sabato 1 ottobre 2016

il manifesto 1.10.16
La politica americana sugli schermi di Roma
Festival. Il programma della Festa del Cinema, all'Auditorium di Roma dal 13 al 23 ottobre
di Giovanna Branca

ROMA Sarà l’incontro con Tom Hanks, insieme al film d’esordio di Barry Jenkins Moonlight, ad aprire l’undicesima edizione della Festa del cinema di Roma (dal 13 al 23 ottobre), la seconda diretta da Antonio Monda. All’attore americano, durante l’incontro con il pubblico dell’Auditorium , verrà consegnato il Premio alla carriera 2016, mentre ai suoi film più famosi, da Forrest Gump al recente Ponte delle spie, è dedicata una delle retrospettive della manifestazione. Il film d’apertura è invece la storia di un ragazzo omosessuale afroamericano della periferia di Miami, seguito in tre diversi momenti della sua vita.
Anche quest’anno la Festa del cinema non prevede una competizione tra i film in programma, in linea proprio con la rinnovata idea di festa con cui la manifestazione era nata nel 2006. Non concorso dunque ma Selezione ufficiale: 41 film in anteprima italiana tra i quali in netta maggioranza sono i titoli provenienti dagli Stati Uniti, ben 11. Fra questi ci sono alcuni dei film più attesi e discussi della stagione cinematografica, a partire da quel Birth of a Nation di Nate Parker vincitore del premio del pubblico al Sundance e recentemente passato anche da Toronto, al quale verrà affiancato, nella retrospettiva sulla politica americana, il film di Griffith del 1915 da cui prende il nome proprio per riscrivere la storia della nascita della nazione americana.
La retrospettiva, organizzata in occasione delle imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ha in cartellone dei classici del cinema Usa, da Mr. Smith Goes to Washington e Arriva John Doe di Frank Capra a Oltre il giardino di Hal Ashby.
Nella Selezione ufficiale ci saranno anche il biopic di Oliver Stone Snowden, dedicato all’ex analista dell’Nsa, la commedia Florence Foster Jenkins di Stephen Frears – il suo My Beautiful Laundrette verrà proiettato nell’ambito della rassegna di 6 film sui migranti alla Scuola Di Donato – e il western Hell or High Water di David Mackenzie . Un altro biopic è quello realizzato da Andrzej Wajda, Powidoki, la storia del pittore polacco d’avanguardia Wladyslaw Strzeminsk.
In programma anche l’ultimo documentario di Werner Herzog – Into the Inferno – una ricognizione dei vulcani attivi in tutto il mondo.
Quattro i titoli italiani: 7 minuti di Michele Placido, Naples ’44 di Francesco Patierno, Marie per Roma di Karen Di Porto e Sole cuore amore di Daniele Vicari, la storia – ambientata a Roma – di due amiche molto diverse tra loro.
Tra gli ospiti che quest’anno incontreranno il pubblico, oltre a Tom Hanks, ci sono Oliver Stone, Meryl Streep (protagonista di Florence Foster Jenkins), lo sceneggiatore e regista David Mamet, lo scrittore Don De Lillo – che parlerà del rapporto tra cinema e letteratura e della sua passione per i film di Antonioni – e gli artisti americani Gilbert e George, protagonisti del documentario The World of Gilbert&George che verrà proiettato restaurato dalla cineteca nazionale.
Repubblica 1.10.16
Consigli eretici per fuggire dal mondo
Dai racconti di Celati al nuovo saggio di Le Breton: perché artisti e filosofi raccontano la voglia di “spegnere” la realtà
Da Hawthorne a Flannery O’Connor, storie di personaggi che scappano dalla modernità
di Marco Belpoliti

Baratto è uno stimato insegnante di educazione fisica. Gioca a rugby. Nel bel mezzo di una partita si blocca a tre quarti del campo e scuote la testa, smette di giocare e si siede in panchina. Con gli occhi chiusi trattiene il fiato, resta in apnea, senza aspettare più niente e senza neppure il pensiero di essere lì. Poi se ne torna a casa guidando la sua motocicletta. Da quel momento in poi smette di parlare con tutti: moglie, vicini di casa, preside della scuola. Andrà avanti così per mesi e mesi in una sorta
di congedo provvisorio da tutto e da tutti. La moglie lo lascia, la scuola lo solleva dall’incarico, gli amici non lo riconoscono più.
Il personaggio della novella omonima di Gianni Celati, Baratto ( Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli) disinveste il mondo che lo circonda, per dirla con David Le Breton, sociologo e antropologo, autore di Fuggire da sé (Raffaello Cortina editore). Baratto non esiste né per se stesso né per gli altri; la sua è una defezione, un ritrarsi dalla responsabilità di essere se stesso, l’unica possibilità per non essere schiacciato e gravato da quel peso che sono gli impegni verso gli altri, verso la società. Ha tranciato, seppur provvisoriamente e in modo dolce, il legame sociale. Le Breton chiama questo stato d’animo, prossimo alla depressione, ma non “nero” come la depressione, “biancore”: «La volontà di rallentare o arrestare il flusso del pensiero, di porre finalmente termine alla necessità sociale di dare sempre corpo a un personaggio, assecondando gli interlocutori di volta in volta presenti». Si tratta della ricerca di un’impersonalità che nel racconto di Celati diventa quasi uno stato di grazia, una forma zen di fuga da sé e dal mondo circostante. Ha ragione il sociologo francese: l’esistenza talvolta ci pesa. Oggi non è più solo necessario nascere e crescere, ma occorre «costruire se stessi di continuo, tenersi in perenne movimento, dare un significato alla vita, puntellare la propria attività». Un impegno arduo, per alcuni persino intollerabile.
Quasi venti anni fa il sociologo francese Alain Ehrenberg ha sintetizzato questa condizione con
La fatica di essere se stessi (Einaudi). Scriveva: «L’insufficienza è per l’individuo di oggi quello che il conflitto era per l’individuo della prima metà del XX secolo». Nelle società del passato la felicità consisteva nel sapersi uniformare ai propri doveri; ora le regole sociali ci presentano invece la felicità come il sapersi uniformare ai propri desideri; l’autostima appare l’obiettivo principale. «La vera autenticità non sta nell’essere come si è, ma nel riuscire a somigliare al sogno che si ha di se stessi», afferma uno dei personaggi di Tutto su mia madre di Pedro Almodòvar. Nel costruire se stessi, rincara Le Breton, l’individuo ha una serie enorme di possibilità «che lo rimandano alle risorse di cui dispone». Ciascuno è responsabile di sé in questa corsa continua, e preservare il proprio posto all’interno del legame sociale implica una tensione e uno sforzo. Sono migliaia e migliaia le persone che si sottraggono ogni anno a questa prova attraverso la fuga dal lavoro e dalla famiglia, inabissandosi nella depressione, fuggendo altrove, «nelle terre estreme». La loro risposta si chiama anoressia, droga, alcool, malattia mentale, tutti tentativi di sciogliersi da quel legame sociale che appare una costrizione. Il filosofo Marcel Gauchet sostiene che il legame sociale è diventato un «dato ambientale» più che un’esigenza morale. Nei racconti di Gianni Celati c’è un’intera galleria di personaggi che cercano di interrompere la «commedia delle apparenze». Baratto è modellato su Bartleby lo scrivano, il protagonista dell’omonimo racconto di Melville, colui che risponde al suo principale con «preferirei di no».
In un libro antologico, Storie di solitari americani (Rizzoli) Gianni Celati e Daniele Benati hanno raccolto numerose storie di quella letteratura, da Wakefield di Hawthorne a Non è facile trovare un brav’uomo di Flannery O’Connor, storie che hanno per protagonisti personaggi in fuga da se stessi. «La solitudine non sta più nell’esser soli, ma nel non potere evadere dalla sterilità dei copioni che ovunque si recitano a dovere», scrive Celati nella prefazione. Ognuno di noi, sostiene lo scrittore, «incarna una recita che torna sempre agli stessi punti, agli stessi incastri nevrotici che coincidono con i costumi della società civile».
Il biancore descritto da Le Breton arriva quando una donna o un uomo stanno per esaurire le risorse di cui dispongono per continuare a reggere il proprio personaggio. Ehrenberg sostiene che la depressione va considerata come malattia sociale nella misura in cui appare una risposta complessa al nuovo codice sociale: «Il depresso non si sente all’altezza, è stanco di diventare se stesso». Chi non ha provato almeno una volta nella vita un’esperienza di spossessamento?
L’adolescenza è il luogo per eccellenza della perdita di ancoraggio al mondo, alle cose, agli altri. L’identità oscilla, e non è facile mantenerla. Le Breton ricorda il caso dei ragazzi Hikikomori, adolescenti che si rinchiudono volontariamente nella propria stanza e dialogano con il mondo solo attraverso il computer, esperienza che coinvolge milioni di ragazzi, non solo in Giappone, da cui il fenomeno sembra aver avuto origine, ma anche in Europa e in Italia, come racconta l’antropologa Carla Ricci in Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione (Franco Angeli).
La letteratura, quasi più della psicologia, è un repertorio di queste fughe dal mondo, dai racconti di Robert Walser alle storie di Paul Auster. Che cos’è, se non una specie di Hikikomori il protagonista di Un uomo che dorme di Georges Perec (Quodlibet), lo studente che cade in uno stato di torpore e d’indifferenza? Le Breton ci ricorda che condurre la vita quotidiana richiede oggi comunque una certa indifferenza, che a volte diventa una forma di discrezione, «per non mettere a disagio gli altri o non dare pretesto a osservazioni». Il filosofo Pierre Zaoui l’ha teorizzato in L’arte di scomparire (il Saggiatore).
Rinunciare a sé è a volte l’unico modo per sopravvivere alleggeriti dallo sforzo di esistere; i film di Kitano e i romanzi di Haruki Murakami mostrano numerosi esempi di questo. Baratto ha raggiunto quello stato di stanchezza, di cui ha parlato in un saggio alla fine degli anni Ottanta Peter Handke ( Saggio sulla stanchezza): la stanchezza del vivere catturati come siamo nel reticolo delle relazioni sociali — come recita la presentazione.
Al termine della novella, Baratto dorme e parla nel sonno; intorno a lui gli amici lo ascoltano. Alla fine sbadiglia e si tocca il ginocchio: «Oh, mi è tornato male al menisco!», esclama. Si stira e si risveglia del tutto. Fa un largo sorriso e chiede se ha parlato bene. Tutti applaudono. Ha ricominciato a parlare.
Corriere 1.10.16
Come usare gli occhi
La durata ideale del contatto visivo è di 3,3 secondi: se è meno siamo sfuggenti se è di più
diventiamo invadenti. Ma quali sono le regole? Ecco alcune risposte e alcuni misteri
di Anna Meldolesi

