sabato 5 maggio 2018

Repubblica 5.5.18
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre


Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro. La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare. Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe.
È questo il momento giusto!
Corriere 5.5.18
Antifascismo Il presidente emerito dell’Anpi conversa con Francesco CampobelloSmuraglia partigiano del diritto La Costituzione come stella polare
di Corrado Stajano


«Erano momenti grandiosi, di immensa, comune felicità». Si lascia andare, nel ricordo di quel lontano aprile, Carlo Smuraglia, illustre giurista, senatore per più legislature, avvocato in processi che hanno lasciato il segno, in difesa delle vittime, dei poveri, degli offesi, uomo della Repubblica democratica e antifascista. Partigiano e poi soldato nel Corpo italiano di liberazione, racconta la festa indimenticata, la commozione di quando, con il suo plotone, entrava nei paesi e nelle città riconquistate ai nazisti lungo l’Adriatico, fino a Venezia, dove furono proprio i soldati della divisione Cremona, di cui faceva parte, a piantare il tricolore sul campanile di San Marco: «Venivamo accolti con fiori e con doni di cibo. Io ero tra quelli che entravano per primi perché, essendo diventato marconista, la radio sulle spalle con cui trasmettevo gli ordini del nostro sottotenente, stavo sempre al suo fianco alla guida del plotone. Eravamo i primi due e si scherzava sul fatto che entrando per primo il tenente, era lui a ricevere gli abbracci e i baci delle ragazze e a me, che venivo subito dopo, venivano riservati quelli delle donne più anziane».
Carlo Smuraglia, con Francesco Campobello, assegnista di ricerca di Storia del diritto all’Università di Torino, è l’autore di questo piccolo-grande libro, Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica, pubblicato dalle Edizioni del Gruppo Abele.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 era stato istintivo per lui scegliere la parte della libertà: aveva vent’anni ed era studente di Giurisprudenza alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Le discussioni tra i compagni cresciuti negli anni del fascismo, con in testa generiche idee politiche, non avevano fine, ma il dissolversi dello Stato, l’esercito a brandelli, la fuga del re, la mortale tenaglia dell’occupazione nazista, risvegliarono lo spirito di ribellione. Contribuirono nel profondo gli echi del discorso, giunti alla Normale, di Concetto Marchesi, rettore all’Università di Padova, che invitava gli studenti a battersi.
Una lunga vita, quella di Smuraglia, tra l’università, la politica, le istituzioni. Professore ordinario di Diritto del lavoro — e non doveva esser facile diventarlo per un comunista negli anni Cinquanta — con una bibliografia ricca, di alto livello, da La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro pubblicato da Feltrinelli nel 1958, a La Sicurezza del lavoro e la sua tutela penale (Giuffré, 1967), al Diritto penale del lavoro (Cedam, 1980) alle innumerevoli pubblicazioni sullo statuto dei lavoratori, fino all’oggi in nome dei diritti dei cittadini e contro le diseguaglianze che umiliano il nostro infelice Paese.
Al Consiglio superiore della magistratura, poi, dal 1986 al 1990. Sarebbe dovuto diventare vicepresidente, ma «per scongiurare questa eventualità», dice Smuraglia nel libro, «Francesco Cossiga decise di votare, rompendo la tradizione secondo la quale il presidente della Repubblica, in tali occasioni, non vota». Al Csm fu tra quelli, sconfitti, che votarono per la nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, una scelta che forse avrebbe salvato la vita al giudice. Fu eletto invece un magistrato che distrusse il pool di Palermo autore della sentenza-ordinanza del maxiprocesso del 1986.
L’avvocatura. Ai suoi inizi il giovane Smuraglia difese i partigiani perseguitati negli anni della Guerra fredda e gli operai comunisti chiusi nei reparti confino delle fabbriche e poi via via Piazza Fontana — fu uno dei protagonisti nel processo sulla morte in Questura, a Milano, di Giuseppe Pinelli —, vinse il processo sulla diossina di Seveso, fu parte civile nel doloroso processo sul sequestro di Cristina Mazzotti, uccisa nel 1975 dalla ’ndrangheta legata alla criminalità del Nord. Senza dimenticare il processo per lo scandalo Lockheed del 1978 davanti alla Corte costituzionale, eletto dal Parlamento commissario d’accusa, con Alberto Dall’Ora e Marcello Gallo, contro i ministri Gui e Tanassi.
Il Senato, poi. Smuraglia fu presidente della Commissione lavoro per sette anni, dalla XIII legislatura in avanti, e fece quel che poteva per la tutela dei diritti.
È un fautore del dialogo, Smuraglia. Un realista, non un estremista, sempre preoccupato delle conseguenze di quel che si sta facendo.
È un uomo rigoroso: «Non si può difendere bene un imputato se non si è convinti delle sue ragioni», dice, «Non si può vendere la coscienza per una parcella».
La Costituzione, per Smuraglia, è la stella polare, «regola la nostra vita, la convivenza quotidiana, la vita delle istituzioni».
Fu criticato quando l’Anpi, l’Associazione dei partigiani, di cui era allora presidente, si schierò per il No al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. La politicizzazione dell’ Anpi era l’accusa. È giusto far politica, replicava Smuraglia, se significa opporsi allo stravolgimento della somma Carta quando la riforma «tocca la libertà di voto e la sovranità popolare». In quell’occasione incontrò in un dibattito televisivo Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio davanti al professore, rigido ma sereno, sembrava uno scolaro balbettante e impreparato.
Tante volte sconfitto, non quella volta, Carlo Smuraglia non rinuncia mai. Non si è mai arreso, il lume della speranza per lui non si spegne.
Repubblica 5.5.18
Intervista a Jon Lansman
“Basta terza via si vince con la giustizia sociale Corbyn ve lo dimostra”
di Enrico Franceschini,


Di che cosa stiamo parlando
Labour in crescita. L’Ukip scompare avendo esaurito il suo compito con la Brexit e i suoi voti tornano ai conservatori, che tengono. Sono i risultati delle amministrative di ieri in 150 assemblee locali Inghilterra. Ma le proiezioni su scala nazionale (anche se non si votava in Scozia, Galles, Irlanda del Nord) vedono i due maggiori partiti alla pari con il 35%, seguiti dai liberal-democratici (potenziali alleati dei laburisti), con il 16. Un altro passo verso Downing Street per Jeremy Corbyn.
Dal nostro corrispondente

LONDRA «Le politiche che mirano a creare un mondo più giusto possono vincere». Jon Lansman è la mente di Jeremy Corbyn. Come leader di Momentum, l’organizzazione giovanile del Labour, è stato l’artefice della sorprendente vittoria di Corbyn in due primarie per la leadership del partito e della sua inaspettata affermazione alle politiche dello scorso anno.
Ora entrato nella direzione laburista, il capo dei giovani della sinistra britannica ha 60 anni: ma la barba lunga, l’abbigliamento casual e la passione gli danno l’aria dell’eterno ragazzo. «Spero che la Gran Bretagna resti nell’unione doganale, nel mercato comune e magari anche nella Ue», rivela a Repubblica parlando della Brexit. «La speranza — spiega — è un grande energetico».
Speranza di cosa, signor Lansman?
«Di una società più egualitaria e più giusta. La mia generazione è cresciuta in un’era di mobilità sociale verso l’alto. Ora abbiamo la mobilità verso il basso, causa di colossale insicurezza per la classe media».
Cosa propone il Labour?
«Che i benefici della rivoluzione digitale e dell’automazione siano condivisi da tutta la società, non solo da pochi giganti globali».
La svolta a sinistra impressa da Corbyn è senza ritorno?
«Il dibattito sulla nostra futura politica è chiuso. Non c’è spazio per un partito di centro. Basta guardare al fallimento dei social-democratici in Europa: la Terza Via non vince più. Le politiche che mirano a trasformare la società possono vincere, come hanno dimostrato Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e lo stesso Labour nelle elezioni britanniche del 2017».
Lei è contro l’economia di mercato?
«Per troppo tempo il mercato è stato presentato come la forza in grado di risolvere tutti i problemi della società. In Europa e Nord America non li ha risolti».
Quale è il segreto del successo di Momentum?
«Me lo chiedono dovunque vada.
Ma non c’è alcun segreto. La spiegazione è che per troppi anni le voci autenticamente di sinistra sono state marginalizzate. Poi è arrivato Corbyn e per i giovani è stato una boccata d’aria fresca».
Il business vi vede come il diavolo.
«Il business non deve avere paura di noi. È nell’interesse del business avere un governo che investe in un’economia produttiva. Non siamo contro il business. Siamo critici di monopoli globali come Apple, che estraggono profitti per una minuscola minoranza e non pagano tasse a sufficienza».
Se andate al governo, con i vostri programmi, indebiterete lo stato.
«Prendere soldi in prestito per costruire infrastrutture e case popolari è una politica ragionevole.
Se un debito ha un bene corrispondente, è giustificato».
Le danno del marxista.
«Non lo sono. Ma Marx ha dato un rilevante contributo al pensiero politico. Ci sono delle verità in quello che dice sui conflitti di classe».
Lei e Corbyn siete davvero contro la Brexit?
«Ho votato per rimanere nell’Unione Europea e non ho cambiato idea. Continuo a credere che la Ue sia l’opzione migliore per la Gran Bretagna. Ma c’è stato un referendum, per quanto discutibile, e Corbyn ne rispetta il risultato democratico. Tuttavia non credo che il governo conservatore concluda un accordo di buon senso. La mia speranza è che resteremo nell’unione doganale e nel mercato comune. E perfino nella Ue, se otterremo un nuovo mandato popolare».
Si dice anche che lei abbia sete di potere.
«Non ho ambizioni personali. Anni fa ho tentato di candidarmi a deputato, ma la morte di mia moglie per un cancro al seno ha cambiato la mia vita, dando la priorità a tirare su i miei figli.
Quando succedono queste cose, la prospettiva cambia».
La Stampa 5.5.18
Gli Stati autoritari saranno più ricchi delle democrazie
La previsione di Foreign Affairs sui redditi globali: fra cinque anni il sorpasso delle Nazioni illiberali
di Paolo Mastrolilli


«Nell’arco dei prossimi cinque anni, la porzione del reddito globale posseduta dai Paesi considerati non liberi, come Cina, Russia e Arabia Saudita, supererà quella delle democrazie liberali occidentali». L’allarme viene dalla rivista Foreign Affairs, che ha dedicato la sua ultima copertina al pericolo di vita in cui versa l’ordinamento politico vincitore del secolo scorso. L’argomento più preoccupante, però, riguarda proprio il declino economico dei Paesi liberi, perché da qui potrebbe derivare il collasso generale in tutti gli altri campi.
I ragionamenti sulla crisi della democrazia sono ormai molto diffusi, perché i segnali sono evidenti: l’autocrazia rampante in Cina; il successo degli «uomini forti» tipo Putin o Erdogan; l’ondata populista; le democrazie illiberali in Europa orientale; Trump che si augura di fare il presidente a vita; e poi le fake news, le minacce alla libertà di stampa, i furti di dati che fanno dubitare anche della liberalissima Silicon Valley. A fronte di tante paure non mancano gli ottimisti, come lo psicologo di Harvard Steven Pinker, che nel suo ultimo libro «Enlightenment Now» sostiene che in realtà viviamo nell’epoca più pacifica e prospera di sempre. Ma sono in minoranza.
In questo clima, la rivista del Council on Foreign Relations ha dedicato la copertina ad una domanda: «Is Democracy Dying?» (La democrazia sta morendo?). Gli argomenti per il sì sono noti, ma forse il saggio più preoccupante è quello di Yascha Mounk e Roberto Stefan Foa. Si intitola «The End of the Democratic Century», e sostiene che le democrazie stanno perdendo perché non sono più capaci di garantire ai loro cittadini la migliore qualità della vita al mondo.
Durante il secolo scorso la forza dei sistemi liberali era consistita nell’attrattiva della loro ideologia, ma l’elemento che aveva fatto davvero la differenza era stata la forza economica. Anche quando era arrivato al suo picco, il blocco sovietico non aveva mai superato il 13% del reddito globale. L’alleanza occidentale invece era sempre sopra al 50%. Con questa ricchezza era venuto un forte appeal, che andava dal soft power culturale all’hard power militare. L’opulenza mostrata dal telefilm «Dallas» aveva messo in ginocchio l’Urss quasi quanto la corsa alle guerre stellari di Reagan. L’attrattiva di istituzioni come la Ue e la Wto aveva spinto Paesi tipo Turchia e Corea del Sud a riformarsi, mentre le sanzioni economiche avevano piegato dittatori come Saddam e Milosevic. Ora però tutto questo sta cambiando: due terzi degli americani sopra i 65 anni considerano la democrazia irrinunciabile, ma solo un terzo di quelli sotto i 35 anni la pensa così. Dal 1995 al 2017 gli italiani, francesi e tedeschi favorevoli ad una svolta autoritaria sono più che triplicati.
La causa principale di questi sentimenti, secondo gli autori, è che la democrazia appare confusa e incapace di favorire il benessere, mentre l’autoritarismo garantisce stabilità e ora anche ricchezza. Secondo le stime dell’Fmi, tra dieci anni l’alleanza occidentale avrà solo un terzo del Pil globale. Nel 1990 i Paesi giudicati non liberi dalla Freedom House avevano il 12% del reddito globale; ora sono al 33%, e tra 5 anni supereranno le democrazie liberali. Tra i 15 Paesi al top in termini di reddito pro capite, quasi due terzi non sono democrazie. Tutto ciò ha dato coraggio a regimi come Cina e Russia, che ormai rivendicano la superiorità dei loro sistemi. Lo dimostrano le interferenze elettorali di Mosca, che «in Italia ha finanziato per anni partiti estremisti di destra e sinistra», ma ormai possiede un «soft power autoritario».
Non tutto è perduto. I regimi autocratici hanno i loro problemi, e le democrazie liberali potrebbero salvarsi tornando a crescere, e risolvendo il problema della disuguaglianza. Se questo non avverrà, però, «o le autocrazie diventeranno liberali, oppure la democrazia liberale si trasformerà in una parentesi della storia».
Il Fatto 5.5.18
Strategie opposte, Israele e la Corea del Nord
Lo stallo atomico non significa pace
Gerusalemme vuole indebolire Teheran per rimuovere l’ostacolo nucleare all’egemonia sul Medio Oriente. Kim usa la minaccia della bomba per uscire dall’isolamento, aiutato dalla Cina
di Fabio Mini


