venerdì 22 dicembre 2017

La Stampa 22.12.17
L’Italia smarrisce il senso del sacro e si riduce il numero dei cattolici
I risultati della ricerca condotta da “Community Media Research” per “La Stampa” In 20 anni è aumentato soltanto il numero di coloro che non si riconoscono in nessuna fede
di Daniele Marini


Le festività natalizie fanno scattare, nel discorso mediatico, un meccanismo consolidato: come andranno le spese delle famiglie in regali, cibo e vacanze? Come andranno i consumi?

Non solo a causa delle difficoltà di quest’ultimo decennio il Natale è annoverato fra gli indicatori dell’andamento dell’economia. La dimensione religiosa della ricorrenza, e non sempre, si declina nell’intimità familiari, nel privato o confinato alle comunità dei credenti. Eppure, la religiosità, così come l’ideologia politica, costituiva un universo di valori per le persone. Un insieme di norme che contribuiva a guidare l’azione dei singoli. Permetteva la costruzione di un senso comune. Offriva un obiettivo condiviso per la costruzione della società e del suo futuro.
Religiosità e ideologie erano le narrazioni delle comunità che (e di come) si sarebbero dovute costruire. L’uso dei verbi al passato non è casuale. Perché tali pilastri hanno perso la loro valenza. La dimensione religiosa è attraversata da tensioni profonde. Già all’inizio degli Anni 60 il sociologo Sabino Acquaviva evidenziò un’«eclissi del sacro». All’orizzonte comune dei valori religiosi di riferimento si è sostituita una declinazione individuale che definiremmo «tailor made», dove ognuno ritaglia su di sé la morale religiosa in una sorta di «fai-da-te». Tant’è che siamo in presenza di «un singolare pluralismo» morale e religioso, così come definito da una ricerca curata da Garelli, Guizzardi e Pace (Mulino) nel 2000.
Un limbo collettivo
A distanza di quasi 20 anni da quell’indagine sono ancora mutate la religiosità e la spiritualità degli italiani? Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per «La Stampa», ha ripercorso alcuni dei temi sugli orientamenti religiosi degli italiani. Pur con le cautele del caso, tuttavia il raffronto con quanto rilevato all’inizio del secolo evidenzia come i processi di trasformazione allora rilevati si siano approfonditi. E, in generale, la società italiana mostri evidenti segni di una progressiva erosione della dimensione del sacro. Le dichiarazioni di appartenenza religiosa raccontano che la maggioranza della popolazione si dichiara ancora oggi cattolica (60,1%). Largamente minoritari sono quanti appartengono ad altre famiglie religiose (dagli islamici ai buddisti, dagli ebrei alle altre cristiane o non cristiane: complessivamente il 6,5%). Per contro, un italiano su tre (33,4%) non sente di appartenere ad alcuna confessione religiosa.
Fin qui, dunque, l’Italia parrebbe un Paese popolato da cattolici. Se è così, tuttavia, tale quota decresce significativamente dal 2000 di 19,1 punti percentuali, quando allora era stimata al 79,2%. Tale travaso, però, più che andare a vantaggio di altri gruppi religiosi, va ad alimentare l’area della non-appartenenza: il 33,4%, contro il 18,8% del 2000. Quindi, la religiosità cattolica coinvolge ancora una larga fetta della società italiana, ma è in contrazione. Non a vantaggio di altre culture religiose, quanto di una sorta di limbo. Un ulteriore riflesso della minore tensione all’appartenenza religiosa è riscontrabile nella frequenza ai riti e alle funzioni religiose. Gli «assidui»” (partecipano tutte le domeniche o almeno più volte al mese) sono il 25,6%, in calo di 24 punti percentuali rispetto al 2000 (erano il 49,6%). Crescono sia i «saltuari» (partecipano solo ad alcune occasioni o ogni 4-5 mesi: 47,0%, dal 34,9% del 2000) sia chi non frequenta mai (27,4%, era il 15,5% nel 2000).
Così, a una diminuzione del senso di appartenenza, consegue un minor grado di partecipazione ai riti delle comunità religiose. È interessante poi osservare come anche all’interno delle famiglie religiose le due dimensioni (appartenenza e partecipazione) non siano così scontate. Fra i cattolici solo il 39,4% è presente in modo assiduo ai rituali, quota però più cospicua rispetto a quanti appartengono ad altri gruppi religiosi (26,2%). I cattolici, quindi, paiono più fedeli, ma è una (larga) minoranza a partecipare con costanza ai momenti comunitari.
Vita spirituale
I processi erosivi della trascendenza nella vita quotidiana si colgono analizzando quanti ritengono di avere una vita spirituale e di credere in un’entità soprannaturale. In entrambi i casi otteniamo che un’ampia minoranza si riconosce nelle due dimensioni: il 45,4% sente di avere propria una vita spirituale, il 40,4% è religioso. Sommando queste affermazioni, identifichiamo quattro profili di religiosità. Il gruppo prevalente è dei «materialisti» (46,3%), che dichiara di non avere né una vita spirituale né religiosa, particolarmente presenti fra i 40enni (64,5%), assai più che fra i giovani (44,5%). Le caratteristiche opposte le troviamo nei «credenti» (34,5%), che sono il secondo gruppo, più diffuso fra gli adulti (oltre 55 anni: 43,4%). Fra questi due insiemi incontriamo quanti hanno una «spiritualità soggettiva» (11,1%), ma non riconoscono alcuna entità superiore. E, viceversa, chi ha un’appartenenza religiosa ispirata dalle consuetudini: la «religiosità culturale» (8,1%). Va sottolineato come la metà fra i cattolici (51,1%) rientri nel gruppo dei «credenti» e il 29,0% alberghi fra i «materialisti».
I processi di secolarizzazione proseguono la loro marcia. La perdita di intensità della dimensione del sacro lascia spazio a una materialità individuale e nelle relazioni, come denunciato dallo stesso Papa Francesco. Eppure il fenomeno dell’eclissi (del sacro) adombra come il lato oscuro nasconda un’altra realtà, che fatichiamo a vedere. Il pluralismo religioso e spirituale emerso dalla rilevazione è anche indice di una ricerca a fronte della perdita del tradizionale orizzonte di valori. È una nuova domanda di senso per l’epoca di trasformazioni che stiamo attraversando. Che richiede una grande opera di discernimento.


Repubblica 22.12.17
Il biotestamento
Sul fine vita la ministra non obietti
di Chiara Saraceno


La ministra della Sanità Lorenzin è scesa in campo a difesa della possibilità dei singoli medici, e soprattutto degli ospedali di proprietà religiosa ma convenzionati con il sistema sanitario pubblico, di rifiutarsi di dar corso alle volontà del malato di interrompere le cure quando le ritenga inutili, se non causa di un prolungamento di sofferenze intollerabili e senza speranza.
Rispondendo all’appello di alcune associazioni di medici cattolici ha, infatti, dichiarato che il suo obiettivo è contemperare «la necessità di applicare fedelmente le nuove disposizioni con le altrettanto fondate esigenze di assicurare agli operatori sanitari il rispetto delle loro posizioni di coscienza». Come se la legge sul fine vita appena approvata richiedesse ai medici pratiche crudeli, a danno dei pazienti, o consentisse l’eutanasia, e non il rispetto della libertà e dignità delle persone. Non bastano le pressioni del presidente della conferenza episcopale e del segretario di stato Vaticano sul presidente della Repubblica perché non firmi la legge appena approvata dal Parlamento. Anche un ministro del governo in carica, colei che dovrebbe farsi garante innanzitutto dei diritti dei cittadini e della ottemperanza della legge, si propone di indebolirla prima ancora che entri in attuazione.
Lorenzin non è nuova a queste prese di posizione. Quando circa un anno fa il governo regionale del Lazio bandì un concorso per ginecologi non obiettori, si schierò a favore di chi voleva impugnare il concorso, in nome, di nuovo, del diritto all’obiezione: non del diritto, sancito da una legge, ad ottenere una interruzione di gravidanza entro l’arco di tempo consentito e senza dover migrare da una regione all’altra. Nessuno obbliga un medico a lavorare in un ospedale pubblico e nel sistema sanitario nazionale. Tanto meno nessuno obbliga un ospedale privato a convenzionarsi con questo sistema. Se decidono di farlo, devono accettare di applicare le leggi dello stato, tutte, non a propria scelta. Se per questo gli ospedali religiosi perderanno clienti e dovranno chiudere, come adombra in modo ricattatorio la Conferenza dei vescovi, è un problema che riguarda innanzitutto loro e non può diventare una ragione per limitare i diritti dei cittadini. È già complicato e faticoso, nel nostro variegato sistema sanitario, capire dove si può essere curati nel modo più appropriato e in tempi ragionevoli.
L’obiezione di coscienza obbliga anche ad una ricerca per verificare dove le leggi sono pienamente applicate e non affidate alla scelta idiosincrasica dei singoli o della dirigenza. Nelle disposizioni di fine vita bisognerà scrivere anche in quali ospedali e da quali medici non si vuole farsi curare, per evitare di trovarsi in trappola proprio nel momento di maggiore fragilità. Invece di cercare di introdurre l’obiezione di coscienza anche nel caso dell’accompagnamento al fine vita, un ministro della Repubblica dovrebbe impegnarsi a eliminarlo anche nel caso dell’aborto, per evitare lo scandalo dei tassi di obiezione e delle difficoltà ad ottenere una interruzione di gravidanza che hanno anche fatto condannare l’Italia dalla Corte Europea per lesione dei diritti delle sue cittadine. Se Lorenzin intende impegnarsi per aggirare o ridurre la portata di leggi dello stato, non può fare il ministro e dovrebbe dimettersi.
Francamente, mi sembra che il suo sia un conflitto di interessi e un atteggiamento dannoso per i cittadini maggiore di quello della sua collega Boschi per il caso Etruria.


il manifesto 22.12.17
Trump sconfitto all’Onu ma conferma Gerusalemme capitale d’Israele
Gerusalemme. Solo nove Paesi si sono schierati con lui. La risoluzione all'Assemblea Generale è stata approvata da 128 Paesi membri, tra i quali l'Italia. 35 le astensioni. Netanyahu: Onu casa delle bugie
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Con una maggioranza netta, l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato ieri sera la risoluzione di condanna del riconoscimento unilaterale fatto lo scorso 6 novembre dal presidente americano Donald Trump di Gerusalemme capitale di Israele. Con 128 voti favorevoli (9 i contrari) è stato accolto il testo presentato da Turchia e Yemen – simile a quello bocciato giorni fa in Consiglio di Sicurezza a causa del veto Usa – in cui si afferma che tutti gli Stati devono rispettare le precedenti risoluzioni del CdS e che lo status finale di Gerusalemme può essere deciso solo nell’ambito di negoziati. Tuttavia le minacce rivolte nei giorni scorsi da Trump e dalla sua ambasciatrice dell’Onu Nikki Haley ai Paesi membri dell’Onu hanno prodotto qualche risultato. Oltre a Usa e Israele, altri sette Paesi hanno votato contro la risoluzione: Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, Togo. Favorevoli invece i principali Paesi Ue, a partire da Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna. Tra i 35 astenuti si segnalano Australia, Canada, Argentina, Polonia, Romania, Filippine e Colombia.
Voto a parte, al Palazzo di vetro ieri è apparsa chiara la spaccatura tra un mondo che, sia pure con ambiguità e ipocrisie, continua a rispettare il diritto internazionale ed un altro mondo, incarnato dall’Amministrazione Trump e dal governo Netanyahu, che crede nella politica dei fatti compiuti, degli atti di forza, dei passi unilaterali. Nikki Haley ieri ha ribadito le minacce fatte nelle ore precedenti ai Paesi membri dell’Onu. «Gli Stati Uniti ricorderanno questo giorno, in cui sono stati attaccati per aver esercitato il loro diritto come nazione sovrana», ha affermato. Gli Stati Uniti – ha ricordato – «sono il principale contributore delle Nazioni Unite ma se i nostri investimenti non portano risultati allora abbiamo l’obbligo di destinare le nostre risorse ad altre cose più produttive». Haley infine ha ribadito che «L’America sposterà la sua ambasciata a Gerusalemme. Nessun voto alle Nazioni Unite farà la differenza. Ma questo voto farà la differenza su come gli americani guarderanno l’Onu».
Israele si sente vincitore nonostate il 128 a 9. Il governo Netanyahu ora si impegnerà con i Paesi che hanno votato contro la risoluzione o si sono astenuti per convincerli a trasferire le loro ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme e rendere meno isolata la scelta degli Stati Uniti. È probabile che, come era avvenuto dopo l’approvazione della “Jerusalem Law” nel 1980 (l’annessione unilaterale votata dalla Knesset di tutta Gerusalemme capitale di Israele), anche questa volta Israele trovi comprensione tra alcuni Paesi centroamericani. Non può non essere notata anche l’astensione di Polonia e Romania, andate contro la posizione dichiarata più volte dall’Unione europea. «Questo voto finirà nel secchio della spazzatura della storia» ha previsto l’ambasciatore israeliano Danni Danon che puntato l’indice contro l’Onu, definendo i Paesi membri «marionette nelle mani dei palestinesi». Prima di lui, il premier israeliano Netanyahu aveva descritto le Nazioni Unite come la «casa delle bugie».
La posizione palestinese resta ancorata al diritto internazionale, preso a picconate da Washington e Tel Aviv. «Lo status di Gerusalemme è la chiave per la pace o la guerra in Medioriente. La risoluzione sottolinea la necessità di tutelare lo status legale internazionale di Gerusalemme» aveva spiegato prima del voto il ministro degli esteri Riad al Malki. Allo stesso tempo i palestinesi sanno che la vittoria di ieri all’Onu non avrà effetti concreti sul terreno. Per questo il presidente dell’Anp Abu Mazen prosegue il suo tour diplomatico alla ricerca di sostegni. Oggi vedrà all’Eliseo Emmanuel Macron. In Sudafrica l’Anc, il partito di maggioranza legato al nome di Nelson Mandela, ha presentato una richiesta ufficiale al governo per abbassare il livello dell’ambasciata israeliana a semplice ufficio di rappresentanza.
Oggi si prevedono nuove manifestazioni contro Trump a Gerusalemme est e nel resto dei Territori palestinesi occupati al termine delle preghiere del venerdì islamico. L’esercito israeliano continua a compiere arresti in Cisgiordania. Secondo dati palestinesi dal 6 novembre le forze israeliane hanno detenuto circa 500 persone, durante le proteste e nei raid notturni in villaggi e città. Lunedì Ahed Tamimi, 16 anni, arrestata a Nabi Saleh con l’accusa di aver “aggredito” due soldati, sarà processata assieme alla madre Nariman, e alla cugina Nour, da una corte militare israeliana.

Il Fatto 22.12.17
Sberleffo a Trump: tutto il mondo vota contro gli Usa
L’Assemblea delle Nazioni Unite boccia la decisione americana di dichiarare la Città Santa capitale di Israele
Sberleffo a Trump: tutto il mondo vota contro gli Usa
di Giampiero Gramaglia


Non dimenticheremo”, dice Trump in tono minaccioso. E, in effetti, gli Stati Uniti faranno fatica a dimenticare lo schiaffo ricevuto ieri dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite: passa a larghissima maggioranza la risoluzione che condanna il riconoscimento, da parte dell’Amministrazione americana, di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata degli Usa da Tel Aviv nella Città Santa ai tre monoteismi. La condanna era stata bloccata in Consiglio di Sicurezza solo dal veto della rappresentante permanente americana Nikki Haley.
Il documento, presentato da Yemen e Turchia, ottiene 128 voti a favore, – se ne aspettavano 150, ma qualche diplomazia s’è lasciata impressionare dalle minacce di Trump di bloccare gli aiuti -, 9 contro e 35 astenuti. Una ventina di Paesi non rispondono all’appello: sono in tutto 193. Per contare gli amici, al magnate presidente bastano e avanzano le dita delle sue piccole mani. Per segnarsi i nemici, gli serviranno molte pagine della sua agenda 2018.
Fra i 10 Paesi più aiutati dagli Usa, solo uno, Israele, vota contro la risoluzione. Il Kenya dà forfait. Gli altri votano tutti a favore: Afghanistan, Egitto, Iraq, Giordania, Pakistan, Nigeria, Tanzania ed Etiopia. Nemici a parte, la sfida a Trump è corale da parte di amici e financo vassalli.
La mossa di Trump, gratuita e non necessaria, di incendiare il Medio Oriente e tutto il Mondo islamico trasferendo l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ottiene il doppio effetto d’avvicinare nemici musulmani di vecchia data, come a esempio Arabia saudita e Iran, ora dalla stessa parte della barricata pro-palestinesi, e di stimolare la coesione dell’Ue, spesso divisa sul Medio Oriente. A favore della risoluzione, votano 26 dei 28, tra cui Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna.
Un altro corollario del teorema ‘trumpiano’ è che, senza colpo ferire, Russia e Cina vedono crescere la loro influenza nella Regione: Putin può permettersi di ‘portare a casa’ le truppe dalla Siria, avendo già centrato i suoi obiettivi.
Israele minimizza il significato del voto, che “finirà nel secchio della spazzatura della storia”: si può prevedere che il documento resti lettera morta, come già molti altri delle Nazioni Unite, specie sul Medio Oriente – proprio Israele ne ignora il maggior numero. Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza sarebbe stata vincolante, quella dell’Assemblea generale non lo è.
Il testo sottoposto all’Assemblea generale è praticamente la fotocopia di quello presentato dall’Egitto e bloccato dal veto della Haley in Consiglio di Sicurezza. Si chiede che tutti gli Stati rispettino le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (ben 10 dal 1967), secondo cui lo statuto finale di Gerusalemme può esser deciso solo nell’ambito di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Ogni altra decisione – si sostiene – deve quindi essere considerata non valida. Subito dopo il voto, Israele ne ha respinto le indicazioni, mentre i palestinesi esultavano.
La Santa Sede rilancia uno statuto speciale per Gerusalemme ‘città aperta’, mentre Papa Francesco invoca “dialogo e pace” per una città “simbolo di convivenza”.
La posizione italiana è stata espressa dal ministri degli Esteri Angelino Alfano, a una conferenza per gli 800 anni di presenza francescana in Terra Santa: “Gerusalemme è una missione comune fra ebrei, musulmani, cristiani, come lo è lo status quo dei Luoghi Santi radicata nelle coscienza di chi la abita e di chi la governa e che dovrà rimanere tale quale che sarà lo statuto politico definitivo della città”.

Repubblica 22.12.17
L’era Trump
Usa, i veti assurdi sulla scienza
di Jared Diamond


L’amministrazione Trump ha recentemente ordinato a un organismo pubblico, il Centro per il controllo delle malattie, di rimuovere dai documenti una serie di parole che prima erano considerate virtuose, ma ora non sono più utilizzabili. L’elenco ha suscitato proteste e sorpresa, non solo perché il decreto del governo rappresenta un’antidemocratica censura del linguaggio, ma anche perché fra le parole vietate ce ne sono alcune che giocano un ruolo centrale nel controllo delle malattie, nella democrazia e nei valori della destra repubblicana.
Quali sono queste parole cattive? Una è “vulnerabile”: ma il lavoro del Centro per il controllo delle malattie consiste proprio nell’individuare le malattie a cui gli americani sono vulnerabili. Un’altra è “diversità”: ma per controllare le malattie è indispensabile riconoscere che non tutte le persone hanno le stesse vulnerabilità. Per esempio, le donne sono vulnerabili al tumore alle ovaie, gli uomini no. Un’altra è “diritto”. Ma la seconda frase della Dichiarazione di indipendenza del 1776 afferma: « Riteniamo che siano per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che sono dotati dal Creatore di inalienabili diritti; che per garantire tali diritti sono istituiti tra gli uomini governi». La nostra nazione è fondata sulla fede nei diritti e sull’idea consensuale che la funzione principale del governo sia proprio quella di garantirli.
Altre due espressioni vietate sono “ basato sui dati” e “ basato sulla scienza”. Ma i dati e la scienza sono la base della moderna medicina. La ragione per cui oggi l’aspettativa di vita media degli americani (compresi i repubblicani) è 80 anni, mentre era meno di 50 due secoli fa, è che l’evidenza scientifica ha dimostrato fatti ormai accettati. Paradossale è la messa al bando di “feto”. I repubblicani professano una particolare attenzione per i feti, la cui vita andrebbe preservata a prescindere dalla praticabilità, anche se perdono interesse per i feti dopo che sono nati.
Simili divieti sarebbero assurdi in qualsiasi Paese. Dal governo degli Stati Uniti ci si aspetterebbe il contrario. Gli Usa sono all’avanguardia in scienza, tecnologia e medicina. La produzione scientifica è superiore a quella del resto del mondo. Università prestigiose e industrie innovative sono americane. È grazie a scienza e tecnologia se l’America è il Paese più potente del pianeta. Insomma, gli Stati Uniti sono gli ultimi al mondo in cui ci si aspetterebbe atteggiamenti antiscientifici come quelli dell’amministrazione Trump. Come si spiega questo paradosso? Lascia perplessi molti americani, e attoniti i miei amici europei. In realtà, la sfiducia nella scienza e nella ragione è diffusa e di vecchia data, e coesiste, non senza attriti, con la preminenza scientifica. Gli esempi sono innumerevoli: uno dei più citati è il processo Scopes del 1925, quando un maestro nel Tennessee fu condannato per aver violato una legge che vietava l’insegnamento della teoria dell’evoluzione. Le restrizioni all’insegnamento dell’evoluzionismo sono ancora diffuse. Ma l’evoluzione è il fatto distintivo centrale della biologia: è impossibile insegnare biologia senza avere un’idea chiara dell’evoluzione.
Si discute sull’origine di questo paradosso. Cito due fattori, che negli Usa pesano più che in altre democrazie ricche. Ma ve ne sono altri. Uno dei due è il fatto che gli Stati Uniti sono stati fondati come una democrazia estrema. La Dichiarazione di indipendenza cominciava con un’asserzione di uguaglianza: l’uguaglianza di opportunità è un ideale fondamentale. La nobile fede nell’uguaglianza di opportunità cozza con la crudele realtà della disuguaglianza di capacità. Alcune persone sono più capaci di altre in ambiti specifici. Da qui nasce la sfiducia verso gli esperti e gli scienziati. Molti fatti della scienza contraddicono l’ingenua evidenza dei nostri sensi. Per esempio, gli occhi ci dicono che la Terra è piatta e il Sole gira intorno alla Terra: ma gli astronomi hanno dimostrato che la Terra è rotonda e gira intorno al Sole. Gli americani di destra dichiarano la loro sfiducia verso la scienza, ma l’ammirazione per l’uomo della strada è solo formale: la sua condizione è peggiorata e la riforma fiscale avvantaggia i super ricchi. La sfiducia del governo verso gli scienziati non è condivisa dalla Corea del Nord, lieta di supportare i suoi nel progettare missili e bombe.
L’altro fattore che contribuisce alla sfiducia nella scienza è il ruolo delle religioni fondamentaliste. Quando gli Usa furono fondati, i Paesi europei avevano religioni di Stato, sostenute dai governi e professate dai cittadini. Molti di quelli che emigravano dall’Europa lo facevano proprio per sfuggire alle religioni, e ne fondarono di nuove. Il sistema di credenze è in contrasto con un approccio scientifico. Le religioni sono professate da molti, che esercitano influenza politica. Sono un’altra forza che si oppone alla scienza, alla ragione e alla biologia evolutiva.
Queste, quindi, sono due delle ragioni per cui gli Stati Uniti, all’avanguardia nella scienza mondiale, paradossalmente hanno un governo che è all’avanguardia nell’opposizione alla scienza. Dove ci porterà tutto questo? Non lo so. Posso solo affermare che l’esito dipenderà dalle libere scelte degli elettori americani nelle prossime elezioni e dagli sforzi del governo per impedire agli elettori di esprimere le loro scelte. Mi viene in mente un detto degli antichi greci: “Gli dei accecano coloro che vogliono distruggere”. L’interrogativo irrisolto della politica americana è questo: verranno distrutti nelle prossime elezioni solo i conservatori che oggi dominano il Partito repubblicano, consentendo il ritorno della politica alla sanità mentale? O invece verranno distrutti i punti di forza degli Stati Uniti, fondati sulla scienza e sui dati? La risposta a questa domanda è attesa con interesse non solo dagli americani, ma anche dai leader della Cina, della Russia, della Corea del Nord e degli altri nostri rivali.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Il Fatto 22.12.17
Tutte le missioni finte della Boschi. Da Madonna di Campiglio al grande giro del Canada
Documenti, Sottosegretaria sempre in viaggio e non sempre per motivi di natura istituzionale
Boschi: a seguire, nella gallery, le tappe del viaggio della Boschi.
di Carlo Tecce


