sabato 9 febbraio 2019

La Stampa 9.2.19
Napoli, i seguaci di Banksy alla conquista dei Quartieri Spagnoli
di Emanuela Minucci


«Dopo Banksy nulla è più rimasto come prima, ma non so se il nostro illustre collega proverà mai la gioia di esibirsi sui muri dei Quartieri Spagnoli: qui l’arte atterra sull’arte, qui è cominciato tutto, in tempi non sospetti, con il gigantesco murale dedicato a Maradona, e hai voglia quello a staccarlo dal muro per rubarlo...».
Nel cuore pulsante di Napoli, esterno giorno, c’è un andirivieni di ragazzi con una scaletta sulle spalle e l’aerografo sotto il braccio. Alle 8 di ieri si sono dati appuntamento alla Fondazione Foqus (che ospita decine di attività, produce cultura e educazione attraverso corsi, nidi e scuole) 500 street artists arrivati da tutta Italia per partecipare a ST.AR.T - street art, comunità e territorio, che durerà sino a stasera. Tra gli artisti arruolati per lasciare un segno nel quartiere i Guerrilla Spam: Luigi Loquarto, Iabo, Xel e Vittorio Valiante che per i vicoli produrranno un’edicola votiva spiazzante.
Insieme con loro, in un’atmosfera gioiosa e ebbra di arte, gli studenti del corso di Design della comunicazione dell’Accademia impegnati in un intervento di calligrafia e scrittura «live» all’interno delle mura di Foqus: i testi creati ex novo si ricongiungeranno componendo una nuova grammatica visiva, con le migliaia di scritte che popolano i muri dei Quartieri Spagnoli, dove trovare un pezzo di intonaco incontaminato è impresa impossibile.
La composizione dei murales è durata sino al pomeriggio, quando il sindaco di Napoli Luigi De Magistris ha dato il via a cinque tavoli sul tema dell’arte urbana, una specie di Leopolda sugli street artists.
Fra le opere che più hanno fato discutere, a fine giornata, quella realizzata da Vittorio Valiante dal titolo Tarantina Taran dedicata al tema del «femminiello». L’autore giocava un po’ in casa perché ha passato la giovinezza a esibirsi come madonnaro nella vicina via Toledo. Adesso invece sposa all’arte la critica sociale. Molte di queste opere resteranno permanenti, un regalo per i Quartieri Spagnoli, come l’edicola votiva pop di Guerrilla Spam.
Repubblica 9.2.19
Il reportage
Il nuovo tempio a Roma
Sfarzo e fede in fila per entrare nell’astronave dei mormoni
Il pubblico ammesso solo fino al 10 marzo
di Maria Novella De Luca


ROMA In gloria di Dio, dicono i mormoni, ogni sfarzo è consentito. Del resto, alzando gli occhi dalle buche scoscese di via di Settebagni, il gigantesco Tempio della "Chiesa di Gesù dei santi degli ultimi giorni" sembra un’esotica astronave del lusso planata in questo pezzo di sciatta periferia romana, sessantamila metri quadrati di edifici e giardini dedicati ai 26mila seguaci italiani del "libro di Mormon". Marmi di Carrara e preziosissimi lampadari di Murano, cristalli Swarowski e fasce d’oro a 24 carati, lapislazzuli e monumentali statue di apostoli, guglie alte 40 metri e fontane di travertino e bronzo. Ossia l’avamposto appena inaugurato nella città eterna (e del Papa) della ricchissima e potente chiesa di Salt Lake City: 16 milioni di fedeli in tutto il mondo, la cui fede è basata sulle "rivelazioni" mistiche ricevute, nel 1830, da un giovane ragazzo del Vermont, Joseph Smith. In un mix di insegnamenti che uniscono una discussa rivisitazione del Nuovo testamento agli insegnamenti di un antico profeta americano di nome Mormon. Tra i seguaci più famosi Mitt Romney, sfidante repubblicano (sconfitto) di Barack Obama, l’attore Ryan Gosling, candidato all’Oscar per La la land. «Ma non fatevi sviare dalle apparenze: tutto questo fasto, sostenuto con le decime dei membri della Chiesa, noi lo dedichiamo soltanto a Dio. Nella vita privata il nostro comandamento è la sobrietà».
Gentilissimo e gioviale, "l’anziano" Alessandro Dini Ciacci (in realtà ha 40 anni) responsabile italiano della Chiesa degli ultimi giorni, accoglie le migliaia di visitatori che si accalcano davanti al centro per iniziare il tour del tempio, il più grande d’Europa.
Ci sono famiglie mormone italiane e straniere, «wow» è una delle parole che più si sentono attraversando le sontuose stanze dove chi entra nella Chiesa riceve le "ordinazioni", a cominciare dal fonte battesimale, una vasca in mosaico appoggiata su una base che rappresenta dodici buoi, dodici come le bibliche tribù d’Israele. Moltissimi sono invece semplici visitatori, curiosi, romani: «Ma quanto sono ricchi ‘sti Mormoni?», «ma è vero che sono poligami?». La comunità italiana dei "Santi degli ultimi giorni" è davvero un mondo ignoto ai più, eppure i membri continuano ad aumentare. Tra qualche timore del Vaticano, le accuse di massoneria e le confessioni (feroci) di alcuni fuoriusciti. Alessandro Dini Ciacci, membro della Chiesa da quando aveva 18 anni, così come la moglie Sara e i loro 4 figli, è diplomatico. «Non siamo così strani, basta conoscerci. Abbiamo ottimi rapporti sia con lo Stato italiano sia con il Vaticano. E attenzione, sfatiamo un luogo comune: non siamo poligami, anche se ci sono alcuni gruppi fondamentalisti che ancora praticano la poligamia». In realtà, la vita quotidiana di una famiglia mormone è scandita da precetti ben precisi. Racconta Dini Ciacci: «Non beviamo alcol né tè né caffè, mangiamo carne con moderazione, ci vacciniamo, non abbiamo rapporti sessuali fino alle nozze e crediamo nell’eternità del matrimonio.
Siamo contro l’aborto, contro i matrimoni gay, ma difendiamo i diritti delle persone omosessuali.
Ogni mese versiamo un decimo del nostro reddito alla comunità.
Ecco, la magnificenza di questo tempio italiano, nasce dalle decime dei fedeli di tutto il mondo». I quali vengono reclutati attraverso un proselitismo non invadente, ma deciso. «Appena superata la maggiore età, i nostri ragazzi vengono inviati in missione in Paesi stranieri, per diffondere il verbo della Chiesa.
Io fui mandato a Cipro. Quando torni scopri di essere diventato adulto». A marzo il Tempio chiuderà per sempre le porte ai visitatori, mentre visibili resteranno il centro visitatori, i giardini e soprattutto il Family Search, il caveau di computer dove centinaia di volontari digitalizzano piramidi di atti di nascita. «Ognuno dei nostri membri, risalendo al proprio albero genealogico, può battezzarsi in nome dei propri antenati e farli entrare così nella nostra Chiesa. In Italia però archiviamo soltanto atti vecchi cento anni, così come prevede la legge». Insomma, nipoti e bisnipoti di fede mormone possono convertire i propri avi, magari cattolici o ebrei, al credo fondato da Joseph Smith. Tanto, è evidente, i defunti non protestano.
La Stampa TuttoLibri 9.2.19
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò


Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita. Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere. Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra). Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota. Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
Olimpiade sedotta da Zeus nell’audace affresco di Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova
La Stampa 9.2.19
Dio vide tutto quello che aveva fatto e allora creò l’umorismo ebraico
di Elena Loewenthal


Tutto cominciò con una sghignazzata. Breve, sommessa, con una mano che dobbiamo immaginare avvizzita e costellata di macchie scure di vecchiaia davanti alla bocca, nel vano tentativo di passare sotto silenzio quello sfogo di ilarità. Quando infatti, tramite dei viandanti per il deserto che nella realtà del testo sacro sono angeli, l’Altissimo annuncia al patriarca Abramo che sta per dargli un figlio con Sara, che intende cioè aprirle finalmente l’utero tristemente occluso, quella povera donna che in novant’anni suonati di vita ne aveva già viste tante di quelle tante, scoppia a ridere. «Ma figuriamoci!», «Questa è buona!», «Che scherzo di cattivo gusto», e tanto altro dice il sottotesto della prima risata di tutta la Bibbia, frutto della disillusione e dell’amarezza di una donna che non è riuscita a procreare sino a quel momento ed è ormai certa che non ci riuscirà mai più. Altissimo o non Altissimo. Di lì a nove mesi, nello stupore generale, Sara metterà al mondo Isacco, il cui nome in ebraico significa per l’appunto riderà.
Dalla tenda di Abramo e Sara in poi, ridere è per i figli d’Israele una faccenda alquanto seria: «Metropolitana di New York. Un nero sta leggendo un giornale in yiddish. Qualcuno si ferma e gli domanda: - Lei è ebreo? -. Oy gevalt (tipica esclamazione di sconforto in yiddish) – risponde – mi ci manca solo quello».
«La barzelletta ebraica è vecchia come Abramo. Insieme agli ebrei in carne e ossa ha errato per il mondo, imparato svariate lingue, lavorato con una vasta gamma di materiali e dato il meglio di sé al cospetto di folle piuttosto ostili», spiega Devorah Baum in apertura del suo libro, La barzelletta ebraica (in uscita per Einaudi) con un eloquente sottotitolo che chiarisce trattarsi di «Un saggio con esempi (meno saggio più esempi». Perché se tutto che comincia con Abramo, non si può negare che a fare la prima battuta sia stata Sara, e suo marito – a quanto pare – non l’ha presa troppo bene. In quanto donna, discendente cioè in linea diretta della spiritosa matriarca e del suo umorismo irriverente, fors’anche un pizzico macabro, anche Devorah Baum – giovane scrittrice americana – la sa lunga in fatto di battute ebraiche.
E’ vero, nel libro ci sono più battute che argomentazione, più esempi che saggio. Ma è anche vero che quando si fa umorismo ebraico non si può fare a meno di parlarne.
Che sia battuta fulminante o lenta narrazione, la storiella ebraica porta sempre con sé un significato, anzi di più. È come se dicesse sempre, in sottofondo: «Cari gentili (di nome ma spesso non di fatto), oltre a perseguitarci, emarginarci e cacciarci ai quattro angoli del mondo, non state anche a ridere di noi ebrei. Quello lo facciamo da soli, e di sicuro meglio di quanto non possiate fare voi».
L’umorismo è insomma da secoli un’arma di sopravvivenza per il popolo d’Israele, un modo per conciliarsi con il mondo, con le avversità, con i contrattempi. Altro che contrattempi: «Burt: ti importa dell’Olocausto o pensi che non sia mai successo? Harry: Non solo so che abbiamo perso sei milioni di ebrei, ma quello che mi preoccupa è che i record sono fatti per essere battuti». (Copyright Woody Allen).
Baum affronta uno dei tanti percorsi possibili nell’umorismo ebraico con una serie di domande che echeggiano il rituale della Pasqua ebraica e marcano la differenza fra la sera festiva e quella feriale. Non per niente la tradizione ebraica si costruisce sull’analisi puntuale, sul pelo nell’uovo: «Che differenza c’è fra l’uomo e Dio?», «Che differenza c’è fra moralità e nevrosi?», «Che differenza c’è fra un ebreo e un pappagallo?», «Che differenza c’è fra uno shlemiel e uno shlimazel?» (spoiler: lo shlemiel è quello che si sbrodola, e quello su cui si rovescia la minestra è lo shlimazel). Nel riscontro di una serie di differenze, Baum traccia una storia della battuta ebraica, o meglio un percorso divertente e interessante in questo umorismo che può piacere o non piacere, che a volte è immediato e a volte criptico – soprattutto quando più che una battuta diventa un larvato test d’intelligenza a spese dell’ignaro ascoltatore –, ma che ha sempre molto da raccontare.
Baum spazia dal cinema alla tradizione orale, dalla letteratura contemporanea al Talmud, ma ha una particolare – e giustificata – predilezione per quella stand-up comedy americana (a malapena traducibile con «cabaret») che ha dato il meglio di sé con una certa comicità ebraica fatta tanto di improvvisazione quanto di sapienza, con giganti quali Lenny Bruce e Mrs Maisel – che sarà pure il protagonista dell’omonima serie televisiva, ma è più reale e fantastica che mai.
E in fondo, fra le tante, davvero tante cose confortanti che l’umorismo ebraico porta con sé da secoli e millenni, c’è anche una parità di genere che non fa sconti a nessuno, perché quando si tratta di ridere – o far ridere – non c’è sesso che tenga. E da che mondo è mondo, le donne si tramandano ricette, segreti, saggi consigli: «Mia mamma diceva sempre che per denaro non ci si sposa. Si divorzia».
Corriere 9.2.19
Idee
Brevi saggi per orientarsi in questi «tempi agitati»: l’agile guida realizzata da Mauro Bonazzi per Ponte alle Grazie
Il buon politico: Pericle discute con Protagora: le parole non sono neutre ma sono lo strumento per costruire una prospettiva condivisa
Pensieri antichi per capire l’oggi
Così la filosofia spiega il presente
di Eva Cantarella


