un buon romanzo»
L'Intervista. Roma è l'esempio di ciò che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo
di Stefano Bucci

«Che consiglio darei ad un giovane architetto? Prima di tutto, gli consiglierei di imparare a pensare. E poi di essere sempre curioso, di essere fantasioso, di cercare sempre nuove strade». L'olandese Ben van Berkel è una delle stelle nascenti dell' architettura: classe 1957, studi alla Rietvield Accademie di Amsterdam e all' Architectural Association di Londra, ha lavorato prima con Zaha Hadid e poi con Santiago Calatrava. Nel 1988, l' incontro decisivo con Caroline Bos con cui, dieci anni più tardi (nel dicembre 1998), fonderà l' UN Studio di Amsterdam (UN sta per United Network) a cui si deve tra l' altro la progettazione del nuovo Museo della Mercedes Benz a Stoccarda che verrà inaugurato ufficialmente proprio il prossimo 19 maggio. Nel curriculum di van Berkel (da solo o come metà dell' UN Studio) troviamo l' Het Valkhof Museum di Nijmegen, il palazzo per uffici La Defense ad Almere, il Neutron Magnetic Resonance Facilities di Utrecht, l' Aedes East Gallery di Berlino, una chiesa a Hilversum, la Moebius House di Het Gooi, il Company Centre di Nijerk, la Wilbrink House di Amersfoort (dove van Berkel ha tra l' altro realizzato gran parte dei suoi primi lavori), l' Erasmus Bridge di Rotterdam, il Piet Hein Tunnel di Amsterdam. Di lui (ancora relativamente poco conosciuto in Italia, pur avendo vinto il concorso per la realizzazione di Ponte Parodi a Genova) qualche anno fa è uscita una bella monografia curata da Laura Negrini (per Edilstampa) mentre gli stessi van Berkel e Bos hanno pubblicato «Move», un'antologia ragionata dell' attività e della filosofia dell' UN Studio. La particolarità di UN Studio è quella di essere un vero e proprio network (d'altra parte lo dice il nome stesso) che assembla al proprio interno architetti, grafic designer, costruttori, ingegneri, fotografi, stilisti, esperti di ogni nuovo media oltre ad un gran numero di «tecnici». Perché, ha più volte spiegato van Berkel, «lo spazio architettonico deve assumere oggi le caratteristiche di uno spazio fluido e quindi duttile all' apporto delle innumerevoli figure coinvolte». Attribuendo alla creazione «un valore effimero e temporale, che potrà durare un istante in quanto influenzato da nuovi campi di forza che mutano in continuazione». Per van Berkel (che legge Houellebecq e ama i gatti) «i migliori effetti che l'architettura può produrre sono la proliferazione e il movimento, effetti che anticipano e che sorprendono». L'architetto, per lui non è certo «un eroe» ma piuttosto uno sperimentatore, uno sperimentatore che (come nel suo caso) si può perfino concedere il lusso di giudizi inusuali su alcuni suoi grandi colleghi: «Di Le Corbusier amo i quadri e non le architetture; trovo Ludwig Mies van der Rohe molto noioso e ripetitivo, per me è forse l' architetto più sopravvalutato della storia». Chi e che cosa salva? «L' Opera House di Jørn Utzon». Van Berkel, la sua sembra essere un' idea di architettura molto articolata: aperta alla differenze, alla complessità delle attuali condizioni culturali, dove molto spazio viene dato alla fantasia, alla curiosità, alla sperimentazione... «Potrei dire che io credo in un'architettura interdisciplinare dove c'è spazio per ogni tipo di esperienza purché non rimanga isolata, ma appunto interagisca con le altre esperienze. La fantasia, la curiosità, la sperimentazione sono importanti ma non singolarmente così come, per l'architetto, sono importanti le sollecitazioni che gli possono arrivare dall' arte come dalla fisica, dalla