Maria Elena Boschi va su e giù per l’Italia, spesso in Toscana, di frequente a casa in provincia di Arezzo, fa conferenze internazionali, interviene ai seminari, inaugura ville di periferia, porta i saluti, gli omaggi, riflette sull’uomo e la donna, rappresenta un po’ il governo e un po’, a volte troppo, se stessa. Un paio di mesi dopo l’incarico da sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, cioè la prima settimana di febbraio, Boschi ha iniziato a viaggiare, a collezionare “trasferte istituzionali”. E non ha smesso più.
Il Fatto ha ottenuto l’elenco – compilato dagli uffici dell’ex ministra e trasmesso da un dipartimento di Palazzo Chigi nel rispetto della legge sull’accesso agli atti – delle missioni di governo di Meb. E non sempre, scartabellando il documento di 15 pagine, gli impegni di Boschi giustificano le ragioni istituzionali: da un fine settimana sulla neve di Madonna di Campiglio a un giro del Canada, passando per le numerose feste del Partito democratico. Allora conviene raccontare nel dettaglio i viaggi più controversi di Meb.
4-5 febbraio 2017 Sabato e domenica fra “Lucca e Arezzo”. Non c’è traccia di appuntamenti di Stato negli archivi delle agenzia di stampa.
17-19 febbraio A Madonna di Campiglio c’era il sole e parecchia neve. La sosta è lunga: venerdì, sabato e domenica. Anche qui la missione, se non strana, è almeno segreta.
24-25 marzo Il venerdì e il sabato, stavolta, li trascorre a Firenze. Il venerdì c’è un Consiglio dei ministri. Nel pomeriggio, però, la sottosegretaria è davvero a Firenze. Riportano le agenzie di quel giorno: “Un applauso, molti saluti affettuosi, ma anche premure quasi familiari da parte dei militanti al circolo Vie Nuove del Pd per Maria Elena Boschi che, di ritorno da Roma, stasera è andata a votare per il congresso. ‘Elena, ma hai mangiato…?’, ha chiesto un’iscritta. Boschi ha rinnovato la tessera lasciando 100 euro, stessa somma lasciata da Renzi”.
30 aprile Una domenica. Boschi è segnalata in missione in un punto imprecisato del territorio toscano, ma riesce a raggiungere in tempo la sede del Nazareno a Roma per celebrare la riconquista della segreteria dem di Renzi.
21-24 luglio dal venerdì al lunedì, trattasi di missione – in ordine cronologico – a Milano, Firenze e Arezzo. Il 21 è con Giuliano Pisapia alla festa dell’Unità di Milano. “I cronisti urlano: ‘Avete fatto pace?’. E lei risponde: ‘Non abbiamo mai litigato’”. Poi la sottosegretaria scompare, per l’appunto, fra Firenze e Arezzo.
28 luglio Viaggio in Toscana. E nient’altro da aggiungere.
10-11 settembre Domenica e lunedì, Emilia Romagna. Il 10 la sottosegretaria è attesa alle feste dell’Unità di Modena e Reggio Emilia. Temporali ovunque, annullati gli eventi. Boschi resta in zona. Il giorno dopo, di sera, è nel cartellone della festa di Bologna. All’improvviso, però, rientra a Roma per motivi di governo.
14-17 settembre Tappa in Canada fra Toronto e Montréal. Visite di circostanza (con ingresso vietato ai giornalisti) con ambasciatori, banchieri e comunità italiana per legittimare – come ha scritto il Fatto in ottobre – la presenza al Global Progress, un seminario di matrice riformista, organizzato da numerosi centri studi, Canada 2020, Center for American Progress, Policy Network e Volta. Quest’ultimo è una prodotto renziano: il presidente è Giuliano da Empoli, ideologo di Matteo. La missione ha provocato lo sconcerto di Palazzo Chigi e negli ambienti diplomatici per una fattura non prevista, lasciata in sospeso dalla sottosegretaria, di oltre 1.000 euro per un servizio fotografico mai diffuso sui media. Il conto dal Canada: per la sottosegretaria, una collaboratrice e un consigliere, Palazzo Chigi ha speso 15.000 euro.
22-24 settembre Missione a Imola e Bologna. Il 22 la sottosegretaria è alla festa nazionale del partito a Imola, tavola rotonda con Maria Teresa Grieco (Enel) e Monica Maggioni (Rai) sul tema “Le donne fanno la differenza”: “Non so se avrei avuto lo stesso tipo di critiche se fossi stata un uomo”.
14-15 ottobre Sabato e domenica, missione (generica) in Toscana. Il sabato è al Teatro Eliseo di Roma per i dieci anni del Pd.
Il Fatto ha chiesto spiegazioni alla sottosegretaria sulle missioni appena illustrate. E ha ricevuto una doppia risposta. La prima era un tentativo di eliminare alcune trasferte, fra cui la più imbarazzante, quella a Madonna di Campiglio. Con una scusa: si tratta di “errore materiale”. Quando Boschi è in viaggio con un agente di sicurezza (forse l’autista), oltre alla scorta – sostenevano da Palazzo Chigi – si muove da privato cittadino. Peccato che anche il 6 febbraio, per esempio, Boschi fosse alla Normale di Pisa – dove subisce pure una contestazione dagli studenti – solo con l’agente e la scorta. Così ritirano la bugia e cambiano versione: non ci sono “errori materiali” nell’elenco sulle missioni della Boschi, scritto dagli uffici della Boschi e inviato dall’efficiente e trasparente Dipartimento del personale.
Ecco la replica definitiva: “Nelle date del 4-5 febbraio, 17-19 febbraio, 24-25 marzo, 28 luglio e 14-15 ottobre, la sottosegretaria ha effettuato spostamenti principalmente per motivi non istituzionali. La sottosegretaria potrebbe aver partecipato anche in queste date ad alcuni eventi istituzionali, ciononostante non ha presentato alcuna richiesta di rimborso. Nelle date del 30 aprile, 21-24 luglio, 10-11 settembre e 22-24 settembre, la sottosegretaria ha avuto incontri istituzionali, in particolare con autorità di governo locale, in ragione delle deleghe attribuite”. Chissà se fra le “deleghe attribuite” è inclusa quella di svolgere missioni di governo per questioni private e politiche.

Repubblica 22.12.17
La questione politica
Il conflitto di Grasso
di Nadia Urbinati

È una banalità dire che il conflitto di interessi è la perenne questione della politica. Di quella moderna in modo particolare, che proprio perché radicata nel riconoscimento del ruolo centrale della sfera privata ed economica, deve dotarsi di scudi protettivi — istituzionali e giuridici — per difendere l’uguaglianza di fronte alla legge e la libertà dei cittadini. Nell’efficacia di questi scudi protettivi, che la divisione dei poteri consacra, sta quel che si chiama il governo della legge. L’opposto, ci è stato insegnato dalla tradizione repubblicana, è il governo degli uomini ovvero, oggi si direbbe, dei gruppi sociali o politici o famigliari o economici. Anche il governo di una maggioranza eletta può tracimare in governo fazioso quando occupa lo Stato in maniera quasi proprietaria. Assistiamo in questi giorni al braccio di ferro tra la Ue e il governo polacco proprio sui limiti del potere della maggioranza. Il problema del governo degli uomini contro il governo della legge non è estraneo nemmeno a noi.
Il conflitto di interessi, nella forma prepotente di cui siamo spettatori in questi giorni, è il segno di una ferita che accompagna la storia del nostro Paese dalla fine dei partiti tradizionali. Dalla discesa in campo dell’imprenditore Silvio Berlusconi, che ha cambiato ben più del modo di fare politica, preferendo l’audience all’organizzazione partitica. Ha cambiato l’ethos della politica e dei politici. Dopo due decenni, tutti sembrano oggi più assuefatti alla commistione tra affari e affarucci privati e ruoli istituzionali. Ma dalle ragioni che hanno determinato la discesa in campo di Berlusconi — da Tangentopoli — abbiamo anche appreso che gli affari sono privati anche quando sono di partito. Agire nel nome del partito invece che nel nome degli interessi di famiglia non nobilita l’azione di interferenza del privato e non è giustificabile.
Ci troviamo oggi di fronte a entrambe queste forme di commistione. Sono due i casi che richiedono una riflessione critica e imparziale, che impongono di interrogarci sulla labilità della linea che separa la persona (i suoi interessi o le sue idee politiche) e il ruolo istituzionale che essa ricopre: quello che coinvolge Maria Elena Boschi, ora sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei ministri, e quello che coinvolge Pietro Grasso, presidente del Senato della Repubblica. Diversissimi tra loro circa il contenuto delle ragioni del conflitto, la loro posizione è tuttavia segno di quella irrisolta questione di cui si parlava sopra: del fatto che, in relazione allo Stato e alle sue istituzioni, il diretto impegno partigiano è una forma di ragione privata, certo diversa dal più inquietante scenario dell’uso del proprio ruolo di ministro per “ chiedere” ( che è già interferire proprio per l’autorità che il richiedente ricopre) ragguagli sulla banca della quale il proprio padre è dirigente. Due privati: uno relativo a un partito; uno relativo agli affari di famiglia.
In entrambi i casi, le massime istituzioni dello Stato (il governo e il Senato) sono rappresentate a livelli alti o massimi da persone che hanno interessi esterni al loro ruolo. Questo inficia gravemente il senso dell’autonomia delle istituzioni, una condizione fondamentale del governo della legge. La richiesta di dimissioni che Mario Calabresi rivolgeva a Boschi dovrebbe essere rivolta anche al presidente Grasso, che non può essere insieme il capo di una lista elettorale che parteciperà alla prossime consultazioni e il rappresentante della seconda carica dello Stato. Non è mai successo prima d’ora nel nostro paese. Perseverare nell’accettazione della commistione di livelli confliggenti comporta screditare il senso (anche simbolico) delle istituzioni. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a posizioni impossibili da sostenere. E ferisce il nostro senso civico la caparbietà con la quale ciascuno resta al proprio posto. Non è giustificabile.

Repubblica 22.12.17
Sfratto e lista contestata
Il divorzio radicale tra stanze contese e debiti rinfacciati
di Gianluca Luzi


Scontro micidiale tra gli eredi di Marco Pannella. In nome della fedeltà al verbo e all’azione politica del fondatore, Rita Bernardini, storica leader radicale, ha sdegnosamente rifiutato l’offerta inviata via email di una candidatura nella lista +Europa con Emma Bonino. Come se non bastasse, contro i radicali dell’ex ministro degli Esteri.
Dichiara guerra anche Maurizio Turco che in qualità di “Presidente dell’Associazione politica nazionale lista Marco Pannella-Notizie radicali” ha letteralmente sfrattato Bonino e tutti coloro che hanno a che fare con la sua lista dagli storici locali di Largo Argentina 76 a Roma. Secondo Turco devono «senza indugio» sgombrare le tre stanze che occupano «senza alcun titolo» nella sede. E visto che ci sono devono anche ridare 30 mila Euro per l’occupazione di un magazzino più le spese di telefono e luce elettrica. Se poi volessero acquisire il dominio internet “radicali.it”, dovranno sborsare la bella cifra di 70 mila Euro.
Evidentemente in una parte della galassia radicale la lista di Emma Bonino è vista come una eresia. Basta leggere la lettera piena di sdegno di Rita Bernardini per rendersene conto. «Il fatto che mi proponiate una candidatura nella vostra lista mi porta a pensare che il mio comportamento politico non sia stato chiaro». Le ragioni del gran rifiuto, spiega Bernardini, affondano nel passato «quando le vostre strade sono confluite in un’unica strada contraria a quella percorsa da Marco Pannella». Da quel momento la frattura è insanabile: da una parte, scrive Bernardini, quelli che hanno «condiviso la strada di Pannella e la portano avanti oggi nel Partito radicale non violento, transnazionale.
transpartito» (la terminologia è importante nel mondo radicale); dall’altra i «più acerrimi boicottatori, con atti, comportamenti e omissioni del raggiungimento dei tremila iscritti nel 2017». Insomma per Bernardini i voti alla lista Bonino sono voti contro Pannella. Un’accusa sanguinosa, che equivale a una scomunica, ma altrettanto dura è l’accusa alla lista +Europa di voler stare nel campo del centrosinistra, definito niente di meno che «un regime a-democratico e antipopolare che ha ridotto il Paese sul lastrico». Non importa che il segretario dei Radicali italiani abbia detto che «non è affatto scontato che +Europa con Emma Bonino si allei con il Pd», per i pannelliani duri e puri sono dei rinnegati. Ma la Lista di Emma Bonino è lanciata.
Secondo il segretario radicale Magi «è l’unica vera novità» nel panorama politico e mira a superare il 3 per cento. Magi non ha detto però dove si candiderà la Bonino, «si deciderà nelle prossime settimane».

Il Fatto 22.12.17
Sostiene Gillo “Il Galateo? Non c’è più. Il cattivo gusto invece sì”
Classe 1910 – Angelo Gillo Dorfles ha compiuto 107 anni: è medico, pittore, pianista, scultore, poeta e professore


Pubblichiamo un estratto del libro “Il galateo del Terzo millennio” di Filiberto Passananti (Autore), Matteo Minà (Autore), G. Biscalchin (Illustratore) con l’intervista ad Angelo Dorfles.
Sull’estetica ha basato grandissima parte della sua vita. Ha portato in Italia un termine diametralmente opposto alla filosofia del Galateo: il kitsch. Angelo Dorfles, detto Gillo, è medico, pittore, pianista, scultore, poeta e professore. Ma soprattutto critico d’arte ed esteta, uno tra i più famosi e riconosciuti del Paese. Ha già superato i cento anni (è nato a Trieste il 12 aprile 1910), ma continua a essere impegnato con mostre, recensioni e libri. L’incontro nella sua casa di Milano, in un quartiere dove si respira l’aria della borghesia d’altri tempi, è un dialogo con un interlocutore vestito in maniera impeccabile, lucido, attento, curioso, cordiale e disponibile (…).
Professor Dorfles, le regole di rispetto per gli altri dettate dal Galateo sono valide ancora oggi?
Direi che oggi non c’è più legge che valga. Le regole sono cambiate, sia quelle ufficiali, che quelle a livello familiare. Il valore di quanto sancito diversi secoli fa è completamente finito. Naturalmente, ci sono delle nuove regole che si sono organizzate spontaneamente; sono queste che valgono. Il tutto a prescindere dalle regole religiose che dovrebbero essere valide oggi come ieri, ma anche in questo caso non sono più le stesse.
Ritiene utile che i ragazzi leggano l’opera di monsignor Giovanni Della Casa?
Credo che i giovani vadano istruiti su quella che deve essere oggi la prassi giusta e non quello che veniva insegnato nei secoli scorsi. Sono cambiati i mezzi, le strutture, quindi inutile rifarsi a ciò che valeva allora. Oggi è necessaria una nuova edizione di un libro che insegna a vivere.
Attualizzare e diffondere il Galateo quali effetti può avere sulla convivenza tra le persone?
Un’efficacia notevolissima, perché il giorno che nelle scuole venissero usate delle regole generali, formulate in una decina o ventina di capoversi, queste dovrebbero essere una specie di fiducia sul comportamento dei giovani. Poi, tutto dipende da dove vive e dove viene educato il ragazzo e da quale sia il suo ambiente familiare, il rapporto con lo Stato e la religione.
Quali sono le tre regole cui fare riferimento nell’attualizzazione del
Galateo?
Prima di tutto non ferire il prossimo con le proprie azioni e parole. Rispettare l’età sia del bambino che del vegliardo. Credere nell’amicizia effettiva.
L’empatia professata da monsignor Della Casa è uno strumento che le è tornato utile nelle sue esperienze di vita e di lavoro?
Una volta esisteva un Galateo non dico universale, ma diffuso, perlomeno in un certo ambiente. Oggi non c’è più una regola che valga per tutti. Ci sono i Galatei familiari, etnici, politici, che variano molto da Paese a Paese, da classe sociale a classe sociale. Personalmente l’Opera mi è servita in quanto nella mia famiglia c’era un Galateo specifico al quale io ero sottomesso. Ma aveva poco a che fare con un Galateo nazionale o religioso, era una forma familiare di comportamento.
L’amore per il denaro è chiaramente maleducato; il rispetto e la comprensione verso gli altri sono alla base dell’educazione, ma non producono miglioramenti economici nella vita della persona. È d’accordo?
Il rapporto con il prossimo dovrebbe sempre ubbidire a certe regole di vita che sono più o meno universali. Sicuramente il rispetto per gli altri è fondamentale (…).
Quali sono le situazioni in cui il Galateo e i suoi principi sono indispensabili?
Dovrebbe essere sempre necessario, sia salendo su un tram che prendendo un taxi. Nella vita comunitaria della città, il Galateo dovrebbe dominare le azioni di tutti gli individui (…).
Che cosa è oggi la buona educazione?
Non c’è più quella regola che poteva valere nell’Ottocento, per cui valgono le regole familiari. Questo per dire che dipende se il nucleo in esame appartiene alla buona borghesia, al popolo minuto o alla classe dirigente. La buona educazione è diversa per tutti, nel senso che il comportamento del giovane operaio non è quello del magistrato. Il classismo vale ancora anche se le classi non sono più quelle di una volta. Poi è anche vero che il rapporto tra un dirigente e un operaio non è più quello di ieri (…) la dignità dei lavoratori oggi viene riconosciuta più che in passato.
Perché oggi il Galateo, nell’immaginario collettivo, è soprattutto abbinato alla cucina e alla tavola?
Il gusto per il cibo è una delle più importanti sensibilità affettive. Nelle azioni fondamentali come mangiare valgono alcune regole non ufficiali, ma assodate dalla consuetudine. Anche nel modo di cibarsi esistono regole ufficialmente riconosciute. (…)
Della Casa dice di vestirsi in modo appropriato anche per portare rispetto alla collettività. Come fare per evitare abiti di cattivo gusto?
Oggi più che ieri la moda in senso lato esiste ed è riconosciuta, quindi per un incontro formale si utilizzeranno i calzoni lunghi e non corti perché questa è la regola di vita. Tutto dipende ancora una volta dalle regole che si sono auto istituite. Per evitare il cattivo gusto bisogna uniformarsi a quello che è il gusto generalizzato. Certo non sempre ciò che è standardizzato è la perfezione, comunque sarà più o meno tollerabile per il fatto stesso di essere applicato così vastamente.
Esiste un cattivo gusto nel design?
Naturalmente! Sono cinquant’anni che mi occupo di cattivo gusto, quindi evidentemente esiste (…).

La Stampa 22.12.17
Per metà degli italiani l’ex ministra dovrebbe ritirarsi dalla politica
Sei elettori dem su 10 la difendono
di Nicola Piepoli


Mercoledì in una seduta della Commissione banche Federico Ghizzoni, ex ad di Unicredit, ha fatto una dichiarazione riguardante la sottosegretaria Maria Elena Boschi, che è stata interpretata in diversa maniera dall’opinione pubblica. Ghizzoni ha dichiarato che l’allora ministra si era rivolta a lui per avere informazioni sull’andamento di Banca Etruria, dove era vicepresidente suo padre, per sapere come andava ma senza fare pressioni perché Unicredit acquisisse Banca Etruria.
Questa dichiarazione di Ghizzoni è stata considerata attendibile da 6 elettori del Pd su 10 (il 59%) mentre l’opinione pubblica nel suo complesso ha considerato la stessa dichiarazione poco o per nulla attendibile (52%). Perché coloro che tendono a votare Pd hanno interpretato come attendibile questa dichiarazione di Ghizzoni? E perché tutti gli altri si sono schierati dalla parte della dichiarazione «non attendibile»? Forse la soluzione si trova nella domanda successiva, in cui abbiamo chiesto cosa dovrebbe fare Boschi in funzione della testimonianza di Ghizzoni. La maggioranza degli elettori Pd (sei su dieci, vedi grafico a lato), deducono che Boschi dovrebbe continuare a fare politica mentre la totalità degli italiani pensa in maggioranza che dovrebbe ritirarsi.
Ovviamente ciascuno ha proiettato sé stesso, le proprie opinioni in un discorso che ha interessato tutti. Per coloro che sono simpatizzanti Pd a Boschi le porte del futuro rimangono aperte, per coloro che appartengono ad altre aree politiche o a nessun’area il suo avvenire in politica è decisamente incerto. In un certo senso le parole di Ghizzoni hanno agito come una cartina di tornasole: ciascuno ha voluto vedere nella dichiarazione dell’ad di Unicredit quello che pensa in prima persona sull’avvenire della sottosegretaria alla presidenza.
In generale, la Commissione banche trova l’approvazione del 51% degli italiani con conseguente approvazione del suo operato che ha portato anche alla luce il caso Boschi.
Guardando alle intenzioni di voto in questi giorni il mondo politico si è piuttosto semplificato. A distanza da poco più di due mesi dalle elezioni gli schieramenti si sono confermati tre: un primo schieramento formato dai tre partiti di centrodestra, cioè Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia, che insieme risultano essere vincenti, anche se di un solo punto percentuale; un secondo schieramento composto da un solo partito, il Movimento 5 Stelle, che risulta essere il primo in numero di voti ma non certo il primo in numero di seggi; e un terzo schieramento formato dai due partiti di centrosinistra e di sinistra, cioè Pd e Liberi e uguali, che superano di poco il 30% e che in ogni caso sono lontani dal poter aspirare a governare il Paese.