Troppo breve e sembrerà che siamo sfuggenti. Troppo lungo e rischiamo di apparire invadenti. Quanto deve durare uno sguardo, occhi negli occhi, per fare una buona impressione? Per la maggioranza delle persone il numero magico è 3. Per essere precisi, la durata ideale del contatto visivo è tre secondi virgola tre. Ma attenzione ai guru che promettono di regalare successi in amore e carriera insegnando a usare l’eye contact: questo codice di comunicazione è complesso e non sempre controllabile in modo volontario.
In decenni di ricerche la scienza ha scoperto che guardarsi negli occhi ha molti effetti comportamentali e cognitivi. Un articolo appena pubblicato da un gruppo franco-finlandese su Consciousness and Cognition passa in rassegna i benefici: guardarsi mentre ci si parla aumenta l’attenzione, aiuta a memorizzare i contenuti verbali, rende più consapevoli di sé, spinge le persone a collaborare. Chiunque sia stato innamorato sa quanto sia bello perdersi l’uno nelle pupille dell’altro. Ed è lecito sospettare che la facilità con cui si diventa aggressivi su Internet sia legata all’impossibilità di vedersi. Ma concedersi o negarsi alle occhiate può diventare anche un gioco di potere. Chi è in alto nella gerarchia può ignorare l’interlocutore oppure squadrarlo. Chi è in posizione subalterna è attratto dagli occhi del leader ma non osa sostenerne lo sguardo. Gli occhi degli uomini conversano quanto le lingue, amano ripetere gli appassionati di linguaggio del corpo.
Dei ricercatori dell’Imperial College London hanno testato 498 persone reclutate al Museo della scienza della capitale britannica. Uomini e donne di tutte le età e di oltre cinquanta nazioni. Ogni soggetto ha osservato dei video di durata variabile in cui un attore o un’attrice guardavano dritti nella videocamera, come se fissassero lo spettatore. È stato identificato così il tempo medio oltre il quale invece di provare empatia iniziamo a sentirci a disagio, ma non sono emerse spiegazioni semplici sul perché per alcuni questa soglia si alzi o si abbassi. È noto che culture diverse incoraggiano contatti più o meno ravvicinati. E secondo alcune ricerche le donne sono più disponibili al contatto visivo. Ma lo studio inglese, pubblicato sulla rivista Royal Society Open Science, non evidenzia facili correlazioni con elementi come il sesso o il paese. Nemmeno la bellezza degli attori sembra incidere sul risultato. E forse è ancor più sorprendente che non esista una relazione automatica fra la durata preferita e la personalità, valutata con i classici test che misurano tratti come l’estroversione. «Probabilmente siamo alle prese con una complessa interazione di fattori culturali, genetici e situazionali. La durata “corretta” di uno sguardo è una norma sociale ma può variare in funzione delle circostanze e della persona che si ha di fronte», ci dice il primo firmatario della ricerca, Nicola Binetti.
Guardandoci comunichiamo intenzioni ed emozioni, dimostriamo più o meno interesse a leggere dentro al nostro interlocutore e gli concediamo la nostra disponibilità a essere letti. Quello che si consuma nell’arco di pochi secondi è un incontro fra l’altro e il sé, che viene elaborato dal «cervello sociale», coinvolgendo il solco temporale superiore, la corteccia prefrontale e orbitofrontale, l’amigdala. L’importanza di questi segnali è testimoniata dalla morfologia degli occhi umani, perché il contrasto fra sclera bianca e iride colorata aiuta a capire dove punta lo sguardo. Il fatto che si tratti di meccanismi ancestrali è dimostrato dalla precocità con cui i bambini guardano negli occhi la mamma. La difficoltà di stabilire un contatto visivo, del resto, è tipica di condizioni patologiche come l’autismo e le ansie sociali. In condizioni normali la direzione dello sguardo si può controllare e questo consente di allenarsi e barare. Ma la dilatazione delle pupille è un fenomeno involontario che rivela eccitazione e vigilanza, segnalando anche una maggior propensione al contatto visivo. «Lo sguardo è il risultato di una relazione fra cosciente e sottocosciente», ci dice Salvatore Maria Aglioti, neuroscienziato della Sapienza Università di Roma. Per questo si dovrebbe diffidare dei training semplicistici. «Il contatto visivo è pieno di sottili sfumature. O si è dei bravi attori o è meglio essere spontanei», concorda Binetti. Certo se pratichiamo il telelavoro, flirtiamo sui social, scambiamo opinioni via chat, il codice degli sguardi diventa muto. «Questo ci rivela meno degli altri, ma ci consente anche di esporci di meno. È un vantaggio o una perdita? Dipende», ragiona Aglioti.
Senza sguardi, mimica, gestualità, voce si perdono molte informazioni difficilmente sostituibili da una sfilza di emoticon. D’altro canto queste limitazioni erano presenti anche nella corrispondenza scritta con penna e calamaio, nota Binetti. Probabilmente serviranno degli studi generazionali per capire quali conseguenze psicologiche può avere la comunicazione «disincarnata» dei nostri giorni.
il manifesto Alias 1.10.16
L’azzardo del pittore
«La trahision des images» René Magritte, Les Marches de l'été, 1938
Una mostra al Centre Pompidou di Parigi indaga i rapporti fra René Magritte e la filosofia
La Trahison des images è la risposta, irridente, alla definizione della poesia di Breton a Paul Eluard: «la poesia è una pipa».
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di Anna Maria Merlo

PARIGI «Bello come l’incontro fortuito di un ombrello e di una macchina da cucire» aveva scritto Lautréamont, considerato un precursore dai surrealisti francesi. Magritte, che era belga, dopo aver riflettuto su una riproduzione de Il Canto d’amore di Giorgio De Chirico, vista nel 1923, e dopo derito all’idea del bello come incontro fortuito, nel 1936 cambiò posizione. Dalla bellezza sprigionata da un automatismo di ciò che è arbitrario del primo surrealismo, passò alla bellezza ragionata. Quell’anno dipinse un quadro con un uovo e una gabbia: segnò la svolta verso un’arte come espressione del pensiero (Leonardo aveva parlato della pittura come «cosa mentale»).
Anni dopo (1958) Magritte riprese l’ombrello nell’opera Les Vacances de Hegel (titolo ironico sul riferimento dei surrealisti francesi all’Estetica di Hegel e alla sua dialettica). Sopra l’ombrello, c’è un bicchiere: la relazione è tra l’oggetto che respinge l’acqua e l’altro che la contiene. È la risposta a un «problema», cioè l’elucidazione metodica di un’equazione visiva nella quale si riconciliano «l’oggetto, la cosa a questo legata nell’ombra della coscienza e la luce dove tutto ciò deve pervenire», come spiegò l’artista in una conferenza al museo di Anversa nel 1938.
Surrealisti addio
A René Magritte filosofo, alle relazioni dell’artista con la filosofia è dedicata la mostra al Centre Pompidou Magritte. La trahision des images (fino al 23 gennaio 2017), attraverso un centinaio di quadri (molti anche di collezioni private), disegni e numerosi documenti d’archivio. È una rassegna allegra, il pubblico a volte ride persino (cosa rara di questi tempi a Parigi). Il titolo rimanda a un quadro omonimo del 1929, più noto come Ceci n’est pas une pipe, con il quale l’autore ironizzava con i surrealisti francesi, attraverso un finto riconoscimento del carattere menzognero dell’arte.
A tutti loro – più letterati che artisti – il belga Magritte rimproverava soprattutto il fatto che considerassero la pittura un’arte minore rispetto alla poesia. Le tensioni con André Breton saranno molto forti. Magritte, che si era trasferito in Francia nel 1927, decise di tornare nel suo paese d’origine già nel ’30. Un anno prima, aveva pubblicato un testo polemico sulla rivista La Révolution surréaliste, dove analizzava i rapporti tra parole e immagini. E, per sottolineare la presa di distanza da Breton, dipinse La Trahison des images e numerosi opere composte da figure e parole.
La polemica con i francesi durò nel tempo. Quando Magritte entrò in rapporti epistolari con Alphonse De Waelhens, primo traduttore (in francese) di Essere e tempo di Martin Heidegger, il filosofo gli suggerì di leggere L’oeil et l’esprit di Maurice Merleau-Ponty. Commento acido di Magritte: «Il discorso molto brillante di Merleau-Ponty è estremamente piacevole da leggere, ma non fa certo pensare alla pittura – argomento che peraltro pare essere il suo soggetto. Devo dire che quando questo avviene, si riferisce alla pittura come se parlando di un’opera filosofica ci si preoccupasse del portapenne e della carta che sono serviti allo scrittore». Diversa la relazione con Michel Foucault, con il quale, dopo aver letto Le parole e le cose nel 1966, iniziò una corrispondenza. Dopo la morte di Magritte, a partire da questi scambi, Foucault pubblicherà nel ’73 Ceci n’est pas une pipe. L’artista aveva però rimproverato a Foucault di confondere la rassomiglianza con la similitudine (una vecchia questione della Scolastica).
La realtà derisa
La mostra, curata da Didier Ottinger, dopo una prima sala che presenta Magritte filosofo che dalla bellezza degli incontri dell’azzardo passò ai «problemi», è divisa in capitoli. Tutti indagano i miti fondatori sullo statuto dell’immagine, a partire da quattro «questioni»: parole e immagini, l’invenzione della pittura, l’allegoria della caverna, tende e trompe l’oeil. L’episodio biblico di Mosé che spacca le tavole della legge con rabbia quando si accorse che il popolo di Israele adorava il vitello d’oro, è il testo di riferimento attraverso cui lo stesso Magritte, «pittore figurativo del pensiero astratto», secondo Bernard Blistène direttore del Pompidou, rivendica la dignità intellettuale della sua arte e riflette sull’adeguamento delle immagini (e delle parole) agli oggetti che rappresentano, nella tensione tra legge scritta e raffigurazioni pagane.
L’invenzione della pittura, come raccontata da Plinio il Vecchio nella Storia naturale, è «impronta» del desiderio amoroso. Sono i quadri con le ombre, evocate da Plinio. La fiamma è l’elemento del terzo motivo nella narrazione della creazione della pittura: qui il rimando è al mito della caverna di Platone. Magritte si considera come chi è uscito dall’illusione della caverna – la stessa in cui i surrealisti si sarebbero invece chiusi. Breton si rifiutò nel ’43 di seguire la proposta di portare il surrealismo «in pieno sole». «Siamo circondanti da tende», diceva Magritte. E proprio di tende parla ancora Plinio il Vecchio, nel racconto della sfida tra Zeuxis e Parrhasios: il primo aveva dipinto un grappolo d’uva in modo talmente realistico che gli uccelli cercavano di beccare gli acini. Ma nella notte Parrhasios dipinse una tenda sul quadro di Zeuxis: lui la prese per vera e cercò di scostarla. Zeuxis ammetterà la sconfitta. Quella tenda diventò – come già nell’interpretazione della pittura del secolo d’oro olandese – il modo per esprimere la distanza beffarda nei confronti di una virtuosità realista.
La mostra parigina termina con la storia delle giovani di Crotone, raccontata da Cicerone: sempre Zeuxis, per dipingere una creatura perfetta, aveva preso le parti più belle di varie fanciulle del luogo. E Magritte, nella Folie des grandeurs, propone una bellezza frammentata.
il manifesto 1.10.16
Afghanistan
Il grande gioco: ecco come iniziò
In queste ore, nel 1838, Londra e Calcutta decidono di reinsediare a Kabul un re afgano spodestato anni prima. Per controllare il Paese e contenere la Russia. Finendo per uscirne con le ossa rotte
di Emanuele Giordana