Non è facile rendere conto di tutti gli argomenti trattati nel libro di Mauro Bonazzi Piccola filosofia per tempi agitati (Ponte alle Grazie), i tempi nei quali viviamo: sono tanti e diversissimi, unificati dal fatto di offrire suggerimenti che possono aprire uno spiraglio per affrontare questo nostro complesso confusissimo mondo. Ma in che modo, con quali armi? Quelle della filosofia, la disciplina nata per insegnare non cosa ma come pensare, che aiuta a ordinare le idee e a scegliere razionalmente tra prospettive diverse. È un invito, quello che viene da questo libro, all’esercizio del pensiero, lo strumento più potente di cui possiamo disporre, come Bonazzi ci mostra selezionando e raccogliendo una serie di testi tratti dai suoi interventi su «la Lettura», sul «Corriere della Sera» e su «il Mulino».
Partiamo da un esempio, la celebre affermazione di Diogene il Cinico, che, interrogato su quale fosse la sua patria, dichiarò di essere «cittadino dell’universo». Una risposta su cui riflettere oggi, in un universo dove, accanto a diversi sistemi di valori, trovano spazio e consenso slogan come «America first» (o altri Paesi tra i quali purtroppo a volte anche l’Italia). E accanto ai filosofi ecco i poeti, che ci inducono a ragionare, ad esempio, su «le tentazioni della vendetta»: come Eschilo, che nel 458 avanti Cristo, nell’Orestea, mise in scena le atrocità che avevano accompagnato la storia degli Atridi, a partire dall’uccisione di Agamennone per mano della moglie Clitennestra, che voleva vendicare i torti che questi le aveva fatto. Ma nella logica della vendetta la morte di Agamennone imponeva al figlio di questi di uccidere la madre. Solo il diritto può fermare le violenze che derivano dai desideri di vendetta, dice l’Orestea, nella quale queste terminano solo con l’istituzione del primo tribunale ateniese, al quale spetterà decidere la sorte di Oreste.
Ma torniamo alla filosofia, questa volta intesa come strumento della buona politica: e il pensiero va a Pericle, che tra le cure e le preoccupazioni del governo di Atene trovava il tempo per discutere con i filosofi. Una volta, si diceva, aveva passato un’intera giornata a discutere con Protagora il caso di un giovane che, lanciando il giavellotto, aveva colpito e ucciso un compagno di gara. Di chi era la colpa, si chiedevano Pericle e Protagora: del giavellotto o di chi lo aveva lanciato? Naturalmente la storiella voleva ridicolizzare quegli strani, nuovi filosofi che erano i sofisti, tutt’altro che ben visti negli ambienti più conservatori, dei quali Pericle era amico. Ma, scrive Bonazzi, la grandezza del politico Pericle è tutta qui: nel saper valutare i «fatti alternativi», veri o falsi che fossero, discuterne, non aver mai abdicato all’uso della ragione; e nell’abitudine di parlare in pubblico solo nelle occasioni ufficiali, senza insultare o inveire. Una scelta fondamentale per un politico (e anche per chi non essendo tale, vuol vivere in una società civile tale): le parole non sono qualcosa di neutro, che serve semplicemente a indicare una realtà di per sé evidente. Così non è, la realtà è plurale, perché dipende dai punti di vista, che sono molteplici. Le parole sono lo strumento che può permetterci di costruire una prospettiva condivisa.
Ed eccoci all’ultima parte del libro, dove viene data la parola a uno dei più grandi scienziati del Novecento, Julius Oppenheimer, che nel pieno degli esperimenti della bomba atomica dichiarò che «i fisici hanno conosciuto il peccato, ed è una conoscenza che non potranno mai perdere». Una frase chiaroveggente, che in poche parole descrive un tratto caratteristico della condizione moderna.
Inseriti nel racconto dell’albero della conoscenza del bene e del male, di cui Adamo ed Eva colsero i frutti, i saperi scientifici sono il serpente grazie ai quali la nostra conoscenza dell’universo è radicalmente cambiata, così come quella della vita umana, ma che può avere anche conseguenze disastrose. In un futuro che ci fa intravedere ulteriori mai immaginate scoperte si prospetta sempre più la possibilità che il desiderio di conoscenza, prendendo il sopravento sulle preoccupazioni etiche, conduca alla perdita o all’indifferenza della distinzione tra il bene e il male. Ma è proprio di fronte a simili rischi che le scienze umanistiche possono e devono continuare ad avere un ruolo. I saperi scientifici e il confronto con loro sono indispensabili e fuori discussione, ma non sono i soli a poter dare risposte sulla realtà delle cose: a contribuire a darle possono essere, se ad essi si affiancano, il linguaggio e le strade diverse seguite dagli umanisti.
Anche se moltissimi sarebbero gli altri possibili spunti, a quanto sin qui visto basterà aggiungere che questo libro, oltre a essere un’importante occasione di informazione e di riflessione, è anche di scorrevole, facile e piacevolissima lettura.
Il Fatto 9.2.19
Pd Primarie senza soldi. Così Renzi può farle fallire
Casse vuote. Ci sono solo 550 mila euro e tutti per la propaganda social. Il tesoriere accusa i morosi
di Wanda Marra


Per le primarie, Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd ancora in carica, nonché amico fraterno di Renzi, ha stanziato 550 mila euro. E – almeno per ora – li ha investiti tutti sulla comunicazione social. Non sono previsti né manifesti, né spot. Tutto è sulle spalle dei singoli candidati che, comunque, da regolamento, non possono spendere più di 200 mila euro a testa.
Sempre che poi i 550 mila euro restino: perché due giorni fa lo stesso Bonifazi ha informato le rappresentanze sindacali del Pd (i cui 170 dipendenti sono tuttora in cassa integrazione) che per far quadrare i suoi conti mancano 500 mila euro. Motivo? Una serie di parlamentari non avrebbero pagato il contributo dovuto al Pd (1.500 euro al mese solo al nazionale, più un contributo variabile al regionale). E dunque, ha inviato una lettera ai morosi per chiedere i soldi. Sottotesto: se non pagate, la campagna per le primarie non si può fare.
Annuncio e tempismo quantomeno sospetti: perché il piano di Renzi di far fallire i gazebo e dunque di indebolire il neo-segretario (ovvero, l’ultrafavorito Nicola Zingaretti) e dare il colpo finale al Pd, non è un segreto per nessuno. E passa, prima di tutto, per un numero basso di votanti alle primarie. Che già si profila. Nei circoli, hanno votato in 189.023 su 374.786 iscritti. Meno della metà. Un sondaggio di Emg Acqua, presentato ad Agorà, svelava l’intenzione del 64% degli elettori Pd di non andare ai gazebo. Nelle consultazioni che elessero Renzi nel 2017 a votare furono circa 1 milione e 800 mila persone. Se stavolta saranno meno di 1 milione (timore di molti nel Pd) scatterà in automatico la delegittimazione del segretario.
Lo zoccolo duro del partito ormai è composto soprattutto da persone di mezza età e da pensionati. Non esattamente quelli che si informano sui social. Ancora: il responsabile social del Pd è Alessio De Giorgi, vicinissimo a Renzi.
Altro indizio sospetto: tra i parlamentari “morosi” fatti filtrare dal Nazareno, ci sono prima di tutto quelli considerati “i traditori”. Ovvero, i sostenitori di Maurizio Martina. A partire da Matteo Richetti, per arrivare a Antonello Giacomelli, animatore della corrente lottiana che non si sposta su Roberto Giachetti e a Graziano Delrio, sospettato addirittura di voler passare con Zingaretti. Oltre a big come Andrea Orlando, in minoranza da tempo. Gli interessati, a partire da Giacomelli e Richetti, assicurano sdegnosamente di aver pagato il dovuto. Ma il tesoriere tiene il punto: quello che non hanno versato sarebbe il contributo forfettario (quantificabile almeno intorno a 10 mila euro) per la candidatura nel collegio plurinominale.
Tra i segnali (più simbolici che altro) del fatto che il Pd è in via di smantellamento, anche la decisione di Roberto Morassut di vendere il suo camper (usato, per dire, nelle primarie per la candidatura a sindaco di Roma), tramite annuncio su Facebook. In questo caso, non c’entrano le casse vuote del partito, ma il fatto che andare in giro con i simboli del Pd non porta più consenso e neanche lustro. E poi, nessuno sa esattamente quanti soldi abbia in cassa il Nazareno. Il bilancio 2017 si chiuse con un attivo di 555 mila euro, a luglio arriveranno i 7 milioni di euro del 2×1000. E anche se i conti sono sostanzialmente in equilibrio, Bonifazi ha fatto sapere di non voler mettere più di 300 mila euro sullo scivolo per parte dei dipendenti in cassa integrazione. Accusa sempre i morosi. Lo stesso tesoriere ha stanziato tra i 300 e i 500 mila euro per la campagna elettorale per le Europee. Troppo pochi perché il neosegretario del Pd riesca a risollevare un partito già in crisi.
Il Fatto 9.2.19
Giggino, cultura Millenaria


L’ha fatto notare Pietrangelo Buttafuoco, ospite di Otto e mezzo, su La7: da un movimento che affida la sua promessa di democrazia diretta a una piattaforma che si chiama “Rousseau” ci si aspetterebbe almeno una rudimentale conoscenza della storia francese. Anche qui, invece, il capo politico dei Cinque Stelle Luigi Di Maio è riuscito a inciampare nell’ennesima gaffe. Nella lettera riparatoria a Le Monde, il ministro ne ha scritta una grossa: descrivendo il rapporto di amicizia che lega il popolo italiano e quello transalpino, Di Maio non ha potuto esimersi dall’apprezzare “la tradizione democratica millenaria” dei francesi. Ahia. Dovrebbe essere una nozione storica macroscopica, una data che s’impara a memoria anche solo per l’estate di terza media: la Rivoluzione francese inizia il 14 luglio 1789 e spazza via secoli di monarchia e ancien régime. Il conto è facile: sono passati “appena” 230 anni, nemmeno il quarto di un millennio. E sì che l’ardore rivoluzionario dovrebbe essere fonte di profonda ispirazione per i “nostri”, quelli che promettevano di radere al suolo il vecchio sistema per edificarne uno nuovo di zecca. Di Maio se la racconti così, magari poi non se la scorda: nel 1789 i francesi aprirono la Bastiglia “come una scatoletta di tonno”.
La Stampa 9.2.19
Il Libano scuote il mondo arabo: quattro ministre nel governo
di Giordano Stabile