Corriere 22.12.17
Il personaggio L’attrice a teatro con un monologo di Franca Rame: «Testo che sarà sempre attuale»
Lodovini: calunnie, sono soltanto una perfezionista
«Rompiscatole? Non io»
Ho detto tanti no, c’è bisogno di etica anche sui set
di Valerio Cappelli


ROMA Valentina Lodovini cerca le parole, e quando le trova parla in maniera diretta, senza fronzoli. «Dopo Benvenuti al Sud non volevo diventare la reginetta della commedia italiana. Non ho l’ansia di fare tutti i film che escono. Ci ho pensato, ripensato. E ho detto tanti no. In solitudine. È importante avere un’etica e un’idea di quello che si vuole essere in questo lavoro». Ha appena fatto la giurata a Roma ai Fabrique du Cinéma Awards, per le opere innovative e sperimentali («non sono andata a giudicare con la bacchetta, porto tutto l’amore che ho per il cinema»); a teatro, diretta da Sandro Mabellini, riprende (dal 26 gennaio a Ventimiglia, poi in Emilia Romagna e a seguire nelle maggiori piazze, da Roma a Milano), Tutta casa, letto e chiesa, il celebre monologo (ebbe oltre tremila repliche) che Dario Fo scrisse nel 1977 per Franca Rame; nell’autunno 2018 la vedremo su Raiuno nella fiction di Marco Risi L’Aquila, grandi speranze , sul dopo terremoto. Manca il cinema. «Il cinema italiano va male, io come spettatrice sono cresciuta con Monicelli e Germi. Sono venute meno le idee e l’immaginazione».
Sentite cosa disse Franca Rame su questo spettacolo: «La donna deve trovare il rispetto di se stessa». «Sono anni — dice Valentina — che ci battiamo per i pari diritti con l’uomo, parità sociali, parità di sesso. Anche se c’è il contesto dell’epoca, è uno sguardo lucido, puro, sofferente sulla condizione femminile, che non è cambiata molto. È un testo che sarà sempre attuale, non c’è stato bisogno di adattamento. Il protagonista di questo spettacolo sulla donna è l’uomo, o meglio il suo sesso, che nel testo è sempre presente, incombe e schiaccia le donne». Sono tre monologhi (più un quarto tratto da Alice nel paese senza meraviglie ): una donna oppressa dal senso di colpa che è stata libera sessualmente «e ora deve scontare questa cosa»; un’operaia abbrutita dalla catena di montaggio che perde il contatto con la vita; poi c’è il discorso sulla maternità e gli aborti clandestini.
Lei non ha figli. «La società ti dice che una donna si realizza solo se diventa madre. Io a questa cosa non ci credo per niente. Non è mai stata una priorità, poi si può cambiare idea, ma non ho mai avuto questo tipo di desiderio. Mai avuto l’istinto materno. Magari preferirei l’affido o l’adozione, perché ci sono bambini che soffrono e anche solo per dare un tetto… Non ho mai subito pregiudizi, nessuno mi ha fatto sentire irrisolta o insoddisfatta. Non ho un approccio aggressivo per chi ha figli».
Franca Rame diceva che la peggior nemica della donna è la donna. «Può esserlo, ma è anche vero che il peggior nemico della donna è l’uomo». Weinstein e le molestie sessuali. «La mancata libertà ha provocato questa rabbia atavica delle donne, ma non c’è solo quello, è un problema culturale sulla violenza che riguarda uomini e donne, spesso dipende da come ti poni. Non esistono buoni e cattivi. Bisognerebbe parlarne nelle aule di tribunale, invece sono prevalsi il gossip e la morbosità. Io sono stata fortunata, nessuno mi ha mai mancato di rispetto».
In che fase è della sua carriera? «Lavoro da dieci anni. Ho deciso di affrontare le paure, tutto ciò che mi spaventa. A volte gli altri credono che il mio motore sia la rabbia, mentre è timore di deludere. Ho deciso di non essere più vittima del giudizio altrui. Sono stata ferita, c’è chi dice che sono una rompiballe mentre è solo passione e entusiasmo, voglia di aspirare all’eccellenza. È una voce, una calunnia che si è fatta via via sempre più grossa, non c’è stato un momento specifico. Mi hanno danneggiata, fatto un po’ di terra bruciata intorno. Io credo che il cinema sia un orologio, tutti gli ingranaggi devono funzionare. Sui set a volte mi dicono: non sei una difficile come mi aspettavo che fossi. Io mi metto in discussione, ci rido anche su, quando sbaglio chiedo scusa. Sono fortunata, faccio il lavoro che ho sempre sognato. La mia stanza quando ero piccola era tappezzata di fotine: Carole Lombard era il garbo e l’indipendenza, Anouk Aimée è la bellezza, Buster Keaton rappresentava la macchina da presa. E poi Marilyn, naturalmente».

Repubblica 22.12.17
Intervista
Agnes Heller
“Nazionalismi senza ideologie: l’Europa è di nuovo in pericolo”
di Andrea Tarquini


BERLINO «In Europa crescono nuove tendenze autoritarie, autoritarismi non ideologici come i vecchi totalitarismi ma pericolosi per la società liberale e per la pace». È l’allarme di Agnes Heller.
No polacco alle richieste Ue, modello di “iliberale” in Ungheria, destre e populisti in crescita quasi ovunque: quanto sono in pericolo società liberale e valori costitutivi europei?
«Dipende da quanto sapremo difendere anche a livello istituzionale i diritti di ogni minoranza, elemento centrale dello Stato di diritto. Ogni democrazia senza la difesa garantita delle minoranze può far nascere ovunque autocrati di ogni sorta. Leader semitirannici come Orbán, o Kaczynski che ha mantenuto la promessa di “portare Budapest a Varsavia”, cioè la “democrazia illiberale” teorizzata da Orbán, o persino qualche Mugabe».
Insisto: Polonia, Ungheria, leggi antigiustizia in Romania, destre più forti all’Ovest: perché cade il tabù dell’antifascismo?
«La questione non è solo fascismo o nazismo. Orbán parla di “democrazia illiberale” e ha lanciato un modello, vediamo al potere altri autocrati che costruiscono governance di fatto dittatoriali non fasciste né comuniste. Allora dobbiamo creare un nuovo concetto: trend tirannici senza supporto di ideologie strutturate. Rafforzati dal nazionalismo sempre più attraente perché invita a “pensare a noi e basta” e offre un nuovo senso di identità in una comunità. Il nazionalismo è sempre presente, ecco il problema. Non punta su ideologie, istiga presunti interessi personali».
Che ne sarà della Ue?
«I sondaggi nei paesi europei continuano a registrare in molti paesi maggioranze pro-Europa, anche in Gb ora il no alla Brexit è più forte. Ma i populisti seducono la gente con slogan e promesse, non con ideologie».
Perché ciò accade anche nell’Ovest che non è passato da 50 anni di dominio sovietico?
«Guardiamo all’Austria, esempio col passaporto agli altoatesini. In Austria tradizioni e correnti di destra estrema sono sempre rimaste molto forti.
Storicamente è stato un paese anche molto antisemita, più di Ungheria e Germania. Dopo il ‘45, è stata molto riluttante a riconoscere responsabilità e complicità coi crimini del nazismo. La Germania per tornare nel consesso dei popoli civili ha fatto i conti col passato, altri no».
Quanto sono pericolosi antisemitismo, razzismo, xenofobia, all’Est come all’Ovest?
«L’antisemitismo assume nuove forme. Colpa anche delle sinistre per i loro attacchi di odio a Israele. Non è antisemitismo sociale ma torna l’odio antisemita storico. Poi c’è la propaganda, come quella ungherese contro Soros. Nelle menti e in piazza vive un nuovo antisemitismo, ricordiamo anche la marcia di Varsavia. La xenofobia è purtroppo un sentimento irrazionale naturale incoraggiato da certe forze politiche».
L’Austria ha offerto il passaporto agli altoatesini: è revisionismo storico?
«Sarebbe ingiusto da parte di Vienna dare la cittadinanza agli altoatesini cui l’Italia concede pieni diritti e un’autonomia speciale sognata dalle altre minoranze in Europa. Le frontiere nate dopo due guerre mondiali non possono essere toccate. In quei confini c’è garanzia di pace dopo secoli di conflitti. Vienna dovrebbe saperlo».

Repubblica 22.12.17
Dopo la denuncia Ue
Polonia e Visegrad non cedono May offre una sponda anti Ue
La premier britannica a Varsavia si smarca dalla battaglia sui diritti. Con un occhio a Brexit
di Enrico Franceschini


LONDRA L’Unione europea accusa la Polonia di compromettere l’indipendenza della magistratura. Il Regno Unito difende il diritto della Polonia a farsi gli affari propri. E la Polonia appoggia la richiesta britannica di un accordo “ su misura” nei negoziati con la Ue. “ Tre indizi sono una prova”, avvertiva Agatha Christie: non c’è bisogno del suo ispettore Poirot per scoprire che la visita di ieri di Theresa May a Varsavia aveva come obiettivo la Brexit. All’indomani delle misure disciplinari annunciate dall’Unione contro la Polonia, la premier conservatrice arriva alla testa di una delegazione di profilo insolitamente alto, comprendente i ministri del Tesoro, della Difesa, degli Interni e degli Esteri. Offre al primo ministro polacco Mateusz Morawiecki un patto di cooperazione militare quasi senza eguali: Londra ne ha soltanto un altro analogo in tutta Europa, con la Francia. Dichiara che la priorità del suo viaggio era «assicurare il milione di polacchi residenti in Gran Bretagna » che potranno restare dove sono. E a proposito delle pesanti critiche dell’Unione al governo di Varsavia, taglia corto: «Le questioni costituzionali sono affari del paese competente, non della Ue».
Abbastanza regali di Natale da meritare qualcosa in cambio. Criticando il « pericoloso protezionismo » di Bruxelles, il suo interlocutore Morawiecki si schiera prontamente per il raggiungimento di «una nuova intesa che ci permetta di mantenere la più stretta cooperazione economica possibile con Londra». Linguaggio in codice per dire che Varsavia sostiene l’idea di un accordo economico post-Brexit fatto appositamente per la Gran Bretagna: non un patto “ modello Canada”, come per ora propone il capo- negoziatore europeo Michel Barnier, che lascerebbe fuori i servizi, il 70 per cento dell’economia britannica. La sprezzante reazione polacca ai moniti di Bruxelles, con il presidente Andrzej Duda che definisce l’Unione «bugiarda», non inquieta la leader conservatrice. A cui preme una cosa sola: trovare alleati in vista della seconda fase della trattativa sulla Brexit. Pazienza se lo stato di diritto l’hanno inventato i suoi antenati con la Magna Carta, ora la precedenza va a “divide et impera”, vecchia tattica che forse vedremo rivolta anche ad altri dei 27 della Ue. Come se non bastasse già lo scontro tra le capitali della Vecchia Europa con il gruppo di Visegrad ( Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e, appunto, Polonia) sui migranti. « Nella fase due del negoziato emergeranno interessi differenti nelle varie capitali », predice il ministro per la Brexit David Davis a un party natalizio per la stampa europea, pur negando di voler condurre «27 trattative separate». Le divisioni fra paesi disposti a concedere di più e altri meno possono fare il gioco di Londra.
La visita a Varsavia aveva anche un altro scopo per la premier britannica: fare dimenticare il licenziamento del suo vice-premier Damian Green, il secondo ministro perso in un mese per lo scandalo degli abusi sessuali. L’uscita di scena di Green, a lei legato dai tempi dell’università e uno dei più eurofili nel governo, indebolisce Theresa May, commenta l’Economist: senza maggioranza in parlamento, senza alleati nell’esecutivo, la attendono mesi difficili. Ma tre mesi fa pochi avrebbero scommesso di vederla ancora a Downing Street a Natale.
CZAREK SOKOLOWSKI/ AP

Repubblica 22.12.17
Le parole che usiamo per mettere a posto la coscienza
di Giancarlo Bosetti

Il cognitivista Albert Bandura analizza il disimpegno morale, il meccanismo che si adotta per commettere il male invocando attenuanti
C’è una ragione se il kantiano “legno storto” non si raddrizza. Siamo circondati dal risentimento verso politici corrotti e ce n’è ben qualche ragione. Ecco che i tribuni che invocano purezza ideale e morale guadagnano punti, ma trovano presto un limite alla loro espansione elettorale, perché l’idea di un “popolo” puro contrapposto a un manipolo di cattivi non sta in piedi, dal momento che la politica inquinata affonda le radici (e svolge la sua attività) in quel medesimo popolo, con scambio di favori, dati e ricevuti. Al raddrizzamento totale tocca rinunciare a causa della “natura della natura umana”; quella è cosa da lasciare a orrende dittature, sempre fallimentari, ma la conoscenza sottile della “stortura” mostra che migliorare è possibile.
Dopo la filosofia politica sul tema ha qualcosa da dire un grande psicologo contemporaneo, il canadese Albert Bandura, noto per la sua teoria sociale cognitiva (impariamo dall’ambiente sociale). Tutti noi siamo agenti esposti alla caduta morale, che è sempre dietro l’angolo e si camuffa con un insieme di eufemismi, di trucchi e marchingegni retorici con i quali nascondiamo a noi stessi il “peccato”, diciamo pure “il crimine” e addolciamo il senso di colpa favorendo l’“autoassoluzione”.
Bandura ha raccolto decenni di ricerche sperimentali e di analisi sul campo nel volume Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene (Erickson), non per scoraggiare le ambizioni di riforma, ma per attrezzarle con strumenti più astuti e realistici. L’autore utilizza il concetto di agency (qualche volta tradotto come “agentività”) per descrivere la autoefficacia di ogni individuo o gruppo umano: si tratta della capacità, maggiore o minore, di agire in modo da far fronte alle difficoltà, superarle e produrre trasformazioni nel contesto che ci circonda: far succedere cose e insieme controllare con l’autoriflessione un corso di atti che si mantenga dentro un profilo di decenza.
Generalmente le società funzionano attraverso questa diffusa forma di autocontrollo. Il che significa che per lo più non si ruba nei negozi, anche se non c’è la guardia, ma è anche vero che dei malfattori con forte agency possono produrre danni enormi.
Anche la carriera dei criminali incalliti non è però facilissima, devono guardarsi allo specchio e hanno bisogno di giustificarsi: il repertorio del “disimpegno morale” è vasto: minimizzare o negare il fatto, dare la colpa ad altri, invocare attenuanti, sostenere che le vittime della mala impresa se la sono cercata. È la progressione che vediamo in atto nel gruppo di ragazzi protagonista di persecuzioni bulliste, oppure del ciclista Armstrong che viene scoperto dopato.
Il disimpegno morale può trovare a sostegno ragioni sociali ed economiche, ma è ancora più forte se è Dio stesso a ordinare l’impresa. Bin Laden ha rivendicato la nobiltà del suo terrorismo, che era al servizio di un imperativo sacro e ha dunque esibito tutta la serie degli artifici dell’esonero da una crudele responsabilità personale: Allah in persona aveva deciso per lui; e poi lo schema del “confronto vantaggioso”: l’11 settembre era niente rispetto alle bombe atomiche americane sul Giappone e rispetto alle sofferenze dei bambini in Medio Oriente. Ma anche Yigal Amir, l’assassino di Rabin, il leader israeliano degli accordi di Oslo, aveva agito per ordine divino: non il mio dito, diceva, ma quello di una intera nazione ha premuto il grilletto.
C’è un modo di rifiutarsi all’evidenza che ricorre in tanti ambiti della vita delle nostre società e che spiega come riusciamo a sottrarci a interventi correttivi: vale per il mercato delle armi negli Stati Uniti dove un dibattito edulcorante trasforma mezzi d’assalto come quelli del massacro nello stadio di Las Vegas in “fucili sportivi” o dove i leader della lobby NRA identificano il diritto di possedere armi con la libertà di espressione, come se fosse la stessa cosa. E vale per il “modellamento aggressivo” indotto dall’industria dell’intrattenimento, dove ha trionfato a lungo il prototipo maschile del ceffo rude e rabbioso che glorifica la violenza accanto alla ragazza sexy che ostenta una servizievole sessualità, un tema sul quale Bandura ha condotto una personale battaglia così come già John Condry e Karl Popper negli anni Novanta. Anche in questo caso la reazione delle lobby al comando è stata negazionista e ha cercato di spostare le responsabilità, anche se alla fine qualche miglioramento è avvenuto, qui a differenza che nel mercato delle armi. Rivelatrici del disimpegno le battaglie sul fronte dei danni del tabacco e della connessione tra il fumo e il cancro e altre patologie mortali e in generale nel campo delle produzioni industriali dannose per la salute, dove vasti interessi proprietari e non solo si saldano nel respingere la responsabilità: le strategie di autoassoluzione cominciano con il rifiuto di prendere atto di informazioni probanti, poi minimizzando e negando del tutto l’evidenza.
Inganno o autoinganno? Anche i fumatori, le vittime, imbrogliano se stessi. L’autoinganno non è sempre consapevole. Chi l’ha studiato, come Jon Elster o Elisabetta Galeotti, spiega che è un fenomeno che ti aggira, non che sia proprio invisibile, ma con minimo sforzo riesci a non vederlo: la bugia è solo a metà, ma abbastanza per sospendere la responsabilità. E tuttavia la frontiera della tolleranza nel tempo si sposta: proibire il fumo negli aerei o nei locali pubblici, che pareva impresa visionaria negli anni Settanta, diventa poi senso comune.
Oggi l’arena principale dove si dispiega il disimpegno morale più pericoloso è quello della sostenibilità ambientale: qui Bandura vede gli ostacoli principali nel tabù della sovrappopolazione, nella concezione della crescita basata su un calcolo del Pil insensibile all’ambiente, negli eufemismi che parlano di “impronta del consumo” invece che di degrado, di “cambiamento climatico” invece che di “riscaldamento globale”. Strategie negazioniste, in contrasto con i rapporti dell’IPCC, ai limiti dell’autoinganno. E con il bambino bugiardo che crede, solo un po’, di dire la verità devi usare l’astuzia. Negli studi di Bandura si vede come risultati eccezionali ha raggiunto in India e in Africa la fiction, non il cinema, ma le serie televisive che producono un coinvolgimento emotivo di personaggi capaci di modellare comportamenti responsabili. Sarà un serial a salvare il pianeta?