Il 30 settembre 1838 Lord Auckland, governatore generale delle Indie, promulga il «Manifesto di Simla» con cui la Gran Bretagna decide ufficialmente di spodestare il re dell’Afghanistan, che teme alleato dei russi, per sostituirlo con un altro monarca che rientra nelle sue simpatie. È il punto di partenza della più tragica sconfitta subita dagli inglesi nel Paese dell’Hindukush. Una lezione che, ripetutasi con i sovietici negli anni Ottanta, sembra ricordare in parte anche quanto succede adesso in quel lontano Paese. È il vero inizio guerreggiato del Great Game, il grande gioco tra l’Impero zarista e quello britannico per la conquista dell’Asia centrale.
UN GIOCO MAI FINITO anche se gli attori sono in parte cambiati. Auckland, anche se è soltanto un governatore generale e la «Perla dell’Impero» è ancora amministrata dalla Compagnia delle Indie – un’impresa commerciale con diplomatici, amministratori, mercanti, tribunali e soldati – rappresenta di fatto la Corona. Che col Manifesto dichiara in sostanza guerra all’Afghanistan, allora come oggi un turbolento Paese ma fondamentale crocevia nel cuore dell’Asia. E annuncia l’intenzione di reinsediare sul trono, al momento occupato dal Khan Dost Mohammad, il re Shah Shuja. I britannici temevano le mire sull’Afghanistan dei persiani e soprattutto dei russi e Dost Mohammad – un pashtun Barakzai – prestava troppo orecchio alle blandizie e alle offerte degli emissari dello Zar e stava pensando di rimpossessarsi di Peshawar, caduta nella mani di Ranjit Singh, potente sovrano sikh che godeva delle simpatie inglesi. Shah Shuja – esule in India – era un sovrano Sadozai cacciato da beghe di palazzo afgane e come tale sufficientemente disponibile ad accettare l’aiuto degli inglesi per tornare sul trono. A Shah Shuja, gli inglesi avevano trovato un posto a Ludhiana, nel Punjab, dove viveva un esilio dorato sognando Kabul.
AUCKLAND HA MEDIATO tra i fautori del ritorno di Shah Shuja e quelli che sconsigliano l’avventura. Tra coloro che temono che la campagna afgana non sarà facile e chi la ritene una passeggiata. Tra questi c’è sir William Macnaghten, ascoltato consigliere politico. Ma l’idea piace anche all’artefice della politica estera britannica, il Visconte Palmerston. Quanto a quelli che in teoria son contrari o perplessi, vengono convinti dall’ambizione: è il caso dello stesso Auckland e di Alexander Burnes, che aveva ottimi rapporti col Khan, ma che per l’occasione era stato promosso e nominato baronetto. Macnaghten e Burnes furono dunque inviati a Kabul come rappresentanti britannici alla nuova corte di Shah Shuja e alla testa di un potente esercito. L’operazione comincia da Sud con destinazione Kandahar.
AL COMANDO DI BURNES la forza d’occupazione varca il passo di Bolan nel Sind nella primavera del 1839 e il 25 aprile Shah Shuja, accompagnato da Macnaghten, entra in città senza colpo ferire. Poi è la volta di Ghazni, più a Nord sulla strada per la capitale. Ma se l’avanzata militare va bene, i vertici britannici si rendono conto che attraversare l’Afghanistan è tutt’altro che una passeggiata e anche che Shah Shuja non sembra avere il consenso sperato. Si guardano bene dal comunicarlo a Calcutta e a Londra. Il dado è tratto
La perdita di Ghazni obbliga Dost Mohammad a fuggire. O meglio a temporeggiare per trovare un altro modo di organizzare la resistenza contro un esercito disciplinato e bene armato contro cui in campo aperto avrebbe perso. A luglio il nuovo re riprende possesso della sua capitale che non vede da trent’anni. Scrive Jhon William Kaye, autore nel 1874 di una Storia della guerra in Afghanistan: «Il tintinnio delle borse di monete e il luccichio delle baionette inglesi gli avevano restituito il trono, ma ad accoglierlo c’era quello che sembrava più un corteo funebre che non l’ingresso di un re nella capitale dei suoi restaurati domini».
Il piano iniziale di Macnaghten dunque va rivisto. Insediare Shah Shuja non basta e bisogna presidiare la città e dunque restare. L’invasione si trasforma in occupazione. Nonostante diversi segnali che i consiglieri di Shah Shuja e i più accorti tra gli inglesi o tra le loro guide indiane avevano fatto presente ai capi, il comando britannico sembra ignorare la realtà. Macnaghten sta già pensando al suo prossimo incarico – il governatorato di Bombay – e Burnes se la spassa senza far gran attenzione al fatto che in Afghanistan toccare una donna locale non è uno scherzo che si dimentica.
LA PICCOLA COMUNITÀ dei civili al seguito, cresciuta con l’arrivo di mogli, figli e servitù, segue le partite di cricket e sorseggia tè compiacendosi del clima fresco di Kabul dove il caldo può essere feroce in estate ma è sempre secco e spesso mitigato dalle brezze. Non è solo la vita di quegli expat, come oggi li chiameremmo, a dare scandalo: i soldati al comando del generale Elphinstone, un militare già anziano e senza la benché minima idea di quel si va preparando, si erano distinti in azioni punitive contro le tribù circostanti. Gli accantonamenti inglesi anziché essere vicini alla fortezza di Bala Hissar, sede del re, erano isolati e periferici rispetto al centro città. Un mondo a parte che stava per essere travolto.
Gli inglesi non capiscono che il figlio di Dost Mohammad, il principe Mohammad Akbar Khan, sta preparando la contromossa. Solo qualcuno se ne rende conto: “L’animosità verso di noi aumenta di giorno in giorno e i loro mullah predicano contro di noi da un capo all’altro del Paese” scrive il maggiore Henry Rawlinson. Ma è una voce nel deserto. Il 1 novembre del 1941 parte il primo attacco che ha per obiettivo la casa di Burnes. L’uomo è praticamente solo perché le truppe, che tra l’altro esitano a muoversi, sono a quattro chilometri da casa sua che presto vien data alle fiamme. Burnes viene ucciso dalla folla inferocita. Mentre la rivolta si estende Macnaghten e Elphinstone perdono tempo prezioso in lunghe discussioni: agire? Punire? Trattare? Decidono di prepararsi a un possibile assedio nel mezzo del quale tenteranno qualche disastrosa sortita.
Sotto il comando del principe, diventato poi il simbolo dell’indipendenza afgana, le truppe disomogenee delle tribù hanno mutato il tipico individualismo tribale in un jihad collettivo contro l’invasore. Col consenso di una popolazione che non solo odia gli stranieri, ma li accusa di aver fatto aumentare i prezzi al bazar. Akbar è ormai il dominus della situazione. In dicembre Macnaghten accetta di incontrarlo su una collina poco lontano dal fiume Kabul. Ma è una trappola. Il principe ha saputo che gli inglesi hanno pagato alcuni capi tribù per corromperli e li ripagano della stessa moneta. Nella notte il cadavere di Macnaghten, mutilato di testa, braccia e gambe, penzola a un palo del bazar.
LA PARTITA È PERSA e Elphinstone negozia un salvacondotto e una scorta per far rientro in India attraverso il Kyber Pass, la gola che porta dall’Hindukush alle pianure del Gange. Elphinstone sa che se raggiunge Jalalabad, ai piedi del passo, è salvo. Ma la sua disgraziata missione non ha futuro. Akabar è d’accordo con le tribù che aspettano gli inglesi al varco. La scorta promessa non arriva e un inverno impietoso aggiunge brace al fuoco che sta per divampare. La ritirata si rivela un disastro con assalti e agguati, mentre la penuria di cibo e i geloni falciano i civili aggregati alla truppa. Dopo l’ultima strage a Gandamak, quando ormai la meta sembra vicina, dell’armata inglese non resta quasi più nulla o così almeno sembra perché il 13 gennaio, dei sedicimila partiti da Kabul una settimana prima, arriva a Jalalabad un solo uomo: ferito e stremato che si trascina sul suo cavallo. È un medico, il dottor Brydon, il protagonista di uno dei più celebri ritratti di epoca vittoriana: Remnants of an Army di Elizabeth Butler.
La prima guerra afgana, cominciata nel 1839 e finita nel 1942 si conclude con un bilancio pesantissimo. Oltre a Brydon si è salvato solo qualche inglese fatto prigioniero. Freddo, fame, sciabolate e malattie hanno aiutato gli afgani a espellere l’invasore. Umiliandolo. Alla fine di marzo anche Shah Shuja – tradito – viene assassinato. Chiude la vicenda la morte di un re di comodo che aveva fatto ritorno a casa sulla punta delle lance inglesi e che gli inglesi alla fine avevano abbandonato al suo destino.
*Il racconto si può ascoltare in podcast: http://www.radio3.rai.i
RISORSE
Il grande classico sul Great Game è «Il Grande Gioco» di Peter Hopkirk in cui l’autore mescola fatti e documenti a una grande capacità narrativa in oltre 600 pagine che compongono il puzzle di quello che i russi chiamavano invece «Torneo delle ombre». Operazione ripetuta poi con «Diavoli stranieri sulla Via della Seta» (entrambi di Adelphi), storia di avventurosi scopritori di quelle antiche civiltà. Il Grande Gioco lo racconta anche Karl Meyer ne «La polvere dell’impero», uscito qualche anno fa per Corbaccio, mentre Antony Wynn sceglie invece di dilungarsi su un frammento di quella storia («La Persia nel Grande Gioco», Il Saggiatore) come fa William Dalrymple, che nel suo recente «Il ritorno di un re» (Adelphi) si concentra proprio su Shah Shuja. Ma Dalrymple lo fa con una marcia in più e cioè utilizzando moltissime fonti locali: afgane, indiane, persiane e lo stesso diario di Shah Shuja. Gli effetti di un Grande Gioco trascinatosi sino ai giorni nostri si possono invece leggere in «Samarcanda. Storie di una città dal 1945 a oggi» (Cliopoli), un libro fresco di stampa di Marco Buttino. Italiano è anche l’autore de «Il cammello battriano» (Neri Pozza), piacevolissimo racconto di Stefano Maltesta su una riscoperta tra gli echi del Great Game e della Via della seta.
La Stampa TuttoLibri 1.10.16
“Ho osato riscrivere Tacito sulla strage di Teutoburgo”
Sono entrato nel cuore di Arminio, il germanico che tradì i romani e ho sofferto a “uccidere” ad uno ad uno i legionari di Varo
di Valerio M. Manfredi

«Vare, redde mihi legiones!» Queste, secondo la testimonianza di Svetonio, le sconsolate parole dell’imperatore Augusto dopo aver saputo della strage di Teutoburgo (9 d.C.), un disastro che tolse il sonno all’imperatore e lo convinse a rinunciare per sempre alla romanizzazione della Germania. Quella battaglia tremenda che cambiò le sorti del mondo di allora ma anche del nostro mondo di moderni, durò tre giorni e tre notti sotto l’infuriare dei temporali. Sconvolto, Augusto si convinse definitivamente della impossibilità di annettere la Germania. Abbandonò così uno dei più ambiziosi progetti dell’Impero romano, quello di portare il confine nordorientale all’Elba, seicento chilometri a est del Reno.
Augusto aveva condotto in Germania quasi vent’anni di guerre con massicce campagne militari impegnando decine di legioni, centinaia di macchine da guerra e migliaia di navi delle flotte fluviali e oceaniche, ma quella disfatta fu per lui un punto di non ritorno.
Ovviamente l’onta di Teutoburgo doveva essere vendicata e Tiberio, divenuto imperatore, affidò l’impresa al nipote Germanico che tornò sul campo di Teutoburgo disseminato delle ossa di ventimila uomini sei anni dopo il disastro per dare loro sepoltura, poi condusse la sua enorme armata contro Arminio a Idistaviso. Fu un bagno di sangue: mentre Germanico gridava «Non fate prigionieri!» i Germani lasciavano sul campo più di ventimila guerrieri disseminati lungo un’estensione di trenta chilometri. Il conto era saldato. Germanico supplicò Tiberio di permettergli di condurre a termine la conquista della Germania, ma non ci fu niente da fare. Dovette rientrare a Roma e ripartire poi per l’Oriente dove morì in circostanze misteriose. Due anni dopo morì anche il suo grande nemico Arminio perché voleva farsi re di tutti i Germani (il primo Reich?), assassinato dai suoi stessi consanguinei.
Molti sono gli interrogativi che restano senza risposta: perché Augusto voleva il confine all’Elba? Semplice rettifica del confine Reno-Danubio? Improbabile. E come mai Varo si fidò ciecamente di Arminio quando importanti capi germanici lo esortavano a metterlo subito in catene assieme a tutti i suoi compagni per alto tradimento? E come non si accorse in giorni e giorni di marcia che il comandante dei suoi ausiliari germanici lo stava portando in un mattatoio senza via di uscita? E come si era guadagnato Arminio la cittadinanza romana e il rango di eques se non in veste di ufficiale dell’esercito romano uccidendo molti dei suoi consanguinei durante le campagne di Tiberio del 5 e del 6?
Un eroe scomodo per la Germania moderna.
Come sarebbero stati l’Europa e il mondo se la Germania fosse stata romanizzata, se i popoli che un giorno avrebbero distrutto l’impero, devastato e saccheggiato le sue città avessero appreso il latino e imparato la disciplina sotto le aquile?
* * *
Non avevo mai esplorato in forma letteraria un evento di tanta formidabile potenza e mi sono riletto a fondo soprattutto Tacito, Velleio Patercolo e Dione Cassio.
Ma come delineare Arminio? Un mastino addomesticato alla guerra che scopre di essere nato lupo? E come suo fratello Flavus («biondo» il nome germanico è ignoto) che era anche lui un ufficiale romano e lo rimase anche dopo Teutoburgo: chiamò suo figlio «Italicus», come dire che la sua scelta di campo era chiara e lo sarebbe rimasta per sempre. Gli ho messo sul volto la maschera di bronzo del museo di Kalkriese per farlo comparire irriconoscibile a Teutoburgo e uccidere suo fratello Arminio se fosse stato possibile. Ho osato riscrivere l’incontro singolo dei due fratelli sulle rive del Weser, troppo retorico e impostato nella superba pagina di Tacito. L’ho riempito di foga e di insulti. Più verosimile. E mi sono occupato anche di altri due fratelli: il centurione Marco Celio, raffigurato in alta uniforme e decorazioni in un piccolo cenotafio del museo di Bonn, caduto a Teutoburgo e suo fratello Aulo, di Bologna tutti e due. «Se troverete le sue ossa portatele qui» ha scritto sulla pietra. Doveva aver seguito Germanico sul campo della strage per cercare le ossa del fratello centurione. Me li sono tirati su i miei personaggi e mi ci sono affezionato (in narrativa è lecito). E mi sono affezionato a tutti i legionari di Varo fatti a pezzi, inchiodati agli alberi attraverso le orbite degli occhi. Non potevo evitarlo. E ho sofferto a ucciderli uno per uno con le spade e le lance germaniche.
La Stampa TuttoLibri 1.10.16
Pound, non finisce mai il naufragio dell’Occidente
Dalla critica all’usura delle banche e alla “denarolatria” alle riflessioni su Confucio, al necrologio per Eliot
di Giorgio Agamben