Il Libano ha un nuovo governo dopo quasi nove mesi di trattative. Hezbollah ha conquistato un ministero in più, quello della Salute, e la spartizione dei 30 dicasteri ha seguito un manuale Cencelli alla libanese, che tiene conto delle 19 diverse sette religiose. Ma c’è un dato positivo. Quattro donne nell’esecutivo, un record per il Paese dei Cedri e nel mondo arabo. La scelta del premier, il sunnita Saad Hariri, ha sorpreso anche gli analisti politici locali, ed è considerato un segnale di apertura alla società civile, esasperata dalla spartizione settaria del potere.
In Parlamento ci sono soltanto sei deputate su 135, ma Hariri ha deciso di puntare su figure femminili. La più importante è Raya Haffar el-Hassan, sunnita di Tripoli, 52 anni, che ha ottenuto l’Interno, un dicastero strategico che spesso deve gestire frizioni con Hezbollah nella gestione della sicurezza. El-Hassan è già stata ministro delle Finanze ed è considerata una Lady di ferro libanese. La 36enne Nada Boustani, cristiana maronita, è la guida dell’Energia, ministero assediato da appetiti feroci. Un’altra maronita, la May Chidiac, è allo Sviluppo amministrativo. La greco ortodossa Violette Khairallah è invece alle Pari opportunità.
Restano fuori la comunità sciita e quella drusa, che non hanno né parlamentari né ministri donne. Ma la strada segnata. Ormai si parla di quote negli incarichi politici e amministrativi. Sarebbe una rivoluzione in Medio Oriente. A quasi trent’anni dalla fine della guerra civile il Libano potrebbe tornare a essere un punto di riferimento nella modernizzazione della regione.
Il Fatto 9.2.19
Finlandia, il “reddito di base” aiuta la salute, ma non il lavoro
Meglio solo la qualità della vita (però l’Italia non c’entra)
di Stefano Feltri


Il reddito di base, pagato dallo Stato senza condizioni, migliora la salute e l’umore ma non aiuta a trovare lavoro (e neppure penalizza, però). È la conclusione a cui arriva l’agenzia Kela che gestisce il welfare della Finlandia dopo un esperimento durato due anni (2017-2018) e che ha coinvolto 2.000 beneficiari i cui comportamenti sono stati confrontati con quelli di un “gruppo di controllo” di 173.000 persone che hanno continuato a ricevere i normali ammortizzatori sociali. Il governo finlandese dell’ex premier Juha Sipilä aveva un obiettivo chiaro con questo esperimento: valutare se un reddito di base, pagato senza pretendere in cambio gli impegni alla formazione o ad accettare offerte di lavoro previste dal reddito di cittadinanza italiano, fosse più efficace nel permettere ai beneficiari di trovare un lavoro rispetto ai normali sussidi di disoccupazione.
I 2.000 beneficiari hanno quindi ricevuto 560 euro al mese per due anni a prescindere che fossero disoccupati o trovassero un lavoro, che lo cercassero o che rimanessero a casa. I normali sostegni pubblici si riducono se chi li riceve riesce ad aumentare i propri redditi da lavoro e spesso prevedono obblighi o hanno requisiti che finiscono per condizionare l’atteggiamento del beneficiario verso il lavoro (chi prende la cassa integrazione in Italia, per esempio, non può lavorare nel frattempo). L’ipotesi da verificare in Finlandia era la seguente: un reddito di base rende i lavoratori più inclini a lavorare, anche con orari e salari ridotti, o a mettersi in proprio e rischiare perché si può contare su un minimo garantito? O, viceversa, disincentiva il lavoro perché è meglio prendere poco senza far nulla piuttosto che faticare per salari bassi?
Lo scopo dell’esperimento è capire se conviene riformare il sistema di welfare finlandese e sostituire alcuni degli attuali sostegni con un reddito di base (mentre in Italia, finora, il reddito di cittadinanza è stato introdotto in aggiunta ai sussidi esistenti, con l’eccezione del Rei che viene inglobato). I risultati sono sorprendenti e inequivocabili, anche se si tratta di uno studio preliminare che dovrà essere approfondito. In un anno i beneficiari del reddito di base lavorano meno di mezza giornata in più degli altri (le persone nel gruppo di controllo che continuano a ricevere i normali ammortizzatori sociali): 49,64 giorni lavorati nel 2017 contro 49,25. E se sono liberi professionisti, guadagnano in media 21 euro annui in meno: 4.230 contro 4.251. “L’esperimento non ha effetti sulle condizioni lavorative nel primo anno”, scrivono Kari Hamalainen, Ohto Kanninen, Miska Simanainen, Jouko Verho nel report.
Ci sono dei benefici osservabili, però. Chi riceve il reddito di base è molto meno stressato di chi è nel sistema tradizionale: si dichiara i buona o eccellente salute nel 55,4 per cento dei casi contro il 46,2, ha una capacità di concentrarsi buona o eccellente nel 56,7 per cento dei casi contro il 55,7, dice di “vivere in modo confortevole” nell’11,9 per cento delle risposte, chi non prende il reddito di base si ferma al 7,4.
Emerge anche un effetto collaterale: nell’esperimento chi riceve il reddito di base ha comunque diritto agli ammortizzatori sociali di entità superiore, ma è meno propenso a chiederli, ma questo forse si spiega con una riforma della burocrazia del settore entrata in vigore proprio mentre partiva l’esperimento.
La Finlandia ha un tasso di disoccupazione del 7,6 per cento, l’Italia del 9,7, le due economie sono molto diverse. Ma due lezioni sembrano chiare dall’esperimento. Primo: non è affatto detto che garantire un livello minimo di reddito cambi l’approccio al mercato del lavoro. Secondo, e più importante: quando si vuole fare una riforma complessa, è bene aver chiari gli obiettivi in modo da poter stabilire se l’intervento produce i risultati sperati o meno.
il manifesto 9.2.19
La Polonia va allo scontro di culture
Incontri. A Varsavia, con il poeta Jarosław Mikołajewski, «l’odio sta nel linguaggio, il pensare con i simboli, vedere l’immigrato come una minaccia»
di Angelo Ferracuti


La morte di Pawel Adamowicz, il sindaco cristiano di Danzica accoltellato da un folle la sera del 13 gennaio durante un concerto di beneficenza di fronte a migliaia di persone, ha molto scosso il poeta Jarosław Mikołajewski, italianista e traduttore di Dante, Leopardi, Pavese e Pasolini. Lo stesso giorno, sul suo profilo Facebook, parafrasando il Corsaro, ha scritto: «Io so./Io so proprio chi l’ha fatto./Lo sappiamo tutti. ’Chi’ oppure ’che cosa’. Ma una cosa può nulla. Un ’chi’, invece, può tutto, perfino/ammazzare./E se qualcuno pensa di non sapere, prenda coraggio e dica ’io so’ e subito capirà./Chi dirà ’io so’, sentirà quello di cui aveva paura che sarebbe successo. Di cui sapeva che/sarebbe successo. Poiché noi non soltanto sappiamo già. Lo sapevamo e non ne siamo/per nulla sorpresi pur essendo increduli».
«DANZICA È GENEROSA, Danzica condivide il bene, Danzica vuole essere una città di solidarietà», sono state le ultime parole pronunciate da Adamowicz, prima che il suo assassino lo raggiungesse sul palco colpendolo a morte.
L’incontro con Mikołajewski è al Café Bazyliszek in Rynek Starego Miasta, la piazza centrale e il cuore di Varsavia. Sorseggiando un the alla cannella, il poeta dice serio che questo è «un momento storico importantissimo». L’omicidio è secondo lui da collegarsi a un altro, lontano nel tempo: quello del presidente della Polonia Gabriel Narutowicz, che fu ucciso solo dopo cinque giorni dall’insediamento da un ultranazionalista a Varsavia, il 16 dicembre del 1922. «Si trattava dello stesso scontro di culture», afferma.
SECONDO MIKOŁAJEWSKI, il bersaglio di Libertà e Giustizia, il partito di destra conservatrice al potere guidato da Jarosław Kaczynski, sovranista e anti Putin, è la Polonia come comunità di diverse etnie. «Il sindaco di Danzica si è opposto alla politica governativa. Ha detto di accogliere lo stesso gli stranieri, ed è stato ammazzato in un momento di solidarietà». Dopo l’omicidio nel paese c’è stato un risveglio, la gente si è mobilitata, ci sono state molte «marce del silenzio» spontanee nei maggiori centri del paese, lunghissime file per visitare la camera ardente.
«LA DESTRA POPULISTA che sta al governo è scesa di dieci punti – afferma Mikołajewski – C’è una presa di coscienza che questo governo ci porta verso il precipizio, l’odio sta nel linguaggio, il pensare con i simboli, vedere l’immigrato come una minaccia». Tutto il contrario di ciò che pensava il suo amico Ryszard Kapuscinski: «La sua era una cultura di apertura. Nella storia della Poloniaè sempre esistita questa dualità. Lui è un simbolo della Polonia aperta, che conosce, che ha sofferto. Un paese proprio per questo dovrebbe avere l’obbligo di capire gli altri e non sentirsi superiore, la destra odia la cultura di Kapuscinski».
Secondo lo scrittore, la destra razzista polacca usa i simboli con fanatismo, non vive i contenuti del cristianesimo, come invece faceva il sindaco di Danzica e il movimento di amministratori liberaldemocratici antisovranisti. «Ci siamo illusi per troppo tempo che l’Unione europea fosse compiuta, non ci siamo accorti che sotto le apparenze dormivano gli spettri del peggiore passato», dice. «Kaczynski accoglie tutti, soprattutto i cattolici fondamentalisti, basta che pensano con i simboli, ma non dimentichiamo che anche la cultura comunista era nazionalista. Ora però è accaduto qualcosa di molto grave. L’odio del linguaggio provoca l’omicidio».
IN «GIUNGLA POLACCA», proprio Kapuscinski, il reporter che scriveva la «storia viva», parlava di qualcosa che ancora ci riguarda: «I morti ci ammoniscono. Ci hanno trasmesso qualcosa di importante e noi dobbiamo sentirci responsabili. Ognuno di noi, nei limiti delle sue capacità, dovrebbe combattere tutto ciò che può portare alla guerra, al crimine, alla catastrofe. Noi sopravvissuti alla guerra, sappiamo come comincia, da dove scaturisce. Sappiamo che non nasce solo dalle bombe e dai razzi ma anche, e forse soprattutto, dal fanatismo e dalla superbia, dalla stupidità e dal disprezzo, dall’ignoranza e dall’odio».
Repubblica 9.2.19
La repressione di Bashir
Minacce alla reporter italiana che racconta le proteste in Sudan
di Gabriella Colarusso


Prima il fermo, a Khartoum, il 6 gennaio scorso mentre documentava la dura repressione del regime di Omar Al Bashir contro le proteste di piazza che vanno avanti da settimane e in cui hanno perso la vita almeno 50 persone, secondo le cifre fornite da medici e opposizione sudanesi. Poi le minacce. «Sei il nemico del Sudan. Non sei la benvenuta nel nostro Paese. Se non ci ascolterai e tornerai qui, te ne pentirai. Ma sarà troppo tardi»: questo il contenuto di una mail inviata ieri alla giornalista Antonella Napoli, che si occupa di Sudan, e firmata da sedicenti "Fratelli Musulmani del Sudan".
«Chiunque parli delle rivolte sudanesi è un nemico da abbattere», dice Napoli che qualche giorno fa aveva raccontato la storia di Ahmed Awadal Karim, un insegnante 30 enne ritrovato morto a Khartoum con segni di torture.
Repubblica 9.2.19
Lungo i confine
Nuovi scontri a Gaza I soldati sparano uccisi 2 palestinesi
di Vincenzo Nigro


Dopo alcuni giorni di calma, si sono riaccesi gli scontri lungo il confine di Gaza. Da mesi ogni venerdì i palestinesi si avvicinano al confine israeliano lanciando aquiloni incendiari e bottiglie molotov: ieri i soldati hanno sparato uccidendo un ragazzo palestinese di 14 anni Hassan Iyad Shalabi, e un giovane di 18, Hamza Mohammad Rushdi. Secondo il ministro della Sanità di Hamas, l’organizzazione che controlla la Striscia, ieri i feriti sarebbero stati 20. Il 14enne ucciso da un colpo di proiettile al petto era nipote della sorella di Ismail Haniyeh, uno dei leader del movimento islamico. Dal 30 marzo Hamas ha organizzato e sostenuto proteste in massa a ridosso della barriera che divide la striscia da Israele: da allora ci sono stati 295 morti fra i palestinesi, 6000 feriti e un militare israeliano è stato ucciso da un cecchino palestinese.
Corriere 9.2.19
Facce nuove
Sophie Passmann, la giovane in un partito vecchio
di Paolo Lepri