geometria, dalla lettura di un buon romanzo come di un trattato di stechiometria. L'importante è che sappia collegare tra loro tutte queste esperienze». Questo vale anche per la tecnologia? «Sicuramente. L'ho detto in più occasioni: l'architettura può oggi prendere ormai qualsiasi strada, può essere un box come un blob. Nei miei progetti cerco di utilizzare al meglio gli strumenti che mi offre la tecnologia ma non mi interessa però la tecnica fine a se stessa così come posso amare un bel quadro ma non come arida espressione di talento, quanto per quello che c' è "dietro". Ad esempio, per me è fondamentale scoprire gli effetti "sociali" che la tecnologia può avere sulla vita delle persone: i miglioramenti che può produrre nella quotidianità. La tecnologia, per me deve essere insomma, "vista dal di dentro", considerata nella sua sostanza e non soltanto nei suoi effetti più superficiali». Lei parla spesso di architetture effimere, temporanee. Ma come può essere effimero un ponte o un grattacielo? «Per me, temporaneo ed effimero sono innanzitutto due aggettivi positivi. Perché definiscono un' idea dell' evoluzione che amo molto: quella che definisce ad esempio le infinite possibilità di sfruttamento di una forma o di un materiale. Per questo, un' architettura può essere effimera e temporanea, in quanto può mutare continuamente nel suo significato come nel suo uso». Il suo non sembra essere certamente uno «stile classico»... «Non credo di avere un vero e proprio stile. Piuttosto ci sono cose che mi interessano (ad esempio i libri e la lettura) e che io cerco in qualche modo di trasferire nei miei progetti. Quando viaggio io prendo sempre appunti perché non voglio perdere nessuna possibilità, nessuna influenza che mi può venire dall' esterno. Nella mia architettura si ritrova così quello che mi piace, anche se io cerco di interpretarlo in un modo non tradizionale. Ad esempio la geometria: intesa non come una disciplina classica quanto come lo strumento per creare un' atmosfera in cui le persone possano vivere adeguatamente». Quindi, nessuno spazio per le forme della classicità? «Tutt'altro. Amo Bernini e amo il Sansovino. Ma li amo perché credo che intendessero l'architettura come sperimentazione delle forme e delle opportunità che queste forme potevano dare. A chi progettava come a chi queste architetture le viveva. Credo che nel caso dei classici, come della tecnologia o dell'arte, oggi sia importante avere occhi nuovi. Per questo dico ai giovani architetti di imparare prima di tutto a pensare, di crearsi un proprio metodo. Solo quando l' avranno trovato potranno essere davvero dei bravi architetti».
I SUOI LAVORI KARBOUW OFFICE 1992 Situato ad Amersfoort, vicino ad Amsterdam, questo edificio comprende un laboratorio e uffici. Il rivestimento esterno in mattoni e alluminio disegna la costruzione con tratti netti e allungati. Tra le caratteristiche più originali, il tetto incurvato, risultato di un lavoro al computer su forme geometriche
ERASMUS BRIDGE 1990-96 È un ponte asimmetrico, sostenuto da un pilone inclinato alto 139 metri. Collega il centro della città olandese di Rotterdam con Kop van Zuid. La sua identificabilità è accentuata da una illuminazione molto suggestiva. La campata a sbalzo si allunga per 284 metri ed è la causa dell'inclinazione del pilone
MUSEO MERCEDES 2003-06 Sorge a Stoccarda, in Germania, lungo l'autostrada B10/B14 che lo divide dagli stabilimenti Mercedes di Unterturkheim. Realizzato con una «pelle» in alluminio e vetro, è alto 47 metri e accoglie 160 veicoli storici. Verrà inaugurato ufficialmente dal cancelliere Angela Merkel il 19 maggio.