Repubblica 22.12.17
Terapie celebri
Sacks, cinquant’anni passati sul lettino
di Vittorio Lingiardi


Il neurologo autore di bestseller come “Risvegli” fu paziente per mezzo secolo dello psicoanalista Leonard Shengold Lo racconta un saggio che uscirà negli Stati Uniti la prossima primavera
Quando, nel 1966, iniziò il suo percorso, era a pezzi, bloccato nella sua vita affettiva e sessuale, ipocondriaco e dipendente dalle anfetamine
Il problema della durata di un’analisi dipende da molti fattori: esigenze, storia, personalità, ma anche condizioni economiche di chi la fa

Quanto dovrebbe durare una terapia psicoanalitica?
Nessuno può dirlo, troppe variabili in gioco e ancora pochi studi empirici. Ma se cercate una risposta non prendete esempio da quella di Oliver Sacks. Che è durata cinquant’anni. Davvero, mezzo secolo! A New York, due volte alla settimana, con Leonard Shengold, psicoanalista freudiano specializzato in traumi infantili.
L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello era dedicato a lui, ma pochi avevano fatto caso alla dedica. Di Sacks credevo di conoscere tutto o quasi: le felci, i metalli, i risvegli – ma che avesse trascorso più di metà della vita in analisi, continuativamente e senza mai cambiare analista, proprio non lo sapevo. L’ho appreso leggendo il manoscritto di un bel libro che uscirà negli Stati Uniti nel maggio 2018. L’ha scritto Elliot Jurist, professore alla City University of New York (CUNY), e s’intitola Minding Emotions (Guilford Press).
Un titolo che potremmo tradurre con “Tenere in mente le emozioni”. Un capitolo intero è dedicato all’analisi di Sacks con Shengold. Il quale, per iniziare, era il 1966, gli pose alcune condizioni, tra cui l’interruzione dell’uso di anfetamine («Il consumo di droghe la colloca fuori dalla portata dell’analisi»).
A quel tempo Sacks era a pezzi: traumatizzato dal ricordo dei bombardamenti e delle punizioni corporali in collegio; angosciato dalla schizofrenia del fratello; ancora sanguinante per le parole della madre quando le confidò la sua omosessualità («Sei abominevole. Vorrei che non fossi mai nato»); bloccato nella vita affettiva e sessuale; ipocondriaco, fobico e dipendente, oltre che dalle anfetamine, anche dal body bulding. L’analisi inizia con un dialogo bellissimo: «Pensando a Michael, il mio fratello schizofrenico, chiesi a Shengold se anch’io lo fossi. “No” rispose lui. Allora, domandai, ero “solo nevrotico?”. “No” rispose.
Lasciai cadere lì la cosa, la lasciammo cadere entrambi, e là è rimasta per gli ultimi 49 anni».
Sacks è stato uno di quei tipici scienziati in analisi (ne conosco alcuni) che, pur non apprezzandone scientificamente l’impianto teorico, sono felici dei risultati che porta. Era la relazione a curarlo, e lo sapeva. Per tutta l’analisi i due hanno mantenuto un rapporto formale, chiamandosi sempre Dr. Sacks e Dr. Shengold.
Jurist racconta che, in una corrispondenza privata, Shengold gli ha confessato che la prima volta che lo chiamò Oliver fu il giorno prima che morisse. «Soprattutto, il dottor Shengold mi ha insegnato a prestare attenzione, ascoltare ciò che sta al di là della coscienza o delle parole».
È questa una delle chiavi di lettura che Jurist applica alla sua indagine, dove mette a confronto i due libri autobiografici, così diversi tra loro, scritti da Sacks.
Nel primo, Zio Tungsteno, dall’infanzia all’adolescenza, appare più coartato e incerto. In movimento, dall’età adulta a quella anziana, procede invece, come dice il titolo, più spedito, sincero e pieno di passione. Il passato non era più un ostacolo. Diventa una storia, un racconto che, se lo racconti a qualcuno, ti cura. In Zio Tungsteno si presenta come uno science nerd traumatizzato, in In movimento come un emigrante dall’anima avventurosa e ferita, amante delle motociclette, preso dal suo futuro di medico e scrittore, capace, verso la fine, di fare coming out e trovare un amore ricambiato.
«Nel bene e nel male», scrive, «io sono un narratore di storie. Ho il sospetto che un’inclinazione per la narrazione sia una disposizione umana universale, che va di pari passo con le nostre facoltà di linguaggio, con la coscienza di sé e con la memoria autobiografica». Ed è proprio questo tipo di memoria, su cui insiste spesso anche Damasio, l’espressione che per Jurist dà significato al lavoro analitico. Lo definirei un viaggio che, mostrandoci il passato, ci trasporta verso il futuro senza toglierci dal presente.
Dunque, quanto deve durare un’analisi? Esiste una sua conclusione “naturale”?
È vero che quella analitica è l’unica relazione intima che quando nasce contiene non già il seme della sua conclusione (questa è la vita), ma la scelta della sua fine?
Il problema della durata, dicevamo, dipende da molte variabili: le esigenze; la storia, la personalità (e le condizioni economiche!) del paziente; la prevalenza della dimensione terapeutica (sintomo e cura, ma anche tenuta nel tempo della “guarigione”) o di quella esistenziale (conoscersi, fidarsi, raccontarsi); lo stato della mente con cui analista e persona in analisi si mettono al lavoro.
E naturalmente la decisione condivisa di smettere di incontrarsi.
Al tempo di Freud le analisi erano brevissime, ma il tema s’impose presto. Tanto che Freud, ormai ottantenne, intitola Analisi terminabile e interminabile uno dei suoi lavori più profondi. Forse Sacks e Shengold ci avevano preso gusto, ma certi percorsi analitici, se vogliamo leggerli nel paesaggio, assomigliano più a una lunga traversata che a una svelta crociera.



giovedì 21 dicembre 2017

Corriere 21.12.17
L’appello
Israele e Palestina due stati con pari diritti
di Daniel Barenboim


La decisione del governo americano di trasferire l’ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come capitale di Israele, è l’ultimo di una serie di gravi interventi geopolitici nel conflitto israelo-palestinese. La decisione evidenzia come ogni iniziativa esterna tenda a favorire una delle due parti in conflitto e a demoralizzare l’altra, generando euforia da un lato e violenza dall’altro. Senza una contrapposizione risoluta e compatta a questa recente decisione, la soluzione del conflitto si allontanerà ulteriormente.
La nuova esplosione di violenza seguita alla mossa statunitense e le reazioni internazionali ribadiscono la necessità di esaminare alcuni aspetti del conflitto. Ormai da vari decenni il mondo parla della possibilità di una soluzione a due Stati. Occorre però chiedersi: dov’è il secondo Stato?
Questo aspetto è particolarmente importante in quanto il conflitto israelo-palestinese è diverso dalle centinaia di conflitti della storia dell’umanità. Le ostilità si scatenano in genere tra due nazioni o tra due gruppi etnici che si contendono risorse come l’acqua o il petrolio. Invece il conflitto israelo-palestinese non riguarda due nazioni o Stati, ma due popoli profondamente convinti di aver diritto allo stesso piccolo pezzo di terra, sul quale vogliono vivere, preferibilmente senza l’altro. Ecco perché questo scontro non si può risolvere né sul piano militare né su quello meramente politico: occorre trovare una soluzione umana.
I fatti sono noti, non è necessario riportarne il dettaglio. La risoluzione del 1947 di dividere la Palestina ha incontrato il netto rifiuto da parte della totalità del mondo arabo. Forse questa decisione o la reazione conseguente sono state un errore, comunque dal punto di vista palestinese è stata una catastrofe. Ma la decisione era presa e tutti hanno dovuto imparare a fare i conti con i suoi effetti. I Palestinesi hanno da tempo rinunciato al loro diritto all’intero territorio della Palestina, dichiarandosi a favore di una divisione del Paese mentre Israele continua la pratica illegale degli insediamenti nei territori, mostrando scarsa disponibilità a imitare i Palestinesi. Alcuni aspetti del conflitto sono in una certa misura simmetrici. Altri sono invece asimmetrici. Israele è già uno Stato, uno Stato molto forte e deve quindi assumersi una parte maggiore di responsabilità.
Nessuno oggi mette seriamente in dubbio il diritto di Israele di esistere. Tuttavia, sulla questione israeliana il mondo è diviso. Da un lato esistono nazioni che si sentono responsabili per gli orrori inflitti dall’Europa agli ebrei e non si può che essere grati per il perdurare di questo senso di responsabilità. Purtroppo dall’altro lato esistono tuttora persone che negano l’Olocausto, fatto che alimenta alcune posizioni estreme nel mondo arabo e suscita giustamente disperazione tra la popolazione ebraica di Israele. Ciò nondimeno, malgrado tutte le giustificate critiche all’ostilità palestinese nei confronti di Israele, non si può considerarla una continuazione dell’antisemitismo europeo.
Di fronte alla decisione unilaterale degli Usa, faccio un appello al resto del mondo: riconoscete lo Stato della Palestina come avete riconosciuto Israele. Non ci si può attendere che due popoli — nemmeno due persone — che non si riconoscono reciprocamente trovino un compromesso. Per una soluzione a due Stati servono appunto due Stati che al momento non ci sono. La Palestina è occupata da 50 anni e non ci si può certo aspettare che i Palestinesi entrino in trattativa da questa posizione. Tutte le nazioni sinceramente interessate a una soluzione a due Stati devono riconoscere la Palestina e pretendere che venga immediatamente avviato un dialogo serio. Una soluzione a due Stati con pari diritti sarebbe la sola strada verso la giustizia per i Palestinesi e la sicurezza per Israele.
Per quanto concerne Gerusalemme, la soluzione mi sembra logica: Gerusalemme è una città santa per l’ebraismo come lo è per l’islamismo e per il cristianesimo. Nell’ambito di una soluzione a due Stati alla pari non vedo alcun problema nel considerare Gerusalemme Ovest capitale di Israele e Gerusalemme Est capitale della Palestina.
Lancio quindi un appello alle grandi nazioni che non l’hanno ancora fatto affinché riconoscano subito la Palestina, con l’impegno ad avviare immediatamente i negoziati sui confini e sugli altri aspetti essenziali del conflitto. Non sarebbe un passo contro Israele, ma un passo in direzione di una soluzione sostenibile per entrambe le parti. È assolutamente chiaro che la volontà di pace di entrambi i popoli, Israeliani e Palestinesi, deve partire dagli stessi presupposti. Non si può forzare una soluzione dall’esterno. Quindi mi spingo oltre con il mio appello e invito i popoli di Israele e della Palestina a dichiarare in modo netto e chiaro che non ne possono più di questo conflitto decennale e che vogliono finalmente la pace. (traduzione di Maria Franca Elegante)

Corriere 21.12.17
L’Europa mette sotto processo la Polonia «A rischio il diritto e la democrazia»
Il Paese può perdere il voto nelle decisioni Ue. Ma per attivare le sanzioni serve l’unanimità
di Paolo Valentino


In Polonia vi è il pericolo di una deriva autoritaria. La riforma della magistratura varata dal governo nazional-conservatore di Varsavia, che di fatto mette giudici e Corte di Cassazione sotto controllo politico, contiene «il chiaro rischio di una seria violazione dello Stato di diritto». Per la prima volta nella Storia comunitaria, la Commissione europea ha invocato l’articolo 7 dei Trattati, mettendo sotto accusa uno Stato membro.
«È con il cuore pesante che abbiamo preso questa decisione — ha detto il vice-presidente Frans Timmermans — ma non avevamo scelta». In giuoco, secondo il commissario olandese, è la stessa ragion d’essere dell’Ue: «Se si pone fine o si limita la separazione dei poteri, si viola lo Stato di diritto e ciò significa minare il funzionamento dell’Unione nel suo insieme».
La procedura innescata dall’esecutivo comunitario prevede che il Consiglio approvi la messa in stato d’accusa della Polonia con una maggioranza dei 4/5, previo un voto favorevole dell’Europarlamento. Il passo successivo sarebbe la sospensione dei diritti di voto in seno al Consiglio, per la quale occorre tuttavia l’unanimità dei Paesi membri. Ma Ungheria e Repubblica Ceca hanno già detto di volersi opporre a qualsiasi sanzione contro l’alleato del Gruppo di Visegrád. La Commissione ha dato tre mesi a Varsavia per modificare le leggi nel mirino, dicendosi pronta a ritirare la procedura.
«È una decisione importante e coraggiosa, anche se non è una bella giornata — ha commentato il sottosegretario agli Affari europei, Sandro Gozi —. Nessuno si riempie di gioia nel momento in cui viene constatato il rischio di una violazione dello Stato di diritto in un Paese membro». Le prime reazioni di Varsavia sono negative. Zbigniew Ziobro, ministro della Giustizia e fautore della linea dura, ha parlato di una «mossa politica» e di «indebite pressioni» da parte di Bruxelles. In apparenza più moderato nel tono il nuovo premier Mateusz Morawiecki, secondo il quale la Polonia «si prende cura dello Stato di diritto tanto quanto la Ue». Tuttavia, Morawiecki continua a definire la riforma «una necessità». Il premier polacco, lo ha confermato Timmermans, sarà a Bruxelles in gennaio per incontrare la Commissione. Intanto ieri il presidente Andrzej Duda ha annunciato che firmerà la riforma.
«Il tema dello Stato di diritto non è una ingerenza di Bruxelles negli affari interni di uno Stato sovrano — spiega Gozi —, ma piuttosto il richiamo a quei valori sui quali è fondata la nostra comunità, come abbiamo ribadito nella Dichiarazione di Roma del 25 marzo scorso». Per questo, aggiunge, «è necessario che Varsavia si muova nella direzione richiesta dalla Commissione rispettando i diritti fondamentali». Secondo Gozi occorre contrastare «l’approccio di chi nella Ue ritiene possibile una democrazia senza liberalismo politico e pensa che la volontà della maggioranza sia assoluta, senza vincoli e garanzie». Violazioni dei diritti fondamentali da parte di governi nazionalisti, populisti o sovranisti non sono tollerabili: «Se ci girassimo dall’altra parte sarebbe una grande sconfitta collettiva e un incentivo ai movimenti nazionalisti ad andare avanti».

Repubblica 21.10.17
Michael Ignatieff
“Bruxelles impotente democrazia a rischio”
di Antonello Guerrera


ROMA Nonostante la mossa senza precedenti di Bruxelles contro la Polonia, «purtroppo l’Europa è impotente di fronte alle derive antidemocratiche dei Paesi dell’Est, almeno per come è strutturata l’Unione», sostiene Michael Ignatieff, al telefono da Budapest. «In attesa della riforma dei trattati», continua il 70enne politico e intellettuale canadese, «le decisioni vengono prese all’unanimità. E così il premier ungherese Orbán salverà senza dubbio Varsavia. È un blocco compatto, inscalfibile dalle regole attuali. La democrazia è in difficoltà ovunque, anche negli Stati Uniti, figuriamoci nell’Est Europa. I partiti liberali hanno preso scoppole ovunque negli ultimi anni, ultimo il preoccupante governo in Austria.
Paradossalmente, la democrazia può legittimare regimi eletti dal popolo come quello ungherese o derive come quelle polacche. No, non sono ottimista».
Ignatieff, già leader del Partito liberale canadese, storico e professore a Harvard, dal primo settembre 2016 è anche rettore della Central European University (Ceu), la celebre università di Budapest che da mesi è nella lista nera di Orbán. Il premier ungherese ha lanciato una demonizzazione veemente, inquietante e per molti antisemita contro il miliardario e filantropo ebreo George Soros, che tra le altre cose è il fondatore della Ceu: per Orbán e altri politici di destra di Macedonia, Polonia, e Romania, l’investitore ungherese-americano — con un passato di speculazioni finanziarie su sterlina e lira e oggi sostenitore di molte ong pro migranti — è il nemico n.1 perché «vuole islamizzare l’Europa e sovvertire il voto democratico».
In Ungheria Soros è stato ritratto come un maiale, i cartelloni contro di lui sono stati affissi ovunque, anche per terra affinché lo si calpestasse per bene, e qualche settimana fa Orbán ha organizzato un surreale voto postale contro Soros, da anni bersaglio dell’estrema destra online e nel mondo innescata da una crociata del presentatore tv americano ultraconservatore Bill O’Reilly su Fox News. «Ci sono brutti echi del passato. Ma non credo che quello di Orbán sia antisemitismo», spiega Ignatieff, «Soros è il classico capro espiatorio, il nemico utile per mobilitare la folla, il culto dell’odio che si tramuta in voti.
Non siamo negli anni Trenta, Orbán non è il nuovo Horthy, ma certo il suo è un comportamento pericolosissimo. Non credo sia il classico antisemitismo, ma è di certo una nuova sorta, come inedito è il “regime democratico” di Orbán: in Ungheria c’è ancora la stampa libera, non gira la polizia politica, il capitalismo prospera, il suo regime è approvato dal voto libero. Ma certo l’atmosfera è sempre più pesante e purtroppo ne ignoriamo le conseguenze. La democrazia è diventata una sfida giornaliera, una battaglia continua, come la sopravvivenza della nostra università. Sono sicuro che a un certo punto, se l’estremismo dilagherà, i popoli orientali si ribelleranno. All’Est l’abbiamo già visto contro i sovietici». L’ateneo di Soros e Ignatieff, devoto ai valori democratici e occidentali, per ora è salvo e resta a Budapest grazie all’ultima mobilitazione internazionale in suo favore.
Orbán non ha ancora annunciato la sua resa sulla Ceu, aspetta le elezioni di aprile: «Ma il problema non è solo l’Ungheria. Tutta l’Europa centro-orientale è governata dalla destra o da forze reazionarie. Per le istituzioni libere, sopravvivere è sempre più difficile. Ma per ora abbiamo resistito e ne sono orgoglioso». Ma perché l’Europa orientale ha preso questa deriva? Secondo Ignatieff, il problema sono gli straordinari flussi migratori degli ultimi anni e l’avanzata della sempre più spietata globalizzazione: i loro effetti hanno conseguenze peggiori oltre l’ex Cortina di Ferro, dove le democrazie sono ancora immature dopo il dominio sovietico. «Identità, lingua e cultura oggi sono destabilizzate da enormi migrazioni e globalizzazione. Per fermare la tendenza estremista, bisogna chiudere le frontiere. Lo so che è un paradosso per le persone aperte e democratiche come molti di noi, ma la sinora vasta generosità verso i migranti in Occidente può svanire se i cittadini sentono le frontiere fuori controllo. Anche la situazione politica in Italia lo dimostra».

il manifesto 21.12.17
In commissione banche Ghizzoni fa a pezzi il renzismo
Il giglio infranto. Etruria, l’ex Unicredit conferma la richiesta di Boschi e rivela una mail-sollecito di Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi. La versione dell’ex ministra: «Parole molto preziose per la causa civile nei confronti di De Bortoli»


Dopo mesi di silenzio, di fronte a una commissione banche arrivata alle ultime battute, Federico Ghizzoni, ex ad Unicredit, conferma quasi parola per parola quanto scritto da Ferruccio De Bortoli a proposito dell’interessamento di Maria Elena Boschi per la sorte di Etruria. «Mi chiese se era pensabile per Unicredit valutare l’acquisizione o comunque qualche intervento su Banca Etruria», racconta. «Chiese a Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Etruria», aveva scritto l’ex direttore del Corriere della Sera nel suo libro Poteri forti o quasi. La querela minacciata a botta calda dalla ex ministra non è mai stata sporta. Dopo la “deposizione” di Ghizzoni non è affatto certo che arrivi di fronte al giudice anche la causa risarcimento danni. Per ora la sottosegretaria ha dato mandato ai legali per valutare l’ipotesi della causa: che dopo le parole di Ghizzoni la valutazione vada in quella direzione non è facile.
L’INTERESSATA REAGISCE affermando il contrario: «Parole molto preziose per la causa civile nei confronti di De Bortoli». Il quale a sua volta ringrazia Ghizzoni per aver confermato la sua versione. L’ex direttore è certamente soddisfatto: in effetti conferma più piena non poteva incassare. La letizia di Maria Elena Boschi, invece, sembra piuttosto rispondere alla strategia mediatica messa in opera dal Pd e consistente nel fingere di leggere in ogni dichiarazione, anche le più pesanti e sgradite, un punto a favore invece che una smentita. Dall’interno della commissione il capogruppo Matteo Orfini ordina e parte il diluvio di tweet, post su Fb e dichiarazioni. Tutte identiche e tutte del tutto impermeabili alla realtà. Ghizzoni ha dato ragione a Boschi. Vero o falso che sia questo va ripetuto. Finché non passerà per vero.
PURTROPPO PER IL NAZARENO la realtà è opposta. Certo non ci furono da parte di Boschi pressioni, dato che Ghizzoni assicura di «non averle avvertite», ma solo un indebito interessamento. L’ex ad di Unicredit sottolinea anche che l’allora ministra disse chiaramente di essere preoccupata per le ricadute della crisi bancaria «sul territorio». Ci mancherebbe solo che un potente spiattellasse apertamente a un dirigente di banca «la faccenda m’interessa per via di babbo e fratello». Il dossier Etruria, inoltre, è arrivato sui tavoli dei dirigenti Unicredit prima che Maria Elena Boschi palesasse le sue «preoccupazioni per il territorio». E’ una differenza rilevante rispetto all’ipotesi di De Bortoli, che tuttavia non scalfisce la precisione in merito al colloquio tra la ministra e l’ad. Sul piano delle responsabilità materiali Boschi esce dalla vicenda intatta. Sul piano della credibilità politica invece è stata demolita. E non solo lei.
GHIZZONI SCOPRE INFATTI un altarino sino a ieri insospettato. Legge una mail dell’imprenditore Marco Carrai, intimo di Matteo Renzi, che più esplicita non si può: «Ciao federico, solo per dirti che su etruria mi è stato chiesto di sollecitarti se possibile e nel rispetto dei ruoli per una risposta». Ghizzoni non dice per conto di chi parlasse Carrai: «La mia reazione fu di pensare chi poteva avere chiesto un sollecito. Esclusi che fosse stata la banca. Decisi però di non chiedere nessun chiarimento, l’ho considerato come un privato che si interessava di una questione che non gli competeva».
RENZI, SENTENDOSI TIRATO personalmente in ballo, ordina agli ufficiali di smentire. Parte Orfini, brusco: «Chiedete a Carrai, non al Pd». Segue Rosato, meno stizzito: «E’ un professionista che opera nel settore, conosce Ghizzoni e non ha niente a che fare con il Pd».
In effetti è proprio questa la spiegazione che Carrai fornisce nel pomeriggio. Chiarisce di conoscere Ghizzoni da lunga data, e del resto la mail era chiaramente uno scambio non tra estranei. Nel merito, prosegue, era solo «una questione tecnica». Capita che un cliente di Carrai stesse «verificando il dossier di banca Federico del Vecchio, storico istituto fiorentino di proprietà di Etruria». Niente a che vedere con Renzi, con il suo interessamento diretto al caso rivelato dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco o con le preoccupazioni territoriali di Boschi.
ANCHE IN QUESTO CASO occorre distinguere tra il piano dell’accertamento dei fatti, sul quale sino a prova contraria non c’è da discutere la spiegazione di Carrai, e quello dell’immagine politica. Su quel fronte l’ultima audizione di rilievo della commissione si è risolta per il Pd in uno sfacelo. Non a caso tutte le opposizioni attaccano con toni anche più duri del solito e alla lapidazione si uniscono Fi e la Lega che, per motivi diversi, avevano mantenuto sinora toni più bassi.
L’ULTIMO ATTO della commissione sarà la relazione conclusiva. Il Pd farà il possibile perché sia messo nero su bianco che la vigilanza di Banakitalia e Consob è stata largamente insufficiente. Ma sul piano della propaganda e della campagna elettorale, l’unico che interessi davvero i partiti in commissione, per il Nazareno la partita è già persa.