Non si comprende l’opera di Pound se non la si colloca innanzitutto nel suo contesto proprio. Questo contesto coincide con una frattura senza precedenti nella tradizione dell’occidente, una frattura da cui l’occidente non soltanto non è ancora uscito, ma nemmeno potrà farlo se non sarà prima in grado di misurarne la portata in ogni senso decisiva. Dopo la fine della prima guerra mondiale era, infatti, chiaro per chi avesse mantenuto la lucidità, che qualcosa di irreparabile si era prodotto in Europa e che il nesso tra passato e presente si era spezzato. Che i primi a rendersene conto siano stati i poeti e gli artisti non deve stupire, poiché è ad essi che incombe in ogni tempo la trasmissione di ciò che vi è di più prezioso: la lingua e i sensi. Non si può nemmeno porre il problema delle avanguardie poetiche del Novecento se non s’intende preliminarmente che esse sono il tentativo di rispondere – con maggiore o minore consapevolezza secondo i casi – a questa catastrofe: esse non hanno a che fare con la poesia e con le arti, ma con la loro radicale impossibilità, col venir meno delle condizioni che le rendevano possibili.
La trasposizione in termini estetico-mercantili della crisi epocale che si era espressa nelle avanguardie è, per questo, una delle pagine più vergognose della storia dell’occidente, di cui i musei di arte contemporanea rappresentano oggi l’estrema e più ignava propaggine. Ciò in cui ne andava della stessa possibilità della sopravvivenza dell’uomo in quanto essere spirituale viene ridotto a un fenomeno di moda e liquidato una volta per tutte in forma di produzione di nuove merci […]. Soltanto in questo contesto l’opera di Pound – almeno a partire dai primi Cantos – diventa intellegibile. Egli è il poeta che si è posto con più rigore e quasi con «assoluta sfacciataggine» di fronte alla catastrofe della cultura occidentale. Ben più decisamente di Eliot, egli dimora in questa «terra devastata» – un inferno che, come egli suggerisce nel canto XLVII non si può credere, come ha fatto il «reverendo Eliot», di «attraversare in fretta». Ma proprio per questo, per lui «tutte le età sono contemporanee» ed egli può riferirsi immediatamente all’intera storia della cultura, da Omero a Cavalcanti, da Mani a Mussolini, da Dante a Browning, da Persefone a Woodrow Wilson, da Confucio a Arnaut Daniel. «Soltanto Pound» ha detto Eliot «è capace di vederli come esseri viventi» – a condizione di precisare che, nei Cantos, essi sono in verità soltanto frantumi, che sbucano per un attimo dal Lethe e incessantemente si rituffano in esso […].
Se la tradizione è accessibile solo come scheggia e frammento, il poeta a caccia di forme non vede davanti a sé che macerie – anche se queste sono, almeno per lui, vive e vitali proprio in quanto frammenti. Il suo canto inaudito è intessuto di questi lacerti, che, una volta esaurita la loro funzione, non sopravvivono a esso. Di qui l’impressione di artificiosità, così spesso ingiustamente rimproverata alla sua poesia: Pound procede come un filologo che, nella crisi irrevocabile della tradizione, prova a trasmettere senza note a piè di pagina la stessa impossibilità della trasmissione. Nella frase del Canto 76, in cui egli evoca se stesso come scriptor di fronte al naufragio dell’Europa, il termine sarà ovviamente da intendere «scriba», non scrittore. Di fronte alla distruzione della tradizione, egli trasforma la distruzione in un metodo poetico e, in una sorta di acrobatica «distruzione della distruzione» mima ancora, come copista, un atto di trasmissione. In che misura questo atto riesca, in che misura, cioè, il testo illeggibile, in cui un ideogramma cinese sta accanto a una parola greca e un vocabolo provenzale risponde a un emistichio latino, possa essere veramente letto è una questione a cui non è possibile rispondere sbrigativamente.
La verità e la grandezza di Pound coincidono – cioè si pongono e cadono – con la risposta a queste domande [...]. Di qui l’importanza di quegli scritti in prosa – come quelli di cui questo volume fornisce un’ampia testimonianza – in cui Pound espone le sue idee sulla poesia, sull’economia e la politica. Questi scritti sono a tal punto parte integrante della sua produzione poetica, che si è potuto a ragione affermare che «i Cantos sono ovviamente l’esposizione di una teoria economica che cerca nella storia una esemplificazione».
Come un poeta arcaico, Pound si sente responsabile dell’intero paideuma (come egli ama dire, usando un termine di Frobenius) dell’occidente in tutti i suoi aspetti. «Usura», «denarolatria» e, alla fine, «avarizia» sono i nomi che egli dà al sistema mentale – simmetricamente opposto allo «stato mentale eterno» che, secondo il primo assioma di Religio, definisce la divinità – che ne ha determinato il collasso e che domina ancora oggi – ben più che ai suoi tempi – i governi delle democrazie occidentali, dediti concordemente, anche se con maggiore o minore ferocia, all’«assassinio tramite capitale».
Non è qui il luogo per valutare in che misura, malgrado le sue illusioni sui «popoli latini» e sul fascismo, le teorie economiche di Pound siano ancora attuali. Il problema non è se la geniale moneta di Silvio Gesell, che tanto lo affascinava e sulla quale, per impedirne la tesaurizzazione, si deve applicare ogni mese una marca da bollo dell’un per cento del suo valore, sia o meno realizzabile: decisivo è, piuttosto, che, nelle intenzioni del poeta, essa denuncia quella «possibilità di strozzare il popolo attraverso la moneta» che egli vedeva non senza ragione alla base del sistema bancario moderno. Che il poeta che aveva percepito con più acutezza la crisi della cultura moderna abbia dedicato un numero impressionante di opuscoli ai problemi dell’economia è, in questo senso, perfettamente coerente. «Gli artisti sono le antenne della razza. Gli effetti del male sociale si manifestano innanzitutto nelle arti. La maggior parte dei mali sociali sono alla loro radice economici».
Repubblica 1.10.16
La crociata di Xi per la famiglia così Pechino cura il mal di divorzio
Le separazioni tra coppie Millennials crescono ormai a ritmi record Con un effetto: il freno dei consumi interni. E allora ecco gli “allontanatori” di amanti
di Angelo Aquaro

PECHINO. La guerra di Pechino al divorzio è appena cominciata e non saranno certo i ribelli della Me Generation, i ragazzi degli anni Ottanta e dell’ondata più consumista del Figlio Unico, a rovinare la formidabile ascesa di Xi Jinping e del suo “Sogno Cinese”. No, questi divorzi non s’avranno più da fare. La percentuale degli addii continua a salire ininterrottamente dal 2003 e l’ultimo numero disponibile, più 6 % nel 2015, è ormai paurosamente vicino a quel 6.9 % che sempre lo scorso anno ha segnato il primo stop in un quarto di secolo nell’espansione fin qui formidabile del Pil. Ed è più che un segnale d’allarme. Perché i due fenomeni vanno a braccetto come le coppie che infilano le porte girevoli dell’Ufficio matrimoni qui al Chaoyang District, uno dei più grandi di Pechino, capitale anche degli amori finiti (56mila, sei anni fa erano meno della metà) e che sempre più spesso si scontrano con le ragazze e i ragazzi che scendono ancora più soddisfatti le scale dello stesso ufficio: lato divorzi. Sliding doors, come nel film: basta poco. Se consensuale, l’addio si ottiene all’istante, previa compilazione di un semplice modulo che differisce da quello del matrimonio solo per il colore: rosso per dire per sempre sì, verde per ricredersi, e dire mai più.
That’s China. Tradizioni millenarie – addio mia concubina – che si intrecciano con i capricci dei Millennials, questi Piccoli Imperatori che prima hanno accontentato i genitori convolando alle nozze promesse e poi, con la stessa facilità, stanno facendo salire al cielo l’indice degli addii. Colpa, o merito, dell’ultima delle liberalizzazioni. Quando i comunisti presero il potere, 1949, cancellarono la vergogna della poligamia dell’era imperiale, ma per giustificare l’esuberanza di tanti leader, Grande Timoniere in testa, quattro mogli, introdussero uno sbrigativissimo divorzio. Solo nel 1980, dopo che Deng Xiaoping aprì il paese di Mao Zedong alle Quattro Modernizzazioni, la Marriage Law riconobbe il divorzio senza colpa. Finché, proprio come nel business, sono arrivate le semplificazioni, prima fra tutte la cancellazione dell’umiliante obbligo di ottenere il “visto” dal datore di lavoro. Ultimo atto, 2003, il divorzio in giornata.
Il fatto è che il boom ha finito per mettere in luce tutte le contraddizioni della seconda potenza economica del mondo. Prendete la signora Chen. «Ho aspettato dieci anni per questo giorno» sospira accomodata nelle poltroncine bianche nella hall degli uffici di Chaoyang, i cuoricini in cartone rosa penzolanti dal soffitto, il custode all’ingresso («No, non sono autorizzato a parlare») che distribuisce i numerini per le pratiche di matrimonio o divorzio. «Vengo dalla provincia di Henan, sono nata nel 1969, nel 1987 ero già sposata, quindi il primo e unico figlio, qui a Pechino: ho aspettato che crescesse e si sposasse lui, per divorziare io». La sua è una storia che sembra arrivare da un’altra Cina, il signor Liu – che non sembra particolarmente contento dello sfogo della prossima ex moglie con il cronista straniero – vive con un’altra donna da 10 anni. «E adesso» dice lei «sono io a volermi rifarmi una vita».
Separazione & liberazione? No, non sono questi gli addii – pure ancora tanti: la metà è dovuta a rapporti extramatrimoniali – a spaventare il regime. Con quasi 4 milioni di freschi divorziati contro i 12 milioni di novelli sposi, in discesa per il secondo anno consecutivo, la preoccupazione vera è un’altra: la decrescita, demografica ed economica. La diminuzione dei matrimoni è anche colpa di 35 anni di figli unici. Metteteci poi quello che il
New York Times chiama “il surplus degli uomini”, data l’atavica tendenza delle famiglie cinesi a non sperare che sia femmina, metteteci la tendenza dei Millennials a mollare tutto perché stanchi delle intrusioni dei genitori di lei o di lui (15% delle cause dei conflitto, confessione inimmaginabile nella Cina patriarcale di pochi anni fa) e i conti sono fatti. Ma se ci si sposa di meno e si divorzia di più, si faranno ancora meno figli: e chi finanzierà allora la crescita, adesso che il “socialismo dal volto cinese” ha deciso di puntare sui consumi delle famiglie, che in Cina oggi contano appena per il 34 % dell’attuale Pil, contro il 61% del Giappone e almeno il 68 % degli Usa? Ecco: fermare l’ennesima “nuclearizzazione” della famiglia cinese sarebbe già una soluzione. Ma come?
Se al cuore non si comanda, si prova a mettere mano al portafogli, favorendo la formazione di quei “consulenti di famiglia” che stanno facendo affari su affari. «Puntiamo al meglio per la coppia: non diamo certo per scontato che la salvezza del matrimonio sia una scelta migliore del divorzio» dice a China Daily Shi Xiuxiong, titolare dell’agenzia di Shanghai dal promettente nome de “Il Buon Acchiappo”. Il giornale vicino al governo presenta il fenomeno come un fiorire di iniziative private. Eppure proprio il Daily raccontava qualche anno fa che l’Associazione cinese dei lavoratori del sociale, evidentemente parastatale, si preparava ad addestrare un esercito di 10mila consulenti («minimo 35 anni di età e 5 anni di matrimonio alle spalle») per aiutare le coppie «a risolvere le difficoltà matrimoniali e cercare soluzioni alternative al divorzio». Come non vederci, anche qui, la longa manus dello Stato padre e padrone? Contattati da Repubblica, gli specialisti di “Peking Boss”, una delle più quotate compagnie specializzate di Pechino, alla richiesta specifica di un’intervista si sono tirati indietro. Per carità: mestiere complicato, il loro. Ma certamente meno spericolato della missione perseguita dai professionisti di quell’altro business fiorente in questa Cina malata di divorzio: gli “allontanatori di amanti”, veri e propri cacciatori delle donne che starebbero rovinando la vita alle altre donne. Occhio ai numeri: se un consulente matrimoniale viaggia sugli 800 yuan all’ora, cioè circa 100 euro, e l’intervento specialistico prevede dalle 3 alle 8 sessioni da 120 minuti ciascuna, il cacciatore di amanti può guadagnare anche decine di migliaia di euro. La differenza è che i primi appartengono a un albo riconosciuto, i secondi si nascondono nei segreti di Baidu, il Google di qui.
E ti pareva, dunque, che in un clima del genere non spuntasse la caccia ai cattivi maestri? L’insostenibile leggerezza del divorzio viene ascritta proprio alla nefasta influenza dei social, malgrado l’ombra della Grande Muraglia Virtuale si estenda ormai su mezza Internet. Perché non è solo sugli occidentali Facebook e Twitter, rigorosamente vietati, che viaggia il cattivo esempio. Perfino il vecchio Quotidiano del Popolo qualche tempo fa si è tuffato in un dibattito su Weibo, il microblogging da 200 milioni di iscritti, per rilanciare le accuse degli internauti che davano alla facilità degli incontri online il proliferare delle separazioni.
Sarà. O sarà che anche in questo la Cina è più vicina di quanto pensiamo. Mentre noi ci attacchiamo alla telenovela Brangelina, il Brad Pitt e l’Angelina Jolie di qui si chiamano Zhou Yahui e Li Qiong. Due eroi del nostro tempo. Diventati ricchissimi con l’azienda di coppia, la compagnia di giochi online Kunlun, lui ha deciso di licenziare lei dalla (sua) vita e dalla (loro) società. Costo dell’operazione? Sette miliardi e mezzo di yuan, circa un miliardo di euro, il divorzio più caro della Cina. Per la cronaca, l’ultimo titolo che il magnate separando ha acquistato da Hollywood, da trasformare ovviamente in videogioco, ha un nome che sembra un programma: Terminator. La guerra al divorzio è appena cominciata: riusciranno i padroni di Pechino a sconfiggere un nemico così?
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L’impegno della parastatale Associazione dei lavoratori del sociale che addestra un esercito di 10mila consulenti per aiutare le coppie La percentuale degli addii continua a salire ininterrottamente dal 2003 E porta al primo stop in un quarto di secolo nell’espansione del Pil
il manifesto 1.10.16
Il mostro a due teste del Messico
Stritolati. Da una parte la violenza delle bande criminali, dall’altra quella di uno Stato complice e latitante. Nel mezzo una realtà fatta di desaparecidos, fosse comuni e politici corrotti. Così per avere una via d’uscita i giovani cresciuti nelle municipalità periferiche di Mexico City recuperano l’identità comunitaria della "pandilla"
di Marino Ficco