il manifesto 16.5.06
Bertinotti: «Evitare manifestazioni offensive»
Tratti antisemiti Il presidente della Camera interviene nella polemica sulla vignetta pubblicata da «Liberazione» il 12 maggio. Piero Sansonetti: «Una critica garbata»
di Iaia Vantaggiato


Roma. Riuscirà mai, Fausto Bertinotti, a scrollarsi di dosso l'immagine di segretario di partito per vestire appieno i panni di neo presidente della camera? Lui, con eleganza, ci prova e a chi gli chiede di pronunciarsi in merito alla vignetta di Apicella pubblicata il 12 maggio dal quotidiano «Liberazione» - la stessa che ha scatenato le reazioni indignate della stampa israeliana e dell'ambasciatore di Israele in Italia Ehud Gol - risponde con pacata fermezza definendo una «forzatura» la sollecitazione cui è stato sottoposto ma non esitando a affermare: «Non ho alcuna difficoltà a confermare un atteggiamento già avuto in occasioni simili. Penso che, in tempi difficili come quelli che viviamo per la convivenza tra le diverse culture e religioni, siano da evitare tutte le manifestazioni, comprese quelle satiriche, che vengono vissute come offensive dalle comunità cui si riferiscono». Secondo il presidente di Montecitorio, «La reciproca accettazione di un limite imposto dall'esigenza di rispetto di storie e di fedi - in questo caso quella ebraica - che fanno parte dell'intero patrimonio dell'umanità è un bene comune che va tutelato».
Critica larvata nei confronti del quotidiano che fa riferimento al partito cui lo stesso Bertinotti è iscritto o esplicita condanna? Non ha dubbi il direttore di «Liberazione» Piero Sansonetti alla cui firma il giornale di Rifondazione comunista affida oggi - sullo «scandalo vignetta» - l'editoriale di prima oltre che una risposta all'ambasciatore Gol: «Bertinotti critica garbatamente 'Liberazione' così come, talvolta, 'Liberazione' critica garbatamente Bertinotti».
Così il direttore, le cui dimissioni sono state peraltro chieste dal portavoce della comunità ebraica milanese Yasha Reibman. Ma che ne pensano giornalisti e giornaliste di quella vignetta che all'odioso motto nazista che compare sui cancelli di Auschwitz - «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi - sostituisce la scritta «la fame rende liberi»? Gli israeliani come i nazisti, le vittime tali e quali ai carnefici? Insomma che ne pensa la redazione di quello che il deputato ds Emanuele Fiano definisce sconsolato «Il più classico topos antisemita»? Qualcuno storce il naso, altri - pur non apprezzando «l'ironia» dell'accostamento - ricordano che in altre occasioni (le vignette su Mamometto, ndr) la libertà di satira era stata difesa da tutti e a muso duro.
«La vignetta non era antisemita - chiarisce per l'ennesima volta nell'editoriale di oggi Piero Sansonetti dopo aver scritto articoli e rilasciato interviste a «Repubblica» e al «Corsera» - e in nessun modo intendeva offendere il tragico ricordo dell'olocausto. Certo di una vignetta dura e filopalestinese si trattava ma non di un attacco contro il popolo ebraico per il quale l'amico Apicellla e io nutriamo grande simpatia e grande affetto».
Non è questa l'impressione che ne ha avuto l'ambasciatore Gol - lo stesso che meno di un mese fa aveva espresso «vergogna e rabbia» per le bandiere israeliane bruciate durante la manifestazione milanese del 25 aprile - che chiede con forza che «Liberazione si scusi». «Se l'uso, in una vignetta, dei campi di sterminio hitleriani ha offeso la sua sensibilità o la memoria delle vittime della shoà - afferma ancora Sansonetti - questa mi dispiace e per questo senz'altro posso scusarmi. Mi sarebbe tuttavia piaciuto - dice rivolgendosi a Gol - che anche Lei l'avesse fatto quando, tre mesi, le chiedemmo di scusarsi con Ali Rashid, il dirigente palestinese che lei stesso aveva insolentito definendolo 'una persona senza onore' la cui candidatura sarebbe stata una vergogna per l'Italia».
Una polemica destinata a non esaurirsi sino a che - come afferma l'appello in quattro punti che verrà pubblicato oggi su 'Liberazione' - non si affermerà il diritto di Israele a esistere e a vivere in pace condannando chiunque ne metta in discussione l'esistenza e non si affermerà per lo stato palestinese il medesimo diritto a esistere. A una condizione: che il governo israeliano proceda in tempi brevissimi al ritiro.
E Apicella? «La mia era solo una critica all'Europa che di Auschwitz è stata responsabile e che oggi rischia di fare lo stesso errore con il popolo palestinese». Sarà.