Repubblica 21.12.17
Il retroscena
Storia della banca Federico Del Vecchio
L’amico di Renzi, i fondi israeliani e il forziere della Firenze ricca
di Ettore Livini


MILANO FIRENZE
«Farò un comunicato più tardi, ci sarà da ridere. Ora scappo a casa, mia figlia compie due anni». Per Marco Carrai doveva essere una giornata come le altre. La mattina a Toscana Aeroporti, di cui è presidente. Poi la festa in famiglia. Lo tsunami Ghizzoni ha però fatto saltare tutti i programmi. Costringendo “Marchino” - come lo chiama Matteo Renzi - a fare uno sforzo di memoria e incrociare vecchi messaggi di posta elettronica per difendere dalla grandinata il Giglio Magico.
La mail per “sollecitare” all’ex-numero uno di Unicredit una risposta su Etruria? «Una questione tecnica»,, tutto «assolutamente trasparente e assolutamente legittimo», minimizza. Niente di più che un sondaggio a nome di un cliente interessato a Banca Federico Del Vecchio, la cassaforte dei risparmi delle famiglie più ricche di Firenze controllata dal gruppo aretino. Un totem della città.
La versione di Carrai è credibile?
Il suo intervento, ricostruiscono fonti vicine al dossier in quei giorni caldissimi, c’è stato. Il finanziere avrebbe presentato a Mediobanca - incaricata nell’agosto 2014 della vendita dell’Etruria - l’interesse della banca israeliana Hapoalim.
L’unica tra gli 80 candidati sondati dalla banca d’affari che ha effettivamente chiesto l’accesso ai dati per studiare l’operazione. Poi sfumata.
Mediobanca, però, non aveva mai valutato l’ipotesi di una cessione separata della Del Vecchio per due motivi: la vendita (valore stimato 70 milioni) non sarebbe bastata a salvare Etruria e avrebbe portato via dal gruppo i 700 milioni di “tesoretto” che gestiva per i fiorentini. E lo stesso Carrai - tirato in ballo all’epoca come possibile salvatore di Etruria assieme all’Algebris di Davide Serra, altro fedelissimo di Renzi - aveva dichiarato di «non aver fatto nessuna manifestazione d’interesse» per la banca. Una precisazione necessaria allora «per motivi di riservatezza», spiegano oggi i suoi collaboratori. Possibile però, che quando l’Etruria comincia a muoversi da sola - Mediobanca lascia il mandato proprio a gennaio - ci sia un’ipotesi di vendita a pezzi.
La bufera su Carrai colpisce al cuore uno dei gangli vitali del “sistema di relazioni” costruito attorno al percorso politico di Renzi. Il “Gianni Letta” del segretario Pd - come lo definiscono scherzando a Montecitorio - e l’ex-premier hanno mosso assieme i primi passi in politica a metà degli anni ‘90, appena ventenni, nelle file del Ppi e della Margherita. Carrai già da allora nel ruolo del regista essenziale e schivo dietro le quinte, Matteo in quello di centravanti di sfondamento. La coppia funziona. E quando Renzi conquista la poltrona di presidente della Provincia di Firenze nel 2004, l’amico di Greve in Chianti è al suo fianco come capo della segreteria, il primo germoglio del nascente Giglio magico.
Il vento, in quegli anni, è in poppa. Il giovane di Pontessieve sgretola e rottama la vecchia nomenclatura del Pd locale e diventa sindaco a Palazzo Vecchio. Crescono onori e oneri e Carrai “cambia verso”: basta politica attiva e poltrone (al netto del mancato incarico di superconsulente nazionale per la sicurezza digitale) e più affari. I suoi e quelli che iniziano a muoversi attorno a Renzi. Nel 2012 vara la Fondazione Big Bang (oggi Open) una sorta di Bilderberg del renzismo incaricata di raccogliere finanziamenti e guidata in consiglio da lui, Luca Lotti, Maria Boschi e l’avvocato - e consigliere Enel - Alberto Bianchi. Matteo spesso ospite di una casa intestata all’amico negli anni da sindaco - gli affida tra le polemiche incarichi pubblici delicati come il risanamento di Firenze Parcheggi e la presidenza di Toscana Aeroporti.
“Marchino” però pensa anche alla Carrai Spa: costruisce una serie di società personali e tesse una fitta ragnatela di alleanze di peso che va da Franco Bernabè, ex-ad di Eni e Telecom Italia alla Wadi Ventures dell’israeliano Jonathan Pacifici, fino a Luigi Berlusconi di cui è consocio in un’azienda che si occupa di Big Data. Gli affari non decollano - la joint con i rampolli di Arcore è in profondo rosso, la cassaforte Management consulting Lab fattura 6 milioni e fa 75mila euro di utile - anche perchè il Carrai imprenditore è costretto a dividere il tempo con il Carrai eminenza grigia di un renzismo sbarcato nel frattempo a Palazzo Chigi. I sussurri dei palazzi romani gli attribuiscono un ruolo da kingmaker nelle nomine pubbliche, etichettano il suo interesse per la Popolare di Etruria (o la Federico Del Vecchio, chissà) come un tentativo per togliere le castagne dal fuoco a Boschi e a Matteo. Di sicuro accompagna il premier in visita di Stato in Israele e nella Silicon Valley, accoglie Benjamin Netanyhau in visita privata all’aeroporto di Firenze. Lui si schermisce dicendo di contare poco o nulla. Di essere ancora il Carrai re dell’understatement che scorrazzava per Firenze a bordo di una vecchia Fiat Punto. L’Italia che conta non la pensa così: al suo matrimonio a San Miniato nel 2014 - testimone di nozze, ça va sans dire, Renzi - ci sono Fabrizio Viola di Mps, Marco Tronchetti Provera, Marco Morelli (sbarcato poi a Mps), Oscar Farinetti, Alessandro Baricco (Carrai è stato nel cda della Scuola Holden), Bernabè, Oscar Farinetti, l’ambasciatore Usa John Philips, il consulente di Sismi e Cia Michael Leeden. E in fondo anche Ghizzoni, per ironia della sorte, ha detto ieri di essere «amico» di Marco Carrai.

Corriere 21.12.17
Il partito è in ebollizione Non solo la minoranza
di Monica Guerzoni


Andrea Orlando vola a Malta lasciando ai suoi l’input di «non sparare sulla barca che affonda». Il siluro che ha preso in pieno la già barcollante caravella del Pd si chiama Marco Carrai, l’uomo che Renzi voleva a capo della cybersecurity di Palazzo Chigi. La notizia della mail di «Marchino» a Ghizzoni accende i fari sul «giglio magico», seminando sconcerto tra i renziani. E se Lega e M5S gridano «Boschi a casa», il Pd è una pentola a pressione. Per evitare che esploda, Ettore Rosato taglia il filo d’acciaio che lega il segretario all’imprenditore fiorentino: «Carrai non ha niente a che fare con il Pd». Alessia Morani e Davide Ermini siedono su un divano del Transatlantico, gli occhi puntati sugli smartphone. «Carrai? Aspettiamo», geme il responsabile Giustizia. E la collega, già provata per aver fatto l’alba in Commissione bilancio: «Sì, aspettiamo la nota di Marco». È opportuno che Boschi sia candidata? «Non so se sarò in lista io, come posso occuparmi degli altri?». Marco Di Lello è convinto che la Commissione banche sia stata «un clamoroso boomerang». Ettore Rosato sembra rassegnato al peggio: «Si parla del Pd solo per parlare di banche, ma ormai di fronte a questa campagna mediatica non possiamo che arrenderci». E invece la minoranza rilancia. Michele Emiliano preme perché Renzi lasci, per scongiurare la sconfitta del Pd e la «dissoluzione» del centrosinistra: «La responsabilità è dei suoi amici più stretti che lo hanno costretto ad andare avanti per tornaconto». Orlando chiederà una direzione «per fare chiarezza». E Gianni Cuperlo pensa che solo un passo indietro della sottosegretaria potrebbe allentare la morsa: «Emerge che non vi sono state pressioni, tuttavia esiste un tema di opportunità e sensibilità». Il passo indietro, appunto. Nell’area di Orlando, sia pure ufficiosamente, lo invocano tutti. «Siamo molto allarmati — ammette Cesare Damiano —. È un piano inclinato che scivola sempre più in basso». Adesso l’allarme suona forte anche al Nazareno. «Boschi è diventata una zavorra, speriamo che a gennaio dica che non si candida», sussurra un renziano. Ma nel «giglio magico» temono che «se Boschi lascia crolla tutto». E così, conferma Rosato, la sottosegretaria correrà ad Arezzo, perché «non ha commesso alcun reato».

Repubblica 21.12.17
Farsi da parte e salvare i dem
di Mario Calabresi


Un anno fa, era il 13 dicembre 2016, commentando la nascita del governo Gentiloni criticammo la scelta di promuovere Maria Elena Boschi, la madre della riforma costituzionale bocciata al referendum, che avrebbe invece dovuto fare un doveroso passo indietro. Riconfermarla, scrivemmo, era «una scelta evitabile che rafforza diffidenze, gonfia il qualunquismo e lascia un retrogusto di furbizia e immaturità».
Una scelta che allora sarebbe stata dettata dalla sola opportunità politica e che avrebbe evitato un finale come quello che è davanti ai nostri occhi. Un anno e dieci giorni dopo infatti la situazione è ben più complicata e grave, le ombre sul cosiddetto Giglio magico si sono moltiplicate e l’affare Etruria è diventato la palla al piede di un partito che appare ostaggio del caso di una piccola banca meno rilevante di quelli avvenuti nel Nord-Est.
L’uscita di scena di Boschi, non dal governo ma dal Partito democratico e dalle sue candidature, è ora il passo necessario e indispensabile per provare a contenere i danni e per mostrare ai propri elettori di aver compreso la differenza tra interesse generale e interesse familiare.
Dopo l’audizione di Federico Ghizzoni molto resta da capire sul ruolo di Marco Carrai, che di Matteo Renzi è da sempre non solo l’uomo di fiducia ma anche una specie di gemello siamese.
In una lettera che pubblichiamo oggi Renzi e Orfini difendono con forza la scelta della commissione d’inchiesta sulle banche, ma la realtà è che il disegno per mettere sotto accusa chi non ha vigilato sulle crisi bancarie non solo è fallito ma si è rivelato — lo ribadiamo convinti — uno sciagurato autogol, un regalo inaspettato alle opposizioni proprio nell’ultimo scorcio di legislatura.
Ogni giorno la situazione peggiora e si ingarbuglia ma Maria Elena Boschi ripete il suo mantra, ribadisce di non aver mai fatto pressioni, di avere soltanto chiesto informazioni sui destini della banca ai cui vertici sedeva suo padre. Continua purtroppo a sfuggirle il concetto dell’opportunità e contemporaneamente quello del conflitto d’interessi.
La vicenda Boschi va esaminata su due piani, diversi ma connessi. È comprensibile, perfino fisiologico, che un politico si occupi del territorio in cui viene eletto. Cura gli interessi dei suoi elettori, è deputato a fare questo. Del resto, le crisi bancarie in Italia sono sempre state risolte attraverso fusioni e acquisizioni. È stata la linea seguita da tutte le nostre Istituzioni.
Per la sottosegretaria, però, non è in discussione questo piano. Ma l’altro. Non è accettabile che un ministro della Repubblica si occupi di una questione che fa riferimento diretto al padre. Il rapporto di parentela con l’allora vicepresidente di Banca Etruria è il nucleo di un conflitto di interessi che sarebbe censurato in qualsiasi democrazia occidentale. Le regole morali e politiche del conflitto di interessi non possono funzionare a giorni alterni o a governi alterni. Questo è il cuore del problema, non se siano stati commessi illeciti. Di cui nessuno è a conoscenza. E questa ostinazione mostra quel grumo di potere locale da cui, evidentemente, la sottosegretaria non riesce a prendere le distanze.
Il Pd non può farsi carico di questa situazione. Maria Elena Boschi sta diventando un fardello troppo pesante per la principale forza riformista di questo Paese. I sondaggi sono solo l’ultima testimonianza di quanto possa incidere la sua figura. Lei stessa dovrebbe con responsabilità liberare da questo peso il partito che le ha consentito di approdare in Parlamento e al governo. E il segretario accettare l’idea che il bene del Paese e del Pd vengono prima della difesa di un componente del suo gruppo dirigente. A meno di non voler avallare l’idea che il vertice del Partito democratico possa liberamente essere sovrapposto al fantomatico Giglio magico.
Perché in discussione non c’è solo l’esito delle imminenti elezioni, già piuttosto incerte. Il Pd deve porre ora le premesse per assicurarsi la possibilità di rimanere competitivo nei prossimi anni. Il centrosinistra affronta stavolta la partita più difficile. La posta in gioco non è la vittoria o la sconfitta — questo appartiene alla fisiologia di una democrazia — ma che rimanga in vita la prospettiva di un moderno centrosinistra capace di governare i processi e le sfide di questo millennio. E per provare a invertire la rotta e risalire la china ci vogliono gesti netti e chiari, non sterili rivendicazioni che ipotecano il futuro.

Corriere 21.12.17
Ora il problema è il rapporto tra partito e giglio magico
di Massimo Franco


Nessuno poteva prevedere che la Commissione parlamentare di inchiesta sulle banche potesse diventare una lente di ingrandimento sulla cerchia toscana del Pd. Non, almeno, con i contorni delle ultime ore. La figura della sottosegretaria a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, con i suoi incontri per «informarsi» su Banca Etruria, rimane il simbolo del pasticcio politico-bancario. Ma appare meno centrale di quanto i suoi avversari sostengano, chiedendone le dimissioni; e di quanto affermano i pochi alleati, parlando di montatura delle opposizioni. In realtà, emerge un mondo nel quale il confine tra politica e amicizie si confonde. Così, il manager Marco Carrai, amico di Matteo Renzi, può a ragione essere definito estraneo al Pd da parte del capogruppo alla Camera, Ettore Rosato. E Carrai può pure sostenere che la sua email all’allora amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, era per conto di un cliente e non del governo; e minacciare querele. Rimane il problema del sodalizio col segretario dem. E questo rende difficile divincolarsi dai sospetti e dalle accuse, seppure strumentali, rovesciatigli addosso dagli avversari. Ma la vittima è il Pd. Vittima paradossale, perché ha preparato o comunque permesso di preparare la trappola della Commissione di inchiesta. E ha avallato una strategia suicida di attacco, senza calcolare il pericolo del caso Banca Etruria: vicenda tutto sommato secondaria, eppure decisiva per il coinvolgimento del cosiddetto «giglio magico» intorno al vertice dem. Dopo i particolari emersi dall’audizione di Ghizzoni e, prima, di altri esponenti delle istituzioni finanziarie e bancarie, il gruppo renziano si definisce sicuro che le cose siano state chiarite per il meglio. Ma il tema ormai non sono gli insulti di M5S o Lega, o gli inviti alle dimissioni da parte di Liberi e uguali. Il tema è diventato forse soprattutto il rapporto tra il partito e il suo vertice. Dilemma complicato, perché la nomenklatura dem ha appaltato a Renzi e ai suoi la strategia, le priorità da affrontare, i rapporti con il potere economico. E ha rinunciato a esprimere dubbi e riserve, nel nome di una compattezza di facciata che la scissione doveva rinsaldare e non incrinare. A questo punto, emerge un intreccio dal quale il Pd ora cerca di emanciparsi. A guardar bene, il «Carrai non c’entra niente col Pd», detto da Rosato, è l’emblema del tentativo di divincolarsi dal sottobosco renziano. E, in parallelo, certifica la difficoltà di farlo senza intaccare anche la leadership del segretario. A radicalizzare il problema sono elezioni politiche previste tra due mesi e mezzo. L’idea che in così poco tempo si smorzino le polemiche, per quanto gonfiate, è pura illusione. E la speranza di qualcosa in grado di rilanciare il Pd, magari grazie al governo Gentiloni, diventa un atto di fede.

La Stampa 21.12.17
Il Giglio Magico intrappolato nel salvataggio di Banca Etruria
Da Firenze all’ascesa romana. Ma ora la commissione è un boomerang tra conflitti d’interesse, silenzi, contraddizioni e vulnerabili difese
di Mattia Feltri


Forse adesso a Matteo Renzi sarà più chiaro perché opposizioni e giornali sono tanto interessati a Banca Etruria. Un interesse condiviso, sembra di capire, dal governo che lo stesso Renzi guidava, e fino nelle sue derivazioni meno istituzionali. Ieri l’ex amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, ha raccontato d’aver ricevuto nel gennaio del 2015 una mail nella quale Marco Carrai gli sollecitava una risposta su Etruria. E cioè: Unicredit se la prende oppure no? Mancava soltanto Carrai. Uomo colto, intelligente, a cui finora era riconosciuta una prudenza estranea al resto del Giglio Magico - perdonate la sciatteria della definizione.
Ha quarantadue anni, come Renzi, che conosce da quando avevano i brufoli, ma a differenza del compare non ama fare il ganassa, niente tv e interviste, niente foto, una predisposizione per gli affari arricchita da slanci umanistici: un libro scritto col sommo medievista Franco Cardini, un ruolo nella scuola Holden di Alessandro Baricco, rapporti vasti, da Tony Blair a Michael Ledeen, un tempo con Umberto Veronesi e Margherita Hack. Insomma, una specie di gentleman dentro un consesso più vivace, diciamo così, e giovanilmente spregiudicato.
E dunque anche lui, privo di ruoli politici, se non una progettata e mai definita responsabilità nella cybersicurezza dello Stato, non stava nella pelle: che fine fa Etruria?
Pure Ghizzoni si era chiesto a che titolo e in nome di chi Carrai sollecitasse, ma per pudicizia s’era tenuto la domanda per sé, senza inoltrarla all’interlocutore. Ora Carrai rivela di essersi mosso per conto di un cliente con ambizioni su Etruria (e ci si ricorda di un suo appetito, all’epoca, per Banca Del Vecchio, che Etruria controllava), e sarà senz’altro così, sebbene è curioso, e molto, che un signore avveduto come Carrai non abbia spiegato al cliente (e a se stesso) che il miglior amico del presidente del Consiglio certe cose è meglio non le faccia, non senza averne parlato al presidente del Consiglio medesimo, e soprattutto se ai vertici della banca in questione c’è il padre del ministro per le Riforme, altra amica d’infanzia. Insomma, la solita storia.
Soltanto che qui ogni componente del Giglio Magico (riscusate), per questo o quel motivo, e senza avvertire gli altri, si dava da fare per Etruria. Perché ieri Ghizzoni ha precisato con uno scientifico copia incolla la questione più attesa. Che gli disse Maria Elena Boschi nel famoso incontro? Tutto nasce da un libro di Ferruccio de Bortoli, ex direttore di Corriere e Sole 24 Ore, nel quale si legge: «Boschi chiese quindi a Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria». Ieri Ghizzoni ha detto: «Boschi mi chiese se era pensabile per Unicredit un intervento su Etruria». E lì è intervenuto il quarto moschettiere, Francesco Bonifazi, che ha illuminato il sentimento dei renziani apostolici con un tweet: «Lo dico da avvocato e da cittadino. Oggi De Bortoli ha perso la causa. E chi accusa Boschi ha perso la faccia». Una scelta di difesa e contrattacco ai confini della stravaganza. Primo: per vincere una causa bisogna intentarla, e sinora non se ne ha notizia. Secondo: qual è la differenza fra la versione di De Bortoli, per cui Renzi e Boschi alzarono le picche dell’indignazione, e quella di Ghizzoni? Per quale esoterica ragione Boschi ringrazia Ghizzoni delle parole per cui minaccia di querelare De Bortoli? E dopo avere giurato di non aver mai chiesto nulla a Ghizzoni?
Bonifazi, nel gruppo, ha un ruolo muscoloso. È entrato nella commissione Banche nonostante il duemillesimo conflitto d’interessi in cui ci si imbatte in questo articolo: amico di Maria Elena Boschi, con cui fece pratica legale nel medesimo studio, e socio nello studio attuale di Emanuele, che di Maria Elena è fratello, in commissione cerca di illuminare le responsabilità di Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena ed Emanuele. Vabbè. A lui è stata affidata la parte più creativa dell’arringa di ieri, mentre il quinto e ultimo bocciolo, Luca Lotti, rimasto miracolosamente fuori dalla storia, saggiamente tace. Gli altri - Boschi, Renzi e Carrai - hanno invece intrapreso una via più tecnica: ci furono incontri ma, tecnicamente, non ci furono pressioni; le reali e tecniche ambizioni di Carrai; Unicredit che, tecnicamente, cominciò a informarsi di Etruria prima che fosse Boschi a suggerirlo. Di nuovo: vabbè.
Ma soprattutto è paradossale: la commissione d’inchiesta era stata voluta da Renzi per politicizzare ulteriormente la questione, e in omaggio alle furie demagogiche di questi tempi, e adesso che politicamente non la gestisce più, la si ributta sul tecnico. E doppiamente paradossale, perché l’atteggiamento del governo su Etruria è stato desolante per Boschi che, se avesse parlato dei suoi molteplici abboccamenti prima che lo facessero altri, ne avrebbe guadagnato parecchio; ma per il resto si era al limite, non la parvenza di un reato, né di una scorrettezza palese. Un po’ di sconvenienza, così frequente in politica, dove l’amoralità talvolta è indispensabile. Ma di quell’amoralità bisogna essere all’altezza: è stata la conduzione scomposta, spudorata, a tratti arrogante, a tratti infantile del caso a innalzare tutto a vette deprimenti, da cui la consorteria fiorentina si è buttata in un funambolico suicidio. L’isolamento risuona nello spettrale e un po’ vile silenzio del Pd, per l’intera giornata. A tre mesi dalle elezioni, il Giglio Magico è ormai aggrappato a un ramo che sembra tanto il ramo di Spelacchio.

il manifesto 21.12.17
Renzi e Carrai, amici nella vita. E nelle opere
Coppie di ferro. Ettore Rosato azzarda: "Carrai non ha niente a che fare con il Pd". Ma dalla metà degli anni '90 Matteo Renzi e "Marchino" Carrai sono inscindibili, da Florence
di Riccardo Chiari


ROMA “Carrai è un professionista che opera in quel settore. E’ un imprenditore che si interfaccia, come è normale, con il mondo delle imprese e del sistema finanziario. E non ha niente a che fare con il Pd”. Ettore Rosato, capogruppo piddino alla Camera e “inventore” della legge elettorale, magari domani proverà a dire che formalmente ha ragione lui. Perché Marco Carrai, 41 anni, grevigiano, dal giugno 2009 – con Matteo Renzi appena eletto sindaco – ha lasciato la politica di partito. Ma non certo la politica a sostegno del segretario Pd. La cui amicizia – parole sue – “mi ha salvato la vita”.
Già a metà degli anni ’90 i due sono inscindibili. Nel Ppi prima e nella Margherita poi Renzi è il segretario, Carrai il braccio organizzativo. Quando il primo, nel 2004, viene eletto presidente della Provincia di Firenze a soli 29 anni, Carrai diventa il suo capo-segreteria. Ed entra anche a Palazzo Vecchio come consigliere comunale della Margherita, eletto con le preferenze assicurate dall’accoppiata Comunione e Liberazione – Compagnia delle Opere.
Negli anni di Renzi presidente provinciale, Carrai mette a punto Florence Multimedia, pensata come trampolino di lancio mediatico dell’ambizioso amico. Un progetto costoso. Pagato, secondo la Corte dei Conti, anche a spese dei contribuenti fiorentini. Poi Renzi diventa sindaco e Carrai né è suo consigliere, a titolo gratuito. Ma al tempo stesso diventa ad di Firenze Parcheggi, partecipata del Comune, in quota Mps; e soprattutto consigliere dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze, azionista di Banca Intesa, e in quella veste regista dell’ascesa a presidente di Jacopo Mazzei.
Carrai diventa anche presidente di Aeroporti di Firenze (AdF), primo passo del risiko societario che, con il governatore Rossi compiacente, porterà alla fusione degli scali di Firenze e Pisa in Toscana Aeroporti. Con una composizione sociale guidata da Corporaciòn America Italia (51,13%) degli amici argentini Eurnekian, che lo confermano presidente, e anche con dentro l’ Ente CariFi, gli enti locali e le camere di commercio. Negli ultimi mesi Carrai è stato attivissimo nel portare avanti il progetto del nuovo Vespucci, di fatto un nuovo aeroporto intercontinentale, a soli 60 chilometri dal pisano, e già intercontinentale, Galilei.
Capitolo Leopolda: la kermesse “senza bandiere” nasce quasi in parallelo alla Fondazione Big Bang, poi Fondazione Open, che è il think tank del renzismo. Carrai ne è artefice ed è ancora consigliere, fra i finanziatori figurano fra gli altri David Serra, Jacopo Mazzei e Chicco Testa, quest’ultimo socio anche nelle società lussemburghesi di Carrai. Come la Wadi Ventures, omonima di un fondo di investimento israeliano specializzato in signal intelligence per le forze armate, in altre parole l’equivalente della Nsa statunitense.
Quando Renzi ha incontrato di volta in volta Tony Blair, Barack Obama, Angela Merkel, c’è sempre stato Marco Carrai al suo fianco. Perché l’amicizia fra i due è una cosa seria. Anche se Carrai non ha la tessera del Pd.