Che la partita siriana fosse un preliminare di quella più ampia per il controllo del Medio Oriente era chiaro. Anzi, le incertezze europee e americane nel portare a conclusione uno scontro che ormai aveva soltanto perdenti potevano essere attribuite al timore che la partita si chiudesse davvero.
Quasi a sperare che allungando l’agonia dell’avventura americana in Iraq e Siria si potesse evitare il caos in tutta la regione. Si guardava ai protagonisti, Russia e Stati Uniti, e alle loro schermaglie fatte di attacchi, parate e finte con un misto di ansia e rassicurazione: finché i due erano in campo non avrebbero rischiato un conflitto diretto (globale) per la Siria e nemmeno per tutto il Medio Oriente. Lo ha dimostrato l’ultimo tragicomico attacco alla Siria condotto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia col permesso e la supervisione della Russia. Lo ha dimostrato il cinismo col quale perfino l’Europa ha preferito lo stallo cruento a una soluzione incruenta. Agonia operativa e stallo non avevano però il favore d’Israele che dalle crisi e dal coinvolgimento internazionale alle porte di casa ha sempre cercato di trarre il maggior profitto. Proprio all’interno delle aree di crisi ha trovato posto e modo per alimentare i conflitti e provocare reazioni violente con pretesti di ogni genere.
Al di là delle retoriche belliciste, Israele non rischia l’estinzione, come un tempo, e nemmeno l’invasione o l’attacco esterno. Non difende i confini ma li trasforma in basi per l’attacco. Provoca l’Iran e nega le sue promesse internazionali riguardo agli armamenti nucleari come se esso stesso non fosse l’araldo della inadempienza e della proliferazione nucleare. Il programma “segreto” (mai smentito) di armamento atomico israeliano va avanti dagli anni 70 e si stima che siano ora operativi dai 200 ai 400 ordigni. Israele dispone anche dei vettori (artiglierie terrestri, aerei e missili) per colpire tutto il Medio Oriente e metà Europa e Africa. Ma soprattutto Israele disconosce qualsiasi trattato di non proliferazione e possiede la volontà e la dottrina operativa per condurre attacchi nucleari. I pretesti non sono un problema. L’armamento nucleare israeliano non serve alla deterrenza regionale, anzi è il motivo di discordia e destabilizzazione fondamentale. Serve però a deterrere gli americani, i russi e gli europei. La minaccia nucleare israeliana coinvolgerebbe tutti in uno scontro globale.
Di contro, nemmeno le cosiddette “prove” portate in televisione (in inglese) dimostrano che l’Iran abbia una qualche capacità nucleare oltre a studi datati e fantasie pseudo-scientifiche. Il premier Bibi Netanyahu ha “rivelato” cose risapute per giustificare i suoi continui attacchi in Siria, Iraq, Libano e Palestina. Approfitta del caos per eludere i problemi interni e personali; approfitta della debolezza del presidente americano Donald Trump sottoposto a duro scrutinio politico e penale cercando d’influenzarne le scelte proprio riguardo all’Iran. Cerca in ogni modo di far precipitare la situazione sul terreno e rompere lo stallo dei Grandi. Tutto questo non è un piano di contingenza per conseguire un obiettivo tattico, ma un piano avviato già con il primo sionismo di Theodor Herzl e teorizzato nel 1982 da Oded Yinon per esercitare un potere egemone su tutto il Medio Oriente, dal Nilo all’Eufrate, con la fratturazione degli Stati esistenti in entità minuscole.
L’obiettivo israeliano può essere ipotetico, ma la cultura della guerra e gli strumenti militari di cui Israele si è dotato sono calibrati per quello. E sono reali. L’Egitto di Nasser, la Libia di Gheddafi, l’Iraq di Saddam e gli Stati arabi erano i grandi ostacoli e sono stati tutti rimossi. Rimanevano la Siria e l’Iran. Ora la prima è destinata alla frantumazione e quindi l’Iran, con o senza bomba atomica, è l’unico ostacolo a questo progetto: è presente in Iraq, dialoga con la Turchia, la Russia e la Cina, regge le sorti della Siria, ha milizie in Palestina, Libano e Yemen; sostiene tutte le minoranze/maggioranze sciite, non ha alcuna pretesa territoriale ai propri confini e, al contrario del sunnismo/wahabismo, non fa proselitismo religioso o diffusione del terrorismo. Israele non teme la forza militare iraniana, ma se l’Iran avesse capacità nucleare legalizzata e riconosciuta si dovrebbe confrontare con uno stallo nucleare che vanificherebbe qualsiasi motivazione egemonica. Israele preferisce la libertà d’azione, intesa come libertà di bombardare chiunque. Stati Uniti, Russia ed Europa stanno a guardare impotenti e rassegnati.
Dall’altra parte del mondo, in Estremo Oriente, la strategia nucleare ha seguito un paradigma opposto. La Corea del Nord per anni aveva cercato una via per uscire dall’isolamento. Produceva ed esportava missili di buona qualità e le sanzioni e i veti internazionali la costringevano a produrre armamenti come risorsa unica ma insufficiente. La gente moriva di fame e il regime non aveva via d’uscita. La Cina, alleata storica, negli anni della grande carestia (’90), subiva le imposizioni internazionali e tagliava gli aiuti alla Corea del Nord. Nel 1994 in una settimana il ponte sul fiume Yalu, confine settentrionale con la Cina, fu attraversato da un solo camion cinese: vuoto. La Corea del Nord aveva sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare, ma non ci credeva nessuno. Le fu promesso aiuto economico in cambio della rinuncia ai reattori nucleari. Ogni aiuto fu sospeso perché non era disposta a rinunciare al proprio regime e alla propria difesa. Nel frattempo la Corea del Sud veniva militarizzata con una massiccia presenza americana anche nucleare. La richiesta nordcoreana di denuclearizzare la penisola coreana fu sempre respinta: la potenza nucleare era l’America.
I nordcoreani reagirono d’azzardo ma razionalmente: se dovevano rinunciare a qualcosa che non avevano dovevano soltanto procurarsela e renderla credibile. Si ritirarono dal trattato di non proliferazione nucleare e realizzarono i piani nucleari. In pochi anni la Corea del Nord è arrivata a minacciare gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud. Si moltiplicarono i test nucleari e balistici intercontinentali. La Corea del Nord voleva diventare una potenza nucleare riconosciuta per trattare “alla pari” il proprio disarmo. Contrariamente a Israele, non aveva timore dello stallo nucleare ma lo ricercava per evitare un confronto che avrebbe distrutto il proprio Paese e la parte più importante del Sud: Seul. La Cina ha convinto Kim Jong-un a considerare sufficiente la forza nucleare e missilistica raggiunta. Ciò rendeva superflui altri test. Ha promosso le aperture fra Nord e Sud facendo leva anche sul proprio ruolo quale firmataria dell’armistizio che regolava la divisione della penisola. Si è resa garante della sicurezza regionale. Un gesto da grande potenza.
Giappone, Stati Uniti e la Russia sono stati colti di sorpresa. Trump ha subito rivendicato la vittoria e spacciato le mosse di Kim per cedimento alla minaccia americana. Kim e il presidente sudcoreano esultano. La vittoria è la loro. Se non si mettono di traverso i giapponesi e i bellicosi repubblicani statunitensi la pace può durare. La Cina non è stata a guardare.
Il Fatto 5.5.18
C’è un vantaggio nel chiamarsi Israele
di Massimo Fini


Che le dichiarazioni di Abu Mazen (gli ebrei sarebbero in qualche modo responsabili della Shoah) siano inaccettabili, come ha immediatamente dichiarato, fra gli altri, anche l’Unione europea, non è nemmeno il caso di dirlo. Ci si chiede però, come ha fatto un lettore del Fatto (27.4), Mauro Chiostri, parlando dell’oggi e non del codificato ieri, se lo Stato di Israele non goda di uno speciale salvacondotto basato proprio sullo sterminio ebraico di tre quarti di secolo fa.
È una domanda, per la verità, che si fanno in molti ma che non osano formulare pubblicamente nel timore di essere immediatamente bollati come antisemiti, negazionisti, razzisti, nazisti. Ma Israele è uno Stato e non va confuso con la comunità ebraica internazionale. In anni meno manichei di quelli che stiamo vivendo attualmente era la stessa comunità ebraica a non volere che si facesse una simile confusione. Ed era logico che così fosse. Perché Israele è uno Stato e, come tale, può compiere azioni criticabili, e anche nefande, ma non per questo ne deve rispondere, poniamo, un ebreo del ghetto di Roma. Oggi invece questa confusione esiste e Israele può compiere impunemente atti che ad altri Stati costerebbero l’indignata condanna, se non peggio, della cosiddetta comunità internazionale. 1. Durante le manifestazioni popolari di quest’ultimo mese e mezzo a Gaza, i militari israeliani hanno ucciso 44 persone e ne hanno ferite 1.400. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres aveva fatto richiesta di un’indagine indipendente sui morti a Gaza. Ma Israele l’ha respinta. Eppure richieste di questo genere sono state accettate persino da Assad e, a suo tempo, da Saddam Hussein. L’esercito israeliano sarà anche “il più virtuoso al mondo” come afferma Netanyahu ma certamente ha il grilletto molto facile.
2. L’altro giorno, Benjamin Netanyahu, in diretta tv, con la massima esposizione mediatica possibile, ha accusato l’Iran di aver mentito sul proprio programma nucleare e di stare preparando almeno quattro o cinque bombe atomiche della stessa potenza di quelle che gli americani sganciarono su Hiroshima e, tre giorni dopo, su Nagasaki. Ha anche affermato di essere in possesso di oltre 55 mila pagine di documenti che lo provano. E ha subito trovato una sponda nell’amico di sempre, gli Stati Uniti. In realtà è proprio Netanyahu a raccontar frottole che sono state subito smentite dall’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) i cui ispettori fanno la spola fra Vienna e Teheran e hanno sempre constatato che nelle centrali iraniane l’arricchimento dell’uranio non supera il 20% che è quanto serve per gli usi energetici, civili e medici del nucleare (per arrivare all’Atomica l’arricchimento deve essere del 90%). Questo il comunicato dell’Aiea che, in materia, è la fonte più autorevole dato che i suoi ispettori fanno le verifiche sul campo: “Non abbiamo alcuna indicazione credibile di attività in Iran attinenti allo sviluppo di un ordigno nucleare dopo il 2009”.
È grottesco, se non fosse inquietante, che uno Stato come Israele, che non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, che ha la Bomba, anche se non lo dice ma, per buona misura, fa sapere, ne accusi un altro, l’Iran, che questo Trattato ha sottoscritto e accetta da sempre le ispezioni dell’Aiea.
Ma anche se l’Iran, in linea puramente ipotetica, volesse farsi l’Atomica non sarebbe uno scandalo circondato com’è da potenze nucleari come lo stesso Israele, il Pakistan e la non lontana India. L’Atomica, è ovvio, serve solo da deterrente, come dice la logica e anche l’esempio del dittatore coreano che si è salvato semplicemente dimostrando di averla e, a contrario, i casi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi che sono stati eliminati provocando il caos mediorientale e libico che tutti abbiamo sotto gli occhi.
3. Gli israeliani hanno effettuato una decina di raid missilistici su postazioni iraniane in Siria. Gli ultimi due, nella notte di domenica scorsa, hanno provocato almeno 40 vittime. Certo le milizie iraniane sono fuori dal proprio territorio col pretesto di combattere l’Isis che è diventato il passepartout per ogni sorta di nefandezze, turche, russe, americane e, appunto, iraniane. Ma Israele ha il diritto di intervenire? Facciamo l’ipotesi opposta. Cosa succederebbe se missili iraniani colpissero ipotetiche postazioni israeliane fuori dal loro territorio? Il finimondo. La condanna e l’indignazione sarebbero unanimi e le ritorsioni, economiche e militari, immediate. Invece con Israele si sta zitti, si fa finta di non vedere, di non sapere.
4. Dal 1946 sono centinaia le risoluzioni Onu che Israele non ha rispettato. Evidentemente è legibus solutus. Fino a quando deve durare questo salvacondotto che, come scrive il lettore Mauro Chiostri, “specula sul dramma della Shoah mancando oltretutto di rispetto alle vittime innocenti che l’hanno subita”?
La Stampa 5.5.18
La rivincita delle poliziotte palestinesi
“A piccoli passi batteremo i pregiudizi”
Formato un primo nucleo dai carabinieri per tutelare donne e minori
di Giordano Stabile