lunedì 15 maggio 2006

il manifesto 14.5.06
Folena: «La sinistra è da fondare, non da rifondare»
Parla il deputato indipendente del Prc: «La Sinistra europea può essere il soggetto che manca. Non sarà un nuovo partito in quanto Rifondazione rimarrà quella che è con la propria storia. Il nuovo soggetto può funzionare solo se si mettono in relazione altre energie che stabiliscono tra loro un rapporto strutturato e durevole»
di Cosimo Rossi


«Abbiamo costruito la volta del ponte tra la sinistra riformista e quella radicale». Un anno dopo l'addio ai Ds, Pietro Folena spiega così il lavoro realizzato da Uniti a sinistra, l'associazione (riunita ieri a Roma) che raccoglie diessini e non, nonché molti sindacalisti di spicco della Cgil, e che si propone come una delle gambe della Sinistra europea.
Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, propone alla vostra platea l'atto costitutivo di un nuovo soggetto politico della sinistre entro quest'anno. Significa che Uniti a sinistra si prepara alla fusione con Rifondazione, nelle cui liste tra l'altro siete stati eletti come indipendenti?
Giordano oggi ha posto le cose in modo molto corretto. La Sinistra europea non significa un allargamento di Rifondazione, non avrebbe senso: è progetto politico per il quale il Prc si mette in gioco generosamente. Non è un nuovo partito, è un nuovo soggetto politico.
Qual è la differenza?
Diciamoci la verità, in questo momento in teoria non dovremmo rifondare alcunché, bensì fondare un nuovo soggetto che faccia della partecipazione la sua modalità radicale di pratica politica e che si ridefinisca anche sul piano identitario in base a un programma fondamentale che corrisponda al tempo presente. Che a mio avviso è un po' quello che viene riassunto nello slogan «un altro mondo è possibile» e nell'esperienza del movimento. Sono le ragioni per cui da qualche tempo ci troviamo spesso insieme: comunisti, socialisti e chi non si definisce nemmeno con queste vecchie categorie. Quindi la differenza è che Rifondazione rimarrà in vita come partito politico, con la sua storia e la sua identità, mentre la nuova soggettività nasce e funzione se ci sono altri soggetti che stabiliscono un rapporto strutturato e durevole.
Finché però non ci sarà una massa critica oltre a quella consolidata del Prc, rimarrà l'impressione di un rapporto ancellare degli altri partner...
Nella nostra assemblea è stato spesso evocato il modello tedesco. Ogni paese fa storia a sé, ma non c'è dubbio che la Vasg e Lafontaine hanno dato il senso che la Linke non era un semplice allargamento della Pds. Per parte nostra, facciamo del tema della della precarizzazione l'asse portante della nostra identità. Tiziano Rinaldini è stato molto chiaro alla nostra assemblea: non è questione di riscoprire un'antica centralità operaia, bensì il fatto che viviamo una stagione di cancellazione di ogni soggettività della gente che lavora e che non lavora. E questo si interseca con i temi ambientali: con i beni comuni, con la differenza di specie e di genere. Non la faccio lunga: Uniti a sinistra vuol essere un'assunzione di soggettività da parte del mondo precarizzato.
Pane al pane: Uniti a sinistra catalizza un pezzo significativo della Cgil, e si dice che sia la gamba politica della sinistra sindacale che non si sente adeguatamente rappresentata nei Ds ma tantomeno vuole fare il salto verso il Prc...
Evitiamo letture inutilmente maliziose. Certamente le lotte Cgil degli ultimi cinque anni hanno espresso domande enormi ancora senza risposta. Abbiamo vinto le elezioni e cacciato Berlusconi, ma non abbiamo ancora organizzato quella domanda. E ora ci si trova di fronte a un paradosso: la fondazione del partito democratico a opera di Ds e Dl sulla carta troverà Bonanni, Angeletti, Ichino e Epifani sugli stessi spalti. Questo mentre accadono cose gravi, mi riferisco al contratto dei chimici, sul piano del riconoscimento del valore universalistico del contratto di lavoro. Se perciò c'è questa impressione politica di Uniti a sinistra come un ponte, un crocevia di metalmeccanici, conoscenza e settore pubblico - per parlare di tre settori che sono scopertissimi in questa fase -, è innegabile che qui si esprimano esigenze che in anni passati non ha trovato sbocchi e che vanno riproponendosi in modo anche più dirimente.
Insomma, data l'accelerazione verso il partito democratico, vi proponente da pontieri verso la Sinistra europea per chi nei Ds si ritiene estraneo a quel processo...
Io ho fatto la mia scelta un anno fa e mi sono collocato dall'altra parte per costruire l'arcata del ponte. E' passato un po' di tempo e ormai l'arcata si è trasformata in una volta attraverso cui è il passaggio ormai è aperto.
Ma non verso Rifondazione...
Appunto. Se veramente faremo la Sinistra europea, la faremo tutti. Insieme. Poi si aprirà un altro scenario di fondazione e fusione più piena. Diventa impellente la fondazione vera di una sinistra del terzo millennio, non più di una rifondazione.