Il Fatto 21.12.17
Giglio magico? No, maneggioni di provincia
di Daniela Ranieri


Quant’erano belli, novelli, entusiasti. I giornali li ritraevano seduti sereni e tonici nel Palazzo espugnato: Matteo radioso, sfrontato, chiamato a grandi imprese come Lorenzo il Magnifico; Luca Lotti, con quei boccoli spettinati, era Poliziano; Marco Carrai, bravo coi numeri, Pico della Mirandola; la bionda Fiorenza naturalmente era lei, la fatata Boschi; madonnina nei presepi del Valdarno, ella emanava un “fascino naturale”, i capelli come “scolpiti nel marmo di Carrara” (dalla biografia Una tosta. Chi è, dove arriverà Maria Elena Boschi).
Gli eventi più recenti purtroppo impongono di considerare l’eventualità che Maria Elena non arriverà in nessun dove e che la corte del Giglio non era così immacolata come (la) si ritraeva; del resto già da tempo emanava l’ormai notorio odore per i contatti tra i babbi dei virgulti della Patria e l’humus toscano delle prossimità più stantie. Ieri Federico Ghizzoni, ad di Unicredit al tempo in cui la dolce Maria Elena era ministro, ha confermato alla Commissione banche quello che De Bortoli scrisse e la Boschi smentì con tanta indignata veemenza da minacciare roboanti querele per diffamazione poi diventate una citazione per danni tuttavia non ancora recapitata, danni non si capisce a cosa o a quale reputazione, peraltro. Così il Giglio intero mobilitato sui social incorre in un’impasse logica, visto che non si capisce per quale alchimia dialettica una conferma alla versione di un potenziale querelato possa tradursi in una conferma alla smentita del querelante. Ma nel magico mondo di Matteo (il tizio che avrebbe smesso di fare politica se avesse perso il referendum) tutto è possibile.
Così, dopo l’audizione di Ghizzoni e dopo giorni di messaggi traversali affidati ai giornalisti più fedeli su presunti “inviti inusuali” e “sms anche notturni” del capo della Consob alla Boschi (hai visto mai in epoca di #metoo si trova qualcuno disposto a credere alla velata fake news che era lei a essere molestata dai capi della vigilanza e non lei a molestarli per salvare la banca di famiglia), la Boschi (che poteva solo sperare che Ghizzoni mentisse) affida a Facebook il suo falso sollievo: “Ghizzoni ha espressamente smentito eventuali pressioni… Le parole di Ghizzoni sono molto preziose per la causa civile nei confronti del dottor De Bortoli”. Il quale però mai ha parlato di “pressioni” e riportò esattamente che la Boschi “chiese a Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria”. Ma i polli da batteria del Pd sono già all’opera. Bonifazi, ex fidanzato della Boschi e socio di un fratello Boschi dunque membro della Commissione chiamata a giudicare anche sull’operato di babbo Boschi, twitta: “Lo dico da avvocato e da cittadino. Oggi De Bortoli ha perso la causa. E chi accusava @meb ha perso la faccia”, così chi ha intenzione di prenderlo come avvocato sa cosa aspettarsi. Loro che parlano in basic italian e pensano in 140 caratteri si attaccano alle sfumature: “Io non ho chiesto di acquisire una banca, ho chiesto se Unicredit fosse interessata o meno. C’è una bella differenza”, scrive la favorita del Capo in trance agonistica, come se avesse vinto la causa non solo contro De Bortoli ma contro tutti quelli che “la odiano”, e aggiunge: “non ho chiesto IO di acquisire Banca, ma Mediobanca e BPEL. Io ho solo chiesto info” (sic). Qui il colpo di genio (di Matteo) è albertosordismo puro: Boschi non si è interessata di Etruria per il babbo, dio ne scampi, ma “per il territorio” (dove è stata nominata col Porcellum), segnatamente per gli “orafi di Arezzo”. La commedia all’italiana ci sommergerebbe se Ghizzoni non avesse aggiunto en passant che un altro petalo del Giglio, Carrai, gli scrisse in una mail: “Solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti, se possibile, nel rispetto dei ruoli, per una risposta”. Chissà chi fu a chiedere a Carrai di intercedere per salvare Etruria, esclusi ovviamente gli orafi di Arezzo.
E insomma. Lotti è indagato per aver presuntamente spifferato ai vertici Consip che avevano cimici negli uffici, insieme ai carabinieri amici di braciate di babbo Renzi, indagato; Carrai, che Renzi avrebbe voluto a capo di una fantomatica Autorità per la cybersicurity, mentre rilasciava lunghe interviste al Foglio in cui parlava delle sue allergie alimentari, si spendeva per la banca del padre dell’amica. Della Boschi s’è detto più di quanto richieda, nell’ottica della Storia, la sua assoluta nullità.
Ci dispiacerebbe apprendere che la gagliarda oligarchia gigliata che voleva riscrivere la Costituzione non era che un’accolita di maneggioni di provincia miracolati dalle relazioni dei babbi con indagati, bancarottieri, traffichini amici di pellegrinaggi a Medjugorje; l’avanguardia di bella presenza di un sottobosco di faccendieri di piccolo cabotaggio che aspettavano che qualcuno di presentabile scendesse a Roma ad arraffare il più possibile nel proprio esclusivo interesse.

Il Fatto 21.12.17
Etruria: Ghizzoni affonda Boschi, Renzi e pure Carrai
Sei mesi dopo - L’ex Ad Unicredit conferma ciò che scrisse De Bortoli: “Mi chiese di valutare l'acquisizione della banca di Arezzo”
di Giorgio Meletti


Che Federico Ghizzoni confermasse quanto scritto sei mesi fa da Ferruccio de Bortoli era quasi scontato. Non era invece previsto che l’ex amministratore delegato di Unicredit partecipasse al bombardamento del Giglio magico con il pezzo da 90: all’interessamento per il destino di Banca Etruria non partecipavano solo Maria Elena Boschi e Matteo Renzi, ma anche Marco Carrai, amico dell’ex premier. Il cerchio si chiude. Prima la rivelazione sulle richieste a Ghizzoni; poi la notizia del Fatto sul vertice di Laterina con i vertici di Etruria e di Veneto Banca; poi Giuseppe Vegas che intrattiene la Commissione Banche sui colloqui in cui Boschi confida al presidente della Consob la sua ansia per gli orafi aretini; poi il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco che racconta come anche Renzi gli avesse parlato di Etruria perché preoccupato per gli orafi, tanto che aveva pensato a una battuta; ieri Ghizzoni che tira in ballo Carrai. Spietata la sintesi dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti: “Adesso audiamo gli orafi”.
Molto teso, Ghizzoni legge davanti alla Commissione d’inchiesta sulle banche una relazione limata parola per parola. De Bortoli a pagina 209 del libro Poteri forti (o quasi) ha scritto: “Maria Elena Boschi chiese quindi a Federico Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria”. A caldo il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio replicò: “Non ho mai chiesto all’ex ad di Unicredit né ad altri di acquistare Banca Etruria”. E annunciò una querela per l’ex direttore del Corriere della Sera. Il banchiere ieri mattina ha usato le stesse parole di De Bortoli: “Il 12 dicembre 2014 la incontrai da solo nel suo ufficio di Largo Chigi. La ministra Boschi mi manifestò la sua preoccupazione non tanto per le banche toscane in crisi, Mps e Etruria, quanto per cosa le loro difficoltà avrebbero comportato sul territorio toscano. Alla fine mi chiese se era pensabile valutare l’acquisizione o comunque l’intervento, stressando che era fatto seguendo quella preoccupazione. Risposi che per richieste di questo tipo avremmo dato risposte direttamente alla banca”. Infatti nove giorni prima, il 3 dicembre, il presidente di Etruria Lorenzo Rosi era andato a proporre a Ghizzoni un piano di salvataggio di Etruria che Unicredit, pur con perplessità, aveva dato la disponibilità a studiare.
Il banchiere di Piacenza ha anche fatto notare alla commissione che Unicredit, tra molte incognite, considerava anche il possibile commissariamento di Etruria (che effettivamente avvenne due mesi dopo) che avrebbe eventualmente consentito di prendersi la banca di Arezzo per poco.
Ghizzoni parla esplicitamente di una richiesta. E aggiunge: “Non ho spiegato che un’altra ragione per cui il ministro mi chiese era la dimensione della banca, più contenuta di Mps”. Come dire: “Che ti costa?”. Non solo. Ghizzoni precisa anche di aver incontrato subito dopo la dirigente Marina Natale, a cui aveva affidato il dossier Etruria: “Le riferii del colloquio e le dissi di continuare in totale indipendenza, di non farsi condizionare”. Non farsi condizionare da che cosa?
Boschi non se ne dà per intesa e sostiene in un tweet che Ghizzoni le ha dato ragione: “Io ho solo chiesto info. Adesso la parola al Tribunale”. Poi su Facebook articola: “Io non ho chiesto di acquisire una banca, ho chiesto se Unicredit fosse interessata o meno. C’è una bella differenza”. Boschi insiste sul fatto che Ghizzoni, come Visco e Vegas, ha escluso di aver subito pressioni. Ma De Bortoli non ha mai parlato di pressioni, e rimane la curiosità di vedere come sarà argomentata la richiesta di danni.
Il dettaglio del colloquio con la dirigente Natale non sarà di aiuto per gli avvocati della Boschi, chiamati a sostenere due tesi audaci. La prima: chiedere “avresti voglia di uscire con me?” non è un invito, ma un sondaggio. La seconda: se la Boschi avesse fatto pressione, Ghizzoni avrebbe raccomandato alla Natale di farsi condizionare. Intanto Ghizzoni va avanti. Esaurito il capitolo Boschi, si passa a Carrai: “Da quel momento in poi non ci sono stati ulteriori contatti, le strutture Unicredit continuavano a lavorare sull’ipotesi di acquisizione. Per la verità, e qui devo dire tutto quello che è successo (testuale), mi arrivò il 13 di gennaio una email da Marco Carrai”. Testo della email: “Ciao Federico, solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti se possibile e nel rispetto dei ruoli una risposta su Etruria. Un abbraccio, Marco”. Spiega Ghizzoni: “Mi chiesi chi potesse aver chiesto questo sollecito, mi venne naturale escludere la banca, poi decisi di non richiedere nessun chiarimento per non aprire altri canali di comunicazione, e gli risposi che stavamo lavorando e avremmo dato una risposta direttamente a Etruria”.
Carrai replica con un comunicato in cui nega di aver agito in chiave Giglio magico: “Ero interessato a capire gli intendimenti di Unicredit riguardo Banca Etruria perché un mio cliente stava verificando il dossier di Banca Federico Del Vecchio, storico istituto fiorentino di proprietà di Etruria”. Carrai, in predicato di andare a Palazzo Chigi come consulente del governo per la cybersecurity, intermediava banche? E perché era al corrente della trattativa Etruria-Unicredit? Si sa solo che con Ghizzoni si scambiava decine di email e che diffida dal nominarlo come un faccendiere di partito. Il quadro è confuso e sul punto Ghizzoni non è di grande aiuto. Si dà del tu con Carrai ma dice di non sapere che cos’è la Fondazione Open, cassaforte renziana amministrata da Carrai, Boschi e Luca Lotti con l’avvocato Alberto Bianchi, uomo di Renzi nel cda dell’Enel. Perché abbia sentito la necessità di “dire tutto” e ricordarsi la email dell’amico di Renzi non lo spiega. Però tutti lo hanno capito.

Il Fatto 21.12.17
Psichiatria democratica “De Bortoli ha mentito”. “Ghizzoni difende Meb”
Reazioni renziane - Fatti rimossi e proiezioni mentali: una patologia che affligge molti onorevoli dem
Psichiatria democratica “De Bortoli ha mentito”. “Ghizzoni difende Meb”
di Marco Palombi


Allora, i fatti non sono più in discussione. Maria Elena Boschi si è occupata spesso di Popolare Etruria in maniera, per così dire, irrituale e in palese conflitto di interessi. A dicembre del 2014, infine, ha chiesto all’ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, se era possibile che la sua banca acquistasse Popolare Etruria, di cui suo padre era in quel momento vicepresidente e che sarebbe stata di lì a poco commissariata. A questi fatti il mondo in senso largo renziano, come vedremo, reagisce psichiatricamente più che politicamente in un processo di rimozione così maldestro da provocare nello spettatore più preoccupazione che indignazione. Breve rassegna
I fatti. Scrisse Ferruccio de Bortoli nel suo Poteri forti (o quasi) : “L’allora ministra delle Riforme, nel 2015, non ebbe problemi a rivolgersi direttamente all’amministratore delegato di Unicredit. Maria Elena Boschi chiese quindi a Federico Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria. La domanda era inusuale da parte di un membro del governo all’amministratore delegato di una banca quotata. Ghizzoni, comunque, incaricò un suo collaboratore di fare le opportune valutazioni patrimoniali, poi decise di lasciar perdere”.
Cosa ha sostenuto Boschi: “Ho incontrato l’ad Ghizzoni più volte e anche altri rappresentanti del mondo bancario. Negli incontri pubblici col dottor Ghizzoni abbiamo discusso sul sistema bancario anche ai fini di un intervento legislativo generale, non su casi specifici” (6 dicembre)
Cosa ha detto Ghizzoni ieri in Parlamento: “Il 12 dicembre 2014 ho incontrato da solo Boschi a Palazzo Chigi. Il ministro mi chiese se era pensabile per Unicredit valutare un’acquisizione o un intervento su Etruria: risposi che non ero in grado di dare nessuna risposta”.
Le reazioni. “Confermo la relazione iniziale di Ghizzoni. Non ho fatto alcuna pressione. E non ho chiesto io di acquisire Banca, ma Mediobanca e Bpel. Io ho solo chiesto info. Adesso la parola al Tribunale” (Maria Elena Boschi).
“Lo dico da avvocato e da cittadino. Oggi De Bortoli ha perso la causa. E chi accusava Maria Elena Boschi ha perso la faccia” (Francesco Bonifazi).
“Sono in commissione banche. Stiamo audendo Ghizzoni. Che, come già Visco e Vegas, ha confermato di non aver mai subito pressioni dal ministro Boschi. Di più, ha raccontato che la valutazione di un eventuale acquisto di Etruria da parte di Unicredit era precedente al colloquio con la Boschi. Sottolineo questo aspetto perché De Bortoli aveva scritto un’altra cosa (…) il falso” (Matteo Orfini).
“Anche oggi la commissione d’inchiesta sulle banche smonta un’altra tesi complottista. Le parole di Ghizzoni sono state molto chiare. Boschi non ha esercitato alcuna pressione e quindi la ricostruzione di De Bortoli è inesatta. Tra l’altro, furono l’advisor e Banca Etruria a richiedere l’acquisizione a Unicredit, mentre la Boschi si limitò a informarsi della situazione del territorio” (Ernesto Carbone).
“Ecco che Ghizzoni spiega due cose elementari: Boschi non fece pressioni, esame su Etruria era già in corso, manifestò esclusivamente preoccupazione per famiglie e imprese di quel territorio”. “Ghizzoni conferma Boschi: De Bortoli ha mentito. La richiesta di valutare Etruria venne fatta da Mediobanca ed Etruria stessa e non fu Boschi a far aprire le valutazioni di Unicredit” (Mauro Del Barba).
“Oggi Ghizzoni conferma che da parte dell’allora ministro Boschi non vi fu pressione e che le ricostruzioni di De Bortoli erano errate. Tra l’altro emerge un dettaglio importante: ossia la procedura di richiesta di acquisto di Etruria da parte di Unicredit era una pratica attivata in precedenza rispetto alle richieste della Boschi stessa che si limitava a chiedere informazioni. Questi sono i fatti il resto è falsificazione” (Alessia Rotta).
“L’audizione di Ghizzoni fa chiarezza: nessuna pressione, smentito De Bortoli. La tempistica degli avvenimenti aggiunge altra chiarezza. Unicredit non si attivò dopo il colloquio con l’allora ministro Boschi, la pratica era già stata aperta e lei chiese semplicemente informazioni preoccupata per famiglie e aziende del territorio. Nessuna pressione e infondate le accuse di De Bortoli che, probabilmente dovrebbe scusarsi per aver offerto una ricostruzione erronea” (Stefano Esposito).
“Ghizzoni conferma che non c’è stata alcuna pressione di Boschi e soprattutto il fatto che fu l’advisor e i vertici di Etruria che chiesero l’intervento di Unicredit. Boschi ha espresso solo preoccupazioni per le famiglie e per il territorio, chiese informazioni senza esercitare alcuna pressione. Insomma la tesi di De Bortoli è completamente smontata” (Franco Vazio).
“Ghizzoni in audizione conferma ciò che disse il ministro Boschi: nessuna pressione su Banca Etruria. Fu Mediobanca a chiedere a Unicredit di studiare il dossier sulla banca aretina. Chi ha speculato, ora chieda scusa” (Andrea Marcucci).
Riassumendo: Ghizzoni conferma parola per parola De Bortoli ma per i renziani significa che lo ha smentito: più che di campagna elettorale, cari, avete bisogno di una vacanza.

Il Fatto 21.12.17
Ora Renzi spera che Boschi decida di non candidarsi
Difese d’ufficio - Il leader ha capito che la sottosegretaria ormai danneggia il Pd. L’email di Carrai a Ghizzoni lo ha colto di sorpresa: “Non ne sapevo nulla”
di Wanda Marra


Se Maria Elena Boschi decidesse di fare un passo indietro e di non candidarsi, Matteo Renzi ne sarebbe felice. Dopo l’ennesima giornata difficile al Nazareno, le valutazioni su come limitare i danni della Commissione banche sono continue. E un’idea risolutiva non si vede. “Non ne sapevo niente, è stata un’iniziativa autonoma di Carrai”. Dopo ore e ore di silenzio, Renzi la mette così con gli amici e con i nemici dopo l’ennesima bomba contro il Giglio magico. Perché l’ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, tira in ballo prima Maria Elena Boschi (con le stesse parole usate da Ferruccio de Bortoli “mi chiese di valutare l’acquisizione di Banca Etruria”) e poi Marco Carrai (legge una email che recita così: “Mi è stato chiesto su Etruria di sollecitarti per dare una risposta”). Il nome di Carrai porta direttamente al segretario. Renzi e “Marchino” sono amici e sodali da vent’anni. Il rapporto forse più antico dell’ex premier, che non a caso gli voleva affidare la gestione della cybersicurezza, quando era a Palazzo Chigi.
Dopo ore e ore di disorientamento, è lo stesso imprenditore che si prende in capo la responsabilità con una nota: “Ero interessato a capire gli intendimenti di Unicredit riguardo Banca Etruria perché un mio cliente stava verificando il dossier di Banca Federico Del Vecchio, storico istituto fiorentino di proprietà di Etruria”. Ghizzoni ha lasciato intendere tutt’altro, raccontando la scelta di non rispondere. Ma i Dem si attestano sulla linea di “Carrai chi?” (con Ettore Rosato, il capogruppo dem alla Camera che dichiara: “È un imprenditore, non c’entra niente con il Pd”). E lo stesso segretario fa girare un articolo di Lettera 43 del 2015. Nel quale si racconta però dell’intenzione dello stesso Carrai a comprare la Del Vecchio sulle ceneri dell’Etruria. Il quale comunque negò. Ancora, Renzi ci tiene a raccontare che Ghizzoni e Carrai sono amici. Restano comunque troppe aporie e troppi dubbi.
Il segretario lo sa. Tanto è vero che quella di ieri è l’ennesima giornata nera. Con la Boschi che ancora rilancia, sostenendo che le parole di Ghizzoni la aiuteranno a vincere la causa contro De Bortoli (mentre quest’ultimo ringrazia il banchiere). “Doveva dire: ritiro la querela. Non si rende conto”, commenta qualche renziano a microfoni spenti. Che la Boschi sia un problema e che la sua candidatura rischi di far tracollare ulteriormente il Pd, nel partito lo pensano quasi tutti. Al di là della “batteria” ufficiale che porta avanti la tesi delle “mancate pressioni”, non c’è un big che la difenda. E lo stesso Renzi ieri non spende parole pubbliche per lei. Non può chiederle lui di fare un passo indietro, ma spera che si renda conto che sarebbe meglio saltare un giro. “Ma poi, dove la candida? Chi se la prende?”, sono i commenti che girano nel Pd. Alle liste manca più di un mese: un tempo utile per maturare una decisione.
Intanto, nel Pd nessuno sembra avere un’idea chiara sul da farsi. Andrea Orlando ha intenzione di chiedere una direzione il prima possibile. La tentazione di sfiduciare il segretario esiste, ma la paura di intestarsi una sconfitta certa è maggiore.
La Commissione banche è costata al partito 4 punti e mezzo nei sondaggi. E non è finita qui. Il calendario delle audizioni non sarà riaperto, nonostante la richiesta formale di sentire Carrai fatta dalla Lega: Renzi ha capito che il rischio è troppo alto. Ma a Camere sciolte, dovrà scrivere una relazione di maggioranza e una di minoranza. In campagna elettorale non si parlerà d’altro che di Banca Etruria: questo è il timore al Nazareno.