Tasneem ha 22 anni, il volto da bambina che il fazzoletto beige mette ancora più in risalto, e lo sguardo battagliero. L’hijab le cade sulle spalle, copre a metà la mostrina della giacca militare, come se ancora un accenno di timidezza le impedisse di mostrarsi in pieno quello che è, una delle prima 14 donne poliziotte palestinesi a essere formata dai carabinieri, nella più importante scuola per le forze di sicurezza in Cisgiordania, a Gerico. Lei e le sue compagne, tutte poco più che ventenni, andranno a costituire un nucleo di eccellenza, impegnato su un doppio fronte. La garanzia dell’ordine in uno dei luoghi più ad alta tensione al mondo e la difesa delle donne e dei minori in una società araba ancora conservatrice e maschilista.
«Non è stato facile scegliere questa strada - ammette -. Mia madre mi incoraggiava, ma per mio padre era inconcepibile, per un po’ non mi ha parlato. Alla fine si è convinto, e adesso è orgoglioso di me, come se fossi un figlio maschio». Tasneem ha frequentato l’Accademia militare all’Università Al-Ittihad e appena finiti gli studi è stata scelta per questo corso unico nel Medio Oriente, perché incentrato sulle questioni di genere. «La condizione della donna qui è ancora difficile - continua -, la tradizione ha molta influenza, ma a piccoli passi si può cambiare. Io mi sento una doppia responsabilità: difendere la mia patria, la Palestina, e difendere i più deboli, donne e bambini».
Un’occasione imperdibile, perché la qualità della missione Miadit, che ha formato dal 2014 1600 uomini della polizia civile e della polizia militare palestinese, è riconosciuta in tutto il mondo. Nei grandi edifici grigi alla periferia di Gerico è stato così trovato posto per un corso tagliato su misura per le particolari condizioni delle donne palestinesi, e l’iniziativa è stata inaugurata mercoledì dal console generale d’Italia a Gerusalemme, Fabio Sokolowicz, assieme ai rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri della missione Miadit e a esponenti palestinesi.
L’iniziativa è nata da un’idea del consolato «per mettere le attività della Miadit in continuità con l’azione della nostra cooperazione sui temi di genere». All’interno delle iniziative dell’Unione europea, il nostro Paese ha il ruolo di «guida» nello sviluppo economico, la salute e appunto le questioni di genere, mentre i carabinieri hanno una funzione fondamentale nella formazione delle forze di sicurezza, che ormai contano quasi 30 mila uomini. Le donne, come nella maggior parte dei Paesi arabi, sono un piccola minoranza, poche centinaia e senza ruoli di comando.
Per questo il comando dei carabinieri ha voluto inviare dal Centro di eccellenza per le unità di polizia di stabilità una esperta di genere, il capitano Vincenza Chiacchierini, che ha illustrato le linee guida del corso, ispirate dalla risoluzione 1325 dell’Onu. «Donne e bambini sono di gran lunga i soggetti più esposti e a rischio nei conflitti. Formare donne che proteggono donne e bambini è fondamentale se vogliamo non soltanto la pace ma anche uno sviluppo equilibrato». Il corso sarà ripetuto e ampliato e punta a fare delle donne poliziotto, uno dei pilastri di un futuro Stato palestinese, se e quando nascerà.
È una goccia in un mare in tempesta. Le tensioni con Israele sono ai massimi da quattro anni e si avvicinano le date del 14 maggio, quando l’ambasciata americana sarà spostata a Gerusalemme, e del 15 maggio, giorno dell’indipendenza per Israele ma della Nabka, il «disastro», per i palestinesi. Si annunciano manifestazioni di massa anche in Cisgiordana. Le fazioni sono più divise che mai, con Al-Fatah del presidente Abu Mazen in rotta totale con Hamas, in calo nei consensi e messo nell’angolo dalle decisioni americane. Le 14 ragazze con l’hijab e la divisa, timide e orgogliose per aver vinto già la loro prima battaglia contro i pregiudizi, sono in controtendenza. E forse un modello per pensare un futuro diverso.
il manifesto 5.5.18
Abu Mazen riconfermato presidente dell’Olp chiede scusa a Israele
di Michele Giorgio


RAMALLAH Appena riconfermato dal Consiglio nazionale palestinese alla presidenza dell’Olp, ‎Abu Mazen ha chiesto scusa per le sue dichiarazioni di qualche giorno fa dai toni ‎antisemiti e si mosso per fare un rimpasto del governo dell’Anp che potrebbe ‎mettere fuori gioco il premier Rami Hamdallah, incolpevole per la mancata ‎riconciliazione con gli islamisti di Hamas e sfuggito di recente a un attentato a ‎Gaza.‎ «Non era mia intenzione‎‎» offendere nessuno ha scritto Abu Mazen in un ‎messaggio diffuso da Ramallah rispondendo agli tanti attacchi giunti da Israele, ‎dall’Ue, dagli Usa e dalle Nazioni Unite. ‎«Se qualcuno si è sentito offeso dalle mie ‎dichiarazioni al Consiglio nazionale palestinese, soprattutto gli ebrei, mi scuso con ‎loro. Voglio dire a tutti che non era mia intenzione‎», spiega nel messaggio. Meno ‎conciliante è apparso verso il governo dell’Anp che potrebbe subire un drastico ‎cambiamento, a comincare dal primo ministro Hamdallah. Abu Mazen, secondo ‎fonti a Ramallah, nei prossimi giorni avvierà delle consultazioni per formare un ‎esecutivo che sarà composto da rappresentanti delle varie formazioni rappresentate ‎nell’Olp. Non è chiaro se rivolgerà un invito ad Hamas ad entrare nel nuovo ‎governo riavviando così la riconciliazione nazionale palestinese. Tutti i segnali ‎dicono il contrario.
La Stampa 5.5.18
L’allarme di Veltroni
“Il Pd è arrivato a un punto limite”
Nessuno punta alla scissione ma molti ci pensano
di Fabio Martini


Walter Veltroni sembra ringiovanito. Il primo segretario nella storia del Pd si presenta agli studi de «la7» per l’intervista con Lilli Gruber con un look di altri tempi: abbronzato («due ore di sole a Sabaudia sono bastate»), asciutto, tagliente come mai prima. E quando si accendono le telecamere, Veltroni sciorina un’analisi crudissima della crisi del suo partito. E lo fa con un lessico pop, insolito per lui: «La sinistra ha raggiunto il livello più basso della sua storia. Ma vuoi fermarti a capire cosa sta succedendo?». E ancora: «Io ed alcuni milioni di elettori democratici che dobbiamo fare? Quelli che hanno fastidio per questa roba qui, siamo la stragrande maggioranza». Parole che - al di là della ribadita fiducia nel futuro del Pd - sembrano tradire un’incertezza sulla unitarietà del corpo del partito. E infatti più tardi Veltroni scandisce le parole più impegnative: «Il Pd deve recuperare tutto intero l’equilibrio che lo ha fatto nascere. E’ come una farfalla, se le spezzi le ali non vola più. E siamo ad un punto limite».
Siamo ad un punto limite: espressione che usata da un personaggio come Walter Veltroni, attentissimo a calibrare le parole, autorizza pensieri di ogni tipo. Qualcuno sta forse cominciando ad accarezzare l’idea di mollare gli ancoraggi, mettendo in cantiere una nuova forza di centrosinistra di stampo ulivista? Poche ore prima della riunione della direzione del Pd, un altro personaggio navigatissimo come Piero Fassino, alla domanda se fosse plausibile una scissione nel Pd, aveva risposto: «I rischi ci sono sempre, ma nessuno lo vuole e nessuno sta lavorando per dividersi».
Parole, quelle usate da Veltroni e Fassino, che fanno capire come stanno le cose: nessuno sta attivamente lavorando alla scissione, meno che mai i due ex segretari, ma il futuro è ricco di incognite e di subordinate. Soprattutto in vista del congresso che dovrà stabilire chi comanda nel Pd. Nella nuova, vasta area «non-renziana» coesistono personaggi diversi tra loro, con ambizioni e progetti non perfettamente sovrapponibili: un presidente del Consiglio in uscita come Paolo Gentiloni, ministri come Dario Franceschini, Andrea Orlando, Carlo Calenda, Maurizio Martina, ex leader di partito come Piero Fassino e Walter Veltroni, battitori liberi come Luigi Zanda e, sia pure come consiglieri molto esterni due ex presidenti del Consiglio come Romano Prodi ed Enrico Letta.
Personaggi con diverse idee sul futuro del Pd, ma la novità delle ultime ore è che - in tutta questa area - si stanno cominciando a studiare tutte le mosse - nessuna esclusa - in vista della riunione veramente decisiva per il futuro del Pd: l’Assemblea nazionale, l’elefantiaco parlamentino del partito, che per statuto è chiamato a deliberare tutti i passaggi della stagione congressuale. Assemblea che somiglia all’araba fenice: che ci sia, ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. L’unica certezza è che, prima o poi debba essere convocata, ma nessuno sa quando, perché è la formazione del governo, a dettarne i tempi.
Ma salvo l’irruzione di un voto eccessivamente anticipato (tra luglio e settembre) il parlamentino Pd convocherà il congresso, con annesse Primarie. E a quel punto una contesa potenzialmente esplosiva potrebbe accendersi sulla gestione della fase congressuale: se Renzi dovesse affidarla al presidente del partito, Matteo Orfini, sottraendo la reggenza a Maurizio Martina, «a quel punto - sussurra un esponente della minoranza - la prevedibile gestione faziosa delle future liste elettorali, potrebbe spalancare la strada alla nascita di una nuova formazione di centro-sinistra».
Dunque. molto dipenderà dall’Assemblea nazionale. Come sempre nelle occasioni più delicate, Renzi sta tenendo le carte coperte del «suo» candidato alla segreteria. I suoi nemici interni, per ora, hanno trovato un minimo comun denominatore sul nome di Nicola Zingaretti, che oggi all’Ex Dogana di Roma lancerà la sua «Leopolda». Con un titolo dal sapore antico: «L’alleanza del fare». Per metterli in imbarazzo, Renzi potrebbe chiedere un sacrificio ad un personaggio a lui vicino e del quale non si fida fino in fondo: Graziano Delrio.
Il Fatto 5.5.18
La sinistra sfrattata dal Pd cerca casa
di Veronica Gentili


C’era una sola vera domanda che l’altroieri la Direzione del Partito democratico sarebbe stata tenuta a porsi: che cosa sia diventata oggi la “Ditta”, espressione coniata da Pier Luigi Bersani per definire il Pd e a chi spetti detenerne le chiavi. Parliamoci fuori dai denti perché, nell’abuso di parole a proposito della sinistra, il paradosso è che spesso manca la chiarezza: la Ditta aveva semplicemente subappaltato i suoi locali a Matteo Renzi o aveva deciso di cedergliene il marchio in maniera irreversibile? O, per essere più precisi: la Ditta è così profondamente diversa rispetto a quella di cui l’ex segretario prese possesso nel 2013 che sarebbe assurdo oggi chiedergliene la restituzione? In questo caso, nessun dibattito avrebbe ragion d’essere e nessuna “conta” potrebbe rimettere a posto le cose: se le fondamenta, i soffitti, le pareti della Ditta hanno davvero assorbito la trasformazione politico-culturale della rottamazione, del “cambia verso”, del Jobs Act, delle “riforme”, se quei locali si sono trasformati a immagine e somiglianza di coloro che li hanno gestiti in questi ultimi anni, anche solo pensare a un accordo con il Movimento 5 Stelle è stato del tutto privo di senso.
A quanto pare, la Direzione di giovedì ha risposto a questa domanda con i fatti, pur cercando di nascondersi ancora una volta dietro le parole: il reggente Maurizio Martina ha abortito a monte qualunque contrapposizione alla linea renziana, ha negato che ci sia mai stata la volontà di un governo con i 5Stelle e si è limitato a chiedere la fiducia (chissà poi per farci cosa) soltanto fino all’Assemblea di fine maggio, giustificando la retromarcia su tutti i fronti con l’importanza dell’unità. In altre parole, ha ammesso di essere ospite in casa d’altri, mentre il padrone di casa, appena consacrato ufficialmente, gli batteva le mani.
D’altronde vanno riconosciute a Matteo Renzi, e solo a lui, una coerenza identitaria e una caparbietà politica che trovano un’ulteriore riconferma nel rilancio di un governo istituzionale per ultimare o riciclare le “riforme”. Il Rottamatore (soprattutto del suo partito) si è già messo en marche e ora, dopo il 4 marzo, diversamente da quando bluffava di più sulle sfumature, non ha alcuna intenzione di simulare incertezza. La vocazione anti-“populista” a cui si sente chiamato lo colloca naturalmente nel polo anti-antiestablishment, cioè nel vecchio solco centrista che ha molti meno conflitti interni da affrontare della fu sinistra. Dunque ormai è inutile porre a Renzi le domande sui ceti popolari che fuggono verso altri partiti, su come ripensare il rapporto fra il governo e i dettami dell’economia, sui rischi e i danni che comporta la totale sudditanza ai parametri finanziari, sulle integrazioni imposte dall’avvento della Rete al concetto di democrazia rappresentativa, sui limiti all’utilizzo del capitale umano prima di depauperarlo, e in definitiva su come entrare in relazione con un movimento – quello dei Cinque Stelle – che ha raccolto e accolto gran parte dello storico popolo democratico. Tutte queste domande evidentemente non competono a Renzi, ma a una sinistra che, stanca del ritornello delle “ideologie che non esistono più”, abbia sinceramente voglia di ripensare se stessa e di trovare il proprio ruolo nella storia contemporanea.
Ecco: la Direzione nazionale ha unanimemente decretato che non è più nei locali del Partito democratico che questi interrogativi e le loro soluzioni devono trovare posto. Infatti, mentre Martina pontificava fumosamente sull’esigenza di “rifondare la cultura e il pensiero di fondo”, il sottotesto era che tutto questo dovrà accadere altrove. Sfrattata dal Nazareno, la sinistra italiana cerca casa.
Corriere 5.5.18
Storie di anaffettivi
L’elenco di chi non prova sentimenti è molto lungo, soprattutto tra le star di Hollywood. Lo psichiatra: alcuni se ne vantano. Di certo non ritengono di doversi curare
Claudio Mencacci, psichiatra: «L’anaffettività è un sintomo importante che riconduce ad un’ampia gamma di disturbi della psiche»
Vegetti Finzi: «Alienazione e anaffettività sono fra gli effetti collaterali dei social network come Facebook a causa dell’eccesso di possibilità di stabilire relazioni
L’incapacità di amare una donna è anche il tema del film di Marco Bellocchio Fai bei sogni (tratto dal romanzo di Massimo Gramellini)
di Marisa Fumagalli