Liberazione.it 15.5.06
Intervista collettiva di Liberazione al neosegretario di Rifondazione comunista.
Un confronto intenso e senza reticenze. Liberazione ha accolto il nuovo segretario di Rifondazione, Franco Giordano, con tutta la curiosità dovuta ai passaggi dell’attualità politica e del partito per la prima volta al governo. Due ore senza rete da cui siamo usciti con diverse idee e una certezza che ci riguarda: l’autonomia del giornale è sacra e rappresenta anche nella diversità d’opinioni una risorsa perché il percorso è lungo e la strada si fa camminando e domandando, insieme. Per il resto si è discusso di governo e partito, di obbiettivi di riforme e Sinistra europea.
di Claudio Jampaglia (lunedì 15 maggio)


Piero Sansonetti: Col governo, a che punto siamo?
Dobbiamo evitare turbolenze iniziali derivanti dalla discussione sulla costruzione del partito democratico ed evitare allo stesso tempo che il governo sia identificato con esso.

Ma le elezioni e le prime cariche istituzionali non hanno rimescolato tutto?
Di sicuro ci sono più tensioni sulla natura e per l’egemonia del partito democratico: c’è chi tenta di spazzare via le ceneri dell’ex partito comunista italiano e c’è chi crede che con la forza ereditata da quella soggettività bisogna fare i conti.

E Rifondazione che primo bilancio può tracciare?
Abbiamo ottenuto un grande successo con l’elezione di Bertinotti alla presidenza della Camera e abbiamo contribuito all’elezione di un post-comunista al Quirinale, sventando pericolose sirene neocentriste. Credo abbiamo messo in moto un circuito virtuoso.

Stefano Bocconetti: Ma siete soddisfatti di un solo ministero?
La presenza nell’esecutivo è decisiva per avere voce in capitolo sul profilo intero del governo e della sua politica, è l’operazione realizzata col programma che dobbiamo presidiare e aiutare a vivere. Con Bertinotti alla Camera, come si è visto già dal discorso augurale, vorremmo provare a produrre un’unificazione culturale del paese e aiutare una nuova cultura politica. La nostra presenza nell’esecutivo, infine, sarà sui temi a noi più cari come quelli sociali e su diversi terreni d’incontro coi movimenti, come sui beni comuni e ambientali. Qui costruiamo obiettivi realizzabili e di qualità, a cominciare da una presenza maggioritaria di donne nella nostra delegazione.