Le idee di Sophie Passmann potrebbero essere una medicina per un partito malato come la Spd. Femminista, 25 anni, autrice di un libro che sta per uscire, Alte weisse Männer (Vecchi uomini bianchi), è cresciuta vincendo i «Poetry Slam», le gare di poesia in cui il c oncorrente recita quasi come un rapper i propri versi. Non sono molti quelli che, come lei, cercano di innovare una linea politica immersa nel passato e per di più logorata dalle coalizioni guidate vampirescamente da Angela Merkel. E sono in tanti, naturalmente, a chiederle perché mai abbia deciso di prendere la tessera socialdemocratica e non per esempio quella dei Verdi. Le risposte girano intorno a concetti giusti, come la «solidarietà» e il bisogno di «una società unita». Ma che ci siano anche molte cose da cambiare è altrettanto chiaro.
Laureata in scienze politiche a Friburgo, autrice e conduttrice radiofonica, Sophie ritiene che la «nuova classe operaia» sia «il precariato digitale» . «Sono quelli — ha detto a Der Spiegel — che passano da uno stage all’altro, da un contratto temporaneo all’altro, che non si possono permettere un appartamento e vivono a 35 anni in un’abitazione in comune mentre i loro genitori alla stessa età avevano già acquistato la propria casa. Conosco tanta gente così, a cui la Spd non offre niente». In effetti i socialdemocratici hanno perso il contatto con le nuove generazioni e rischiano addirittura di piazzarsi al quarto posto nelle prossime elezioni. Alle loro manifestazioni si vedono soprattutto pensionat i .
In un articolo per il magazine di Die Zeit Sophie Passmann ha scritto che una delle sue passioni è la pallamano, lo sport che è un po’ una via di mezzo tra calcio e basket. Lo ha fatto con intelligenza, tanto è vero che sul giornale dei socialdemocratici, Vorwärts , Jonas Jordan ha proposto qualche giorno dopo la migliore formazione socialdemocratica per primeggiare in questa disciplina antica: in porta, per «difenderla dagli avversari» la presidente del partito Andrea Nahles. Non sarà d’accordo l’ex cancelliere Gerhard Schröder, che ha accusato l’ex ministra del Lavoro di compiere «errori da dilettanti». Più che sette giocatori, alla Spd serve un allenatore. E qualche giovane in più .
Corriere 9.2.19
La Brexit
Brexit, italiani (ed europei) esclusi dal voto
di L. Ip.


Londra C’è un’altra conseguenza sgradita della Brexit: gli italiani residenti in Gran Bretagna perderanno il diritto di voto alle prossime elezioni europee. E questo non per una decisione del governo di Londra, ma perché la Gran Bretagna non farà più parte della Ue e dunque neppure chi vi risiede. «Se il 29 marzo il Regno Unito uscirà dall’Unione — spiega Luigi Vignali, direttore generale alla Farnesina per gli italiani all’estero — diventerà un Paese terzo: e come avviene per esempio in Svizzera o in Norvegia, gli italiani residenti in un Paese extra Ue non possono votare per il Parlamento europeo». Certo, se ci sarà una proroga della Brexit, come appare possibile, il diritto di voto sarà garantito e il nostro consolato di Londra si sta attrezzando all’eventualità: ma se tutto viene confermato, gli italiani di Gran Bretagna saranno esclusi dal voto.
Non tutti però sono rassegnati. Il gruppo londinese di «+Europa» ha inviato un appello al Viminale chiedendo che sia rispettato quello che definiscono un «diritto acquisito»: perché se è vero che neanche i residenti in Svizzera votano, è anche vero che non lo hanno mai fatto, mentre chi è residente in Gran Bretagna ha potuto farlo fino a oggi.
E inoltre i numeri sono significativi: in Gran Bretagna gli italiani registrati sono circa 330 mila, dunque escluderli dal voto significa tagliar via una fetta non irrilevante del corpo elettorale.
Ma non è questo l’unico cruccio. Ha trovato gli italiani «preoccupati», racconta il sottosegretario agli Esteri Ricardo Merlo, che ha incontrato ieri la comunità di connazionali a Londra: perché «sentono una grande incertezza» a causa della Brexit. Lo scenario che inquieta è quello del no deal, una uscita di Londra dalla Ue senza accordi: saranno garantiti i diritti degli europei? Da parte britannica c’è «buona volontà», spiega Merlo, ma tutto «dipenderà dalle dinamiche politiche interne a Londra»: dunque «ci prepariamo per qualsiasi situazione». Con l’idea sullo sfondo di un accordo bilaterale Roma-Londra per garantire cittadini, dogane, trasporti e sicurezza: «Bisogna prepararsi ad atti straordinari».
il manifesto 9.2.19
L’invasione brutale del senso comune
Scaffale. «La Lega di Salvini», di Passarelli e Tuorlo, per il Mulino. Come è nato un nuovo partito di estrema destra. «La crescente importanza della questione immigrazione nella retorica politica leghista - spiegano gli autori - è forse la dimensione che più di altre aiuta a cogliere questa trasformazione»
di Guido Caldiron


Il politologo olandese Cas Mudde, uno dei maggiori studiosi internazionali delle «nuove destre», a proposito del voto europeo del maggio prossimo ha recentemente fatto osservare dalle colonne del Guardian che potrebbe trattarsi con ogni probabilità di «un’elezione spartiacque per i populisti di destra», passati già in molti paesi dall’agitazione anti-establishment alle pratiche di governo e che si accingono ora, nelle loro intenzioni, a ripetere l’operazione sul piano continentale.
Mudde, da alcuni anni docente dell’Università della Georgia, che ha seguito l’evoluzione e le trasformazioni del radicalismo nero fino alla comparsa degli attuali movimenti «nazional-populisti» – sua la definizione del populismo come «una risposta democratica illiberale al liberismo antidemocratico» -, non ha dubbi nell’iscrivere, in questa prospettiva, la Lega tra i rappresentanti della più «classica» ideologia del radicalismo di destra contemporaneo, centrata in particolare sull’opposizione alla presenza degli immigrati, anche se considera, ancora, Salvini più come «un seguace che un leader», nel senso che, a suo giudizio, sta soprattutto «seguendo le orme di Le Pen, Putin, Orbán e Trump».
PER CHI È COSTRETTO però ad osservare da posizione più ravvicinata le gesta del leader leghista, nonché vicepremier e ministro degli Interni, l’interrogativo più urgente non riguarda tanto il possibile approdo della sua strategia, nel lungo come nel breve tempo, quanto piuttosto il percorso che lo ha condotto fin qui. Questo perché l’evidente ascesa politica di Salvini e la costante crescita del brand della Lega, ci parla di cosa si agita nel profondo della società italiana in questi anni di crisi e inquietudine.
Un’importante risposta a questi interrogativi arriva dall’indagine pubblicata per il Mulino da Gianluca Passarelli e Dario Tuorlo con il titolo di La Lega di Salvini (pp. 170, euro 15,00) che, sulla scorta di un lavoro che i due studiosi hanno condotto lungo l’ultimo decennio, esamina le radici e l’orizzonte di quella che non si esita a definire come «estrema destra di governo».
LA PRIMA CONSIDERAZIONE che Passarelli e Tuorlo affidano ai lettori riguarda infatti la necessità di «prendere sul serio», anche sul piano del portato ideolologico-politico, il «fenomeno» Salvini, dopo che per decenni si è teso a sottovalutare il leghismo, derubricando a semplici boutade le sortite razziste dei suoi esponenti o sottovalutando la carica di novità, anche se in negativo, della sua proposta politica, ridotta, di volta in volta, a «nuova balena bianca» e «costola della sinistra».
Se sull’internità, fin dal suo apparire, della Lega a quella categoria di «nuova destra post-industriale», non più erede del Novecento, definita a suo tempo tra gli altri dal politologo Piero Ignazi, non si dovrebbe ormai più dubitare, restano da definire le coordinate del nuovo inquietante balzo in avanti.
È ALL’OMBRA DELLA CRISI economica e sociale, suggeriscono Passarelli e Tuorlo che, per alcuni versi in continuità con il suo recente passato per altri con una evidente trasformazione e accelerazione, la Lega è divenuta un partito di estrema destra. «La crescente importanza della questione immigrazione nella retorica politica leghista è forse la dimensione che più di altre aiuta a cogliere questa trasformazione», spiegano i due autori. La forma assunta da questa strategia si è quindi basata essenzialmente sulla costruzione di «un rapporto perverso tra opinione pubblica, sempre più preoccupata delle nuove presenze non italiane, e mondo leghista, che ha saputo alimentarsi di questo clima, ma anche contribuire ad accenderlo per monopolizzarlo o orientarne le rappresentazioni prevalenti tra l’elettorato, ora enfatizzando il pericolo economico, ora concentrandosi su quegli aspetti più connotati sul piano simbolico».
Conseguentemente, nella nuova versione della Lega definita da Salvini l’indipendentismo ha potuto lasciare il passo, non senza frizioni interne, al sovranismo e ai temi classici della destra nazionalista: dal «no» all’immigrazione e alla mondializzazione, fino all’euroscetticismo e al rigetto dell’«idea stessa di democrazia pluralista sostenuta dal pensiero liberale». L’evocazione della «comunità identitaria» e della chiusura verso l’esterno da una dimensione, per così dire «pedemontana», sono state trasferite all’intera realtà nazionale, fino ad indicare, anche in termini elettorali, una progressiva espansione del movimento verso il centro e il sud del paese.
Ne La Lega di Salvini, che dà conto di come questa progressiva ridefinizione ideologica si sia compiuta anche all’interno della macchina organizzativa e tra gli elettori del movimento, si evidenzia infine come questo fenomeno sia «sintomo e causa, allo stesso tempo, di una parte delle difficoltà e incertezze che affliggono il Paese. Manifesta una febbre latente e acuisce dolori sociali lancinanti». Una sfida cui rispondere perciò sul piano politico come su quello sociale.
Il Fatto 9.2.19
I pm: “Alemanno va condannato a 5 anni, era l’uomo politico di riferimento di Mafia Capitale”


“Condannare Gianni Alemanno, a cinque anni di carcere”. É la richiesta dei magistrati capitolini nel processo in cui è imputato l’ex sindaco di Roma per corruzione e finanziamento illecito. Si tratta di uno dei filoni nati dall’inchiesta denominata Mafia Capitale. Inizialmente l’ex sindaco era accusato anche di associazione mafiosa, ma è stato definitivamente scagionato: la sua posizione è stata archiviata. Sta invece affrontando un processo perché, secondo l’accusa, tra il 2012 e il 2014 avrebbe ricevuto oltre 220 mila euro per compiere atti contrari ai doveri d’ufficio. I soldi, in base all’impianto accusatorio, sarebbero giunti da Salvatore Buzzi in accordo con Massimo Carminati (entrambi sono stati condannati in Appello per associazione mafiosa) e sarebbero stati versati alla fondazione Nuova Italia, presieduta proprio da Alemanno. Nel corso della requisitoria, durata circa 6 ore, il pm Luca Tescaroli ha affermato che l’ex primo cittadino è stato “l’uomo politico di riferimento dell’organizzazione Mafia Capitale all’interno dell’amministrazione comunale, soprattutto, in ragione del suo ruolo apicale di sindaco. Inserito al vertice del meccanismo corruttivo – ha detto Tescaroli – ha esercitato i propri poteri e funzioni illecitamente e curato la raccolta delle correlate indebite utilità, prevalentemente tramite terzi propri fiduciari per schermare la propria persona. Gli uomini di fiducia, indagati e alcuni anche condannati in Mafia Capitale, sono stati proiezione della persona di Alemanno, che ha impiegato per la gestione del proprio potere”.
Secondo l’accusa, quindi, Alemanno ha sostanzialmente “venduto” la sua funzione anche con l’ausilio “del fidato Franco Panzironi, parimenti corrotto”, al “sodalizio criminale Mafia Capitale” che “è riuscito a ottenere il controllo del territorio istituzionale di Ama spa, società presieduta dal Comune di Roma”. Il pm ha, nel dettaglio, chiesto 4 anni e mezzo per corruzione e 6 mesi per finanziamento illecito, più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre che la confisca di 223.500 euro, l’equivalente del prezzo della corruzione.
La Stampa 9.2.19
Processo Cucchi, il carabiniere: scrissi la nota sotto dettatura
di Edoardo Izzo