Cinquanta sfumature di anaffettività. Avarizia di sé, indifferenza verso l’altro, lieve disturbo della personalità o grave patologia, l’incapacità di esprimere affetti non è questione odierna. Per di più, è argomento caro a molti scrittori sul quale si sono esercitati nei loro romanzi. Uno per tutti Madame Bovary, di Gustave Flaubert: anaffettivo il mediocre marito di Emma e, in fin dei conti, anaffettiva anche lei, romantica sognatrice, nei confronti della figlia. Tant’è. Ciò che un tempo si chiamava «pudore dei sentimenti» era moneta corrente. In famiglia, nella coppia. Certo, nessuno si sarebbe sognato di chiedere l’annullamento delle nozze a causa di «anaffettività». Oggi succede. Basti citare una recente sentenza della Corte di Cassazione (maggio 2012) che ha sancito definitivamente la nullità di un matrimonio, chiesta da un uomo che si era reso conto di non riuscire ad esprimere alcun sentimento nei confronti della moglie. I giudici sottolineavano, tra l’altro, «il disturbo della personalità del coniuge caratterizzato da rigidezza e intolleranza». In sintesi, quel marito «era inidoneo a realizzare un rapporto di comunione e condivisione».
L’incapacità di amare una donna è anche il tema del film di Marco Bellocchio Fai bei sogni (tratto dal romanzo di Massimo Gramellini). Rimasto orfano della madre a 9 anni, cresciuto nella difficoltà di esprimere i propri sentimenti, Valerio Mastandrea, il protagonista del film, soffre di ansia da relazione. In verità, la radice dell’impossibilità di amare completamente una donna, scegliendola come compagna di vita, risiede nei problemi emotivi dell’infanzia maschile. Alla base dell’anaffettività spesso c’è il rapporto madre-figlio/a. Cioè il comportamento da «non mamma» ben descritto da Silvia Vegetti Finzi, psicologa. La non mamma è la figura centrale del suo libro autobiografico Una bambina senza stella (Rizzoli). Pochi, efficaci tratti per definirla: «Anaffettiva, si esprime con il poco contatto fisico; non bacia non abbraccia, parla sempre in modo generico, senza giungere al cuore, senza condividere le fantasie della bambina». «Che riuscirà, tuttavia, a superare il trauma infantile. A scuola, per merito di un insegnante. Un incontro risolutivo e salvifico», sottolinea Vegetti Finzi, aprendo uno spiraglio all’ottimismo.
E a proposito di madri «gelide», alcuni esempi da manuale si trovano fra le star di Hollywood. Sacha Newley, unico figlio maschio dell’attrice inglese Joan Collins, scrive nell’autobiografia: «Volevo solo che mia madre mi amasse, ma lei non mi ha mai abbracciato, nemmeno quando piangevo, e mi ha sempre tenuto a distanza. Narcisista, interessata solo alla carriera, era capace di dormire tutto il giorno per brillare la sera». Non è da meno Christina Crawford, figlia adottiva di Joan Crawford. Nel suo libro Mammina cara, descrive la madre come una donna instabile, dura verso i figli, ossessionata dal proprio inarrestabile declino. La lista di personaggi famosi considerati anaffettivi o, quanto meno gelidamente misteriosi, è lunga. Se il portare perennemente gli occhiali scuri è un indizio, potremmo citarne un paio: Jacqueline Kennedy ed Enzo Ferrari.
L’anaffettività nella coppia è un guaio serio. «Non emerge fino a che l’attrazione sessuale è forte — nota Vegetti Finzi —. Quando declina dovrebbe subentrare la tenerezza; o meglio, la sensualità. Se ciò non avviene la convivenza diventa anaffettiva. È un momento delicato di passaggio che tocca tutte le coppie. Se si è consapevoli lo si affronta meglio». Un tassello lo aggiunge Stefano Gastaldi, docente di Psicoterapia psicoanalitica: «Di solito sono i maschi che hanno difficoltà ad esprimersi. Soprattutto a parole. Di fronte agli intoppi della vita a due, tendono ad esonerarsi dallo sviscerarne le cause (e gli eventuali rimedi) discutendone con la compagna. Fatta a pezzi la società patriarcale, l’anaffettività degli uomini deriva dalla loro difficoltà ad accettare la dipendenza dalle donne e la loro indipendenza».
Un dato di fatto: ciò che ieri veniva socialmente tollerato oggi balza all’evidenza, diventa problema. Irrisolto. «La persona anaffettiva tendenzialmente si accetta così, a volte se ne fa vanto. Comunque sia, non pensa proprio a curarsi», dice Claudio Mencacci, psichiatra, direttore del Dipartimento di Neuroscienze Fatebenefratelli-Sacco a Milano. Spiega: «L’anaffettività è un sintomo importante che riconduce ad un’ampia gamma di disturbi della psiche. Che non riguardano soltanto la dinamica dei rapporti interni alla coppia e alla famiglia. Penso, ad esempio, agli a-empatici che fanno soffrire il prossimo e lo maltrattano con indifferenza. Ai narcisisti che considerano solo se stessi. Coltivano irragionevoli aspettative, a loro tutto è dovuto. Sono arroganti, presuntuosi. Spesso invidiosi». «Il disturbo schizoide della personalità — continua Mencacci — produce distacco dalle relazioni sociali, il poco interesse per la vita. Donne e uomini solitari, senza amici o confidenti. In una parola, anaffettivi». Non giova l’uso (e l’abuso) dei social network. Anzi. «Creano dipendenza e distraggono», osserva Vegetti Finzi. Alienazione e anaffettività, a quanto pare, si segnalano fra gli effetti collaterali dei social. Insomma, l’eccesso di possibilità di stabilire relazioni porterebbe a spezzarle più facilmente.
il manifesto 5.5.18
I destini incrociati di Karl Marx
Bicentenari. La lunga stagione di una indagine teorica e di un pensiero che ha voluto essere rivoluzionario. La locuzione ricorrente secondo cui «Il capitale» sarebbe stato la «Bibbia» del movimento operaio è falsa e vera. Niente era più estraneo agli intendimenti del filosofo di Treviri
di Paolo Favilli


L’8 maggio 1968, in occasione del centocinquantenario della nascita di Marx, Raymonde Aron, sociologo liberale e critico di Marx (soprattutto dei marxismi), nell’ambito della propria relazione al grande convegno parigino organizzato dall’Unesco, mise in evidenza «il contrasto tra le dure condizioni nelle quali visse l’esule a Londra, e il quadro grandioso e ufficiale in cui professori togati, venuti da tutte le università del mondo, si propone di intrattenere un dialogo cortese, dopo aver ricevuto la consegna di attenersi al contributo scientifico di Marx e di dimenticare il rivoluzionario – ma con l’intenzione (…) di non rispettare affatto questa consegna».
IN EFFETTI LO SCENARIO delle celebrazioni era davvero imponente: non solo per il numero e la qualità dei professori intervenuti, ma anche di quelle che René Maheu, direttore dell’Unesco, appellava come «Eccellenze», capi politici e di istituzioni statali, tutti uniti per onorare colui che aveva, sempre parole di Maheu, «profondamente modificato il rapporto tra realtà e pensiero».
Le celebrazioni del bicentenario sono ben lungi dall’avere quel carattere di grandiosità e ufficialità. Sono in corso, ovviamente, convegni di studio, seminari, pubblicazioni ecc., ma in un contesto assolutamente diverso rispetto, a quello dell’8 maggio 1968. Tra l’altro il clima del 1968 non fu per niente determinante su un evento che proprio per il suo gigantismo aveva avuto una lunga e precedente preparazione.
Nel nostro contesto odierno forse Marx è meno «attuale», rispetto a quello degli anni Sessanta del Novecento? Se l’attualità consiste nella capacità di spiegazione dei meccanismi profondi caratterizzanti le fasi di accumulazioni in atto, ebbene le categorie marxiane sono certamente più attuali oggi che nell’«età dell’oro».
LE TENDENZE GENERALI dell’accumulazione che avvengono in una fase in cui il modo di produzione capitalistico può svilupparsi senza antitesi, come nei nostri tempi, sono in particolare consonanza con la costruzione analitica de Il capitale. Una consonanza senz’altro molto minore le stesse categorie l’avevano rispetto alle possibilità esplicative del capitalismo civilizzato (in Occidente) durante i «trenta gloriosi». Eppure in questo nostro tempo un’iniziativa dell’Unesco come quella di cinquant’anni fa appare del tutto impensabile.
Proviamo a ragionare sull’apparente paradosso di un complesso teorico assai poco operativamente diffuso in un contesto assai favorevole per le sue possibilità euristiche, ed invece particolarmente pervasivo in età in cui pareva esser contraddittorio con le magnifiche sorti e progressive di un neocapitalismo sempre più democratico.
La distinzione tra «marxiano» e «marxista», la continua ripetizione della nota frase di Marx: «Io non sono marxista», hanno una storia molto lunga e sono ormai luoghi comuni, ma dal punto di vista dell’indagine teorica hanno anche ragioni determinanti per essere utilizzate nell’indagine critica interna all’opera del pensatore di Treviri.
L’ESAME TESTUALE di tale opera dimostra con chiarezza che egli non si sentì mai fondatore e capo di un qualche «marxismo». «Sistemi» e «ismi» erano contraddittori con il carattere critico-demistificante del suo metodo di lavoro. Al professore tedesco di economia Adolph Wagner, che aveva scritto a proposito del «sistema socialista» (sozialistisches System) di Marx, rispose seccamente ch’egli non aveva mai costruito un «sistema socialista» e che quelle di Wagner erano solo «fantasie». Inoltre non è certo un caso che ne Il capitale non compaia mai il termine «capitalismo».
Nello stesso tempo, però, egli ha sempre considerato il suo lavoro «scientifico» come momento imprescindibile di un programma di organizzazione pratico-intellettuale. Nel periodo in cui si trovò di fatto ad essere il punto di riferimento principale dell’Internazionale combatté» tutte le «sette», fossero «socialiste», «marxiste» o altro. Ma contemporaneamente i documenti che definivano i caratteri dell’Internazionale erano tutti orientati dalle sue categorie di pensiero. E tutta la sua opera-capolavoro, rigorosamente scientifica, era concepita, lo disse esplicitamente, anche come «il missile più terribile che sia stato ancora scagliato contro i capi della borghesia (proprietari terrieri inclusi)».
Nella tensione tra questi due poli, quello della scienza e quello del ruolo della scienza per l’emancipazione dei subalterni, si definisce un campo di destini incrociati. Non perché il secondo sia la verifica del primo, ma perché comunque è un indicatore delle forme della sua fortuna. Anche se tali forme non derivano dalla scienza, ne condizionano l’immagine politico-culturale esterna alla ristretta cerchia degli specialisti, e qualche volta anche all’interno di quella che viene chiamata «comunità scientifica».
LA LOCUZIONE RICORRENTE nella pubblicistica secondo la quale Il capitale sarebbe stata la «Bibbia» del movimento operaio e socialista, è, insieme, falsa e vera. Falsa nel marxismo secondo testi e filologia testuale. Niente era più estraneo agli intendimenti di Marx, e soprattutto alla sua metodologia scientifica, della logica del libro sacro. Vera, in parte non marginale, nei processi reali di un movimento che aveva bisogno della conferma «scientifica» per la garanzia, «in ultima istanza», del proprio «giusto» operare nella storia. Alla fine dell’Ottocento, al momento cioè dell’incontro tra categorie marxiane e movimento operaio, poteva succedere che la pubblicistica operaia costruisse teorie «marxiste» del salario del tutto contraddittorie con quelle «marxiane». Eppure si trattava di un momento di crescita e di consapevolezza di sé dell’organizzazione.
Dall’ultimo quarto del XIX secolo a gran parte del XX il «marxismo» assume forme strutturate. Prima in organizzazioni di resistenza e partiti politici, poi addirittura in «Stati marxisti». Vere e proprie potenze insomma, senza le quali non sarebbe spiegabile il gigantismo del convegno Unesco del 1968.
STRUTTURATO o non strutturato il marxismo fuori dai testi di Marx rimane un momento imprescindibile per un pensiero che ha voluto essere rivoluzionario. Il fatto è che al Capitale resta stretta la definizione di «classico». Nel 1981 Italo Calvino si esercitò a definire un classico in 14 proposizioni. Il capitale può rientrare in tutte le definizioni, ma solo parzialmente, perché tutte quante presuppongono un’atmosfera pacificata nello svolgimento della lettura e della riflessione del testo. Quel testo, invece, rimane, e rimarrà per tutta l’età caratterizzata dal modo di produzione capitalistico, il «missile terribile» evocato da Marx.
Il marxismo «potenza», il «marxismo politico» è scomparso alla fine del Novecento, e senza tale dimensione anche la filologia marxiana rischia di diventare solo un affare analitico per professori. I modi in cui alla fine dell’Ottocento avvenne l’incontro del movimento operaio con le varie «forme» marxismo sono oggi irripetibili. Tra le molte e rilevanti differenze di contesto, su una dobbiamo appuntare in particolare la nostra attenzione: allora furono più il movimento, le organizzazioni di resistenza, ad andare verso la teoria che l’inverso. Nel momento attuale è al «marxismo politico» che sembra spettare l’onere di una ricomposizione. Naturalmente in forme diverse, in forme nuove.
LA CATEGORIA DEL «NUOVO» è cosa seria, ma nel dibattito politico, e non solo, viene utilizzata alla maniera su cui ha ironizzato il grande storico economico Ruggiero Romano: il nuovo non tanto come veramente nuovo, bensì come «novello» al pari del beaujolais (o del chianti). Certamente non ci si avvicina ai corrieri in bici di Foodora tramite citazioni di Marx. Se però si riflette bene sui capitoli relativi alla giornata lavorativa del I libro de Il capitale, si possono cogliere le ragioni di fondo, nella logica dell’accumulazione nel nostro tempo, della necessità di tali rapporti di lavoro. E su tale base, magari, elaborare categorie politiche «nuove» davvero.
In tale prospettiva alla nostra cultura, alla nostra politica, non basta, parafrasando Croce, rifugiarsi nella generica formulazione del «non possiamo non definirci marxisti». Bisogna entrare direttamente nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica.
il manifesto 5.5.18
I destini incrociati di Karl Marx
Bicentenari. La lunga stagione di una indagine teorica e di un pensiero che ha voluto essere rivoluzionario. La locuzione ricorrente secondo cui «Il capitale» sarebbe stato la «Bibbia» del movimento operaio è falsa e vera. Niente era più estraneo agli intendimenti del filosofo di Treviri
di Paolo Favilli