Andrea Milluzzi: Coi conti pubblici in costante peggioramento, c’è il rischio di un periodo di lacrime e sangue?
Il tempo delle lacrime e del sangue per noi è tramontato definitivamente, ora si apre una fase di risarcimento dei lavoratori e della società intera. E’ quanto scritto a chiare lettere sul programma. Il risanamento finanziario non avverrà in due tempi e la politica redistributiva si realizzerà col risanamento, la lotta all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva, con la lotta alla rendita finanziaria e alla grande rendita patrimoniale. Dovremmo trovare forme d’intervento redistributivo fiscali ma anche dirette, perché siamo ormai tra gli ultimi in Europa per le retribuzioni e se vogliamo un circuito virtuoso dell’economia il primo punto è aumentare salari, stipendi, pensioni.

E sulla Legge 30 cosa sta succedendo?
Le resistenze sono molto determinate e si vedono, ma se stiamo alla lettera del programma, l’elemento unificante è la destrutturazione della Legge con due semplici operazioni: contrastare i contratti a termine e contemporaneamente investire su quelli a tempo indeterminato. Per noi è un imperativo. Il governo delle destre ha fondato la scommessa competitiva del paese su bassi livelli retributivi, deregolamentazione del mercato, scarse tutele e scarsa innovazione. E mai come ora interessi e tutele dei lavoratori coincidono con la ripresa economica perché investire in tutele e retribuzione significa competenza, innovazione, qualità, nell’industria come nella valorizzazione dei territori.

Ivan Bonfanti: In politica estera, oltre al ritiro dall’Iraq, dove si può marcare una differenza rispetto ai precedenti “buoni” governi monetaristi di centrosinistra?
Le destre ci consegnano un’Italia fortemente divisa da un punto di vista socio-culturale e per governare dobbiamo immaginare un’unificazione su grandi questioni culturali. Uno dei grandi collanti per essere in sintonia con un popolo è la pace e il ritiro delle truppe è un passaggio decisivo, come il ripensamento dell’intera politica estera. Poi credo dovremmo cercare di lavorare sull’Europa a partire dalla nostra vocazione geografica. La supremazia dell’occidente sul Mediterraneo invocata da Pera e Calderoli nega la storia di relazione con le altre sponde del nostro mare. Nella mia terra di levante si sono scambiate da sempre culture, merci e conoscenze. Nel 1200 sulla torre Palagia, il punto più occidentale della penisola vicino a Otranto, venivano accesi dei fuochi per segnalare l’approdo e accogliere i forestieri. La nostra è cultura d’interazione e dobbiamo evitare che la torre diventi un ponte levatoio. Investire sulla pace significa investire su una nuova economia, sul Mediterraneo e su nuove relazioni tra persone, forme di socialità e scambi culturali. La nostra nuova identità è la negazione di tutte le identità statiche, è la comunità solidale e accogliente.

Anubi D’Avossa Lussurgiu: da una parte la scelta della nonviolenza, l’innovazione del rapporto col potere, dall’altra la guerra come elemento centrale della nuova barbarie del mondo. Per non finire come con Maastricht e Schengen, che si fa sui Cpt (non solo in Italia), sul libero commercio mediterraneo, sulla legge anti-terrorismo europea e sulle alleanze militari?
Una delle parti migliori del programma di governo è quella che riguarda l’abolizione dei Cpt in una duplice veste, concreta e giuridica. Grazie all’apporto straordinario di Giuliano Pisapia è scritto: non ci saranno più reclusi per reati amministrativi. Bisogna realizzare il programma. Sulle alleanze militari, ripeto che dobbiamo definire una nuova politica estera per superare e ripensare in toto la nostra presenza in Afghanistan ad esempio. Vale anche per i trattati commerciali e tutto il resto.