Sono passati nove anni dalla morte di Stefano Cucchi, ma la vicenda non è affatto chiusa. Ieri pomeriggio è toccato al maresciallo dei carabinieri, Davide Antonio Speranza, salire sul banco dei testimoni. Un’audizione ricca di significato: il giovane militare è colui che aveva firmato due atti contenenti l’indicazione delle condizioni di salute di Cucchi a seguito dell’arresto, avvenuto il 16 ottobre 2009, per questioni di droga. La prima annotazione, nonostante risultasse datata nel giorno della morte di Stefano, come raccontato ieri in aula da Speranza, «fu redatta dopo la sua morte e retrodatata perché pensai che si trattasse di un atto che avrei dovuto redigere alla fine del servizio».
L’accusa di calunnia e falso
Ancora più grave quanto accaduto in occasione della seconda annotazione, scritta il 27 ottobre 2009, che, ha spiegato ancora il testimone, fu «dettata dal maresciallo Mandolini» ossia uno dei militari imputati. Al sottufficiale dell’Arma vengono contestati i reati di calunnia e falso. Proprio Mandolini, infatti, «quando lesse la prima annotazione, disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla, ma non lo feci».
Due atti diametralmente opposti, con il primo che affermava che «Cucchi era in stato di escandescenza» e il secondo in cui si leggeva che il geometra romano «non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza in merito». Del fatto che le due annotazioni fossero diverse e che la seconda era stata fatta sotto dettatura - cosa non menzionata né davanti al pm Vincenzo Barba (rappresentante dell’accusa nel primo processo) né in Corte d’Assise nel primo dibattimento - Speranza ha sostenuto che fu «perché ho ritenuto fosse irrilevante. Adesso che è uscito tutto sui giornali, ci ho pensato su». Nell’udienza del processo a carico di cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati ascoltati anche il capo della Squadra Mobile di Roma, Luigi Silipo, e Carlo Masciocchi, professore ordinario di Radiologia dell’Università dell’Aquila e nel 2015 consulente della difesa Cucchi. Masciocchi, ex presidente della Società italiana di Radiologia Medica, incalzato dal pm Giovanni Musarò, ha ribadito che sul corpo del giovane «sicuramente c’erano due fratture vertebrali» a livello lombo-sacrale, entrambe «recenti» e «contemporanee». Nell’altro filone di indagine, quello sui «depistaggi», è indagato il generale Alessandro Casarsa. All’ufficiale è contestato il reato di falso.
Il Fatto 9.2.19
“Ho cambiato io l’annotazione sulla salute di Cucchi: me l’ha dettata il maresciallo Mandolini”
di A.Masc.


Il depistaggio per coprire i carabinieri che, secondo la Procura, dopo l’arresto di Stefano Cucchi lo picchiarono, viene confermato anche nell’udienza di ieri al processo per la morte del giovane, avvenuta il 22 ottobre 2009, a Roma. Il maresciallo Davide Antonio Speranza ha confermato di aver firmato una nota del 27 ottobre 2009, suggerita dal maresciallo Mandolini, imputato per falso e calunnia: “Ho cambiato l’annotazione di servizio sulle condizioni di salute di Cucchi, dopo l’arresto, riscrivendola sotto dettatura del maresciallo Mandolini”. Quella nota fu firmata anche dal collega Nicolardi, imputato come Mandolini. La prima nota, scritta veramente da Speranza e firmata solo da lui, faceva capire che il ragazzo non stava bene: “Alle 5.25 la Centrale operativa ci ordinava di andare in ausilio al militare di servizio alla Stazione di Tor Sapienza in quanto Cucchi era in stato di escandescenza”; nella seconda invece si legge che “durante l’accompagnamento non lamentava nessun malore”. Mandolini, secondo Speranza, gli disse di cestinare la prima nota, ma non lo fece e così oggi diventa una prova importante per l’accusa.
il manifesto 9.2.19
Cucchi, «esami sbagliati» e «telefonate sparite»
Processo bis. Masciocchi: «Dal corpo sezionata e analizzata parte di colonna sana, senza lesioni»
di Eleonora Martini


Un «unico evento» traumatico recente – «verificatosi entro 7-15 giorni dalla morte» – e molto importante, «non riconducibile cioè ad una semplice caduta», sarebbe la causa delle due fratture vertebrali riscontrate sul corpo di Stefano Cucchi. Fratture – della vertebra sacrale S4 e della parte superiore della vertebra lombare L3 (soma, quest’ultimo, che, nella parte opposta, presentava gli “esiti cicatriziali” di una vecchia frattura ormai rinsaldata) – riscontrate perfino dalle lastre effettuate all’ospedale Fatebenefratelli dove venne visitato il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto al Pertini una settimana dopo, ma non dai consulenti e dai periti medico legali durante il primo processo.
A confermarlo ieri in udienza davanti alla I Corte d’Assise di Roma è stato Carlo Masciocchi, tra le altre cose professore ordinario di radiologia dell’Università dell’Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica, che ha spiegato a fondo su quali evidenze scientifiche si basa il suo giudizio.
Nel giugno 2015, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi, Masciocchi studiò l’Rx del Fatebenefratelli fornito in formato jpeg e le immagini Tac total body eseguita sul cadavere il 23 novembre 2009, arrivando a concludere ciò che poi, nel corso del processo bis, è stato confermato dagli stessi carabinieri “pentiti”: ossia che Stefano aveva subito un forte trauma che gli aveva spezzato la schiena.
Ma c’è soprattutto un particolare davvero inquietante che è stato confermato dal luminare di radiologia durante l’interrogatorio del pm Giovanni Musarò: nel corso del primo processo Cucchi (non ancora conclusosi) che vede alla sbarra cinque medici del Pertini, i consulenti medico legali del pm Vincenzo Barba (i professori Tancredi, Arbarello, Carella e Cipolloni), che hanno sostenuto la presenza una sola frattura vertebrale e di vecchia data, lo hanno fatto sulla base di una Risonanza magnetica effettuata sul cadavere riesumato circa 40 giorni dopo la morte (esame che, secondo Masciocchi, non può rivelare nulla su un corpo senza vita e per di più eviscerato, perché si basa sulla rilevazione dell’attività vitale dei tessuti molli).
Mentre il collegio peritale nominato allora dalla III Corte d’Assise di Roma (Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla e Luigi Barana: tra loro nessun radiologo) arrivarono alla stessa conclusione dopo aver effettuato una Cone Beam (sorta di panoramica sofisticata usata dai dentisti) «su un tratto di colonna vertebrale sezionato e prelevato dal cadavere che comprendeva le vertebre L5, L4 e la parte inferiore della L3, ossia quella dove non c’era la frattura». Nessuno dei consulente risulta indagato, ma la scoperta ha lasciato di stucco anche il pm Musarò che ha aperto un fascicolo integrativo al processo bis riguardante il depistaggio.
Ed è proprio in questo ambito che si può inscrivere la deposizione del maresciallo Davide Antonio Speranza, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Quadraro. Dopo la morte del giovane, gli venne chiesto di redigere un’annotazione che poi gli venne corretta. «Scrissi la seconda sotto dettatura diretta del maresciallo Mandolini (tra gli imputati, ndr)», ha raccontato ieri riferendo di essere stato poi ascoltato nei giorni successivi anche dal comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali. Ultimo particolare, riferito in aula dal capo della Squadra mobile, Luigi Silipo: i Cd con le registrazioni e i tabulati delle conversazioni non trascritte del 2009, le prime dopo la morte di Cucchi, non si trovano più. «Che fine abbiano fatto – ha detto Silipo – non lo so».
Corriere 9.2.19
I criteri per valutare la condotta del ministro
Caso Diciotti
Il Senato si esprimerà sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini:dovrà vagliare anche questioni di ordine giuridico, non solo politico
di Valerio Onida

Presidente emerito della Corte Costituzionale

Il voto che il Senato si accinge ad esprimere sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini coinvolge valutazioni di ordine politico ma anche di ordine giuridico-costituzionale. L’autorizzazione è richiesta dall’art. 96 della Costituzione per poter procedere nei confronti dei ministri per reati «commessi nell’esercizio delle loro funzioni». Nel caso specifico, non vi è dubbio che le condotte per le quali il Tribunale dei Ministri ha ritenuto di dover chiedere l’autorizzazione a procedere, ritenendo che esse possano configurare reati come il sequestro di persona, abbiano tale qualificazione.
La legge costituzionale, come è noto, prevede che la Camera competente possa, con delibera a maggioranza assoluta, negare l’autorizzazione solo «ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». La valutazione della assemblea non concerne quindi la fondatezza o meno dell’accusa (e di riflesso l’eventuale «fumus persecutionis», cioè il sospetto di un’accusa artificiosamente sollevata, che si ravvisi nell’iniziativa della magistratura), ma esclusivamente la riconducibilità o meno della condotta addebitata al perseguimento da parte del ministro, nell’esercizio delle sue funzioni, di un interesse costituzionale dello Stato (per ipotesi, la sicurezza) o comunque di un interesse pubblico ritenuto in concreto «prevalente» sugli interessi lesi dal reato ipotizzato.
L’interesse pubblico
Se per realizzarlo si compromettessero valori superiori, tipo la vita, nessuno lo accetterebbe
È una valutazione schiettamente politica, secondo cui il fatto, ancorché in sé costituente reato secondo la legge, non debba essere perseguito. Non si tratta tanto di una vera e propria «immunità», cioè della sottrazione a priori agli organi giurisdizionali del potere-dovere di perseguire e punire i reati commessi dai titolari di certe cariche pubbliche, come avveniva per le immunità parlamentari di antica tradizione, previste anche dalla nostra Costituzione fino alla riforma del 1993, e miranti a tutelare il libero esercizio della funzione parlamentare; o come ancor oggi avviene per il Presidente della Repubblica, che per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni «non è responsabile», tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. Qui è affidata in esclusiva alla assemblea parlamentare una valutazione per cui, anche se il fatto in sé costituisca reato, essa ritenga l’agire del ministro giustificato dalla prevalenza dell’interesse pubblico, e quindi lo sottragga alle normali conseguenze processuali e sanzionatorie.
L’agente segreto
Può essere autorizzato a commettere reati per finalità istituzionali ma non a uccidere
Si tratta di qualcosa di analogo alle «garanzie funzionali» che assistono, ad esempio, gli appartenenti ai servizi segreti, che possono essere autorizzati dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dall’autorità delegata a compiere atti costituenti reato, quando questi vengano ritenuti «indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi». Il reato dunque c’è, anzi in questi casi è espressamente voluto e autorizzato, ma non è punibile perché sussiste una «causa di giustificazione», analoga allo stato di necessità o all’esercizio di un diritto o all’adempimento di un dovere, che secondo il codice penale costituiscono cause di non punibilità di condotte di per sé integranti ipotesi di reato. Ma — attenzione — una siffatta autorizzazione non può concernere qualsiasi condotta delittuosa. La nostra legge (art. 17 della legge n. 124 del 2007) stabilisce che l’autorizzazione non può essere data «se la condotta prevista dalla legge come reato configura delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone». Così, per esempio, l’agente dei servizi può essere autorizzato a commettere un furto, o un falso, ritenuto necessario per il conseguimento delle finalità istituzionali, ma non a uccidere o a torturare. Inoltre deve trattarsi di condotte «indispensabili e proporzionate al conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili», costituenti «frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti», ed «effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi».Nel caso dei reati ministeriali non si tracciano espressamente limiti di questa natura, e la valutazione è rimessa al Parlamento anziché alla magistratura. Ma questa valutazione non può non essere basata su analoghi criteri di comparazione di interessi e di proporzionalità. Non sarebbe pensabile che la «preminenza» dell’interesse dello Stato o dell’interesse pubblico valga anche quando siano compromessi interessi di «valore costituzionale» superiore, come la vita o l’incolumità delle persone. Così, nessuno potrebbe pensare di giustificare la condotta di un ministro il quale, per perseguire l’interesse pubblico alla protezione dei confini dello Stato da ingressi non autorizzati, ordinasse di uccidere o di ferire. Nel caso concreto, dunque, non solo la valutazione rimessa all’assemblea dovrebbe essere compiuta individuando l’interesse pubblico perseguito dal ministro: e nella specie non è difficile supporre che i parlamentari che sostengono il Governo possano ritenere che il ministro abbia agito in vista di un siffatto interesse, mentre i parlamentari dell’opposizione potrebbero naturalmente esprimere una valutazione politica opposta, ritenendo che l’interesse pubblico avrebbe dovuto condurre a una condotta diversa. Ma in ogni caso, ai fini del giudizio di «preminenza» dell’interesse pubblico, anche il Senato non dovrebbe omettere di valutare (come ha osservato Luca Masera in «Questione Giustizia») se siano stati lesi interessi di per sé di «valore» superiore, anche dal punto di vista costituzionale, come quelli che si riconducono al rispetto di diritti umani fondamentali, e se siano stati rispettati criteri di proporzionalità.
Repubblica 9.2.19
Mappe Il sondaggio
Gli italiani e gli altri Paesi cresce la voglia di isolamento
Dopo le polemiche degli ultimi mesi aumenta il disagio verso la Francia
Il disincanto riguarda anche Usa e Germania. Sale, invece, la stima per la Russia
di Ilvo Diamanti