L’8 maggio 1968, in occasione del centocinquantenario della nascita di Marx, Raymonde Aron, sociologo liberale e critico di Marx (soprattutto dei marxismi), nell’ambito della propria relazione al grande convegno parigino organizzato dall’Unesco, mise in evidenza «il contrasto tra le dure condizioni nelle quali visse l’esule a Londra, e il quadro grandioso e ufficiale in cui professori togati, venuti da tutte le università del mondo, si propone di intrattenere un dialogo cortese, dopo aver ricevuto la consegna di attenersi al contributo scientifico di Marx e di dimenticare il rivoluzionario – ma con l’intenzione (…) di non rispettare affatto questa consegna».
IN EFFETTI LO SCENARIO delle celebrazioni era davvero imponente: non solo per il numero e la qualità dei professori intervenuti, ma anche di quelle che René Maheu, direttore dell’Unesco, appellava come «Eccellenze», capi politici e di istituzioni statali, tutti uniti per onorare colui che aveva, sempre parole di Maheu, «profondamente modificato il rapporto tra realtà e pensiero».
Le celebrazioni del bicentenario sono ben lungi dall’avere quel carattere di grandiosità e ufficialità. Sono in corso, ovviamente, convegni di studio, seminari, pubblicazioni ecc., ma in un contesto assolutamente diverso rispetto, a quello dell’8 maggio 1968. Tra l’altro il clima del 1968 non fu per niente determinante su un evento che proprio per il suo gigantismo aveva avuto una lunga e precedente preparazione.
Nel nostro contesto odierno forse Marx è meno «attuale», rispetto a quello degli anni Sessanta del Novecento? Se l’attualità consiste nella capacità di spiegazione dei meccanismi profondi caratterizzanti le fasi di accumulazioni in atto, ebbene le categorie marxiane sono certamente più attuali oggi che nell’«età dell’oro».
LE TENDENZE GENERALI dell’accumulazione che avvengono in una fase in cui il modo di produzione capitalistico può svilupparsi senza antitesi, come nei nostri tempi, sono in particolare consonanza con la costruzione analitica de Il capitale. Una consonanza senz’altro molto minore le stesse categorie l’avevano rispetto alle possibilità esplicative del capitalismo civilizzato (in Occidente) durante i «trenta gloriosi». Eppure in questo nostro tempo un’iniziativa dell’Unesco come quella di cinquant’anni fa appare del tutto impensabile.
Proviamo a ragionare sull’apparente paradosso di un complesso teorico assai poco operativamente diffuso in un contesto assai favorevole per le sue possibilità euristiche, ed invece particolarmente pervasivo in età in cui pareva esser contraddittorio con le magnifiche sorti e progressive di un neocapitalismo sempre più democratico.
La distinzione tra «marxiano» e «marxista», la continua ripetizione della nota frase di Marx: «Io non sono marxista», hanno una storia molto lunga e sono ormai luoghi comuni, ma dal punto di vista dell’indagine teorica hanno anche ragioni determinanti per essere utilizzate nell’indagine critica interna all’opera del pensatore di Treviri.
L’ESAME TESTUALE di tale opera dimostra con chiarezza che egli non si sentì mai fondatore e capo di un qualche «marxismo». «Sistemi» e «ismi» erano contraddittori con il carattere critico-demistificante del suo metodo di lavoro. Al professore tedesco di economia Adolph Wagner, che aveva scritto a proposito del «sistema socialista» (sozialistisches System) di Marx, rispose seccamente ch’egli non aveva mai costruito un «sistema socialista» e che quelle di Wagner erano solo «fantasie». Inoltre non è certo un caso che ne Il capitale non compaia mai il termine «capitalismo».
Nello stesso tempo, però, egli ha sempre considerato il suo lavoro «scientifico» come momento imprescindibile di un programma di organizzazione pratico-intellettuale. Nel periodo in cui si trovò di fatto ad essere il punto di riferimento principale dell’Internazionale combatté» tutte le «sette», fossero «socialiste», «marxiste» o altro. Ma contemporaneamente i documenti che definivano i caratteri dell’Internazionale erano tutti orientati dalle sue categorie di pensiero. E tutta la sua opera-capolavoro, rigorosamente scientifica, era concepita, lo disse esplicitamente, anche come «il missile più terribile che sia stato ancora scagliato contro i capi della borghesia (proprietari terrieri inclusi)».
Nella tensione tra questi due poli, quello della scienza e quello del ruolo della scienza per l’emancipazione dei subalterni, si definisce un campo di destini incrociati. Non perché il secondo sia la verifica del primo, ma perché comunque è un indicatore delle forme della sua fortuna. Anche se tali forme non derivano dalla scienza, ne condizionano l’immagine politico-culturale esterna alla ristretta cerchia degli specialisti, e qualche volta anche all’interno di quella che viene chiamata «comunità scientifica».
LA LOCUZIONE RICORRENTE nella pubblicistica secondo la quale Il capitale sarebbe stata la «Bibbia» del movimento operaio e socialista, è, insieme, falsa e vera. Falsa nel marxismo secondo testi e filologia testuale. Niente era più estraneo agli intendimenti di Marx, e soprattutto alla sua metodologia scientifica, della logica del libro sacro. Vera, in parte non marginale, nei processi reali di un movimento che aveva bisogno della conferma «scientifica» per la garanzia, «in ultima istanza», del proprio «giusto» operare nella storia. Alla fine dell’Ottocento, al momento cioè dell’incontro tra categorie marxiane e movimento operaio, poteva succedere che la pubblicistica operaia costruisse teorie «marxiste» del salario del tutto contraddittorie con quelle «marxiane». Eppure si trattava di un momento di crescita e di consapevolezza di sé dell’organizzazione.
Dall’ultimo quarto del XIX secolo a gran parte del XX il «marxismo» assume forme strutturate. Prima in organizzazioni di resistenza e partiti politici, poi addirittura in «Stati marxisti». Vere e proprie potenze insomma, senza le quali non sarebbe spiegabile il gigantismo del convegno Unesco del 1968.
STRUTTURATO o non strutturato il marxismo fuori dai testi di Marx rimane un momento imprescindibile per un pensiero che ha voluto essere rivoluzionario. Il fatto è che al Capitale resta stretta la definizione di «classico». Nel 1981 Italo Calvino si esercitò a definire un classico in 14 proposizioni. Il capitale può rientrare in tutte le definizioni, ma solo parzialmente, perché tutte quante presuppongono un’atmosfera pacificata nello svolgimento della lettura e della riflessione del testo. Quel testo, invece, rimane, e rimarrà per tutta l’età caratterizzata dal modo di produzione capitalistico, il «missile terribile» evocato da Marx.
Il marxismo «potenza», il «marxismo politico» è scomparso alla fine del Novecento, e senza tale dimensione anche la filologia marxiana rischia di diventare solo un affare analitico per professori. I modi in cui alla fine dell’Ottocento avvenne l’incontro del movimento operaio con le varie «forme» marxismo sono oggi irripetibili. Tra le molte e rilevanti differenze di contesto, su una dobbiamo appuntare in particolare la nostra attenzione: allora furono più il movimento, le organizzazioni di resistenza, ad andare verso la teoria che l’inverso. Nel momento attuale è al «marxismo politico» che sembra spettare l’onere di una ricomposizione. Naturalmente in forme diverse, in forme nuove.
LA CATEGORIA DEL «NUOVO» è cosa seria, ma nel dibattito politico, e non solo, viene utilizzata alla maniera su cui ha ironizzato il grande storico economico Ruggiero Romano: il nuovo non tanto come veramente nuovo, bensì come «novello» al pari del beaujolais (o del chianti). Certamente non ci si avvicina ai corrieri in bici di Foodora tramite citazioni di Marx. Se però si riflette bene sui capitoli relativi alla giornata lavorativa del I libro de Il capitale, si possono cogliere le ragioni di fondo, nella logica dell’accumulazione nel nostro tempo, della necessità di tali rapporti di lavoro. E su tale base, magari, elaborare categorie politiche «nuove» davvero.
In tale prospettiva alla nostra cultura, alla nostra politica, non basta, parafrasando Croce, rifugiarsi nella generica formulazione del «non possiamo non definirci marxisti». Bisogna entrare direttamente nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica.

Corriere 5.5.18
Storie di anaffettivi
L’elenco di chi non prova sentimenti è molto lungo, soprattutto tra le star di Hollywood. Lo psichiatra: alcuni se ne vantano. Di certo non ritengono di doversi curare
Claudio Mencacci, psichiatra: «L’anaffettività è un sintomo importante che riconduce ad un’ampia gamma di disturbi della psiche»
Vegetti Finzi: «Alienazione e anaffettività sono fra gli effetti collaterali dei social network come Facebook a causa dell’eccesso di possibilità di stabilire relazioni
L’incapacità di amare una donna è anche il tema del film di Marco Bellocchio Fai bei sogni (tratto dal romanzo di Massimo Gramellini)
di Marisa Fumagalli


Cinquanta sfumature di anaffettività. Avarizia di sé, indifferenza verso l’altro, lieve disturbo della personalità o grave patologia, l’incapacità di esprimere affetti non è questione odierna. Per di più, è argomento caro a molti scrittori sul quale si sono esercitati nei loro romanzi. Uno per tutti Madame Bovary, di Gustave Flaubert: anaffettivo il mediocre marito di Emma e, in fin dei conti, anaffettiva anche lei, romantica sognatrice, nei confronti della figlia. Tant’è. Ciò che un tempo si chiamava «pudore dei sentimenti» era moneta corrente. In famiglia, nella coppia. Certo, nessuno si sarebbe sognato di chiedere l’annullamento delle nozze a causa di «anaffettività». Oggi succede. Basti citare una recente sentenza della Corte di Cassazione (maggio 2012) che ha sancito definitivamente la nullità di un matrimonio, chiesta da un uomo che si era reso conto di non riuscire ad esprimere alcun sentimento nei confronti della moglie. I giudici sottolineavano, tra l’altro, «il disturbo della personalità del coniuge caratterizzato da rigidezza e intolleranza». In sintesi, quel marito «era inidoneo a realizzare un rapporto di comunione e condivisione».
L’incapacità di amare una donna è anche il tema del film di Marco Bellocchio Fai bei sogni (tratto dal romanzo di Massimo Gramellini). Rimasto orfano della madre a 9 anni, cresciuto nella difficoltà di esprimere i propri sentimenti, Valerio Mastandrea, il protagonista del film, soffre di ansia da relazione. In verità, la radice dell’impossibilità di amare completamente una donna, scegliendola come compagna di vita, risiede nei problemi emotivi dell’infanzia maschile. Alla base dell’anaffettività spesso c’è il rapporto madre-figlio/a. Cioè il comportamento da «non mamma» ben descritto da Silvia Vegetti Finzi, psicologa. La non mamma è la figura centrale del suo libro autobiografico Una bambina senza stella (Rizzoli). Pochi, efficaci tratti per definirla: «Anaffettiva, si esprime con il poco contatto fisico; non bacia non abbraccia, parla sempre in modo generico, senza giungere al cuore, senza condividere le fantasie della bambina». «Che riuscirà, tuttavia, a superare il trauma infantile. A scuola, per merito di un insegnante. Un incontro risolutivo e salvifico», sottolinea Vegetti Finzi, aprendo uno spiraglio all’ottimismo.
E a proposito di madri «gelide», alcuni esempi da manuale si trovano fra le star di Hollywood. Sacha Newley, unico figlio maschio dell’attrice inglese Joan Collins, scrive nell’autobiografia: «Volevo solo che mia madre mi amasse, ma lei non mi ha mai abbracciato, nemmeno quando piangevo, e mi ha sempre tenuto a distanza. Narcisista, interessata solo alla carriera, era capace di dormire tutto il giorno per brillare la sera». Non è da meno Christina Crawford, figlia adottiva di Joan Crawford. Nel suo libro Mammina cara, descrive la madre come una donna instabile, dura verso i figli, ossessionata dal proprio inarrestabile declino. La lista di personaggi famosi considerati anaffettivi o, quanto meno gelidamente misteriosi, è lunga. Se il portare perennemente gli occhiali scuri è un indizio, potremmo citarne un paio: Jacqueline Kennedy ed Enzo Ferrari.
L’anaffettività nella coppia è un guaio serio. «Non emerge fino a che l’attrazione sessuale è forte — nota Vegetti Finzi —. Quando declina dovrebbe subentrare la tenerezza; o meglio, la sensualità. Se ciò non avviene la convivenza diventa anaffettiva. È un momento delicato di passaggio che tocca tutte le coppie. Se si è consapevoli lo si affronta meglio». Un tassello lo aggiunge Stefano Gastaldi, docente di Psicoterapia psicoanalitica: «Di solito sono i maschi che hanno difficoltà ad esprimersi. Soprattutto a parole. Di fronte agli intoppi della vita a due, tendono ad esonerarsi dallo sviscerarne le cause (e gli eventuali rimedi) discutendone con la compagna. Fatta a pezzi la società patriarcale, l’anaffettività degli uomini deriva dalla loro difficoltà ad accettare la dipendenza dalle donne e la loro indipendenza».
Un dato di fatto: ciò che ieri veniva socialmente tollerato oggi balza all’evidenza, diventa problema. Irrisolto. «La persona anaffettiva tendenzialmente si accetta così, a volte se ne fa vanto. Comunque sia, non pensa proprio a curarsi», dice Claudio Mencacci, psichiatra, direttore del Dipartimento di Neuroscienze Fatebenefratelli-Sacco a Milano. Spiega: «L’anaffettività è un sintomo importante che riconduce ad un’ampia gamma di disturbi della psiche. Che non riguardano soltanto la dinamica dei rapporti interni alla coppia e alla famiglia. Penso, ad esempio, agli a-empatici che fanno soffrire il prossimo e lo maltrattano con indifferenza. Ai narcisisti che considerano solo se stessi. Coltivano irragionevoli aspettative, a loro tutto è dovuto. Sono arroganti, presuntuosi. Spesso invidiosi». «Il disturbo schizoide della personalità — continua Mencacci — produce distacco dalle relazioni sociali, il poco interesse per la vita. Donne e uomini solitari, senza amici o confidenti. In una parola, anaffettivi». Non giova l’uso (e l’abuso) dei social network. Anzi. «Creano dipendenza e distraggono», osserva Vegetti Finzi. Alienazione e anaffettività, a quanto pare, si segnalano fra gli effetti collaterali dei social. Insomma, l’eccesso di possibilità di stabilire relazioni porterebbe a spezzarle più facilmente.