Angela Azzaro: Ci sono le condizioni per riprendere una battaglia sul grande rimosso di questa campagna elettorale, cioè la legge 40 sulla fecondazione assistita, e qual è il punto di non ritorno per Rifondazione?
Ribadisco quanto sempre detto: la Legge 40 è una norma medievale, nata dall’ossessione di legiferare sul corpo delle donne da parte di una casta sacerdotale e politica tutta maschile. Bisogna riprendere questa battaglia da dove l’abbiamo persa. E lo stesso vale per i Pacs. Qualsiasi norma che si contrappone così violentemente ai desideri, ai bisogni, alle esperienze concrete è destinata ad essere trasgredita perché quando sei contro i sentimenti non ci sono regole che tengono e Antigone andrà a riprendersi il corpo del fratello ucciso nonostante il divieto. Un conto sono le legittime opinioni di tutte le gerarchie e istituzioni un conto è l’autonomia dell’iniziativa legislativa del Parlamento. Su questi punti saremo molto attivi.

Piero Sansonetti: Quale assicurazione abbiamo che questo passaggio storico non sia la fine dell’anomalia specialissima di Rifondazione, unico partito in questi dieci anni fuori dal pensiero unico?
La domanda è giusta, anche se è come dire: iniziative e compiti per il prossimo decennio. Ma non mi sottraggo. La nostra attività e prospettiva strategica non si esaurisce e non si neutralizza in assetti istituzionali e in ipotesi di governo. La nostra identità e il nostro percorso stanno nel lavoro capillare di costruzione di nuova società, con movimenti, associazioni... ovvero la costruzione del paese altro da quello evocato nell’ultima campagna elettorale dal centrodestra. Per questo acceleriamo il tema della rifondazione comunista e costruiamo al contempo una nuova soggettività politica come la Sinistra europea con realtà e persone dell’ambientalismo, del femminismo, del cattolicesimo sociale, dei movimenti pacifisti e del lavoro. Un tempo si sarebbe detto: governo relativamente debole e impegno nella società molto forte. Oggi diciamo che il governo non è il fine ma lo strumento per conseguire risultati che non siano contradditori con la nostra impostazione e con il tentativo di ridefinire la sinistra in Italia. Per questo sento un’ambizione più grande: un orizzonte della sinistra alternativa che viva nella società.

Castalda Mustacchio: nella Sinistra europea le porte sono aperte anche ad altri partiti?
Abbiamo sempre pensato a un progetto legato non a sigle e ceti politici ma ad esperienze reali. Le modalità le decideremo insieme in maniera aperta con singoli, movimenti, esperienze sindacali, associative, femminismi e anche partiti se condividono il progetto. Il punto è come si interrogano le soggettività. I nostri risultati sono buoni dove esistono forme di autorganizzazione, di partecipazione e protagonismo alternativo della società. La spoliazione di socialità, comunicazione e relazione di questo capitalismo ha approfondito il richiamo greve all’individualismo, noi dobbiamo tornare a nominare il nostro popolo. La difficoltà della campagna elettorale è stata questa. Quando è in campo l’immagine e la forza di una comunità solidale si vince. Come in Puglia dove si è fatto vivo un popolo. Se non c’è alternativa, si possono anche ottenere buoni risultati, ma le destre prendono il sopravvento.

Stefano Bocconetti: Ma il partito è attrezzato per il salto verso la Sinistra europea o siamo ancora all’ancoraggio alle correnti del passato?
Nel partito ho trovato tanta ricchezza e disomogeneità, senza remore dico che dobbiamo recuperare tutti i ritardi e oltre che enunciare il rinnovamento, produrlo. Dove è stato fatto i risultati ci sono. Investiremo sul partito per costruire nuove forme di intervento, relazioni e comunicazioni nei territori e in esperienze sociali e culturali anche di segno diverso da come le abbiamo finora conosciute. Penso a strutture aperte e relazioni di prossimità anche fisica.