Gli orientamenti verso "il mondo" stanno cambiando. Insieme al mondo. All’Italia. E agli italiani.
L’avevamo già percepito e (di)mostrato nello scorso mese di luglio. Nell’Osservatorio dedicato alle "parole" del nostro tempo. Dunque: alle immagini del mondo. E dei principali Paesi con i quali "facciamo i conti". Già allora, in particolare, i francesi e il loro Presidente, Emmanuel Macron, erano "proiettati" in fondo alla graduatoria tracciata dagli italiani, in base alla fiducia e alla prospettiva futura.
D’altronde si tratta di un ri-sentimento di lunga durata.
Tuttavia, le relazioni fra Italia e Francia non si erano ancora complicate, com’è avvenuto in seguito. Fino alla decisione di richiamare l’ambasciatore dall’Italia. Tuttavia, il distacco degli italiani nei confronti della Francia si era consumato ulteriormente. Lo evidenzia l’indagine di Demos (per Repubblica) sulla fiducia dei nostri connazionali verso alcuni Paesi stranieri. Condotta pochi giorni fa. Prima dello strappo di Macron. Eppure, la Francia appariva, appare, ancora più lontana. Nei suoi confronti, infatti, il 24% esprime(va) fiducia nei suoi riguardi. E solo il 2%: "moltissima". Come verso l’Ungheria. Meno della Cina e degli altri Paesi considerati. La Francia, dunque, è guardata con crescente disagio dagli italiani. Per ragioni che possiamo comprendere, viste le continue polemiche degli ultimi mesi. Su questioni rilevanti. Fra le altre, i flussi migratori e gli sbarchi. Un argomento sensibile soprattutto per Salvini e la sua Lega. Tuttavia, la (provoc)azione del governo di Macron, in questo caso, è dettata dalla missione-lampo di Luigi Di Maio in Francia per incontrare Christophe Chalençon e una rappresentanza dei Gilet Gialli.
Sconfessata dai loro stessi capi.
La re-azione francese appare, dunque, inevitabile. Come ha chiarito Lucio Caracciolo ieri, su queste pagine. Perché il primo e principale bersaglio dei Gilet Gialli è proprio Macron.
Difficile che gli stessi leader del M5S non ne fossero consapevoli. Si tratterebbe, allora, di una "rottura" premeditata. Per allargare i consensi del partito, erosi pesantemente dalla Lega.
D’altronde, le elezioni europee si avvicinano. Aprire un "fronte europeo" può essere utile.
Anche in Italia. Per sfruttare il ri-sentimento degli italiani verso i francesi. Visto che, in Italia, il grado di fiducia verso la Francia, negli ultimi 5 anni, è sceso di 17 punti. Nel 2014, infatti, era il 41%. Non proprio il doppio. Ma quasi… Tuttavia, il dis-incanto verso gli altri (Paesi) non riguarda solo la Francia, ma tutte le nazioni considerate. A partire dagli Usa di Trump. Nel 2014, infatti, la stima nei loro riguardi era prossima al 60%. Oggi è scesa di 20 punti. Più della Francia. Ma è calata, di poco, anche la fiducia verso la Cina. Oggi alla pari della Francia. Perfino l’immagine della Germania è in declino. Pur confermandosi il Paese più "stimato" dagli italiani. Unica eccezione, in questo scenario grigio, permeato dalla diffidenza: la Russia di Putin. Oggi è percepita con fiducia dal 27% dei cittadini: 11 punti in più rispetto a 5 anni fa.
Tuttavia, lo sguardo della società verso il mondo intorno a noi è segnato da differenze profonde. Riflettono, anzitutto, le preferenze politiche. Che negli ultimi anni, soprattutto nell’ultimo anno, sono cambiate. In modo sostanziale.
La sfiducia verso la Francia: è sospinta dagli elettori della Lega. Assecondata dalla base del M5S. Come si osserva in relazione agli Usa di Trump e alla Russia di Putin. Apprezzati dagli elettori leghisti e del M5S in misura maggiore rispetto agli altri. La base delle Lega, in particolare, si distingue per una vocazione "sovranista", che associa Trump, Putin e Orbán.
Assecondata e (in)seguita dal popolo a 5S. Sul fronte opposto, orgogliosamente "diversi", incontriamo gli elettori del Pd (insieme a quelli di sinistra, immaginiamo). Più vicini alla Francia e, ancora più, alla Germania. Molto meno all’America di Trump, alla Russia di Putin. E all’Ungheria di Orbán. Questa diversità, in parte, ne spiega il declino. In tempi di populismo sovranista.
Semmai, è interessante considerare l’orientamento degli elettori di Fi. Simili a quelli della Lega. Gli elettori di Fi sono vicini all’Ungheria. E agli Usa. Ma, soprattutto, della Russia di Putin. Amico personale del Capo.
Insomma, il nostro Paese appare lontano dalla Francia.
Oggi, probabilmente, più di ieri. Ma il distacco cresce anche in altre direzioni. La solitudine sembra piacere a questa Italia.
Separata dagli "altri" non solo dal mare. Ma anche dalle Alpi.
Così guarda ad Est. E oltre oceano. Molto meno all’Europa. D’altronde, questo pare il segno dei tempi. La sfiducia. Verso gli altri. Ma anche verso noi stessi.
Corriere 9.2.19
Incerti e astenuti al 42,5: primo partito alle Europee
Lega in testa alle intenzioni di voto (34,4). Cresce FI (8,1)
Penalizzati 5 Stelle e Pd
di Nando Pagnoncelli


Lo scenario politico, a meno di quattro mesi dalle elezioni europee, fa segnare qualche variazione rispetto a metà gennaio. La Lega si conferma al primo posto con il 34,4% delle preferenze, ma risulta in flessione di 1,4%; segue il M5, stabile al 25,4%, quindi il Pd con il 16,1% (in calo di 0,8%) e Forza Italia con l’8,1% (in crescita di un punto). A seguire due liste prossime alla soglia di sbarramento: +Europa al 4,2% e Fratelli d’Italia al 3,6%. Le restanti forze politiche oggi sembrano molto distanti dalla possibilità di entrare nel prossimo Parlamento.
L’area dell’astensione e dell’indecisione si mantiene elevata (42,5%), secondo la tradizione delle consultazioni europee. Tenuto conto della contrapposizione tra europeisti e forze sovraniste ci saremmo potuti aspettare una maggiore mobilitazione, ma finora il dibattito è rimasto prevalentemente circoscritto a due soli temi, peraltro fortemente divisivi: conti pubblici e immigrazione. Forse per rinvigorire l’interesse per l’Europa sarebbe necessario parlare anche d’altro. Al momento invece sembra riproporsi il solito copione che attribuisce alle Europee un significato politico nazionale, la classica misurazione del consenso per il governo e la verifica dei rapporti di forza tra i partiti, con le relative ripercussioni nella maggioranza e tra questa e l’opposizione.
L’area grigia dell’astensione e dell’indecisione si conferma quindi «il principale partito», e in teoria rappresenta il principale bacino a cui le forze politiche possono attingere per aumentare il proprio consenso. Appare pertanto interessante conoscere i segmenti sociali tra cui sono più diffuse l’intenzione di disertare le urne e l’incertezza. Il sondaggio odierno fa registrare valori più elevati tra le donne (48%), tra i giovani di 18-30 anni (51%), nelle regioni del Centrosud e delle Isole (46%), tra le casalinghe (51%), gli studenti (51%), i disoccupati (47%) e gli operai (46%), tra coloro che si dichiarano poco interessati alla politica (65%), non si collocano in nessuna area (67%) e, riguardo alle abitudini di informazione, tra i cittadini che utilizzano esclusivamente la tv (52%). Insomma, la disaffezione è più diffusa tra i ceti più popolari e tra le persone più in difficoltà, dunque più sfiduciate, sebbene le differenze rispetto al passato si siano ridotte. Basti pensare che tra i laureati il 42% appartiene all’«area grigia», tra le classi dirigenti il 33% e tra gli impiegati il 41%. Il dato più sorprendente è tuttavia costituito dall’elevata propensione ad astenersi da parte dei giovani e degli studenti, tra i quali, peraltro, si registra il più elevato tasso di fiducia nell’Europa.
Ad oggi l’astensione penalizza maggiormente Pd e M5S che perdono uno su quattro degli elettori del 4 marzo scorso. Nonostante la recente flessione nei consensi il partito di Salvini sembra poter contare su un elettorato più galvanizzato, infatti solo il 7% dei leghisti intende astenersi. Tra gli elettori di Forza Italia l’area grigia si attesta al 14%, ma non va dimenticato che il partito di Berlusconi aveva già subito una forte emorragia di elettori a favore della Lega.
Dunque, l’Europa rimane sullo sfondo e non sembra scaldare i cuori. Poco più di un terzo degli italiani (36%) dichiara di avere fiducia nell’Unione europea e tra costoro il 12% è rappresentato da euro-entusiasti e il 24% da euro-tiepidi, mentre il 55% dichiara di non avere fiducia o di averne poca. L’indice aumenta di un punto passando dal 38 dello scorso ottobre al 39 odierno.
La fiducia prevale solo tra gli studenti (51%), tra gli elettori di centrosinistra (74%) e tra coloro che si informano prevalentemente con i giornali (52%). Tra tutti gli altri prevale la sfiducia e la disillusione che tuttavia, come più volte ricordato, non si traducono nella volontà di uscire dall’Ue o di ritornare alla lira. È quindi probabile che la campagna elettorale, che non è ancora entrata nel vivo, sarà giocata ancora una volta in una prospettiva quasi esclusivamente nazionale. Sarebbe peraltro inimmaginabile in poche settimane proporre idee nuove sull’Europa e prefigurare il ruolo futuro dell’Italia, dato che non sono nemmeno chiare quali saranno le famiglie europee nelle quali approderanno le forze politiche della maggioranza e quale peso potranno avere nel prossimo scenario. Se così fosse, sarebbe l’ennesima occasione perduta.
Repubblica 9.2.19
Lettera da Parigi
Che ci importa degli italiens
di Philippe Ridet

di ”Le Monde". È stato corrispondente a Roma dal 2008 al 2016 Ha scritto "L’Italie Rome et moi" (Flammarion, 2013)