Il Fatto 5.5.18
La sinistra sfrattata dal Pd cerca casa
di Veronica Gentili


C’era una sola vera domanda che l’altroieri la Direzione del Partito democratico sarebbe stata tenuta a porsi: che cosa sia diventata oggi la “Ditta”, espressione coniata da Pier Luigi Bersani per definire il Pd e a chi spetti detenerne le chiavi. Parliamoci fuori dai denti perché, nell’abuso di parole a proposito della sinistra, il paradosso è che spesso manca la chiarezza: la Ditta aveva semplicemente subappaltato i suoi locali a Matteo Renzi o aveva deciso di cedergliene il marchio in maniera irreversibile? O, per essere più precisi: la Ditta è così profondamente diversa rispetto a quella di cui l’ex segretario prese possesso nel 2013 che sarebbe assurdo oggi chiedergliene la restituzione? In questo caso, nessun dibattito avrebbe ragion d’essere e nessuna “conta” potrebbe rimettere a posto le cose: se le fondamenta, i soffitti, le pareti della Ditta hanno davvero assorbito la trasformazione politico-culturale della rottamazione, del “cambia verso”, del Jobs Act, delle “riforme”, se quei locali si sono trasformati a immagine e somiglianza di coloro che li hanno gestiti in questi ultimi anni, anche solo pensare a un accordo con il Movimento 5 Stelle è stato del tutto privo di senso.
A quanto pare, la Direzione di giovedì ha risposto a questa domanda con i fatti, pur cercando di nascondersi ancora una volta dietro le parole: il reggente Maurizio Martina ha abortito a monte qualunque contrapposizione alla linea renziana, ha negato che ci sia mai stata la volontà di un governo con i 5Stelle e si è limitato a chiedere la fiducia (chissà poi per farci cosa) soltanto fino all’Assemblea di fine maggio, giustificando la retromarcia su tutti i fronti con l’importanza dell’unità. In altre parole, ha ammesso di essere ospite in casa d’altri, mentre il padrone di casa, appena consacrato ufficialmente, gli batteva le mani.
D’altronde vanno riconosciute a Matteo Renzi, e solo a lui, una coerenza identitaria e una caparbietà politica che trovano un’ulteriore riconferma nel rilancio di un governo istituzionale per ultimare o riciclare le “riforme”. Il Rottamatore (soprattutto del suo partito) si è già messo en marche e ora, dopo il 4 marzo, diversamente da quando bluffava di più sulle sfumature, non ha alcuna intenzione di simulare incertezza. La vocazione anti-“populista” a cui si sente chiamato lo colloca naturalmente nel polo anti-antiestablishment, cioè nel vecchio solco centrista che ha molti meno conflitti interni da affrontare della fu sinistra. Dunque ormai è inutile porre a Renzi le domande sui ceti popolari che fuggono verso altri partiti, su come ripensare il rapporto fra il governo e i dettami dell’economia, sui rischi e i danni che comporta la totale sudditanza ai parametri finanziari, sulle integrazioni imposte dall’avvento della Rete al concetto di democrazia rappresentativa, sui limiti all’utilizzo del capitale umano prima di depauperarlo, e in definitiva su come entrare in relazione con un movimento – quello dei Cinque Stelle – che ha raccolto e accolto gran parte dello storico popolo democratico. Tutte queste domande evidentemente non competono a Renzi, ma a una sinistra che, stanca del ritornello delle “ideologie che non esistono più”, abbia sinceramente voglia di ripensare se stessa e di trovare il proprio ruolo nella storia contemporanea.
Ecco: la Direzione nazionale ha unanimemente decretato che non è più nei locali del Partito democratico che questi interrogativi e le loro soluzioni devono trovare posto. Infatti, mentre Martina pontificava fumosamente sull’esigenza di “rifondare la cultura e il pensiero di fondo”, il sottotesto era che tutto questo dovrà accadere altrove. Sfrattata dal Nazareno, la sinistra italiana cerca casa.

La Stampa 5.5.18
L’allarme di Veltroni
“Il Pd è arrivato a un punto limite”
Nessuno punta alla scissione ma molti ci pensano
di Fabio Martini


Walter Veltroni sembra ringiovanito. Il primo segretario nella storia del Pd si presenta agli studi de «la7» per l’intervista con Lilli Gruber con un look di altri tempi: abbronzato («due ore di sole a Sabaudia sono bastate»), asciutto, tagliente come mai prima. E quando si accendono le telecamere, Veltroni sciorina un’analisi crudissima della crisi del suo partito. E lo fa con un lessico pop, insolito per lui: «La sinistra ha raggiunto il livello più basso della sua storia. Ma vuoi fermarti a capire cosa sta succedendo?». E ancora: «Io ed alcuni milioni di elettori democratici che dobbiamo fare? Quelli che hanno fastidio per questa roba qui, siamo la stragrande maggioranza». Parole che - al di là della ribadita fiducia nel futuro del Pd - sembrano tradire un’incertezza sulla unitarietà del corpo del partito. E infatti più tardi Veltroni scandisce le parole più impegnative: «Il Pd deve recuperare tutto intero l’equilibrio che lo ha fatto nascere. E’ come una farfalla, se le spezzi le ali non vola più. E siamo ad un punto limite».
Siamo ad un punto limite: espressione che usata da un personaggio come Walter Veltroni, attentissimo a calibrare le parole, autorizza pensieri di ogni tipo. Qualcuno sta forse cominciando ad accarezzare l’idea di mollare gli ancoraggi, mettendo in cantiere una nuova forza di centrosinistra di stampo ulivista? Poche ore prima della riunione della direzione del Pd, un altro personaggio navigatissimo come Piero Fassino, alla domanda se fosse plausibile una scissione nel Pd, aveva risposto: «I rischi ci sono sempre, ma nessuno lo vuole e nessuno sta lavorando per dividersi».
Parole, quelle usate da Veltroni e Fassino, che fanno capire come stanno le cose: nessuno sta attivamente lavorando alla scissione, meno che mai i due ex segretari, ma il futuro è ricco di incognite e di subordinate. Soprattutto in vista del congresso che dovrà stabilire chi comanda nel Pd. Nella nuova, vasta area «non-renziana» coesistono personaggi diversi tra loro, con ambizioni e progetti non perfettamente sovrapponibili: un presidente del Consiglio in uscita come Paolo Gentiloni, ministri come Dario Franceschini, Andrea Orlando, Carlo Calenda, Maurizio Martina, ex leader di partito come Piero Fassino e Walter Veltroni, battitori liberi come Luigi Zanda e, sia pure come consiglieri molto esterni due ex presidenti del Consiglio come Romano Prodi ed Enrico Letta.
Personaggi con diverse idee sul futuro del Pd, ma la novità delle ultime ore è che - in tutta questa area - si stanno cominciando a studiare tutte le mosse - nessuna esclusa - in vista della riunione veramente decisiva per il futuro del Pd: l’Assemblea nazionale, l’elefantiaco parlamentino del partito, che per statuto è chiamato a deliberare tutti i passaggi della stagione congressuale. Assemblea che somiglia all’araba fenice: che ci sia, ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. L’unica certezza è che, prima o poi debba essere convocata, ma nessuno sa quando, perché è la formazione del governo, a dettarne i tempi.
Ma salvo l’irruzione di un voto eccessivamente anticipato (tra luglio e settembre) il parlamentino Pd convocherà il congresso, con annesse Primarie. E a quel punto una contesa potenzialmente esplosiva potrebbe accendersi sulla gestione della fase congressuale: se Renzi dovesse affidarla al presidente del partito, Matteo Orfini, sottraendo la reggenza a Maurizio Martina, «a quel punto - sussurra un esponente della minoranza - la prevedibile gestione faziosa delle future liste elettorali, potrebbe spalancare la strada alla nascita di una nuova formazione di centro-sinistra».
Dunque. molto dipenderà dall’Assemblea nazionale. Come sempre nelle occasioni più delicate, Renzi sta tenendo le carte coperte del «suo» candidato alla segreteria. I suoi nemici interni, per ora, hanno trovato un minimo comun denominatore sul nome di Nicola Zingaretti, che oggi all’Ex Dogana di Roma lancerà la sua «Leopolda». Con un titolo dal sapore antico: «L’alleanza del fare». Per metterli in imbarazzo, Renzi potrebbe chiedere un sacrificio ad un personaggio a lui vicino e del quale non si fida fino in fondo: Graziano Delrio.

il manifesto 5.5.18
Abu Mazen riconfermato presidente dell’Olp chiede scusa a Israele
di Michele Giorgio


RAMALLAH Appena riconfermato dal Consiglio nazionale palestinese alla presidenza dell’Olp, ‎Abu Mazen ha chiesto scusa per le sue dichiarazioni di qualche giorno fa dai toni ‎antisemiti e si mosso per fare un rimpasto del governo dell’Anp che potrebbe ‎mettere fuori gioco il premier Rami Hamdallah, incolpevole per la mancata ‎riconciliazione con gli islamisti di Hamas e sfuggito di recente a un attentato a ‎Gaza.‎ «Non era mia intenzione‎‎» offendere nessuno ha scritto Abu Mazen in un ‎messaggio diffuso da Ramallah rispondendo agli tanti attacchi giunti da Israele, ‎dall’Ue, dagli Usa e dalle Nazioni Unite. ‎«Se qualcuno si è sentito offeso dalle mie ‎dichiarazioni al Consiglio nazionale palestinese, soprattutto gli ebrei, mi scuso con ‎loro. Voglio dire a tutti che non era mia intenzione‎», spiega nel messaggio. Meno ‎conciliante è apparso verso il governo dell’Anp che potrebbe subire un drastico ‎cambiamento, a comincare dal primo ministro Hamdallah. Abu Mazen, secondo ‎fonti a Ramallah, nei prossimi giorni avvierà delle consultazioni per formare un ‎esecutivo che sarà composto da rappresentanti delle varie formazioni rappresentate ‎nell’Olp. Non è chiaro se rivolgerà un invito ad Hamas ad entrare nel nuovo ‎governo riavviando così la riconciliazione nazionale palestinese. Tutti i segnali ‎dicono il contrario.

La Stampa 5.5.18
La rivincita delle poliziotte palestinesi
“A piccoli passi batteremo i pregiudizi”
Formato un primo nucleo dai carabinieri per tutelare donne e minori
di Giordano Stabile


Tasneem ha 22 anni, il volto da bambina che il fazzoletto beige mette ancora più in risalto, e lo sguardo battagliero. L’hijab le cade sulle spalle, copre a metà la mostrina della giacca militare, come se ancora un accenno di timidezza le impedisse di mostrarsi in pieno quello che è, una delle prima 14 donne poliziotte palestinesi a essere formata dai carabinieri, nella più importante scuola per le forze di sicurezza in Cisgiordania, a Gerico. Lei e le sue compagne, tutte poco più che ventenni, andranno a costituire un nucleo di eccellenza, impegnato su un doppio fronte. La garanzia dell’ordine in uno dei luoghi più ad alta tensione al mondo e la difesa delle donne e dei minori in una società araba ancora conservatrice e maschilista.
«Non è stato facile scegliere questa strada - ammette -. Mia madre mi incoraggiava, ma per mio padre era inconcepibile, per un po’ non mi ha parlato. Alla fine si è convinto, e adesso è orgoglioso di me, come se fossi un figlio maschio». Tasneem ha frequentato l’Accademia militare all’Università Al-Ittihad e appena finiti gli studi è stata scelta per questo corso unico nel Medio Oriente, perché incentrato sulle questioni di genere. «La condizione della donna qui è ancora difficile - continua -, la tradizione ha molta influenza, ma a piccoli passi si può cambiare. Io mi sento una doppia responsabilità: difendere la mia patria, la Palestina, e difendere i più deboli, donne e bambini».
Un’occasione imperdibile, perché la qualità della missione Miadit, che ha formato dal 2014 1600 uomini della polizia civile e della polizia militare palestinese, è riconosciuta in tutto il mondo. Nei grandi edifici grigi alla periferia di Gerico è stato così trovato posto per un corso tagliato su misura per le particolari condizioni delle donne palestinesi, e l’iniziativa è stata inaugurata mercoledì dal console generale d’Italia a Gerusalemme, Fabio Sokolowicz, assieme ai rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri della missione Miadit e a esponenti palestinesi.
L’iniziativa è nata da un’idea del consolato «per mettere le attività della Miadit in continuità con l’azione della nostra cooperazione sui temi di genere». All’interno delle iniziative dell’Unione europea, il nostro Paese ha il ruolo di «guida» nello sviluppo economico, la salute e appunto le questioni di genere, mentre i carabinieri hanno una funzione fondamentale nella formazione delle forze di sicurezza, che ormai contano quasi 30 mila uomini. Le donne, come nella maggior parte dei Paesi arabi, sono un piccola minoranza, poche centinaia e senza ruoli di comando.
Per questo il comando dei carabinieri ha voluto inviare dal Centro di eccellenza per le unità di polizia di stabilità una esperta di genere, il capitano Vincenza Chiacchierini, che ha illustrato le linee guida del corso, ispirate dalla risoluzione 1325 dell’Onu. «Donne e bambini sono di gran lunga i soggetti più esposti e a rischio nei conflitti. Formare donne che proteggono donne e bambini è fondamentale se vogliamo non soltanto la pace ma anche uno sviluppo equilibrato». Il corso sarà ripetuto e ampliato e punta a fare delle donne poliziotto, uno dei pilastri di un futuro Stato palestinese, se e quando nascerà.
È una goccia in un mare in tempesta. Le tensioni con Israele sono ai massimi da quattro anni e si avvicinano le date del 14 maggio, quando l’ambasciata americana sarà spostata a Gerusalemme, e del 15 maggio, giorno dell’indipendenza per Israele ma della Nabka, il «disastro», per i palestinesi. Si annunciano manifestazioni di massa anche in Cisgiordana. Le fazioni sono più divise che mai, con Al-Fatah del presidente Abu Mazen in rotta totale con Hamas, in calo nei consensi e messo nell’angolo dalle decisioni americane. Le 14 ragazze con l’hijab e la divisa, timide e orgogliose per aver vinto già la loro prima battaglia contro i pregiudizi, sono in controtendenza. E forse un modello per pensare un futuro diverso.