CITTÀ DEL MESSICO Ogni mattina le bacheche per gli annunci del metrò di Città del Messico vengono ricoperte di volantini di familiari che cercano un caro scomparso. Le edicole sono quotidianamente decorate con nuove foto di morti ammazzati. La tv pubblica propone carrellate di omicidi e sparizioni.
Dal 2006 il Messico è un paese in guerra. «L’offensiva contro il narcotraffico dell’allora presidente Calderón ha scatenato una spirale di violenza che non ha nulla da invidiare all’Afghanistan, la Siria, lo Yemen e l’Iraq» dice la giornalista Veronica Basurto. Oltre 175mila morti in dieci anni di conflitto. 20.525 omicidi dolosi nel 2015. Più di 28.000 donne, uomini e bambini desaparecidos, scomparsi nel nulla; 82 sindaci morti ammazzati in dieci anni; 11.257 omicidi nei primi sette mesi del 2016, di cui 10 giornalisti. Cifre, dietro le quali si infrangono i sogni dei giovani e degli oltre 22 milioni di adolescenti del paese.
Il pericolo
«I giovani non sono un pericolo, sono in pericolo» ripetono spesso Carlos Cruz ed Erika Llanos Hernández, rispettivamente fondatore e direttrice dell’associazione Cauce Ciudadano. «Il problema della violenza in Messico va al di là delle droghe: è la conseguenza di un paese che ha dimenticato i suoi giovani», continua Carlos, che fino al 2000 era il leader di una pandilla, una banda che controllava gran parte del territorio della delegazione Gustavo Madero, al nord di Città del Messico. «Fino al 2000 anche questo ristorante si trovava nel mio territorio e doveva obbedire a noi» confessa Carlos mentre il cameriere ci porta dei deliziosi tacos di pesce tipici dello stato di Jalisco. Per anni lui e la sua banda sono stati responsabili di traffici illeciti e furti. E poi? «Eravamo in 23 quando avevamo 13 anni e solo in 3 siamo arrivati ai 17 – dice Carlos –. Un giorno è morto un mio amico, allora abbiamo parlato col resto della pandilla e alcuni di noi hanno deciso di abbandonare la violenza senza rinnegare i nostri valori».
Da 16 anni la casa della nonna di Carlos è diventata la sede dell’associazione, che cerca di fornire ai giovani una comunità libera dalla violenza e strumenti per vivere una vita migliore. Una sala polivalente permette di organizzare incontri ma anche di ospitare l’atelier di fotografia, «dove si impara l’importanza della luce», spiega Erika, la direttrice, che ha studiato sociologia all’Universidad Nacional Autonoma de México. Una minuscola stanzetta è diventata un pratico studio radiofonico: «Ho cominciato facendo radio comunitaria – aggiunge Erika -, in questo contesto è un ottimo strumento per creare ponti tra le persone». Nell’adiacente atelier di pittura molti writer custodiscono bombolette e altri strumenti. Un altro studio è il covo dei musicisti del quartiere, tra cui molti rapper, che provano e registrano. Infine la cucina, che «permette di recuperare antiche tradizioni culinarie e di portare ogni tanto un buon pasto ai compagni detenuti che partecipano ai nostri atelier», spiega Giovanni.
«In Europa non sapete più fare comunità – dice Carlos -. Noi mettiamo a disposizione della comunità l’identità della pandilla. I giovani entrano nelle bande alla ricerca di protezione e amicizia per poi diventare semplici mercenari della criminalità». Molti si ritrovano in una spirale di violenza per difendere il loro quartiere dagli attacchi esterni. Ma nelle municipalità periferiche spesso il latitante è lo Stato. «Durante l’infanzia abbiamo sofferto la violenza – aggiunge Carlos – e durante l’adolescenza abbiamo cominciato a generarla».
Ma una piccola associazione di periferia come può risolvere i problemi di un paese di 120 milioni di abitanti? «Una delle cose che abbiamo capito fin da subito e che cerchiamo di rafforzare sempre più è la necessità di fare rete con le altre organizzazioni che condividono i nostri obiettivi» spiega Erika parlando di come è nata nel 2015 la Red RETOÑO, una rete di associazioni che tentano di prevenire e risolvere i danni della delinquenza organizzata. Tra queste ci sono anche Libera, l’associazione anti-mafie italiana, e Marabunta, una «Brigata Umanitaria di Pace» che da dieci anni partecipa alle manifestazioni per assicurarsi che non avvengano violazioni dei diritti umani. Inoltre aiutano i familiari dei desaparecidos nelle loro ricerche esplorando fondali marini, anfratti e potenziali fosse comuni.
La morte e la beffa
Fernanda segue le attività della Red RETOÑO e di Cauce Ciudadano per i familiari di desaparecidos. Ci conosciamo un sabato mattina in un ex convento al sud di Città del Messico, dove è in programma una formazione rivolta a coloro che sono alla ricerca di un caro. «L’idea è di trasformare coloro che stanno subendo un’ingiustizia in difensori dei diritti umani» spiega Onil, originario di Cuba, che lavora per la rete. Ogni due settimane c’è un incontro di formazione e alcuni dei familiari vengono da stati molto lontani. Malgrado la formazione sia sulla differenza tra genere e sesso, se possono prendono la parola e ne approfittano per raccontare la vicenda della scomparsa del loro caro.
Araceli Rodríguez Nava cerca il figlio Luis Ángel León Rodríguez, agente di polizia, da oltre sei anni. Scomparso in circostanze misteriose insieme a sei colleghi sulla strada verso Ciudad Hidalgo, nel 2013 si aggiunge la beffa di un procedimento giudiziario con l’accusa di abbandono del posto di lavoro e per non aver effettuato la dichiarazione dei redditi. La madre accusa i gruppi criminali La familia michoacana e Los caballeros templarios, un gruppo di fanatici che sfruttano il cristianesimo per giustificare e imporre il loro regime del terrore. «Anche se non troverò il mio Luis Ángel – conclude Araceli – sto incontrando tante altre persone, sto dando vita alla vita… Questo mi dà la forza per continuare la mia lotta contro un mostro a due teste: il governo e la criminalità».
Recentemente è stato messo in piedi un sistema di protezione dei familiari minacciati, migliore del dispositivo che dovrebbe difendere i giornalisti. Per esempio J. vive e lavora in località segreta, ma è libero di spostarsi dove vuole nel paese con la scorta. Oltre a un sussidio economico riceve settimanalmente grandi quantità di derrate alimentari «che regalo ad amici e parenti perché io non me ne faccio niente di 20 kg di carne, patate, formaggio etc.» In generale i dispositivi di protezione delle persone minacciate sono semplici e non sempre efficaci, come nel caso del fotografo Rubén Espinosa minacciato a Veracruz in seguito alle sue inchieste sull’operato criminale del governatore Javier Duarte. Si cerca di far trasferire la persona minacciata nella capitale, dove la presenza dello Stato è più forte. «Spesso scompaiono professionisti che sono costretti a lavorare per la criminalità, per esempio ingegneri, architetti, medici – dice Veronica Besurto -. Inoltre si dà sempre la colpa al narcotraffico per qualunque omicidio o sparizione, ma spesso è una scusa per giustificare l’assenza di indagini, anche perché l’infiltrazione criminale nella politica è molto alta».
Nello stato del Morelos è particolarmente facile identificare le zone grigie di connivenza silenziosa tra politica e criminalità. Nel 2014 è stata scoperta una fossa comune presso Tetelcingo. «117 cadaveri, tra cui quattro bimbi, che riportavano segni di morte violenta e torture sono stati sepolti come se fossero spazzatura senza autopsia né identificazione di routine, compito della procura dello Stato» accusa Valentina Peralta, zia di una delle vittime. Per la prima volta un’università pubblica ha aiutato un’associazione di familiari di desaparecidos nel tentativo di identificare i corpi sepolti nella fossa comune, sostituendosi alla procura inefficace e corrotta. Per il momento sono stati identificati i resti di otto corpi dai familiari.
«L’ipotesi più probabile è che ci sia stata la volontà di coprire dei delitti; siamo di fronte all’opera di alcuni apparati dello Stato corrotti» accusa il dottor Ivan Martinez Duncker, della Comisión Científica de Identificación Humana della Universidad Autónoma del Estado de Morelos (Uaem). In seguito la procura ha aperto un’inchiesta interna, confermando le falle procedurali. Secondo Roberto Villanueva dell’Uaem le condizioni dei cadaveri porterebbero il marchio di fabbrica del gruppo criminale degli Zetas, molto forti nella regione, e che avrebbero siglato dei patti con la classe dirigente. Nonostante tutto, da parte sua il governatore Graco Ramírez risponde alle accuse affermando che la fossa è «totalmente legale», che i cadaveri «furono regolarmente identificati» e che «quest’inutile polverone è costato oltre 5 milioni di pesos alle casse dello Stato». Inoltre ha annunciato un taglio ai fondi destinati all’Uaem, l’università del dottor Duncker.
Fuori controllo
Situazioni analoghe si possono trovare in tutti gli Stati della repubblica messicana, ma in particolare nello stato di Veracruz, dove venerdì 2 settembre è stata trovata l’ennesima fossa comune con 192 corpi a Xalapa. «Il problema di alcuni stati fuori controllo, come Tamaulipas e Veracruz, si aggrava nel periodo di transizione di sei mesi tra le elezioni e l’insediamento del nuovo governatore, quando lo Stato è assente e la criminalità si rafforza» assicura Erika Hernández.
«Ma il problema principale è sicuramente la tratta di esseri umani – dice Fernanda – la cui analisi permette di capire molti dei problemi attuali del paese». Grazie ai numerosi reportage nazionali e internazionali, tutti sanno che Tenancingo, un piccolo paesino vicino Puebla, è la capitale della tratta femminile, eppure lo Stato non interviene e talvolta le sole associazioni non possono risolvere tutto. Le principali vittime della tratta di esseri umani sono le giovani donne e i migranti. In Messico l’icona dell’assistenza ai migranti si chiama Alejandro Solalinde, un sacerdote che ha fondato un centro d’accoglienza, Hermanos en Camino per i migranti dell’America centrale e meridionale in cammino verso gli Stati Uniti. Vengono per la maggior parte da Salvador, Honduras e Guatemala. «Fuggono dalla violenza delle maras, da violenza, povertà e corruzione» ci spiega Paola, che coordina Adolescentes en Camino, un nuovo centro aperto ad agosto nella periferia nord della capitale per accogliere, proteggere e consigliare i migranti minori in transito. Padre Solalinde ha deciso di aprirlo qui perché è il solo posto franco di tutto il paese, dove nessuno è clandestino. I venti ospiti del centro sono adolescenti abbandonati a loro stessi. Alcuni sono sposati con figli nonostante non abbiano ancora compiuto 18 anni. C. ha 17 anni, un passato criminale nella famigerata Pandilla 18 di Città del Guatemala. Ha impugnato un’arma per la prima volta a 13 anni. «Certo che ho ammazzato qualcuno – dice – erano nemici che tentavano di occupare il nostro quartiere; lo Stato ci abbandona e noi dobbiamo difenderci».
Leo sogna di diventare cantante rap. In Honduras non può. Proverà negli Stati Uniti. Gabriela sogna di fare la maestra a Orizaba. In Messico non può. Troppa violenza. Proverà in Europa. José sogna di ritrovare i fratelli scomparsi. Ha deciso di restare. Non ha altra scelta. Ci tiene a farmi ascoltare la sua canzone preferita, I Want to Break Free: «Voglio fuggire lontano dalle tue bugie». E ricominciare a vivere.
Repubblica 1.10.16
Trump e il segreto dei leader populisti
di Ian Buruma