Repubblica 21.12.17
Il Pd all’angolo e Gentiloni carta estrema
di Stefano Folli


Ora la domanda riguarda l’immediato futuro. Quanto peserà lo psicodramma bancario sul destino elettorale di un Pd che ha un disperato bisogno di risalire la china nei sondaggi? Di fronte alla commissione d’inchiesta, Ghizzoni ha parlato il linguaggio dei fatti, senza enfasi e senza amnesie di comodo. Proprio questo stile asciutto ha reso significativa e in un certo senso definitiva la sua audizione.
Non solo ha confermato il famoso passo del libro di de Bortoli, ma ha descritto con scarne pennellate il quadro di un piccolo gruppo di potere piuttosto provinciale eppure proteso verso i propri obiettivi con spregiudicata determinazione.
Questo gruppo di potere rappresenta oggi il vertice del principale partito italiano, l’asse del centrosinistra. Un partito la cui crisi di consensi non è cominciata adesso: ha vissuto altre stagioni e conosciuto più di un insuccesso, dalle regionali alle amministrative fino alla disfatta del 4 dicembre 2016. È proprio la sconfitta referendaria, mai davvero analizzata e anzi rimossa, l’origine dei guai presenti.
Il conflitto d’interessi oggettivo e l’agire opaco in difesa della banca del territorio sarebbero stati perdonati per opportunismo a un manipolo di vincitori, viceversa diventano peccati mortali quando a occupare la scena sono i perdenti. L’arroganza si accetta da chi è forte, ma il debole arrogante non va lontano.
Quindi l’interrogativo che ci si pone riguarda la capacità del gruppo dirigente del Pd di essere tale quando mancano due mesi e mezzo alle elezioni. È chiaro che occorre un’iniziativa, un colpo d’ala, la cosiddetta “mossa del cavallo”.
Un’idea o un gesto che scomponga le carte sul tavolo e chiuda la bocca ai critici. E soprattutto che recuperi il rapporto con la pubblica opinione. I tempi per riuscirci sono molto stretti, forse troppo. E non c’è dubbio che il fronte avversario — dai Cinque Stelle alla sinistra di Grasso, fino a Salvini — desidera che nulla cambi di qui al 4 marzo. Vale a dire che Renzi continui a dichiararsi vincitore del duello su Banca Etruria e Maria Elena Boschi insista a non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di lasciare.
Un Pd chiuso all’angolo, dominato da un vertice prigioniero di una dimensione irreale: ecco il copione perfetto per una campagna elettorale a buon mercato.
Qualunque altra soluzione, a cominciare da un passo indietro di Boschi in nome del senso di responsabilità, sarebbe un indizio di riscossa che i Di Maio e i Salvini, o i “Liberi e Uguali”, accoglierebbero con qualche rammarico. Ma al momento possono stare sereni. Per quanto il Pd sia inquieto al suo interno e viva con crescente preoccupazione la corsa verso le urne, Renzi ritiene di poter ancora arroccarsi e controllare il gioco.
Fino a quando, non si sa. Certo, d’ora in poi tutto si fa complicato: in particolare la scelta dei candidati, l’equilibrio fra gli amici del segretario e le altre correnti, da Franceschini a Orlando. Renzi si è indebolito, difficile che possa decidere in solitudine o quasi come ai tempi d’oro.
D’altra parte, se il Pd viene percepito solo come un gruppo di potere, la caduta negli indici di gradimento potrebbe accentuarsi in forma drammatica.
Invertire la tendenza richiede fantasia e un’inedita volontà di rivolgersi agli italiani con realismo. Con ogni probabilità occorre puntare su Gentiloni in modo più esplicito, ben sapendo che un tracollo elettorale del Pd finirebbe per compromettere senza appello le possibilità che il premier resti a Palazzo Chigi.

Il Fatto 21.12.17
“Aria da resa dei conti, ma sono dei giovanotti”
Franco Cardini - Lo storico fiorentino: “Maria Elena non avrebbe dovuto accettare l’incarico di governo”
di Luca De Carolis


“Mi pare che gli squali sentano l’odore del sangue: le elezioni sono vicine…”. Lo storico Franco Cardini, fiorentino, commenta il caso Boschi miscelando indulgenza e critiche. E seminando confronti con la vecchia politica, “quella che sapeva comportarsi”.
Che impressione le fa questa vicenda?
Tira aria da resa dei conti, non solo dentro il Pd ma tra le istituzioni e le persone che gestiscono la cosa pubblica. Con questo clima da “si salvi chi può” si regolano di conseguenza.
Ghizzoni ha confermato la versione di De Bortoli sul colloquio con Maria Elena Boschi. Ed è spuntata la email di “sollecito” di Marco Carrai, il braccio destro di Matteo Renzi.
Sì, ho visto che tra le new entry c’è anche il mio amico Carrai.
Che rapporti avete?
Non ci sentiamo da tempo, non perché abbiamo litigato sia chiaro, ma solo perché non abbiamo molto da dirci. Certo, qualcosa abbiamo in comune: siamo tutti e due cattolici e fiorentini.
Secondo il capogruppo del Pd alla Camera, Ettore Rosato, Carrai non ha nulla a che a fare con il Pd. Concorda?
(Sorride, ndr) Mi sembra un’analisi che sopravvaluta gli aspetti formali. Marco non ha rapporti con gli organismi istituzionali del Pd, ma fa parte del Giglio magico, e un consigliere ascoltato di Renzi. Dire che non c’entra con il Pd tout court è davvero eccessivo.
Colloqui, email, richieste: il Giglio magico pecca di inesperienza o è in grave conflitto di interessi? O entrambe le cose?
Nella Prima Repubblica, appena un politico era in odore di scandalo o di conflitto di interessi, veniva sospeso o dava le dimissioni. Ma questi giovanotti certe cose non le hanno imparate da nessuno. Hanno provato l’ebbrezza del potere e hanno avuto cattivi consiglieri. E sono andati avanti con un senso di impunità.
I renziani si sentivano invincibili?
Certe leggerezze adolescenziali farebbero quasi tenerezza. Però qui si parla di persone che hanno responsabilità di governo.
Boschi dovrebbe dimettersi?
Ormai no. Adesso che le cose sono scoppiate deve terminare il suo iter al governo, e rimettersi al giudizio dei suoi colleghi. Lasciare ora significherebbe assumersi tutte le colpe, anche quelle che non sono sue.
Vuol dire che avrebbe dovuto dimettersi prima?
Sarebbe stato meglio se, conoscendo la situazione, non avesse proprio accettato l’incarico di governo. La sua famiglia, abbastanza importante, avrebbe dovuto convincerla a evitare, per loro e per lei.
E Renzi?
Avrebbe dovuto fare lo stesso. Tenerla in disparte, proteggerla. Lei è brava, poteva avere un’ottima carriera.
E adesso? Questa è la fine del renzismo?
Domani un vulcano potrebbe esplodere… Cosa vuole che le dica? Dipenderà dalla politica, che ha cultura e memoria corta.
Questo caso non sembra un fuoco di paglia. E lei stesso parla di clima da resa dei conti. Il Giglio finirà per implodere di faide?
Il rischio esiste. Del resto, il valore di un uomo come di una donna si vede nella sfortuna.
E Renzi, quanto vale?
Il mio amico Matteo… Guardi, non condivido quasi nulla di quanto ha fatto, dal Jobs act alla Buona Scuola. Ma è stato molto bravo come presidente della Provincia e come sindaco di Firenze. Ed è stata efficace nel primo periodo da premier.
E ora? Dopo il referendum perso pare non azzeccarne più una.
Ormai se suda scrivono che si è fatto pipì addosso. Il momento è questo. Ma non è che l’altra sinistra sia meglio.

La Stampa 21.12.17
Biotestamento, Lorenzin si schiera coi cattolici
“Garantirò l’obiezione di coscienza per la legge”
La ministra: vigilerò come per l’aborto. Ma il Pd: arriva tardi, si occupi di applicarla
di Francesco Grignetti


Un’offensiva compatta e forse vincente. Contro la nuova legge sul biotestamento, il mondo cattolico italiano, dopo i primi segni di ribellione a Torino, si muove unito fin nei suoi massimi vertici e incassa l’apertura della ministra Beatrice Lorenzin.
È il giorno cui si schiera il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin. Ritiene legittima - gli chiedono ai microfoni di Tv2000 - la posizione di quegli ospedali cattolici in Italia che hanno preannunciato un’obiezione di coscienza non applicando interamente la legge sul biotestamento? «Io credo di sì», la risposta. Parolin rappresenta la voce ufficiale del Vaticano. «Uno dei punti carenti di questa legge - spiega - senza dare un giudizio globale, è quello di non prevedere per le persone, i medici, gli operatori sanitari e le istituzioni cattoliche la possibilità di fare l’obiezione di coscienza. Mi pare normale che ci sia anche questa posizione».
Stessa linea anche ascoltando il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana: «L’obiezione di coscienza è un diritto fondamentale e va riconosciuta non solo a livello di persona, ma anche di strutture». La Chiesa al completo, insomma, è pronta alla guerra. E se c’è il rischio di chiudere tutti gli ospedali cattolici, nel caso in cui si arrivasse a sospendere le convenzioni con il servizio sanitario nazionale, «credo che nessuno - risponde Bassetti - voglia questo».
Un pressing terribile a cui, alla fine, la ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, risponde con un mezzo sì. Vada per l’obiezione di coscienza dei singoli sanitari, non una parola sulla serrata di interi ospedali. «Non ignoro - afferma la ministra in Parlamento, rispondendo a una interrogazione - che la legge appena approvata non contenga una specifica disciplina in tema di obiezione di coscienza per i medici. Proprio per questa ragione assicuro che seguirò con grande attenzione l’applicazione delle nuove disposizioni».
Secondo la Lorenzin, alla nuova legge andrebbe applicato lo stesso trattamento che si prevede per l’aborto. Ovvero la possibilità del singolo medico di rifiutarsi. «Nell’ipotesi in cui si dovessero verificare le criticità paventate dagli interroganti - dice - assumerò immediatamente le necessarie iniziative di mia competenza volte a salvaguardare la piena operatività del sistema sanitario, come ho fatto in tutti questi anni con riferimento alla legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, rispetto alla quale ho sempre verificato, nella qualità di ministro della Salute, che sussistesse l’accesso alle pratiche abortive rispettando il diritto all’obiezione di coscienza».
Scopo ultimo, contemperare due esigenze: «La necessità di applicare fedelmente le nuove disposizioni» e «assicurare agli operatori sanitari il rispetto delle loro posizioni di coscienza». Segue annuncio di un prossimo incontro al ministero con le strutture sanitarie cattoliche «per condividere con loro opportune modalità applicative della legge».
Esultano a quel punto i rivoltosi, tipo il Cottolengo o centro studi Livatino. Di contro, la Lorenzin scontenta quello schieramento laico e di sinistra che considera la legge sul biotestamento un passo minimo sul versante dei nuovi diritti civili. «Lorenzin - dichiara Filomena Gallo, segretario dell’associazione Coscioni - deve garantire l’applicazione di una legge di Stato di cui è lei stessa ministro. Il biotestamento non prevede l’obiezione di coscienza. I medici che sceglieranno di andare in questa direzione saranno perseguibili per aver violato la legge».
Anche il Pd - futuro alleato elettorale della Lorenzin - prende male il cedimento del ministro. «Non comprendo - dice Donata Lenzi, deputata dem - la sua tardiva volontà di occuparsi di biotestamento a legge approvata. Un ministro dovrebbe preoccuparsi, semmai, di garantirne la attuazione. Nel merito, l’ obiezione di coscienza è difficilmente comprensibile e attuabile. Davanti al paziente che rifiuta una terapia o un intervento, che cosa dovrebbe fare il medico che obietta: intervenire con la forza? Questa legge chiede rispetto per il paziente, le sue convinzioni, la sua personalità, la sua personale capacità di sopportazione».

La Stampa 21.12.17
«Solo propaganda. Il rifiuto dei medici un atto criminale»
di Davide Lessi


«Le strutture o i medici che imporranno delle terapie contro le indicazioni del malato, si renderanno responsabili di un atto di violenza, di un atto criminale». Marco Cappato, leader dell’associazione Luca Coscioni e promotore dell’iniziativa per rendere legale l’eutanasia in Italia, non usa mezzi termini per commentare le parole della ministra della Salute.
Lorenzin ha detto che garantirà l’obiezione di coscienza per il biotestamento. Se l’aspettava?
«No, e mi auguro sia una sparata elettorale. Voler incontrare le rappresentanze delle strutture sanitarie private cattoliche per condividere le modalità applicative della legge è una mostruosità. È la stessa legge che non prevede l’obiezione di coscienza: i medici che sceglieranno di andare in questa direzione saranno perseguibili per averla violata».
In realtà c’è chi sostiene che nella legge ci sia una sorta di obiezione di coscienza nascosta. Nel testo si legge che «il medico non ha obblighi professionali»...
«Non è così, a differenza della legge sull’aborto citata a sproposito dalla Lorenzin, il biotestamento non prevede il rifiuto dei medici. Certo il singolo dottore potrebbe opporsi, ma la struttura sanitaria in cui è ricoverato il malato ha l’obbligo, ora legislativo, di organizzarsi per rispettare le volontà del paziente».
E se una struttura, come ha annunciato il Cottolengo, si opponesse alla nuova normativa?
«Facciano pure. Io sto scontando un processo per aver disobbedito e aver accompagnato a una fine dignitosa dj Fabo. La loro sarebbe una disapplicazione criminale contro la volontà dei pazienti».

La Stampa 21.12.17
Il caso Bellomo e i concorsi senza pari opportunità
di Linda Laura Sabbadini


Cinque interrogativi al Consiglio di Stato per uscire tutti al meglio dalla gravissima vicenda Bellomo. Il caso ha sconvolto un po’ tutti, un consigliere di Stato che dirige una scuola di formazione privata per aspiranti magistrate/i e come si evidenzia dalla denuncia e dalle testimonianze richiede minigonne standardizzate, tipologie di calze specifiche, tacchi a spillo, fidanzati con un quoziente di intelligenza superiore a una certa soglia, pena l’estromissione dalla borsa di studio e dal corso. Episodi di una gravità inaudita.
Primo interrogativo che ci ha attanagliato in questi giorni: come è possibile che anche nell’«Olimpo dei diritti», possano accadere cose simili? Purtroppo lo è. Non possiamo pensare che basti il codice etico. I magistrati ordinari, amministrativi, contabili, non sono perfetti. E può bastare uno, come in questo caso, a fare un danno enorme al Paese, incrinando il rapporto tra i cittadini e la giustizia. Che fiducia possono avere le donne e non solo loro nei confronti della magistratura se accadono queste cose? Dobbiamo interrogarci e il Consiglio di Stato in primis deve interrogarsi su quali misure deve mettere in atto perché tutto ciò non si ripeta.
Secondo interrogativo. Perché il Consiglio di Stato non si è accorto prima della vicenda? Ha dovuto aspettare la denuncia del padre di una aspirante magistrata. Eppure i carteggi con le aspiranti magistrate erano pubblicati sulla rivista, con il fine di mettere loro in cattiva luce pubblicamente. Perché non è stato esercitato nessun controllo sulle attività extra-istituzionali autorizzate? C’è da chiedersi quali limiti sono posti ad autorizzazioni di questo tipo e perché non si adottano regole più stringenti.
Terzo interrogativo. Perché l’azione disciplinare è così lunga? Un anno intero dalla denuncia del padre di una aspirante magistrata è tantissimo. Per i magistrati ordinari è molto di meno. È ora di modificare il procedimento rendendolo più celere ed efficace. E per di più il 27 ottobre 2017 la misura sanzionatoria di destituzione è passata 7 a 6, non tutti erano d’accordo con la destituzione. E per di più non è stata applicata nessuna misura cautelare. Il che vuol dire che Bellomo può continuare a svolgere le sue funzioni di consigliere presso il Consiglio di Stato come se niente fosse e Nailin coinvolto anche lui, è stato già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm perché giudicato nell’ambito della magistratura ordinaria. Il 7 a 6 preoccupa non poco, perché c’è da chiedersi che succederà nell’adunanza generale dei 100 consiglieri di Stato a gennaio. Il segnale deve essere forte e netto, solo con una forte sanzione, si dà forza e credibilità alla magistratura tutta e ai diritti di uomini e donne.
Quarto interrogativo. I magistrati ordinari hanno espresso divieto a svolgere incarichi extra giudiziari e, in particolare, attività di docenza nelle scuole di formazione privata. Perché non estenderlo anche alla magistratura amministrativa? Dovremmo avere regole comuni di agire, saremmo più tutelati da conflitti di interesse.
Quinto interrogativo e non solo per il Consiglio di Stato. Non è venuto il momento con urgenza di trovare una soluzione alla formazione degli aspiranti magistrati in vista del concorso? È qui che si è evidenziato il vulnus, è qui che si dovrebbe intervenire. Basta con le soluzioni private fuori controllo. Facciamo entrare in campo un ente terzo, pubblico, come la Scuola Superiore della Magistratura estendendo le sue funzioni attualmente dedicate all’aggiornamento dei magistrati ordinari, oppure troviamo un’altra soluzione pubblica.
In altri Paesi come la Francia le soluzioni sono state trovate. Corsi alla portata di tutti e tutte, indipendentemente dalle disponibilità economiche e che eliminino il rischio di gravi e inaccettabili condizionamenti ai danni di chi desidera soltanto prepararsi al difficile concorso per la magistratura. Garantiamo una volta per tutte pari opportunità di accesso alle cariche pubbliche da parte di uomini e donne di tutte le classi sociali, trasformiamo questa orribile vicenda in una occasione di profonda riforma del sistema.

La Stampa 21.12.17
Il Messia allevia adesso il dolore dell’esistenza
La figura del salvatore tra religione e filosofia
di Guido Ceronetti


Il giorno 27 luglio 1656, Benedetto Spinoza, all’età di 24 anni, venne dalla folta comunità di Ebrei sefarditi della città di Amsterdam scomunicato e maledetto implacabilmente. In quel loro futuro geniale filosofo i suoi maestri d’ortodossia, i rabbini Menashé-Ben-Israel e Saul-Levi-Morteira, avevano visto ben più di un allievo prediletto. Era per loro un figlio sognato per la sua fantastica riuscita in ogni tipo di studio, e, al di là ancora, vedevano il figlio del ragguardevole mercante Miguel De Spinoza, presidente della «Carità ebraica», spiccare il volo tra i tetti della città come, forse, il Messia annunciato. Le idee che fecero respingere il genio della filosofia europea dai rabbini della comunità erano molto simili a quelle che fecero condannare al rogo dalle Inquisizioni papista e calvinista Giordano Bruno e Vanino Vanini.
Ripensando alle fantastiche tensioni di pensiero religioso dei Paesi Bassi di quel tempo, quando si trattò di scegliere tra la filosofia e la religione rivelata, tra la delusione e la rivalsa omicide dei suoi maestri, mi pare che il pane angelico della filosofia sia il solo a piantare nell’atmosfera ammorbata un segno un suono un fulmine di salvezza, a tracciare sopra di noi l’ineffabile diffuso bene che avverte, nel comporsi della natura attorno a sé, per miracolo vivo, tornato in patria dal fronte, Eric Maria Remarque nel 1918: «O Melampo! Gli Dei erranti hanno lasciato la loro lira sulle pietre, / ma nessuno, nessuno di loro può avercela dimenticata!»
Ma fu Messia, per Lucrezio, Epicuro; lo fu, per Hannah Arendt, Heidegger; per Kant, David Hume. La nostra sciagura fu che non dividessero il mare e non conoscessero Ordet, la parola che risuscita i morti.
Tuttavia… è degno di un Messia risuscitare i morti?
Se la vita è infinitamente triste, quale sorriso di Messia la può riscattare?
Perché Messia a misura di filosofo resta concepibile! E anche di guru indiano, di attori e attrici travolti da ondate di idolatria… Oggi l’azione dell’attesa, se attendere è un agire (Barbari di Kavafis, Tartari di Buzzati) appare fiacca. Il riflesso che ne sopravvive è risolubile nei rivoli di scolo delle utopie del Ventesimo.
«Digli solo che mi hai visto», manda a dire Sam Beckett al misterioso Godot atteso dai suoi due straccioni, ed è una battuta impervia; per renderla toreante con le emozioni bisogna chiarirla. Digli che mi hai visto, è interpretabile messianicamente così: hai visto in me la condizione umana nella sua sconfinata miseria, se lui viene potrebbe trasformarla in qualcosa di meglio, anzi se lui verrà le nostre disgrazie certamente sarebbero cancellate, tu digli che mi hai visto … diglielo! Con questa battuta, generosamente, Beckett ci fornisce, del suo capolavoro (che non ha avuto una regia italiana) una meravigliosa chiave, apparsa chiarissima ai reclusi di St. Quentin.
C’è di più, perché il Messia non venendo viene, come sempre, nel verso di Seferis, l’Ellade viaggia.
Dice il Filosofo degli anni messianici dell’Ottantanove, Louis-Claude de Saint-Martin in un sublime aforisma: «L’universo è sul suo letto di dolori, e tocca a noi uomini consolarlo».
La portata di questo pensiero è enorme. È l’interpretazione più vera, la porta che si apre sulla totalità della realtà messianica come riflesso di Gloria in una cloaca, che non è un futuro indatabile ma uno strenuo combattimento umano per la sua salvezza.