Il Fatto 5.5.18
C’è un vantaggio nel chiamarsi Israele
di Massimo Fini


Che le dichiarazioni di Abu Mazen (gli ebrei sarebbero in qualche modo responsabili della Shoah) siano inaccettabili, come ha immediatamente dichiarato, fra gli altri, anche l’Unione europea, non è nemmeno il caso di dirlo. Ci si chiede però, come ha fatto un lettore del Fatto (27.4), Mauro Chiostri, parlando dell’oggi e non del codificato ieri, se lo Stato di Israele non goda di uno speciale salvacondotto basato proprio sullo sterminio ebraico di tre quarti di secolo fa.
È una domanda, per la verità, che si fanno in molti ma che non osano formulare pubblicamente nel timore di essere immediatamente bollati come antisemiti, negazionisti, razzisti, nazisti. Ma Israele è uno Stato e non va confuso con la comunità ebraica internazionale. In anni meno manichei di quelli che stiamo vivendo attualmente era la stessa comunità ebraica a non volere che si facesse una simile confusione. Ed era logico che così fosse. Perché Israele è uno Stato e, come tale, può compiere azioni criticabili, e anche nefande, ma non per questo ne deve rispondere, poniamo, un ebreo del ghetto di Roma. Oggi invece questa confusione esiste e Israele può compiere impunemente atti che ad altri Stati costerebbero l’indignata condanna, se non peggio, della cosiddetta comunità internazionale. 1. Durante le manifestazioni popolari di quest’ultimo mese e mezzo a Gaza, i militari israeliani hanno ucciso 44 persone e ne hanno ferite 1.400. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres aveva fatto richiesta di un’indagine indipendente sui morti a Gaza. Ma Israele l’ha respinta. Eppure richieste di questo genere sono state accettate persino da Assad e, a suo tempo, da Saddam Hussein. L’esercito israeliano sarà anche “il più virtuoso al mondo” come afferma Netanyahu ma certamente ha il grilletto molto facile.
2. L’altro giorno, Benjamin Netanyahu, in diretta tv, con la massima esposizione mediatica possibile, ha accusato l’Iran di aver mentito sul proprio programma nucleare e di stare preparando almeno quattro o cinque bombe atomiche della stessa potenza di quelle che gli americani sganciarono su Hiroshima e, tre giorni dopo, su Nagasaki. Ha anche affermato di essere in possesso di oltre 55 mila pagine di documenti che lo provano. E ha subito trovato una sponda nell’amico di sempre, gli Stati Uniti. In realtà è proprio Netanyahu a raccontar frottole che sono state subito smentite dall’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) i cui ispettori fanno la spola fra Vienna e Teheran e hanno sempre constatato che nelle centrali iraniane l’arricchimento dell’uranio non supera il 20% che è quanto serve per gli usi energetici, civili e medici del nucleare (per arrivare all’Atomica l’arricchimento deve essere del 90%). Questo il comunicato dell’Aiea che, in materia, è la fonte più autorevole dato che i suoi ispettori fanno le verifiche sul campo: “Non abbiamo alcuna indicazione credibile di attività in Iran attinenti allo sviluppo di un ordigno nucleare dopo il 2009”.
È grottesco, se non fosse inquietante, che uno Stato come Israele, che non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, che ha la Bomba, anche se non lo dice ma, per buona misura, fa sapere, ne accusi un altro, l’Iran, che questo Trattato ha sottoscritto e accetta da sempre le ispezioni dell’Aiea.
Ma anche se l’Iran, in linea puramente ipotetica, volesse farsi l’Atomica non sarebbe uno scandalo circondato com’è da potenze nucleari come lo stesso Israele, il Pakistan e la non lontana India. L’Atomica, è ovvio, serve solo da deterrente, come dice la logica e anche l’esempio del dittatore coreano che si è salvato semplicemente dimostrando di averla e, a contrario, i casi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi che sono stati eliminati provocando il caos mediorientale e libico che tutti abbiamo sotto gli occhi.
3. Gli israeliani hanno effettuato una decina di raid missilistici su postazioni iraniane in Siria. Gli ultimi due, nella notte di domenica scorsa, hanno provocato almeno 40 vittime. Certo le milizie iraniane sono fuori dal proprio territorio col pretesto di combattere l’Isis che è diventato il passepartout per ogni sorta di nefandezze, turche, russe, americane e, appunto, iraniane. Ma Israele ha il diritto di intervenire? Facciamo l’ipotesi opposta. Cosa succederebbe se missili iraniani colpissero ipotetiche postazioni israeliane fuori dal loro territorio? Il finimondo. La condanna e l’indignazione sarebbero unanimi e le ritorsioni, economiche e militari, immediate. Invece con Israele si sta zitti, si fa finta di non vedere, di non sapere.
4. Dal 1946 sono centinaia le risoluzioni Onu che Israele non ha rispettato. Evidentemente è legibus solutus. Fino a quando deve durare questo salvacondotto che, come scrive il lettore Mauro Chiostri, “specula sul dramma della Shoah mancando oltretutto di rispetto alle vittime innocenti che l’hanno subita”?

Il Fatto 5.5.18
Strategie opposte, Israele e la Corea del Nord
Lo stallo atomico non significa pace
Gerusalemme vuole indebolire Teheran per rimuovere l’ostacolo nucleare all’egemonia sul Medio Oriente. Kim usa la minaccia della bomba per uscire dall’isolamento, aiutato dalla Cina
di Fabio Mini


Che la partita siriana fosse un preliminare di quella più ampia per il controllo del Medio Oriente era chiaro. Anzi, le incertezze europee e americane nel portare a conclusione uno scontro che ormai aveva soltanto perdenti potevano essere attribuite al timore che la partita si chiudesse davvero.
Quasi a sperare che allungando l’agonia dell’avventura americana in Iraq e Siria si potesse evitare il caos in tutta la regione. Si guardava ai protagonisti, Russia e Stati Uniti, e alle loro schermaglie fatte di attacchi, parate e finte con un misto di ansia e rassicurazione: finché i due erano in campo non avrebbero rischiato un conflitto diretto (globale) per la Siria e nemmeno per tutto il Medio Oriente. Lo ha dimostrato l’ultimo tragicomico attacco alla Siria condotto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia col permesso e la supervisione della Russia. Lo ha dimostrato il cinismo col quale perfino l’Europa ha preferito lo stallo cruento a una soluzione incruenta. Agonia operativa e stallo non avevano però il favore d’Israele che dalle crisi e dal coinvolgimento internazionale alle porte di casa ha sempre cercato di trarre il maggior profitto. Proprio all’interno delle aree di crisi ha trovato posto e modo per alimentare i conflitti e provocare reazioni violente con pretesti di ogni genere.
Al di là delle retoriche belliciste, Israele non rischia l’estinzione, come un tempo, e nemmeno l’invasione o l’attacco esterno. Non difende i confini ma li trasforma in basi per l’attacco. Provoca l’Iran e nega le sue promesse internazionali riguardo agli armamenti nucleari come se esso stesso non fosse l’araldo della inadempienza e della proliferazione nucleare. Il programma “segreto” (mai smentito) di armamento atomico israeliano va avanti dagli anni 70 e si stima che siano ora operativi dai 200 ai 400 ordigni. Israele dispone anche dei vettori (artiglierie terrestri, aerei e missili) per colpire tutto il Medio Oriente e metà Europa e Africa. Ma soprattutto Israele disconosce qualsiasi trattato di non proliferazione e possiede la volontà e la dottrina operativa per condurre attacchi nucleari. I pretesti non sono un problema. L’armamento nucleare israeliano non serve alla deterrenza regionale, anzi è il motivo di discordia e destabilizzazione fondamentale. Serve però a deterrere gli americani, i russi e gli europei. La minaccia nucleare israeliana coinvolgerebbe tutti in uno scontro globale.
Di contro, nemmeno le cosiddette “prove” portate in televisione (in inglese) dimostrano che l’Iran abbia una qualche capacità nucleare oltre a studi datati e fantasie pseudo-scientifiche. Il premier Bibi Netanyahu ha “rivelato” cose risapute per giustificare i suoi continui attacchi in Siria, Iraq, Libano e Palestina. Approfitta del caos per eludere i problemi interni e personali; approfitta della debolezza del presidente americano Donald Trump sottoposto a duro scrutinio politico e penale cercando d’influenzarne le scelte proprio riguardo all’Iran. Cerca in ogni modo di far precipitare la situazione sul terreno e rompere lo stallo dei Grandi. Tutto questo non è un piano di contingenza per conseguire un obiettivo tattico, ma un piano avviato già con il primo sionismo di Theodor Herzl e teorizzato nel 1982 da Oded Yinon per esercitare un potere egemone su tutto il Medio Oriente, dal Nilo all’Eufrate, con la fratturazione degli Stati esistenti in entità minuscole.
L’obiettivo israeliano può essere ipotetico, ma la cultura della guerra e gli strumenti militari di cui Israele si è dotato sono calibrati per quello. E sono reali. L’Egitto di Nasser, la Libia di Gheddafi, l’Iraq di Saddam e gli Stati arabi erano i grandi ostacoli e sono stati tutti rimossi. Rimanevano la Siria e l’Iran. Ora la prima è destinata alla frantumazione e quindi l’Iran, con o senza bomba atomica, è l’unico ostacolo a questo progetto: è presente in Iraq, dialoga con la Turchia, la Russia e la Cina, regge le sorti della Siria, ha milizie in Palestina, Libano e Yemen; sostiene tutte le minoranze/maggioranze sciite, non ha alcuna pretesa territoriale ai propri confini e, al contrario del sunnismo/wahabismo, non fa proselitismo religioso o diffusione del terrorismo. Israele non teme la forza militare iraniana, ma se l’Iran avesse capacità nucleare legalizzata e riconosciuta si dovrebbe confrontare con uno stallo nucleare che vanificherebbe qualsiasi motivazione egemonica. Israele preferisce la libertà d’azione, intesa come libertà di bombardare chiunque. Stati Uniti, Russia ed Europa stanno a guardare impotenti e rassegnati.
Dall’altra parte del mondo, in Estremo Oriente, la strategia nucleare ha seguito un paradigma opposto. La Corea del Nord per anni aveva cercato una via per uscire dall’isolamento. Produceva ed esportava missili di buona qualità e le sanzioni e i veti internazionali la costringevano a produrre armamenti come risorsa unica ma insufficiente. La gente moriva di fame e il regime non aveva via d’uscita. La Cina, alleata storica, negli anni della grande carestia (’90), subiva le imposizioni internazionali e tagliava gli aiuti alla Corea del Nord. Nel 1994 in una settimana il ponte sul fiume Yalu, confine settentrionale con la Cina, fu attraversato da un solo camion cinese: vuoto. La Corea del Nord aveva sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare, ma non ci credeva nessuno. Le fu promesso aiuto economico in cambio della rinuncia ai reattori nucleari. Ogni aiuto fu sospeso perché non era disposta a rinunciare al proprio regime e alla propria difesa. Nel frattempo la Corea del Sud veniva militarizzata con una massiccia presenza americana anche nucleare. La richiesta nordcoreana di denuclearizzare la penisola coreana fu sempre respinta: la potenza nucleare era l’America.
I nordcoreani reagirono d’azzardo ma razionalmente: se dovevano rinunciare a qualcosa che non avevano dovevano soltanto procurarsela e renderla credibile. Si ritirarono dal trattato di non proliferazione nucleare e realizzarono i piani nucleari. In pochi anni la Corea del Nord è arrivata a minacciare gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud. Si moltiplicarono i test nucleari e balistici intercontinentali. La Corea del Nord voleva diventare una potenza nucleare riconosciuta per trattare “alla pari” il proprio disarmo. Contrariamente a Israele, non aveva timore dello stallo nucleare ma lo ricercava per evitare un confronto che avrebbe distrutto il proprio Paese e la parte più importante del Sud: Seul. La Cina ha convinto Kim Jong-un a considerare sufficiente la forza nucleare e missilistica raggiunta. Ciò rendeva superflui altri test. Ha promosso le aperture fra Nord e Sud facendo leva anche sul proprio ruolo quale firmataria dell’armistizio che regolava la divisione della penisola. Si è resa garante della sicurezza regionale. Un gesto da grande potenza.
Giappone, Stati Uniti e la Russia sono stati colti di sorpresa. Trump ha subito rivendicato la vittoria e spacciato le mosse di Kim per cedimento alla minaccia americana. Kim e il presidente sudcoreano esultano. La vittoria è la loro. Se non si mettono di traverso i giapponesi e i bellicosi repubblicani statunitensi la pace può durare. La Cina non è stata a guardare.