HILLARY Clinton ha detto che metà di quelli che votano Donald Trump sono “deplorevoli”. Un’affermazione né tattica né elegante, per la quale in seguito si è scusata — benché nel farla avesse più ragione che torto. Trump ha attratto molti sostenitori le cui opinioni — ad esempio riguardo alla razza — sono davvero deplorevoli. Il problema è che molti di questi elettori deplorevoli sono anche relativamente ignoranti, e ciò fa sembrare il commento di Clinton snob.
Purtroppo negli Usa le persone relativamente ignoranti sono troppe. Tra i Paesi industrializzati gli Stati Uniti si collocano agli ultimi posti nelle classifiche che misurano il tasso di alfabetizzazione, la cultura generale e le conoscenze scientifiche. Giapponesi, sudcoreani, olandesi, canadesi e russi si piazzano meglio. Ciò è almeno in parte conseguenza di un’istruzione troppo legata alle condizioni economiche: chi ha soldi riceve un’istruzione ottima, mentre coloro che dispongono di mezzi scarsi non vengono istruiti sufficientemente.
Al momento parrebbe che Clinton stia facendo presa sulla classe urbana, più istruita, mentre Trump attrae perlopiù uomini bianchi e meno scolarizzati, molti dei quali in passato sarebbero stati dei minatori di carbone o degli operai che davano il proprio voto ai democratici. Ciò significa che c’è un nesso tra l’istruzione, o la sua mancanza, e la propensione a farsi sedurre dal pericoloso fascino di un demagogo?
Uno degli aspetti più sorprendenti di Trump è rappresentato dal suo livello di ignoranza, e dal fatto che egli riesca a ostentarla facendola franca. Per un candidato sguaiato e ignorante, fare presa su un gran numero di persone la cui conoscenza del mondo è modesta quanto la propria è forse più facile. Tale affermazione si basa tuttavia sul presupposto che nella retorica di un agitatore populista la realtà dei fatti abbia un suo peso. Molti dei sostenitori di Trump non sembrano interessati ad argomentazioni ragionevoli, che ritengono una cosa da snob liberal. Quel che conta per loro sono soprattutto le emozioni, e le emozioni su cui i demagoghi amano fare presa sono in primo luogo la paura, il risentimento e la sfiducia. Ciò era vero anche in Germania, quando Hitler salì al potere. Inizialmente, però, la maggior parte dei sostenitori del Partito nazista non apparteneva alle classi meno istruite. In Germania il livello di istruzione era in media superiore a quello di altri Paesi, e tra i nazisti più entusiastici si contavano insegnanti, ingegneri e dottori, oltre che piccoli uomini d’affari di provincia, impiegati e coltivatori. Nel complesso, gli operai delle città e i cattolici conservatori erano meno suscettibili alle lusinghe di Hitler di quanto non lo fossero molti protestanti ben più istruiti.
L’ascesa di Hitler non può essere spiegata con un livello di istruzione basso. Nella Germania di Weimar, all’indomani della sconfitta bellica e di una depressione economica devastante, paura e risentimento erano quasi endemici. Ma i pregiudizi razziali fomentati dalla propaganda nazista non erano gli stessi che oggi si riscontrano tra molti dei sostenitori di Trump. Gli ebrei erano visti come una forza sinistra che dominava le professioni elitarie. Erano considerati alla stregua di traditori: erano loro che impedivano alla Germania di tornare grande. Mentre i sostenitori di Trump dimostrano un’ostilità analoga nei confronti dei simboli delle élite (come i banchieri di Wall Street e gli insider di Washington), la loro xenofobia è invece diretta contro i poveri immigrati messicani o i rifugiati mediorientali — visti come dei parassiti. Si tratta di persone relativamente svantaggiate che in un mondo globale e multiculturale se la prendono con chi ha addirittura meno di loro.
Negli Stati Uniti dei nostri giorni, così come nella Germania di Weimar, coloro che provano risentimento e paura nutrono talmente poca fiducia nelle istituzioni economiche e politiche da affidarsi a un leader che promette un livello di rottura massimo. Sperano che facendo piazza pulita si possa tornare ad essere grandi. Nella Germania di Hitler tale speranza era condivisa da tutte le classi sociali, nell’America di Trump è soprattutto appannaggio delle frange più svantaggiate.
Negli Usa e in Europa il mondo appare meno spaventoso alle classi più istruite e benestanti. Ovvero le classi che traggono giovamento dall’apertura delle frontiere, dal basso costo della manodopera fornita dagli immigrati, dal diffondersi dell’informatica e dalla ricchezza delle influenze culturali. Gli immigrati e le minoranze etniche che desiderano migliorare le proprie condizioni non hanno alcun interesse ad unirsi a una ribellione populista che è diretta principalmente contro di loro, ed è per questo che voteranno per Clinton. Trump deve quindi puntare sugli americani bianchi e delusi. È grave che nella società Usa tante persone sostengano un candidato così inadeguato. E questo deve avere qualcosa a che fare con l’istruzione. Non perché le persone istruite siano immuni alla demagogia, ma perché un sistema scolastico allo sfascio lascia troppe persone in una condizione di svantaggio. In passato l’industria garantiva a un sufficiente numero di individui meno istruiti dei posti di lavoro che permettevano loro di vivere decentemente. Adesso che nelle società post-industriali quei posti di lavoro stanno scomparendo, in troppi credono di non avere nulla da perdere. E se ciò è vero in molti Paesi, nel caso degli Stati Uniti è più preoccupante, perché affidando quella nazione a un demagogo ignorante non si causerebbero solo gravi danni in quel Paese, ma anche in tutti quei luoghi dove le istituzioni che ci garantiscano le nostre libertà continuano ad essere apprezzate.
(Traduzione di Marzia Porta)
il manifesto 1.10.16
La Palestina e i destini incrociati
Dopo i funerali. Con Peres i destini incrociati del mondo, intanto la Palestina può attendere
di Tommaso Di Francesco

«Il popolo ebraico non è destinato a occupare, a governare un altro popolo… abbiamo un’altra storia e tradizione come popoli, noi siamo nati contro lo schiavismo»: la frase di Barack Obama che pronunciava l’orazione funebre per l’ex presidente israliano Shimon Peres è precipitata come un macigno su una cerimonia ufficiale dove tutto era prestabilito. Certo qualcosa di dissonante da parte sua era atteso. È l’uomo che all’Università del Cairo nel 2009 concludendo l’appello ai giovani del mondo arabo confessava: «Sento in in cuor mio la disperazione del popolo palestinese, ancora senza terra e senza patria».
A sette anni di distanza il popolo palestinese resta non solo senza terra e senza patria, senza status e futuro, ma in una dimensione politica surreale e peggiorata rispetto al 2009. Resta un popolo di profughi dal 1948, anno della Nakba la cacciata dalle terre palestinesi, ha infatti anticipato nella storia la condizione attuale di milioni e milioni di esseri umani in fuga da guerre e miseria. Vive in campi profughi nella sua stessa terra, o da rifugiato malvisto in tutto il Medio Oriente. E ha subito da allora almeno altre due guerre sanguinose. Sei milioni di palestinesi vivono sotto occupazione militare dal conflitto del 1967, nonostante due Risoluzioni Onu impongano ad Israele di ritirarsi. E, mentre la Striscia di Gaza è chiusa in una prigione a cielo aperto, Israele non si ritira.
Dalla Cisgiordania, anzi estende le sue colonie a dismisura, ogni governo israeliano ha fatto così dagli anni Sessanta. Sono centinaia gli insediamenti colonici, ognuno controllato da presidi militari. Una miriade di colonie, una ragnatela così fitta che ha cancellato la continuità territoriale di un possibile Stato di Palestina. E come se non bastasse il popolo palestinese è racchiuso da un Muro voluto da Sharon, ma approvato da Peres. E sul quale il mondo tace.
Politicamente la situazione palestinese è quasi peggiore. Ieri tutti hanno apprezzato ai funerali di Shimon Peres il saluto tra Netanyahu e Abu Mazen. Ma il presidente dell’Anp è ormai ostaggio della Comunità internazionale, conta internamente sempre meno, sempre meno convincente per le promesse di pace mancate. E l’annuncio della cancellazione della data delle prossime elezioni palestinesi ha fatto sorgere il motivato sospetto del timore per una affermazione di Hamas anche in Cisgiordania.
Come avvenne nel 2006, quando vinse le elezioni non solo a Gaza, e da allora cominciò una rottura drammatica, molto indotta dall’esterno, tra Fatah e il movimento islamista che dura tuttora.
Senza dimenticare che la cerimonia è stata disertata da re Abdallah di Giordania e dal generale presidente egiziano Al Sisi, pur alleati di ferro di Israele ma timorosi delle rispettive opinioni pubbliche.
Resta da vedere quanto peserà il discorso di Obama, forse l’ultimo sulla questione israelo-palestinese. Per un presidente che a novembre uscirà di scena e che pur avendo annunciato di sentire il dolore dei palestinesi senza diritti e terra, in questi sette anni e con due mandati non ha fatto molto per migliorare quella condizione. Mentre lo schema interpretativo sui Territori occupati palestinesi resta quello ambiguo della «pace che viene dalla sicurezza»: era dello stesso Peres che, oltre ad avere avviato i primi piani di colonizzazione, ha trasformato Israele in una potenza nucleare speciale: ha l’atomica ma resta fuori da ogni controllo e Trattato internazionale.
Le proposte ripetute anche ieri da Netanyahu ricopiano la necessità della forza ma, naturalmente, «per raggiungere la pace». Del resto l’ultimo provvedimento di Obama, la consegna in questi giorni a Netanyhau di 38 miliardi di dollari in armi, va nella stessa direzione e per uno degli eserciti più potenti del Medio Oriente e del mondo. Siamo dentro l’algoritmo dell’occupazione militare «per fare la pace», da parte di uno Stato, Israele, che non ha confini istituzionali e rivendica la sua espansione. Aspettando Donald Trump, l’incendiario che vuole Gerusalemme capitale indivisa d’Israele – quando le Risoluzioni Onu ribadiscono che appartiene a due popoli e a tre religioni – oppure in attesa di Hillary Clinton che ha promesso a Netanyahu che la comunità internazioanle non deve intromettersi. La Palestina può attendere.
Ieri comunque ha dominato la serena memoria di Obama, quando ha ricordato che con Peres, «che ha incontrato dieci presidenti americani», parlava anche di Nelson Mandela, tra gli ispiratori del presidente statunitense. Chissà che diceva Shimon Peres di Mandela visto che i suoi governi israeliani sostenevano il regime bianco dell’apartheid che imprigionò il leader sudafricano fino 1994? Quel Mandela che fino all’ultimo sospiro ha urlato al mondo intero: «La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».
Se, come ha ricordato il presidente americano, i destini di Obama e Peres si sono incrociati, qual è il destino del popolo palestinese?
il manifesto 1.10.16
Palestinesi stanchi delle promesse non mantenute da Obama
Intervista. Parla Ghassan al Khatib, analista della Bir Zeit Università: Abu Mazen è andato ai funerali di Peres per aiutare la causa palestinese. Le critiche del presidente americano a Netanyahu non hanno gambe, non portano mai a nulla
di Michele Giorgio