Cari amici italiani, comincio dichiarandovi tutta la mia simpatia. Però vi devo fare una confidenza: il french bashing a cui si dedicano senza posa Matteo Salvini e Luigi Di Maio lascia i francesi impassibili. Potete accusarli, loro e il loro presidente, di tutti i mali ( aver rovinato l’Africa, aver chiuso i porti e le frontiere ai migranti, aver rubato la Gioconda, aver impedito l’acquisto dei cantieri navali dell’Atlantico, aver messo sottosopra la Libia), ma loro ignorano le invettive e continuano a ingozzarsi di pasta. In questo momento stanno scoprendo la burrata, dopo essersi gustati il parmigiano. Sanno distinguere tra l’Umbria e la Toscana. Stanno già consultando i cataloghi per affittare una casa in Puglia quest’estate.
Se volessi riassumere lo stato d’animo dei miei compatrioti in una sola immagine, direi questo: i francesi se ne infischiano del vostro risentimento più o meno quanto a voi lasciano indifferenti le sconfitte della nazionale francese di rugby. Capite cosa voglio dire?
A questo punto le soluzioni sono due: o siamo noi che diamo prova ancora una volta di quella " puzza sotto al naso", di quello sguardo sprezzante, altezzoso e dominatore che gettiamo su ogni cosa che non sia noi stessi, dall’alto della nostra grandeur. Oppure siete voi che esagerate in maniera del tutto sconsiderata la portata delle vostre rodomontate. Quindi Di Maio avrebbe preso un aereo di nascosto per andare a incontrare dei Gilet gialli, come un bambino che fa sega a scuola per giocare alla Playstation con i suoi amici? Io lo compatirei piuttosto per aver dovuto passare un pomeriggio di inverno nel Loiret, una provincia un po’ triste a sud di Parigi. Forse è per questo che si è portato dietro Alessandro Di Battista. Per non annoiarsi.
Certo, la televisione e i giornali fanno grandi titoli sulla "crisi senza precedenti tra la Francia e l’Italia". Gli animi si scaldano, ai vertici. Richiami dell’ambasciatore, convocazioni, dichiarazioni indignate. Ma vi assicuro che nella strada, nel metrò, nessuno ha la minima idea delle ragioni che hanno spinto Roma e Parigi a saltarsi alla gola. Ecco, ieri ho pranzato in un ristorante italiano: solo la presenza della panna negli spaghetti alla carbonara avrebbe giustificato una dichiarazione di guerra.
Per placare gli animi, Luigi Di Maio ha dovuto arrampicarsi sugli specchi e pubblicare una lettera su Le Monde in cui rende omaggio alla " tradizione democratica millenaria della Francia e del suo popolo". Mi scusi, signor vicepresidente del Consiglio, ma lei dov’era durante le lezioni di Storia a scuola? La monarchia assoluta di Luigi XIV non le dice niente? E i sans- culottes hanno forse inventato i diritti dell’uomo?
Nessuno morirà in questa querelle, salvo che di ridicolo. E per il momento, siete voi che state perdendo la partita. Mi dicono che in realtà i Cinquestelle e la Lega stanno facendo a gara a chi è più antifrancese perché hanno nel mirino le elezioni europee, che decideranno i rapporti di forza in seno alla coalizione. Se posso permettermi un consiglio, disputate la partita sul vostro campo, senza spedire il pallone dall’altro lato della frontiera. Noi non sappiamo che farcene. È risaputo, i francesi non sanno giocare a calcio.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
La Stampa 9.2.19
“Mettete il tricolore francese alle finestre”
La rivolta delle bandiere parte dal Nord-Ovest
Si moltiplicano i gesti di appoggio a Parigi
L’appello del rettore di Torino: “Riempiamo la città di stendardi”
di Federico Callegaro e Lodovico Poletto


Il sindaco di Imperia, l’ex ministro Claudio Scajola ieri ha atteso il crepuscolo e poi ha illuminato la facciata del suo municipio con luci blu, bianche e rosse. Quelle del tricolore francese. Il rettore dell’ateneo di Torino, Gianmaria Ajani, invece, ha fatto mettere la bandiera della République sulla facciata del rettorato, accanto a quella italiana, già in mattinata. Quando dice: «Se dovessi fare un appello potrei dire che mi piacerebbe vedere Torino con mille vessilli francesi appesi alle finestre». Il sindaco di Cuneo, invece, la sua protesta l’aveva già inscenata giovedì, ma poi è intervenuta la prefettura e lo stendardo è stato tolto da fuori e sistemato all’interno. Visibile, ovviamente. Ma un po’ meno. Santena, diecimila abitanti in provincia di Torino, paese natale del conte Camillo Benso la bandiera, invece, l’ha lasciata. E con orgoglio, rivendicando una scelta che ha ragioni antiche: gli accordi di Plombières, tra piemontesi e francesi: anno 1858. Con il conte di Cavour da una parte e l’imperatore Napoleone III, per sconfiggere gli austriaci.
Era dei tempi dell’attento a Charlie Hebdo che non c’erano così tanti tricolore d’oltralpe in giro. E forse non è neanche un caso se proprio da qui, da Piemonte e Liguria, adesso arrivino testimonianze di vicinanza tra i due popoli. Perché, a ben guardare, Piemonte e Liguria sono entrambe terre di confine e di commistione. Di migrazioni e tradizioni contaminate, di dialetti che s’intrecciano con le lingue dei Paesi confinanti. Lo spiega bene Scajola quando dice che Imperia ha più di 5 mila frontalieri che vanno ogni giorno a lavorare tra Mentone e Nizza. O quando insiste sul fatto che queste sono terre amiche, oltre che confinanti. Che si vive un po’ da una parte e dall’altra come se fosse un unico grande territorio. Lo ribadisce il rettore Ajani quando parla di «Rinnovato spirito europeo» e spiega che: «L’emigrazione italiana oltre confine è stata negli anni enorme». E che: «Molti nostri ragazzi sono cresciuti lì e altri ancora stanno studiando e si stanno formando in Francia. È evidente cioè quanto questo legame sia da mantenere ben saldo per entrambi i popoli». Scajola si scandalizza per ciò che è accaduto: «Le controversie si risolvono con confronto, linguaggio corretto e istituzionale». Ajani rincara la dose dicendo che: «La ricerca è libera dai confini. Posso fare l’esempio di Israele. I nostri atenei continuano una proficua collaborazione che non è mai stata scalfita dalle incertezze politiche o dalle tensioni che a volte si registrano in quell’area. Ci siamo sempre confrontati con tutti e abbiamo sempre puntato sulla condivisione dei saperi e non alla creazione di tensioni».
E allora ben vengano le bandiere se questo può contribuire ad abbassare il livello di tensione. Ben venga l’incontro tra il primo cittadini di Mentone quello di Imperia tra un paio di giorni. E intanto da Santena arriva la sentenza del sindaco Ugo Baldi: «L’Italia è un alleato storico di Parigi e uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea. I valori più profondi dell’Europa non possano essere messi in discussione». E allora ecco le bandiere.
La Stampa 9.2.19
Jacques Attali, “Si rischia una deriva come nel 1940”
“L’unica soluzione definitiva è un nuovo governo a Roma”
La querelle tra Parigi e Roma? «Non sta succedendo nulla fra l’Italia e la Francia. Succede solo qualcosa con il vostro governo, rivelatore di quella che è la dimensione nefasta del populismo in Europa».
intervista di L. Mar.


Ci va giù duro Jacques Attali, 75 anni, economista e pensatore. E consigliere dei potenti di Francia fin dai tempi di François Mitterrand, che se lo mise in un ufficio accanto al suo all’Eliseo.
Fu ancora Attali a «scoprire» un giovanissimo Emmanuel Macron, coinvolgendolo nella commissione di esperti che, sotto Nicolas Sarkozy, dette risposte «né di destra, né di sinistra» (macronismo ante litteram) per riportare la crescita nell’economia. Oggi Attali è tra i cosiddetti «visitatori serali» dell’Eliseo, consiglieri nell’ombra del giovane presidente.
Che lezione tira da quello che sta avvenendo tra Parigi e Roma?
«Gli insulti che questi signori lanciano contro la Francia sono eccellenti notizie pedagogiche. Mostrano a chi non l’avesse ancora capito la natura di questi movimenti, che ci riportano agli anni più neri dell’Italia e della Francia. Se continua così, tutto questo produrrà le stesse conseguenze».
In che senso?
«Bisogna ricordare cosa è successo in Italia tra gli Anni Venti e il 1945. E in Francia tra il 1940 e il ’44. E non bisogna sottovalutare quello che avviene oggi: è una lezione per chi fa fatica a capire la natura reale dei movimenti populisti».
Al di là di compromessi a breve, come si può superare definitivamente l’impasse tra i due Paesi?
«Un cambiamento di governo in Italia sarebbe la soluzione definitiva. Oppure quello attuale deve diventare responsabile. Sono molto rispettoso della democrazia e in particolare di quella italiana. E non voglio immischiarmi nelle vostre scelte politiche. Ma da un punto di vista francese, europeo e anche di tanti miei amici italiani, visto che il vostro governo dopo mesi e mesi non cambia atteggiamento, dovrebbe cambiare. Risolverebbe tutti i problemi».
Il populismo italiano ha radici particolari o è simile a quello di altri Paesi?
«C’è una tendenza alla ricerca di un governo autoritario, che si ritrova ovunque nel mondo: in Cina, in Indonesia, nel Brasile, negli Stati Uniti. E ha sempre portato i popoli che l’hanno privilegiata alla catastrofe, fortunatamente temporanea, perché a un certo momento ne sono usciti».
Parigi ha richiamato il suo ambasciatore a Roma dopo l’incontro di Luigi Di Maio con alcuni gilet gialli. Non le sembra comunque un po’ esagerato?
«Ma quello è stato solo un aneddoto, guardiamo al fondo delle cose. E al contesto europeo».
Cosa vuol dire?
«La Commissione ha appena bocciato l’alleanza nel campo ferroviario tra Alstom e Siemens, che voleva essere una risposta alla concorrenza cinese. E invece abbiamo così tanto bisogno di difenderci in un momento in cui gli Stati Uniti stanno abbandonando l’Europa. Gli europei dovrebbero capire che ci ritroviamo sempre più soli e dovremmo essere sempre più uniti. La presa di coscienza della solitudine europea sarebbe la risposta da dare alla querelle franco-italiana».
l. mar.
il manifesto 9.2.19
Parigi, non più cara
Crisi Italia-Francia. Un inquietante precedente storico. L’attacco alla Francia del 1940 fu chiamato dagli antifascisti «la pugnalata alla schiena». E una larga parte del mondo intellettuale, che alla cultura d’Oltralpe si era sempre ispirato, versò lacrime, almeno nel foro interiore: nessuno ebbe il coraggio di esporsi
di Angelo d'Orsi