La Stampa 5.5.18
Gli Stati autoritari saranno più ricchi delle democrazie
La previsione di Foreign Affairs sui redditi globali: fra cinque anni il sorpasso delle Nazioni illiberali
di Paolo Mastrolilli


«Nell’arco dei prossimi cinque anni, la porzione del reddito globale posseduta dai Paesi considerati non liberi, come Cina, Russia e Arabia Saudita, supererà quella delle democrazie liberali occidentali». L’allarme viene dalla rivista Foreign Affairs, che ha dedicato la sua ultima copertina al pericolo di vita in cui versa l’ordinamento politico vincitore del secolo scorso. L’argomento più preoccupante, però, riguarda proprio il declino economico dei Paesi liberi, perché da qui potrebbe derivare il collasso generale in tutti gli altri campi.
I ragionamenti sulla crisi della democrazia sono ormai molto diffusi, perché i segnali sono evidenti: l’autocrazia rampante in Cina; il successo degli «uomini forti» tipo Putin o Erdogan; l’ondata populista; le democrazie illiberali in Europa orientale; Trump che si augura di fare il presidente a vita; e poi le fake news, le minacce alla libertà di stampa, i furti di dati che fanno dubitare anche della liberalissima Silicon Valley. A fronte di tante paure non mancano gli ottimisti, come lo psicologo di Harvard Steven Pinker, che nel suo ultimo libro «Enlightenment Now» sostiene che in realtà viviamo nell’epoca più pacifica e prospera di sempre. Ma sono in minoranza.
In questo clima, la rivista del Council on Foreign Relations ha dedicato la copertina ad una domanda: «Is Democracy Dying?» (La democrazia sta morendo?). Gli argomenti per il sì sono noti, ma forse il saggio più preoccupante è quello di Yascha Mounk e Roberto Stefan Foa. Si intitola «The End of the Democratic Century», e sostiene che le democrazie stanno perdendo perché non sono più capaci di garantire ai loro cittadini la migliore qualità della vita al mondo.
Durante il secolo scorso la forza dei sistemi liberali era consistita nell’attrattiva della loro ideologia, ma l’elemento che aveva fatto davvero la differenza era stata la forza economica. Anche quando era arrivato al suo picco, il blocco sovietico non aveva mai superato il 13% del reddito globale. L’alleanza occidentale invece era sempre sopra al 50%. Con questa ricchezza era venuto un forte appeal, che andava dal soft power culturale all’hard power militare. L’opulenza mostrata dal telefilm «Dallas» aveva messo in ginocchio l’Urss quasi quanto la corsa alle guerre stellari di Reagan. L’attrattiva di istituzioni come la Ue e la Wto aveva spinto Paesi tipo Turchia e Corea del Sud a riformarsi, mentre le sanzioni economiche avevano piegato dittatori come Saddam e Milosevic. Ora però tutto questo sta cambiando: due terzi degli americani sopra i 65 anni considerano la democrazia irrinunciabile, ma solo un terzo di quelli sotto i 35 anni la pensa così. Dal 1995 al 2017 gli italiani, francesi e tedeschi favorevoli ad una svolta autoritaria sono più che triplicati.
La causa principale di questi sentimenti, secondo gli autori, è che la democrazia appare confusa e incapace di favorire il benessere, mentre l’autoritarismo garantisce stabilità e ora anche ricchezza. Secondo le stime dell’Fmi, tra dieci anni l’alleanza occidentale avrà solo un terzo del Pil globale. Nel 1990 i Paesi giudicati non liberi dalla Freedom House avevano il 12% del reddito globale; ora sono al 33%, e tra 5 anni supereranno le democrazie liberali. Tra i 15 Paesi al top in termini di reddito pro capite, quasi due terzi non sono democrazie. Tutto ciò ha dato coraggio a regimi come Cina e Russia, che ormai rivendicano la superiorità dei loro sistemi. Lo dimostrano le interferenze elettorali di Mosca, che «in Italia ha finanziato per anni partiti estremisti di destra e sinistra», ma ormai possiede un «soft power autoritario».
Non tutto è perduto. I regimi autocratici hanno i loro problemi, e le democrazie liberali potrebbero salvarsi tornando a crescere, e risolvendo il problema della disuguaglianza. Se questo non avverrà, però, «o le autocrazie diventeranno liberali, oppure la democrazia liberale si trasformerà in una parentesi della storia».

Repubblica 5.5.18
Intervista a Jon Lansman
“Basta terza via si vince con la giustizia sociale Corbyn ve lo dimostra”
di Enrico Franceschini,


Di che cosa stiamo parlando
Labour in crescita. L’Ukip scompare avendo esaurito il suo compito con la Brexit e i suoi voti tornano ai conservatori, che tengono. Sono i risultati delle amministrative di ieri in 150 assemblee locali Inghilterra. Ma le proiezioni su scala nazionale (anche se non si votava in Scozia, Galles, Irlanda del Nord) vedono i due maggiori partiti alla pari con il 35%, seguiti dai liberal-democratici (potenziali alleati dei laburisti), con il 16. Un altro passo verso Downing Street per Jeremy Corbyn.
Dal nostro corrispondente

LONDRA «Le politiche che mirano a creare un mondo più giusto possono vincere». Jon Lansman è la mente di Jeremy Corbyn. Come leader di Momentum, l’organizzazione giovanile del Labour, è stato l’artefice della sorprendente vittoria di Corbyn in due primarie per la leadership del partito e della sua inaspettata affermazione alle politiche dello scorso anno.
Ora entrato nella direzione laburista, il capo dei giovani della sinistra britannica ha 60 anni: ma la barba lunga, l’abbigliamento casual e la passione gli danno l’aria dell’eterno ragazzo. «Spero che la Gran Bretagna resti nell’unione doganale, nel mercato comune e magari anche nella Ue», rivela a Repubblica parlando della Brexit. «La speranza — spiega — è un grande energetico».
Speranza di cosa, signor Lansman?
«Di una società più egualitaria e più giusta. La mia generazione è cresciuta in un’era di mobilità sociale verso l’alto. Ora abbiamo la mobilità verso il basso, causa di colossale insicurezza per la classe media».
Cosa propone il Labour?
«Che i benefici della rivoluzione digitale e dell’automazione siano condivisi da tutta la società, non solo da pochi giganti globali».
La svolta a sinistra impressa da Corbyn è senza ritorno?
«Il dibattito sulla nostra futura politica è chiuso. Non c’è spazio per un partito di centro. Basta guardare al fallimento dei social-democratici in Europa: la Terza Via non vince più. Le politiche che mirano a trasformare la società possono vincere, come hanno dimostrato Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e lo stesso Labour nelle elezioni britanniche del 2017».
Lei è contro l’economia di mercato?
«Per troppo tempo il mercato è stato presentato come la forza in grado di risolvere tutti i problemi della società. In Europa e Nord America non li ha risolti».
Quale è il segreto del successo di Momentum?
«Me lo chiedono dovunque vada.
Ma non c’è alcun segreto. La spiegazione è che per troppi anni le voci autenticamente di sinistra sono state marginalizzate. Poi è arrivato Corbyn e per i giovani è stato una boccata d’aria fresca».
Il business vi vede come il diavolo.
«Il business non deve avere paura di noi. È nell’interesse del business avere un governo che investe in un’economia produttiva. Non siamo contro il business. Siamo critici di monopoli globali come Apple, che estraggono profitti per una minuscola minoranza e non pagano tasse a sufficienza».
Se andate al governo, con i vostri programmi, indebiterete lo stato.
«Prendere soldi in prestito per costruire infrastrutture e case popolari è una politica ragionevole.
Se un debito ha un bene corrispondente, è giustificato».
Le danno del marxista.
«Non lo sono. Ma Marx ha dato un rilevante contributo al pensiero politico. Ci sono delle verità in quello che dice sui conflitti di classe».
Lei e Corbyn siete davvero contro la Brexit?
«Ho votato per rimanere nell’Unione Europea e non ho cambiato idea. Continuo a credere che la Ue sia l’opzione migliore per la Gran Bretagna. Ma c’è stato un referendum, per quanto discutibile, e Corbyn ne rispetta il risultato democratico. Tuttavia non credo che il governo conservatore concluda un accordo di buon senso. La mia speranza è che resteremo nell’unione doganale e nel mercato comune. E perfino nella Ue, se otterremo un nuovo mandato popolare».
Si dice anche che lei abbia sete di potere.
«Non ho ambizioni personali. Anni fa ho tentato di candidarmi a deputato, ma la morte di mia moglie per un cancro al seno ha cambiato la mia vita, dando la priorità a tirare su i miei figli.
Quando succedono queste cose, la prospettiva cambia».

Corriere 5.5.18
Antifascismo Il presidente emerito dell’Anpi conversa con Francesco CampobelloSmuraglia partigiano del diritto La Costituzione come stella polare
di Corrado Stajano


«Erano momenti grandiosi, di immensa, comune felicità». Si lascia andare, nel ricordo di quel lontano aprile, Carlo Smuraglia, illustre giurista, senatore per più legislature, avvocato in processi che hanno lasciato il segno, in difesa delle vittime, dei poveri, degli offesi, uomo della Repubblica democratica e antifascista. Partigiano e poi soldato nel Corpo italiano di liberazione, racconta la festa indimenticata, la commozione di quando, con il suo plotone, entrava nei paesi e nelle città riconquistate ai nazisti lungo l’Adriatico, fino a Venezia, dove furono proprio i soldati della divisione Cremona, di cui faceva parte, a piantare il tricolore sul campanile di San Marco: «Venivamo accolti con fiori e con doni di cibo. Io ero tra quelli che entravano per primi perché, essendo diventato marconista, la radio sulle spalle con cui trasmettevo gli ordini del nostro sottotenente, stavo sempre al suo fianco alla guida del plotone. Eravamo i primi due e si scherzava sul fatto che entrando per primo il tenente, era lui a ricevere gli abbracci e i baci delle ragazze e a me, che venivo subito dopo, venivano riservati quelli delle donne più anziane».
Carlo Smuraglia, con Francesco Campobello, assegnista di ricerca di Storia del diritto all’Università di Torino, è l’autore di questo piccolo-grande libro, Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica, pubblicato dalle Edizioni del Gruppo Abele.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 era stato istintivo per lui scegliere la parte della libertà: aveva vent’anni ed era studente di Giurisprudenza alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Le discussioni tra i compagni cresciuti negli anni del fascismo, con in testa generiche idee politiche, non avevano fine, ma il dissolversi dello Stato, l’esercito a brandelli, la fuga del re, la mortale tenaglia dell’occupazione nazista, risvegliarono lo spirito di ribellione. Contribuirono nel profondo gli echi del discorso, giunti alla Normale, di Concetto Marchesi, rettore all’Università di Padova, che invitava gli studenti a battersi.
Una lunga vita, quella di Smuraglia, tra l’università, la politica, le istituzioni. Professore ordinario di Diritto del lavoro — e non doveva esser facile diventarlo per un comunista negli anni Cinquanta — con una bibliografia ricca, di alto livello, da La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro pubblicato da Feltrinelli nel 1958, a La Sicurezza del lavoro e la sua tutela penale (Giuffré, 1967), al Diritto penale del lavoro (Cedam, 1980) alle innumerevoli pubblicazioni sullo statuto dei lavoratori, fino all’oggi in nome dei diritti dei cittadini e contro le diseguaglianze che umiliano il nostro infelice Paese.
Al Consiglio superiore della magistratura, poi, dal 1986 al 1990. Sarebbe dovuto diventare vicepresidente, ma «per scongiurare questa eventualità», dice Smuraglia nel libro, «Francesco Cossiga decise di votare, rompendo la tradizione secondo la quale il presidente della Repubblica, in tali occasioni, non vota». Al Csm fu tra quelli, sconfitti, che votarono per la nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, una scelta che forse avrebbe salvato la vita al giudice. Fu eletto invece un magistrato che distrusse il pool di Palermo autore della sentenza-ordinanza del maxiprocesso del 1986.
L’avvocatura. Ai suoi inizi il giovane Smuraglia difese i partigiani perseguitati negli anni della Guerra fredda e gli operai comunisti chiusi nei reparti confino delle fabbriche e poi via via Piazza Fontana — fu uno dei protagonisti nel processo sulla morte in Questura, a Milano, di Giuseppe Pinelli —, vinse il processo sulla diossina di Seveso, fu parte civile nel doloroso processo sul sequestro di Cristina Mazzotti, uccisa nel 1975 dalla ’ndrangheta legata alla criminalità del Nord. Senza dimenticare il processo per lo scandalo Lockheed del 1978 davanti alla Corte costituzionale, eletto dal Parlamento commissario d’accusa, con Alberto Dall’Ora e Marcello Gallo, contro i ministri Gui e Tanassi.
Il Senato, poi. Smuraglia fu presidente della Commissione lavoro per sette anni, dalla XIII legislatura in avanti, e fece quel che poteva per la tutela dei diritti.
È un fautore del dialogo, Smuraglia. Un realista, non un estremista, sempre preoccupato delle conseguenze di quel che si sta facendo.
È un uomo rigoroso: «Non si può difendere bene un imputato se non si è convinti delle sue ragioni», dice, «Non si può vendere la coscienza per una parcella».
La Costituzione, per Smuraglia, è la stella polare, «regola la nostra vita, la convivenza quotidiana, la vita delle istituzioni».
Fu criticato quando l’Anpi, l’Associazione dei partigiani, di cui era allora presidente, si schierò per il No al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. La politicizzazione dell’ Anpi era l’accusa. È giusto far politica, replicava Smuraglia, se significa opporsi allo stravolgimento della somma Carta quando la riforma «tocca la libertà di voto e la sovranità popolare». In quell’occasione incontrò in un dibattito televisivo Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio davanti al professore, rigido ma sereno, sembrava uno scolaro balbettante e impreparato.
Tante volte sconfitto, non quella volta, Carlo Smuraglia non rinuncia mai. Non si è mai arreso, il lume della speranza per lui non si spegne.

Repubblica 5.5.18
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre


Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro. La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare. Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe.
È questo il momento giusto!