GERUSALEMME La foto ha subito fatto il giro della rete: il presidente palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Netanyahu che si stringono la mano. Un gesto che non si vedeva da anni e che ha fatto parlare di disgelo e di ripresa delle trattative tra le due parti. Le cose sono ben diverse. Lo scontro tra il leader dell’Anp e il primo ministro israeliano non è terminato, anzi, e le due parti continueranno a scambiarsi accuse durissime. Di ciò e del significato dell’eulogia di Peres fatta ieri da Barack Obama al Monte Herzl di Gerusalemme abbiamo parlato con l’analista Ghassan al Khatib, docente di scienze politiche all’università cisgiordana di Bir Zeit.
Abu Mazen è stato l’unico leader arabo a partecipare ai funerali di Shimon Peres. Una scelta che tanti palestinesi hanno accolto con disappunto
Abu Mazen non era in una posizione facile, era preso tra due fuochi. Sapeva che i leader occidentali si aspettavano di vederlo oggi (ieri) a Gerusalemme. Probabilmente deve aver pensato che essere ai funerali di Peres avrebbe migliorato la sua immagine e quella della causa palestinese sulla scena internazionale.
E ha ottenuto questo risultato
Credo di sì. Certo il passo mosso da Abu Mazen non porterà ad alcun progresso effettivo per il rilancio delle trattative. Tuttavia se mettiamo la sua decisione in relazione ai rapporti che l’Autorità nazionale palestinese mantiene con gli Stati Uniti e l’Europa allora la scelta è stata quella giusta, sebbene alla popolazione (palestinese) o a gran parte di essa non sia piaciuto vederlo onorare un leader israeliano associato alla catastrofe nazionale palestinese. In queste situazioni è sempre un dilemma compiere passi che possono avere dei risultati positivi all’esterno e tradire allo stesso tempo le aspettative della propria opinione pubblica.
Come si interpreta sul lato palestinese l’elogio funebre di Peres pronunciato da Barack Obama. I palestinesi pensano che sia stato una critica indiretta alla politica oltranzista del premier israeliano Netanyahu come sostengono alcuni
Senza alcun dubbio è stata una critica indiretta della politica di Netanyahu e del suo governo nei confronti dei palestinesi. Però siamo nella situazione abituale. Le critiche di Obama sono sempre generiche, in questi otto anni non si sono mai tradotte in azioni sul terreno. E soprattutto non hanno mai fermato l’appoggio degli Stati Uniti a Israele e a Netanyahu. Le parole di Obama non significano nulla per Israele perchè non rappresentano una forma di pressione concreta.
Quindi le frasi pronunciate da Obama non hanno lasciato alcun segno positivo tra i palestinesi
Per forza, perchè queste critiche non hanno braccia, non hanno gambe, non hanno mani, non hanno conseguenze pratiche di alcun tipo. E il popolo palestinese, anche le persone che non seguono abitualmente la diplomazia, pensa che siano discorsi vuoti che non porteranno ad alcun cambiamento. Obama è stato una delusione cocente per i palestinesi. Il presidente aveva affermato nel suo famoso discorso (al Cairo) del 2009 di avvertire la pena del popolo (i palestinesi) senza uno Stato e la libertà. Ma quelle parole non hanno messo in moto i cambiamenti che i palestinesi si aspettavano nella politica Usa in Medio Oriente. Dopo otto anni la nostra popolazione ha compreso la sostanza delle promesse e delle dichiarazioni di Obama. Le ascolta e le alza le spalle, semplicemente perché sa che non cambierà nulla. E questo non vale solo per gli Stati Uniti, anche in Europa. Ogni volta che il governo Netanyahu espande le sue colonie nelle nostre terre i governi occidentali non fanno nulla di concreto per fermarlo. Israele sa che sono soltanto parole e continua la sua politica senza temere alcun tipo di sanzione.
Parole simili alle promesse di pace fatte da Peres per una quarantina di anni
Appunto. In Occidente l’ex presidente israeliano era considerato un alfiere della pace, uno statista che aveva dedicato una porzione significativa della sua vita alla ricerca di una soluzione di pace. Per i palestinesi è ben diverso. Peres è stato un protagonista del progetto del movimento sionista che è la causa dell’ingiustizia storica subita dai palestinesi. Sia nel 1948 che nel 1967, anno in cui la parte restante della Palestina fu occupata ed è nota la simpatia che Peres ebbe per il movimento dei coloni. Il suo partito, il laburista, è stato responsabile dell’avvio della colonizzazione, considerata oggi uno dei principali ostacoli ad una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese. E non dimentichiamo che gli Accordi di Oslo sono falliti perché Peres, Yitzhak Rabin e altri leader israeliani non hanno rispettato le scandenze previste. Peres e i suoi colleghi volevano mangiare la torta senza pagare il suo prezzo.
il manifesto 1.10.16
Obama, l’elogio di Peres è la condanna di Netanyahu
Israele. Il presidente americano non ha mancato l'occasione dei funerali dell'ex presidente morto tre giorni fa per lanciare un nuovo attacco alla politica del premier Netanyahu
L'affondo finale prima di lasciare la Casa Bianca però non è certo
di Michele Giorgio

GERUSALEMME E’ andata come previsto. Barack Obama ieri non ha mancato di usare l’elogio funebre di Shimon Peres, al cimitero del Monte Herzl di Gerusalemme, davanti ai leader di una ottantina di Paesi (non c’era Putin, perchè?), per indirizzare una condanna indiretta della politica nazionalista e oltranzista del premier israeliano Benyamin Netanyahu. Quando il presidente americano ha preso la parola, dopo gli interventi del capo dello stato Rivlin, dello scrittore Amos Oz, di Bill Clinton, dei familiari di Peres e di Netanyahu, mentre ancora riecheggiavano le note del brano “Avinu Malkeinu” cantato da David D’or, il premier israeliano ha ostentato tranquillità. Sapeva però che Obama si sarebbe tolto qualche altro sassolino dalla scarpa dopo otto anni rapporti personali a dir poco difficili. «Il popolo ebraico non è nato per governare un altro popolo», ha proclamato Obama in evidente riferimento all’occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi. «Non credo che Peres fosse un ingenuo – ha aggiunto – Israele ha vinto tutte le guerre ma non quella maggiore: quella di non aver più bisogno di vincere».
Obama, tracciando la figura di Peres, di fatto ha voluto rimarcare la differenza che tra l’idea dei palestinesi che aveva l’ex presidente israeliano morto tre giorni fa e quella di Netanyahu. Peres, ha spiegato, «insisteva nel vedere tutti gli esseri umani come aventi diritto alla medesima dignità, inclusi i palestinesi i quali, secondo lui, hanno diritto all’eguaglianza e alla sovranità». Poi ha ammorbidito, ma solo un po’, l’attacco esaltando l’impegno di Peres per la sicurezza e la difesa di Israele. «Per il suo senso di giustizia – ha proseguito Obama – e per la sua analisi delle condizioni di sicurezza di Israele, Peres comprese che per la difesa di Israele i palestinesi devono avere un proprio Stato». Con la morte di Shimon Peres, ha concluso Obama, «per Israele si chiude un periodo storico e il suo futuro è ora affidato nelle mani della nuova generazione». Poi si è avvicinato al feretro, ha appoggiato la mano e ha pronunciato in ebraico «Todà rabbà, haver yakar (Grazie tanto, caro amico)», echeggiato la frase di addio che l’allora presidente Usa Bill Clinton rivolse a Yitzhak Rabin assassinato nel 1995 da un nazionalista religioso ebreo. Tornando al suo posto il presidente americano si è limitato ad un saluto gelido del premier israeliano e di sua moglie Sara.
Netanyahu che poco prima aveva scambiato, dopo anni, una stretta di mano con il presidente dell’Anp, Abu Mazen, unico leader arabo presente ai funerali di Peres – non c’erano neanche i rappresentanti dei palestinesi d’Israele -, ha provato ad anticipare e ad ammortizzare l’urto delle parole che dopo qualche minuto avrebbe pronunciato Obama, accreditando una sua recente e profonda amicizia con il presidente scomparso dopo anni di scontri e di far apparire Peres più un garante della sicurezza di Israele che un negoziatore e un uomo di pace. «Lo splendido Shimon Peres – ha affermato – ha fatto cose incredibili per garantire il nostro potenziale di difesa ma in parallelo ha fatto tutto quanto gli era possibile per raggiungere la pace con i nostri vicini». Non ha negato le differenze politiche con Peres ma, ha detto, «nel corso degli anni siamo diventati amici. Shimon, ti ho amato».
Il risveglio tardivo di un Obama determinato, in apparenza, a regolare qualche conto aperto con Netanyahu, è il segnale di quel “colpo di coda” del presidente americano che tanto temono, almeno a dar credito al quotidiano Haaretz, nell’ufficio del primo ministro israeliano? È difficile dirlo. L’inquilino della Casa Bianca ormai è agli sgoccioli del suo mandato e difficilmente, per ragioni istituzionali, vorrà o potrà vendicare sino in fondo lo sgarbo che gli fece Netanyahu a marzo 2015 quando, aggirando l’Amministrazione, rivolse davanti al Congresso un attacco durissimo all’accordo sul programma nucleare iraniano tanto cercato da Obama nonostante la posizione fortemente contraria di Israele. E comunque, sgambetti di Netanyahu a parte, il presidente Usa ha assicurato allo Stato ebraico un accordo decennale di aiuti militari statunitensi per 38 miliardi di dollari. Tuttavia il contenuto politico dell’elogio funebre di Peres, potrebbe anticipare un nuovo passo di Obama, dopo le elezioni che proclameranno nuovo presidente Hillary Clinton o Donald Trump, e prima della fine dell’anno. Si parla di un via libera dell’Amministrazione uscente alla conferenza internazionale su Israele e Palestina che il presidente francese Hollande intende convocare entro il 2016 e che è vista come fumo negli occhi da Netanyahu che insiste per un negoziato (peraltro inesistente) soltanto bilaterale con i palestinesi.
Mentre i funerali assumevano, come prevedibile, un carattere politico, Shimon Peres è stato sepolto non lontano dalla Tomba del suo compagno di partito e rivale Yitzhak Rabin.
Il Sole 1.10.16
Ai funerali tutti i grandi del mondo
L’omaggio a Peres e la pace tormentata
di Ugo Tramballi