Le prime pagine dei quotidiani di ieri 8, febbraio, dal Figaro a Le Monde, da Libération al cattolicissimo La Croix, sono tutte prese dalla «crisi diplomatica senza precedenti» tra Francia e Italia. Sono, «fortunatamente», a Parigi, e i colleghi francesi mi offrono scherzosamente «asilo politico». Sorrido, ma non troppo. Mi viene in mente quello che Alfassio Grimaldi e Bozzetti, in un libro del 1974, chiamarono «il giorno della follia», il 10 giugno 1940. L’Istituto Luce, realizzò poco dopo un vibrante montaggio del discorso del duce, di cui si consiglia la visione: mostra il duce in tenuta da comandante militare (non si sa di quale arma) con le mani alla cintola, la mascella più volitiva che mai, e la bocca feroce, che fa in pompa magna, il suo annuncio al «popolo» adunato sotto il balcone di Palazzo Venezia:
«Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano».
La Francia era in quel momento piegata: il repentino crollo delle difese davanti alla micidiale macchina da guerra germanica, finì per vincere le ultime esitazioni di Mussolini, fino ad allora incerto sull’ingresso nel conflitto, un passo a cui tuttavia l’alleanza con Hitler non lo obbligava avendo i tedeschi avviato nel settembre ’39 le ostilità senza consultare l’alleato italiano, come invece prevedeva il Patto d’acciaio del maggio ’39.
L’attacco alla Francia fu chiamato dagli antifascisti «la pugnalata alla schiena». E una larga parte del mondo intellettuale, che alla cultura d’Oltralpe si era sempre ispirato, versò lacrime, almeno nel foro interiore: nessuno ebbe il coraggio di esporsi. E del resto il duce, nella sua megalomania, apparve refrattario agli avvertimenti dei responsabili delle tre Armi, che lo sconsigliavano. La Francia gli pareva, a differenza dell’Inghilterra (che però sembrava lontana), un boccone facile da trangugiare: e a lui sarebbero bastati un pugno di morti per sedersi al tavolo delle trattative, nella convinzione che il conflitto sarebbe stato rapido, come lasciavano credere le prime impressionanti vittorie naziste nel loro blitzkrieg. Nella testa del duce, almeno Nizza e Mentone, sarebbero state facilmente recuperate al territorio patrio…. Le cose andarono diversamente, come è noto.
E la pugnalata ai «cugini» francesi segnò l’avvio della catastrofe del regime.
Del resto, anche prima di quel gesto improvvido, nel dibattito in seno al fascismo, le pulsioni antifrancesi erano state forti: era la stessa odiata Francia degli «immortali princìpi» irrisi da Mussolini molti anni prima. E l’intervento del ‘15, sebbene accanto alla Francia, non aveva mitigato le polemiche contro la «patria della democrazia», da parte di uno schieramento ideologico che faceva capo ai nazionalisti, che, a guerra archiviata, avrebbe condizionato e poi diretto le scelte del fascismo al potere. Anche se non erano mancati coloro che, rispolverando le camicie rosse garibaldine, si erano arruolati nell’esercito di Parigi contro i «crucchi».
E nel ’29 fu a Parigi che Carlo Rosselli fondò Giustizia e Libertà, colonna della «Concentrazione Antifascista». E in tutta la Francia trovarono rifugio personaggi eminenti da Turati a Silvo Trentin, da Lauro De Bosis a Salvemini…
Nell’Italia veleggiante verso l’autarchia, non furono poche le polemiche verso le «francioserie» (Ugo Ojetti arrivò a parlare di «mal francese», per indicare l’influsso pernicioso, a suo dire, di Parigi sull’arte italiana). E dopo le sanzioni imposte all’Italia per l’aggressione all’Etiopia, i francesi divennero un bersaglio facile, accanto agli inglesi: il senso era: voi le colonie ce l’avete, ora volete impedire che noi ne abbiamo?
Parole e pensieri in qualche modo evocate nella nostra mente davanti alle bizzarre (e pericolose diplomaticamente) esternazioni di alcuni leader M5S, i quali tentano goffamente di presentare una Italia anticolonialista e dunque antifrancese. Ma è difficile polemizzare con i francesi che respingono i migranti (vero), se l’Italia poi li blocca in mare, o peggio li rimanda nei lager libici, a morire di fame e torture. E va ricordata quanto meno la guerra di Libia in cui una pur recalcitrante l’Italia si accodò, bipartisan, a Sarkozy. Anche Macron è, con maggior prudenza, un ultraliberista colonialista. E le nostre imprese petrolifere hanno una condotta eticamente più corretta di quella della Total o della Erg? Ma «il governo del cambiamento» ha bisogno, come ogni regime in costruzione, di individuare un bersaglio esterno, contro cui indirizzare la rabbia degli esclusi. Una storia che conosciamo, e che non ha portato mai bene.
Il Fatto 9.2.19
Il sindacato sfida il governo: il “risveglio” della sinistra
Cgil, Cisl e Uil - Corteo a Roma fino a piazza San Giovanni: è la prima manifestazione dalle Politiche del 2018. Il debutto di Landini da leader
di Salvatore Cannavò


Chi ha memoria di sinistra e sindacati ricorda che negli ultimi venti anni la politica ha sempre beneficiato del “risveglio” sindacale. Di risveglio ha parlato proprio Maurizio Landini, segretario della Cgil da due settimane, invitando alla manifestazione indetta insieme a Cisl e Uil e che oggi sfilerà a Roma per concludersi in piazza San Giovanni. La partecipazione si annuncia rilevante se è vero che fino a ieri sono stati organizzati 12 treni speciali, 1300 pullman, due navi, diversi voli low-cost oltre a tutti i viaggi auto organizzati. Insomma, giornata delle grandi occasioni.
Ed ecco, allora, il ricordo di chi sfila con il sindacato da alcuni decenni. “Anche nel 1994 dopo la vittoria di Berlusconi, la sinistra entrò in letargo, letteralmente annichilita da un risultato inatteso. Lo sciopero e la manifestazione di Cgil, Cisl e Uil, contro la riforma delle pensioni – che poi fece cadere il governo per mano di Umberto Bossi – il 12 novembre 1994, con un milione di persone in piazza, segnò il ‘risveglio’ della base di sinistra”. Altra occasione, più nota: “Il 23 marzo 2002. Anche questa volta al Circo Massimo, ma con la sola Cgil e il suo segretario, Sergio Cofferati”. I milioni saranno tre e l’ineffabile Berlusconi aveva appena rivinto le elezioni nel 2001. La resistenza della Cgil alla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – che invece riuscirà a governi di sinistra come i due governi Monti e Renzi – unita al contestuale movimento anti-globalizzazione e poi contro la guerra, produrrà anch’essa un nuovo risveglio.
Così la sinistra parlamentare ci spera. A scendere oggi in piazza ci saranno due candidati alla segreteria Pd su tre: Maurizio Martina lo ha annunciato da tempo, Nicola Zingaretti lo ha confermato ieri. Roberto Giachetti è invece in partenza per Danzica dove apre la sua campagna per le primarie ricordando il sindaco Pawel Adamowicz.
Ci saranno le forze alla sinistra del Pd, Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, Roberto Speranza del Mdp, Rifondazione comunista.
Solo che stavolta la situazione è molto diversa. Al governo c’è una formazione politica i cui elettori, perlomeno una larga parte, in quelle precedenti occasioni si trovavano nelle piazze – si pensi a quanto conti per il M5S il Referendum sull’acqua pubblica del 2011, anch’esso una riscossa contro, ancora una volta, Berlusconi –. Oggi, invece, sostengono un governo da cui si aspettano risultati anche sul fronte sociale. Ed è palpabile, sui social network, nel dibattito sui mezzi di informazione (si veda l’intervista a Pasquale Tridico in pagina) il disappunto e lo straniamento che il “popolo a cinque stelle” vive nei confronti della piazza sindacale. La quale sarà fondamentalmente anti-governativa come dimostra la semi-provocazione della Confindustria emiliana che annuncia la sua presenza.
Lo stesso Landini ha rilanciato ieri le sue critiche al reddito di cittadinanza, definito un “ibrido” e alla riforma pensioni conosciuta come “quota 100”. Soprattutto, il segretario della Cgil vuole caricare la piazza anche di un sentimento anti-Salvini attaccato per le politiche sui migranti che hanno un profondo impatto sull’elettorato di sinistra. Anche Cisl e Uil, sebbene meno esposte nella polemica contro il governo, mettendo l’accento sulla piattaforma alternativa, si collocheranno in una dinamica di scontro anche se il governo finora ha preferito non commentare con dichiarazioni esplicite né, tantomeno, sprezzanti. La piattaforma, del resto, è forse poco digeribile per la Lega, ma non ha proposte sovversive: l’incremento degli investimenti pubblici al 6%, lo scomputo degli investimenti pubblici dal deficit; il limite a 1.000 euro per i pagamenti in contanti; un fondo statale per il Mezzogiorno; cassa integrazione straordinaria e contratto di solidarietà; rafforzamento della Naspi; 41 anni di contribuzione per andare in pensione a prescindere dall’età; una pensione contributiva di garanzia per i giovani; eliminare i super ticket; rinnovare i contratti del pubblico impiego.
Al sindacato interessa soprattutto il riconoscimento dal governo: “Stupisce che Di Maio abbia incontrato i Gilet gialli – ha dichiarato ieri Landini – che protestano contro il governo Macron e non incontri i sindacati italiani”. Oltre a questo, interessano risultati concreti per questo la protesta andrà avanti ancora nelle forme che si vedranno.
Dalla piazza per il governo giallo-verde nasce un controcanto nuovo: la situazione potrebbe essere più movimentata.
La Stampa 9.2.19
La concubina etiope
di Mattia Feltri 


Continuavo a leggere il bel libro di cui vi parlavo ieri, Le gemme della memoria, del sapiente persiano del XIII secolo Sadid Al-din Muhammad Awfi, e in particolare la deliziosissima storia del principe Harun al-Rashid e della sua bella concubina etiope in cui si narra che di notte «nella piacevole intimità dell’amplesso, il califfo Harun le disse: adesso mostrami bene il sedere». La dolce concubina per difendere il versante ingaggiò la dottrina: «Ma l’Iddio eccelso dice nel Corano: accostatevi a loro dalla parte che Dio v’ha comandato!».
Ecco, leggevo questo interessante racconto, quando scopro che Luigi Di Maio per ricucire con Parigi ha scritto a Le Monde di aver «sempre guardato alla tradizione democratica millenaria della Francia». Accidenti, in Francia la tradizione democratica ha poco più di due secoli (quella cosina lì, la Rivoluzione francese), e noi ci siamo abituati, ma ora anche i francesi sanno con quale stazza di somarello hanno a che fare, e lo valuteranno di conseguenza.
Però, che volete farci, ero ansioso di sapere come andava a finire la disputa erotico-teologica di Harun e della concubina etiope. Harun aveva calato la sua carta sacra: «Proprio Dio ha detto: le vostre donne sono come un campo per voi, venite dunque al vostro campo al vostro piacere». O principe dei credenti, replicò la concubina, quel versetto è stato abrogato da quest’altro: «Entrate in casa dalla porta!». La ragazza, con la sua erudizione, incantò il califfo, ebbe molti onori e soprattutto inespugnato l’inviolabile accesso. Apologo, questo, laddove si spiega che cosa può succedere, a non saper le cose.
Corriere 9.2.19
Il regista
Ozon scuote la Berlinale con il caso dei preti pedofili
«Grazie a Dio» del regista francese, tratto da una storia vera
di Paolo Mereghetti


Berlino Sorpresa Ozon. Dopo gli ultimi film in cui si era perso nei labirinti mentali dei suoi protagonisti, il regista francese cambia registro: Grâce à Dieu (Grazie a Dio, nel senso di «per fortuna»: chi lo vedrà, capirà), in concorso per la Francia alla Berlinale, è un film lineare nella sua classicità stilistica e preciso nel suo obiettivo. Ricostruisce la denuncia che Alexandre Guérin (Melvil Poupaud) si era deciso a fare contro padre Preynat, che aveva approfittato di lui durante la fanciullezza, a sua volta all’origine nel 2015 dell’associazione La Parole Libérée (La parola liberata) che a Lione ha riunito chi aveva subito le stesse avances dal medesimo sacerdote, quando tra il 1970 e il ’91 aveva guidato un gruppo scout.
L’originalità sta nello scegliere il punto di vista di chi quelle violenze ha subito e dopo tanti anni deve fare i conti con le proprie paure o angosce o vergogne. Ma non privilegia un caso sugli altri: dopo che per 45 minuti abbiamo seguito i tentativi di Alexander di ottenere dal vescovo Barbarin (François Marthouret) una qualche condanna ecclesiastica, il film si sposta su François (Denis Ménochet) che al caso vuole dare il massimo rilievo mediatico (anche con trovate vicine alla goliardia) e infine su Emmanuel (Swann Arlaud) che di quella esperienza porta ancora i segni. Sono tre casi differenti tra i tanti, tre modi di porsi rispetto alla Chiesa e alla religione, tre persone provenienti da diversi ambienti sociali che reagiscono di fronte al medesimo dramma.
François Ozon, che ha scritto anche la sceneggiatura, va dritto al punto, senza cedere alla retorica o al melodramma. Il suo non è un film di denuncia, non ha rivelazioni o illazioni da fare: padre Preynat è ancora in attesa di giudizio mentre il cardinale e i suoi collaboratori aspettano per il prossimo 7 marzo la sentenza sull’accusa di aver occultato ciò che sapevano. Per questo Grâce à Dieu è piuttosto un film di memoria, per ricordare ciò che si tende a rimuovere. Come hanno fatto i veri protagonisti.
Più emotivo (e più discutibile) il film d’esordio della regista tedesca Nora Fingscheidt, Systemsprenger (Chi rompe il sistema), odissea di una bambina di nove anni (Helena Zengel, bravissima) talmente ribelle e arrabbiata che nessuno riesce ad aiutarla: né la madre che l’ha abbandonata ai servizi sociali né le istituzioni che non sanno controllare i suoi eccessi e le sue fughe.
Un film che interroga la società e le sue incapacità ma che fa della protagonista una bambina così asociale da spingere il film in un vicolo cieco. Da cui non sa più come uscire.