Il Fatto 21.12.17
La Guerra legale per il manoscritto di Mosè maimonide
La sfida - Gli eredi Norsa hanno deciso di vendere il testo e una fondazione austriaca ha cercato di far prevalere i piani di sfruttamento economico sulle leggi italiane. Ma lo Stato stavolta si è fatto valere
di Salvatore Settis


Messo in castigo dalla stanca retorica delle privatizzazioni e da riforme a ripetizione, con tanta burocrazia e poco cervello, in zona Beni culturali lo Stato langue. Ma dà segni di vita. Pronta ed efficace è stata, infatti, la reazione degli organi di tutela (la direzione generale degli Archivi) non appena si è saputo che rischiava di lasciare l’Italia uno dei più preziosi manoscritti ebraici del Medio Evo, conservato a Mantova sin dal 1516.
Si tratta della Guida dei perplessi di Mosè Maimonide, un testo del XII secolo, scritto in arabo nella Spagna musulmana e subito tradotto in ebraico. In quel 1516 il manoscritto, che era stato redatto e ampiamente illustrato nel 1349 in un’area dell’Europa centrale, fu acquistato da Mosè ben Nathaniel Norsa, membro della stessa famiglia a cui appartenne Daniel Norsa figlio di Leone, che vent’anni prima (nel 1495) era stato protagonista involontario di una controversia mantovana. Accusato di aver cancellato dal muro esterno di casa un’immagine cristiana, Daniel Norsa fu costretto dal marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, a compiere a caro prezzo un gesto riparatore, pagando fino all’ultimo centesimo Andrea Mantegna per un quadro che ricordava la battaglia di Fornovo (6 luglio di quel 1495), che il Gonzaga si vantava di aver vinto. È la famosa Madonna della Vittoria, portata a Parigi dalle armate francesi in età napoleonica, e da allora al Louvre.
La famiglia Norsa, incardinata a Mantova dal Quattrocento, vi ha ancora i suoi discendenti, che hanno ereditato, generazione dopo generazione, il manoscritto di Maimonide. Esso contiene, gelosamente tramandato, anche l’atto di acquisto, datato 10 gennaio 1516. Con questa secolare storia alle spalle, nessun dubbio che il manoscritto appartenga a pieno titolo a quel “patrimonio storico e artistico della Nazione” che l’articolo 9 della Costituzione impone di tutelare. Eppure, quando gli eredi Norsa pensarono di venderlo, emersero come potenziali acquirenti prima un collezionista americano e poi una fondazione austriaca, che tentò un’impossibile mediazione fra le leggi italiane di tutela (il cui rango costituzionale non lascia spazio a compromessi) e la voglia di esportare il manoscritto.
secondo un primo accordo, a cui si prestò il segretariato generale del ministero dei Beni culturali, l’acquirente austriaco avrebbe avuto mano libera nel restauro e digitalizzazione del manoscritto a cura di “soggetti di proprio gradimento”, conservandolo temporaneamente in private residenze o depositi bancari austriaci e israeliani, e infine avviando un percorso di cosiddetta “valorizzazione”: in sostanza, mettendo in mostra il manoscritto in giro per il mondo (anche, bontà loro, in Italia). Nulla come quest’ultimo proposito dimostra l’intento sotteso alla proposta di acquisto: non la ricerca, non la conservazione di un bene di straordinario valore culturale, bensì il suo sfruttamento economico, onde garantire nel più breve tempo il “rientro” della cifra spesa per l’acquisto (due milioni di dollari). Per dirlo in breve: l’esatto opposto dello spirito che anima l’articolo 9 della Costituzione e l’intera tradizione italiana della tutela.
Giulio Busi ha commentato sul Sole 24 Ore (6 agosto): “Dei circa 35 mila manoscritti ebraici del Medio Evo e Rinascimento compresi nella raccolta di microfilm della Biblioteca Nazionale Ebraica di Gerusalemme quasi la metà provengono dall’Italia: qui sono stati copiati, o comunque conservati per molti secoli, prima di esser venduti a partire dall’Ottocento. (…) L’emorragia del patrimonio ebraico italiano verso l’estero è stata impressionante, e si può dire che sia continuata, con esportazioni più o meno illegali, fino a ieri. A questo punto, conservare e valorizzare ogni volume è importante, ed è fondamentale che non vada persa la continuità di questi beni con il loro contesto storico”. In questo spirito (ben colto anche da Francesca Sironi sull’Espresso del 16 luglio e da Ariela Piattelli sulla Stampa del 24 ottobre), il direttore generale agli Archivi Gino Famiglietti ha fermato la vendita, garantendo il restauro del manoscritto in Italia (dove le competenze in merito sono di primissimo ordine), nonché il suo acquisto alle collezioni pubbliche, per la conservazione in perpetuo nell’Archivio di Stato di Mantova.
Non è possibile ripercorrere qui l’intricatissimo iter dei due tentati acquisti, che avrebbero impoverito il patrimonio nazionale, e dei fondatissimi argomenti giuridico-istituzionali che hanno assicurato la permanenza del volume nella stessa città dove si trova da cinquecento anni. Ma vale la pena di ricordare che il potenziale acquirente austriaco ha fatto ricorso al Tar, con alcuni argomenti-boomerang che galleggiano nel vuoto: come non esistesse né la storia, né la storia culturale, né tanto meno il diritto. Si sostiene infatti che lo Stato avrebbe “cambiato idea”, prima inclinando verso il consenso all’acquisto da parte di una fondazione straniera e poi negandolo, quando invece il primo accordo si basava su un’istruttoria insufficiente e superficiale. Si dice che l’atto di acquisto del manoscritto nel 1516, in quanto privato, non sarebbe sottoposto a tutela, e potrebbe anche esser venduto separatamente: bestemmia contro il diritto e le buone pratiche di conservazione bibliotecaria e archivistica. Si lascia intendere che il manoscritto, in quanto di cultura ebraica e scritto fuori d’Italia, non farebbe parte integrante del patrimonio storico e artistico del Paese. Si propugna dunque una sorta di “pulizia etnica”, come se nulla contassero i 500 anni trascorsi a Mantova.
Di fronte a un’argomentazione tanto debole, una sola domanda: ma sarà vero che lo studio legale Bonelli Erede, che rappresenta la fondazione austriaca nella causa contro il ministero dei Beni Culturali per l’affaire Maimonide, è lo stesso che assiste il medesimo ministero nella messa a punto di un “Piano strategico di sviluppo della fotografia”? E come mai, per tale compito, non si è ricorso all’Avvocatura dello Stato?

Il Fatto 21.12.17
Quelle pernacchie per Umberto di Savoia
Gruppo “Cremona” - Nel 1945 partigiani lo accolsero con un gigantesco brontolio: lì finì la monarchia
di Vittorio Emiliani


Una grande occasione per rimediare, in parte, alla figura vergognosa fatta con la fuga precipitosa a Pescara, il principe Umberto ce l’ha quando, avvicinandosi la liberazione del Piemonte, potrebbe far parte per qualche giorno dei partigiani monarchici, i “fazzoletti azzurri” di Enrico Martini detto “Mauri”, l’ufficiale degli alpini che ha creato una forza di 5 mila uomini. Quindi affidabilissimo. Non ci va neppure per un’ora.
Eppure, sua moglie Maria José, ha avuto a Roma rapporti intensi con una rete di antifascisti tramite la dama di compagnia Giuliana Benzoni. Poi nel rifugio svizzero, ha intessuto una serie di relazioni e, sci ai piedi, attraversate le Alpi, ha festeggiato con loro la Liberazione. Maria José si muove, si fa benvolere. Umberto no. Solo quando gli Alleati sono oltre il Po e con essi il Gruppo di Battaglia della “Cremona” e le brigate ravennati di Arrigo Boldrini (Bülow) incorporate nell’VIII Armata, Umberto di Savoia chiede di passare in rassegna le truppe italiane.
Sarà dopo il Po, nella piana di Codevigo. Quando si sparge la notizia, Arrigo Boldrini catechizza i suoi: spera di andare con gli Alleati fino a Trieste, è stato ufficiale in Jugoslavia e conosce l’odio maturato dai titini contro gli italiani, s’illude di poter costituire (me lo dirà anni dopo) una sorta di polizia italiana nella città giuliana. Purtroppo lo fermano quasi subito. Temendo che qualche testa calda spari al principe, ordina perentorio ai suoi: “Domani, burdèll, ragazzi, armi scariche, intesi?”. Nessuno obietta. Più complessa la situazione all’interno del Gruppo di battaglia “Cremona”. La discussione si arroventa subito. Ricordo bene il racconto che me ne hanno fatto, molti anni fa, due giovani sottufficiali presenti. Il fabrianese Manlio Mariani che, dopo l’armistizio è andato al Sud, è diventato ufficio stampa di Giuseppe Di Vittorio ma poi ha scelto di risalire l’Italia combattendo e il napoletano Vittorio Orilia, entrambi del 1921, entrambi di sinistra (il primo sarà poi redattore e inviato del Giorno, e grande didatta di giornalismo, il secondo redattore del Giorno, esperto di politica internazionale, deputato). Molti dei loro commilitoni già monarchici accesi si sentono profondamente traditi dai comportamenti di casa Savoia, soprattutto dopo l’8 settembre 1943. Alcuni dei militari, forse trotzkisti, propongono di sparare al principe, ma vengono messi in minoranza.
Altri prospettano di accoglierlo con un glaciale silenzio, ma sembra troppo poco per punire la vigliaccheria di Umberto e quella di suo padre al quale imputano l’assoluta acquiescenza rispetto alla decisione del duce di entrare in guerra. Finalmente, da un gruppo di napoletani spunta l’idea geniale. La approvano tutti, entusiasti. La riunione ormai notturna può sciogliersi, ci si prepara alla “rivista” del giorno appresso. Umberto di Savoia comincia a passare in rassegna, alto, solenne, statuario, con la mano guantata rigida sulla visiera.
All’“Aaattenti!”, i partigiani ravennati scattano impeccabili. Mentre quelli della “Cremona” si mettono ostentatamente in “riposo”. “Presentaaat-arm!” e i partigiani presentano le loro armi lustre (ma scariche). Invece dalle fila della “Cremona” sorge un gigantesco brontolio, un colossale pernacchio che accompagna Umberto, ora pallidissimo. Insomma, un pernacchio vi seppellirà. Forse fu lì che finì davvero la monarchia.

Il Fatto 21.12.17
Martin Lutero, il protestante amico della musica (a modo suo)
Il suo genio introdusse le canzoni nella celebrazione liturgica
Martin Lutero, il protestante amico della musica (a modo suo)
di Paolo Isotta


Avevo promesso di ricordare i cinquecento anni della Riforma di Lutero sotto il profilo del rapporto fra protestantesimo e musica. Il primo degli articoli che a tale tema dedico tratta di ciò che avviene prima di Bach, che di tale rapporto è il culmine, come lo è della musica stessa.
Lutero era a modo suo un amico della musica. Gli piacevano le canzoni: che fossero domestiche, edificanti. In pari tempo, i fedeli dovevano intensamente partecipare alla celebrazione liturgica. Il suo genio introdusse le canzoni nel rito. Canzoni profane presero un testo devoto; canzoni devote presero nuova forza; melodie liturgiche del canto gregoriano vennero semplificate e ricevettero un testo tedesco. Il Lied diviene il Corale in tedesco, la base della musica sacra luterana.
Presi in sé, molti Corali sono bellissimi. Non sono un’interpretazione della parola liturgica, come avviene nella polifonia sacra cattolica che nel corso del Cinquecento si sviluppa. Le melodie servono quale veicolo della parola, e la loro generica emozione, coll’emozione che sempre nasce dal fatto di cantare insieme – e l’assemblea i Corali cantava – faceva penetrare la Parola di Dio nelle anime dei fedeli.
Ma legge della storia è l’eterogenesi dei fini. La complessità della polifonia era ormai acquisita alla musica: non si poteva sradicare. Peraltro Lutero non poteva immaginare che la musica, sviluppandosi come linguaggio e forma autonomi, si sovrapponesse alla Parola colla parola sua propria. L’arte dello sviluppo della melodia gregoriana in complesse, pur se sintetiche, strutture strumentali sull’organo, già esisteva. Un ponte unisce Girolamo Cavazzoni (1520-1577) non solo a Girolamo Frescobaldi, il più importante compositore per organo prima di Bach, ma anche a Jan Pieterszoon Sweelink (1562-1621) e alla serie dei grandi organisti tedeschi del Seicento, culminanti in Dietrich Buxtehude (1637-1707), Johann Adam Reincken (1643-1722) e Nicolaus Bruhns (1665-1697). In pari tempo, l’elegante organo rinascimentale dal timbro equilibrato, ideale trasposizione strumentale delle quattro voci di un coro, viene superato dall’organo secentesco neerlandese, scandinavo e, soprattutto, tedesco. Opera d’arte architettonica, esso è in pari tempo il culmine della tecnologia dell’epoca del Barocco. Suono possente quale nessuna orchestra dell’epoca poteva sognare, policromia di registri. E in Germania, pur con la carestia e lo spopolamento e la miseria causati dalla Guerra dei Trent’Anni, anche le piccole città si svenavano per avere un grande organo nel quale si concentrasse l’orgoglio municipale. (Bach guadagnò in vita più come collaudatore di organi – le sue perizie sapevano scoprire persino se la lega metallica delle canne era stata artefatta per economia – che come compositore). Il Corale diviene, come il canto gregoriano in Frescobaldi, ma con un’ ampiezza e intensità di sviluppi propria dell’anima tedesca, la base per grandiose forme strumentali autonome, culminanti nella Fuga. Noi siamo abituati a pensarlo siccome trattato da Bach: ma anche la conoscenza della sua opera non oscura l’ammirazione per l’arte di Maestri i quali sono alla base della stessa tecnica dell’elaborazione tematica di Bach e poi della musica classico-romantica. Wagner usa il luteranesimo a fini politici pangermanici; ma c’è un ponte linguistico, stilistico e formale che dai Maestri dell’organo secentesco tedesco porta a lui. La Parola viene sussunta e assorbita, diviene pura forma musicale. E dobbiamo ringraziarne Lutero…: la musica ha delle ragioni che la ragione di Lutero ignora.

Corriere 21.12.17
Il voto di oggi
la pesante lezione catalana
di Aldo Cazzullo


O ggi la Catalogna vota, e il risultato resta incerto. Ma un verdetto è già chiaro: la secessione è fallita. Il sogno, o l’incubo, di dividere uno degli Stati più antichi al mondo è stato vanificato. Sia che gli indipendentisti raggiungano una striminzita maggioranza, sia che prevalgano i partiti favorevoli — con sfumature molto diverse — all’unità nazionale, la Catalogna non diventerà una Repubblica indipendente. Ma il prezzo da pagare a questa avventura sarà alto. Sia per i vinti, sia per i vincitori. Per questo occorre fare in modo che la dolorosa lezione di Barcellona sia utile a tutti gli europei .
C’è stato un momento, dopo la vittoria di Brexit, in cui è parso che la storia potesse invertire il proprio corso: fine dell’Europa, crollo dell’assetto politico, rivolta planetaria contro il sistema. Non è andata così. Le spinte centrifughe, rivolte a sovvertire le istituzioni internazionali e financo gli Stati sovrani, sono ancora forti, ma non hanno prevalso. Questo non significa che si possa fare come se nulla fosse accaduto. Al contrario, è il tempo di chiedersi come si sia arrivati così vicini al baratro, e come si possa dare alle tensioni una risposta che non siano soltanto i manganelli di Rajoy, il rigore contabile della Merkel, la tecnocrazia degli apparati.
Il caso di Barcellona è esemplare, e può insegnare molto anche a noi. La città in questi anni aveva creato il mito di se stessa. Con la fine della dittatura e il successo dell’Olimpiade del 1992, è diventata il posto dove andare, dove esserci, dove farsi vedere .
Ogni nome suonava: Messi e Ferran Adrià, gli studenti dell’Erasmus e la movida sulle Ramblas, non a caso vigliaccamente colpite dal terrorismo che odia la libertà e l’amore per la vita. Il tentativo catalanista ha rischiato di mandare in frantumi l’immagine e la sostanza di questo microcosmo, creando gravi danni al turismo e all’economia, scavando un solco nella società, spezzando famiglie, amicizie, amori. Il calcolo era approfittare della debolezza dell’Europa e di Madrid, dove il premier Rajoy governa senza maggioranza parlamentare. Il fallimento non potrebbe essere più totale: Rajoy, visto come il garante dell’unità nazionale, qui prenderà appena un pugno di voti, ma nel resto della Spagna è più forte di prima. Gli indipendentisti hanno ancora un vasto seguito; ma non sono riusciti né a suscitare la reazione popolare, né a procurarsi un sostegno o almeno una mediazione europea. L’asse tra Rajoy e la Merkel, che ha portato al salvataggio delle banche spagnole (e pure all’assegnazione ad Amsterdam anziché a Milano dell’Agenzia del farmaco), ha retto anche in un momento difficile.
Intendiamoci: la repressione del primo ottobre resterà una pagina nera per la Spagna e l’Europa. Per capire come sia stata possibile, e come sia stata accolta con favore dalla maggioranza degli spagnoli, bisogna ricordare che una guerra per l’indipendenza in questi anni si è già combattuta, e non è stata incruenta come quella catalana. Il terrorismo basco, una minoranza violenta che ha tenuto a lungo in ostaggio la maggioranza pacifica, ha lasciato sul terreno 820 morti; e molti erano baschi «colpevoli» solo di portare una divisa o lavorare per lo Stato. In Catalogna questo non è accaduto. Ma la ferita resta aperta; e per cicatrizzarla servirà una politica lungimirante e generosa, diversa da quella che Rajoy e gli stessi leader di Ciudadanos offrono.
Resta il fatto che i separatisti di tutta Europa hanno dovuto muovere un passo indietro. In Veneto si è votato per l’autonomia, ma esistono secessionisti che non a caso si erano portati a Barcellona, e non sono certo stati incoraggiati nei loro propositi. Più in generale, le istituzioni nazionali e sovranazionali si vanno rivelando più forti di quanto si pensasse. I movimenti antisistema vengono battuti, come Marine Le Pen in Francia, o tendono a loro volta a istituzionalizzarsi, come i Cinque Stelle in Italia. Ma questo non deve indurre a considerare finita l’epoca della rivolta contro l’establishment. A innescare lo strappo catalano è stata anche la crisi economica, la scarsità delle risorse, la pressione fiscale che non scende mai, la distruzione del lavoro per le giovani generazioni: tutte questioni che purtroppo ci riguardano da vicino, ed esigono risposte diverse dall’austerity, dalla burocrazia, dalla conservazione dell’ordine costituito.

Corriere 21.12.17
La collana Dal 28 dicembre in edicola con il nostro giornale i libri sui costumi e le usanze delle epoche passate
Un parvenu di nome Trimalcione Vita, carriera e denaro nell’antichità
di Livia Capponi


I grandi storici come Tacito e Tucidide non parlano delle persone comuni
Ma altre fonti ci aiutano a ricostruire l’esistenza quotidiana di quel tempo
Il Mediterraneo che dipingono i grandi storici antichi — Erodoto, Tucidide, Tacito — è la storia delle grandi battaglie e delle lotte politiche della classe dirigente di Grecia e Roma. C’era però un altro mondo antico, in cui persone comuni nascevano, si sposavano, divorziavano, vendevano terre, amministravano le città, pagavano le tasse e andavano in tribunale. Questo mondo, multiculturale e plurilingue, non trova spazio nella storiografia, che non considera la vita quotidiana degna di memoria. Lo si ricostruisce — come nei libri della nuova collana del «Corriere della Sera» — dalla cultura materiale, dalla letteratura popolare, e dai documenti (papiri, tavolette e cocci) a cui furono affidati testi spesso non destinati a durare nel tempo: liste della spesa, lettere private, esercizi di scuola, contratti, maledizioni, amuleti. Una lente d’ingrandimento sulla vita reale degli antichi.
Nel libro Gli affari del signor Jucundus (1974), Jean Andreau studiava pionieristicamente le 154 tavolette trovate in un forziere nella casa di Lucio Cecilio Giocondo, banchiere a Pompei nel I secolo d.C. Più di recente, Giuseppe Camodeca ha pubblicato l’archivio dei Sulpici, 127 tavolette cerate in latino trovate nel 1959 in un sobborgo di Pompei ma pertinente a Pozzuoli, che offre uno spaccato sul funzionamento di una banca romana di notevoli dimensioni. Dalle sabbie egiziane sono emerse migliaia di lettere private, microstorie a volte un po’ diverse dall’idea che ci eravamo fatti dalla letteratura «alta». Un marito lontano scrive alla moglie incinta, una certa Aline: se è un maschio, crescilo, se è una femmina, esponila (cioè abbandonala). Una signora dell’epoca di Traiano si rivolge al dio Ermes: «Non ti pregherò più né farò sacrifici finché non farai tornare mio figlio sano e salvo dalla guerra». Alcuni papiri da Ossirinco narrano l’epopea giudiziaria, in stile Kramer contro Kramer , del tessitore Trifone contro l’ex moglie, che aveva aggredito e malmenato la di lui compagna incinta, facendola abortire.
I contratti di baliatico rivelano che era del tutto normale, nel mondo greco-romano, abbandonare i neonati nelle discariche pubbliche; solo Egiziani, Germani ed Ebrei allevavano tutti i figli che nascevano. Dall’immondizia potevano essere raccolti e affidati per qualche tempo ad una nutrice, prima di farne degli schiavi — i nomi umilianti, a volte anche sinonimi di «sterco», li marchiavano a vita. Numerose sono le lettere di raccomandazione, scritte da personaggi affermati in favore di giovani in cerca di lavoro o incarichi; inutile dire che il genere è ampiamente documentato nel mondo romano.
Nel 1961 lo storico francese Paul Veyne rilanciava il romanzo antico come fonte storica, analizzando la vita di Trimalcione, famoso personaggio del Satyricon di Petronio, come emblematica del suo tempo (si veda anche il libro di Veyne La vita privata nell’impero romano , Laterza 2006). Nato in Asia e venduto da piccolo come schiavo, Trimalcione, dopo essere stato l’amante del padrone e della padrona, era riuscito a diventare il loro tesoriere, finché, sul letto di morte, il padrone lo aveva affrancato lasciandogli in eredità i beni. Diventato cittadino romano, Trimalcione aveva assunto pose da pseudo-aristocratico: lui, che si era arricchito con l’usura e il commercio, millantava di non sporcarsi le mani col denaro e di vivere delle rendite di terreni che non aveva mai visto. Sognava di fare della Sicilia la sua piccola proprietà, e anche al circo aveva cambiato squadra: ora tifava per i blu e non più per i verdi, beniamini dei ceti bassi.
Un altro romanzo, l’ Asino d’Oro di Apuleio, ambientato nel II secolo d. C., dipinge una vicenda fantasiosa su uno sfondo verosimile. Quando il protagonista Lucio, trasformato in asino, e il suo padrone, un ortolano della Tessaglia, sono fermati per strada da un soldato romano, che ordina in latino di consegnare l’asino, l’uomo non capisce, e prende una bastonata. Poi il soldato ripete l’ordine in greco: l’animale serve per il trasporto dei bagagli del governatore, in visita nel paese vicino. Come sottolineò Fergus Millar, il romanzo mostra l’ingerenza di Roma nella vita quotidiana delle popolazioni locali. Un testo di poco precedente, i Discorsi di Epitteto , consigliava di consegnare i beni requisiti senza fare domande, per evitare pestaggi.
Come oggi, anche allora la vita privata dei potenti era pubblica. Chi aveva accesso alla quotidianità dell’imperatore (e spesso erano le donne, i liberti, i maestri), poteva influenzarlo in modo subdolo. Secondo Filone di Alessandria, l’egiziano Elicone, cameriere di Caligola, contribuì a peggiorare l’indole già instabile del sovrano, grazie alle lunghe ore trascorse a studiare e a giocare a palla con lui.
Il cupo e morigerato Tiberio consultava di continuo l’astrologo Trasillo, che gli aveva insegnato a calcolare ogni giorno l’oroscopo, instillandogli il terrore che si prevedesse l’ora della sua morte. Il cibo, poi, ebbe grande importanza nel mondo romano; un piatto di funghi fu in molti casi un’arma più efficace e micidiale di qualsiasi opposizione politica o congiuntura astrale.