«Non potrei sentirmi più onorato di essere qui, a Gerusalemme, per dire addio al mio amico». Avendo cercato la pace negli ultimi 30 anni della sua vita, Shimon Peres sarebbe stato felice se una parte di questa amicizia – intima, quasi tra figlio a padre - Barack Obama la riservasse per Bibi Netanyahu. Ma una questione di chimica personale, oltre che una totale divergenza politica, rendono il premier israeliano inviso al presidente americano. E viceversa. Il primo spera in una vittoria di Donald Trump, il secondo di fare un’ultima sorpresa a Netanyahu, prima di lasciare la Casa Bianca. Così ieri sul monte Herzl alle porte di Gerusalemme dedicato al fondatore del sionismo, Shimon Peres è stato sepolto nel luogo dove riposano gli eroi d’Israele. La bandiera bianca e azzurra è stata ripiegata; capi di Stato, di governo, principi e dignitari hanno ridisceso i monti di Giudea per raggiungere l’aeroporto in attesa del loro turno per decollare, Bibi Netanyahu è tornato nel suo ufficio di premier. E la possibilità di una ripresa del negoziato di pace fra israeliani e palestinesi, fermo da sei anni, resta lontana come prima. Peggio: nel “campo della pace” che per la maggioranza degli israeliani è sinonimo di illusi, alle spalle di Peres c’è un vuoto siderale. I partiti che appartengono a quel fronte, soprattutto i laburisti, consumano uno dopo l’altro candidati scialbi, regolarmente triturati da Netanyahu e dai sui alleati nazional-religiosi. Per Israele le guerre mediorientali sono alle frontiere, non oltre il Mediterraneo: qui dunque il populismo non fatica a conquistare consensi.
La notizia politica più eclatante di questa giornata d’addio, è stata la partecipazione di Abu Mazen alle esequie. Il presidente dell’Autorità palestinese aveva chiesto l’autorizzazione di esserci e Netanyahu l’aveva concessa senza esitare. Per affermare il loro possesso sull’intera e “indivisibile” città, è raro che gli israeliani aprano Gerusalemme ai dirigenti palestinesi. «Apprezzo molto che abbia voluto venire al funerale», ha detto Netanyahu ad Abu Mazen, con cordialità. I due si sono stretti la mano e hanno scambiato qualche parola. Ma sperare è esagerato. Le posizioni sono troppo distanti: il governo di Bibi ha approvato un nuovo allargamento delle colonie ebraiche attorno e dentro la Gerusalemme araba, e legalizzato 32 avamposti: spesso un avamposto è il nucleo di un nuovo insediamento. Il leader palestinese è un capo troppo debole, senza idee né il seguito di un popolo che ha esaurito le speranze. Eppure, se 70 fra le personalità di maggior potere nel mondo, sono salite fino a Gerusalemme, lasciando campagne elettorali e referendarie, bilanci da sistemare e banche da salvare, non è stato solo per onorare una personalità come Peres che per 70 anni ha calcato la scena israeliana, mediorientale e mondiale. L’hanno fatto anche per segnalare il desiderio irrealizzato di una pace per il più lungo conflitto dei nostri giorni: è iniziato nel XIX secolo, ha attraversato il XX e al sedicesimo anno del XXI ancora non ha un approdo. Con l’Isis e le guerre regionali, oggi non è una priorità per nessuno (a parte i palestinesi, naturalmente). Ma è il confronto più antico, il più legato alla memoria storica di tutti, la sua scena è il luogo dove sono nate le religioni del Libro. Nessun conflitto si risolve da solo: se abbandonato a se stesso prima o poi si rifà vivo con più drammaticità. Ogni fase di stagnazione di questo è sempre stata l’incubatrice di nuove esplosioni. Anche se il fronte sunnita nelle guerre civili arabe è un alleato naturale di Israele, l’Arabia Saudita e gli altri non formalizzeranno mai questo interesse condiviso senza una soluzione della questione palestinese: ignorare Abu Mazen perché l’Iran è una minaccia comune, è un conto; abbandonarlo è altro. Quello che Bibi Netaniahu teme di Barack Obama, e che ne aumenta la sfiducia e l’ostilità, è un colpo di teatro diplomatico entro gennaio, prima che un nuovo presidente occupi lo studio ovale. Obama potrebbe non porre il veto americano a una imminente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che rilanci il processo di pace: qualsiasi cosa si decida al Palazzo di Vetro, nella storia del conflitto gli Usa si sono sempre serviti dell’arma del veto contro qualsiasi proposta che non fosse a favore di Israele. Per Netanyahu sarebbe imbarazzante. Quasi disarmati, intanto ai palestinesi di Cisgiordania non resta che combattere quella che definiscono “intifada diplomatica”: un’offensiva internazionale che avrà pochi amici anche l’anno prossimo, nel cinquantesimo dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Invece armati, i palestinesi di Hamas a Gaza continueranno il loro insensato confronto militare con le forze armate più potenti della regione e fra le più preparate del mondo. La storia sembra senza fine. Chiunque lo abbia conosciuto in vita sa che sul monte Herzl da ieri Shimon Peres riposa. Ma non in pace.
La Stampa 1.10.16
In Grecia lotteria con auto usate in premio a chi chiede le fatture
di Luigi Grassia

In Grecia, terra d’origine della tragedia e della commedia, è arrivata l’ora della tragicommedia fiscale: il governo ha lanciato una lotteria nazionale con premi estratti a sorte fra i cittadini che si fanno rilasciare fatture, ricevute e scontrini fiscali dai lavoratori autonomi. L’idea è anche di incoraggiare l’utilizzo dei mezzi di pagamento elettronici al posto dei soldi contanti. Così (si spera) i professionisti, gli artigiani e i commercianti avranno più difficoltà a imbrogliare l’erario.
Noi in Italia sappiamo qualcosa di evasione fiscale, ma a questo livello non siamo ancora arrivati. Però non è detto.
Nella stessa Grecia la legge sulla lotteria fiscale non c’è ancora, ma il testo sta per essere presentato. I premi? Non sono di lusso, ma adatti a un Paese impoverito: ogni anno verranno messe in palio cinque auto usate e una casa.
Ultimamente di Grecia si parla poco, ma questo non vuol dire che Atene abbia risolto i suoi problemi: in realtà, nella quasi totale indifferenza del mondo, il Paese continua a vivere una catastrofe quotidiana, un disastro economico e sociale permanente, e purtroppo non si vede alcuna luce in fondo al tunnel. Fra le cose che proprio si ostinano a non funzionare è il sistema di raccolta delle tasse. La distruzione dell’economia greca ha molti colpevoli, fra cui l’irresponsabilità dei politici locali e le politiche europee che anziché dare una mano hanno aggravato la crisi, ma una delle cause fondamentali della bancarotta nazionale è la spudorata evasione fiscale. A pagare le imposte solo i lavoratori dipendenti e i pensionati, che sono quasi alla fame, mentre tutti gli altri la fanno franca, e nonostante l’urgenza di trovare risorse non si trova la maniera di risolvere il problema.
In questo c’è un monito anche per noi italiani: sarebbe bene far pagare le tasse dovute, sia pure senza persecuzioni fiscali, prima di arrivare alla bancarotta dello Stato.
La Stampa 1.10.16
Johannes Mahr
«Il governo fa leva sulle paure
Sta creando un Paese illiberale»
intervista di A.T.

Johannes Mahr, la Migráns Szolidaritás Csoport (MigSzol) è una delle ong che ieri ha organizzato la manifestazione anti xenofobia. Cosa vi aspettate dal voto di domani?
«Niente di buono se si raggiunge il quorum, ma non credo succederà. Gli ungheresi stanno iniziando a capire che Orban ha un piano ben preciso: creare un governo autoritario. Non è un segreto che, come ha dichiarato lui stesso, aspiri a una democrazia illiberale che segua l’esempio della Turchia e della Russia. Orban applica la distrazione di massa per attirare l’attenzione degli ungheresi su un non problema come i migranti e nascondere le magagne del Paese.».
Come spiega la sua enorme popolarità?
«Fidesz fa leva sulle paure di chi non sa cosa aspettarsi, di chi non ha mai viaggiato e visto il mondo, tanto meno un migrante. Sollecita i sentimenti più bassi, con le tecniche demagogiche del populismo. Si spinge a dire cose – come i migranti che portano malattie e sono tutti terroristi – in un modo talmente sfacciato che quasi ipnotizza le persone, le inchioda a delle verità assolute di cui nessuno dubita. Ma le cose stanno cambiando».
Cioè?
«Pian piano, grazie anche alle campagne di informazione degli ultimi mesi, gli ungheresi stanno iniziando a capire che forse Orban non è solo un nazionalista che difende gli interessi del Paese».
La Stampa 1.10.16
In piazza l’altra faccia dell’Ungheria
“Niente muri, non siamo tutti Orban”
Migliaia a Budapest contro il referendum su migranti e quote Ue voluto dal premier
di Monica Perosino

La piazza di fronte al parlamento è piena. In Kossuth tér a Budapest ci sono migliaia di persone. Sono arrivati in silenzio, alla spicciolata. Srotolando timidamente bandiere ungheresi ed europee hanno tirato fuori dalle borse – ma solo una volta superato il presidio della polizia - modesti striscioni fatti di cartone e fazzoletti. Le frasi sono scritte con pezzi di scotch rosso: «Siamo tutti persone», «Restiamo umani». «Restiamo umani», è anche lo slogan che sovrasta il piccolo palco montato in mezzo alla piazza, proprio sotto l’ufficio del primo ministro. È il messaggio della manifestazione organizzata dalle dieci principali ong ungheresi a meno di 48 ore dal referendum di domani sulla redistribuzione dei profughi in Ungheria voluta dall’Europa, che assegnerebbe al Paese 1.200 rifugiati in tutto.
È la prima volta che, in mesi di martellante campagna governativa per il «no», l’«altra» Ungheria scende in piazza. Il loro è un «no» che cerca di opporsi ai muri, alle centinaia di comizi governativi, ai 4 milioni di opuscoli e agli investimenti milionari per «l’immagine del Paese» che da quando il referendum è stato indetto hanno cercato di persuadere gli ungheresi che l’immigrazione mette in pericolo la cultura cristiana, porta terrorismo e malattie, rappresenta una minaccia concreta alla sicurezza e al benessere.
Quello di ieri è stato il primo, ma non è l’ultimo, tentativo di evitare che domani si celebri la vittoria di Fidesz, il partito di governo nazional-populista. Oggi la Coalizione democratica (all’opposizione) organizzerà una grande catena umana perchè «vogliamo rimanere in Europa» e domenica un gruppo di intellettuali, docenti universitari e artisti ha in programma una manifestazione contro la violenza e la paura.
In prima fila sotto il palco, schiacciata contro le transenne, c’è Rotzsa, 87 anni, che ondeggia con grazia al ritmo di Exodus, Bob Marley. Ride, tira fuori tutto il fiato che ha per urlare «Magyarország nem Orbàn!», l’Ungheria non è Orban. Accanto a lei Edit Vlahovis, 56 anni, attrice, e Agnes Komanomi, 47 anni, manager per le risorse umane. «Siamo qui oggi per dire agli ungheresi e all’Europa che non ci arrendiamo, che non tutti in questo Paese sono rimasti accecati dalla campagna di un governo che vuole distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi di cui soffriamo: un’economia stagnante, sanità ed educazione allo sfascio». Edit ha incontrato alcuni profughi alla stazione, qualche mese fa: «Gli ungheresi viaggiano poco, e conoscono meno ancora. Così la dittatura soft di Orban ha buon gioco. Nessuno, soprattutto nelle zone più rurali, lo ha mai visto un arabo. Basterebbe parlare con qualcuno di loro per capire che, alla fine, siamo tutti esseri umani».
Mentre la piazza si riempie è ancora il portavoce del governo, Zoltan Kovacs, a ribadire il pensiero di Orban: «Domani il messaggio a Bruxelles arriverà forte e chiaro: non si può fare politica contro la volontà della gente». I sondaggi prevedono che l’80% dirà «no» alle quote decise dall’Unione europea per i ricollocamenti, ma al tempo stesso mettono in forte dubbio che il quorum dei voti validi superi il 50%, rendendo illegittima la consultazione, come avvenne per passati referendum sull’Ue e la Nato. In più c’è l’appello di alcuni partiti di opposizione al voto nullo, barrando ad esempio entrambe le caselle e alzando così il quorum dei voti validi. Degli intervistati solo il 42% ha dichiarato che si recherà alle urne e di questi l’83% ha detto di essere dalla parte di Viktor Orban e di voler votare contro le quote. Solo il 13% intende votare «sì» alla domanda sulla scheda, con posizioni più filo-Ue, e il 3% pensa di annullare la scheda. Sul fronte del no la maggior parte degli elettori di Fidesz (86%), partito di Orban, e dell’estrema destra di Jobbik (88%). Per l’astensione soprattutto gli elettori di sinistra: solo il 20% intende recarsi alle urne. «La nostra unica speranza – dice Noemi Fers, 23 anni, studentessa di architettura - è che non si raggiunga il quorum e che si abbandonino le posizioni emozionali che hanno guidato i miei concittadini nell’ultimo anno a favore di un dialogo più razionale e costruttivo».
Gli elettori ungheresi sono chiamati a rispondere al quesito: «Volete che l’Unione europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento ungherese?». Orban ha detto di sperare che anche altri Paesi Ue facciano referendum sull’immigrazione riferendosi innanzitutto ai suoi alleati del gruppo Visegrad - Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia -, per resistere «all’invasione di massa e chiudere i confini».