Claudio Jampaglia: Cosa vuole dire “segretario di transizione”, quanto tempo resterai in carica?
Credo con grande sincerità che questa transizione non possa avvenire seguendo la forma di direzione precedente. Abbiamo avuto la fortuna di crescere con un segretario con una grandissima forza culturale e politica, che ci ha fatto superare strettoie e scogli che avrebbero stroncato molti altri e ora vorremmo addirittura rifondare la sinistra, senza di lui non potremmo. Fausto resta inimitabile. Quindi la mia gestione sarà collegiale e assocerà le realtà decentrate come laboratorio di costruzione di una direzione politica radicalmente diversa. Partecipazione e collegialità, perché in mare aperto siamo tutti al timone. In giro per l’Italia ci sono tanti quadri bravissimi e dobbiamo fare leva su questi e puntare alla generazione di Genova. Sento l’orgoglio di appartenere a un’organizzazione che ha una generazione di quadri forgiati nell’iniziativa sociale e politica. Personalmente non mi sento precario e credo non sarebbe utile che mi sentissi tale.

Checchino Antonini: Quale terreno d’innovazione per Rifondazione?
Penso a quattro aspetti. L’innovazione si giocherà sul partito, sul territorio e sulle forme di intervento per tradurre e mettere in relazione le esperienze diverse e plurali di questi anni con l’articolazione dei territori. Ovvero “il paese nel paese”, per usare una metafora pasoliniana. È la nostra risposta alla crescita di solitudine, perdita di senso e isolamento di parte della società italiana. Il secondo riguarda la rifondazione comunista da accelerare. In tutto il secolo scorso abbiamo giustamente investito sul termine uguaglianza e penso che ora dovremmo provare a coniugarla con un secondo termine: liberazione. Senza entrambi oggi non sarebbe possibile il superamento dell’alienazione e nemmeno comprendere l’organizzazione del lavoro o la differenza di genere. Il terzo punto riguarda l’innovazione politica e culturale della nonviolenza come idea di trasformazione dei rapporti di forza, delle relazioni tra gli individui e come leva di trasformazione dei rapporti sociali. La nonviolenza è la metafora di una radicalità senza scorciatoie e conquiste di palazzi d’inverno. E, infine, la costruzione della Sinistra europea: promuoveremo entro l’estate un’iniziativa sulla società italiana e le sue paure e poi in autunno ci sarà la vera fase costituente della sezione italiana. La Se sta diventando il terminale di una domanda enorme di soggettività, nella politica, nella società, nel sindacato, nell’esperienza dei movimenti e dell’associazionismo. Una domanda lineare e limpida che può aiutare a chiarire finalmente il campo della sinistra riformista o della sinistra d’alternativa, due orizzonti storici e strategici diversi. Come dire forma e rivoluzione e noi stiamo con la rivoluzione.

Lea Melandri: la politica si è costruita attraverso una comunità storica di soli uomini, oggi democraticamente corretta da presenze e quote. Se il soggetto storico della politica non si interroga sulla propria appartenenza a un sesso, nulla cambierà. Ci vuole un ripensamento dei modi, dei linguaggi, dei poteri della politica. Nonostante gli sforzi comuni e il lavoro del Forum donne del Prc, perché ci sono così poche donne?
Comincio a diffidare degli uomini culturalmente affini al femminismo che evitano di fare l’unica cosa che dovrebbero, ovvero interrogarsi sui propri limiti maschili e personali. Senza coscienza della parzialità del maschile non approderemo a nulla. E credo un tema di approfondimento importante sia nella critica alle forme di narcisismo che si accompagnano al maschile. Siamo sempre stati sotto gli sguardi accoglienti delle donne che ci hanno allevato e coccolato e li ricerchiamo permanentemente diventando lo specchio della relazione con l’altro sesso e dimenticando la costruzione della nostra soggettività.